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ovvero
Il Convitato di pietra
1967 Casa editrice Valentino Bompiani
Via Pisacane,26 Milano
La Rivoluzione Culturale cinese è forse il più importante avvenimento
politico che si sia verificato nel mondo comunista dopo la destalinizzazione.
Ha riempito le pagine dei giornali, è arrivata nel modo più provocatorio
persino nelle nostre edicole (con le traduzioni del libretto dei pensieri di
Mao) e nei nostri porti, con gli striscioni delle navi cinesi all'ancora. Eppure
si può dire che sic uno dei fenomeni contemporanei più oscuri, più difficili
da interpretare anche per gli esperti di politica. Forse perché le notizie
scritte, i commenti, i tentativi di sistemazione dottrinale ci danno, della
rivoluzione culturale, solo l'aspetto ideologico, mentre essa ha un altro
aspetto, non meno importante: quello «visivo». Questa è l'idea che ha
mosso Alberto Moravia nel suo viaggio in Cina: egli è andato in Cina
perché intuiva l'importanza di vedere con i propri occhi la Rivoluzione
Culturale in atto, di confrontarsi di persona con la nuova «realtà Cina»:
quella Cina che - dice Moravia - «oggi è per me un'utopia realizzata, forse
involontariamente, forse casualmente, non import È realizzata e io la
prendo come esempio per mio ragionamento».
Alcuni di questi articoli sono apparsi sul «Corriere della Sera». Più della
metà del libro è inedita, ivi compresa l’introduzione.
n.d.a.
INTRODUZIONE
Il libro che sta nella biblioteca e viene tirato giù per leggerlo e poi, una
volta letto, torna nella biblioteca è molto diverso dal libro che ci
accompagna nella vita. Il primo è un oggetto di consumo, sia pure di
consumo intellettuale, il secondo è invece un surrogato della coscienza e al
tempo stesso il pernio di un sistema di comportamenti rituali. Vediamo un
po' cosa succede nel secondo caso: "Diceva tranquillamente il suo ufficio e
talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per
segno, l'indice della mano destra... aperto poi di nuovo il breviario e recitato
un altro squarcio giunse ad una voltata della stradetta..." È un brano molto
noto dei Promessi Sposi e vi si parla di Don Abbondio e del libro che
l'accompagna nella vita cioè il suo breviario. Ora nella Cina di Mao questi
gesti dell'uomo che cammina con un libro in mano sono l'aspetto più vistoso
e più sconcertante della Rivoluzione Culturale. L'uomo, nel caso, è ogni
cinese che si senta cittadino prim'ancora che individuo, cioè la totalità dei
cinesi; il libro è il piccolo libro rosso delle citazioni di Mao. Aver citato
Don Abbondio non sembri incongruo: l’intellettuale si limita a leggere un
libro; ma l'uomo di fede se lo porta dietro.
E infatti ecco i più importanti tra i gesti che si possono fare con un libro e
che da sei mesi hanno trasformato i cinesi in tanti scolari dediti all'ipse
dixit; si porta in giro il libro per mostrare che lo si ha e allora abbiamo la
segnalazione, magari l'ostentazione. Si agita per aria ai raduni, alle sfilate,
alle riunioni e allora abbiamo l'esaltazione del libro oppure la minaccia la
sfida per mezzo del libro. Lo si apre e vi si fa scorrere lo sguardo e allora
abbiamo la consultazione. La si legge ad alta voce in risposta a qualcuno e
allora abbiamo la citazione, la comunicazione. Lo si accarezza chiuso con la
mano o lo si stringe al cuore e allora abbiamo l'affezione. Lo si tiene in
mano durante le danze, i canti e le recite di propaganda e allora abbiamo la
simbolizzazione... è incredibile, insomma, quanto possa influire sul
comportamento dell'uomo un piccolo libro come quello di Mao.
È un libro molto ben stampato, con la copertina di plastica rossa e i fogli
di ottima carta. C'è una prima pagina con il motto "Proletari di tutto il
mondo unitevi", poi c'è il frontespizio, poi c'è una velina che protegge una
fotografia di Mao, poi c'è il facsimile, in ideogrammi, dell'epigrafe di Lin
Piao, l'attuale capo dell'esercito. Infine c'è la prefazione dello stesso Lin
Piao. Notiamo in questa prefazione un passo significativo: "...il meglio
sarebbe imparare a memoria alcune frasi più importanti ai fini di uno studio
e di un'applicazione costanti." Imparare a memoria per studiare e applicare
costantemente: ecco il carattere precettistico e normativo del libro
sottolineato da questo semplice consiglio. Non si imparano a memoria le
opere di Marx o di Lenin perché le loro opere non erano destinate a
diventare una guida della condotta. Ma il libro di Mao, sì.
Il libro è costituito da una scelta di brani tolti delle opere complete di
Mao. Come tutti i capi comunisti, Mao ha scritto molto; a differenza dagli
altri capi comunisti, ha scritto su tutto in quanto nella sua lunga carriera egli
ha fatto di tutto ed è stato tutto: uomo politico, agitatore, capo militare,
legislatore, filosofo, poeta, organizzatore economico e così via. Egli è stato
al tempo stesso il Lenin il Trotzki e lo Stalin (ma anche il Maiakovski) della
Cina. Così non è stato difficile mettere insieme un libro nel quale, in una
serie di capitoli dai titoli significativi, sia, per così dire coperta l'intera vita
dell'uomo. Ma non bisogna credere che il libro di Mao possa essere
consultato utilmente per risolvere situazioni, diciamo così, private.
Abbiamo detto che copre l'intera vita dell'uomo; aggiungiamo subito che si
tratta pur sempre di un uomo molto particolare, dell'uomo cioè della
Rivoluzione Culturale per il quale la vita individuale, intima, personale non
deve assolutamente esistere. Mao stesso nel suo libro mette questo genere
di vita sotto il segno negativo del liberalismo. Insomma il libro ha una
duplice funzione: guidare l'uomo nella vita quotidiana; e al tempo stesso
ribadire in quest'uomo che la vita quotidiana altro non è né può essere che
la vita politica.
Mao è uno scrittore tipicamente politico e tipicamente cinese.
Cominciando dal primo carattere, bisogna notare che il suo libro ha le due
qualità che ci vogliono per diventare un manuale di condotta civica: prima
di tutto ha la qualità di un'autorità quasi di specie scientifica, non essendo
un libro di propaganda cioè di slogans e generalità basate sull'entusiasmo,
bensì un libro di riflessioni e affermazioni desunte dall'esperienza. In
secondo luogo ha la qualità accessibilità, grazie a una estrema
semplificazione divulgatrice della materia. Dunque il libro si presenta come
il frutto di un'esperienza complessa e annosa; e questo frutto è messo alla
portata di tutti. Occorre inoltre sottolineare l'efficacia educativa di un libro
simile nel quale l'insegnamento appare, per così dire, involontario e
naturale. Il che dimostra se non altro che Mao è stato fin da principio un
uomo politico con la vocazione dell'educatore.
Veniamo adesso al secondo carattere del libro, quello di essere
tipicamente cinese. Non vogliamo qui alludere alla bonarietà (apparente)
molto paesana e molto cinese che traluce in questi insegnamenti; né ai modi
di dire tradizionali e proverbiali (come per esempio quello famoso:
l'imperialismo è una tigre di carta) che infiorano la pagina di Mao. No, qui
vogliamo parlare soprattutto della complessa e significativa operazione che
per comodità chiameremo: la confucianizzazione di Marx.
Certamente nessun pensatore moderno rassomiglia meno a Confucio di
Marx. Confucio è stato il portatore di una saggezza conservatrice; Marx il
creatore di una dottrina rivoluzionaria. Confucio ha fondato un umanesimo
saggio, pio, ragionevole; l'umanesimo di Marx è eroico, empio,
drammatico. Tutto in Confucio rispecchia l'ordine, l'immobilità, la
chiarezza di una società feudale molto stabile; tutto in Marx rispecchia il
movimento e il dinamismo di un mondo in rapida evoluzione. Eppure nelle
pagine di Mao, forse più avvertibile nel tono che nel pensiero, si può notare
una contaminazione, fusione e vicendevole correzione di questi due
pensatori così diversi. Beninteso il pensiero di Marx non subisce
cambiamenti sostanziali; ma viene spostato leggermente, quasi
impercettibilmente dal piano drammatico, problematico dialettico che gli è
proprio ed è proprio di tutta la cultura europea, a quello educativo,
normativo, precettistico che è proprio di Confucio e più in generale della
cultura cinese. Mao può essere duro, durissimo, magari spietato; ma la sua
durezza e spietatezza sono pur sempre filtrate attraverso un'intenzione
didascalica.
