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ALBERTO MORAVIA

LA RIVOLUZIONE CULTURALE IN CINA


(1967)

ovvero
Il Convitato di pietra
1967 Casa editrice Valentino Bompiani
Via Pisacane,26 Milano
La Rivoluzione Culturale cinese è forse il più importante avvenimento
politico che si sia verificato nel mondo comunista dopo la destalinizzazione.
Ha riempito le pagine dei giornali, è arrivata nel modo più provocatorio
persino nelle nostre edicole (con le traduzioni del libretto dei pensieri di
Mao) e nei nostri porti, con gli striscioni delle navi cinesi all'ancora. Eppure
si può dire che sic uno dei fenomeni contemporanei più oscuri, più difficili
da interpretare anche per gli esperti di politica. Forse perché le notizie
scritte, i commenti, i tentativi di sistemazione dottrinale ci danno, della
rivoluzione culturale, solo l'aspetto ideologico, mentre essa ha un altro
aspetto, non meno importante: quello «visivo». Questa è l'idea che ha
mosso Alberto Moravia nel suo viaggio in Cina: egli è andato in Cina
perché intuiva l'importanza di vedere con i propri occhi la Rivoluzione
Culturale in atto, di confrontarsi di persona con la nuova «realtà Cina»:
quella Cina che - dice Moravia - «oggi è per me un'utopia realizzata, forse
involontariamente, forse casualmente, non import È realizzata e io la
prendo come esempio per mio ragionamento».
Alcuni di questi articoli sono apparsi sul «Corriere della Sera». Più della
metà del libro è inedita, ivi compresa l’introduzione.
n.d.a.
INTRODUZIONE

B: E così sei stato in Cina?


A: Sì, sono stato in Cina.
B: Che cos'è che ti ha fatto maggiore impressione in Cina?
A: La povertà.
B: La povertà?
A: Sì, la povertà.
B: Sono poveri i cinesi?
A: Secondo l'idea occidentale di benessere, poverissimi.
B: Che impressione ti ha fatto la loro povertà?
A: Di sollievo.
B: Diavolo, la povertà, che io sappia, vuol dire degradazione e
frustrazione. E tu hai invece provato sollievo. Come mai?
A: L'ho provato, di questo sono sicuro: sui sentimenti non ci si può
sbagliare. L'ho provato per tutto il tempo che sono stato in Cina. Ma tu mi
domandi perché l'ho provato. Non ci avevo ancora pensato. Cercherò
adesso di pensarci e di darti una risposta.
B: In Occidente la povertà non ispira sollievo, al contrario. Ispira senso di
oppressione e volontà di rivolta. Guarda per esempio i negri d'America che
bruciano i loro ghetti.
A: Agli Stati Uniti ci sono i poveri e ci sono i ricchi. I poveri sono poveri
perché ci sono i ricchi; e i ricchi sono ricchi perché ci sono i poveri. In Cina
non ci sono che i poveri.
B: Ho capito. In Cina tutti sono poveri. Avrei dovuto pensarlo.
A: Sì, tutti. Ma chiamarli poveri è improprio. Bisognerebbe chiamarli in
maniera diversa.
B: Per esempio?
A: Per esempio, non so. Non esiste ancora la parola che sta a indicare un
povero in sé e per sé, senza il paragone del ricco.
B: Ma insomma che cos'è la povertà cinese, allora?
A: Direi che è una povertà senza ricchezza. Cioè, a ben guardare, la
condizione normale dell'uomo.
B: Spiegati meglio.
A: Eppure è semplice. L'uomo nasce sfornito di tutto, ignudo come le
fiere della foresta. Nascendo l'uomo non è ancora uomo. Per diventarlo
deve provvedersi delle cose che fanno sì che un uomo sia un uomo. In altri
termini, del necessario per cui l'uomo si distingue dall'animale. E questo
perché l'uomo è quasi per intero un animale come tutti gli altri, a tal punto
che spesso ci si domanda se valeva la pena che diventasse uomo. Ma tant'è:
l'uomo ha voluto diventare uomo. Ora il necessario per diventare uomo sta
nei limiti della povertà, anzi è la povertà stessa, né più né meno. Al di là di
questo limite comincia la ricchezza, cioè la superfluità. Ma la povertà è la
condizione normale dell'uomo perché la ricchezza che è superfluità non lo
rende più uomo di quanto non faccia appunto la povertà.
B: Essere ricco sarebbe dunque, secondo te, una condizione anormale per
l'uomo?
A: Anormale, perciò disumana.
B: In che consiste questa disumanità?
A: Consiste nell'attribuire una funzione espressiva a tutto ciò che è
superfluo.
B: Il superfluo non è espressivo?
A: Ovviamente, no. Altrimenti non sarebbe superfluo.
B: Dimmi quand'è che l'uomo oltrepassa il necessario cioè l'umano e
sconfina nel superfluo, cioè nel disumano.
A: Ricorriamo di nuovo alla Cina. I cinesi, a giudicare da quello che si
vede per le strade, hanno il necessario ma non il superfluo, almeno per ora.
Sono poveri, l'ho già detto; ma nessuno potrebbe mettere in dubbio che la
loro umanità sia completa, cioè che le manchi qualche cosa che potrebbe
essere ottenuto attraverso la ricchezza, cioè il superfluo. Sono stato in Cina
trent'anni or sono. Allora c'erano cinesi poveri che disponevano appena del
necessario e cinesi ricchi che vivevano nel superfluo. I primi erano
degradati e i secondi disumani. Appena i ricchi e il loro superfluo sono
scomparsi, i poveri sono subito ridiventati umani pur disponendo tuttora
soltanto del necessario.
B: Eppure l'abbondanza ha qualche cosa di festoso, di allegro, di vitale. Il
tuo necessario sarà umano, non dico di no, ma è triste.
A: Nel mondo moderno non c'è l'abbondanza, c'è la produzione la quale
non è né festosa, né allegra, né vitale.
B: Che differenza passa tra l'abbondanza e la produzione?
A: L'abbondanza è un dono della natura che non costa né fatica, né
denaro, né tempo. Essa non è destinata al consumo ma all'immaginazione.
Invece la produzione costa fatica, tempo e denaro e perciò non è mai
abbondante. È semplicemente iterativa, cioè consiste nella moltiplicazione
di un prodotto unico per il fine di un maggior consumo.
B: Sarà. Ma ammetterai che i cinesi, se gli andassi a dire che la loro
povertà è la condizione normale dell'uomo, potrebbero anche protestare.
Probabilmente la maggior parte dei cinesi desiderano essere meno poveri
oppure, sempre nei limiti e coi mezzi del comunismo, addirittura ricchi.
A: Forse hai ragione. Ma io parlo della Cina così com'è adesso,
formulando l'ipotesi certamente arrischiata che non cambi. In altri termini la
Cina oggi è per me un'utopia realizzata, forse involontariamente, forse
casualmente, non importa. È realizzata e io la prendo come esempio per il
mio ragionamento. Poi, forse, la Cina diventerà un paese come tutti gli altri,
inclusi i paesi comunisti di osservanza sovietica, nei quali ci sono i poveri
perché ci sono i ricchi e viceversa. Ma per ora, oggi, la Cina è un paese
povero senza ricchi, cioè un paese nel quale povertà è sinonimo di
normalità.
B: Ho capito. Dunque la produzione e il consumo al di là del necessario
sono disumani. Ma chi deciderà che cos'è necessario all'uomo e che cosa
non lo è?
A: L'uomo stesso ossia il senso comune.
B: Ci sono stati periodi storici nei quali per essere uomini occorreva
soprattutto possedere, ostentare il superfluo. Per esempio il Rinascimento.
Che ne dici?
A: Dico che i periodi storici non m'interessano affatto, come non
m'interessa la storia in generale. Ciò che m'interessa è il presente.
B: Parliamo, dunque, del presente. Ripeto: chi deciderà dove cessa il
necessario ossia l'umano e il normale e comincia il superfluo ossia il
disumano e l'anormale?
A: Te l'ho già detto. Il senso comune.
B: Hai una grande fiducia nel senso comune.
A: Sì, credo nel senso comune della gente comune. Il quale, per quanto
riguarda le cose del mondo, non è tanto fatto di intelligenza quanto... come
dire? di appetito e di disappetenza, di divertimento e di noia, di desiderio e
di appagamento e così via. La gente comune, dotata di senso comune, un
giorno si annoierà di essere disumana o meglio di venire continuamente
disumanizzata dalla ricchezza. Allora se ne libererà, anche se i filosofi e i
produttori del superfluo le giureranno che ha torto.
B: Come funzionerà il senso comune di fronte alla ricchezza. Cioè come
farà il senso comune a liberarsi della ricchezza?
A: Il senso comune di fronte alla ricchezza funzionerà, in certo modo,
automaticamente: giunta al massimo della disumanità, l'umanità desidererà
e otterrà di diventare povera.
B: Automaticamente? Gli automatismi dell'umanità in realtà son processi
lunghi, tortuosi, difficili, dispendiosi.
A: Sarà un processo umano. L'uomo è lento.
B: E cosa farà l'umanità per tornare ad essere povera, dopo essere stata
ricca?
A: Non farà nulla.
B: Che vuol dire questo?
A: Vuol dire che non consumerà e, dunque, non produrrà che il
necessario.
B: Ma l'uomo ama produrre e ama consumare.
A: Quale uomo?
B: L'uomo, così, in generale.
A: Dell'uomo, così, in generale non so nulla. L'uomo di oggi, lui sì, ama,
come tu dici, produrre e consumare. Ma l'uomo di domani potrebbe essere
completamente diverso.
B: Veniamo al concreto. Parliamo di ricchezza e di povertà reali, come si
possono vedere oggi nel mondo. Dov'è oggi la povertà più umana?
A: Secondo me, in Cina. Ma in Cina adesso, in questo preciso momento,
intendiamoci. Non è sicuro che la Cina voglia o possa trasformare in realtà
duratura l'utopia che oggi, provvisoriamente, incarna e rappresenta. Ossia
non è affatto sicuro che la condizione cinese sia domani simile a quella di
oggi. Le utopie per cessare di essere utopie e diventare realtà hanno bisogno
di durare.
B: E ora dimmi dov'è oggi la ricchezza più disumana?
A: Secondo me, oggi, in Occidente.
B: Andiamo per ordine. Prima di tutto parliamo della Cina. Mettiamo che
l'utopia, come tu la chiami, della povertà, diventi permanente cioè si
trasformi, secondo le tue stesse parole, in realtà duratura. Come faranno i
cinesi per ottenere questo risultato?
A: Dovrebbero semplicemente continuare a fare quello che fanno oggi.
B: Ma tu sai benissimo che i cinesi debbono trasformare la Cina da paese
contadino in paese industriale. La loro povertà, dunque, non è che il
normale effetto dell'investimento di capitale che è necessario per portare a
termine la rivoluzione industriale.
A: Lo so. I cinesi fanno oggi quello che i russi hanno fatto quarant'anni or
sono e l'Occidente un secolo fa.
B: Ora, mettiamo che la rivoluzione industriale sia mandata ad effetto;
che si accumulino margini di profitto sempre più larghi; che gli investimenti
diventino sempre meno necessari. Che ne faranno allora i cinesi di questo
capitale che tuttavia continuerà ad accumularsi? Dovranno pure elevare i
salari e creare un'industria leggera, di consumo, per permettere di spendere
il denaro dei salari. E così, ecco la Cina diventare un paese come tutti gli
altri cioè ricco.
A: Sì, è vero, ma tu dimentichi che abbiamo parlato di utopia. In Cina c'è
un'utopia o meglio c'è un tentativo di trasformare l'utopia in storia. L'utopia
porta ovviamente a soluzioni utopistiche.
B: Sarei proprio curioso di sapere quali soluzioni utopistiche adotterebbe
la Cina per restare povera pur essendo ricca.
A: L'utopia deve diventare prima di tutto coscienza. Una volta creata
questa coscienza, la soluzione sarà di far risentire la ricchezza come
peccato, come colpa, come delitto.
B: Ci si è provato il cristianesimo, senza ottenere, direi, risultati troppo
confortanti.
A: Intanto il cristianesimo era riuscito ad innalzare "per alcuni secoli" la
povertà a condizione ideale. Questo, anche oggi, sarebbe un risultato
apprezzabile. Perché tu devi ricordare che io non parlo di queste cose in
assoluto ma relativamente, non fuori del tempo e dello spazio, ma in
rapporto al tempo ed al mondo in cui ci troviamo a vivere. Tuttavia debbo
riconoscere che il segno del fallimento è iscritto in anticipo nell'aggettivo
"ideale" che definisce la condizione proposta dal cristianesimo. No, questa
volta non ci si dovrà limitare ad esaltare la povertà come "condizione
ideale". Essa dovrà essere invece la sola, la reale, la normale condizione
dell'uomo.
B: E in che modo, tutto questo?
A: Per la prima volta nella sua storia in fondo troppo breve, l'umanità
avrà la possibilità di essere tutta ricca, di gioire tutta quanta del superfluo.
Non più in parte ma tutta intera, l'umanità questa volta saprà che cosa vuol
dire essere ricchi. E dunque quando l'umanità tutta intera abbia
sperimentato la disumanità della ricchezza, con altrettanta unanimità
desidererà essere povera.
B: Ammettiamolo un momento. Benché, almeno per ora, due terzi
dell'umanità non soltanto sono lontani dalla ricchezza ma sono così poveri
da non avere di che nutrirsi a sufficienza. Ammettiamolo. Dunque la
ricchezza sarà considerata un peccato, una colpa, un delitto. Ma la ricchezza
pur ci sarà, sia pure nelle casse degli Stati. Che se ne farà allora?
A: Ci ho pensato. Hai mai sentito parlare dei Faraoni?
B: Che c'entrano i Faraoni adesso?
A: Ti sei mai domandato perché le Piramidi sono così grandi e hanno
costato tanto tempo, tanto lavoro, tanto denaro?
B: Sentiamo, perché?
A: Perché, secondo me, bisognava far sì che l'uomo non possedesse che il
necessario. Tutto il resto andava distrutto. La Piramide, in tempo di pace, è
quello che è la guerra in tempo di guerra. Qualche cosa che serve a
distruggere la ricchezza e a mantenere l'uomo in povertà.
B: Ma dove sono le nostre Piramidi?
A: Le nostre Piramidi sono i progetti scientifici per conquistare Marte o
Venere o la Luna; per viaggiare attraverso gli spazi del cosmo. Questi
progetti scientifici, a causa del loro costo smisurato, dell'immensa quantità
di uomini che impegnano, dell'enorme travaglio che richiedono, sono
l'equivalente esatto delle Piramidi. Del resto, la Piramide non era il
capriccio assurdo di una teocrazia despotica. Era il pernio il centro di una
civiltà completa. Allo stesso modo che lo sono oggi i nostri voli
interplanetari.
B: Ma gli Stati Uniti, tanto per fare un esempio, fanno la guerra, hanno
nello stesso tempo le loro piramidi cioè i progetti di conquista
interplanetaria e ciononostante sono ricchi.
A: Gli Stati Uniti sono "provvisoriamente" ricchi; come la Cina è
"provvisoriamente" povera. E come la Cina mi è servita, così com'è oggi,
per dare un esempio di umanità povera cioè normale e umana, così adesso
mi servirò degli Stati Uniti per fornire un esempio di umanità ricca cioè
anormale e disumana.
B: Gli Stati Uniti o, in generale, l'Occidente?
A: Gli Stati Uniti come paese tipico dell'Occidente. In realtà, l'Occidente.
B: Tu pensi che l'Occidente non sarà sempre ricco?
A: Certamente, no. Esso sta facendo, anzi, tutto il necessario per
diventare povero. Ma lasciamo stare il futuro. Teniamoci al presente.
Vediamo perché la ricchezza è disumana e anormale.
B: Vediamolo pure.
A: Prendiamo un individuo qualsiasi che voglia diventare ricco attraverso
l'invenzione di un oggetto nuovo e assolutamente superfluo. Per esempio
una scarpa che emette una musica ad ogni passo mentre si cammina. Che
farà l'inventore di una simile scarpa, per fabbricare in serie e mettere in
vendita per il compratore di massa il suo prodotto?
B: Ma, non so, probabilmente della pubblicità.
A: Già, della pubblicità. Cioè creerà il bisogno della scarpa musicale; un
bisogno che, notiamolo, non esisteva affatto prima che la suddetta scarpa
fosse messa in vendita. Nessun produttore, però, dirà mai: "Vi vendo
qualche cosa di cui non avete bisogno." Dirà sempre: "Vi vendo qualche
cosa di cui non potete fare a meno." Ora, questa trasformazione del
superfluo in necessario, è ciò che propriamente crea il cosiddetto
consumatore.
B: Ci sono dovunque dei consumatori. Anche il cinese, quando fa
l'acquisto di un paio di pantaloni, è un consumatore.
A: No, non è un consumatore; è un uomo che acquista un indumento
necessario secondo una certa idea che egli si fa dell'uomo. Un indumento
per coprirsi le gambe, il ventre, il sedere e così via. Invece il consumatore è
un budello.
B: Eh, che dici?
A: Dico che il consumatore è un budello. Cioè un individuo simile a
quegli organismi semplicissimi che hanno soltanto la bocca, l'intestino e
l'ano. Questi organismi non fanno che ingerire, digerire ed espellere.
B: Ma anche il cinese compratore dei pantaloni è un budello, almeno per
quanto riguarda la produzione dei pantaloni.
A: C'è una differenza. Il consumatore è un budello non tanto perché
consuma quanto perché è convinto, come quei tali semplicissimi organismi,
che la sua funzione è consumare. Il cinese, poveretto, compra invece i
pantaloni, per non restare nudo. Il consumatore, insomma, è disponibile per
qualsiasi consumo, come è disponibile, appunto, il lombrico riguardo
qualsiasi qualità di terra da far passare per il tubo del suo intestino.
B: Questo sarebbe il consumatore? Un verme?
A: Se le parole budello e lombrico ti danno fastidio, per quel tanto o poco
di moralistico che sembrano contenere, diciamo pure che il consumatore
non è che l'anello di congiunzione tra la produzione e il consumo. Anello
umano ma pur sempre non più che anello. Altresì il produttore è l'anello di
congiunzione tra il consumo e la produzione. Produttore e consumatore
infine stanno a rappresentare l'uno l'estremità anteriore, l'altro l'estremità
posteriore del già citato lombrico.
B: Produttore e consumatore e nient'altro? Non medico, artista, operaio,
contadino? Nient'altro che produttore e consumatore?
A: Sotto la parola produzione e sotto la parola consumo vanno messi tutti
i prodotti e i loro smerci, anche i più raffinati e stravaganti.
B: Di modo che l'uomo occidentale non pensa che a produrre e
consumare?
A: Eh già.
B: E a se stesso non pensa?
A: Questo se stesso di cui parli, non esiste. O meglio esiste soltanto nei
due momenti alterni della produzione e del consumo. Ma poiché, in fondo,
il consumo è ciò che caratterizza davvero il consumatore (il produttore che
non consuma non esiste, altrimenti morirebbe di fame; ma il consumatore
che non produce esiste e come, in tutti i paesi sia capitalisti sia comunisti)
diciamo pure che il fine della civiltà moderna è il consumo cioè lo sterco.
B: Lo sterco?
A: Lo sterco. Cioè l'espulsione dal corpo di tutto ciò che rimane dopo la
digestione. Si consuma più che si può e la maggior varietà di cose che si
può: il consumatore ha per ideale il consumo e si sforza di essere alla pari
con il suo ideale. Ma l'ultimo risultato è l'escremento. La civiltà del
consumo è stercoraria. La quantità dello sterco emesso dal consumatore è in
effetti la prova migliore che il consumatore ha consumato.
B: Va bene, è una metafora, e per giunta di dubbio gusto. Resta da
dimostrare che essa possa essere estesa al di là del suo significato letterale.
Non ci sono soltanto gli alimenti in questo mondo.
A: La metafora è valida anche per tutto ciò che non è propriamente
alimento ma è tuttavia consumato. Prima di tutto per la produzione
industriale in genere.
B: E cioè?
A: Nelle città moderne la produzione e il consumo cioè l'alimento
industriale e l'escremento che ne è il residuo sono sempre vicini, come nelle
case moderne la cucina è spesso adiacente al cesso. Va' nei sobborghi, fuori
del centro; vedrai le fabbriche coi loro capannoni e i loro altiforni dove si
produce; e non lontano dalle fabbriche, i terreni brulli dove vengono
scaricate le immondizie, i detriti, i rottami. La città ha consumato il
prodotto, l'ha digerito, ne ha defecato i residui.
B: Non c'è soltanto la produzione industriale in una grande città moderna.
Ci sono tante cose, per esempio la cultura.
A: Certo che c'è la cultura. Librerie, giornalai, cinema, televisori, radio.
Libri condensati, riviste illustrate libri tascabili, enciclopedie, antologie,
divulgazioni, traduzioni. Ma questa cultura è consumata nello stesso modo
che sono consumati i prodotti industriali. Essa è ingerita, digerita ed espulsa
in forma di immensa escrementizia quantità di luoghi comuni. Gli onnivori
consumatori della cultura non si nutrono di cultura ma la consumano,
rimanendo, per così dire, in senso culturale, perpetuamente denutriti. Il
consumo culturale non produce che sterco culturale, niente altro.
B: Ma non ti sembra che tutto questo sia un po', come dire? schematico?
A: Lo è, certamente. Ma così è pure il mondo moderno della produzione e
del consumo. Dietro una apparente varietà di aspetti, si nasconde una sola
idea o meglio un solo movente.
B: Che cos'è? L'idea del profitto?
A: No, non è l'idea del profitto. È qualche cosa di diverso. Un'idea o
meglio un movente nuovo, che un tempo non esisteva.
B: Mi fai venire la curiosità. Che cos'è?
A: In una circolazione rapidissima di denaro com'è quella che
accompagna il ciclo produzione-consumo, il profitto passa in secondo
piano, non è più un fine ma soltanto un mezzo per assicurare la continuità
del ciclo. No, non è il profitto che sta all'origine della macchina stercoraria
dell'industria di consumo, ma qualche altra cosa.
B: Che cosa?
A: E difficile a definirsi. Si potrebbe chiamarla volontà di potenza; in
realtà si va più vicino al vero definendola paura dell'impotenza. La potenza
che cos'è nella civiltà industriale? È la facoltà produttiva; cioè, in fondo una
scimmiottatura della natura. La natura è potente in quanto produce senza
tregua e sterminatamente; l'uomo naturale è potente in quanto è prolifico. E
dunque la potenza, nella civiltà della produzione e del consumo, consisterà,
appunto, nel produrre più che sia possibile. In questo senso il processo
produttivo passa avanti a quello del consumo. Però è evidente che senza il
consumo non ci sarebbe la produzione.
B: Che vuol dir questo? Che la civiltà industriale gareggia con la natura?
A: Sì, è proprio questo che voglio dire. La paura dell'impotenza, il
compiacimento della potenza che spingono un fabbricante di automobili a
produrre un sempre maggior numero di macchine, hanno, all'origine, lo
stesso cieco impulso creativo il quale fa sì che ogni anno una sardina
deponga milioni di uova cioè metta al mondo milioni di possibili sardine
Per fortuna le uova vengono consumate da altri pesci i quali a loro volta ne
depongono anch'essi altri milioni per il consumo di altri pesci ancora e così
via. La civiltà industriale è una copia esatta di questo incessante processo
produttivo della natura. E come la natura, essa mira a mettersi fuori del
tempo cioè della misura di durata della vita umana, con una perpetua
alternanza di produzione e di consumo che è in fondo l'equivalente
dell'eternità naturale. Ma c'è una differenza tra l'eternità industriale e quella
naturale.
B: Quale?
A: La natura non sa quello che fa e forse, appunto per questo, lo fa bene.
La civiltà industriale, invece, ha un attimo, un attimo solo di
consapevolezza e tanto basta per farle perdere la gara con la natura.
B: E qual è quest'attimo di consapevolezza?
A: È l'attimo nel quale l'uomo, anello indispensabile tra la produzione e il
consumo, vede se stesso. Ossia si contempla. E allora rifiuta l'eternità che
l'industria gli propone.
B: Il consumatore è capace di questo?
A: Il consumatore è anche un uomo, dopo tutto. Dell'uomo, ha in qualche
modo la capacità contemplativa. Egli si vede... e allora si rende conto che,
mentre è giusto che la natura produca e consumi per l'eternità, l'umanità
invece non è tenuta né a produrre né a consumare illimitatamente bensì ad
esprimersi dentro limiti, da lei stessa stabiliti, di tempo e di spazio.
B: Questa sarebbe la differenza tra la natura e l'umanità? L'una produce e
consuma, e l'altra si esprime?
A: Sì, così penso che sia.
B: Ma non ci si può esprimere appunto producendo e consumando e
basta?
A: Abbiamo già detto che la civiltà industriale è stercoraria, cioè che il
suo fine non può non essere l'escremento. Ora che cosa fa l'uomo
defecando? Si esprime, forse?
B: No, non direi. Si alleggerisce, semmai.
A: Giusto, si alleggerisce. Cioè, si mette in condizione di consumare di
nuovo. Quest'alleggerimento, appunto, è l'atto della defecazione. Ma si dà il
caso che l'uomo produca e consumi troppo, ossia si prenda un'indigestione.
Allora abbiamo la purga. Cioè la guerra. Nel ciclo produzione consumo, la
guerra sembra indispensabile e inevitabile per alleviare le costipazioni
periodiche della società produttrice e consumatrice. Durante la guerra,
infatti, il consumatore normale del tempo di pace è sostituito dal soldato,
cioè da un consumatore eccezionale per intensità, quantità, rapidità e
varietà. Si consuma in guerra in un giorno più di quanto si consuma in un
anno in tempo di pace. Da ultimo, il soldato, non contento di consumare
beni e ricchezze, consuma vite umane, primi di tutto quelle dei suoi nemici
poi la propria. Sì, perché non bisogna dimenticare che il produttore
consumatore per essere davvero tale, deve anche e soprattutto essere
prolifico e dunque omicida. Senza sovrapopolazione niente produzione in
serie, senza produzione in serie niente sovraproduzione e senza
sovraproduzione niente guerra. L'omicidio non è che l'altra faccia della
prolificità.
B: La guerra sarebbe dunque un consumo di uomini, prim'ancora che di
beni.
A: Eh già. L'hanno anche chiamata infanticidio ritardato. Ma la guerra, in
realtà, è soprattutto consumo di uomini, mandato ad effetto con diversi
mezzi dalla baionetta alla bomba atomica. Naturalmente la baionetta è
inadeguata alla sovrapopolazione del mondo moderno e allora abbiamo la
bomba atomica. Ma non c'è differenza sostanziale tra le due armi; soltanto
di capacità consumatrice. La bomba, del resto, è legata alla
sovrapopolazione come la sovrapopolazione è legata alla bomba. Voglio
dire che se non ci fosse la sovrapopolazione, non ci sarebbe la bomba, cioè
non sarebbe stata inventata, in quanto non ce ne sarebbe stato bisogno. La
bomba nasce nel momento in cui ci sono metropoli di cinque, di dieci
milioni di abitanti, non prima. Tra la sovrapopolazione e la bomba c'è,
insomma, come dire? una simpatia, quasi una reciproca attrazione. Le
grandi metropoli del mondo stanno lì ad offrire la maggiore produzione di
uomini che ci sia mai stata nella storia. E la bomba sta lì anch'essa, sola
consumatrice possibile per una produzione così gigantesca. Sembra
inevitabile che, ad un certo momento, produzione e consumo si incontrino e
risolvano insieme, d'amore e d'accordo, i loro problemi. La bomba, in
fondo, è maltusiana. Malthus aveva preveduto la carestia come correttivo
della sovrapopolazione. Invece è venuta la bomba. Ma Malthus ragionava
in termini di civiltà preindustriale; non prevedeva che ben presto l'uomo
avrebbe cessato di essere il centro del mondo, sarebbe diventato, come
abbiamo già detto, nient'altro che un anello di congiunzione tra il processo
produttivo e quello del consumo. Oggi riconoscerebbe, credo, volentieri,
che, come consumatrice, la bomba è di gran lunga preferibile alla fame.
B: Scusami, ma a questo punto, c'è qualche cosa che non capisco.
L'uomo, direi, è comunque prolifico. Lo è nelle civiltà umanistiche basate
sull'uomo come nella civiltà moderna basata sulla produzione e sul
consumo. Tu dici giustamente che se non ci fosse la prolificità non ci
sarebbe l'industria dei prodotti in serie e, dunque, il ciclo incessante e
ossessivo della produzione e del consumo. Ma l'uomo e sempre stato un
produttore e conseguentemente un consumatore di uomini. Anche quando
non era ancora un produttore e un consumatore di merci fabbricate in serie.
A: La pressione demografica nel mondo antico non era simile a quella del
mondo moderno. Essa si svolgeva infatti tutta quanta a livello naturale,
come quella degli animali. Ad una produzione eccezionale di uomini era la
natura, non l'uomo, che metteva riparo con consumi altrettanto eccezionali
ossia con le carestie e le epidemie. Anche le guerre erano una conseguenza,
per così dire, naturale delle carestie e delle epidemie. Nel mondo moderno,
invece, tutto quanto avviene a livello industriale, anche la prolificità
dell'uomo. C'è, mi pare, un rapporto strettissimo oggi tra la pressione
demografica, ossia il fatto che l'uomo è un produttore di uomini oltre che di
merci e l'industria dei medicinali e l'organizzazione ospedaliera. La
produzione degli uomini, però, non avviene tanto nell'intimità buia e cieca
del letto coniugale quanto più tardi, tra i camici bianchi dei medici e degli
infermieri, nelle stanze delle cliniche, nelle sale operatorie. È in quei luoghi
così simili per la loro meccanica perfezione a fabbriche efficienti, che
l'uomo diventa produttore di uomini; non a casa, nel proprio letto. È infatti
in quei luoghi che si salvano dalla morte a cui la natura ingiusta e provvida
forse li aveva predestinati, i futuri consumatori, i futuri produttori. Le
cliniche sfornano uomini come le fabbriche sfornano scatolame o
automobili.
B: Così tu ritieni che l'uomo moderno è ormai, fatalmente, soltanto un
produttore e un consumatore di beni e di uomini?
A: Sì.
B: Mi sembra di capire, dal modo col quale ti esprimi, che questo non ti
piace, non è così?
A: Sì.
B: Allora quale soluzione proponi?
A: Non vedo che una soluzione. La sola del resto che dipenda
direttamente dall'uomo.
B: Qual'è?
A: La castità.
B: La castità? Una soluzione un po' drastica, non ti pare?
A: Sì, la castità. La povertà e la castità, a ben guardare sono le due
condizioni normali dell'uomo o perlomeno dovrebbero esserlo, oggi e in
questo mondo. In quanto oggi e in questo mondo non vedo come l'uomo
possa cessare di essere un produttore-consumatore se non attraverso la
povertà e la castità.
B: Se ben capisco: l'uomo povero non consuma e dunque non ha bisogno
di produrre. L'uomo casto, dal canto suo, non mette al mondo dei figli e
dunque, in ultima analisi, svuota la civiltà del consumo del suo contenuto
specifico cioè della necessità di soddisfare i bisogni delle masse. Niente
figli, niente masse, niente masse, niente produzione e consumo. Giusto.
Anche troppo giusto.
A: Tu mi hai compreso a meraviglia. Nota, inoltre, la somiglianza tra il
processo che porta alla sovraproduzione e quello che porta alla
sovrapopolazione. Sostituisci alla macchina utensile madre di parti di
macchine, l'amplesso anch'esso meccanico della coppia umana in fondo al
suo letto e avrai il prodotto in serie fabbricato nello stessissimo modo.
Dov'è la differenza? Al buio, in uno stato di semicoscienza, tra la veglia e il
sonno, viene concepito un uomo; nello stesso momento in mille fabbriche,
in un fracasso assordante, si provvede a fabbricare, sempre in serie, per
quell'uomo or ora concepito, i mille prodotti che gli si faranno consumare
appena sarà nato, appena sarà un ragazzo, appena sarà adulto. Quest'uomo
d'altronde, presto, molto presto oltre che consumatore diventerà produttore.
Il cerchio si chiude. Ma fa sì che la produzione di uomini sia minore della
produzione di beni ed hai la sovraproduzione. Se invece lo scompenso è
inverso hai la sovrapopolazione. Soltanto la castità può spezzare questo
ciclo, abolire sovrapopolazione e sovraproduzione, con tutto il loro noioso
corteo di guerre, di carestie, di miseria Soltanto la castità e, naturalmente, la
povertà.
B: Tu dimentichi che quella coppia, da te descritta con tanta e così
ingiustificata antipatia, concependo quell'uomo predestinato a produrre e
consumare, fa tuttavia quella cosa sublime e oscura che è l'atto d'amore.
A: Perché parlare d'amore quando si tratta in realtà di un rapporto
meccanico? Il membro virile entra ed esce, come uno stantuffo, dentro e
fuori dal sesso femminile. Ad un certo grado di eccitazione provocato dallo
sfregamento, lo sperma si scarica e il bambino è concepito. Che ha, tutto
questo, a che fare con l'amore?
B: Quei due si amavano. Potevano amarsi. Che ne sappiamo?
A: L'amore non porta al rapporto sessuale, porta alla castità.
B: Non lo sapevo, è la prima volta che lo sento dire.
A: Oggi e qui, in questo mondo, beninteso. Del passato e del futuro non
m'importa e non m'interesso.
B: Spiegati, non ti capisco.
A: Oggi e qui, in questo mondo l'amore e il rapporto sessuale sono
estranei l'uno all'altro, anzi opposti e nemici. L'atto sessuale è diventato
nient'altro che produzione. L'amore invece... è l'amore. Ossia invenzione,
ricerca, illuminazione, divinazione, identificazione, immaginazione,
contemplazione. Tutto, insomma, fuorché produzione.
B: L'atto sessuale non è soltanto produzione come credi e vai ripetendo
fino alla noia. Più spesso; è compiuto dall'uomo e dalla donna per
procurarsi reciproco piacere. Ora l'erotismo è improduttivo; e in certi casi
può anche essere addirittura un modo di conoscenza.
A: Magari lo fosse. Certo lo è stato nel nostro passato arcaico, primitivo,
magico. Ma oggi non è che un'operazione produttiva amputata però del
prodotto. Voglio dire che oggi il piacere che l'uomo e la donna procurano
l'un l'altra non ha alcun fine conoscitivo. Tanto è vero che in fondo non
differisce che in apparenza dalla prostituzione la quale è chiaramente una
forma di consumo.
B: Peccato: ti avrei volentieri veduto fare un'eccezione per un erotismo
con ambizioni conoscitive. Comunque, quest'uomo povero e casto che tu
preconizzi è minacciato di rapida estinzione. Non produrre, non consumare,
non procreare... l'umanità, ben presto, scomparirà.
A: Io non dico che l'umanità debba scomparire; benché poi, oggi, non si
vedano troppo bene le ragioni per le quali dovrebbe continuare ad esistere.
Dico che dovrebbe, come dire? sgonfiarsi, ridursi, passare dalla attuale
condizione pletorica ad una dimensione essenziale. Del resto, giunta
sull'orlo della estinzione, l'umanità ritroverebbe facilmente, appunto grazie
a quello stesso amore che l'avrebbe quasi abolita, altri nuovi validi motivi
per moltiplicarsi daccapo. Le cose umane, come quelle della natura, non
procedono per progressione continua da causa ad effetto bensì per salti
qualitativi. Alla civiltà della sovrapopolazione e della sovraproduzione non
vedo alcun inconveniente che ne succeda un'altra con caratteri opposti.
B: Direi che qui cadi nel già detto. Tanti prima di te hanno proposto un
nuovo medioevo. Poi s'è visto che era soltanto il rovescio estetizzante e
decadente della civiltà industriale.
A: Perché rifarsi al passato? Niente medioevo. Semplicemente un mondo
fatto per gli uomini e non per i feticci.
B: Ma la tecnologia, oggi così importante, non sembra portare a questo
mondo nuovo. Al contrario.
A: La tecnologia oggi va incontro ai bisogni delle masse produttrici e
consumatrici. Ma domani potrebbe benissimo cambiare direzione, andare
incontro ai bisogni di gruppi umani scarsi, poveri e poco prolifici.
B: Che cosa? L'isola di Prospero nella Tempesta con il saggio mago
tecnologico e pochi uomini e donna belli, giovani e senza prole che
passeggiano per spiagge deserte, tra musiche celesti, voci arcane, spiriti
maliziosi e invisibili?
A: Non lo so. È già stato detto: delle cose di cui non si può parlare, è
meglio tacere.
B: Mi pare che ci siamo molto allontanati dalla Cina che è stata il punto
di partenza per questa nostra discussione. La quale dopo tutto non è che
un'introduzione ad un libretto sulla Rivoluzione Culturale. Dunque che
c'entra la Cina con tutto ciò? I cinesi sono poveri, questo sì, ma soltanto
provvisoriamente e involontariamente, come del resto tu hai riconosciuto.
Quanto, poi, alla castità essi non sono certamente casti, almeno al modo col
quale tu intendi questa parola, anche se non sono più affatto erotici, come si
dice che fossero una volta. Anzi tendono a moltiplicarsi, tanto è vero che lo
Stato li sconsiglia di sposarsi prima dei trent'anni. Che ne facciamo in
somma della Cina che è stato il pretesto per questa nostra discussione?
A: Non ne facciamo niente. Mi limito a ripetere che ho voluto spiegarti e
spiegare a me stesso il motivo del senso di sollievo che mi aveva procurato
lo spettacolo della povertà cinese. Questo è tutto. Che poi l'utopia della
Cina sia per durare sempre o sia provvisoria e passeggera, questa è un'altra
questione. A me è bastato trarne il pretesto per un certo discorso.
CIÒ CHE SI VEDE

Appena passato il confine, a Lu Wu, tra la colonia inglese di Hong Kong


e la Repubblica popolare cinese, ci accorgiamo subito che non stiamo
entrando in un paese ma in una situazione. Il paese è la Cina: risaie allagate
che scintillano al sole, selve di bambù su per colline verdissime, gialli
villaggi colore del fango seccato misto con paglia, contadini con i pantaloni
rimboccati al ginocchio, chini sui solchi. Ma questa Cina fisica di oggi, di
ieri e, senza dubbio anche di domani, appare obliterata dalla Cina della
situazione. La quale, poi, è quella universalmente nota della Rivoluzione
Culturale. Perché diciamo che la situazione oblitera il paese fisico? Perché
la Rivoluzione Culturale ha la consistenza di una realtà che prim'ancora che
alla mente si offre e si impone ai sensi.
Eccoci nella stazione nella quale dovremmo prendere il treno per Canton
prima tappa del nostro viaggio. Abbiamo esibito i nostri passaporti al
soldato in divisa kaki con la stella e le mostrine rosse; abbiamo aperto le
nostre valigie all'esame di un altro soldato; abbiamo anche consumato un
primo pasto cinese nel ristorante della stazione. Ragionevolmente ci
aspettiamo adesso di partire; che altro infatti si può fare in una stazione se
non partire? E invece, no. Come usciamo dal ristorante, qualcuno ci fa un
cenno di invito, ci avvia verso una porta. Ubbidiamo, eccoci in uno
stanzone che rassomiglia molto ad un'aula di scuola. Seggiole allineate in
più file, cattedra, ritratto di Mao al disopra della cattedra. Sediamo; e senza
indugio, ecco, entrano le quattro o cinque ragazze che poco fa ci hanno
servito la colazione nel ristorante. Dietro di loro vengono due giovanotti,
uno con la fisarmonica a tracolla, l'altro con un tamburello a sonagli,
Le ragazze irrompono con passo militare; ma di un militarismo da
balletto, insieme eccessivo e mimetica Sono vestite come tutte le donne in
Cina: pantaloni amplissimi, di cotone blu, camiciola di cotone bianca Si
fermano davanti a noi; tutte stringono in mano un piccolo libro rosso, il
libro delle citazioni di Mao; uno di loro fa un passo avanti e annunzia
qualche cosa con voce forte. Poi la fisarmonica e il tamburello attaccano e
le ragazze cominciano a cantare e a ballare. Muovono con grazia le gambe
negli enormi pantaloni; levano in aria in maniera elegiaca le braccia nude;
colle piccole mani paffute agitano in vari modi il libro di Mao. Le loro voci
sono fresche, ingenue, discordi, infantili; i passi appena accennati dei loro
piedi ricordano quelli degli esercizi nelle accademie di danza; la musica è la
solita musica cinese di sempre, specie di melopea malinconica (la
malinconia della saggezza cinese); ma voci, danza e musica sono
ovviamente al servizio di una materia tutt'altro che tradizionale.
Si tratta insomma di propaganda; ma colpisce subito l'originalità dei
mezzi, la loro incongruenza rispetto al fine. Frughiamo nella memoria
cercando una analogia, una somiglianza illuminanti e alla fine ci pare di
aver trovato: è ai canti rustici, alle danze paesane, alle musiche campestri di
certe feste religiose in Italia e altrove che fa pensare la propaganda della
Rivoluzione Culturale. Sì, a quel modo, in Europa, si cantano tuttora le
vicende della Passione. Con lo stesso fervore, lo stesso stile, la stessa
ingenuità. Ecco un primo punto acquisito: il carattere religioso della
Rivoluzione Culturale; 1’origine contadina di questo carattere.
Questi canti, accompagnati dalla danza delle fanciulle e dalla musica del
tamburello, si ripetono più e più volte durante il viaggio in aeroplano da
Canton a Pechino. Finita la danza, le hostesses vanno in giro per l'aeroplano
offrendo vassoi sui quali ci sono distintivi di varie fogge, tutti con la testa di
Mao, e fotografie di Mao in diverse pose e circostanze. Si tratta di immagini
sacre, di oggetti e distintivi sacri, non c'è da sbagliarsi. E ancora: durante la
danza tutti i viaggiatori cinesi cantano in coro la stessa canzone insieme con
le hostesses. Sorridenti, entusiasti, partecipi, commossi. Esattamente come
in chiesa. L'aeroplano, insomma, è una cappella volante, nella quale, tra il
fracasso dei motori e i sobbalzi dei vuoti d'aria, si celebra un rito. Torniamo
a ripeterlo: non c'è alcun dubbio, non è possibile sbagliarsi. Naturalmente si
può anche non tentare alcuna interpretazione di questo sistema di segni che
ci offre la Rivoluzione Culturale. Ma allora si rischia di non capire più
niente, di fermarsi all'assurdo.
Un altro aspetto pur sempre visivo e plastico della Rivoluzione Culturale
ci sarà rivelato a Canton, durante il breve soggiorno che ci faremo prima di
partire per Pechino: i giornali murali. Canton è una città di portici, una
specie di Bologna cinese affogata nell'umidità, nell'afa, nella promiscuità
delirante dei tropici. Immediatamente, come ci mettiamo a camminare per
le strade affollate, sotto i portici bui, avvertiamo che nella città c'è qualche
cosa di straordinario, di eccezionale, di eccessivo, di febbrile. Siamo ancora
storditi dal viaggio; per un poco non ci raccapezziamo; quindi, alla fine,
comprendiamo: tutti i portici, tutte le facciate delle case fino ai secondi
piani tutti gli autobus e le automobili, tutti i monumenti insomma qualsiasi
superficie, persino quella ristretti e convessa dei pali telegrafici, è ricoperta
di giornali murali. Sono fogli e fogli sui quali si sbracciano e sgambettano
grossissimi, aggressivi ideogrammi neri. Sono incollati in più strati, un po'
come quelli del dolce chiamato appunto millefoglie. I giornali murali
naturalmente, attirano l'attenzione di numerosi gruppi di lettori attenti e
curiosamente impassibili; tutta la città è piena di capannelli di passanti che,
senza commentare né mostrare in alcun modo i loro sentimenti, leggono le
scritte violente terminate per lo più da enormi punti esclamativi. Che c'è
scritto nei giornali murali? Ci siamo informati, a quanto sembra I giornali
murali contengono cose semplici o per lo meno molto semplificate: slogan,
denunce, accuse, sentenze, definizioni, incitamenti, abbasso ed evviva. Cioè
tutte cose che vanno direttamente al sentimento, che non chiedono di essere
interpretate e analizzate dalla mente.
Il giornale murale o meglio l'uso massiccio del giornale murale è una
delle grandi novità introdotte nella vita cinese dalla Rivoluzione Culturale.
In certo senso, anche la radio, con il suo fracasso e la sua perentorietà, passa
in seconda linea di fronte al giornale murale. Il quale, a ben guardare, ancor
prima che un testo, è un segno. Esso sta infatti a indicare, con la sua sola
ossessiva presenza, che le masse si trovano tuttora ad un grado molto alto di
temperatura rivoluzionaria; che nelle profondità popolari la spinta
rivoluzionaria è tuttora abbondante e violenta. Il giornale murale è,
insomma, simile al fiotto di lava che sgorga da un vulcano: designa la
persistenza dell'eruzione. Ma al tempo stesso è una specie di borsa dei
valori politici; una borsa, come tutte le borse di questo mondo, ipersensibile
e frenetica che ogni giorno comunica alle masse gli alti e bassi
dell'ideologia. Infine, almeno per coloro che vi sono attaccati e denunziati,
il giornale murale ha senza dubbio il carattere minaccioso, imprevedibile e
insomma kafkiano delle proscrizioni dell'antica Roma o dei proclami della
rivoluzione francese prima della caduta di Robespierre. Esso non nasce non
deve nascere dalla meditazione razionale degli organi burocratici, bensì dal
furore, dall'ispirazione, dalla spontaneità popolari.
Ma eccoci, dopo un volo di sei ore, a Pechino. Immensi, sterminati,
vertiginosi stradoni di tipo moscovita, larghi cinquanta metri e fiancheggiati
da case quasi impercettibili (nella Cina antica era proibito ai privati di
costruirsi case più alte dei palazzi imperiali e questi a loro volta non
avevano mai più di due piani) fuggono a perdita d'occhio verso indistinte e
luminose lontananze. In controluce al sole che risplende in fondo a queste
prospettive, non si vede una sola automobile ma sciami innumerevoli di
biciclette. Poi laggiù, ecco, in fondo alla caligine bianchiccia qualche cosa
di colorato si accende, palpita, si muove. È una bandiera rossa, una delle
tante che da un anno a questa parte vengono portate in processione, nelle
più svariate occasioni, da un capo all'altro della città.
Ci fermiamo, aspettiamo. Di lì a poco la bandiera si avvicina, vediamo
l'intera processione. Sono ragazzi e ragazze, cioè guardie rosse, come si può
indovinare dalla fascia scarlatta che portano al braccio. Tutti in pantaloni
blu, camiciola bianca, maschi e femmine; tutti con il piccolo libro di Mao
stretto in pugno. In testa marcia il portabandiera con l'asta di bambù infilata
nella cintura; poi vengono due ragazzi che sorreggono un grande ritratto di
Mao incorniciato d'oro e ornato di festoni rossi. Dietro il ritratto, in fila
indiana, i dimostranti. Questa è la dimostrazione tipica, descritta la quale
sono descritte tutte. È appena il caso di notare che anche lo stile di queste
processioni, come già quello delle rappresentazioni di propaganda con canti
musiche e danze, è uno stile religioso, di una religiosità contadina e
tradizionale. Si metta al posto della bandiera rossa lo stendardo della
confraternita, al posto del ritratto di Mao quelli del santo patrono, e si vedrà
che niente in fondo cambierà. Le guardie rosse sono certamente il
movimenti politico più moderno del mondo comunista; ma il loro stile non
può fare a meno di essere cinese, cioè proprio di un paese come la Cina nel
quale i contadini formano la maggioranza della popolazione.
Il semaforo intanto è scattato, è diventato rosso, la processione si ferma.
Ma già da destra ne avanza un'altra, da sinistra una terza, in fondo se ne
profilano altre tre o quattro. Dove vanno queste colonne di dimostranti?
Dovunque: nell'immensa piazza del Tempio della Pace Celeste per
incontrarsi con altre colonne; all'ambasciata britannica per protestare contro
l'imperialismo; all'ambasciata siriana per manifestare la simpatia dei cinesi
per gli arabi; all'università per ascoltare qualche discorso. Le università e le
scuole sono chiuse già da un anno e probabilmente resteranno chiuse un
altro anno ancora; le guardie rosse che sono tutte studenti possono fare
processioni e dimostrazioni senza rimorsi.
D'altra parte non bisogna dimenticare che le guardie rosse non sono delle
folle casuali ed effimere come ce ne possono essere nelle piazze dei paesi
occidentali; esse sono ormai qualche cosa di stabile, di insostituibile di
funzionale. Sono, per dirla in breve, uno degli organi più importanti della
Rivoluzione Culturale.
E adesso facciamo un primo breve bilancio. Abbiamo parlato della
Rivoluzione Culturale, ma non al livello ideologico e politico; ci siamo
limitati a descriverne gli aspetti più visibili. Tuttavia anche da questi aspetti
si possono ricavare delle indicazioni interessanti. Prima di tutto la
Rivoluzione Culturale si presenta con due soli elementi costitutivi; il capo e
le masse. Essa ignora, scavalca, evita la mediazione burocratica, partitica,
intellettuale; tende invece a stabilire, attraverso la radio, i giornali murali e
le dimostrazioni, un rapporto diretto e immediato tra Mao Tzetung e il
popolo. In secondo luogo, constatazione ancora più importante, questo
popolo, pur essendo tutto il popolo, è soprattutto la parte giovane, sotto i
trent'anni, del popolo. Vale a dire che Mao, per scatenare la Rivoluzione
Culturale, si è rivolto alla parte più inesperta, meno dotata di senso critico,
più violenta, più portata a negare, a distruggere e più capace di entusiasmi
della popolazione cinese.
Infine, altro fatto importantissimo, il rapporto tra Mao e la gioventù
cinese non è basato sulla pura e semplice ammirazione e devozione dei
gregari per il capo, bensì sul libro delle citazioni di Mao, cioè sul pensiero
di Mao. Così non si va troppo lontani dalla verità affermando che la
Rivoluzione Culturale, oltre a tante cose, è una specie di scuola di politica,
con lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche, nella quale le guardie rosse
sono gli allievi e Mao il maestro.
IL LIBRO

Il libro che sta nella biblioteca e viene tirato giù per leggerlo e poi, una
volta letto, torna nella biblioteca è molto diverso dal libro che ci
accompagna nella vita. Il primo è un oggetto di consumo, sia pure di
consumo intellettuale, il secondo è invece un surrogato della coscienza e al
tempo stesso il pernio di un sistema di comportamenti rituali. Vediamo un
po' cosa succede nel secondo caso: "Diceva tranquillamente il suo ufficio e
talvolta, tra un salmo e l'altro, chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per
segno, l'indice della mano destra... aperto poi di nuovo il breviario e recitato
un altro squarcio giunse ad una voltata della stradetta..." È un brano molto
noto dei Promessi Sposi e vi si parla di Don Abbondio e del libro che
l'accompagna nella vita cioè il suo breviario. Ora nella Cina di Mao questi
gesti dell'uomo che cammina con un libro in mano sono l'aspetto più vistoso
e più sconcertante della Rivoluzione Culturale. L'uomo, nel caso, è ogni
cinese che si senta cittadino prim'ancora che individuo, cioè la totalità dei
cinesi; il libro è il piccolo libro rosso delle citazioni di Mao. Aver citato
Don Abbondio non sembri incongruo: l’intellettuale si limita a leggere un
libro; ma l'uomo di fede se lo porta dietro.
E infatti ecco i più importanti tra i gesti che si possono fare con un libro e
che da sei mesi hanno trasformato i cinesi in tanti scolari dediti all'ipse
dixit; si porta in giro il libro per mostrare che lo si ha e allora abbiamo la
segnalazione, magari l'ostentazione. Si agita per aria ai raduni, alle sfilate,
alle riunioni e allora abbiamo l'esaltazione del libro oppure la minaccia la
sfida per mezzo del libro. Lo si apre e vi si fa scorrere lo sguardo e allora
abbiamo la consultazione. La si legge ad alta voce in risposta a qualcuno e
allora abbiamo la citazione, la comunicazione. Lo si accarezza chiuso con la
mano o lo si stringe al cuore e allora abbiamo l'affezione. Lo si tiene in
mano durante le danze, i canti e le recite di propaganda e allora abbiamo la
simbolizzazione... è incredibile, insomma, quanto possa influire sul
comportamento dell'uomo un piccolo libro come quello di Mao.
È un libro molto ben stampato, con la copertina di plastica rossa e i fogli
di ottima carta. C'è una prima pagina con il motto "Proletari di tutto il
mondo unitevi", poi c'è il frontespizio, poi c'è una velina che protegge una
fotografia di Mao, poi c'è il facsimile, in ideogrammi, dell'epigrafe di Lin
Piao, l'attuale capo dell'esercito. Infine c'è la prefazione dello stesso Lin
Piao. Notiamo in questa prefazione un passo significativo: "...il meglio
sarebbe imparare a memoria alcune frasi più importanti ai fini di uno studio
e di un'applicazione costanti." Imparare a memoria per studiare e applicare
costantemente: ecco il carattere precettistico e normativo del libro
sottolineato da questo semplice consiglio. Non si imparano a memoria le
opere di Marx o di Lenin perché le loro opere non erano destinate a
diventare una guida della condotta. Ma il libro di Mao, sì.
Il libro è costituito da una scelta di brani tolti delle opere complete di
Mao. Come tutti i capi comunisti, Mao ha scritto molto; a differenza dagli
altri capi comunisti, ha scritto su tutto in quanto nella sua lunga carriera egli
ha fatto di tutto ed è stato tutto: uomo politico, agitatore, capo militare,
legislatore, filosofo, poeta, organizzatore economico e così via. Egli è stato
al tempo stesso il Lenin il Trotzki e lo Stalin (ma anche il Maiakovski) della
Cina. Così non è stato difficile mettere insieme un libro nel quale, in una
serie di capitoli dai titoli significativi, sia, per così dire coperta l'intera vita
dell'uomo. Ma non bisogna credere che il libro di Mao possa essere
consultato utilmente per risolvere situazioni, diciamo così, private.
Abbiamo detto che copre l'intera vita dell'uomo; aggiungiamo subito che si
tratta pur sempre di un uomo molto particolare, dell'uomo cioè della
Rivoluzione Culturale per il quale la vita individuale, intima, personale non
deve assolutamente esistere. Mao stesso nel suo libro mette questo genere
di vita sotto il segno negativo del liberalismo. Insomma il libro ha una
duplice funzione: guidare l'uomo nella vita quotidiana; e al tempo stesso
ribadire in quest'uomo che la vita quotidiana altro non è né può essere che
la vita politica.
Mao è uno scrittore tipicamente politico e tipicamente cinese.
Cominciando dal primo carattere, bisogna notare che il suo libro ha le due
qualità che ci vogliono per diventare un manuale di condotta civica: prima
di tutto ha la qualità di un'autorità quasi di specie scientifica, non essendo
un libro di propaganda cioè di slogans e generalità basate sull'entusiasmo,
bensì un libro di riflessioni e affermazioni desunte dall'esperienza. In
secondo luogo ha la qualità accessibilità, grazie a una estrema
semplificazione divulgatrice della materia. Dunque il libro si presenta come
il frutto di un'esperienza complessa e annosa; e questo frutto è messo alla
portata di tutti. Occorre inoltre sottolineare l'efficacia educativa di un libro
simile nel quale l'insegnamento appare, per così dire, involontario e
naturale. Il che dimostra se non altro che Mao è stato fin da principio un
uomo politico con la vocazione dell'educatore.
Veniamo adesso al secondo carattere del libro, quello di essere
tipicamente cinese. Non vogliamo qui alludere alla bonarietà (apparente)
molto paesana e molto cinese che traluce in questi insegnamenti; né ai modi
di dire tradizionali e proverbiali (come per esempio quello famoso:
l'imperialismo è una tigre di carta) che infiorano la pagina di Mao. No, qui
vogliamo parlare soprattutto della complessa e significativa operazione che
per comodità chiameremo: la confucianizzazione di Marx.
Certamente nessun pensatore moderno rassomiglia meno a Confucio di
Marx. Confucio è stato il portatore di una saggezza conservatrice; Marx il
creatore di una dottrina rivoluzionaria. Confucio ha fondato un umanesimo
saggio, pio, ragionevole; l'umanesimo di Marx è eroico, empio,
drammatico. Tutto in Confucio rispecchia l'ordine, l'immobilità, la
chiarezza di una società feudale molto stabile; tutto in Marx rispecchia il
movimento e il dinamismo di un mondo in rapida evoluzione. Eppure nelle
pagine di Mao, forse più avvertibile nel tono che nel pensiero, si può notare
una contaminazione, fusione e vicendevole correzione di questi due
pensatori così diversi. Beninteso il pensiero di Marx non subisce
cambiamenti sostanziali; ma viene spostato leggermente, quasi
impercettibilmente dal piano drammatico, problematico dialettico che gli è
proprio ed è proprio di tutta la cultura europea, a quello educativo,
normativo, precettistico che è proprio di Confucio e più in generale della
cultura cinese. Mao può essere duro, durissimo, magari spietato; ma la sua
durezza e spietatezza sono pur sempre filtrate attraverso un'intenzione
didascalica.
Ma ancor più importante della confucianizzazione del pensiero di Marx
operata da Mao, è la confucianizzazione che, in maniera istintiva e
spontanea, le masse cinesi hanno fatto subire a questo marxismo già
trasformato in senso cinese che è il maoismo. Qui non si tratta di
un'operazione intellettuale, come nel caso di Mao, bensì di un'operazione,
in maniera generica, religiosa. Abbiamo già detto che il piccolo libro rosso
è diventato da sei mesi il pernio di un sistema di comportamenti rituali. Ora
non c'è dubbio che nessuno Stato, neppure il più tirannico, può costringere
un popolo intero a trasformare un libro di ricordi e di riflessioni politico-
militari in un manuale di condotta: l'adesione delle masse al libro è stata
veramente entusiastica, molto al di là, probabilmente, delle previsioni dei
compilatori. D'altra parte occorre sottolineare una volta di più il significato
del consiglio di Lin Piao, di imparare a memoria il libro per uno studio e
un'applicazione costanti. Infatti, proprio questo si è fatto per secoli con le
massime di Confucio: agli esami di Stato i concorrenti venivano invitati a
completare a memoria un brano anonimo di Confucio. Anche allora si
intendeva che era più importante ricordare che capire o che comunque la
capacità mnemonica era una forma di intelligenza. Ma qual è il significato
di questa preferenza accordata alla memoria? Ovviamente, soprattutto
questo: la memoria trattiene e conserva tutto quello che non può né deve
essere soggetto a critica e dunque a cambiamento; ossia la memoria è un
processo mentale che serve a conferire autorità, cioè imbalsamare qualche
cosa che non si vuole che si corrompa.
La confucianizzazione del maoismo sarà dunque soprattutto una
trasformazione in autorità, per mezzo della memoria, di un'esperienza
personale cioè dell'esperienza di Mao. Ma che vuol dire questo se non che
ad una precettistica tradizionale, se ne sta sostituendo un'altra più moderna
che, oltre tutto, a suo modo, incorpora e annette l'immenso apporto della
cultura europea? Mao ha letto Marx, s'intende. Ma alle masse cinesi basterà
leggere Mao.
Semmai sarebbe interessante vedere perché le masse cinesi siano state
così pronte a confucianizzare il pensiero di Mao. Qui, secondo noi, si coglie
la differenza tra il cosiddetto culto della personalità di Stalin e quello di
Mao. Certi aspetti sono identici, inutile negarlo: così in Russia vent'anni or
sono con oggi in Cina le statue e i ritratti (bruttissimi) del dittatore sono
dovunque. Anche in Cina, come già in Russia, la propaganda si occupa
esclusivamente del capo. Ma mentre il culto di Stalin appariva rivolto alla
persona del dittatore, in maniera affatto empia e moderna, il culto di Mao
sembra essersi quasi subito spostato dalla persona al pensiero, cioè al libro,
colorandosi di religiosità contadina e primitiva. Il culto di Stalin tradiva
l'ammirazione per l'uomo eccezionale, per il demiurgo, per l'eroe; quello di
Mao rivela invece un patetico bisogno di stabilità, un anelito profondo a un
ordine duraturo. Non sappiamo quanto questo carattere del culto sia stato
voluto e ispirato da Mao; a leggere il libro che è in fondo un incitamento
alla rivoluzione permanente, si direbbe di no. Ma tant'è: le masse cinesi
avevano sofferto terribilmente durante quasi un secolo di guerre civili e di
invasioni straniere; chi potrebbe dare loro torto se, un poco per la
gratitudine verso l'uomo che le ha finalmente ricondotte all'ordine e
all'unità, un po' per forza dell'antica tradizione confuciana, esse abbiano
attribuito al pensiero del dittatore una funzione stabilizzatrice e religiosa?
D'altra parte non c'è vera contraddizione tra la rivoluzione permanente
predicata da Mao nel suo libro e il bisogno di stabilità, di ordine e di unità
delle masse. Una rivoluzione che vada fatta una volta tanto è inquietante e
sconvolgente; ma la rivoluzione permanente diventa qualche cosa di
canonico, di stabile, di abituale, di permanente appunto. E qui si rivela pure
la grande differenza tra Europa e Asia. L'Europa è il continente degli Stati
instabili, delle dinastie effimere, delle rivoluzioni numerose. Ma l'Asia è il
continente degli Stati e delle dinastie che durano secoli e secoli, delle
rivoluzioni uniche che diventano permanenti.
PERCHÉ LA RIVOLUZIONE CULTURALE