Ma ancor più importante della confucianizzazione del pensiero di Marx
operata da Mao, è la confucianizzazione che, in maniera istintiva e
spontanea, le masse cinesi hanno fatto subire a questo marxismo già
trasformato in senso cinese che è il maoismo. Qui non si tratta di
un'operazione intellettuale, come nel caso di Mao, bensì di un'operazione,
in maniera generica, religiosa. Abbiamo già detto che il piccolo libro rosso
è diventato da sei mesi il pernio di un sistema di comportamenti rituali. Ora
non c'è dubbio che nessuno Stato, neppure il più tirannico, può costringere
un popolo intero a trasformare un libro di ricordi e di riflessioni politico-
militari in un manuale di condotta: l'adesione delle masse al libro è stata
veramente entusiastica, molto al di là, probabilmente, delle previsioni dei
compilatori. D'altra parte occorre sottolineare una volta di più il significato
del consiglio di Lin Piao, di imparare a memoria il libro per uno studio e
un'applicazione costanti. Infatti, proprio questo si è fatto per secoli con le
massime di Confucio: agli esami di Stato i concorrenti venivano invitati a
completare a memoria un brano anonimo di Confucio. Anche allora si
intendeva che era più importante ricordare che capire o che comunque la
capacità mnemonica era una forma di intelligenza. Ma qual è il significato
di questa preferenza accordata alla memoria? Ovviamente, soprattutto
questo: la memoria trattiene e conserva tutto quello che non può né deve
essere soggetto a critica e dunque a cambiamento; ossia la memoria è un
processo mentale che serve a conferire autorità, cioè imbalsamare qualche
cosa che non si vuole che si corrompa.
La confucianizzazione del maoismo sarà dunque soprattutto una
trasformazione in autorità, per mezzo della memoria, di un'esperienza
personale cioè dell'esperienza di Mao. Ma che vuol dire questo se non che
ad una precettistica tradizionale, se ne sta sostituendo un'altra più moderna
che, oltre tutto, a suo modo, incorpora e annette l'immenso apporto della
cultura europea? Mao ha letto Marx, s'intende. Ma alle masse cinesi basterà
leggere Mao.
Semmai sarebbe interessante vedere perché le masse cinesi siano state
così pronte a confucianizzare il pensiero di Mao. Qui, secondo noi, si coglie
la differenza tra il cosiddetto culto della personalità di Stalin e quello di
Mao. Certi aspetti sono identici, inutile negarlo: così in Russia vent'anni or
sono con oggi in Cina le statue e i ritratti (bruttissimi) del dittatore sono
dovunque. Anche in Cina, come già in Russia, la propaganda si occupa
esclusivamente del capo. Ma mentre il culto di Stalin appariva rivolto alla
persona del dittatore, in maniera affatto empia e moderna, il culto di Mao
sembra essersi quasi subito spostato dalla persona al pensiero, cioè al libro,
colorandosi di religiosità contadina e primitiva. Il culto di Stalin tradiva
l'ammirazione per l'uomo eccezionale, per il demiurgo, per l'eroe; quello di
Mao rivela invece un patetico bisogno di stabilità, un anelito profondo a un
ordine duraturo. Non sappiamo quanto questo carattere del culto sia stato
voluto e ispirato da Mao; a leggere il libro che è in fondo un incitamento
alla rivoluzione permanente, si direbbe di no. Ma tant'è: le masse cinesi
avevano sofferto terribilmente durante quasi un secolo di guerre civili e di
invasioni straniere; chi potrebbe dare loro torto se, un poco per la
gratitudine verso l'uomo che le ha finalmente ricondotte all'ordine e
all'unità, un po' per forza dell'antica tradizione confuciana, esse abbiano
attribuito al pensiero del dittatore una funzione stabilizzatrice e religiosa?
D'altra parte non c'è vera contraddizione tra la rivoluzione permanente
predicata da Mao nel suo libro e il bisogno di stabilità, di ordine e di unità
delle masse. Una rivoluzione che vada fatta una volta tanto è inquietante e
sconvolgente; ma la rivoluzione permanente diventa qualche cosa di
canonico, di stabile, di abituale, di permanente appunto. E qui si rivela pure
la grande differenza tra Europa e Asia. L'Europa è il continente degli Stati
instabili, delle dinastie effimere, delle rivoluzioni numerose. Ma l'Asia è il
continente degli Stati e delle dinastie che durano secoli e secoli, delle
rivoluzioni uniche che diventano permanenti.
PERCHÉ LA RIVOLUZIONE CULTURALE
Una delle idee fondamentali della Rivoluzione Culturale, più e più volte
riaffermata negli scritti di Mao, è che contrariamente a quanto avviene nella
Russia revisionista e capitalisteggiante, la dittatura del proletariato (ossia la
dittatura tout court) sarà ancora necessaria in Cina per un lunghissimo
periodo di tempo e che di conseguenza bisogna mantenere in piena
efficienza la lotta di classe. Ora, per quanto riguarda la dittatura, possiamo
anche riconoscere che il regime di Mao, impegnato com'è nella Rivoluzione
Culturale, ben difficilmente potrà farne a meno; ma la lotta di classe? Ci si
guarda intorno in Cina e si rimane perplessi.
La Cina infatti offre oggi lo spettacolo impressionante di un immenso
paese nel quale sarebbe difficile mettere in piedi qualsiasi lotta di classe per
la buona ragione che tutta la popolazione sembra essere stata ridotta ad una
sola classe, quella del proletariato o classe popolare. L'uniformità e il
livellamento delle masse è certamente oggi ciò che colpisce di più il
viaggiatore in Cina. Cominciando dall'uniformità, non sarà mai abbastanza
sottolineato il fatto apparentemente irrilevante che tutti i cinesi, uomini e
donne, vestono nello stesso modo; che cioè sono state abolite nello stesso
tempo così le differenze tra individui come quelle tra i sessi.
Non si può capire l'importanza enorme di una simile uniformità se non
ricordando l'importanza analoga che dal punto di vista economico,
psicologico e culturale ha in Occidente la diversità. Si pensi soltanto
all'ambizione delle donne, in Occidente, di vestirsi ciascuna in maniera
diversa da tutte le altre e alle conseguenze, nel campo industriale e sociale,
di questa ambizione. In realtà, per trovare qualcosa di simile all'uniformità
cinese in Europa, bisogna pensare agli ordini monastici. Le implicazioni di
una tale somiglianza sono ovvie e non c'è neppure bisogno di parlarne.
Quanto al livellamento: la Cina, oggi, dà l'impressione di essere tutto un
solo sterminato paese povero, di una decente, fiera ma anche spietata
povertà. Miseria non sembra esservi, come c'era invece in passato; ma lo
stile, il colore, il tono, la maniera di vivere, la visione del mondo della
povertà sono dappertutto. Una povertà singolare, non soltanto contenta di se
stessa ma anche dimostrativa e didascalica. Come a dire: "Ecco di che cosa
ha bisogno l'uomo. Tutto il resto è superfluità, dunque lusso, dunque vile
corruzione di tipo sovietico oppure occidentale."
Di che cosa ha bisogno l'uomo maoista? A quanto sembra, di un paio di
pantaloni blu di cotone, di una camiciola bianca di cotone, di un paio di
sandali o pantofole. Di una bicicletta per andare al lavoro. Di una dimora
consistente in una sola stanza in coabitazione con i familiari. Di un limitato
numero di beni di consumo: sigarette, bibite, sapone, oggetti di toletta,
stoviglie ecc. ecc. Di parchi pubblici (ex-giardini imperiali) in cui
passeggiare, solo svago che non sia politicizzato. Infine di una continua,
ossessiva, capillare propaganda del pensiero e della figura di Mao fatto con
tutti i mezzi: giornali murali, teatro, cinema, radio, televisione, pittura,
scultura e via dicendo. L'uomo maoista è, insomma, il cittadino di una
società non diciamo senza classi, ma senza neppure il sospetto delle classi.
Ma allora, torniamo ad insistere, perché bisogna mantenere in efficienza la
lotta di classe?