La Rivoluzione Culturale cinese è l'avvenimento politico più importante


che si sia verificato nel mondo comunista dopo la destalinizzazione. Nel
mondo comunista, come è noto, ci sono diversi livelli di sviluppo
economico dovuti ai diversi tempi nei quali è stata iniziata la rivoluzione
industriale; a questi diversi livelli economici corrispondono, ovviamente,
diversi livelli di entusiasmo, di freschezza, di romanticismo rivoluzionario.
Ora la Rivoluzione Culturale cinese non soltanto ha rivelato in maniera
clamorosa queste diversità ma anche, con i contrasti e le fratture che ha
provocato, sembra aver creato nel blocco comunista quella dialettica interna
che finora neppure la rivolta di Budapest e la dissidenza jugoslava erano
riuscite a instaurare. Il fatto che l'URSS fin dal 1917 avesse già un notevole
assetto industriale e invece la Cina nel 1949 fosse tuttora un paese in
prevalenza di masse contadine, è apparso improvvisamente, grazie alla
Rivoluzione Culturale, come la ragione principale del dissidio ideologico
tra la Cina e l'URSS. Che vuol dire questo? Vuol dire che per spiegare
quello che sta oggi in Cina, bisogna non già ricorrere ai motivi privati e
individuali come per esempio la vecchiaia di Mao, la lotta per il potere,
l'influenza della moglie di Mao eccetera eccetera; bensì com'è giusto,
ricercare, dietro i conflitti ideologici, le determinazioni materiali.
D'altra parte il fattore individuale, contrariamente a quanto si crede di
solito, è più importante nei paesi comunisti che in quelli capitalisti, almeno
al livello dei gruppi dirigenti. In Occidente le diversità economiche tra i
paesi non si traducono che molto discretamente in ideologie sia a causa
dell'empirismo predominante, specie nel mondo anglosassone, sia perché le
economie occidentali sono meno pianificate e dunque meno volontaristiche
di quelle orientali. Nei paesi comunisti, come è noto, l'economia è sempre
pianificata e i piani sono l'espressione della volontà di ristretti gruppi
dirigenti o addirittura di un capo isolato. Donde il carattere personalizzato
così delle vittorie come delle sconfitte nel campo economico, quasi che lo
sviluppo dell'economia non fosse un fenomeno collettivo bensì individuale.
In Cina l'identificazione della volontà del capo con la situazione economica
e socialle del popolo è, diremmo, più marcata che in qualsiasi altro paese
comunista. La storia personale di Mao è infatti indivisibile da quella della
rivoluzione cinese, al punto che raccontare la vita di Mao, come si può
vedere nel libro di Edgard Snow, vuol dire raccontare la storia degli ultimi
cinquant'anni del popolo cinese.
Per capire almeno in parte quello che è avvenuto in Cina a partire dal
giugno del 1966, bisogna risalire al lontano 1927. In maniera generale, si
può dire che il dissidio tra Mao e l'URSS che, secondo noi, sta all'origine
della Rivoluzione Culturale, risalga appunto a quell'anno. Allora il partito
comunista cinese che si era formato da poco, era completamente sotto
l'influenza di Stalin; e Mao stesso che ne era uno dei capi, con un'ingenuità
rivoluzionaria che in quel tempo era condivisa da molti anche in Occidente,
probabilmente non dubitava che il remoto dittatore moscovita fosse in
qualche modo infallibile. Ma Stalin, con una serie di istruzioni e di mosse
sbagliate che a loro volta derivavano da una astratta e infatuata ignoranza
delle reali condizioni della Cina, provocò una terribile catastrofe politico-
militare. Per motivi tattici Stalin aveva voluto a tutti i costi che Mao e i
comunisti collaborassero con Ciang Kaiscek e il partito nazionalista del
Kuomintang. Ciang Kaiscek e il Kuomintang a un tratto si rivoltarono
contro Mao e dovunque fu possibile massacrarono i suoi seguaci. Decine e
decine di migliaia di comunisti furono uccisi a Canton, a Sciangai, a
Pechino. Mao si salvò per miracolo dal disastro, iniziando con i resti del suo
piccolo esercito la famosa marcia verso il nord.
Non importa dire qui in dettaglio quali fossero gli errori di Stalin; basterà
sottolineare che tra questi errori ce n'erano due soprattutto di cui Mao
certamente ha dovuto ricordarsi quando, trent'anni dopo, ha scatenato la
Rivoluzione Culturale. Un primo errore era di credere che la Cina, nella sua
composizione sociale, fosse simile all'URSS e che perciò dovessero essere
le masse operaie nelle città e non i contadini nelle campagne, a fare la
rivoluzione. Il secondo che, comunque andassero le cose, tutto doveva esser
fatto attraverso la burocrazia del partito e per mezzo della burocrazia del
partito. Abbiamo già detto quello che avvenne. Finché Mao credette
nell'infallibilità di Stalin, accumulò una sconfitta dopo l'altra. Appena si
liberò della soggezione staliniana e cioè puntò sui contadini e sulla
campagna e, scavalcando la burocrazia e l'ideologia del partito, agì
direttamente e personalmente, il suo successo si delineò subito, ma
soprattutto, com'è da credere, egli sentì che poggiava finalmente i piedi su
un terreno solido.
A Mao aveva portato sfortuna nel 1927 ubbidire all'URSS ; trent'anni
dopo, nel 1957, gli portò sfortuna rivaleggiare con I'URSS. Sempre I'URSS,
insomma, nei momenti sfavorevoli della vita di Mao. Che avvenne nel
1957, anno tra tutti importante? Avvenne il Grande Balzo in Avanti, cioè il
tentativo di trasformare gli arretrati contadini cinesi in operai agricoli
modernissimi di specie russa o addirittura americana ; e di accollare alle
aziende agricole statali la maggior parte della produzione dell'acciaio.
Alludiamo qui alla decisione irrazionale, volontaristica, e per tutto dire
romantica di Mao di creare nelle Comuni o fattorie di Stato delle fornaci
inevitabilmente rudimentali ed esigue per la produzione dell'acciaio. Il
problema era la rivalità con I'URSS e con l'Occidente nel campo
industriale; la soluzione, tipicamente maoista, avrebbe dovuto essere di far
produrre l'acciaio non soltanto a due o tre grandi fabbriche ma anche e
soprattutto alle masse contadine cinesi. Ogni fattoria avrebbe fornito un
piccolo quantitativo di acciaio; la Cina era immensa; la produzione non
avrebbe potuto non essere immensa come la Cina. Invece questa volta il
ricorso alle masse entusiaste sì, ma inesperte e arretrate, provocò un
disastro: cadde naturalmente la produzione dell'acciaio e a causa del
disordine provocato da tanti cambiamenti, cadde anche la produzione
agricola.
Di fronte a questa sconfitta del Grande Balzo in Avanti, Mao avrebbe
dovuto forse incolpare se stesso o forse, come avviene quando l'errore è
condiviso da molti, nessuno. Ma la riflessione di Mao fu diversa : che c'era
in fondo all'errore, in fondo al disastro? C'era il fatto che I'URSS con la
quale si era voluto rivaleggiare, era un paese revisionista cioè un paese
avviato sulla strada della civiltà del benessere, ossia del capitalismo.
Questa riflessione trovò, d'altra parte, impreviste e amare conferme nel
contegno dell'URSS di fronte alla difficoltà della Cina. Il romanticismo
volontaristico e populista di Mao non incontrò alcuna comprensione o
solidarietà in URSS. A tutta prima ci furono gli ammonimenti, le
insinuazioni ideologiche ; poi vennero i sarcasmi pubblici di Kruscev sulle
Comuni e sul Grande Balzo; finalmente, misura gravissima, equivalente ad
un atto di guerra fredda, il ritiro improvviso e completo dei tecnici russi.
L'URSS, con questi accorgimenti, voleva probabilmente restaurare la
propria autorità in Cina, ridurre Mao all'obbedienza, impedire che la Cina
avesse sviluppi economici in contrasto con l'insieme del blocco comunista.
Ma Mao non ci vide che l'ostilità ottusa e sazia di un paese avviato verso il
benessere contro un paese povero; di un paese il quale, secondo la formula
di Lin Piao, apparteneva ormai alla zona urbana del mondo contro un paese
che tuttora faceva parte della zona contadina. Così I'URSS in maniera
assurda ma, occorre sottolinearlo, perfettamente logica, veniva respinta tra i
paesi occidentali e capitalisti.
Che cosa avrebbe potuto far cambiare idea a Mao? Soltanto questo: che
I'URSS, seconda potenza industriale del mondo, si mettesse al passo con la
Cina che era tuttora un paese in prevalenza artigiano e contadino; che
dividesse cioè con la Cina, con solidarietà rivoluzionaria, i suoi tecnici, le
sue risorse, i suoi mezzi, insomma il suo benessere. Questo non era
ovviamente possibile anche se poi, a Mao, poteva sembrare conseguente.
Così, attraverso una razionalizzazione del disappunto personale e delle
insufficienze nazionali, I'URSS diventò, agli occhi di Mao, una delle tante
potenze dell'Occidente, né più né meno.
Ma gli Stati Uniti, l'Inghilterra, la Francia, la Germania non avevano
tecnici, missioni politiche ed economiche, interessi in Cina; né tanto meno
potevano contare dentro il partito e la burocrazia statale cinesi su una
corrente che sostenesse la loro visione del mondo e si adoperasse per farla
trionfare. Invece l'URSS sì. Pensiamo che allo stesso modo che in Cina
tante cose sono o sembrano sovietiche: gli stradoni sterminati di Pechino, lo
stile ottocentesco degli edifici moderni e della loro decorazione interna, la
mescolanza stessa, nella vita quotidiana cinese, di drastica austerità e di
patriottismo popolare; così, nella società cinese dovessero esservi molti che
senza volerlo o anche volendolo, credevano in buona fede nell'ideologia
sovietica e volevano che la Cina imitasse e si modellasse sull'URSS.
Costoro erano, beninteso, degli ottimi comunisti che avevano sempre
creduto che l'URSS fosse lo stato guida del blocco comunista e che la Cina
era amica dell'URSS. Molti di loro erano amici personali di Mao fin dagli
anni della Lunga Marcia e anche più indietro. Tutti occupavano posti di
responsabilità nella burocrazia dello Stato e del partito. Contro costoro e
contro tutto ciò che si voleva che rappresentassero (cioè il revisionismo
sovietico e gli interessi e la cultura occidentali) si è scatenata la furia
romantica e populista di Mao.
In maniera caratteristica, la grande purga (poiché in sostanza la
Rivoluzione Culturale è anche una gigantesca purga o epurazione) non è
stata portata a termine da una polizia segreta di tipo staliniano, prima di
tutto perché in Cina non c'è una polizia segreta e poi perché, appunto in
quanto la purga mirava a colpire soprattutto la burocrazia, non si poteva
ricorrere alla polizia segreta la quale in fondo non è che una burocrazia
come tutte le altre. No, Mao, in quest'occasione, come in tante altre, ha
ascoltato il proprio cuore rimasto fedele, in maniera ingenua e nostalgica,
agli anni strenui della guerra civile e ha fatto, come allora, appello alle
masse e tra le masse ai giovani e ai giovanissimi. Gli era sembrato di non
toccare più la terra, di non avere più la forza di un tempo, ecco che con la
Rivoluzione Culturale, attraverso il contatto con le masse, poggiava di
nuovo i piedi in terra, ritrovava la forza. Cinquanta milioni di guardie rosse
scaraventate, come in una nuova crociata dei fanciulli, in un anno, da un
lato all'altro della Cina; milioni di giornali murali; centinaia di migliaia di
sfilate, parate, dimostrazioni, riunioni; più di dieci milioni di guardie rosse
ricevute personalmente a Pechino; e poi tutta la Cina sottosopra, la
produzione agricola e industriale diminuita, la burocrazia statale sconvolta,
quella del partito distrutta, alcune province in mano ai maoisti, altre in
mano agli antimaoisti; questo è l'elenco assai incompleto dei risultati
esplosivi dell'appello di Mao alle masse. Ma il diaframma burocratico e
partitico è veramente caduto. E, risultato anche maggiore, sono state create
le premesse per un'ideologia rivoluzionaria universale che domani, forse,
potrà essere in grado di competere con quella sovietica. Più importante
ancora, sono state forse poste anche le fondamenta di una società egualitaria
e tecnologica, senza promozione sociale attraverso il consumo quale
risultato del profitto come negli Stati Uniti, o attraverso il benessere quale
premio del potere come in URSS, bensì soltanto attraverso la diversità e
qualità delle capacità tecniche. Una società tecnocratica di soli quadri
variamente qualificati e di masse di lavoratrici, nella quale tutti
disporrebbero del necessario e nessuno gioirebbe del superfluo.
ANCHE MAO LO DICE

Avevo chiesto fin dal primo giorno di incontrare un intellettuale, uno


scrittore; ma mi avevano risposto che sarebbe stato difficile: gli scrittori
avevano molto da fare. Poi, una mattina, d'improvviso, ecco la telefonata: lo
scrittore mi aspetta per l'intervista. Dove? Nel salotto del mio piano,
all'albergo.
Il salotto, lo conoscevo. Un salotto in stile russo zarista cioè ottocentesco:
buone vecchie poltrone con le foderine di tela e il merletto sui braccioli e le
spalliere; buoni vecchi tendaggi ricamati alle finestre; buona vecchia teiera
di porcellana bianca e azzurra con le sue tazze e il suo enorme termos pieno
di acqua bollente. Dalla finestra del salotto si gode una vista incantevole su
Pechino verde e grigia: il verde degli alberi piantati negli innumerevoli
cortili, il grigio dei tetti di tegole di ceramica. E fino al più lontano
orizzonte, un cielo purissimo, di un azzurro soffuso di rosa, limpido,
luminoso.
Eccoci, dunque, seduti l'uno di fronte all'altro, lo scrittore cinese ed io.
Intorno a noi ci sono tre interpreti: uno giovane, sveglio e simpatico; un
uomo di mezza età, dall'aspetto noioso e ufficiale; infine il mio interprete
personale, tipo di intellettuale magro, secco, schifiltoso, sardonico. Quanto
allo scrittore, è un uomo giovane, un po' massiccio, dall'aspetto paesano,
con il volto grosso e semplice e l'espressione gioviale. Sorride spesso, ma
allora, stranamente, l'espressione gioviale scompare: è il sorriso
dell'insegnante, del maestro, dell'uomo istruito che sta di fronte allo scolaro
distratto, all'allievo zuccone.
Comincio con alcune domande personali. Apprendo così che lo scrittore
ha 38 anni, che è figlio di operai, che è nato a Sciangai. Ha pubblicato
sinora sei romanzi, ha anche scritto due opere teatrali. Gli chiedo quante
copie abbia venduto dei suoi romanzi. Guarda al soffitto, risponde: "Uno,
nel 1963, ha venduto 400.000 copie. L'ultimo, un milione di copie."
Osservo: "Avrà guadagnato molto coi diritti d'autore." Mi informa:
"Guadagnavo molto. A partire dalla Rivoluzione Culturale, noialtri scrittori
abbiamo rinunziato ai diritti d'autore." "E come vivete?" "Riceviamo uno
stipendio dallo Stato." Gli domando quanto tempo gli ha preso il romanzo
che ha venduto un milione di copie. Risponde: "Sono stato sei mesi coi
soldati, in una provincia dell'ovest; poi l'ho scritto in due mesi."
Domando: "Perché tra i soldati?"
Risponde: "È un romanzo che parla dei soldati Per raccogliere materiale e
fare l'esperienza dei soldati."
Dico, un po' aggressivo: "Ma la buona letteratura non si pianifica, non si
confeziona. La letteratura ha da essere libera, spontanea, senza preparazioni
volontaristiche..."
Lo scrittore ha in mano il libro rosso delle citazioni di Mao. Come, del
resto, ce l'ho io e ce l'hanno i tre interpreti. Lo sfoglia, l'apre, ci dice la
pagina che tosto andiamo a cercare, quindi legge ad alta voce: "Tutte le
conoscenze autentiche derivano da esperienze immediate.
Capisco che debbo rispondere nello stesso modo: con Mao. Senza esitare
apro anch'io il libro di Mao, annunzio il numero della pagina, e, appena loro
l'hanno trovato, leggo con violento tono didascalico: "La causa
fondamentale dello sviluppo delle cose e dei fenomeni non è esterna ma
interna, si trova nelle contraddizioni interne delle cose e dei fenomeni."
Lo scrittore non e tanto contento. Sorride ma i suoi occhi scintillano
dietro le lenti in maniera minacciosa. Riapre il libro, annunzia la pagina,
legge: "Noi neghiamo l'esistenza non solo di un criterio politico astratto e
immutabile ma anche di un criterio artistico astratto e immutabile: ogni
classe in ogni società di classi possiede un criterio suo così politico come
artistico. E qualsiasi classe in qualsiasi società di classi mette il criterio
politico al disopra di quello artistico."
Punto nel vivo, sfoglio il libro, dico la pagina, leggo: "Le opere che
mancano di valore artistico, anche se progressive, restano inefficaci dal
punto di vista politico."
Sorridendo con fiele, lo scrittore consulta il libro di Mao, proclama: "La
nostra letteratura e la nostra arte debbono servire alle grandi masse del
popolo e prima di tutto agli operai, ai contadini e ai soldati."
Ribatto, previa rapida ricerca nel libro: "Sarebbe a nostro avviso
pregiudizievole per lo sviluppo dell'arte della scienza ricorrere alle misure
amministrative per imporre un certo stile e una certa scuola e proibire un
certo altro stile e una certa altra scuola."
Rapido, sorridente e rabbioso, mi controbatte leggendo: "La cultura
rivoluzionaria è per le masse un'arma potente della rivoluzione. Prima della
rivoluzione, le prepara ideologicamente; durante la rivoluzione costituisce
un importante e indispensabile settore del fronte generale della
rivoluzione."
Dolcemente, soavemente, rispondo a mia volta dal libro: "Il vero e il
falso nell'arte e nella scienza è una questione che deve essere risolta dalla
libera discussione negli ambienti artistici e scientifici, dalla pratica dell'arte
e della scienza, e non con metodi spicci."
Lo scrittore comprende che io desidero finirla con questo pedantesco,
medievale duello a base di citazioni di Mao; e tutto ad un tratto tace, serio e
come in attesa. Improvvisamente, allora, mi viene in mente che mentre io
dimostro curiosità per lui, per la Cina per le cose della Cina, lui, dal canto
suo, non ne manifesta alcuna per me, per l'Europa, per le cose dell'Europa.
E mi dico che questo è ancora un tratto molto cinese. I cinesi, infatti, si
credono e probabilmente sono autosufficienti. Mai un cinese mostrerà
curiosità per le cose straniere; mai si informerà, chiederà, si interesserà. La
Cina è un astro che gira per conto suo nel firmamento della cultura; uscirne,
allungare gli sguardi fino all'Europa è come fare un viaggio interplanetario,
tentare l'esplorazione di Marte, della Luna, di Venere.
Tace, dunque, lo scrittore e taccio io. Alla fine sono io a rompere il
silenzio: "Che ne dice di Lukaks?"
Scuote il capo, risponde: "Non mi piace, è un revisionista."
"E Sartre?"
"Ha rifiutato il premio Nobel, ha fatto bene. Ma anche lui è un
revisionista."
"Parliamo di letteratura. Che ne dice di Tolstoi.
"Ha del buono. Ma ha i limiti del suo secolo."
"Dostoieschi?"
Questa volta riflette, un sentimento di avversione lo agita ma non sa
esprimerlo. Finalmente dice: "È troppo nero. Si occupa di cose nere."
"E allora?"
"È un pessimista. Non bisogna essere pessimisti."
"Perché?"
Ha come un movimento verso il libro di Mao che stringe in mano. Ma poi
si trattiene e tace: non risponde. Riprendo dopo un momento: "Ha mai
sentito parlare di James Joyce?"
"No."
"Che ne pensa di Shakespeare?"
Questo lo conosce; ma non ne è intimidito. Risponde tranquillamente,
come se Shakespeare fosse un contemporaneo: "Shakespeare è uno scrittore
borghese."
"E cioè?"
"Troppo soggettivo. Abbiamo provato a rappresentare Otello. Gli
interpreti ne rimanevano turbati, sconvolti. Il pubblico pure. Era un
pubblico di guardie rosse. Alla fine dello spettacolo, interrogate, hanno
sconsigliato la rappresentazione. Troppo conturbante e sconvolgente."
"L'arte non deve essere conturbante e sconvolgente?"
"L'arte deve essere al servizio delle masse."
"Le piace Sciolokov?"
"No, è un traditore. E poi ha accettato il premio Nobel."
"Pasternak?"
"E' un rinnegato."
"Dica uno scrittore che le piace."
Enumera: "Fadaeev, Gorki, Furmanov, Balzac, Dickens, Merimée." Tace
aggiunge un nome incomprensibile. Finalmente comprendo: Heine.
Riconosco l'eco marxista: Marx leggeva, citava, apprezzava Heine. Lo
scrittore soggiunge in fretta: "Naturalmente questi scrittori non vanno
accettati a occhi chiusi, così come sono. Bisogna farne delle edizioni
critiche, con commenti per il popolo, magari tagliarli."
Domando ancora: "Si insegna filosofia nelle scuole e nelle università
cinesi: Platone, Aristotile, Spinoza, Cartesio, Kant...?"
"Non si insegna filosofia bensì storia dello sviluppo delle società."
"E la letteratura greca e latina?"
"Poca roba. Sono letterature pericolose."
"Perché?"
"Perché corrompono."
"In pratica," domando a questo punto come per concludere, "la teoria del
realismo socialista sovietico le pare giusta e corretta?"
"Sì." Tace un momento quindi a sua volta conclude: "Noi non siamo, sia
chiaro, contro la letteratura classica cinese, né contro le letterature antiche e
moderne straniere. Pensiamo che bisogna prenderne il buono e lasciarne il
cattivo. Per modo di dire, nella letteratura c'è la droga e c'è l'essenza.
Bisogna gettar via la droga e conservare l'essenza. Anche Mao lo dice."
L'intervista è finita. Domani riprenderà, parleremo delle altre arti. Ma la
letteratura sarà pur l'arte che rivelerà maggiormente le differenze tra la
nostra cultura e quella cinese. E ci sia lecito aggiungere qui alcune parole di
commento. Prima di tutto non bisogna dimenticare che la Cina si è
sviluppata quasi senza scambi né rapporti con l'Europa. Si immagini che i
Maya invece di spegnersi dopo un inizio stupendo, avessero sviluppato una
civiltà coerente, completa e complessa per tremila anni: ecco la Cina. In
secondo luogo: quanti, non dico lettori comuni ma scrittori europei
interrogati, mostrerebbero di conoscere le opere degli scrittori cinesi antichi
e moderni? E finalmente in terzo luogo: la politicizzazione della letteratura
è un dono dei russi; non è una teoria marxista, è una teoria sovietica. Marx,
da buon tedesco rispettoso dell'autonomia della cultura, non ha mai detto
che la letteratura dovesse fare la propaganda politica, Stalin sì. Ma a Stalin
l'idea veniva direttamente dalla polizia segreta dello Zar Nicola Secondo, la
quale era convinta che la letteratura, in quanto realistica e veritiera, non
potesse non essere pericolosa e perciò perseguitava gli intellettuali. Finché
questi ultimi, a forza di essere perseguitati, diventarono davvero pericolosi,
ossia davvero politicizzarono la letteratura. Poi, con la rivoluzione, gli
intellettuali andarono al potere e allora, a loro volta, vollero il realismo
socialista, ossia una cultura politicizzata cioè favorevole alla rivoluzione.
La Cina, dicono i cinesi, deve liberarsi dell'influenza sovietica. Ma prima di
tutto, secondo me, dovrebbe liberarsi del realismo socialista, dell'arte di
propaganda.
LA BORGHESIA E’ IL MALE

Una delle idee fondamentali della Rivoluzione Culturale, più e più volte
riaffermata negli scritti di Mao, è che contrariamente a quanto avviene nella
Russia revisionista e capitalisteggiante, la dittatura del proletariato (ossia la
dittatura tout court) sarà ancora necessaria in Cina per un lunghissimo
periodo di tempo e che di conseguenza bisogna mantenere in piena
efficienza la lotta di classe. Ora, per quanto riguarda la dittatura, possiamo
anche riconoscere che il regime di Mao, impegnato com'è nella Rivoluzione
Culturale, ben difficilmente potrà farne a meno; ma la lotta di classe? Ci si
guarda intorno in Cina e si rimane perplessi.
La Cina infatti offre oggi lo spettacolo impressionante di un immenso
paese nel quale sarebbe difficile mettere in piedi qualsiasi lotta di classe per
la buona ragione che tutta la popolazione sembra essere stata ridotta ad una
sola classe, quella del proletariato o classe popolare. L'uniformità e il
livellamento delle masse è certamente oggi ciò che colpisce di più il
viaggiatore in Cina. Cominciando dall'uniformità, non sarà mai abbastanza
sottolineato il fatto apparentemente irrilevante che tutti i cinesi, uomini e
donne, vestono nello stesso modo; che cioè sono state abolite nello stesso
tempo così le differenze tra individui come quelle tra i sessi.
Non si può capire l'importanza enorme di una simile uniformità se non
ricordando l'importanza analoga che dal punto di vista economico,
psicologico e culturale ha in Occidente la diversità. Si pensi soltanto
all'ambizione delle donne, in Occidente, di vestirsi ciascuna in maniera
diversa da tutte le altre e alle conseguenze, nel campo industriale e sociale,
di questa ambizione. In realtà, per trovare qualcosa di simile all'uniformità
cinese in Europa, bisogna pensare agli ordini monastici. Le implicazioni di
una tale somiglianza sono ovvie e non c'è neppure bisogno di parlarne.
Quanto al livellamento: la Cina, oggi, dà l'impressione di essere tutto un
solo sterminato paese povero, di una decente, fiera ma anche spietata
povertà. Miseria non sembra esservi, come c'era invece in passato; ma lo
stile, il colore, il tono, la maniera di vivere, la visione del mondo della
povertà sono dappertutto. Una povertà singolare, non soltanto contenta di se
stessa ma anche dimostrativa e didascalica. Come a dire: "Ecco di che cosa
ha bisogno l'uomo. Tutto il resto è superfluità, dunque lusso, dunque vile
corruzione di tipo sovietico oppure occidentale."
Di che cosa ha bisogno l'uomo maoista? A quanto sembra, di un paio di
pantaloni blu di cotone, di una camiciola bianca di cotone, di un paio di
sandali o pantofole. Di una bicicletta per andare al lavoro. Di una dimora
consistente in una sola stanza in coabitazione con i familiari. Di un limitato
numero di beni di consumo: sigarette, bibite, sapone, oggetti di toletta,
stoviglie ecc. ecc. Di parchi pubblici (ex-giardini imperiali) in cui
passeggiare, solo svago che non sia politicizzato. Infine di una continua,
ossessiva, capillare propaganda del pensiero e della figura di Mao fatto con
tutti i mezzi: giornali murali, teatro, cinema, radio, televisione, pittura,
scultura e via dicendo. L'uomo maoista è, insomma, il cittadino di una
società non diciamo senza classi, ma senza neppure il sospetto delle classi.
Ma allora, torniamo ad insistere, perché bisogna mantenere in efficienza la
lotta di classe?
Qui la parola "culturale" ci viene in soccorso. Rivoluzione Culturale
significa, infatti, proprio quello che sembra significare, cioè una rivoluzione
che fin da principio è esplosa non già sul piano sociale, cioè a livello delle
strutture, bensì sul piano culturale, cioè al livello delle sovrastrutture. Non
bisogna dimenticare che il primo fulmine (a ciel sereno) annunziatore del
tifone della Rivoluzione Culturale è caduto appunto fin dal 1965 su uomini
di cultura. Erano burocrati, politici, intellettuali o come si dice, quadri, che
facevano parte della municipalità di Pechino o della direzione del partito a
Pechino. D'altra parte, poco prima o poco dopo, la politica dei cosiddetti
"cento fiori" è stata smentita da altri fulmini, ovverossia scomuniche, caduti
su alcuni "fiori" come i film La vita di Wu Hsiun e La destituzione di Hai
Juei; e le teorie artistiche di Hu Feng: scrivere la verità; di Tsint Ciaoyang:
la larga via del realismo; di Ciao Tsiuanlin: l'approfondimento del realismo;
ancora di Ciao Tsiuanlin: i personaggi indecisi; di Ceu Kuceng: la sintesi
dello spirito dell'epoca; di Hsia Yen: l'opposizione al ruolo decisivo del
soggetto; e così via. Altro che cento fiori. Tutto il mazzo veniva sterminato
e solo rimaneva, grande, immenso, invadente, esclusivo, il fiore di Mao
Tzetung. Contro quei "fiori" e altri boccioli dello stesso genere si sono
scatenate le prime avvisaglie della Rivoluzione Culturale. Insomma i
nemici della Rivoluzione Culturale o se si preferisce le vittime, vanno
ricercati tra i quadri, ossia tra gli uomini di cultura. Questa indicazione
negativa è fondamentale.
Dunque la lotta di classe va continuata e rafforzata; ma la classe perde i
suoi connotati economici e sociali e diventa una categoria "culturale". Ma
noi sappiamo che in Cina, come del resto in tutti i paesi comunisti,
"culturale" vuol dire qualche cosa che riguarda non soltanto il sapere
letterario, artistico e scientifico, ma anche il comportamento dell'uomo, cioè
il costume. Dunque ci siamo: classe è una categoria morale.
Una volta spostato il significato dal piano sociale a quello morale, si vede
subito come diventi facile per Mao dare alla rivoluzione un carattere
permanente alla lotta di classe un continuo sviluppo. Una rivoluzione, una
lotta di classe che si propongano di riformare la società o lo Stato non
possono essere permanenti. Ma una rivoluzione e una lotta di classe che
mirino a riformare l'uomo, sì. A questo punto bisogna notare che la classe
come categoria morale comporta la cultura come strumento (come arma o
pugnale, dice Mao). Il marxismo cosiddetto volgare aveva supposto che la
cultura fosse una sovrastruttura, cioè una secrezione innocente e
inconsapevole della classe. Ma per Mao questo determinismo meccanico
non è valido. Per Mao, le classi si forgiano freddamente, consapevolmente,
cinicamente l'arma della cultura al fine di difendere i loro interessi. La
borghesia si è forgiata a freddo e con piena coscienza l'arma della cultura
borghese (cioè tutta la cultura del passato in tutti i paesi). Il proletariato
deve rifiutare quest'arma maledetta e farsene anche lui, a freddo e con piena
coscienza, un'altra altrettanto acuminata e affilata. È ovvio l'effetto di una
tale teoria: condanna in blocco dell'arte e del pensiero del passato, straniera
e cinese, volontarismo e politicizzazione nella cultura maoista.
La classe insomma, è una categoria morale. La categoria morale del bene
è il proletariato; quella del male, la borghesia. Di conseguenza la lotta di
classe oggi in Cina, è la lotta contro il male. In altri termini la classe non è
fuori e intorno all'uomo, ma dentro di lui. Essa è l'eterna tentazione
diabolica contro la quale bisogna combattere in eterno.
Gli effetti di questo stato di cose sono molti e importanti. Prima di tutto
se la classe è una stortura interiore, tutti possono esserne affetti, anche i
compagni di lotta, anche coloro che condividono il potere con Mao, anche il
sindaco di Pechino Peng Ceng oppure il presidente della repubblica Liu
Sciaoci. Inoltre se la cultura è un'arma di classe cioè un'arma per fare il
male o il bene, la cultura occidentale o che sembri occidentale va colpita
senza pietà e in tutti i suoi aspetti. Questo spiega il carattere al tempo stesso
drastico e molteplice dell'"austerità" cinese che condanna indifferentemente
Shakespeare e le minigonne, i classici cinesi e i dischi di musica da ballo,
Dostoieschi e le calze di seta. Si tratta di una austerità totalitaria basata
sull'idea molto semplice che la controrivoluzione può annidarsi dappertutto,
anche in un tubetto di rosso per le labbra. Forse servirà a questo punto
nominare qualche precedente storico: la Firenze di Savonarola, la Ginevra
di Calvino. Ma si trattava pur sempre di piccole comunità, non di settecento
milioni di individui.
A questo punto, si domanderà, naturalmente: perché tutto questo? Cioè
per quale fine? È una domanda alla quale non è possibile rispondere che
prospettando due ipotesi.
La prima è che la Rivoluzione Culturale preluda, forse
inconsapevolmente, alla guerra contro gli Stati Uniti. In questo caso
distruggendo tutto ciò che è occidentale e creando, di contro alla civiltà del
consumo americana, il paradosso della civiltà della privazione, la Cina si
sarebbe messa nelle migliori condizioni per affrontare il conflitto. La
seconda ipotesi è che la Rivoluzione Culturale sia, in sostanza, una specie
di Grande Muraglia autarchica e nazionalista con la quale, fatto non nuovo
nella sua storia, la Cina miri a rinchiudersi dentro le proprie frontiere
culturali per un lunghissimo tempo, noncurante del resto del mondo,
sufficiente a se stessa. A nostro parere la seconda ipotesi è la più probabile.
E questo perché, a ben guardare, la Rivoluzione Culturale sembra essere
soprattutto un'operazione tendente a stabilire una volta per tutte
un'ortodossia definitiva. Non per nulla nella frattura del mondo comunista
tra "revisionisti" e "dogmatici", la Cina è alla testa di questi ultimi. In altri
termini e in maniera paradossale, la Rivoluzione Culturale con il suo
movimento furibondo e incessante dovrebbe creare un'immobilità assoluta e
duratura Questa contraddizione non è nuova nella storia cinese. Anche
l'ortodossia sociale confuciana era apparentemente negata dal quietismo e
misticismo taoista. In realtà si trattava delle due facce alterne di una sola
cultura.
IL FORNELLO A GAS