Qui la parola "culturale" ci viene in soccorso. Rivoluzione Culturale
significa, infatti, proprio quello che sembra significare, cioè una rivoluzione
che fin da principio è esplosa non già sul piano sociale, cioè a livello delle
strutture, bensì sul piano culturale, cioè al livello delle sovrastrutture. Non
bisogna dimenticare che il primo fulmine (a ciel sereno) annunziatore del
tifone della Rivoluzione Culturale è caduto appunto fin dal 1965 su uomini
di cultura. Erano burocrati, politici, intellettuali o come si dice, quadri, che
facevano parte della municipalità di Pechino o della direzione del partito a
Pechino. D'altra parte, poco prima o poco dopo, la politica dei cosiddetti
"cento fiori" è stata smentita da altri fulmini, ovverossia scomuniche, caduti
su alcuni "fiori" come i film La vita di Wu Hsiun e La destituzione di Hai
Juei; e le teorie artistiche di Hu Feng: scrivere la verità; di Tsint Ciaoyang:
la larga via del realismo; di Ciao Tsiuanlin: l'approfondimento del realismo;
ancora di Ciao Tsiuanlin: i personaggi indecisi; di Ceu Kuceng: la sintesi
dello spirito dell'epoca; di Hsia Yen: l'opposizione al ruolo decisivo del
soggetto; e così via. Altro che cento fiori. Tutto il mazzo veniva sterminato
e solo rimaneva, grande, immenso, invadente, esclusivo, il fiore di Mao
Tzetung. Contro quei "fiori" e altri boccioli dello stesso genere si sono
scatenate le prime avvisaglie della Rivoluzione Culturale. Insomma i
nemici della Rivoluzione Culturale o se si preferisce le vittime, vanno
ricercati tra i quadri, ossia tra gli uomini di cultura. Questa indicazione
negativa è fondamentale.
Dunque la lotta di classe va continuata e rafforzata; ma la classe perde i
suoi connotati economici e sociali e diventa una categoria "culturale". Ma
noi sappiamo che in Cina, come del resto in tutti i paesi comunisti,
"culturale" vuol dire qualche cosa che riguarda non soltanto il sapere
letterario, artistico e scientifico, ma anche il comportamento dell'uomo, cioè
il costume. Dunque ci siamo: classe è una categoria morale.
Una volta spostato il significato dal piano sociale a quello morale, si vede
subito come diventi facile per Mao dare alla rivoluzione un carattere
permanente alla lotta di classe un continuo sviluppo. Una rivoluzione, una
lotta di classe che si propongano di riformare la società o lo Stato non
possono essere permanenti. Ma una rivoluzione e una lotta di classe che
mirino a riformare l'uomo, sì. A questo punto bisogna notare che la classe
come categoria morale comporta la cultura come strumento (come arma o
pugnale, dice Mao). Il marxismo cosiddetto volgare aveva supposto che la
cultura fosse una sovrastruttura, cioè una secrezione innocente e
inconsapevole della classe. Ma per Mao questo determinismo meccanico
non è valido. Per Mao, le classi si forgiano freddamente, consapevolmente,
cinicamente l'arma della cultura al fine di difendere i loro interessi. La
borghesia si è forgiata a freddo e con piena coscienza l'arma della cultura
borghese (cioè tutta la cultura del passato in tutti i paesi). Il proletariato
deve rifiutare quest'arma maledetta e farsene anche lui, a freddo e con piena
coscienza, un'altra altrettanto acuminata e affilata. È ovvio l'effetto di una
tale teoria: condanna in blocco dell'arte e del pensiero del passato, straniera
e cinese, volontarismo e politicizzazione nella cultura maoista.
La classe insomma, è una categoria morale. La categoria morale del bene
è il proletariato; quella del male, la borghesia. Di conseguenza la lotta di
classe oggi in Cina, è la lotta contro il male. In altri termini la classe non è
fuori e intorno all'uomo, ma dentro di lui. Essa è l'eterna tentazione
diabolica contro la quale bisogna combattere in eterno.
Gli effetti di questo stato di cose sono molti e importanti. Prima di tutto
se la classe è una stortura interiore, tutti possono esserne affetti, anche i
compagni di lotta, anche coloro che condividono il potere con Mao, anche il
sindaco di Pechino Peng Ceng oppure il presidente della repubblica Liu
Sciaoci. Inoltre se la cultura è un'arma di classe cioè un'arma per fare il
male o il bene, la cultura occidentale o che sembri occidentale va colpita
senza pietà e in tutti i suoi aspetti. Questo spiega il carattere al tempo stesso
drastico e molteplice dell'"austerità" cinese che condanna indifferentemente
Shakespeare e le minigonne, i classici cinesi e i dischi di musica da ballo,
Dostoieschi e le calze di seta. Si tratta di una austerità totalitaria basata
sull'idea molto semplice che la controrivoluzione può annidarsi dappertutto,
anche in un tubetto di rosso per le labbra. Forse servirà a questo punto
nominare qualche precedente storico: la Firenze di Savonarola, la Ginevra
di Calvino. Ma si trattava pur sempre di piccole comunità, non di settecento
milioni di individui.
A questo punto, si domanderà, naturalmente: perché tutto questo? Cioè
per quale fine? È una domanda alla quale non è possibile rispondere che
prospettando due ipotesi.
La prima è che la Rivoluzione Culturale preluda, forse
inconsapevolmente, alla guerra contro gli Stati Uniti. In questo caso
distruggendo tutto ciò che è occidentale e creando, di contro alla civiltà del
consumo americana, il paradosso della civiltà della privazione, la Cina si
sarebbe messa nelle migliori condizioni per affrontare il conflitto. La
seconda ipotesi è che la Rivoluzione Culturale sia, in sostanza, una specie
di Grande Muraglia autarchica e nazionalista con la quale, fatto non nuovo
nella sua storia, la Cina miri a rinchiudersi dentro le proprie frontiere
culturali per un lunghissimo tempo, noncurante del resto del mondo,
sufficiente a se stessa. A nostro parere la seconda ipotesi è la più probabile.
E questo perché, a ben guardare, la Rivoluzione Culturale sembra essere
soprattutto un'operazione tendente a stabilire una volta per tutte
un'ortodossia definitiva. Non per nulla nella frattura del mondo comunista
tra "revisionisti" e "dogmatici", la Cina è alla testa di questi ultimi. In altri
termini e in maniera paradossale, la Rivoluzione Culturale con il suo
movimento furibondo e incessante dovrebbe creare un'immobilità assoluta e
duratura Questa contraddizione non è nuova nella storia cinese. Anche
l'ortodossia sociale confuciana era apparentemente negata dal quietismo e
misticismo taoista. In realtà si trattava delle due facce alterne di una sola
cultura.
IL FORNELLO A GAS
La nostra guida, il signor Li, è un uomo secco e giallo (non tutti i cinesi
sono gialli, anzi lo sono molto raramente); con il volto improntato ad una
tristezza decrepita. È afflitto da un tic nervoso che gli fa saltare tutta una
parte del viso mentre l'altra rimane immobile. Inoltre soffre di balbuzie. Il
signor Li è triste e nevrotico; quando ride ha un risino sardonico, acido,
amaro. La sua tristezza è silenziosa e meditabonda, simile a quella di chi si
sia rassegnato per sempre ad una condizione al tempo stesso inevitabile e
spiacevole. Se non sapessi che le guide sono scelte di solito tra persone di
provata fede politica, quasi penserei che il signor Li non è un maoista
convinto. Ma non è così. Il signor Li è triste perché è triste; e del resto non
sa di essere triste.
Questa mattina il tempo è cambiato, come accade spesso a Pechino. Ieri
c'era il sole; oggi pioviggina. Dalle Colline dell'Ovest è venuto un nembo
grigio che trasuda una pioggerella sottile come lo zampillo di un inaffiatoio
per bambini. Gli stradoni lustrano; le solite sfilate della Rivoluzione
Culturale sono diventate processioni di lunghi impermeabili col cappuccio
che ricordano gli incappucciati delle confraternite religiose. Insomma la
religione di Mao si conferma con la pioggia: ritratti, stendardi e colonne di
fratelli della buona morte.
Il signor Li ci dice appena siamo nell'automobile: "Oggi andiamo al
Palazzo d'Estate."
Domando: "Con la pioggia?"
Risponde: "Con la pioggia."
La macchina continua a correre. Il signor Li non è affatto loquace ma
attento, questo sì. Poiché passiamo davanti ad un edificio ricoperto anzi
catafratto di giornali murali, Dacia alza l'obbiettivo, fa per fotografarli. Con
gesto sobrio, triste e discreto il signor Li, che pareva assorto a chiacchierare
con l'autista, stende un braccio e le tocca la spalla in cenno di diniego: non
si debbono fotografare i giornali murali, è proibito. Nei giornali murali,
infatti, ci sono spesso, accanto a ingiurie, invettive, abbasso ed evviva,
anche verità, talvolta verità avvenire, cioè cose che accadranno magari tra
mesi; ma tutto questo è per uso interno, gli stranieri non debbono ficcarci il
naso. Resta, però, il dubbio se quel gesto di proibizione il signor Li l'abbia
fatto per zelo di maoista convinto oppure per mostrare all'autista che faceva
il suo dovere. Forse tutte e due le cose, data la nota reciproca sorveglianza
che i cinesi esercitano l'uno verso l'altro.
La macchina corre ancora un pezzo per le strade di Pechino. Dico ad un
tratto al signor Li: "Ieri sera è scoppiata la guerra tra Israele e gli Stati
Arabi."
"Ah davvero? Come l'ha saputo?"
"Da degli studenti svedesi che l'avevano saputo dal loro ambasciatore che
a sua volta l'aveva appreso dalla radio."
Il signor Li non dice nulla; il suo volto raggrinzito e pulsante di tic
svariati non mostra alcuna curiosità. Dico: "Voi cinesi non avete il minimo
intesse per l'estero e per le cose che succedono all'estero."
"Perché? Non ha visto in questi giorni le dimostrazioni che le guardie
rosse hanno fatto davanti all'ambasciata inglese e quella siriana?"
"Non parlo di manifestazioni, parlo di interesse cioè di curiosità. Durante
questo mio viaggio ho rivolto centinaia di domande sulla Cina ai cinesi che
mi avete fatto incontrare. Ma nessuno mai mi ha rivolto alcuna domanda
sull'Europa."
Il signor Li mi guarda e non dice niente. Io aspetto un momento e poi
continuo: "Non dico che sia una cosa negativa o positiva, dico che questo è
un carattere dei cinesi. In Europa noi abbiamo collezioni private e musei
pubblici in cui sono raccolte innumerevoli opere d'arte cinesi. Non parliamo
degli studi che inglesi, francesi, tedeschi e americani hanno dedicato
all'arte, alla storia, alla cultura cinese. Ma in Cina, niente di tutto questo. Io
sono stato a Sciangai prima della guerra, nel 1936. C'erano persone
ricchissime, tra le più ricche del mondo: nessuna collezionava pitture,
sculture, disegni, ceramiche, oggetti preziosi, opere d'arte europee.
L'interesse per l'Europa non esisteva."
Il signor Li mi guarda e poi dice: "Erano capitalisti."
"Anche i collezionisti europei sono capitalisti."
Il signor Li non dice nulla. Io concludo: "Il motivo forse è il seguente: la
Cina si è sempre considerata come il centro del mondo. Il quale dava ma
non riceveva né desiderava ricevere."
Eccoci nello spiazzo davanti all'ingresso del Palazzo d'Estate. I magnifici
leoni e draghi di bronzo che ne sorvegliano le entrate, sono brulicanti di
guardie rosse che si fanno fotografare appollaiate su quei capolavori
dell'arte tradizionale. Entriamo e poco dopo essere entrati, avviene qualche
cosa di fantastico: qualcuno mi sorpassa, camminando in fretta. È un
vecchio signore cinese, vestito con estrema, incredibile eleganza. Il primo,
il solo che vedrò durante tutto il mio viaggio in Cina. Ha in capo un
cappello di panama, indossa tunica e pantaloni di seta cruda color avorio,
pesante e ovviamente di ottima qualità, ambedue tagliati alla perfezione.
Stringe in mano un bastone di malacca dal pomo di giada. Ha un volto
freddo sprezzante e impassibile incorniciato da una breve barba bianca di
tipo tradizionale. Mi passa accanto e scompare; quasi non credo ai miei
occhi. Non ho alcun desiderio di chiederne alla guida tanto so che mi
risponderebbe in maniera ambigua ed evasiva oppure, addirittura,
negherebbe di averlo visto. Preferisco per un momento fantasticare. Un ex
mandarino? Un ex industriale lasciato alla direzione della propria fabbrica?
Oppure (questa idea è la più assurda e forse per questo, è quella che mi
piace di più), l'ex imperatore di Cina, l'ultimo, il quale dovrebbe avere
appunto intorno ai settanta anni, come il vecchio signore dal vestito di seta
cruda? Dicono che sia bibliotecario e che abbia anche scritto un libro di
memorie: Da imperatore a cittadino.
Intanto camminiamo intorno al lago del Palazzo d'Estate. È un lago
artificiale; sulle sue sponde e sulle colline che le sovrastano si scorgono,
nascosti tra gli alberi, numerosi padiglioni e altri simili luoghi di delizie. La
nostra passeggiata si svolge in questo modo: il signor Li cammina davanti a
noi, un po' a distanza. Poi veniamo noi due. Poi viene un corteo di gente che
ci guarda a bocca aperta e misura il proprio passo sul nostro. Il signor Li
ogni tanto si volta e ci lancia uno sguardo indefinibile, tra protettivo e
annoiato. Allora la gente comprende che non siamo i soli ed autonomi ma
che dipendiamo anche noi dall'autorità dello Stato cinese e in certo modo si
rassicura. Purtuttavia continua a seguirci e a guardarci.
Poiché continua a piovigginare, camminiamo al riparo di una specie di
galleria aperta che corre lungo il lago a poca distanza dalla riva. Doveva
servire all'imperatore e alla corte per raggiungere senza bruciarsi al sole e
bagnarsi con la pioggia i vari padiglioni di delizia sparsi intorno il lago. È
tutta di legno; pilastri, balaustrate e soffitti sono fittamente dipinti. Per lo
più si tratta di motivi decorativi tradizionali; ma ad ogni coppia di pilastri,
sull'architrave, c'è un ovale in cui sono dipinte sia scene di genere, sia
paesaggi. Questi ultimi sono di una finezza e di un nitore da incisione; e
fanno pensare, a forza di precisione, ad una specie molto cinese di
surrealismo. Il tema è sempre lo stesso: un edificio (torre, casa, villa,
padiglione, portico, belvedere, garitta, ecc. ecc.) collocato in posizione
sempre diversa su uno sfondo naturale sia artificiale (parco, giardino, strada
di campagna, siepe) sia selvatico. Gli elementi di questi paesaggi sono tre:
l'opera in muratura, la vegetazione, l'acqua (canali, fiumi, laghi, vasche,
ecc. ecc.). È un tema solo, come ho detto; ma è incredibile quante variazioni
ne abbiano saputo trarre gli sconosciuti artisti o meglio artigiani che hanno
dipinto gli ovali. Ho parlato di surrealismo; ma è il surrealismo involontario
degli antichi, onirico senza saperlo, incantato e fatto per incantare.
Ma gli ovali dipinti a scene di genere cioè a scene nelle quali ci sono
figure umane, sono tutti, senza eccezione, ricoperti di una mano di tinta
rosa, del rosa falso e vivo proprio di certi dentifrici. Il rosa, tuttavia,
traspare, forse diluito dalla pioggia e dal sole, e allora si intravedono
figurette senza dubbio non meno incantevoli dei paesaggi. Domando al
signor Li: "Come mai queste scene con figure sono tutte ricoperte con una
mano di vernice rosa?"
Risponde tranquillamente, con doverosa menzogna; "Non sono state
ancora restaurate."
Non è vero. E lui sa che io so che lui sa che non è vero. In realtà le scene
di genere sono state ricoperte perché mostravano i potenti del passato
assorti a vivere una vita tranquilla, innocente, sorridente, graziosa,
piacevole e raffinata. Ma il popolo non deve saper niente del passato o
meglio di quest'aspetto del passato. Il passato sono soltanto i latifondisti che
martirizzavano i contadini. Ora è verissimo che la maggioranza dei
latifondisti si comportavano in maniera disumana coi loro servi della gleba.
Ma non entra in testa al signor Li e in genere alle autorità che si occupano
in Cina della propaganda, che quegli stessi latifondisti così crudeli ed esosi
potessero essere al tempo stesso gli uomini raffinati, pieni di buone
maniere, laureati in lettere, discepoli di Confucio, sensibili al bello, versati
nelle arti che erano dipinti negli ovali della galleria, oggi ricoperti di
vernice rosa. Questa contraddizione non è ammessa dalla propaganda;
eppure il libro rosso delle citazioni di Mao insiste quasi ad ogni pagina che
la realtà è fatta di contraddizioni e che se non ci sono le contraddizioni non
c'è la realtà.
Camminiamo a lungo per la galleria, con due gruppi di persone, l'una a
destra e l'altra a sinistra che ci seguono a distanza, sotto la pioggia,
guardandoci con occhi sbarrati; quanto a noi, guardiamo alle pitture. Il
signor Li, triste fino alla morte, ci precede, le mani riunite dietro il dorso.