Oggi il programma comprende una visita alle statue (non meglio


definite); e una visita ad una fabbrica. Le statue, come scopro quando
l'automobile si ferma davanti a un portale dal triplice tetto a punte rialzate,
si trovano nell'ex città proibita, ossia dimora degli imperatori, oggi
trasformata in giardino pubblico. Entriamo, ecco il parco bellissimo dai
grandi alberi fronzuti sotto i quali era piacevole passeggiare; ecco i
meravigliosi padiglioni dai tetti multicolori nei quali si viveva tra i riti
dell'etichetta. Ma dappertutto buche, mucchi di calcina, impalcature, operai:
la città proibita, dopo il malgoverno dei cosiddetti signori della guerra e poi
dei generali giapponesi, ha ricevuto l'ultimo colpo dai recenti bivacchi delle
guardie rosse e oggi è in restauro. Ecco il Palazzo d'Inverno: porticato
colossale sotto un massiccio tetto dalle tegole colorate, in cima a una
maestosa scalinata di marmo bianco. Il piccolo cortile di fronte al palazzo è
gremito di file di studenti che aspettano, sorvegliati da maestri e maestre.
Che aspettano? La nostra guida risponde: "Aspettano di vedere le statue."
Entriamo anche noi, dopo lunga attesa. L'interno del palazzo è stato
svuotato. Non ci sono che le enormi colonne cilindriche e la nudità dei
pavimenti e dei muri. Ma torno torno le pareti, corre un soppalco sul quale,
nell'ombra, intravediamo numerosi gruppi di statue. Ci avviciniamo: sono
statue di gesso dipinto di un brutto color marrone, di grandezza quasi
naturale. Sono statue narrative, cioè tutt'assieme compongono una storia, un
racconto. Una fanciulla occhialuta armata di un pedagogico bastone, indica
via via le statue e spiega.
Che spiega la maestra? Spiega il martirio di una famiglia di contadini di
una lontana provincia dell'ovest, prima della rivoluzione. Bisogna sapere
che, oggi, in Cina, i contadini, cioè quasi tutti i cinesi, hanno una sola
ossessione: il proprietario di terra. Non già il padrone della fabbrica
(l'industria in Cina è poca e recente) ma il latifondista che per più di
duemila anni li ha dominati. È questo il babau, l'orco, il mostro numero uno
della Cina comunista. Alla rappresentazione, per esempio, del balletto
propagandistico "La ragazza dai capelli bianchi", allorché il latifondista che
perseguita l'eroina, contadinella innocente, viene alfine arrestato e (dietro le
quinte) fucilato, al rumore degli spari tutta la platea sorge in piedi
applaudendo con frenesia. È una platea di contadini, memori di passate,
atroci angherie. Per loro il latifondista è semplicemente il diavolo.
Ora dunque, in questo racconto fatto con le statue, si manifesta una volta
di più il carattere religioso della rivoluzione in Cina: non c'è da sbagliare,
siamo di fronte ad un presepe, sia pure politico, ad una Via Crucis, sia pure
sodale-economica. La storia, poi, che la fanciullina dal bastone ci racconta è
tutta vera. Si tratta di un vero latifondista feudale, che, a quanto pare,
abitava, con altri cinque membri della famiglia in un palazzo di centottanta
stanze. Il bastone didattico ci indica, infatti, un grafico della dimora di quel
fortunato individuo: padiglioni, cortili, giardini, un vero soggiorno di
delizie. Ma la Cina, trent'anni or sono, era nelle condizioni dell'Italia al
tempo dei longobardi. Accanto alle delizie per i padroni, nel palazzo c'erano
prigioni (fotografate), catene (fotografate), per i servi della gleba
recalcitranti. Dopo il grafico e le fotografie, la fanciulla dal bastone passa
ad illustrarci la Via Crucis delle statue. Sono statue in uno stile rozzamente
sentimentale, veristico, edificante, nelle quali De Amicis e De Sade si
danno la mano con gli ignoti pittori delle stazioni della Passione nelle
chiese dei nostri villaggi. La famiglia dei contadini è lacera, affamata,
affranta. Il padre è coperto di stracci, la madre ha un infante alla mammella,
gli altri figli sono degli scheletri, i nonni due accattoni. Invece il
proprietario è un mostro di sadismo: bellamente vestito di una lunga
zimarra, sta sdraiato su cuscini, respingendo, superbo, con piede
oltraggioso, le offerte di riso della sventurata famiglia. Il riso non basta, la
famiglia torna al lavoro, sotto la sferza di spietati aguzzini. Alla fine, non
riuscendo a soddisfare l'esosità del padrone, il padre prostituisce la figlia
più grande; vende, per lo stesso scopo, la bambina in fasce. Ma il
proprietario non si placa. Allora il contadino si rivolta. Nell'ultimo gruppo
vediamo sgherri e proprietario atterrati e uccisi; il contadino trionfante,
sventola la bandiera di Mao.
È inutile insistere sulla bruttezza di queste statue, tanto più notevole in un
paese come la Cina un tempo famoso per la raffinatezza e perfezione dei
prodotti artistici. Semmai bisogna sottolineare una volta di più il gusto da
presepe di campagna, che è quello delle masse contadine alle quali oggi,
attraverso la Rivoluzione Culturale, Mao si appella direttamente. Ora è
verissimo che prima della rivoluzione i contadini, immiseriti e indebitati per
molte generazioni in anticipo prostituivano le figlie, vendevano i bambini;
ma questa verità, purtroppo, trova espressione in un'arte così rozzamente
edificante e didascalica da risultare ad dirittura menzognera e comunque,
almeno per noi, del tutto inefficace.
Seconda parte del programma: la fabbrica. Non starò a descrivere questa
fabbrica. Per i comunisti le fabbriche hanno un significato morale e politico
di progresso liberatorio e di vittoria della rivoluzione industriale
sull'aborrita civiltà contadina e artigiana; per me invece le fabbriche sono
fabbriche e basta e sono tutte uguali, in Cina come in Europa. Tuttavia, non
ho difficoltà a dichiarare, ad uso dei lettori italiani e anche (non si sa mai)
cinesi, che era una grande fabbrica da ogni punto di vista efficiente e
moderna.
Visitata dunque la fabbrica, eccoci per un'intervista, nella sala delle
riunioni. Davanti a me, sta un dirigente della fabbrica, un operaio, uomo
giovane dal volto serio e persino un po' truce, con tratti da maschera tragica
cinese sotto una sfuriata di capelli irti. Ci hanno servito il tè, un altro
operaio sta seduto in disparte pronto a scrivere tutto quello che diremo; io
attacco: "Che cosa avveniva in questa fabbrica prima della Rivoluzione
Culturale?"
"Eravamo diretti da una manciata di traditori. (Formula ufficiale.
Nell'inglese dell'interprete: A handful of traitors).
"Chi erano questi traditori?"
"Persone in autorità che hanno preso la strada del capitalismo." (Altra
formula ufficiale. Nell'inglese dell'interprete: Persons in authority who were
taking the capitalist road).
«Capisco. E che ne avete fatto di questi individui?"
«Li abbiamo smascherati." (Terza formula ufficiale. Nell'inglese
dell'interprete: Unmasked)."
D'accordo. Ma in termini reali, pratici, che è avvenuto?"
Silenzio e impaccio. Dicendo che erano governati da una manciata di
traditori, che questi traditori stavano prendendo la strada del capitalismo,
che li hanno smascherati, il giovane, evidentemente, ha creduto in buona
fede di essersi espresso non già per luoghi comuni della propaganda ma in
termini oltremodo concreti e reali. Per lui quelle formule indecifrabili
quanto logore, sono la verità. Insisto: "Li avete smascherati. Che vuol dire?
Che li avete mandati via?"
Risponde con ambiguità: "Se ne sono andati via."
"Chi erano?"
"Il direttore, i vicedirettori, gli altri dirigenti."
" Da chi erano stati nominati?"
"Dall'alto. Dal municipio di Pechino."
"E ora?"
"Ora noi operai abbiamo nominato dal basso, democraticamente
diciassette dei nostri come dirigenti e, tra questi, quattro come direttori."
"Esistevano nella fabbrica operai che condividevano le vedute di questi
traditori?"
"Sì, ma li abbiamo persuasi, hanno riconosciuto i loro errori e li abbiamo
rieducati."
Sempre l'educazione, sempre la persuasione, sempre 1'idea che l'uomo è
soprattutto uno scolaro. Concludo: "Che effetto ha avuto la Rivoluzione
Culturale nella fabbrica per quanto riguarda il lavoro, la produzione?"
"Ottimo. La produzione è cresciuta, tutti lavora no con maggiore
entusiasmo."
L'intervista è finita. Ci propongono ora di visitare una casa di operai.
Detestiamo visitare le case altrui, comuniste o capitaliste, per motivi che
non siano strettissimamente privati. I motivi di propaganda, poi, ci
sembrano i meno validi: la visita non può non essere preparata, allestita,
magari truccata. Ma accettiate, si intende. Eccoci in una strada
fiancheggiata di case operaie, di due piani, in mattoni rossi. Bambini si
rincorrono e giocano; donne sfaccendano. Eccoci nel quartierino prescelto
per la visita: due stanze, una cucina un gabinetto. Ci abita un vecchio
operaio con la famiglia. È solo, la famiglia è al lavoro. Siamo presentati
all'operaio. È un uomo anziano, molto magro con un volto simpatico,
civilissimo, curiosamente aristocratico. Ha un'espressione insieme
disinvolta e preoccupata. Siede con noncuranza, le gambe accavallate. È
vestito di abiti nuovi, noi diremmo abiti da festa: tunica blu chiusa al collo,
pantaloni grigi, pantofole. Ci guardiamo attorno. Due letti senza materassi (i
cinesi dormono sul duro), con le coperte stese sul piano di legno; un tavolo;
e, strana a vedersi, una piccola libreria con cinque o sei file di libri
strettamente allineati, dalle coste ricoperte di copertine di carta comune,
alcuni grossi come dizionari, altri sottili come libelli. Facciamo all'operaio
delle domande personali
Apprendiamo che è un engineer (cioè un macchinista), che ha vissuto e
lavorato a lungo a Sciangai, che ora vive a Pechino. Ecco il nostro dialogo:
"Lei lavora ancora?"
"No, sono a riposo."
"E che fa?"
"Per lo più faccio la propaganda al pensiero di Mao nel vicinato."
"E il resto del tempo che fa? Ascolta la musica della radio?"
"No, non mi piace la musica."
"Guarda alla televisione?"
"No non mi piace la televisione."
"Passeggia per i parchi?"
"No, non mi piace passeggiare."
«Che fa?"
"Leggo le opere di Marx, Lenin, Stalin, Mao."
Così dicendo, con breve, strano gesto indica la piccola libreria. Restiamo
perplessi. In questo paese nel quale neppure le guardie rosse cioè gli
studenti, leggono Marx ma si limitano a leggere Mao, ecco un vecchio
operaio che lo legge nelle ore di ozio. La nostra guida interviene:
"Vogliamo andar via?"
L'operaio, allora, con un curioso movimento di simpatia verso di noi, ci
dice: "Un momento, vorrei mostrare a questi signori la cucina."
Lo seguiamo, cammina piano, un vecchio uomo che non ha più tanta
forza nelle gambe. Entra nella cucina e noi dietro. È in ordine specchiato, la
cucina; ma con poche stoviglie e utensili, però. C'è una piccola credenza, un
piccolo tavolo, un fornello a gas. L'operaio si avvicina a questo fornello e
allora avviene un fatto singolare: il lettore degli irti e oscuri Marx e Lenin,
del noioso e clericale Stalin, del moralistico e didascalico Mao, mostra di
riporre tutto il suo orgoglio in quel comunissimo fornello a gas. Accende un
fiammifero, fa sprigionare le fiammelle, ci mette sopra, con gesto
dimostrativo, una pentola. Come per dire: "Guardate che cosa ho. Avete mai
visto una cosa simile?"
Usciamo dalla casa con tre domande che ci frullano nella testa. O meglio
tre ipotesi. La prima è che l'operaio non legge Marx e che la libreria è stata
messa lì per suggerire una certa idea della cultura degli operai al visitatore
occidentale. La seconda è che l'operaio legge o meglio si sforza di leggere
Marx, Lenin, Stalin e Mao; ma in realtà il suo cuore è presso il fornello a
gas, tangibile prova del proprio progresso sociale. Infine la terza ipotesi è
che l'operaio non legge Marx, Lenin, Stalin ma forse soltanto Mao; e che
anche il fornello, come la libreria, fa parte di una messa in scena
propagandistica. Ma la sua trepidazione e il suo orgoglio accendendo il
fornello parevano sinceri. Ahimè, il cuore dell'uomo è insondabile; e le
ipotesi forse non sono né tre né quattro né dieci ma cento, ma mille e la
verità non la sapremo mai.
IN ITALIA, STUDIATE IL LIBRO DI MAO?

Stanno di fronte a noi, nel salotto dell'università quattro in tutto, due


ragazzi e due ragazze. Portano al braccio la fascia scarlatta che distingue le
guardie rosse. Tutti e quattro hanno il libro di Mao in mano. Sono
giovanissimi; tutti, probabilmente, sotto i vent'anni. Hanno un'aria gentile,
timida, e tuttavia molto sicura di sé.
Domando: "La Rivoluzione Culturale come la considerate?"
"È la nostra rivoluzione."
"Vale a dire?"
"La rivoluzione della gioventù."
"Così tra un anziano magari saggio, magari sapiente e uno dei vostri,
ventenne o anche quindicenne, chi preferite?"
"Il nostro, il quindicenne."
"Siete per Mao contro il partito?"
"Siamo per Mao contro tutti."
"Avete letto Marx?"
"No. Leggiamo Mao."
"Perché sono state chiuse le università?"
"Per farci viaggiare, riunire e visitare Mao. E anche per rifare i
programmi."
"In che senso rifare i programmi?"
"Nel senso di politicizzare gli studi."
Li guardo mentre li interrogo e ripeto di me: sono dei ragazzini, dei
bambini. Sono bambini per la freschezza, per l'ignoranza, per l'ingenuità,
per l'aggressività; ma soprattutto sono bambini per la qualità candidamente
religiosa della loro credenza. Li hanno chiamati all'estero hooligans e
Hitlerjugend (in URSS), teppisti (versione angloamericana di destra), beat
cinesi (versione angloamericana di sinistra), pretoriani (versione cinese di
Formosa) e così via. Ma a me fanno venire in mente un ricordo storico:
quello della quinta crociata, la cosiddetta crociata dei fanciulli. Nel 1207,
Stefano, un pastorello dodicenne fanatico, munito di una lettera che diceva
essergli stata inviata da Cristo, riuscì a tirarsi dietro da tutta Europa migliaia
di ragazzi e ragazze affermando che una volta giunti al mare, questo si
sarebbe aperto, come già il Mar Rosso davanti agli ebrei, e loro avrebbero
potuto camminare all'asciutto fino a Gerusalemme e liberarla. Ma giunti a
Marsiglia, il mare non si aprì; si aprirono invece le stive di alcune navi di
loschi mercanti, i quali, invece di portare i ragazzi in Terrasanta, li
portarono ad Algeri e li vendettero tutti quanti come schiavi.
Le guardie rosse hanno la totale ignoranza, la totale fiducia in Mao, la
totale religiosità che domani potrebbe portarli, innocenti e fanatici, alla
guerra in qualche Nord Vietnam o Nord Corea. Bambini, ripeto; e dei
bambini hanno pure la povertà luminosa, la castità ignara.
"Quando vi sposate qui in Cina?"
"Il più tardi possibile."
"Perché?"
"L'uomo deve dedicarsi prima di tutto alla rivoluzione e poi alla
famiglia."
Non insisto. So che in Cina, per non aumentare la popolazione già
pletorica, viene consigliato (cioè, in fondo ordinato) di non sposarsi prima
dei trent'anni. E prima del matrimonio non c'è quel rapporto sovente
completo che in Italia eufemisticamente viene chiamato fidanzamento. La
Cina non è antisessuale; è asessuale. Entra, in questo momento, una
studentessa portando un enorme termos. Spero in una corroborante tazza di
buon tè; ma mi illudo. La povertà delle guardie rosse è tale che non possono
neppure permettersi una bustina di tè del valore di pochi centesimi.
Centellinano, invece, con compunzione, tazze piene di semplice acqua
calda. E noto allora che molti di loro hanno pezze ai gomiti, alle ginocchia.
Pezze pulite, ben cucite, ma, infine, pezze. E che gli abiti sono lavati di
bucato, ma, per mille minute spiegazzature, mostrano di non essere mai
stati stirati. Del resto questa è la regola, in Cina: nessun vestito appare mai
stirato; e le pezze le ho viste pure sulle ginocchia o i gomiti di qualche
soldato. Domando ancora: "È vero che vi siete messi contro i professori e
contro personaggi importantissimi dello Stato?"
Ridono, gentili, dolci, simpatici: "Sì, ma per il loro bene. Per educarli,
istruirli, riportarli sulla strada della rivoluzione dopo che avevano
imboccato quella del capitalismo."
Penso: i sovietici, gli anglosassoni parlano delle guardie rosse come di
teppisti e peggio. A me sembrano, invece, boy-scouts politici, fanciulli in
crociata. E poiché gli esempi sono sempre più utili dei ragionamenti, eccone
uno che sta a illustrare la curiosa mescolanza di infantilismo e di fanatismo
delle guardie rosse. E' una storia raccontata in un loro giornale con il titolo
significativo: "Non bisogna temere di lavare i propri panni sporchi in
pubblico". In questa storia è narrato come le guardie rosse riuscirono ad
attirare fuori di casa la moglie del presidente della Repubblica popolare
cinese Liu Sciao-sci, e a farle fare una autocritica pubblica. L'operazione,
dice il giornale nel suo linguaggio ingenuo e infiammato, consisteva nelle
"snidare la serpe dal suo buco", cioè appunto costringere "la famigerata
ladra numero uno dell'università di Tsinghua", Wang Kuang-mei (è questo il
nome della moglie di Liu Sciao-sci) ad autocriticarsi di fronte a ventimila
tra studenti, professori e lavoratori. Se in Cina ci fosse stata una polizia
segreta come nella Russia di Stalin o nella Germania di Hitler, la cosa si sa
come sarebbe andata. Ma niente caratterizza meglio le guardie rosse, del
modo tortuoso, infantile e come scoutistico che venne invece adottato.
Per cominciare, un gruppo di guardie rosse andò alla scuola media dove
Liu P'ing-p'ing, figlia di Wang Kuang-mei stava facendo a sua volta
l'autocritica e la portò in un certo ospedale. Qui con un semplice argomento
(sei con Mao o contro?) essa fu convinta a prendere parte al complotto. Un
altro gruppo intanto telefonava a casa di Liu Sciao-sci, chiedeva di Wang
Kuang-mei e l'informava che la figlia Liu P'ing-p'ing si era rotta una gamba
in un incidente stradale. La madre, donna esperta, allora mandò un uomo
fidato, il compagno Li, insieme con la figlia più piccola, quindicenne, Liu
T'ing-t'ing.
Appena giunti all'ospedale, i due scoprirono che Liu P'ing-p'ing stava
benissimo; ma con il solito argomento (siete per Mao o contro Mao?),
furono anche loro coinvolti nella congiura. Così la quindicenne Liu T'ing-
t'ing telefonò alla madre: "Mamma, vieni subito. P'ing-p'ing ha una gamba
rotta." Questa volta "la serpe uscì dal buco", cioè, sconvolti, gli occhi
arrossati di pianto, il presidente Liu Sciao-sci e la moglie Wang Kuang-mei
si precipitarono all'ospedale. Per farsi, poi, sentir dire dalle guardie rosse
che la figlia stava bene, che era stato tutto un inganno e che Wang Kuang-
mei doveva venire con loro per una solenne pubblica autocritica. Adirato,
Liu Sciao-sci voltò le spalle e se ne andò. La povera madre, a questo punto,
ebbe per un momento una specie di collasso, accasciandosi "come un
pallone sgonfiato"; ma le guardie rosse, cavalleresche, l'aiutarono
"proteggendola contro la folla indignata" a salire in macchina. Dentro
l'automobile, Wang Kuang-mei però si riebbe. Ad una delle guardie rosse
che le domandava se fosse spaventata rispose: "Nient'affatto. Ma avevo
paura per la mia bambina. Per questo sono accorsa." Risultato: alle dieci del
mattino, davanti a ventimila guardie rosse, Wang Kuang-mei "la famigerata
ladra numero uno dell'università di Tsinghua" fu costretta a fare
l'autocritica. "La serpe era stata insomma snidata dal buco."
Qual è la morale di questa storia? La più immediata è che le guardie rosse
sono, come ho già detto, dei fanciulli in crociata. La seconda è che tutte le
autorità (professori, superiori, uomini politici e del partito) sono battute in
breccia, salvo quella di Mao. Ma la terza è più vasta. Immaginate un
momento che l'Italia sia governata da un papa in disaccordo su una
questione religiosa con la propria curia, Immaginate che alcuni cardinali
prendano le parti del papa e altri si schierino contro di lui. Immaginate che
il dibattito venga esteso a tutto il paese e che il paese vi prenda parte con
passione, attraverso giornali murali, riunioni, dimostrazioni, processioni
eccetera. Immaginate, però, che nello stesso tempo nonostante un contrasto
così violento, tutti gli italiani siano d'accordo sull'intangibilità dell'istituto
della Chiesa. In altri termini immaginate l'Italia spaccata in due tra due
tendenze ciascuna delle quali pretende di essere ortodossa e accusa l'altra di
eresia. Comprendiamo che tutto ciò sembrerà alquanto medievale; ma tutto
ciò attesta pure la straordinaria vitalità della lotta politica in Cina; la sua
fertilità, inventività, complessità.
C'è, dunque, in Cina una lotta politica di specie religiosa; ma sul terreno
di una fondamentale unità politica e istituzionale. Il dibattito poi verte su un
punto molto semplice anche se importantissimo: è più ortodosso il sistema
russo della direzione partitica dall'alto o quello maoista della direzione delle
masse dal basso? Ecco tutto. Qualcuno, adesso, si domanda: perché Mao,
che ne ha la possibilità, non fa arrestare i propri oppositori (a cominciare da
Liu Sciao-sci) e non li fa processare e fucilare, come avrebbe fatto Stalin?
Ma Mao non è Stalin. Mao non vuole il potere personale attraverso la
violenza, come Stalin. Mao l'educatore, Mao il dialettico, vuole il potere
ideologico attraverso la persuasione e l'educazione. Così egli non desidera
che Liu Sciao-sci sia ucciso bensì che cambi idea, cioè che si riconosca
eretico e abiuri l'eresia.
Si tratta, insomma, non già di una lotta per il potere personale, di specie
staliniana; bensì di una lotta per l'ortodossia, di specie ideologica e
religiosa. Il risultato pratico, secondo noi, sarà: o Liu Sciao-sci abiura e
rimane presidente; o non abiura e rimane presidente lo stesso fino alla fine
del mandato; a meno che prima non si dimetta e si ritiri a vita privata.
Potremmo sbagliarci: magari domani apprenderemo che Liu Sciao-sci sarà
processato alla maniera staliniana e "confesserà". Ma non lo crediamo.
Intanto l'intervista è finita. Usciamo dall'università facciamo una
fotografia di gruppo insieme con le guardie rosse sorridenti e affettuose.
Una di loro, poi, mi prende a parte e mi domanda (è la prima domanda
sull'Italia che mi viene fatta in Cina finora): "Voi in Italia studiate e
imparate a memoria il libro delle citazioni di Mao Tze-tung?"
Rispondo: "Non lo studiamo. Forse alcuni specialisti lo studiano. Ma
l'abbiamo letto, questo sì. Ne sono state pubblicate varie edizioni."
Non pare né convinto né veramente comprensivo. Saliamo in macchina.
Le guardie rosse ci salutano agitando per aria il libretto rosso delle citazioni
di Mao.
RIFIUTANO LA FASE PICCOLO-BORGHESE

In una recentissima intervista, Kruscev rancorosamente ha detto di Mao:


"Mao non è altro che un piccolo borghese con una natura contadina al quale
la classe operaia, il proletariato sono estranei." Quanto a Mao, in una sua
assai bella poesia intitolata Neve, curiosamente villoniana ("Ballade des
seigneurs du temps jadis"), che ho letto scritta in inglese, a grandi lettere
d'oro su un immenso pannello rosso, nell'aeroporto di Canton, così parla di
se stesso: "Ma, ahimè, questi eroi!: Shin Sci-huang e Han Wu-ti mancavano
di cultura; come difettavano di talento letterario gli imperatori Tan Tai-
tsung e Sung Tai-tsu, - E Genghis Khan - amato figlio del cielo per un solo
giorno, - non sapeva che tendere il proprio arco di contro all'aquila dorata.
Ora essi sono tutti passati e scomparsi; per trovare uomini veramente grandi
e dai cuori nobili noi dobbiamo guardare qui, nel presente."
Chi ha ragione tra Kruscev che parla di Mao come di un piccolo borghese
di estrazione contadina (sembra che descriva se stesso) o Mao che si
paragona addirittura a Genghis Khan, anzi si mette al disopra di Genghis
Khan, in quanto quest'ultimo, benché grande guerriero, mancava di cultura
(leggi: cultura marxista)? Con buona pace di Kruscev, il ritratto più
somigliante non è il suo, bensì l'autoritratto, certamente non privo di
superbia, che Mao ha tracciato di se stesso. Mao non è davvero un "piccolo
borghese di origine contadina" ma quel personaggio raro, che appare
raramente nella storia delle nazioni e che un tempo veniva aulicamente
chiamato "eroe eponimo". Ossia, in parole povere, l'uomo che dà il proprio
nome a tutta un'epoca, a tutto un aspetto di una determinata società. Mao
ormai ha settantaquattro anni e il culto della personalità, sfrenato e quasi
mostruoso, al quale si è lasciato andare negli ultimi sei mesi, se non è un
freddo espediente politico, è senza dubbio un grave segno di debolezza.
Tuttavia resta fuori dubbio che per quanto riguarda la sua vita passata gli
possono essere accostati soltanto personaggi della statura e del carattere di
Pietro il Grande di Russia e di Oliviero Cromwell d'Inghilterra. Con costoro
Mao ha in comune la formazione culturale complessa e travagliata, il
coraggio fisico, il talento militare, le fortune avventurose facilmente
mitologizzabili e infine e soprattutto quel non so che di enigmatico e di
popolaresco, di comune e di ambiguo che viene non già dall'ingegno, ma
dalla natura. Ma dell'"eroe eponimo", Mao ha anche, ed è questo l'aspetto
del suo carattere che ci interessa di più, la creatività politica e ideologica.
Certo Kruscev avrà un posto nella storia per aver abbattuto il mito
menzognero di Stalin; ma sarà un posto, inevitabilmente, di specie negativa.
Mao, invece, secondo noi, avrà un posto positivo; e non soltanto per motivi
"nazionali", cioè cinesi, ossia per aver salvato la Cina dalla catastrofe; ma
anche per avere creato un'ideologia nuova capace di soppiantare l'ideologia
sovietica Parliamo qui della Rivoluzione Culturale. Abbiamo descritto nei
capitoli precedenti quali potevano esserne state le origini, quali ne erano gli
effetti immediati. Adesso cercheremo di dire quali potrebbero esserne (si
tratta beninteso di una nostra privata ipotesi) i risultati nel più lontano
futuro.
Storicamente parlando, non crediamo che ci sia mai stato al mondo alcun
movimento o credenza di alcun genere che fosse realmente (cioè
storicamente) quello che pretendeva di essere, diceva di essere e voleva
essere. Esempio: la rivoluzione francese diceva di essere tante cose, per
esempio la rivoluzione definitiva contro i privilegi e la servitù degli uomini.
Ma si è poi visto che era la rivoluzione certamente liberatoria ma non
definitiva di una classe, cioè della borghesia. Così la Rivoluzione Culturale.
Trattandosi della Cina, paese di contadini, ci spiegheremo con una metafora
rustica: diremo dunque che Mao è un contadino il quale, avendo piantato un
seme di olivo, vedrà (meglio potranno vederlo i suoi successori) svilupparsi
e crescere invece una maestosa quercia. A meno, naturalmente, che il seme
non venga distrutto dal baco della guerra mondiale numero tre.
Qual è in fondo lo scopo della Rivoluzione Culturale? È di far fare alla
Cina contadina, cioè umanamente intatta e integra e ingenua e vergine, il
gran salto dalla civiltà artigiana e rustica a quella tecnologica, senza passare
attraverso lo stadio, finora apparentemente inevitabile, della fase piccolo-
borghese del comunismo. Cioè di fare questa cosa nuova inedita e quasi
incredibile: combinare la povertà più nuda, più strenua ma anche più
razionale con il progresso tecnico più avanzato. Insomma far giungere
l'uomo completo del mondo contadino alla libertà tecnologica senza pagare
il pedaggio piccolo borghese che in questo momento stanno pagando
l'URSS e tutti gli altri Stati comunisti del blocco sovietico.
Forse qualcuno non comprenderà quando le dico "uomo completo della
civiltà contadina", e "fase piccolo borghese del comunismo". Eppure non è
chi non veda che la fase del benessere (relativo e provinciale) del
comunismo attuale ha tutti i limiti della alienazione piccolo borghese.
Questo benessere mediocrissimo fatto di oggetti di consumo di cattiva
qualità fabbricati dallo Stato, trova il suo corrispettivo morale e psicologico
in una quantità di piccole vanità, ambizioni, pregiudizi, meschinità, onori e
convenzioni che sono propri della piccola borghesia in tutto il mondo. Si
arriverà forse lo stesso alla civiltà tecnologica. Ma ci si arriverà con
un'umanità piccolo borghese il cui progresso morale sarà ancora tutto da
fare.
La Rivoluzione Culturale vuole essere un rifiuto della fase piccolo
borghese del comunismo, della fase in giacca scura, cravatta scura e
camicia bianca (Kruscev, addirittura, i vestiti se li faceva fare da un sarto
italiano); un tentativo di arrivare alla libertà tecnologica con l'uomo povero,
rattoppato, quasi indigente ma umanamente intatto che noi vediamo oggi
per le strade di Pechino. È una credenza diffusa, quasi una verità
indiscutibile, che il progresso tecnologico debba per forza portare alla
superproduzione dell'industria leggera, al superconsumo della merce
fabbricata in serie. Ebbene, la Rivoluzione Culturale vorrebbe smentire
questa credenza, mostrare la fallacia di questa verità; e creare un progresso
tecnologico avanzatissimo che permetta di fabbricare la bomba atomica ma
al tempo stesso non consenta ai cinesi di avere una sola camicia o un solo
paio di pantaloni in più.
Qualcuno domanderà: ma una volta raggiunto il progresso tecnologico,
una volta trionfata la civiltà dell'automazione, dove andranno gli immensi
capitali prodotti da tanto lavoro e tante privazioni? La risposta potrebbe
essere questa: andranno prima di tutto all'impiego del tempo libero, cioè
alla cultura, all'educazione e alla formazione dell'uomo; e poi, com'è
credibile alle imprese della scienza, per esempio alla conquista degli spazi
interplanetari. Ma occorre sottolinearlo una volta di più: l'utopia della
Rivoluzione Culturale vorrebbe che a questa civiltà avvenirista e
fantascientifica ci arrivasse direttamente il contadino dall'umanità intatta,
non il piccolo borghese menomato, amputato, irretito nei pregiudizi.
Abbiamo esposto nelle grandi linee quali potrebbero essere i risultati
lontani della Rivoluzione Culturale. Stranamente, essi rassomigliano
abbastanza a quelli che potrebbero essere domani i risultati dell'illuminismo
culturale e tecnologico agli Stati Uniti. Anche agli Stati Uniti la liberazione
tecnologica ha bisogno di una società senza pregiudizi di alcun genere, di
una società senza divisioni di razza, di casta, di classe e di censo. Anche
agli Stati Uniti, insomma, la parte più giovane e più creativa del paese tenta
di arrivare alla civiltà tecnologica senza l'armamentario ingombrante e le
bardature antiquate dei pregiudizi piccolo borghesi.
Ma ritorniamo a Mao e alla Cina. Mao dice ad un certo punto delle sue
citazioni: "Per ogni fenomeno concreto, l'unità dei contrari è condizionata,
passeggera e transitoria e perciò relativa, mentre la lotta dei contrari è
assoluta." Che vuol dire questo? Vuol dire che Mao prospetta alla Cina una
dialettica perpetua, un perpetuo contrasto. Ora il grande nemico di Mao non
sono gli Stati Uniti, bensì il fondamentale, confuciano conservatorismo
cinese. Il pericolo è che, morto Mao, il suo pensiero venga imbalsamato e la
sua figura divinizzata. Il modo con il quale in Cina, negli ultimi tempi si è
ingigantito il culto della personalità e si è proceduto alla
confucianizzazione, ossia trasformazione in autorità ortodossa del pensiero
di Mao, non è molto rivoluzionario. Il conservatorismo di tipo confuciano è
stato in passato la fatalità della Cina e la causa di molti suoi disastri. Ma
l'idea del passaggio diretto, senza fase piccolo borghese, dell'uomo
contadino di intatta umanità, dalla povertà rustica alla razionalità della
civiltà tecnologica, quest'idea è certamente ciò che distingue la Rivoluzione
Culturale da tutte le altre rivoluzioni comuniste nel mondo.
IL PIENO E IL VUOTO

Durante il viaggio in Cina, oltre ai monumenti, alle visite alle fabbriche e


alle comuni, oltre alle conversazioni con personaggi di vario genere, c'era
uno spettacolo che non era né previsto né incluso nel programma
prestabilito dall'ufficio del turismo: quello della folla cinese.
Direi che questo spettacolo da solo vale la pena di un viaggio in quel
paese; d'altra parte senza questo spettacolo, qualsiasi notizia o informazione
o spiegazione o interpretazione della Rivoluzione Culturale rischia di essere
incompleta se non addirittura menzognera. "Andare a vedere con i propri
occhi", non è, almeno in questo caso, un luogo comune logoro e comodo;
vuol dire aggiungere alla notizia o all'informazione, il senso dell'urto
soggettivo con la realtà oggettiva; o, se si preferisce, il messaggio o i
messaggi che le cose ci inviano direttamente e immediatamente tramite il
più acuto e verace dei nostri sensi cioè la vista.
Forse non è possibile conoscere le cose; ma guardarle, questo sì. E
mentre la conoscenza ha bisogno di una lunga familiarità e abitudine e di
una non meno lunga decantazione nella memoria; lo sguardo richiede al
contrario soprattutto rapidità e candore. Non parlo qui delle cosiddette
"impressioni" di cui hanno abusato giornalisti, diaristi e scrittori di cose
viste da un secolo in qua. Direi che lo sguardo dovrebbe portare al contrario
giusto dell'"impressione". In circostanze culturali e psicologiche favorevoli,
esso equivarrebbe all'identificazione tra chi guarda e ciò che è guardato.
Non tanto, insomma, l'impressione fuggitiva e ambigua, quanto il recupero
dell'oggetto completo, cioè in altri termini, né più né meno che la
conoscenza, sia pure fulminea e irriflessa.
Questo per dire che non pretendo certo di conoscere la folla cinese nella
maniera, diciamo così, tradizionale: sono stato troppo poco in Cina. Ma l'ho
guardata, questo sì. E forse, limitandomi a guardarla l'ho in fondo
conosciuta quasi come se ci fossi vissuto in mezzo degli anni. Mi limiterò
tuttavia a parlare di due soli aspetti, in certo modo complementari, di questa
folla: la violenza e l'impassibilità.
Comincio dalla violenza. Al mio ritorno, il treno che mi porta da Canton
ad Hong Kong si ferma a lungo in una piccola stazione, per consentire ad
una folla di guardie rosse e di contadini di inscenare una dimostrazione
ostile contro l'imperialismo di turno. cioè quello del governatore inglese
della colonia di Hong Kong.
Il treno entra lentamente sotto la pensilina, si ferma. Ci alziamo dai nostri
sedili e guardiamo. Tutta la banchina è gremita di una folla compatta. Ma
non sono viaggiatori bensì dimostranti. In prima fila stanno le guardie rosse,
ragazzi e ragazze, con la fascia scarlatta al braccio. Poi, dietro di loro,
contadini, uomini e donne, vecchi e giovani. Tutta questa gente inalbera
bandiere rosse, ritratti di Mao inchiodati su bastoni, cartelli con slogan
antiinglesi infissi in cima a canne di bambù. Tutti brandiscono il piccolo
libro rosso delle citazioni maoiste. Ritto in piedi, li osservo dallo
scompartimento, attraverso i vetri chiusi ermeticamente. Naturalmente non
odo nulla; ma vedo benissimo tutto, anzi proprio perché non odo, in certo
senso vedo meglio che se anche udissi. Vedo, dunque, le bocche aperte
prima in un canto bellicoso e minaccioso, poi in grida di evviva ed abbasso;
vedo le braccia agitare le bandiere, i ritratti, i cartelli; vedo i pugni tendersi
chiusi verso di noi facendo il saluto comunista oppure brandendo
minacciosamente il piccolo libro rosso delle citazioni di Mao. Le facce
soprattutto, vedo: occhi ostili, volti induriti e raggrinziti dall'odio, bocche
spalancate coi denti bene in mostra, corde del collo tese nello sforzo del
grido. Vedo tutto questo e ciononostante, strano a dirsi, non provo il
sentimento di intimidazione e di apprensione che ispira la violenza. Tutto è
violento; ma al tempo stesso tutto è curiosamente privo di violenza.
Che vuol dire questo? Non vorrei essere frainteso; quella folla di
dimostranti è certamente sincera; essi non fingono l'odio; so bene che il
fanatismo delle guardie rosse non è recitato e non è falso. Ma so pure che
c'è nei cinesi come una seconda natura, fatta di cultura inconscia e antica la
quale automaticamente trasforma ogni loro manifestazione passionale in
qualche cosa di nervoso, di volontario, e soprattutto di mentale. Così,
adesso, mentre guardo i dimostranti allineati davanti al treno, sotto la
pensilina della stazione, mi viene fatto di pensare che essi potrebbero anche
essere più violenti, magari potrebbero arrivare persino al vandalismo e
all'omicidio cioè alla distruzione delle cose e delle persone; ma che questo
accadrebbe pur sempre in una maniera come dire? tutta di testa, magari con
raffinata crudeltà ma senza furore reale. È difficile spiegare questo mio
sentimento. Potrei dire che in qualsiasi comportamento che esca dai limiti
del perfetto controllo di se stessi, i cinesi sono sempre in malafede; ma una
malafede soltanto fisiologica che non riguarda se non l'animo e le sue
passioni le quali non partecipano in quanto, da lunghissimo tempo, sono
state educate e dominate. Invece la mente è sincera e partecipa
sinceramente anche se freddamente. Essa vuole, attraverso la vampa gelida
di un pensiero fanatico, essere violenta e ci riesce. Il risultato è lì, davanti ai
nostri occhi: una dimostrazione politica insieme fanatica e stranamente
priva di autentica passione.
In Cina anche il contadino più semplice è più sprovvisto di istruzione,
sembra nascere fornito di una seconda natura di specie culturale. La cultura,
in altri termini, è così antica in Cina da essere diventata una seconda natura.
Anche nei momenti di massima violenza privata o pubblica i cinesi stentano
a ritrovare la violenza primitiva della natura originaria sotto la seconda
natura che hanno acquisito attraverso la cultura. In Occidente invece la
cultura è molto più recente, non è che un velo gettato su una violenza
primordiale sempre pronta ad esplodere. Così mentre l'occidentale non
troverà mai molta difficoltà a regredire di colpo (come si è visto durante la
seconda guerra mondiale) all'uomo del Neanderthal; il cinese per quanti
sforzi faccia resterà pur sempre l'uomo della dinastia T'ang. Ne segue una
conseguenza curiosa: l'occidentale nasce violento e ci mette la vita intera ad
imparare ad essere colto e civile; invece il cinese nasce colto e civile e deve
imparare ad essere violento. Così si spiega il carattere spontaneo muscolare,
sanguigno, brutale della violenza dell'occidentale; e quello invece
volontaristico, nervoso, mentale, isterico della violenza cinese.
Una delle massime di Confucio dice a un dipresso così: "Portare gente
ignorante alla guerra vuol dire portarla al disastro." Possiamo anche
ammettere che Confucio abbia voluto intendere per gente ignorante
semplicemente gente non addestrata; tuttavia è significativo che si parli
anche qui di insegnamento, non di sentimento. Facciamo adesso un salto di
molti secoli e veniamo a Mao Tze-tung. Come è noto, Mao, oltre a tante
altre cose, è stato anche e soprattutto un capo militare sia durante la guerra
civile contro i nazionalisti del Kuonmintang sia nella lotta contro gli
invasori giapponesi. Il piccolo libro rosso delle citazioni di Mao è in buona
parte composto di massime sulla condotta della guerra ed originariamente,
prima di diventare il breviario di tutti i cinesi, era stato destinato all'esercito.
Ora, proprio nel libro di Mao, si può leggere questa massima senza dubbio
marxista; ma di un marxismo non troppo lontano dal confucianesimo: "Tra
il civile e il militare esiste una certa distanza ma non c'è tra di loro la
Grande Muraglia e questa distanza può essere facilmente varcata. Fare la
rivoluzione, fare la guerra, ecco il mezzo che permette di varcare la
distanza. Quando noi diciamo che non è facile imparare e applicare quello
che si è imparato, noi intendiamo dire che non è facile imparare qualche
cosa a fondo e applicarla con scienza consumata. Quando noi diciamo che
un civile può rapidamente trasformarsi in militare, noi vogliamo dire che
non è difficile essere iniziati all'arte militare. Per riassumere queste due
affermazioni conviene qui ricordare un vecchio proverbio cinese: 'Niente è
difficile per chi si applica a far bene quello che fa.' Iniziarsi all'arte militare
non è difficile e perfezionarsi è anche possibile pur che ci si applichi e si
sappia imparare."
La citazione di Mao è lunga; quella di Confucio brevissima; ma il
significato è pur sempre lo stesso: la violenza si insegna e si impara.
L'uomo non nasce violento, l'uomo nasce colto e civile. Cioè non nasce
militare ma nasce letterato. Ma noi sappiamo che in Occidente invece
l'uomo nasce violento, privo di saggezza, intriso di sangue e di sesso,
primitivo: per secoli il cristianesimo non ha fatto che ricordarcelo. E senza
ricorrere a considerazioni di specie religiosa, limitiamoci a notare che il
bambino cinese, in passato, era iniziato prestissimo ai riti del rispetto verso
i superiori (genitori, maestri, dirigenti, imperatore) nonché alle massime
della saggezza confuciana che, appunto, era all'origine di quei riti; mentre il
bambino occidentale giocava e tuttora gioca prima di tutto al soldato; per
accostarsi poi molto più tardi (e quasi sempre di malavoglia) ai libri.
Del resto paragoniamo adesso alle massime di Confucio e di Mao
sull'insegnamento dell'arte della guerra, quelle di un classico occidentale
sulla stessa materia: von Clausevitz. Ecco un primo pensiero: "L'intervento
del pensiero lucido e ancor più il predominio della ragione, toglie alle forze
emotive buona parte della loro violenza..." E ancora: "L'intrepidità
costituisce una vera forza creatrice... fortunato l'esercito nel quale
l'intrepidità intempestiva è frequente: è una escrescenza lussureggiante ma
che sta a denotare un terreno fertile. Anche il colpo di audacia, cioè
l'intrepidità insensata non è da disdegnarsi: in fondo è forza d'animo che si
esercita in una specie di passione, nell'assenza di qualsiasi controllo della
ragione."
Come si vede, mentre i cinesi Mao e Confucio pensano che il civile deve
imparare la violenza la quale può essere insegnata come qualsiasi altra
materia, l'occidentale Clausevitz, invece, consiglia di non sottrarre, con
l'insegnamento ossia l'uso della ragione, la violenza alle forze emotive del
soldato. Quest'ultimo nasce violento ed è bene che la sua violenza rimanga
intatta, senza aggiunte o modificazioni mentali. Tutt'al più si tratterà di
avviarla verso il suo fine cioè verso l'omicidio, attraverso una disciplina
durissima e indecifrabile.
Adesso vengo all'altro aspetto del carattere della folla cinese:
l'impassibilità. Sfilavano per i viali di Pechino le guardie rosse con le loro
bandiere, i loro ritratti di Mao, i loro flauti e tamburi, i loro canti, i loro
gridi, i loro libri rossi branditi minacciosamente. Oppure altre guardie rosse,
in una strada di Canton, appoggiavano una scala a pioli alla parete di una
casa già completamente catafratta di manifesti, salivano armate di pennelli e
di barattoli di colla, con poche energiche pennellate appiccavano alla parete
il loro più recente giornale murale, ancora fresco di inchiostro. Io allora non
guardavo né alle dimostrazioni (ne avevo viste tante), né ai giornali murali
(erano scritti in cinese, non so il cinese), ma alla gente che assisteva alla
sfilata oppure, in numerosi capannelli, si fermava a leggere i manifesti. Ed
ero invariabilmente colpito dal numero non piccolo delle persone che
restavano impassibili. Non già impassibili alla maniera degli occidentali di
fronte a qualche cosa che gli ispiri un sentimento di dispiacere o addirittura
di ostilità che, tuttavia, per interesse o timore o calcolo o altro motivo
estrinseco, si studino di nascondere. No, l'impassibilità dei cinesi era
un'impassibilità reale, non soltanto apparente ma profonda; cioè una vera
propria apatia o mancanza assoluta di sentimento. Cioè, queste persone
erano impassibili perché, in realtà, non "c'erano". Voglio dire con questo
che c'erano corporalmente, in carne e ossa; ma per il resto erano altrove.
Dove? Non già, secondo me, in un'altra realtà politica e sociale per così dire
ideale, ma in un'interiorità remota e abissale, fatta di non esistenza, di
vuoto. Ora anche in questo caso sentivo che dovevo ricorrere, come per la
violenza, alla spiegazione culturale. E cioè, quei cinesi impassibili non
erano veramente ostili alle sfilate e ai manifesti. Si limitavano invece a
lasciare affiorare la loro seconda antichissima natura di origine culturale. In
altri termini, ricorrevano senza rendersene conto al taoismo che, nella più
antica tradizione cinese, costituiva la faccia opposta e complementare del
confucianesimo.
Il confucianesimo, ovviamente, non è violento. Ma è umanistico. Crede
nella ragione e di conseguenza non può non credere in quella forma di
violenza tutta mentale che consiste nell'applicazione coerente della ragione.
Illuministico ed educativo, sprezzante e diffidente verso qualsiasi elemento
irrazionale, il confucianesimo, naturalmente non trova difficoltà a
trasformarsi in maoismo. Infatti tra l'uomo civile che ci presentano le
massime di Confucio, e il proletario politicizzato che traluce in quelle di
Mao, la differenza non è poi tanto grande. In ambedue, l'individuo deve
sottostare alla società o addirittura non esistere in senso privato. In
ambedue, deve essere umile e rispettoso verso i superiori. In ambedue deve
considerarsi un eterno scolaro sempre disposto e pronto ad imparare.
Dell'uomo interiore, irrazionale in comunicazione diretta con il
soprannaturale, ambedue non parlano affatto.
Ne parla invece molto Lao Tse nel Libro del Tao e della sua virtù. (Tao
Te King): "Il Tao è vuoto. E ciononostante è inesauribile. Quale abisso!" E
più avanti: "Dedicandosi allo studio, si aumenta ogni giorno; consacrandosi
al Tao si diminuisce ogni giorno. Non si cessa di diminuire finché non si
raggiunge il Non-agire. Grazie al Non-agire, non c'è niente, certo, che non
si possa fare. Per ottenere l'Impero, il solo mezzo è non far nulla per
ottenerlo. Finché si agisce per ottenerlo, non si conquista l'Impero." E
ancora: "Colui che sa, non parla; colui che parla non sa. Chiudere la bocca,
chiudere le porte, temperare l'ardore, liberarsi dei legami, armonizzare con
la luce, mimetizzarsi con l'ambiente, questo si chiama l'unione misteriosa."
E infine: "Neonato, l'uomo è flessibile e fragile; morto è rigido e duro. Alla
loro nascita le piante e gli alberi sono teneri e flessibili; alla loro morte sono
rigidi e duri. Solidità e rigidezza sono le compagne della morte; flessibilità
e debolezza sono le compagne della vita. Ecco perché un esercito diventato
forte non vince; perché un albero grande sarà abbattuto. Ciò che è forte e
grande è in posizione inferiore; ciò che è flessibile e debole è in posizione
elevata."
Si potrebbe continuare. Ma si tratta di massime notissime anche se
misteriose, il cui significato cripticamente ambiguo e ironico, non è
certamente riducibile ad una misura psicologica. Il Tao è davvero, come
dice la prima massima che abbiamo citato, inesauribile e abissale. Ma
considerandolo per comodità del mio discorso, una delle due "vie"
principali della cultura tradizionale cinese (l'altra sarebbe quella
confuciana), mi sembra di potere arrischiare l'ipotesi che l'impassibilità di
tanti cinesi di fronte alle manifestazioni della Rivoluzione Culturale, così
diversa dall'impassibilità occidentale in circostanze analoghe, si possa far
risalire, sia pure attraverso la ripetizione inconscia di un comportamento
ancestrale, appunto al quietismo mistico del Tao. Si tratterebbe dunque
dell'idea sconcertante (sconcertante s'intende per qualsiasi potere mondano)
che l'uomo può ritirarsi in un suo insondabile vuoto interiore; e che, essendo
la forza nient'altro che debolezza, qualsiasi Stato o Partito politico, quanto
più è efficiente e numeroso e ben organizzato, tanto più è debole. Mentre,
invece, l'individuo il quale si sia rifugiato e trincerato nel proprio vuoto
interiore, quanto più sembra disarmato, solo e impotente, tanto più, in
realtà, è forte. Naturalmente, torno a ripeterlo, quei cinesi che rimangono
impassibili di fronte alle manifestazioni più violente della Rivoluzione
Culturale, non sono tutti dei taoisti consapevoli. Ho già detto che la cultura
in Cina è spesso una seconda natura. Non toglie che quando in Occidente si
parla di maoisti e di antimaoisti, si commette l'errore di ragionare secondo
la maniera occidentale su cose che occidentali non sono affatto.
La mia opinione è che, a ben guardare non esistono, al livello pubblico,
politico e sociale i maoisti e gli antimaoisti. Mao è più forte che mai; la
Rivoluzione Culturale ha confermato la sua forza, se ce n'era bisogno; i
cosiddetti maoisti e antimaoisti di cui si parla nei giornali dell'Occidente
non sono che due correnti rivali e discordi di una stessa fondamentale
ortodossia che, secondo la più antica e radicata tradizione cinese, chiamerò
la ortodossia della virtù. S'intende, non più la virtù confuciana, durata
decine di secoli, bensì la virtù maoista, la cui instaurazione è vecchia
soltanto di una ventina di anni. Questa virtù, nella mente dei cinesi, ha
ormai preso il posto di quella confuciana non soltanto per le sue qualità
normative e stabilizzatrici ma anche per la sua proclamata ed evidente
capacità di durata. Ora, alla base della virtù maoista, come del resto di
quella confuciana, c'è l'idea della vergogna o, come si dice correntemente,
della "perdita della faccia". L'occidentale conosce il peccato cristiano ossia
il rapporto di vergogna (e di pentimento) con se stesso. Ma il cinese, uomo
prevalentemente sociale, ignora il peccato; in suo luogo ha la vergogna,
cioè il rapporto di vergogna (con conseguente timore di essere svergognati
ossia di perdere la faccia) con gli altri, vale a dire con la società nella quale
ci si trova a vivere.
La "virtù" cinese, confuciana o maoista, ma pur sempre civica, politica e
sociale ignora assolutamente l'interiorità del peccato, la liberazione interiore
dal peccato, la resurrezione interiore dal peccato. Essa è comportamentistica
cioè basata sul rapporto con gli altri i quali si aspettano da noi un certo
contegno che dobbiamo tenere o fingere di tenere a tutti i costi, se non
vogliamo appunto essere svergognati ossia, come abbiamo già accennato,
perdere la faccia. È chiaro che il comunismo maoista, come già il
confucianesimo, non può non fondarsi su un simile rapporto tra l'individuo
e la società. Così essere maoisti vorrà dire, oltre l'adesione, lo zelo e il
fanatismo, anche il terrore della vergogna, cioè della perdita della faccia,
s'intende, questa volta, in senso non più confuciano ma comunista.
Guardando alle cose della Cina dal punto di vista della "virtù" maoista e
del fanatismo ispirato dal terrore della vergogna, mi sembra
conseguentemente di potere affermare che i soli, i veri antimaoisti
potrebbero essere proprio quei cinesi che rimangono impassibili, apatici e
indifferenti di fronte alla Rivoluzione Culturale. Impassibili, apatici,
indifferenti e, forse, inconsapevoli di esserlo; ma, in tutti i casi, seguaci,
coscienti o no, di una "virtù" diversa da quella confuciana-maoista, A
proposito di questa "virtù" il libro del Tao, appunto, dice: "Io pratico il non-
agire e il popolo si trasforma da solo; osservo un contegno di pura calma e
il popolo si rettifica da solo; non agisco per lucro e il popolo si arricchisce
da solo; sono senza desideri e il popolo torna alla semplicità primitiva."
Come si vede la "virtù" che potrebbe nascondersi dietro l'impassibilità,
l'apatia e l'indifferenza, non è soltanto puramente individuale, ma, alla
lontana, anche sociale. Senonché si tratta di una virtù sociale basata non già
sullo zelo e sulla propaganda, come quella delle guardie rosse, ma su una
specie di esempio, ineffabile, enigmatico, immobile, silenzioso, arcano,
invisibile ai più. In altro luogo, nel libro del Tao, c'è questa affermazione
molto semplice ma eloquente: "Questo si chiama la Virtù misteriosa." Ecco
nominato, non dico l'antimaoismo, ma qualche cosa che è diverso dal
maoismo e che domani potrebbe anche esserne l'antitesi, come già il Tao
per secoli è stato l'antitesi del confucianesimo.
Tuttavia sarebbe arrischiato affermare che l'impassibilità di certi cinesi
nasconde diversità o addirittura ostilità. Oltre tutto, questi possibili
oppositori consapevoli o meno, non sono facilmente identificabili. Già,
perché l'impassibilità, l'apatia, l'indifferenza, in Cina, si confondono e non
sono distinguibili dal controllo che ogni uomo, per antica e ininterrotta
tradizione, è tenuto ad esercitare sopra se stesso. Così alla fine tutto rimane
incerto, ambiguo, misterioso. Ma penso che, probabilmente, la Rivoluzione
Culturale invece di combattere frontalmente l'impassibilità, finirà per
accettarla e per incorporarla nel sistema maoista. Sarà quel tanto di
individualismo, del resto innocuo, che qualsiasi società, anche la più
totalitaria, alla lunga non può non permettere. E d'altronde il Vuoto taoista è
altrettanto antico e cinese che il Pieno confuciano. Nell'operazione di
recupero della Cina tradizionale mandata ad effetto dal maoismo, il Vuoto
finirà per trovare una sua collocazione, proprio perché cinese. Rivoluzione
dopo tutto vuol dire non soltanto sommovimento ma anche ritorno indietro
in senso ciclico e immutabile. Non bisogna dimenticare, d'altra parte, che lo
stesso Mao, nel libro delle citazioni, allorché afferma che "...la legge
dell'unità dei contrari è la legge fondamentale dell'universo" è più vicino a
Lao Tze che a Marx. Dice infatti il Tao Te King: "Tutti sotto il cielo
conoscono il bello come bello: ecco il brutto! Tutti conoscono il bene come
bene: ecco il male! È così che l'essere e il non essere nascono l'uno
dall'altro, che il facile e il difficile si completano, che il lungo e il corto si
limitano a vicenda, che il tono e il suono si accordano, che il prima e il
dopo si collegano." Ma il Tao resterà pur sempre il Tao, cioè qualche cosa
di irriducibile, almeno nel senso maoista. Ultima citazione: "Quando il Tao
fu abbandonato, ci furono umanità e giustizia. Poi apparvero la saggezza, la
prudenza e allora l'ipocrisia fu generale."
PAESE ARAGOSTA