Eccoci alla famosa nave di marmo ancorata per sempre nell'acqua grigia
del lago del Palazzo d'Estate. Dicono che il parlamento avesse votato i fondi
per creare una marina militare capace di competere con quella degli
occidentali; ma l'imperatrice si appropriò il denaro per abbellire il Palazzo
d'Estate e tra le altre cose, con inconscia (o forse consapevole) ironia,
costruì questo piccolo monumento nautico: una nave a vapore di quelle con
la ruota e l'alta smilza ciminiera, come se ne dovevano vedere sui fiumi
cinesi verso la metà del secolo scorso. Dico al signor Li: "La barca di
marmo è molto popolare ancora oggi tra i cinesi, non è vero?"
"Sì, non lo vede quanta gente?"
Infatti la nave è piena di gente, ragazzi e ragazze bambini, donne e vecchi
che salgono e scendono per le scalette ridendo e dandosi degli spintoni. La
barca di fuori è di marmo; ma dentro è arredata come una vera nave: con
rivestimenti di mogano, specchi, ottoni, canapé di velluto, pavimenti a liste
di legno. Tutto però è logoro, opaco, sporco, stanco, cadente. Dico al signor
Li: "I monumenti di Pechino sono per lo più in cattivo stato e per giunta
tenuti malissimo. Come mai?"
"Ci sono cose più urgenti da fare che restaurare i monumenti."
"Per esempio il Tempio del Cielo, dove siamo stati ieri. Gran parte di
quelle bellissime tegole di ceramica violetta sono rotte o sgretolate; i
meravigliosi boschi che circondano il tempio e il tempio stesso sono pieni
di cartacce, rifiuti, porcherie. Come mai?"
"Al Tempio del Cielo ci hanno fatto bivaccare le guardie rosse
quest'inverno."
"Potevate almeno ripulirli."
"Il Tempio del Cielo può durare ancora almeno cent'anni così com'è."
Dice queste parole e si stringe nelle spalle, con aria indifferente e
annoiata. In realtà in Cina siamo ancora ai primi passi di quella morte
definitiva dei monumenti che si chiama turismo. Per ora i cinesi si limitano
ad "odiare" i loro monumenti. Perché, sia ben chiaro questo: i cinesi odiano
il loro passato, sia esso artistico o letterario o filosofico o religioso. Perché
l'odiano? La risposta non è facile. L'odiano non tanto perché è passato
(come l'odiavano i futuristi, per esempio) bensì perché lo considerano come
un errore cioè un errore borghese, capitalista. D'altra parte, accanto a
quest'odio per il passato, tanto più notevole in un paese che ha avuto per
tremila anni il culto degli antenati, c'è in Cina un nazionalismo patriottico e
xenofobo che forse è oggi il più acceso e il più aggressivo del mondo. Ora,
dovunque, il nazionalismo si accompagna con il vanto del passato. In Cina,
no.
Questa contraddizione, secondo noi, va spiegata con il conservatorismo
quasi patologico della Cina tradizionale dalle origini fino a ieri;
conservatorismo che non era tanto di origine economica, sociale, religiosa
quanto, come dire? biologica. Ossia la Cina mirava a durare piuttosto che a
svilupparsi; e si sa che durata è sinonimo, spesso, di ripetizione. La Cina,
insomma, era conservatrice com'è conservatrice la natura; alla quale
nessuno, davvero, potrebbe rimproverare di ripetere ogni anno le stesse
cose, cioè le stagioni e tutti i cambiamenti propri delle stagioni. Questo
avviene in tutte le civiltà contadine; ma raramente con la regolarità, la
raffinatezza e l'immobilità cinesi. Copia umana della natura, la Cina ne
ripeteva la serenità, la monotonia, l'inalterabilità, l'impassibilità e la fatalità.
Era conservatrice; non è diventata reazionaria se non quando l'impero si è
corrotto ed è stato assalito e taglieggiato d'ogni parte dagli stranieri.
La Rivoluzione Culturale mira principalmente, secondo noi, a ristabilire
in Cina un conservatorismo "naturale" adeguato ai tempi moderni, ossia
capace di durare millenni come quello dell'impero. L'odio dei cinesi per il
loro passato è dunque l'odio di un conservatorismo nascente (del resto tutte
le rivoluzioni sono conservatrici poiché hanno da conservare appunto le
conquiste della rivoluzione) contro un conservatorismo moribondo. Il primo
prenderà il posto del secondo. Ma poiché quest'ultimo è duro a morire,
occorre odiarlo.
Perché questo è lo scopo di ogni conservatorismo in Cina: non già tanto
difendere interessi quanto assicurare, con qualsiasi mezzo, la continuità,
anzi l'eternità del popolo cinese. Non si tratta, però, di una continuità o
eternità meramente materiali; bensì basate su un fondamentale accordo con
la realtà (un tempo si diceva "accordo con il Cielo"); il quale accordo si
ottiene con un'ortodossia purchessia che assicuri l'immobilità e, in certo
modo, metta la Cina, almeno per qualche secolo, fuori della storia. E infatti
quello che di solito si chiama la storia della Cina, almeno sinora è stato una
serie di periodi ben distinti contrassegnati dal nome di una dinastia, durante
i quali, in fondo, la storia stessa era sospesa. Poi la dinastia finiva nella
corruzione e nel disastro militare; allora tutto il sistema sociale cinese
crollava nell'anarchia finché, attraverso un catastrofico travaglio, veniva
ritrovata una nuova ortodossia, cioè un nuovo accordo con la realtà o con il
Cielo e dunque una nuova immobilità fuori della storia. Ne segue che in
Cina, la storia è disordine, angoscia, anarchia, fame, guerra; mentre la pace,
la prosperità, la civiltà e la cultura stanno invece a indicare l'assenza della
storia. Oggi i cinesi odiano il loro passato perché è inutilizzabile ai fini
dell'ortodossia futura, la quale sarà fabbricata unicamente con materiali
maoisti. Così si spiega, secondo noi, il vandalismo delle guardie rosse che
rovinano i monumenti, bruciano i libri, distruggono insomma con furore
tutto ciò che è rimasto della vecchia Cina. Del resto, i cinesi si considerano
inesauribili. Il passato distrutto sarà senza dubbio sostituito da un futuro
altrettanto ricco di saggezza e di raffinatezza. La Cina, va detto ancora una
volta, è come la natura; ad ogni stagione si rinnova e produce i suoi frutti.
Dopo il Palazzo d'Estate, il nostro programma, oggi, comprende una
visita alle tombe dei Ming. È uno dei luoghi più belli dei dintorni di
Pechino. Una volta tanto l'abbandono nel quale sono lasciati i monumenti in
Cina accresce la bellezza del luogo. Si immagini una vasta pianura tutta
ricoperta dai cespugli della macchia, con qualche raro albero qua e là,
limitata per tre lati da quelle basse, azzurre, dolci, vaghe montuosità che la
letteratura cinese classica ha reso famose col nome di Colline dell'Ovest. La
macchia sulla pianura è alta e folta; ma aguzzando gli occhi, si possono
distinguere, casuali e sperduti tra il pullulare della vegetazione, i tetti dei
padiglioni che stanno a indicare le presenze delle tombe imperiali. Anche
questa incertezza, lontananza e isolamento contribuiscono non poco alla
malinconica elegiaca bellezza del luogo.
Si entra nella pianura per dei propilei di marmo bianco e di tegole di
ceramica violetta, intorno i quali cresce alta l'erbaccia; si cammina poi per
un sentiero dal tracciato irregolare fiancheggiato da due file di grandi statue
raffiguranti leoni, chimere, draghi, cavalli, elefanti, cammelli, guerrieri.
Sono statue grandi poco più o poco meno del vero; e portano tutte quante lo
stampo del genio cinese: quello stile o meglio stilizzazione inconfondibile
insieme bizzarra e piena di buon senso; rustica e raffinata; monumentale e
familiare; realistica e decorativa; rituale e mondana. Le statue stanno a
ridosso della macchia che cresce rigogliosa dietro di esse; l'erba le circonda
oppure la polvere del sentiero; non hanno basi o piedistalli; sembrano
allineate provvisoriamente, in attesa di una destinazione più degna e
definitiva. Domando al signor Li: "Quante sono le tombe dei Ming?"
"Sono tredici."
Fa un gesto verso la macchia. Veramente non mi riesce di scorgere, in
quello sterminato pullulare di cespugli, che tre o quattro remoti tetti di
padiglioni, l'uno molto lontano dall'altro.
"Tredici padiglioni. Ma quante di queste tombe sono state scavate
sinora?"
"Una sola."
"Come avete fatto per trovarla?"