Oggi è in programma la Grande Muraglia. Essa si svolge su per i monti,


tra la Cina e la Mongolia, per circa cinquemila chilometri. Ma noi la
visiteremo in un punto che è lontano da Pechino soltanto settantacinque
chilometri; e non ne vedremo che qualche centinaia di metri.
Partiamo in automobile seduti nell'ordine solito: Dacia ed io dietro;
l'autista e il signor Li nostra guida, davanti. L'automobile esce da Pechino e
prende a correre per la campagna, in direzione delle Colline dell'Ovest.
È una bellissima giornata. Grandi nuvole bianche dagli orli dorati
viaggiano mollemente per il cielo. La pianura di Pechino è di un verde
primaverile, luminoso e chiaro, fin sotto l'azzurro scuro delle colline.
La Grande Muraglia stimola la riflessione. È uno dei miti dell'umanità e
non soltanto per la sua portentosa lunghezza. C'è un'ideologia della Grande
Muraglia; c'è un messaggio. C'è anche una psicologia della Grande
Muraglia o se si preferisce uno stato d'animo. Infine c'è una lezione della
Grande Muraglia: estetica, politica, militare, sociale, filosofica,
economica...
La Grande Muraglia è altresì il mito cinese per eccellenza. Un'idea che si
è fatta oggetto concreto, visibile, duraturo, forse eterno. I francesi, in un
momento di conservatorismo di tipo cinese, hanno tentato di costruire la
loro Grande Muraglia con la Linea Maginot. Ma la linea Maginot non è
durata più di una generazione; ed è stata espugnata per aggiramento.
Adesso i fortini della Maginot sono venduti all'asta agli amatori di rovine
militari. La Grande Muraglia ha funzionato, invece, ininterrottamente dal
200 prima di Cristo fin quasi a ieri. E i cinesi non pensano davvero a
smantellarla. L'hanno restaurata nei pressi di Pechino, è diventata la meta di
pellegrinaggi turistici. Altri paesi hanno chiese, palazzi, musei, oppure
cascate del Niagara e Vesuvi da mostrare. La Cina, invece, un muro.
Se ne sono dette tante sulla Grande Muraglia che quasi ci si vergogna di
parlarne; e si è tentati di dire la sola cosa che forse non è stata ancora detta;
cioè, tautologicamente: la Grande Muraglia è la Grande Muraglia. Ma, dopo
tutto, la paura del luogo comune è anch'essa qualche cosa di molto comune,
Così proviamo anche noi a saggiare il mito della Grande Muraglia. E
cominciamo col dire che la Grande Muraglia ha, ovviamente, due facce:
l'una, interna, che guarda la Cina; l'altra esterna che guarda la Mongolia.
Dalla parte della Cina c'era, c'è tuttora la Cina, appunto, ossia un paese
immenso che, secondo il momento storico ora brulicava di traffici, di
prosperità e di fervore; e ora invece si spopolava e inselvatichiva nelle
guerre civili. Così l'idea della Grande Muraglia si modifica sensibilmente.
La Grande Muraglia non era sempre e invariabilmente simile ad un avaro
forziere che custodisca un tesoro. Il tesoro c'era o non c'era, secondo i
tempi. La Grande Muraglia in realtà serviva a proteggere, in senso
puramente esistenziale, il popolo cinese. Ma da che cosa? Adesso veniamo
a parlare della faccia esterna della Grande Muraglia.
Si sa che la Grande Muraglia è stata costruita per impedire le invasioni
dei Barbari. Ma chi erano i Barbari? Si potrebbe rispondere, forse: erano i
Mongoli? erano gli Unni; ma non sarebbe del tutto esatto. I Barbari erano
tutti coloro che non erano cinesi.
D'altra parte, al di là della Grande Muraglia, non c'era, non poteva esservi
per i cinesi un popolo sia pure barbaro; c'era soltanto il Vuoto. Questo
Vuoto era stato creato dalla Grande Muraglia stessa, cioè dai cinesi, a
partire dal momento in cui avevano cominciato a costruire la Grande
Muraglia. Senza Grande Muraglia, niente Vuoto.
Così, stringendo dappresso la definizione, la Grande Muraglia difendeva
e proteggeva la Cina contro il Vuoto, ossia il Nulla. La Cina era ciò che
c'era, che esisteva, che aveva importanza. Fuori della Cina non c'era niente,
non esisteva niente, niente aveva importanza.
Il messaggio della Grande Muraglia e la sua ideologia sono dunque
prettamente cinesi. Sono il messaggio e l'ideologia di un conservatorismo
piuttosto particolare. Non politico, non militare, non sociale, non
economico, sebbene contenga un po' di tutto questo. Vorremmo dire
biologico ed estetico. La Grande Muraglia era stata costruita contro i
Barbari perché i Barbari avrebbero potuto introdurre in Cina sangue nuovo,
idee nuove. Ora il sangue, le idee nuove scatenano evoluzioni, rivoluzioni.
Ma il fine della Cina non era di svilupparsi o cambiare bensì di durare.
Durare, magari invecchiare, magari diventare decrepita; ma durare.
Senonché la durata biologica richiede ortodossia, immobilità, etichetta,
cerimonia, ritualità. La Grande Muraglia garantiva la continuità indefinita
di queste cose; permetteva cioè al popolo cinese di durare con o senza
cultura, ordinato e tranquillo oppure immerso nel caos della guerra civile,
ricco o miserabile. Questo per l'aspetto che abbiamo chiamato biologico.
Ma c'era anche un aspetto estetico. Ogni conservatorismo nasce da
un'esasperazione dell'idea di forma come vittoria sul tempo. Soltanto una
forma perfetta può mettere fuori del tempo l'oggetto che riproduce; soltanto
attraverso una forma perfetta ci si può esprimere per l'eternità. Gli artisti
sono i conservatori per eccellenza, anche quando si proclamano
rivoluzionari: essi vogliono che la loro opera duri per sempre.
In senso, diciamo così, artistico, la Grande Muraglia doveva perciò anche
mantenere inalterata per l'eternità la forma della Cina. Aveva cioè la stessa
funzione della corazza nei crostacei; i quali non avrebbero la forma che
hanno se non avessero appunto la corazza. Si potrebbe continuare la
metafora: come i crostacei, la Cina antica era dura di fuori e molle di
dentro; al contrario degli uomini e in genere dei vertebrati che sono invece
molli di fuori e duri di dentro. Ma il crostaceo non è forse il simbolo esatto
del conservatorismo, così rigido, così corazzato con leggi, norme, etichette,
cerimonie e riti i quali poi non hanno alcun contenuto oppure sono gusci di
molli interessi? il conservatorismo è un'aragosta; la Cina antica era
un'aragosta. La Grande Muraglia era l'espressione del conservatorismo
cinese; come la corazza, a ben guardare, è l'espressione della squisita
mollezza dell'aragosta.
E poi forse, i Barbari non erano così barbari come i cinesi pretendevano
che fossero. Oppure, sì, erano barbari; ma erano barbari alla maniera dei
Barbari che invasero l'Impero Romano al tempo della decadenza. Cioè
erano apportatori di quel particolare genere di distruzione che viene
dall'ignoranza e dalla gioventù. Appunto perché ignoranti e giovani
fomentavano nuovi sviluppi, iniettavano sangue nuovo. I cinesi forse
avrebbero dovuto essere altrettanto imprevidenti o incapaci o magari
incoscienti dei romani; e non costruire la Grande Muraglia; e lasciare che i
barbari entrassero liberamente. Avrebbero dovuto cioè rischiare l'invasione,
la distruzione, la notte. L'Europa, in fatto di Grandi Muraglie, non aveva al
tempo delle invasioni che il piccolo vallo romano, tra l'Inghilterra e la
Scozia. I Barbari passarono dappertutto, entrarono dappertutto. Invece i
cinesi con la Grande Muraglia riuscirono a tenere i barbari fuori della Cina
per un tempo lunghissimo; così che, alla fine, quando i barbari ormai
inciviliti entrarono, fu facile cinesizzarli ossia farli partecipare alla
corruzione e alla decrepitezza cinese. La Grande Muraglia, come abbiamo
detto, era la visione del mondo dei cinesi, la loro maniera di stare nel
mondo. Dalla parte del mare, non potendo costruire una Grande Muraglia i
cinesi ne crearono l'equivalente con la chiusura dei porti ai barbari di
occidente. Era una Grande Muraglia fatta di divieti; ma è durata quanto la
Grande Muraglia di pietra. Poi, tutto ad un tratto, in poco meno di un
secolo, tutte le Grandi Muraglie cinesi sono crollate, l'una dopo l'altra. Il
Vuoto allora si è improvvisamente rivelato come Diversità; e la Cina da
parte sua ha scoperto di essere vuota. Così la Cina ha accolto nel suo vuoto
interiore la diversità esteriore, barbarica. Questa è la storia della Cina
moderna dalla rivolta dei Taiping a Mao. Tuttavia il problema del
comunismo cinese, oggi, è forse di nuovo quello dell'antico impero celeste.
E cioè: si tornerà daccapo al sistema della Grande Muraglia ossia
all'immobilità biologica e formale garantita da un'ortodossia ideologica, da
un dogma filosofico, e si farà di nuovo della Cina un paese aragosta?
Oppure si rinunzierà una volta per tutte all'ideologia della Grande Muraglia,
si getteranno a terra dogmi ed ortodossie e si farà della Cina un paese
vertebrato, duro di dentro e molle di fuori, un paese cavallo (o paese
uomo)?
Penso queste cose mentre la macchina corre attraverso la campagna ben
coltivata, ai piedi delle Colline dell'Ovest. Poi la strada comincia a salire,
ma non tanto. Ci sono montagne formidabili in Cina nel Sinkiang, nel Tibet,
sotto l'Himalaya. Ma le cosiddette Colline dell'Ovest sono soltanto delle
colline. La Grande Muraglia, qui, appare dunque, anche giustificata dalla
mancanza di difese naturali.
La strada corre in fondo ad una valle stretta, fiorita, verdeggiante; tra i
cespugli si intravede il letto sassoso, con poca acqua limpida, di un torrente.
Poi le colline si stringono via via, facendosi se non più alte, più verticali. La
valle diventa gola.
Eccoci ad un piccolo gruppo di case di contadini: gialle, basse, muri di
fango seccato, tetti di paglia. L'automobile si ferma, vediamo una specie di
arco o cavalcavia di marmo bianco, un oggetto massiccio ed elaborato,
un'opera d'arte piantata nel mezzo della campagna inalterabile e inalterata.
È la porta della Grande Muraglia alla quale, com'è da credersi, stavano di
guardia soldati e gabellotti. Una porta interna, per così dire, a cui si
riallaccia tutto un sistema di muraglie minori che servivano a proteggere la
vicina capitale. La vera Grande Muraglia è ancora lontana
Scendiamo e ammiriamo la porta. Come tutti i monumenti cinesi, è al
tempo stesso ornata e massiccia. Con l'idea della solidità curiosamente fusa
con quella della raffinatezza. Belle sculture in bassorilievo la ricoprono
fuori e dentro. Il motivo è quello che ci si poteva aspettare, dato il luogo e
la funzione del monumento: la civiltà rappresentata da eroi, saggi e
imperatori che schiaccia il capo alla barbarie raffigurata in forma di draghi,
di serpenti e di mostri. Chi entrava in Cina doveva capirlo subito: egli
usciva dal vuoto della barbarie ed entrava nell'esistenza della civiltà. Anche
se poi quest'esistenza non era che cerimonia ed etichetta, cioè, appunto, un
Vuoto come un altro.
Saliamo sulla porta. È in abbandono come spesso le cose dell'arte oggi in
Cina. Erbacce tra i mattoni, crepe nei marmi, sculture qua e là graffiate,
annerite, ondate. Sarebbe necessario un restauro ma è dubbio che sia fatto
molto presto. Il tono secco e sottilmente annoiato del signor Li mentre ci
spiega che cos'era questa porta, lo fa temere. Ai cinesi, oggi, la Grande
Muraglia non interessa più dal momento che non serve più. Altri tempi,
altre Grandi Muraglie. Tutt'al più sarà restaurato un tratto della Muraglia là
dove si presenta come fortificazione, come opera militare. Il fine del
restauro sarà, come vogliono i tempi, un fine educativo, scientifico. Ma
quest'arco di marmo è troppo bello per essere restaurato.
Risaliamo in automobile e riprendiamo a correre in fondo alla valle o
meglio alla gola. Ecco, finalmente, nel punto dove la gola diventa più
stretta, ecco la Grande Muraglia, quella vera, quella che si snoda per
cinquemila chilometri di montagne. Riconosciamo la presenza, l'efficacia,
la forza del mito dalla commozione che non possiamo fare a meno di
provare tutto ad un tratto. È vero, però, che il luogo è indicibilmente
suggestivo. Da una parte e dall'altra della gola, i monti si allontanano,
fuggono si direbbe dalla gola medesima, di picco in picco; e sul filo di
queste due ininterrotte giogaie, stagliato sullo sfondo del cielo azzurro,
fugge pure il grande serpentone di pietra grigia sposando, sinuoso e
morbido, le tortuosità della catena montagnosa. La bellezza della Grande
Muraglia del resto sta proprio in questo suo seguire così fedelmente i
meandri dei monti. Una muraglia tirata a squadra nel bel mezzo di una
pianura, l'Escuriale per esempio, ha qualche cosa di tetro, di astratto e di
esanime. Ma la Grande Muraglia rivela invece, a guardarla, una vitalità
serpentina, di rettile magari decrepito ma pur sempre vivo; e quasi ci si
meraviglia che non si muova e strisci via e alla fine scompaia serpeggiando
per i monti, oltre l'orizzonte. È una vitalità sottile, insinuante, resistente,
sorniona, tenace, parassitaria e simbiotica. C'è stato una specie di
matrimonio tra la muraglia e le montagne; un po' come c'è matrimonio tra
l'edera e il tronco dell'albero intorno il quale si avviticchia. Un matrimonio
anche questo molto cinese; cioè destinato a durare perché legato alla natura,
ad un fatto naturale, ad una situazione naturale.
Ci avviciniamo, eccoci sotto la muraglia. Il modo con il quale gli
ingegneri militari cinesi hanno proceduto alla costruzione della Grande
Muraglia è chiaro. La muraglia va su e giù per i monti come uno di quei
giochi dei Luna Park che si chiamano montagne russe. Là dove il monte si
erge in un picco, c'è una torre di guardia; tra un picco e l'altro, cioè tra una
torre e l'altra, la muraglia scende e sale per una distanza che non è mai così
grande da impedire la visibilità perfetta di qualsiasi cosa possa accadere
appunto in quel tratto. In altri termini da ciascuna torre si vede il tratto di
muraglia fino alla prossima torre. Così i barbari erano tenuti in scacco con
efficacia. Appena fossero apparsi, i soldati di stanza nelle due torri situate
alle due estremità del tratto di muraglia minacciato, si sarebbero precipitati
alla difesa. Intanto di torre in torre, un sistema di segnali avrebbe fatto
pervenire la notizia dell'assalto a Pechino più presto di qualsiasi telegrafo
moderno.
La Grande Muraglia, probabilmente, è in abbandono per la maggior parte
del suo percorso, come del resto tanti monumenti in Cina, Vogliamo dire
che i famosi cinquemila chilometri non sono dovunque intatti. Invasa dalle
erbacce, coi merli sgretolati, i parapetti crollati, le torri smozzicate, in più
punti quasi certamente la Grande Muraglia non sarà più che una informe
rovina di mattoni e di pietre. Ma in quella gola così vicina a Pechino, la
Grande Muraglia è stata restaurata con la massima cura. C'è perfino un
ristorante. E sullo spiazzo davanti al ristorante ci sono alcuni autobus da
turismo e non poche automobili. Turisti cinesi, in folti gruppi, si
arrampicano laggiù, verso le torri, salendo lentamente, piccoli come
formiche. Portano la colazione al sacco, le bottiglie di birra avvolte in
fazzoletti. La Grande Muraglia pare commuoverli e rallegrarli più di
qualsiasi monumento di Pechino. È il "loro" monumento; il solo
monumento cinese che dica qualche cosa di universale, che sia un mito,
appunto, come abbiamo già detto, dell'umanità intera,
Scegliamo il segmento di Muraglia che ci pare più breve e meno ripido e
cominciamo anche noi a salire. I pendii sono affrontati dalla Muraglia sia
con gradoni molto larghi sia con piani inclinati di incredibile verticalità, da
salire carponi e da scendere tirandosi in dietro ad angolo acuto. È una
giornata calma e serena; ma, stranamente, sulla Muraglia soffia un vento
selvaggio e freddo; evidentemente il vento che turbina nel Vuoto che sta al
di là della Muraglia. Eccolo il Vuoto: tra un merlo e l'altro ci affacciamo e
guardiamo. Al di là della gola, oltre una specie di ciglio di arbusti, si scopre
un'immensa pianura verde, luminosa, dorata di sole, misteriosa e prospera.
E allora ci torna l'idea che il Vuoto contro il quale la Cina aveva voluto
difendersi con la Muraglia, in realtà non era che il Diverso e forse, chissà, il
Migliore. La Grande Muraglia forse doveva non soltanto difendere e
proteggere ma anche impedire paragoni, confronti.
Del resto la rivoluzione che ha rinnovato la Cina è proprio venuta di là,
da quella pianura immensa, misteriosa, verdeggiante e dorata di sole. Da
quella parte, in linea retta, continuando per migliaia di chilometri c'è la
Russia di Lenin e poi l'Europa di Marx. Cioè la patria delle idee barbare che
hanno ringiovanito la decrepita vecchiona dai piedi minuscoli e
dall'etichetta secolare. Ma il pericolo adesso è che queste idee barbare
vengano fasciate, come già i piedi femminili, nelle bende del dogma
ortodosso, che diventino a loro volta etichetta, cerimonia, rito.
Saliamo parecchi gradoni, poi cominciamo a inerpicarci su per un piano
inclinato di tremenda verticalità. Contro il vento che ci assale d'ogni parte e
pare che voglia farci ruzzolare giù. Eccoci finalmente nella torre di guardia.
È a tre piani, con stanze e scale e passaggi; vi sono feritoie per lanciare
frecce e proiettili, finestrelle per farne sporgere le bocche delle colubrine.
Tutto è restaurato a meraviglia, tutto è morto e nuovo di zecca. Dico alla
nostra guida: "La Grande Muraglia è servita almeno a qualche cosa?"
"Ha protetto l'impero per secoli contro le invasioni dei barbari."
"Ma durante tutti questi secoli che è avvenuto in Cina?"
"Beh, si sa quello che è avvenuto. L'impero prima crebbe e prosperò poi
andò sempre più in decadenza."
"Dunque la Grande Muraglia ad un certo punto non è servita e proteggere
la Cina bensì la sua decadenza, la sua corruzione."
Si stringe nelle spalle e non posso dargli torto, dentro di me: il mio
ragionamento è un sofisma: "Non c'è rapporto tra le due cose. Da una parte,
per pure ragioni militari, l'impero costruì la Grande Muraglia. Dall'altra, la
Cina andò in decadenza."
"Vediamo: cerchi di capirmi. Se la Cina non avesse costruito la Grande
Muraglia e fosse rimasta aperta a tutti gli influssi e le idee e le novità
straniere, forse non sarebbe andata in decadenza."
"Dalla Mongolia non potevano venirci idee, influssi, o novità benefiche
ma soltanto guerrieri armati a cavallo."
"Non mi sono spiegato bene. Per me la Grande Muraglia è un simbolo,
soprattutto."
"Quale simbolo?"
"Il simbolo dell'invincibile conservatorismo cinese."
"Non c'è nulla di invincibile. La Cina oggi è un paese rivoluzionario, il
paese più rivoluzionario del mondo. E la Grande Muraglia è una grande
opera dell'ingegneria militare cinese."
Quando la visita è finita e torniamo alla macchina per rientrare a Pechino,
non posso fare a meno di ricordare le parole di Lao Tze, nel Tao: "La corte
è corrotta, i campi invasi dalle erbacce, i granai sono vuoti e tuttavia ci sono
persone vestite di abiti di lusso con spade al fianco, ripieni di cibo e di vino
e che posseggono troppa ricchezza. Tutto questo è noto per portare al furto
su vasta scala. Lontano, invero, tutto questo è dal giusto cammino." Queste
parole sono state scritte quando la Grande Muraglia non era ancora stata
costruita. Che cosa possono proteggere le Grandi Muraglie se non quello
che non va protetto? La vita, nel momento della sua pienezza e della sua
maturità, non ha bisogno di Grandi Muraglie.
L'ODIO DEL PASSATO