"Nel 1956, riparando un muro, è stata scoperta una tavoletta nella quale
c'erano indicazioni precise sulla tomba che si trovava infatti dietro il
padiglione, sotto una collina. Così abbiamo seguito le istruzioni della
tavoletta e abbiamo trovato un pozzo circolare riempito di terriccio. Tolto il
terriccio, abbiamo scoperto, in fondo al pozzo, la porta della tomba."
"Chi c'era sepolto in questa tomba?"
"Un imperatore e due imperatrici."
Pioviggina, siamo in un boschetto di alti, drittissimi pini; tra i tronchi, si
vedono due piccoli edifici prefabbricati a un piano solo, uno a destra e uno
a sinistra: i due piccoli musei nei quali sono esposti gli oggetti trovati nella
tomba. In fondo al bosco si intravede l'antico padiglione votivo, in cima ad
una scalinata. La guida ci precede, gira intorno il padiglione. Dietro il
padiglione c'è la collina che, infatti, appare squarciata alla base da uno
scavo triangolare in fondo al quale si scorge una porta. È la vera tomba
dell'imperatore, quella indicata nella tavoletta.
Andiamo alla porta e ci troviamo a scendere per un'ampia scala a spirale,
fino al fondo dell'enorme pozzo che, appunto, al momento dello scavo era
stato trovato colmo di terriccio. A misura che scendiamo fa più freddo, un
freddo proprio di tomba, mortuario; le pareti del pozzo appaiono macchiate
di umidità, incrostate di muffa color verderame. Eccoci in fondo. Davanti a
noi si spalancano due porte di marmo bianco, con le borchie anch'esse di
marmo bianco che riproducono esattamente le porte di lacca rossa con
borchie d'oro che di solito si trovano nei palazzi imperiali. Eccoci nella
prima sala. C'è un trono di marmo bianco (anch'esso probabilmente
riproduzione esatta del vero trono di legno prezioso); ci sono vari cuscini
cilindrici, anch'essi di marmo; c'è infine, sopra un piedistallo, un'enorme
giara di porcellana Ming di un bianco pallidissimamente azzurro con
disegni blu di draghi e di fiori. Ci avviciniamo alla giara, solleviamo il
coperchio e vediamo che è piena per due terzi di un liquido nerastro sul
quale si è rappresa come una crema scura. È olio votivo di molti secoli or
sono, rimasto lì, a testimonianza di un culto defunto (quello
dell'imperatore). Passiamo da questa prima sala, attraverso una seconda
porta coi battenti di marmo simili a quelli già descritti, ad una seconda sala.
Anche qui trono di marmo, sedili cilindrici di marmo, giara di porcellana
colma di olio votivo. Quindi terza porta con i soliti battenti e terzo trono,
con sedili e giara. Infine, in fondo all'ipogeo, ecco una grande sala, la più
fredda e la più nuda di tutte, ingombrata da una quantità di scatoloni dipinti
di rosso, quali rettangolari e quali quadrati. "Questi scatoloni," spiega il
signor Li, "contenevano i corpi dell'imperatore e delle due imperatrici.
Nonché tutti gli oggetti che tra poco vedrete nei musei. O meglio questi
scatoloni riproducono quelli originari i quali erano marci di umidità e
disfatti dalla putredine."
Il signor Lì parla dell'imperatore e delle imperatrici con profonda, sincera
antipatia. Soggiunge dopo un momento: "Quando un imperatore veniva a
morire, era seppellito in questo modo. Se, invece, moriva un contadino, si
faceva una buca presso la casa e poi si gettava sopra un po' di terra e basta."
Risaliamo con sollievo all'aperto; andiamo a vedere i due musei. Nelle
teche di vetro vediamo disposti con cura grandi pezzi di giada
leggiadramente cesellati, vasellame d'oro massiccio, scettri imperiali
tempestati di pietre preziose, corone imperiali in forma di cuffie tutte piene
di ciondoli d'oro e di gemme, avori finemente scolpiti, monili, collane,
anelli e altre cose del genere. Nonché molto vasellame di porcellana
dell'epoca Ming, azzurro e bianco, di bellissima fattura. Dico al signor Li:
"Avete fatto una scoperta che per importanza archeologica e valore degli
oggetti si può paragonare a quella della tomba di Tutankamen in Egitto."
"Tutto questo è stato fatto per scopo scientifico ed educativo. Il popolo
deve essere istruito."
"Tutto questo è molto bello. Anche la bellezza educa."
"Non c'è niente di bello in tutto questo. Ma è bene che si sappia come
venivano sepolti gli imperatori."
Dice sul serio? Probabilmente sì. Il senso del bello in Cina oggi è stato
sostituito dal senso del buono. Questa tomba non è bella perché non è
buona. Ma può essere educativa, questo sì.
Domando: "Crede che dietro gli altri dodici padiglioni ci siano altre
tombe simili?"
"Chi lo sa?"
"Ma non fate delle ricerche?"
"No."
"Perché?"
"Basta questa qui. Che bisogno c'è di scavare le altre? Una sola basta per
educare e per istruire."
IL CONVITATO DI PIETRA
Dico a Dacia: "Questi sono gli stessi cinesi che abbiamo visto qualche
giorno fa sfilare a Pechino, con le bandiere, i ritratti di Mao, i libretti rossi
delle citazioni di Mao?"
"Sì, sono gli stessi. Cioè non proprio gli stessi, in senso individuale. Ma
gli stessi nel senso che anche questi fanno parte del popolo cinese."
"Allora è provato che si può fare degli uomini quello che si vuole. O che
gli uomini possono fare di se stessi quello che vogliono."
"Diciamo che gli uomini possono fare di se stessi quello che vogliono."
Siamo in un albergo di Kowloon, quartiere continentale della città
insulare di Hong Kong. È un quartiere tutto cinese; gli europei vivono
nell'isola. Attraverso la nostra finestra, situata al ventesimo piano, vediamo,
proprio di fronte, a pochissima distanza, un palazzo o meglio un mezzo
grattacielo di tipo popolare. È vicinissimo, come ho detto; tra la sua facciata
e la nostra lo sguardo piomba in fondo ad un ignudo e vuoto cortile di
cemento sparso di immondizie sbriciolate. Dalla nostra finestra appare
chiaramente la piccolezza degli appartamenti, di una camera, due camere;
ma piuttosto celle che camere; nonché l'affollamento soffocante delle
coabitazioni. In certe stanze i letti sono infissi alla parete l'uno sul l'altro
come le cuccette nei treni; è quasi sera ma molti degli abitanti, disoccupati
o oziosi, giacciono sui letti con la schiena e il sedere voltati e quasi
sporgenti dalla finestra come se si aspettassero da questa esposizione all'aria
aperta qualche sollievo dall'umida afa tropicale. Uomini in mutande,
bambini nudi si muovono con difficoltà e lentezza nelle stanze esigue e
ingombre; donne in pigiama neri cucinano in piedi di fronte a minuscoli
fornelli. Sono cinesi poveri, forse meno poveri dei cinesi di Canton e di
Pechino; ma in compenso sradicati dalla civiltà del loro paese e affollati
qui, senza alcun vero trapianto in altro humus culturale, sulla roccia ignuda
di una grande città di quattro milioni di abitanti, esclusivamente mercantile
e coloniale. Quanto dire che tutte queste famiglie che vediamo brulicare, in
promiscue e angosciose coabitazioni, nel palazzo di fronte, condividono (o
fingono di condividere) la stessa visione del mondo dei banchieri, dei
mercanti, degli industriali e dei ricconi di cui ieri, durante un giro per i
quartieri residenziali su per le colline di Hong Kong abbiamo ammirato le
ville belle e grandi nascoste in fondo a lussureggianti giardini subtropicali.
Dacia osserva: "Sono in gran parte comunisti. Quei libretti rossi delle
citazioni di Mao che abbiamo portato dalla Cina, in traduzioni inglesi e
francesi, i ragazzi dell'ascensore, i bell-boys se li sono disputati. E anche i
distintivi con la testa di Mao."
"Ci sono pure quelli che non sono comunisti e sono scappati qui dalla
Cina. Come per esempio il nostro autista di ieri che è stato autista di
un'autoambulanza americana nella guerra civile tra nazionalisti e comunisti
e adesso ha paura, se i cinesi invadono Hong Kong, di essere messo al
muro."
Riprendo dopo un momento: "Il capitalismo è causa di diversi effetti. Il
principale e più visibile forse è di mettere uomini e oggetti allo stesso
livello. E spesso di fabbricare oggetti che hanno un aspetto più piacevole,
più rifinito, più attraente, più bello così degli uomini che li producono come
di quelli che li consumano. Forse questa è l'origine dell'idea del 'nouveau
roman' francese sulla autonomia ed importanza degli oggetti rispetto
all'uomo e sulla trasformazione dell'uomo, oggi, in un oggetto come tutti gli
altri, magari meno centrale e significativo degli altri. E infatti, spesso, nei
paesi capitalisti, i vestiti sono più belli di coloro che li indossano, le
automobili più imponenti di coloro che le guidano, le case più fantastiche di
coloro che le abitano. Saliamo adesso sulla terrazza dell'albergo e andiamo
a vedere Hong Kong, città di sicuro infinitamente più bella di coloro, ricchi
e poveri, che ci vivono."
Eccoci dunque sul roof-garden dell'albergo. Sì, Hong Kong è bella, è
bellissima, di una bellezza che ricorda un poco quella di Nuova York. Come
la bellezza di una sorella minore ricorda talvolta quella di una sorella
maggiore. È il tramonto, con un cielo già verde e velato sulle nostre teste e
ancora rosso all'orizzonte. Le colline incupite dalle ombre della sera, gonfie
di vegetazione subtropicale impura e delirante, fanno da sfondo a gruppi
serrati di grattacieli bianchi, diritti, puri, spirituali, già tutti scintillanti e
ingioiellati di finestre illuminate. La città ci sta di fronte, in semicerchio
tutt'intorno la baia che a quest'ora è di un azzurro cupo, duro, minerale,
prezioso, scheggiato di riflessi purpurei. Innumerevoli sagome di navi alla
fonda, nere come l'inchiostro di Cina, si stagliano sullo sfondo più chiaro
del mare e del cielo: sagome enormi di transatlantici, lunghe e basse di
petroliere alte e massicce di mercantili, appena affioranti di sommergibili,
sottili e aguzze di navi da guerra. Tra questi profili neri e immobili,
scivolano, non meno neri, i rimorchiatori panciuti dai fumaioli alti e smilzi,
e sampan con le prue e i casseri dalle punte incurvate, simili a navicelle
medievali. Dico, dopo aver guardato a lungo a questo meraviglioso
panorama: "Hong Kong è una città ringiovanita."
"Perché ringiovanita?"
"Perché quando ci sono stato, più di trent'anni or sono, era un vecchiume
vittoriano. Ricordi l'edificio della posta, quel nano stretto tra due
giganteschi grattacieli bianchi, basso e lungo, di mattoni color sangue di
bue scuriti dall'umidità, in stile neogotico?. Beh, allora Hong Kong era tutta
un poco così. Gli inglesi abitavano sulle colline, in ville stuccate in stile
edoardiano, liberty; i cinesi si affollavano dietro il porto in caravanserragli
sordidi, fatiscenti, bardati di balconate crollanti, di verande sbilenche.
C'erano alcune banche in stile imperiale, ottocentesco, di granito scuro
lustrante, sinistramente rispettabili. Ecco tutto. Te lo dico, Hong Kong è
ringiovanita."
Effettivamente Hong Kong è ringiovanita o se si preferisce, si è
trasformata da città britannica coloniale e mercantile in metropoli
neocapitalista, e americanizzante. Le origini di questa trasformazione sono
curiose e meritano di essere spiegate. Eccole, in breve.
Quasi vent'anni or sono il fotografo francese Cartier Bresson pubblicava
un album di fotografie sulla Cina. Era l'anno del trionfo di Mao; tra le tante
fotografie, ce n'era una che allora mi era sembrata particolarmente
espressiva ed eloquente. La fotografia scattata alla vigilia immediata
dell'ingresso delle truppe comuniste a Sciangai, mostrava una fila di uomini
e di donne che in uno strano panico al tempo stesso frenetico e controllato,
si accalcavano affannosamente allo sportello di una banca per ritirarne i
depositi e metterli in salvo prima dell'arrivo delle truppe maoiste. La
fotografia mi aveva colpito in quanto era un documento dì prima mano su
quello che di solito avviene nell'imminenza di un'invasione. Un tempo si
facevano dei fagotti di tutto il poco o molto che si possedeva; oggi si
ritirano i conti in banca: il mondo cambia poco. Ma in quella fila di corpi
premuti e schiacciati gli uni contro gli altri, di volti tesi, avidi e ansiosi, si
leggeva qualche altra cosa oltre la paura di perdere il denaro, e questo
qualche cos'altro non avviene tanto spesso. Era il senso di terrore che ispira
non tanto la rovina materiale, quanto il crollo della scala di valori secondo
la quale si è sinora vissuti. Questa scala di valori, tra poche ore, non ci
sarebbe più stata, sarebbe stata violentemente, radicalmente sostituita da
quella del comunismo maoista. Per questo, l'invasione comunista non era
un'invasione qualsiasi, anche se cruenta, passata la quale si torna alle
vecchie sedi, ai vecchi traffici; era invece l'invasione dell'"altro", del
"diverso", di colui che non consente, mai più, il ritorno. Qualche cosa di
simile ad eventi, purtroppo non fotografati, come l'ingresso dei turchi nella
Costantinopoli cristiana o quella degli spagnoli nella capitale del Messico
precolombiano. La fotografia testimoniava insomma una disfatta
irreparabile, radicale, definitiva.
Eppure, strano a dirsi, proprio a quegli sciagurati risparmiatori cinesi di
Sciangai, Hong Kong deve la sua prosperità, il suo ringiovanimento.
Naturalmente questo va detto in senso metaforico: i piccoli risparmiatori
fotografati da Cartier Bresson se sono riusciti a scappare, sono andati a
ingrossare la folla della gente minuta di Hong Kong: trafficanti di ogni
genere, negozianti, prostitute, commessi. Coloro che hanno cambiato la
faccia di Hong Kong sono invece i ricchissimi compradores, usurai, signori
della guerra, latifondisti. Costoro non hanno fatto la fila davanti agli
sportelli delle banche; non sono scappati in panico. Hanno trasferito
tranquillamente, con una telefonata o due, i loro capitali da Sciangai a
Singapore, a Tokio, a Formosa, a Hong Kong. E quindi li hanno raggiunti,
con comodo, in aeroplano, insieme con le loro mogli, concubine, figli,
servitori, cuochi e maggiordomi. Tuttavia questo non toglie che il terrore
fotografato da Cartier Bresson, l'avessero provato tutti quanti, così i piccoli
risparmiatori come i grandi usurai. E il nesso tra questo terrore e l'attuale
ringiovanimento di Hong Kong è, paradossalmente quell'operazione
finanziaria in apparenza semplicissima ma in realtà, almeno in senso
psicologico, molto complicata, che si chiama comunemente investimento,
Hong Kong deve, infatti, il suo ringiovanimento proprio all'immissione
nelle sue vecchie vene coloniali di una quantità massiccia di capitali dei
cosiddetti cinesi d'oltremare. Per lo più, cioè, di capitali portati via dalla
Cina al momento del trionfo maoista.
È un paradosso significativo della storia che spesso un regime sconfitto e
malconcio ritrovi coesione e forza non già nella tranquillità di una
situazione favorevole bensì al contatto immediato di una minaccia mortale.
Alla sfida del comunismo di Mao che si era fermato provvisoriamente nei
sobborghi di Hong Kong, il neocapitalismo cinese ha risposto con la sfida
dell'investimento finanziario proprio nella città che tutti davano per
spacciata. Abbiamo parlato di sfida; potremmo anche parlare di colpo di
dadi, di carta giocata con il massimo del rischio, di bluff, di scommessa;
ma, forse, sarà più esatto dire che si tratta di una sfida che ha la particolarità
di essere largamente inconsapevole, cioè di appartenere piuttosto alla
biologia che alla storia. La consapevolezza storica o almeno la convinzione
di possederla è dall'altra parte del confine, nella Cina di Mao. Qui a Hong
Kong siamo di fronte allo stesso oscuro impulso che spinge un rampicante
ad aggrapparsi ad una parete; un albero a sporgere i rami al sole al di sopra
di un muro. In questo senso e soltanto in questo senso si può parlare di sfida
tra Hong Kong e la Cina di Mao: come di due estremi che si fronteggiano
con il massimo di essenzialità e di purezza: da una parte tutto è volontario,
programmatico, consapevole; dall'altro tutto è involontario, spontaneo,
inconsapevole.