La nostra guida, il signor Li, è un uomo secco e giallo (non tutti i cinesi
sono gialli, anzi lo sono molto raramente); con il volto improntato ad una
tristezza decrepita. È afflitto da un tic nervoso che gli fa saltare tutta una
parte del viso mentre l'altra rimane immobile. Inoltre soffre di balbuzie. Il
signor Li è triste e nevrotico; quando ride ha un risino sardonico, acido,
amaro. La sua tristezza è silenziosa e meditabonda, simile a quella di chi si
sia rassegnato per sempre ad una condizione al tempo stesso inevitabile e
spiacevole. Se non sapessi che le guide sono scelte di solito tra persone di
provata fede politica, quasi penserei che il signor Li non è un maoista
convinto. Ma non è così. Il signor Li è triste perché è triste; e del resto non
sa di essere triste.
Questa mattina il tempo è cambiato, come accade spesso a Pechino. Ieri
c'era il sole; oggi pioviggina. Dalle Colline dell'Ovest è venuto un nembo
grigio che trasuda una pioggerella sottile come lo zampillo di un inaffiatoio
per bambini. Gli stradoni lustrano; le solite sfilate della Rivoluzione
Culturale sono diventate processioni di lunghi impermeabili col cappuccio
che ricordano gli incappucciati delle confraternite religiose. Insomma la
religione di Mao si conferma con la pioggia: ritratti, stendardi e colonne di
fratelli della buona morte.
Il signor Li ci dice appena siamo nell'automobile: "Oggi andiamo al
Palazzo d'Estate."
Domando: "Con la pioggia?"
Risponde: "Con la pioggia."
La macchina continua a correre. Il signor Li non è affatto loquace ma
attento, questo sì. Poiché passiamo davanti ad un edificio ricoperto anzi
catafratto di giornali murali, Dacia alza l'obbiettivo, fa per fotografarli. Con
gesto sobrio, triste e discreto il signor Li, che pareva assorto a chiacchierare
con l'autista, stende un braccio e le tocca la spalla in cenno di diniego: non
si debbono fotografare i giornali murali, è proibito. Nei giornali murali,
infatti, ci sono spesso, accanto a ingiurie, invettive, abbasso ed evviva,
anche verità, talvolta verità avvenire, cioè cose che accadranno magari tra
mesi; ma tutto questo è per uso interno, gli stranieri non debbono ficcarci il
naso. Resta, però, il dubbio se quel gesto di proibizione il signor Li l'abbia
fatto per zelo di maoista convinto oppure per mostrare all'autista che faceva
il suo dovere. Forse tutte e due le cose, data la nota reciproca sorveglianza
che i cinesi esercitano l'uno verso l'altro.
La macchina corre ancora un pezzo per le strade di Pechino. Dico ad un
tratto al signor Li: "Ieri sera è scoppiata la guerra tra Israele e gli Stati
Arabi."
"Ah davvero? Come l'ha saputo?"
"Da degli studenti svedesi che l'avevano saputo dal loro ambasciatore che
a sua volta l'aveva appreso dalla radio."
Il signor Li non dice nulla; il suo volto raggrinzito e pulsante di tic
svariati non mostra alcuna curiosità. Dico: "Voi cinesi non avete il minimo
intesse per l'estero e per le cose che succedono all'estero."
"Perché? Non ha visto in questi giorni le dimostrazioni che le guardie
rosse hanno fatto davanti all'ambasciata inglese e quella siriana?"
"Non parlo di manifestazioni, parlo di interesse cioè di curiosità. Durante
questo mio viaggio ho rivolto centinaia di domande sulla Cina ai cinesi che
mi avete fatto incontrare. Ma nessuno mai mi ha rivolto alcuna domanda
sull'Europa."
Il signor Li mi guarda e non dice niente. Io aspetto un momento e poi
continuo: "Non dico che sia una cosa negativa o positiva, dico che questo è
un carattere dei cinesi. In Europa noi abbiamo collezioni private e musei
pubblici in cui sono raccolte innumerevoli opere d'arte cinesi. Non parliamo
degli studi che inglesi, francesi, tedeschi e americani hanno dedicato
all'arte, alla storia, alla cultura cinese. Ma in Cina, niente di tutto questo. Io
sono stato a Sciangai prima della guerra, nel 1936. C'erano persone
ricchissime, tra le più ricche del mondo: nessuna collezionava pitture,
sculture, disegni, ceramiche, oggetti preziosi, opere d'arte europee.
L'interesse per l'Europa non esisteva."
Il signor Li mi guarda e poi dice: "Erano capitalisti."
"Anche i collezionisti europei sono capitalisti."
Il signor Li non dice nulla. Io concludo: "Il motivo forse è il seguente: la
Cina si è sempre considerata come il centro del mondo. Il quale dava ma
non riceveva né desiderava ricevere."
Eccoci nello spiazzo davanti all'ingresso del Palazzo d'Estate. I magnifici
leoni e draghi di bronzo che ne sorvegliano le entrate, sono brulicanti di
guardie rosse che si fanno fotografare appollaiate su quei capolavori
dell'arte tradizionale. Entriamo e poco dopo essere entrati, avviene qualche
cosa di fantastico: qualcuno mi sorpassa, camminando in fretta. È un
vecchio signore cinese, vestito con estrema, incredibile eleganza. Il primo,
il solo che vedrò durante tutto il mio viaggio in Cina. Ha in capo un
cappello di panama, indossa tunica e pantaloni di seta cruda color avorio,
pesante e ovviamente di ottima qualità, ambedue tagliati alla perfezione.
Stringe in mano un bastone di malacca dal pomo di giada. Ha un volto
freddo sprezzante e impassibile incorniciato da una breve barba bianca di
tipo tradizionale. Mi passa accanto e scompare; quasi non credo ai miei
occhi. Non ho alcun desiderio di chiederne alla guida tanto so che mi
risponderebbe in maniera ambigua ed evasiva oppure, addirittura,
negherebbe di averlo visto. Preferisco per un momento fantasticare. Un ex
mandarino? Un ex industriale lasciato alla direzione della propria fabbrica?
Oppure (questa idea è la più assurda e forse per questo, è quella che mi
piace di più), l'ex imperatore di Cina, l'ultimo, il quale dovrebbe avere
appunto intorno ai settanta anni, come il vecchio signore dal vestito di seta
cruda? Dicono che sia bibliotecario e che abbia anche scritto un libro di
memorie: Da imperatore a cittadino.
Intanto camminiamo intorno al lago del Palazzo d'Estate. È un lago
artificiale; sulle sue sponde e sulle colline che le sovrastano si scorgono,
nascosti tra gli alberi, numerosi padiglioni e altri simili luoghi di delizie. La
nostra passeggiata si svolge in questo modo: il signor Li cammina davanti a
noi, un po' a distanza. Poi veniamo noi due. Poi viene un corteo di gente che
ci guarda a bocca aperta e misura il proprio passo sul nostro. Il signor Li
ogni tanto si volta e ci lancia uno sguardo indefinibile, tra protettivo e
annoiato. Allora la gente comprende che non siamo i soli ed autonomi ma
che dipendiamo anche noi dall'autorità dello Stato cinese e in certo modo si
rassicura. Purtuttavia continua a seguirci e a guardarci.
Poiché continua a piovigginare, camminiamo al riparo di una specie di
galleria aperta che corre lungo il lago a poca distanza dalla riva. Doveva
servire all'imperatore e alla corte per raggiungere senza bruciarsi al sole e
bagnarsi con la pioggia i vari padiglioni di delizia sparsi intorno il lago. È
tutta di legno; pilastri, balaustrate e soffitti sono fittamente dipinti. Per lo
più si tratta di motivi decorativi tradizionali; ma ad ogni coppia di pilastri,
sull'architrave, c'è un ovale in cui sono dipinte sia scene di genere, sia
paesaggi. Questi ultimi sono di una finezza e di un nitore da incisione; e
fanno pensare, a forza di precisione, ad una specie molto cinese di
surrealismo. Il tema è sempre lo stesso: un edificio (torre, casa, villa,
padiglione, portico, belvedere, garitta, ecc. ecc.) collocato in posizione
sempre diversa su uno sfondo naturale sia artificiale (parco, giardino, strada
di campagna, siepe) sia selvatico. Gli elementi di questi paesaggi sono tre:
l'opera in muratura, la vegetazione, l'acqua (canali, fiumi, laghi, vasche,
ecc. ecc.). È un tema solo, come ho detto; ma è incredibile quante variazioni
ne abbiano saputo trarre gli sconosciuti artisti o meglio artigiani che hanno
dipinto gli ovali. Ho parlato di surrealismo; ma è il surrealismo involontario
degli antichi, onirico senza saperlo, incantato e fatto per incantare.
Ma gli ovali dipinti a scene di genere cioè a scene nelle quali ci sono
figure umane, sono tutti, senza eccezione, ricoperti di una mano di tinta
rosa, del rosa falso e vivo proprio di certi dentifrici. Il rosa, tuttavia,
traspare, forse diluito dalla pioggia e dal sole, e allora si intravedono
figurette senza dubbio non meno incantevoli dei paesaggi. Domando al
signor Li: "Come mai queste scene con figure sono tutte ricoperte con una
mano di vernice rosa?"
Risponde tranquillamente, con doverosa menzogna; "Non sono state
ancora restaurate."
Non è vero. E lui sa che io so che lui sa che non è vero. In realtà le scene
di genere sono state ricoperte perché mostravano i potenti del passato
assorti a vivere una vita tranquilla, innocente, sorridente, graziosa,
piacevole e raffinata. Ma il popolo non deve saper niente del passato o
meglio di quest'aspetto del passato. Il passato sono soltanto i latifondisti che
martirizzavano i contadini. Ora è verissimo che la maggioranza dei
latifondisti si comportavano in maniera disumana coi loro servi della gleba.
Ma non entra in testa al signor Li e in genere alle autorità che si occupano
in Cina della propaganda, che quegli stessi latifondisti così crudeli ed esosi
potessero essere al tempo stesso gli uomini raffinati, pieni di buone
maniere, laureati in lettere, discepoli di Confucio, sensibili al bello, versati
nelle arti che erano dipinti negli ovali della galleria, oggi ricoperti di
vernice rosa. Questa contraddizione non è ammessa dalla propaganda;
eppure il libro rosso delle citazioni di Mao insiste quasi ad ogni pagina che
la realtà è fatta di contraddizioni e che se non ci sono le contraddizioni non
c'è la realtà.
Camminiamo a lungo per la galleria, con due gruppi di persone, l'una a
destra e l'altra a sinistra che ci seguono a distanza, sotto la pioggia,
guardandoci con occhi sbarrati; quanto a noi, guardiamo alle pitture. Il
signor Li, triste fino alla morte, ci precede, le mani riunite dietro il dorso.
Eccoci alla famosa nave di marmo ancorata per sempre nell'acqua grigia
del lago del Palazzo d'Estate. Dicono che il parlamento avesse votato i fondi
per creare una marina militare capace di competere con quella degli
occidentali; ma l'imperatrice si appropriò il denaro per abbellire il Palazzo
d'Estate e tra le altre cose, con inconscia (o forse consapevole) ironia,
costruì questo piccolo monumento nautico: una nave a vapore di quelle con
la ruota e l'alta smilza ciminiera, come se ne dovevano vedere sui fiumi
cinesi verso la metà del secolo scorso. Dico al signor Li: "La barca di
marmo è molto popolare ancora oggi tra i cinesi, non è vero?"
"Sì, non lo vede quanta gente?"
Infatti la nave è piena di gente, ragazzi e ragazze bambini, donne e vecchi
che salgono e scendono per le scalette ridendo e dandosi degli spintoni. La
barca di fuori è di marmo; ma dentro è arredata come una vera nave: con
rivestimenti di mogano, specchi, ottoni, canapé di velluto, pavimenti a liste
di legno. Tutto però è logoro, opaco, sporco, stanco, cadente. Dico al signor
Li: "I monumenti di Pechino sono per lo più in cattivo stato e per giunta
tenuti malissimo. Come mai?"
"Ci sono cose più urgenti da fare che restaurare i monumenti."
"Per esempio il Tempio del Cielo, dove siamo stati ieri. Gran parte di
quelle bellissime tegole di ceramica violetta sono rotte o sgretolate; i
meravigliosi boschi che circondano il tempio e il tempio stesso sono pieni
di cartacce, rifiuti, porcherie. Come mai?"
"Al Tempio del Cielo ci hanno fatto bivaccare le guardie rosse
quest'inverno."
"Potevate almeno ripulirli."
"Il Tempio del Cielo può durare ancora almeno cent'anni così com'è."
Dice queste parole e si stringe nelle spalle, con aria indifferente e
annoiata. In realtà in Cina siamo ancora ai primi passi di quella morte
definitiva dei monumenti che si chiama turismo. Per ora i cinesi si limitano
ad "odiare" i loro monumenti. Perché, sia ben chiaro questo: i cinesi odiano
il loro passato, sia esso artistico o letterario o filosofico o religioso. Perché
l'odiano? La risposta non è facile. L'odiano non tanto perché è passato
(come l'odiavano i futuristi, per esempio) bensì perché lo considerano come
un errore cioè un errore borghese, capitalista. D'altra parte, accanto a
quest'odio per il passato, tanto più notevole in un paese che ha avuto per
tremila anni il culto degli antenati, c'è in Cina un nazionalismo patriottico e
xenofobo che forse è oggi il più acceso e il più aggressivo del mondo. Ora,
dovunque, il nazionalismo si accompagna con il vanto del passato. In Cina,
no.
Questa contraddizione, secondo noi, va spiegata con il conservatorismo
quasi patologico della Cina tradizionale dalle origini fino a ieri;
conservatorismo che non era tanto di origine economica, sociale, religiosa
quanto, come dire? biologica. Ossia la Cina mirava a durare piuttosto che a
svilupparsi; e si sa che durata è sinonimo, spesso, di ripetizione. La Cina,
insomma, era conservatrice com'è conservatrice la natura; alla quale
nessuno, davvero, potrebbe rimproverare di ripetere ogni anno le stesse
cose, cioè le stagioni e tutti i cambiamenti propri delle stagioni. Questo
avviene in tutte le civiltà contadine; ma raramente con la regolarità, la
raffinatezza e l'immobilità cinesi. Copia umana della natura, la Cina ne
ripeteva la serenità, la monotonia, l'inalterabilità, l'impassibilità e la fatalità.
Era conservatrice; non è diventata reazionaria se non quando l'impero si è
corrotto ed è stato assalito e taglieggiato d'ogni parte dagli stranieri.
La Rivoluzione Culturale mira principalmente, secondo noi, a ristabilire
in Cina un conservatorismo "naturale" adeguato ai tempi moderni, ossia
capace di durare millenni come quello dell'impero. L'odio dei cinesi per il
loro passato è dunque l'odio di un conservatorismo nascente (del resto tutte
le rivoluzioni sono conservatrici poiché hanno da conservare appunto le
conquiste della rivoluzione) contro un conservatorismo moribondo. Il primo
prenderà il posto del secondo. Ma poiché quest'ultimo è duro a morire,
occorre odiarlo.
Perché questo è lo scopo di ogni conservatorismo in Cina: non già tanto
difendere interessi quanto assicurare, con qualsiasi mezzo, la continuità,
anzi l'eternità del popolo cinese. Non si tratta, però, di una continuità o
eternità meramente materiali; bensì basate su un fondamentale accordo con
la realtà (un tempo si diceva "accordo con il Cielo"); il quale accordo si
ottiene con un'ortodossia purchessia che assicuri l'immobilità e, in certo
modo, metta la Cina, almeno per qualche secolo, fuori della storia. E infatti
quello che di solito si chiama la storia della Cina, almeno sinora è stato una
serie di periodi ben distinti contrassegnati dal nome di una dinastia, durante
i quali, in fondo, la storia stessa era sospesa. Poi la dinastia finiva nella
corruzione e nel disastro militare; allora tutto il sistema sociale cinese
crollava nell'anarchia finché, attraverso un catastrofico travaglio, veniva
ritrovata una nuova ortodossia, cioè un nuovo accordo con la realtà o con il
Cielo e dunque una nuova immobilità fuori della storia. Ne segue che in
Cina, la storia è disordine, angoscia, anarchia, fame, guerra; mentre la pace,
la prosperità, la civiltà e la cultura stanno invece a indicare l'assenza della
storia. Oggi i cinesi odiano il loro passato perché è inutilizzabile ai fini
dell'ortodossia futura, la quale sarà fabbricata unicamente con materiali
maoisti. Così si spiega, secondo noi, il vandalismo delle guardie rosse che
rovinano i monumenti, bruciano i libri, distruggono insomma con furore
tutto ciò che è rimasto della vecchia Cina. Del resto, i cinesi si considerano
inesauribili. Il passato distrutto sarà senza dubbio sostituito da un futuro
altrettanto ricco di saggezza e di raffinatezza. La Cina, va detto ancora una
volta, è come la natura; ad ogni stagione si rinnova e produce i suoi frutti.
Dopo il Palazzo d'Estate, il nostro programma, oggi, comprende una
visita alle tombe dei Ming. È uno dei luoghi più belli dei dintorni di
Pechino. Una volta tanto l'abbandono nel quale sono lasciati i monumenti in
Cina accresce la bellezza del luogo. Si immagini una vasta pianura tutta
ricoperta dai cespugli della macchia, con qualche raro albero qua e là,
limitata per tre lati da quelle basse, azzurre, dolci, vaghe montuosità che la
letteratura cinese classica ha reso famose col nome di Colline dell'Ovest. La
macchia sulla pianura è alta e folta; ma aguzzando gli occhi, si possono
distinguere, casuali e sperduti tra il pullulare della vegetazione, i tetti dei
padiglioni che stanno a indicare le presenze delle tombe imperiali. Anche
questa incertezza, lontananza e isolamento contribuiscono non poco alla
malinconica elegiaca bellezza del luogo.
Si entra nella pianura per dei propilei di marmo bianco e di tegole di
ceramica violetta, intorno i quali cresce alta l'erbaccia; si cammina poi per
un sentiero dal tracciato irregolare fiancheggiato da due file di grandi statue
raffiguranti leoni, chimere, draghi, cavalli, elefanti, cammelli, guerrieri.
Sono statue grandi poco più o poco meno del vero; e portano tutte quante lo
stampo del genio cinese: quello stile o meglio stilizzazione inconfondibile
insieme bizzarra e piena di buon senso; rustica e raffinata; monumentale e
familiare; realistica e decorativa; rituale e mondana. Le statue stanno a
ridosso della macchia che cresce rigogliosa dietro di esse; l'erba le circonda
oppure la polvere del sentiero; non hanno basi o piedistalli; sembrano
allineate provvisoriamente, in attesa di una destinazione più degna e
definitiva. Domando al signor Li: "Quante sono le tombe dei Ming?"
"Sono tredici."
Fa un gesto verso la macchia. Veramente non mi riesce di scorgere, in
quello sterminato pullulare di cespugli, che tre o quattro remoti tetti di
padiglioni, l'uno molto lontano dall'altro.
"Tredici padiglioni. Ma quante di queste tombe sono state scavate
sinora?"
"Una sola."
"Come avete fatto per trovarla?"
"Nel 1956, riparando un muro, è stata scoperta una tavoletta nella quale
c'erano indicazioni precise sulla tomba che si trovava infatti dietro il
padiglione, sotto una collina. Così abbiamo seguito le istruzioni della
tavoletta e abbiamo trovato un pozzo circolare riempito di terriccio. Tolto il
terriccio, abbiamo scoperto, in fondo al pozzo, la porta della tomba."
"Chi c'era sepolto in questa tomba?"
"Un imperatore e due imperatrici."
Pioviggina, siamo in un boschetto di alti, drittissimi pini; tra i tronchi, si
vedono due piccoli edifici prefabbricati a un piano solo, uno a destra e uno
a sinistra: i due piccoli musei nei quali sono esposti gli oggetti trovati nella
tomba. In fondo al bosco si intravede l'antico padiglione votivo, in cima ad
una scalinata. La guida ci precede, gira intorno il padiglione. Dietro il
padiglione c'è la collina che, infatti, appare squarciata alla base da uno
scavo triangolare in fondo al quale si scorge una porta. È la vera tomba
dell'imperatore, quella indicata nella tavoletta.
Andiamo alla porta e ci troviamo a scendere per un'ampia scala a spirale,
fino al fondo dell'enorme pozzo che, appunto, al momento dello scavo era
stato trovato colmo di terriccio. A misura che scendiamo fa più freddo, un
freddo proprio di tomba, mortuario; le pareti del pozzo appaiono macchiate
di umidità, incrostate di muffa color verderame. Eccoci in fondo. Davanti a
noi si spalancano due porte di marmo bianco, con le borchie anch'esse di
marmo bianco che riproducono esattamente le porte di lacca rossa con
borchie d'oro che di solito si trovano nei palazzi imperiali. Eccoci nella
prima sala. C'è un trono di marmo bianco (anch'esso probabilmente
riproduzione esatta del vero trono di legno prezioso); ci sono vari cuscini
cilindrici, anch'essi di marmo; c'è infine, sopra un piedistallo, un'enorme
giara di porcellana Ming di un bianco pallidissimamente azzurro con
disegni blu di draghi e di fiori. Ci avviciniamo alla giara, solleviamo il
coperchio e vediamo che è piena per due terzi di un liquido nerastro sul
quale si è rappresa come una crema scura. È olio votivo di molti secoli or
sono, rimasto lì, a testimonianza di un culto defunto (quello
dell'imperatore). Passiamo da questa prima sala, attraverso una seconda
porta coi battenti di marmo simili a quelli già descritti, ad una seconda sala.
Anche qui trono di marmo, sedili cilindrici di marmo, giara di porcellana
colma di olio votivo. Quindi terza porta con i soliti battenti e terzo trono,
con sedili e giara. Infine, in fondo all'ipogeo, ecco una grande sala, la più
fredda e la più nuda di tutte, ingombrata da una quantità di scatoloni dipinti
di rosso, quali rettangolari e quali quadrati. "Questi scatoloni," spiega il
signor Li, "contenevano i corpi dell'imperatore e delle due imperatrici.
Nonché tutti gli oggetti che tra poco vedrete nei musei. O meglio questi
scatoloni riproducono quelli originari i quali erano marci di umidità e
disfatti dalla putredine."
Il signor Lì parla dell'imperatore e delle imperatrici con profonda, sincera
antipatia. Soggiunge dopo un momento: "Quando un imperatore veniva a
morire, era seppellito in questo modo. Se, invece, moriva un contadino, si
faceva una buca presso la casa e poi si gettava sopra un po' di terra e basta."
Risaliamo con sollievo all'aperto; andiamo a vedere i due musei. Nelle
teche di vetro vediamo disposti con cura grandi pezzi di giada
leggiadramente cesellati, vasellame d'oro massiccio, scettri imperiali
tempestati di pietre preziose, corone imperiali in forma di cuffie tutte piene
di ciondoli d'oro e di gemme, avori finemente scolpiti, monili, collane,
anelli e altre cose del genere. Nonché molto vasellame di porcellana
dell'epoca Ming, azzurro e bianco, di bellissima fattura. Dico al signor Li:
"Avete fatto una scoperta che per importanza archeologica e valore degli
oggetti si può paragonare a quella della tomba di Tutankamen in Egitto."
"Tutto questo è stato fatto per scopo scientifico ed educativo. Il popolo
deve essere istruito."
"Tutto questo è molto bello. Anche la bellezza educa."
"Non c'è niente di bello in tutto questo. Ma è bene che si sappia come
venivano sepolti gli imperatori."
Dice sul serio? Probabilmente sì. Il senso del bello in Cina oggi è stato
sostituito dal senso del buono. Questa tomba non è bella perché non è
buona. Ma può essere educativa, questo sì.
Domando: "Crede che dietro gli altri dodici padiglioni ci siano altre
tombe simili?"
"Chi lo sa?"
"Ma non fate delle ricerche?"
"No."
"Perché?"
"Basta questa qui. Che bisogno c'è di scavare le altre? Una sola basta per
educare e per istruire."
IL CONVITATO DI PIETRA

La Rivoluzione Culturale ha messo il segno negativo dell'origine


borghese cioè del male (non soltanto esteriore, sociale, ma anche interiore,
psicologico), su tutto quello che è individuale e politicamente non integrato.
Quanto dire che la Rivoluzione Culturale, è puritana. Ma non bisogna
credere che il puritanesimo cinese rassomigli al puritanesimo anglosassone,
calvinista; ne abbia le stesse implicazioni filosofiche, ideologiche. No, il
puritanesimo cinese è semplicemente l'estensione alla vita urbana dei valori
e dei costumi della campagna. Anche qui il maoismo, questo rovesciamento
paradossale del marxismo, trova una conferma visibile. I contadini si
vestivano di abiti rattoppati, giubba e pantaloni: tutta la Cina urbana veste
giubba e pantaloni e porta le toppe. I contadini non conoscevano i piaceri
del sesso (quei piaceri che, secondo alcuni, costituiscono la principale
distinzione tra l'uomo che sa divertirsi con il sesso e l'animale che invece
non sa che procreare); e in tutta la Cina urbana si è diffusa la "pruderie"
contadina e antisessuale. I contadini, infine, mangiavano male (quando
mangiavano); e la Rivoluzione Culturale, ispirandosi alla sobrietà dei
contadini, ha chiuso tutti i ristoranti nelle città. Anche a Pechino tutti i
ristoranti sono stati soppressi, salvo uno. Ora si deve sapere che a Pechino,
nei ristoranti ancora un anno fa, si mangiava benissimo, secondo le ricette
della cucina tradizionale, la più raffinata e complicata del mondo insieme
con la francese. Particolarmente frequentati, erano i ristoranti che offrivano
le specialità regionali delle tante province lontane e vicine di questo
immenso paese. La Rivoluzione Culturale ha chiuso tutti questi ristoranti
salvo, come abbiamo detto, uno solo, situato nei pressi della Piazza del
Tempio della Pace Celeste.
Ma perché questo solo ristorante era rimasto aperto? Ce l'eravamo
domandato più volte, senza trovare una risposta soddisfacente. In quel
ristorante, come sapevamo, erano invitati a cene tradizionali, dunque
ottime, in genere visitatori stranieri. Il motivo ufficiale, come ci avevano
informati, era turistico. Si faceva mangiare l'anatra di Pechino come si
mostrava il Tempio del Cielo. Ma sospettavamo che, al livello inconscio, ci
fosse qualche altra ragione. Alla fine, dopo una lunga riflessione, siamo
venuti a questa conclusione: quel solo ristorante era stato lasciato aperto a
scopo educativo. Coloro che vi erano invitati, tutti visitatori occidentali,
dunque borghesi, dovevano rendersi conto, divorando i manicaretti
dell'antica cucina cinese, che stavano commettendo un'infrazione, una
trasgressione, quasi un delitto. Era loro consentito, insomma, una volta
tanto, di non mangiare male come negli alberghi del turismo di massa, ma
benissimo, come nei ristoranti di prima della Rivoluzione Culturale. Però
con un senso di colpa. Di rimbalzo, sarebbero poi seguiti, con la digestione,
pentimento, ravvedimento, persuasione. Forse tutto questo, ripetiamo, non
era perseguito consapevolmente. Forse non si voleva, consciamente, che
arricchire di un'attrazione di più il programma turistico. Ma in realtà (la
realtà inconscia della Rivoluzione Culturale) si voleva impartire una
lezione. Era un po' come se dopo l'abolizione dei bordelli in Italia, un unico
bordello fosse stato lasciato aperto a scopo anche qui educativo, per
mostrare quanto sia laida la prostituzione e ispirare conseguentemente un
salutare senso di colpa.
Verso la fine del nostro soggiorno a Pechino, una sera, la nostra guida, al
momento di lasciarci, ci dice: "Stasera non mangiate all'albergo."
"E perché?"
"Mangiate in un ristorante. Mangerete l'anatra di Pechino."
"Che cos'è l'anatra di Pechino?"
"È il piatto locale più famoso di Pechino. Al pranzo non vi daranno che
anatra."
"Soltanto anatra?"
"Sì, soltanto anatra. È molto buona."
"Verrà anche lei a mangiare con noi l'anatra di Pechino?"
È una domanda superflua; ma questa volta, non so perché, mi sfugge. La
guida non mangia mai con noi, gli è proibito o forse (come avviene in Cina)
ne è stato "sconsigliato". Siamo occidentali dunque borghesi; di
conseguenza non è bene che la guida mangi con noi. Questo mi ricorda un
poco l'India dove non si mangia con gli europei, sia perché si è bramini e
allora si teme di sporcarsi, sia perché si è paria e allora si teme di sporcare.
Dico: "E come ci andremo, così da soli, al ristorante?"
"L'autista vi porterà al ristorante e aspetterà di fuori che abbiate finito e
poi vi riporterà all'albergo."
"Noi due soli?"
"Voi due soli."
Ci lascia, saliamo alla nostra camera, nell'albergo in cui abitiamo. In
quest'albergo, uno dei più grandi di Pechino, ci sono due immense sale da
pranzo in una si mangia in stile cinese, nell'altra in stile occidentale. Nella
sala dei cinesi c'è sempre folla: delegazioni, gruppi, tavolate; in quella
occidentale, non ci siamo che noi due. Le sei o sette cameriere della sala
occidentale non fanno quasi mai niente. Mentre una di loro ci serve, le altre
stanno sedute sui davanzali delle finestre e guardano di fuori, allo stradone,
al perpetuo spettacolo della Rivoluzione Culturale: dimostrazioni, parate,
sfilate, processioni. La differenza, poi, tra il cibo della sala dove si mangia
in stile cinese e quello della sala dove si mangia in stile occidentale, è poca:
nella sala cinese i cibi, per lo più fritti, sono serviti già tagliati a pezzettini e
si mangiano con le bacchette; in quella occidentale, gli stessi cibi,
egualmente fritti sono serviti a grossi tocchi, e si mangiano con il coltello e
la forchetta.
Eccoci nella nostra camera. È una camera da letto di tipo russo, zarista,
ottocentesco: qui la Rivoluzione Culturale non è ancora arrivata. Divisa in
due parti da un arco, nella prima ci sono due lettoni monumentali con
trapunta materassata ed enormi guanciali; nella seconda, c'è il ben noto
gruppo di poltrone e canapé, ricoperti di foderine grigie, coi merletti sui
braccioli e sulle spalliere. Su un tavolino ci sono la teiera, le tazze, il termos
dell'acqua bollente, la bustina del tè. In questa seconda parte della stanza si
potrebbe forse sedere in poltrona e leggere in pace. Appunto, abbiamo una
quantità di opuscoli, libri e libretti di Mao da leggere. Ma non è possibile.
Fuori, inchiodato al di sopra della finestra, c'è un altoparlante che
incomincia ad urlare alle sei del mattino e non finisce che a notte. Urla con
voce ora dolce e sforzata, femminile; ora grave e non meno sforzata,
maschile. A quanto pare, urla testi di Mao. Così ci troviamo di fronte ad una
contraddizione paradossale: i testi di Mao dell'altoparlante, che non
comprendiamo perché urlati in cinese, ci impediscono di leggere i testi di
Mao tradotti in inglese e in francese che saremmo in grado, invece, di
capire: scherzi della propaganda.
Appena entrati in camera, Dacia ed io ci consultiamo. È un invito a cena,
come dobbiamo vestirci? Di solito siamo vestiti alla maniera cinese:
camiciola sbracciata e pantaloni. Ma dopo i giri della giornata, le nostre
camiciole e i nostri pantaloni sono sporchi e spiegazzati. Bisogna cambiarsi.
Ma come?
"Mettiamoci tu in camicetta e gonna e io in blu."
"Niente gonna. La gonna non piace ai cinesi. È segno di corruzione
borghese. Non ricordi che il primo giorno mi hanno sputato addosso?"
"Era un bambino."
"Sì, ma un bambino che aveva ascoltato la radio."
"Beh, tu metti i pantaloni, al solito. Io mi metterò in blu, perché non ho
altro."
"Senza cravatta, però."
"Perché non debbo mettermi la cravatta?"
"La cravatta qui in Cina è il simbolo della borghesia. Non è un caso che
non si vedono mai cravatte. Tutti con la tunica abbottonata fino al collo o
con la camicia alla Robespierre."
Verso le otto, usciamo dalla stanza. Corridoi tetri, poco illuminati, ancora
una volta zaristi, ottocenteschi, dostoieschiani. Nell'atrio del piano, il
cameriere prende la nostra chiave; quindi entriamo in un ascensore che in
qualsiasi albergo occidentale non sarebbe che un montacarichi. Pareti
sudicie rozzamente smaltate di giallo; serrande di ferro. La ragazzina del
l'ascensore chiacchiera con gli ospiti che l'affollano. Sono tutti cinesi;
l'albergo porta il nome di Albergo delle nazionalità; vi dovrebbero
alloggiare turisti stranieri; ma per ora non ci siamo che noi due; gli altri
sono, a quanto pare, funzionari senza casa oppure gente che viaggia per
motivi ufficiali.
Li guardo mentre l'ascensore interminabilmente discende fermandosi ad
ogni piano. Tutti in camiciola sbracciata o tunica di foggia militare chiusa al
collo. Tutti coi vestiti puliti cioè lavati di recente, ma minutamente
spiegazzati perché mai stirati. Un odore mischiato di disinfettante e di
cavolo riempie l'aria: il disinfettante con il quale lavano l'ascensore, il
cavolo che è uno degli alimenti principali in Cina. I cinesi, loro, non ci
guardano affatto. È tutta gente educata e che la sa lunga. Ma per le strade
che sono piene di semplici, ingenui contadini in gita a Pechino da chissà
quali sperdute province, i passanti non fanno che guardarci. Siamo seguiti,
circondati da gente che ci guarda a bocca aperta, senza ritegno, sbalorditi,
proprio come guardano i contadini. Guardano soprattutto agli occhi azzurri
di Dacia. In Cina, mi dicono, l'occhio azzurro è indizio di eccezionale
ferocia e malvagità. Non si creda però che l'odio delle pupille chiare sia
dovuto alle recenti campagne xenofobe contro gli anglosassoni e i russi. No,
il terrore e l'orrore dell'occhio azzurro, a quanto pare, risale alle invasioni
mongoliche. I mongoli, infatti, avevano spesso gli occhi chiari.
Eccoci nell'atrio. Lugubre, sovietico, ufficiale. Soffitto altissimo e scuro;
vasto pavimento opaco e scuro; pilastri quadrati tozzi e scuri; materiale
povero e rozzo, invariabilmente scuro. Nel mezzo dell'atrio, a ridosso di un
grande paravento sotteso di velluto rosso, spicca, bianca, immacolata,
un'enorme statua di Mao di gesso. Intorno la statua e sugli scalini tappezzati
di rosso che portano al piedistallo, c'è una profusione di fiori freschi, come
nelle nostre chiese intorno l'altare del santo. Non mancano che i ceri e i
turiboli dell'incenso. Mi fermo a guardare la statua. È nello stile staliniano,
edificante e realistico. Mao è ritratto sorridente, con la famosa verruca
presso il mento. Indossa la famosa tunica militare abbottonata (si vedono
tutti i bottoni) fino al collo, e i famosi pantaloni larghissimi, col cavallo
bassissimo, come li portano i cinesi. In fondo mi dispiace che Mao, a
settantaquattro anni e dopo un'intera vita lontana da qualsiasi adulazione,
abbia finito, sia pure per motivi politici, per ricorrere al culto della
personalità, come già Stalin e certamente in maniera più ossessiva di Stalin
medesimo. Anche a Mosca, negli atri degli alberghi, c'erano statue di gesso
di Stalin identiche a questa di Mao. E ancor più mi dispiace che così nelle
statue di Stalin come in quelle di Mao, l'espressione sia la stessa: sorridente,
affabile, paterna. Sotto quell'espressione, Stalin nascondeva un carattere
spietato e sanguinario; invece Mao, il quale spietato e sanguinario non è,
non aveva certo bisogno di una simile trasformazione in padre dei popoli.
Ma tant'è; si vede che i contadini di tutto il mondo hanno gli stessi gusti;
l'uomo che sta al governo, feroce o no, lo vogliono comunque, in effige,
simile ad un padre benevolo e protettivo. Guardo a lungo la statua: tra gesso
e armatura, peserà certamente parecchi quintali. Mi fa pensare a qualche
cosa o a qualcuno, non so. Cerco di ricordarmi e non ci riesco. Intanto
usciamo dall'albergo.
È notte, fa quasi buio. Sullo stradone le lampade ottocentesche, a
grappoli di globi, un po' simili a quelle della piazza dell'Opera a Parigi,
sono accese soltanto nella parte superiore, per economia. Nell'ombra si
vedono gli ultimi sciami di biciclette trapassare silenziosamente. Presso la
porta dell'albergo, tre ragazzi coi bracciali delle guardie rosse battono a
perdifiato su un enorme tamburo il cui tonfo cupo rimbomba per lo stradone
senza turbarne, strano a dirsi, la solenne pace campestre. C'è l'aria, quasi,
dei sentieri in campagna, al crepuscolo, con gli ultimi braccianti che
rincasano in bicicletta.
La nostra automobile è lì pronta, con gli sportelli aperti. Saliamo e
partiamo per lo stradone, tra le biciclette. Ogni tanto ci sorpassa, a grande
velocità, un camion pieno gremito di operai oppure di guardie rosse,
bandiere al vento. Ogni tanto intravediamo le solite processioni di tipo
religioso: il ritratto di Mao sorretto da due ragazze, poi le bandiere, e dietro,
in fila indiana, i dimostranti ciascuno con il libro rosso delle citazioni di
Mao stretto in pugno.
Corriamo fino alla piazza Tien An Men, sorpassiamo l'obelisco centrale
dedicato alla storia della Cina moderna, dalla rivolta dei Taiping ad oggi,
giriamo intorno la porta monumentale con i suoi contrafforti a sghembo e il
suo triplice tetto a punte rialzate, ci dirigiamo verso una strada molto
affollata della vecchia Pechino. Dappertutto, là dove un tempo ai due lati
della porta si alzavano le mura ormai demolite, buche, mucchi di calcina,
impalcatura: i lavori pubblici per la metropolitana. Entriamo nella strada:
ogni tanto, edifici rosso fiamma, istoriati di ideogrammi d'oro: sedi di
organizzazioni partitiche, statali. Ad un tratto la macchina si ferma,
vediamo una porta a due battenti, dall'aria quasi scandalosamente
occidentale. Qualcuno spia attraverso i vetri e, appena ci vede, scompare. È
l'ingresso del ristorante. Impacciati, vergognosi, scendiamo dall'automobile,
attraversiamo la folla, entriamo.
Di nuovo, come all'albergo, abbiamo l'impressione di fare un salto
indietro nel passato e nell'Europa; ma un passato e un'Europa visti
attraverso la Russia zarista: atrio neoclassico, col pavimento a scacchiera
bianca e nera; due canapé gemelli, col velluto rosso spelacchiato e
polveroso; due grandi specchi dalle luci ingiallite con le cornici in stile
Impero. Una scala a "v" sale al piano superiore; un logoro tappeto rosso
serpeggia per gli scalini di marmo bianco. Scopriamo che il secondo piano è
stato diviso in tanti separé, mediante tramezzi di materia plastica marrone.
A noi due è stato riservato uno di questi separé: grande tavola rotonda sotto
un lampadario di Boemia con le gocciole e i prismi di cristallo ma dalla
luce assai fioca; due sole seggiole e due sole posate, l'una di fronte all'altra,
a grande distanza l'una dall'altra. Saremo dunque soli; come per una cena
galante. C'è una finestra con pesanti cortinaggi a fiorami scuri. I vetri sono
chiusi, giornali murali incollati sui vetri impediscono di guardare di fuori.
L'altoparlante di una delle tante radio sparse nella strada urla a perdifiato,
come quello inchiodato al di sopra della nostra finestra, all'albergo. Mi alzo
e vado a spiare attraverso le fessure dei tramezzi nei separé adiacenti. In
quello di destra ci sono un uomo e una donna, cinesi, certo un funzionario
con sua moglie: mangiano con compunzione, con serietà, senza parlare. In
quello di destra ci sono tre giapponesi e tre cinesi: forse un pranzo di affari;
aria d'impaccio, di reciproca diffidenza. Torno a sedermi e per un poco
stiamo ambedue zitti, guardandoci. Quindi, insieme, scoppiamo a ridere:
che razza di invito! Soli, chiusi in un separé squallidamente intimo, senza
commensali cinesi, con le finestre serrate e i vetri oscurati dai giornali
murali e l'altoparlante che ci impedisce di parlare tanto forte urla la sua
incomprensibile (per noi) propaganda. Soli e condannati al senso di colpa
che può venire dal mangiare l'anatra di Pechino in un paese che si nutre in
prevalenza di riso, di miglio e di cavolo.
Alfine arriva una graziosa, gentilissima cameriera e ci porta gli antipasti.
Siamo stati avvertiti: il pranzo è di sola anatra. E infatti gli antipasti
consistono in fettine di fegato d'anatra, in pezzettini di anatra arrosto fredda,
in striscioline di pelle d'anatra. Passano alcuni minuti e poi, incredibile a
vedersi, ecco un'apparizione surrealista: simile in tutto ad un "chef"
francese, col grembiale bianco legato alla vita e il berrettone bianco in capo,
il cuoco si affaccia e ci mostra su un vassoio, con gesto tradizionale, come
si fa nei buoni ristoranti di Parigi, l'anatra tutta intera, già arrostita. La
sottopone alla nostra approvazione prima di consegnarla allo scalco; noi
con un cenno degli occhi approviamo.
Passa ancora un quarto d'ora: la radio urla, abbiamo finito gli antipasti e
ci guardiamo. Ecco riappare la cameriera e ci porta un piatto di pezzi di
fegato di anatra arrostiti. Si mangiano con il condimento di una specie di
farina bianca dal sapore gradevole. Sono squisiti.
Dico: "È buono."
"È buonissimo."
"Non abbiamo mai mangiato così bene in Cina."
"Sì è la prima volta che mangiamo veramente bene."
"Però quando mangiavamo all'albergo, mangiavamo male, è vero, ma
come tutti gli altri e, per questo, allegramente. Qui invece mangiamo bene,
ma con un senso di colpa."
"Perché?"
"Perché i cinesi del popolo, cioè l'immensa maggioranza, l'anatra di
Pechino non se la possono permettere così spesso, forse mai. E perché
siamo stati piantati qui soli, in questo sinistro separé capitalista, per una
cena di quelle che, ai tempi della Belle Epoque, finivano con lo champagne
e poi sul canapé. Soltanto che qui la radio e i giornali murali ci ricordano
che la Belle Epoque è morta da un pezzo. Lo sai che cosa penso?"
"Che cosa?"
"Di essere Don Giovanni alla scena dell'ultimo atto. È come se avessi
sfidato cioè invitato a cena 'la statua gentilissima del gran commendatore',
ossia la statua di gesso bianco di Mao che sta nell'atrio del nostro albergo.
L'ho invitata empiamente anche se intrepidamente a mangiare l'anatra di
Pechino con noi. Ebbene, tra poco udirai un passo lento, pesante, calcato,
terribile, e udirai una voce di basso profondo pronunziare: 'Don Giovanni a
cenar teco - m'invitasti e son venuto.' Dopo di che, la statua mi prenderà per
mano e mi trascinerà all'inferno. Voglio dire all'inferno capitalista."
"Ma quale statua? Non capisco."
"Te l'ho già detto; la statua di Mao, che sta nell'ingresso del nostro
albergo."
"Che c'entra Don Giovanni con la Cina di Mao?"
"Don Giovanni è per antonomasia il personaggio empio e intrepido
dell'Occidente. Tutti gli europei sono o possono essere dei Don Giovanni."
"Sì, ma il commendatore non è Mao."
"Come no. Non ricordi? 'Pentiti, cangia vita - È l'ultimo momento'?
Potrebbe essere detto da Mao a tutti i capitalisti o revisionisti, secondo la
sua ben nota propensione didascalica ed educativa di origine confuciana.
Ma Don Giovanni, purtroppo, non può che rispondere: 'No, no, ch'io non mi
pento' Mao Commendatore insiste: 'Pentiti scellerato.' E Don Giovanni, dal
canto suo, ribatte: 'No, vecchio infatuato.' Il contrasto è insanabile. Noi due
siamo due Don Giovanni. Trappoco Mao arriverà, o meglio la sua statua,
con il suo passo pesante diversi quintali di gesso."
"Tu scherzi sempre."
"Anche Don Giovanni scherza sempre."
Ci mettiamo a ridere tutti e due; ma la scena resta lugubre e
ostinatamente simbolica e significativa: due borghesi a tavola, con gli urli
della radio, e le finestre piene di giornali murali. In una luce fioca, triste, da
convito funebre. Si ode un passo, per la verità, leggero, la porta si
socchiude.
"Ecco la statua di Mao. Teniamoci pronti."
Invece è la cameriera che porta su un vassoio il piatto principale: tanti
pezzetti dell'anatra arrostita. Mangiamo. La pelle è croccante, fragrante,
rosolata fuori, grassa dentro; la polpa è bianca, delicata, leggera, cotta a
punto. Insieme all'anatra arrostita, la cameriera ci porta un brodo d'anatra,
con fettine sottili di cetrioli e funghi.
Dacia dice: "Che peccato. Quando siamo all'albergo ho sempre fame ma
il cibo è cattivo. Oggi invece che il cibo è squisito, non ho fame affatto."
"Da' qui, mangerò io per te, la mia parte e la tua. E' vero, ho il senso di
colpa. Ma visto che pecco, voglio peccare fino in fondo, fino a scoppiarne."
Entra di nuovo la cameriera e ci porta un'altra parte dell'anatra, il petto.
Quindi viene un'altra volta ancora e ci serve una seconda minestra, un brodo
leggero, delicato, con le ali dell'anatra. Beviamo vino di riso caldo, birra
gelata, tè al gelsomino. Gli altoparlanti urlano più che mai.
Dico: "Dopo tutto, la statua non è venuta. Chissà perché?"
"Forse perché nell'inferno capitalista ci siamo di già e non c'è bisogno
che venga lui a portarci laggiù." "Io credo che se la statua fosse venuta, ci
avrebbe semplicemente dato il libretto rosso delle citazioni di Mao e poi se
ne sarebbe andata. Nell'inferno dei cinesi non c'è nessuno. Nessuno è
veramente dannato. Tutti possono essere recuperati, rieducati grazie ad un
acconcio lavaggio del cervello. Distolti, grazie alla lettura del libro di Mao,
dalla strada del capitalismo e avviati verso quella del maoismo."
"Ti piace l'idea della statua di Mao e di Don Giovanni perché sei un
letterato e ficchi la letteratura dappertutto. Ma qui non siamo a Spoleto, al
festival musicale. Siamo a Pechino."
"No, non mi comprendi. L'idea che la statua di Mao abbia una funzione
analoga a quella del commendatore nel Don Giovanni è l'espressione del
senso di colpa che i cinesi, consapevolmente o no, mi hanno fatto venire
stasera invitandomi in questo ristorante a mangiare l'anatra. Se non fossero
così invasati di smania educativa, dovrebbero chiudere anche questo
superstite luogo di delizie borghesi ed esportare le anatre all'estero, per farci
della valuta e comprate magari il materiale per la bomba atomica."
"Ci siamo: ecco la bomba atomica."
"Ma sì. Il Convitato di pietra che si presenta a Don Giovanni empio ed
edonista è Mao che si presenta al mondo occidentale cinico e banchettante e
lo ammonisce con la bomba,.."
Il pranzo è finito. La statua di Mao non è venuta (ma ne è piena la Cina,
purtroppo, di queste statue). Noi adesso abbiamo la sensazione singolare
che dobbiamo al più presto scappare dal ristorante, come avventori che non
abbiano i soldi per pagare. Sappiamo benissimo che siamo stati invitati e
sappiamo pure che coloro che ci hanno invitati e poi serviti sono tutte
persone gentili e cortesi, sinceramente contente di farci apprezzare il piatto
nazionale dell'anatra pechinese. Ma, senza colpa loro, ci è venuto il senso di
colpa. Dico: "Scappiamo prima che la cameriera rientri."
Così ce ne andiamo; o meglio fuggiamo. Scendiamo due a due la scala,
attraversiamo il malinconico atrio, con i due canapé rossi e le due grandi
specchiere dorate, usciamo nella strada, tra la folla. Ecco la macchina.
Saliamo e partiamo.
Dico: "Abbiamo commesso un grosso peccato e adesso ci pesa sulle
nostre coscienze di borghesi capitalisti."
"Abbiamo mangiato un pranzo squisito. E adesso ce l'abbiamo, leggero e
buono, nel nostro stomaco di persone fatte come tutte le altre, pronte ad
apprezzare le cose buone della vita."
LA SFIDA DI HONG KONG