La sfida del capitalismo cinese d'oltremare al comunismo di Mao è basata
su questa semplice riflessione: "Sì, basterebbe che i comunisti sparassero un
solo colpo di cannone; e gli inglesi che non domandano di meglio che
liquidare anche questa colonia, se ne andrebbero al più presto. Ma i
comunisti quel colpo di cannone non lo spareranno. E questo perché non
soltanto conviene loro che Hong Kong, solo porto cinese attrezzato in
maniera moderna, rimanga aperto ai traffici con il mondo intero; ma anche
perché se non ci fosse Hong Kong, lì bell'e pronto, essi dovrebbero
inventarne un altro, cioè creare un altro porto dello stesso genere, diretto,
organizzato e amministrato da degli intermediari stranieri che consentano
un ingente commercio cinese coi paesi capitalisti senza il pencolo di
compromissioni di ordine politico,"
Questa riflessione ha permesso lo straordinario sviluppo del porto di
Hong Kong, oggi il quinto del mondo; ma all'origine della riflessione, come
sempre quando si tratta di denaro, c'è una complessa rete di fiducia; fiducia
dei capitalisti cinesi negli inglesi (gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato
che questa fiducia non era infondata); fiducia degli inglesi nella Cina di
Mao (oggi profondamente scossa); fiducia della Cina di Mao in se stessa
(più forte che mai). Da tutte queste fiducie nasce l'equilibrio attuale della
situazione di Hong Kong; equilibrio ormai se non proprio distrutto, almeno
gravemente compromesso dal tentativo dei cinesi di trasformare la colonia
inglese in una specie di Macao; ossia in un porto coloniale nel quale, però,
la potenza colonialista diventi, per così dire, vassalla della Cina. A Macao,
com'è noto, questo vassallaggio è stato alla fine accettato dal Portogallo. A
Hong Kong, invece, la sfida inconsapevole del capitalismo cinese di
oltremare è stata aggravata dal rifiuto inglese, del tutto consapevole, di
seguire l'esempio del Portogallo.
Eccoci adesso in una delle strade principali di Kowloon. Negozi indiani
nei quali i commessi portano il turbante e la tunica bianca e vi si vendono
per lo più cotonate di Madras; negozi inglesi di libri, di lane, di calzature, di
camiceria maschile, di abiti di confezione, di oggetti sportivi; negozi
giapponesi di macchine fotografiche, transistor, giocattoli, lacche,
ceramiche; negozi cinesi di curiosità, anticaglie, porcellane, bric a brac,
ricordi; negozi americani di camiciotti a scacchi, giacche a vento, blue
jeans, mocassini; negozi francesi di profumeria, di articoli di moda
parigina; negozi malesi, filippini, tedeschi, persiani, arabi; negozi di ogni
genere e qualità. E inframmezzati ai negozi, ristoranti cinesi, europei,
giapponesi, coreani, polinesiani, bar di tutte le grandezze e fogge, night club
sotterranei, case da tè, botteghe di cambiavalute, sale di spogliarelli,
cinema, stanzoni coi flippers. E ai primi piani e anche più su bagni turchi,
massaggi, case di bellezza, parrucchierie, studi fotografici e, naturalmente,
presenti anche se invisibili, case di appuntamenti, le mitologiche maìsons
de rendezvous illustrate da Robbe Grillet in un suo cinematografico
romanzo. E qua e là agenzie di viaggi, di turismo, di navigazione aerea e
marittima, di importazioni ed esportazioni. E ancora: esposizioni di
rappresentanti di motoscafi, di automobili, di biciclette, di motociclette, di
macchine da cucire, di macchine da scrivere; nonché vetrine di vasellami, di
elettrodomestici di ogni genere, di ferramenta, di utensili casalinghi, di ferri
per sale operatorie, di tabacchi, di dolciumi. E ogni tanto, immensi
magazzini, dove si vende di tutto, a più piani, con le scale e i banchi di
vendita e la folla visibili dietro i vetri dei finestroni. L'elenco potrebbe
continuare, anzi dovrebbe continuare perché soltanto una descrizione in
forma di catalogo può comunicare il sentimento che si prova passeggiando
per le strade di Hong Kong: un sentimento, a dirla in breve, di trovarsi in
una città nella quale non ci siano che cose da vendere e da comprare, non ci
siano che venditori e compratori. Ora appunto, il catalogo commerciale di
più di mille pagine in carta sottile, con le liste delle merci seguite dal prezzo
e commentate brevemente in maniera elogiativa, il catalogo è veramente la
sola composizione, diciamo così, letteraria, che possa fornire un'immagine
adeguata di Hong Kong. A questa atmosfera si adegua perfino l'austera
Repubblica Popolare Cinese. Ecco infatti un grandissimo emporio di dieci
piani, il quale espone nelle vetrine modesti manufatti della Cina comunista
e immensi ritratti di Mao. Se è vero che Hong Kong è una sfida capitalista
al comunismo cinese, allora è anche vero che in questo magazzino, la Cina
di Mao sfida se stessa. Gli estremi, poi, di questa unica alternativa della
vendita e dell'acquisto, sono rappresentati dai marines americani e dalle
piccole prostitute infantili, forse davvero delle bambine, in tunica chiusa,
con il collettino duro stile Sciangai 1930, minigonna con lo spacco fino
all'anca, faccia malamente infarinata, bocca sanguinosa, innocenti e obliqui
occhi bistrati. Esse sono le pure venditrici, perché vendono se stesse. E i
giganteschi marines dalle spalle enormi, dalle piccole teste rasate,
dall'andatura dondolante, sono i puri compratori che comprano di tutto.
Talvolta i due estremi si toccano, in attesa di abbracciarsi addirittura in
chissà quale lurido albergo con le stanze a ore. E allora vediamo la bambina
tutta contenta di essersi venduta camminare in fretta tirando per il braccio il
colosso americano anche lui apparentemente assai contento di averla
comprata. Ma il più delle volte l'occhio non distingue niente di preciso,
nessun aneddoto, nessun evento particolare. In quest'atmosfera, più che
altro siamo storditi, abbagliati, dal brulichio delirante delle offerte, degli
inviti, dei richiami, degli adescamenti e delle lusinghe del consumo. È la
stessa atmosfera di certi quartieri commerciali di Nuova York, di Londra e
di Parigi; ma qui non c'è che il commercio; con una carica di violenza e di
ossessione che in quelle città non si avverte.
A questo punto bisogna pur dire che non tutte le situazioni di contrasto
sono situazioni di sfida. Non è vero, per esempio, che le nazioni con regime
comunista siano "sempre" ostili a quello con regime capitalista. È vero,
bensì, che ci sono certe nazioni comuniste che per motivi spesso estranei
alla ideologia politica sono ostili a certe nazioni capitaliste. Quanto dire che
la coesistenza è possibile; e che l'ostilità non è dovuta all'impossibilità della
coesistenza. Per esempio c'è senza dubbio contrasto di regimi tra Italia e
Jugoslavia; ma non c'è sfida. Invece, come ho già detto, c'è sfida tra Hong
Kong e la Cina di Mao o meglio tra la Cina di Mao e il mondo intero. Ora
accade che proprio a Hong Kong la sfida tra il mondo e la Cina di Mao
abbia un carattere più intransigente che altrove.
In che cosa consiste dunque questa sfida? Diremmo che consiste proprio
nel fatto che le due situazioni a contrasto sono al tempo stesso tipiche ed
estreme. Hong Kong ha tutti i caratteri del capitalismo e neppure uno solo
di quelli che talvolta il capitalismo condivide col comunismo. Dal canto suo
la Cina di Mao ha tutti i caratteri propri del comunismo e neppure uno solo
di quelli che talvolta il comunismo condivide con il capitalismo. A Hong
Kong infatti mancano completamente le correzioni tradizionali
dell'astrazione capitalista: la terra e i contadini, la nazione e la cultura
nazionale, la religione e la tradizione religiosa. Hong Kong è un esempio
spietato di ciò che può il denaro da solo, cioè il puro consumo, senza altra
giustificazione che il profitto. D'altra parte la Cina di Mao non ha corretto
finora né sembra disposta a correggere l'astrazione comunista con le
concessioni (da lei richiamate revisionismo) anch'esse ormai abituali in altri
paesi comunisti, alla libertà, al benessere individuali. Anzi la Rivoluzione
Culturale ha confermato ed aggravato la mancanza assoluta di simili
correzioni. Così mentre ad Hong Kong si vive per il profitto e per il
consumo; nella Cina di Mao consumo e profitto sono stati il primo ridotto al
puro necessario e il secondo abolito. Si tratta di due sfide, dunque, estreme,
come abbiamo detto; e al tempo stesso, in certo modo, più biologiche che
politico-economiche. Al livello della lotta per la vita, tutto diventa
essenziale ed estremo. E soprattutto, non c'è più alcuna possibilità di
compromesso; anche quando, com'è il caso tra Hong Kong e la Cina di
Mao, il compromesso temporaneamente sia tenuto in piedi da ambo le parti.
DAVVERO, LI' SONO I COMUNISTI?