Dico a Dacia: "Questi sono gli stessi cinesi che abbiamo visto qualche
giorno fa sfilare a Pechino, con le bandiere, i ritratti di Mao, i libretti rossi
delle citazioni di Mao?"
"Sì, sono gli stessi. Cioè non proprio gli stessi, in senso individuale. Ma
gli stessi nel senso che anche questi fanno parte del popolo cinese."
"Allora è provato che si può fare degli uomini quello che si vuole. O che
gli uomini possono fare di se stessi quello che vogliono."
"Diciamo che gli uomini possono fare di se stessi quello che vogliono."
Siamo in un albergo di Kowloon, quartiere continentale della città
insulare di Hong Kong. È un quartiere tutto cinese; gli europei vivono
nell'isola. Attraverso la nostra finestra, situata al ventesimo piano, vediamo,
proprio di fronte, a pochissima distanza, un palazzo o meglio un mezzo
grattacielo di tipo popolare. È vicinissimo, come ho detto; tra la sua facciata
e la nostra lo sguardo piomba in fondo ad un ignudo e vuoto cortile di
cemento sparso di immondizie sbriciolate. Dalla nostra finestra appare
chiaramente la piccolezza degli appartamenti, di una camera, due camere;
ma piuttosto celle che camere; nonché l'affollamento soffocante delle
coabitazioni. In certe stanze i letti sono infissi alla parete l'uno sul l'altro
come le cuccette nei treni; è quasi sera ma molti degli abitanti, disoccupati
o oziosi, giacciono sui letti con la schiena e il sedere voltati e quasi
sporgenti dalla finestra come se si aspettassero da questa esposizione all'aria
aperta qualche sollievo dall'umida afa tropicale. Uomini in mutande,
bambini nudi si muovono con difficoltà e lentezza nelle stanze esigue e
ingombre; donne in pigiama neri cucinano in piedi di fronte a minuscoli
fornelli. Sono cinesi poveri, forse meno poveri dei cinesi di Canton e di
Pechino; ma in compenso sradicati dalla civiltà del loro paese e affollati
qui, senza alcun vero trapianto in altro humus culturale, sulla roccia ignuda
di una grande città di quattro milioni di abitanti, esclusivamente mercantile
e coloniale. Quanto dire che tutte queste famiglie che vediamo brulicare, in
promiscue e angosciose coabitazioni, nel palazzo di fronte, condividono (o
fingono di condividere) la stessa visione del mondo dei banchieri, dei
mercanti, degli industriali e dei ricconi di cui ieri, durante un giro per i
quartieri residenziali su per le colline di Hong Kong abbiamo ammirato le
ville belle e grandi nascoste in fondo a lussureggianti giardini subtropicali.
Dacia osserva: "Sono in gran parte comunisti. Quei libretti rossi delle
citazioni di Mao che abbiamo portato dalla Cina, in traduzioni inglesi e
francesi, i ragazzi dell'ascensore, i bell-boys se li sono disputati. E anche i
distintivi con la testa di Mao."
"Ci sono pure quelli che non sono comunisti e sono scappati qui dalla
Cina. Come per esempio il nostro autista di ieri che è stato autista di
un'autoambulanza americana nella guerra civile tra nazionalisti e comunisti
e adesso ha paura, se i cinesi invadono Hong Kong, di essere messo al
muro."
Riprendo dopo un momento: "Il capitalismo è causa di diversi effetti. Il
principale e più visibile forse è di mettere uomini e oggetti allo stesso
livello. E spesso di fabbricare oggetti che hanno un aspetto più piacevole,
più rifinito, più attraente, più bello così degli uomini che li producono come
di quelli che li consumano. Forse questa è l'origine dell'idea del 'nouveau
roman' francese sulla autonomia ed importanza degli oggetti rispetto
all'uomo e sulla trasformazione dell'uomo, oggi, in un oggetto come tutti gli
altri, magari meno centrale e significativo degli altri. E infatti, spesso, nei
paesi capitalisti, i vestiti sono più belli di coloro che li indossano, le
automobili più imponenti di coloro che le guidano, le case più fantastiche di
coloro che le abitano. Saliamo adesso sulla terrazza dell'albergo e andiamo
a vedere Hong Kong, città di sicuro infinitamente più bella di coloro, ricchi
e poveri, che ci vivono."
Eccoci dunque sul roof-garden dell'albergo. Sì, Hong Kong è bella, è
bellissima, di una bellezza che ricorda un poco quella di Nuova York. Come
la bellezza di una sorella minore ricorda talvolta quella di una sorella
maggiore. È il tramonto, con un cielo già verde e velato sulle nostre teste e
ancora rosso all'orizzonte. Le colline incupite dalle ombre della sera, gonfie
di vegetazione subtropicale impura e delirante, fanno da sfondo a gruppi
serrati di grattacieli bianchi, diritti, puri, spirituali, già tutti scintillanti e
ingioiellati di finestre illuminate. La città ci sta di fronte, in semicerchio
tutt'intorno la baia che a quest'ora è di un azzurro cupo, duro, minerale,
prezioso, scheggiato di riflessi purpurei. Innumerevoli sagome di navi alla
fonda, nere come l'inchiostro di Cina, si stagliano sullo sfondo più chiaro
del mare e del cielo: sagome enormi di transatlantici, lunghe e basse di
petroliere alte e massicce di mercantili, appena affioranti di sommergibili,
sottili e aguzze di navi da guerra. Tra questi profili neri e immobili,
scivolano, non meno neri, i rimorchiatori panciuti dai fumaioli alti e smilzi,
e sampan con le prue e i casseri dalle punte incurvate, simili a navicelle
medievali. Dico, dopo aver guardato a lungo a questo meraviglioso
panorama: "Hong Kong è una città ringiovanita."
"Perché ringiovanita?"
"Perché quando ci sono stato, più di trent'anni or sono, era un vecchiume
vittoriano. Ricordi l'edificio della posta, quel nano stretto tra due
giganteschi grattacieli bianchi, basso e lungo, di mattoni color sangue di
bue scuriti dall'umidità, in stile neogotico?. Beh, allora Hong Kong era tutta
un poco così. Gli inglesi abitavano sulle colline, in ville stuccate in stile
edoardiano, liberty; i cinesi si affollavano dietro il porto in caravanserragli
sordidi, fatiscenti, bardati di balconate crollanti, di verande sbilenche.
C'erano alcune banche in stile imperiale, ottocentesco, di granito scuro
lustrante, sinistramente rispettabili. Ecco tutto. Te lo dico, Hong Kong è
ringiovanita."
Effettivamente Hong Kong è ringiovanita o se si preferisce, si è
trasformata da città britannica coloniale e mercantile in metropoli
neocapitalista, e americanizzante. Le origini di questa trasformazione sono
curiose e meritano di essere spiegate. Eccole, in breve.
Quasi vent'anni or sono il fotografo francese Cartier Bresson pubblicava
un album di fotografie sulla Cina. Era l'anno del trionfo di Mao; tra le tante
fotografie, ce n'era una che allora mi era sembrata particolarmente
espressiva ed eloquente. La fotografia scattata alla vigilia immediata
dell'ingresso delle truppe comuniste a Sciangai, mostrava una fila di uomini
e di donne che in uno strano panico al tempo stesso frenetico e controllato,
si accalcavano affannosamente allo sportello di una banca per ritirarne i
depositi e metterli in salvo prima dell'arrivo delle truppe maoiste. La
fotografia mi aveva colpito in quanto era un documento dì prima mano su
quello che di solito avviene nell'imminenza di un'invasione. Un tempo si
facevano dei fagotti di tutto il poco o molto che si possedeva; oggi si
ritirano i conti in banca: il mondo cambia poco. Ma in quella fila di corpi
premuti e schiacciati gli uni contro gli altri, di volti tesi, avidi e ansiosi, si
leggeva qualche altra cosa oltre la paura di perdere il denaro, e questo
qualche cos'altro non avviene tanto spesso. Era il senso di terrore che ispira
non tanto la rovina materiale, quanto il crollo della scala di valori secondo
la quale si è sinora vissuti. Questa scala di valori, tra poche ore, non ci
sarebbe più stata, sarebbe stata violentemente, radicalmente sostituita da
quella del comunismo maoista. Per questo, l'invasione comunista non era
un'invasione qualsiasi, anche se cruenta, passata la quale si torna alle
vecchie sedi, ai vecchi traffici; era invece l'invasione dell'"altro", del
"diverso", di colui che non consente, mai più, il ritorno. Qualche cosa di
simile ad eventi, purtroppo non fotografati, come l'ingresso dei turchi nella
Costantinopoli cristiana o quella degli spagnoli nella capitale del Messico
precolombiano. La fotografia testimoniava insomma una disfatta
irreparabile, radicale, definitiva.
Eppure, strano a dirsi, proprio a quegli sciagurati risparmiatori cinesi di
Sciangai, Hong Kong deve la sua prosperità, il suo ringiovanimento.
Naturalmente questo va detto in senso metaforico: i piccoli risparmiatori
fotografati da Cartier Bresson se sono riusciti a scappare, sono andati a
ingrossare la folla della gente minuta di Hong Kong: trafficanti di ogni
genere, negozianti, prostitute, commessi. Coloro che hanno cambiato la
faccia di Hong Kong sono invece i ricchissimi compradores, usurai, signori
della guerra, latifondisti. Costoro non hanno fatto la fila davanti agli
sportelli delle banche; non sono scappati in panico. Hanno trasferito
tranquillamente, con una telefonata o due, i loro capitali da Sciangai a
Singapore, a Tokio, a Formosa, a Hong Kong. E quindi li hanno raggiunti,
con comodo, in aeroplano, insieme con le loro mogli, concubine, figli,
servitori, cuochi e maggiordomi. Tuttavia questo non toglie che il terrore
fotografato da Cartier Bresson, l'avessero provato tutti quanti, così i piccoli
risparmiatori come i grandi usurai. E il nesso tra questo terrore e l'attuale
ringiovanimento di Hong Kong è, paradossalmente quell'operazione
finanziaria in apparenza semplicissima ma in realtà, almeno in senso
psicologico, molto complicata, che si chiama comunemente investimento,
Hong Kong deve, infatti, il suo ringiovanimento proprio all'immissione
nelle sue vecchie vene coloniali di una quantità massiccia di capitali dei
cosiddetti cinesi d'oltremare. Per lo più, cioè, di capitali portati via dalla
Cina al momento del trionfo maoista.
È un paradosso significativo della storia che spesso un regime sconfitto e
malconcio ritrovi coesione e forza non già nella tranquillità di una
situazione favorevole bensì al contatto immediato di una minaccia mortale.
Alla sfida del comunismo di Mao che si era fermato provvisoriamente nei
sobborghi di Hong Kong, il neocapitalismo cinese ha risposto con la sfida
dell'investimento finanziario proprio nella città che tutti davano per
spacciata. Abbiamo parlato di sfida; potremmo anche parlare di colpo di
dadi, di carta giocata con il massimo del rischio, di bluff, di scommessa;
ma, forse, sarà più esatto dire che si tratta di una sfida che ha la particolarità
di essere largamente inconsapevole, cioè di appartenere piuttosto alla
biologia che alla storia. La consapevolezza storica o almeno la convinzione
di possederla è dall'altra parte del confine, nella Cina di Mao. Qui a Hong
Kong siamo di fronte allo stesso oscuro impulso che spinge un rampicante
ad aggrapparsi ad una parete; un albero a sporgere i rami al sole al di sopra
di un muro. In questo senso e soltanto in questo senso si può parlare di sfida
tra Hong Kong e la Cina di Mao: come di due estremi che si fronteggiano
con il massimo di essenzialità e di purezza: da una parte tutto è volontario,
programmatico, consapevole; dall'altro tutto è involontario, spontaneo,
inconsapevole.
La sfida del capitalismo cinese d'oltremare al comunismo di Mao è basata
su questa semplice riflessione: "Sì, basterebbe che i comunisti sparassero un
solo colpo di cannone; e gli inglesi che non domandano di meglio che
liquidare anche questa colonia, se ne andrebbero al più presto. Ma i
comunisti quel colpo di cannone non lo spareranno. E questo perché non
soltanto conviene loro che Hong Kong, solo porto cinese attrezzato in
maniera moderna, rimanga aperto ai traffici con il mondo intero; ma anche
perché se non ci fosse Hong Kong, lì bell'e pronto, essi dovrebbero
inventarne un altro, cioè creare un altro porto dello stesso genere, diretto,
organizzato e amministrato da degli intermediari stranieri che consentano
un ingente commercio cinese coi paesi capitalisti senza il pencolo di
compromissioni di ordine politico,"
Questa riflessione ha permesso lo straordinario sviluppo del porto di
Hong Kong, oggi il quinto del mondo; ma all'origine della riflessione, come
sempre quando si tratta di denaro, c'è una complessa rete di fiducia; fiducia
dei capitalisti cinesi negli inglesi (gli ultimi avvenimenti hanno dimostrato
che questa fiducia non era infondata); fiducia degli inglesi nella Cina di
Mao (oggi profondamente scossa); fiducia della Cina di Mao in se stessa
(più forte che mai). Da tutte queste fiducie nasce l'equilibrio attuale della
situazione di Hong Kong; equilibrio ormai se non proprio distrutto, almeno
gravemente compromesso dal tentativo dei cinesi di trasformare la colonia
inglese in una specie di Macao; ossia in un porto coloniale nel quale, però,
la potenza colonialista diventi, per così dire, vassalla della Cina. A Macao,
com'è noto, questo vassallaggio è stato alla fine accettato dal Portogallo. A
Hong Kong, invece, la sfida inconsapevole del capitalismo cinese di
oltremare è stata aggravata dal rifiuto inglese, del tutto consapevole, di
seguire l'esempio del Portogallo.
Eccoci adesso in una delle strade principali di Kowloon. Negozi indiani
nei quali i commessi portano il turbante e la tunica bianca e vi si vendono
per lo più cotonate di Madras; negozi inglesi di libri, di lane, di calzature, di
camiceria maschile, di abiti di confezione, di oggetti sportivi; negozi
giapponesi di macchine fotografiche, transistor, giocattoli, lacche,
ceramiche; negozi cinesi di curiosità, anticaglie, porcellane, bric a brac,
ricordi; negozi americani di camiciotti a scacchi, giacche a vento, blue
jeans, mocassini; negozi francesi di profumeria, di articoli di moda
parigina; negozi malesi, filippini, tedeschi, persiani, arabi; negozi di ogni
genere e qualità. E inframmezzati ai negozi, ristoranti cinesi, europei,
giapponesi, coreani, polinesiani, bar di tutte le grandezze e fogge, night club
sotterranei, case da tè, botteghe di cambiavalute, sale di spogliarelli,
cinema, stanzoni coi flippers. E ai primi piani e anche più su bagni turchi,
massaggi, case di bellezza, parrucchierie, studi fotografici e, naturalmente,
presenti anche se invisibili, case di appuntamenti, le mitologiche maìsons
de rendezvous illustrate da Robbe Grillet in un suo cinematografico
romanzo. E qua e là agenzie di viaggi, di turismo, di navigazione aerea e
marittima, di importazioni ed esportazioni. E ancora: esposizioni di
rappresentanti di motoscafi, di automobili, di biciclette, di motociclette, di
macchine da cucire, di macchine da scrivere; nonché vetrine di vasellami, di
elettrodomestici di ogni genere, di ferramenta, di utensili casalinghi, di ferri
per sale operatorie, di tabacchi, di dolciumi. E ogni tanto, immensi
magazzini, dove si vende di tutto, a più piani, con le scale e i banchi di
vendita e la folla visibili dietro i vetri dei finestroni. L'elenco potrebbe
continuare, anzi dovrebbe continuare perché soltanto una descrizione in
forma di catalogo può comunicare il sentimento che si prova passeggiando
per le strade di Hong Kong: un sentimento, a dirla in breve, di trovarsi in
una città nella quale non ci siano che cose da vendere e da comprare, non ci
siano che venditori e compratori. Ora appunto, il catalogo commerciale di
più di mille pagine in carta sottile, con le liste delle merci seguite dal prezzo
e commentate brevemente in maniera elogiativa, il catalogo è veramente la
sola composizione, diciamo così, letteraria, che possa fornire un'immagine
adeguata di Hong Kong. A questa atmosfera si adegua perfino l'austera
Repubblica Popolare Cinese. Ecco infatti un grandissimo emporio di dieci
piani, il quale espone nelle vetrine modesti manufatti della Cina comunista
e immensi ritratti di Mao. Se è vero che Hong Kong è una sfida capitalista
al comunismo cinese, allora è anche vero che in questo magazzino, la Cina
di Mao sfida se stessa. Gli estremi, poi, di questa unica alternativa della
vendita e dell'acquisto, sono rappresentati dai marines americani e dalle
piccole prostitute infantili, forse davvero delle bambine, in tunica chiusa,
con il collettino duro stile Sciangai 1930, minigonna con lo spacco fino
all'anca, faccia malamente infarinata, bocca sanguinosa, innocenti e obliqui
occhi bistrati. Esse sono le pure venditrici, perché vendono se stesse. E i
giganteschi marines dalle spalle enormi, dalle piccole teste rasate,
dall'andatura dondolante, sono i puri compratori che comprano di tutto.
Talvolta i due estremi si toccano, in attesa di abbracciarsi addirittura in
chissà quale lurido albergo con le stanze a ore. E allora vediamo la bambina
tutta contenta di essersi venduta camminare in fretta tirando per il braccio il
colosso americano anche lui apparentemente assai contento di averla
comprata. Ma il più delle volte l'occhio non distingue niente di preciso,
nessun aneddoto, nessun evento particolare. In quest'atmosfera, più che
altro siamo storditi, abbagliati, dal brulichio delirante delle offerte, degli
inviti, dei richiami, degli adescamenti e delle lusinghe del consumo. È la
stessa atmosfera di certi quartieri commerciali di Nuova York, di Londra e
di Parigi; ma qui non c'è che il commercio; con una carica di violenza e di
ossessione che in quelle città non si avverte.
A questo punto bisogna pur dire che non tutte le situazioni di contrasto
sono situazioni di sfida. Non è vero, per esempio, che le nazioni con regime
comunista siano "sempre" ostili a quello con regime capitalista. È vero,
bensì, che ci sono certe nazioni comuniste che per motivi spesso estranei
alla ideologia politica sono ostili a certe nazioni capitaliste. Quanto dire che
la coesistenza è possibile; e che l'ostilità non è dovuta all'impossibilità della
coesistenza. Per esempio c'è senza dubbio contrasto di regimi tra Italia e
Jugoslavia; ma non c'è sfida. Invece, come ho già detto, c'è sfida tra Hong
Kong e la Cina di Mao o meglio tra la Cina di Mao e il mondo intero. Ora
accade che proprio a Hong Kong la sfida tra il mondo e la Cina di Mao
abbia un carattere più intransigente che altrove.
In che cosa consiste dunque questa sfida? Diremmo che consiste proprio
nel fatto che le due situazioni a contrasto sono al tempo stesso tipiche ed
estreme. Hong Kong ha tutti i caratteri del capitalismo e neppure uno solo
di quelli che talvolta il capitalismo condivide col comunismo. Dal canto suo
la Cina di Mao ha tutti i caratteri propri del comunismo e neppure uno solo
di quelli che talvolta il comunismo condivide con il capitalismo. A Hong
Kong infatti mancano completamente le correzioni tradizionali
dell'astrazione capitalista: la terra e i contadini, la nazione e la cultura
nazionale, la religione e la tradizione religiosa. Hong Kong è un esempio
spietato di ciò che può il denaro da solo, cioè il puro consumo, senza altra
giustificazione che il profitto. D'altra parte la Cina di Mao non ha corretto
finora né sembra disposta a correggere l'astrazione comunista con le
concessioni (da lei richiamate revisionismo) anch'esse ormai abituali in altri
paesi comunisti, alla libertà, al benessere individuali. Anzi la Rivoluzione
Culturale ha confermato ed aggravato la mancanza assoluta di simili
correzioni. Così mentre ad Hong Kong si vive per il profitto e per il
consumo; nella Cina di Mao consumo e profitto sono stati il primo ridotto al
puro necessario e il secondo abolito. Si tratta di due sfide, dunque, estreme,
come abbiamo detto; e al tempo stesso, in certo modo, più biologiche che
politico-economiche. Al livello della lotta per la vita, tutto diventa
essenziale ed estremo. E soprattutto, non c'è più alcuna possibilità di
compromesso; anche quando, com'è il caso tra Hong Kong e la Cina di
Mao, il compromesso temporaneamente sia tenuto in piedi da ambo le parti.
DAVVERO, LI' SONO I COMUNISTI?

Chi si trovi oggi a viaggiare per l'arco di aeroporti che va da Seul in


Corea, attraverso Tokio e magari Manila e poi Taipeh e Hong Kong e
magari Kuala Lampur e naturalmente Saigon fino a Bangkok, assiste ad un
fenomeno imponente: lo straripamento, o traboccamento o inondazione
dell'Asia Orientale da parte degli americani. Tra Stati Uniti e Asia c'è di
mezzo l'Oceano Pacifico; ma è come se ci fosse, invece, un fossato
facilmente valicabile. Gli americani, in questa parte del mondo, si sono
davvero impegnati; e il loro "committment" è non soltanto militare ma
anche, in senso largo, culturale.
Per quanto riguarda l'impegno militare, è noto che gli Stati Uniti,
attraverso eserciti piccoli o grandi (Formosa, Corea del Sud, Vietnam,
Tailandia), alleanze (Australia, Nuova Zelanda, Filippine, Hong Kong) e
concomitanza di interessi (Giappone, Indonesia, Malesia), controllano tutto
l'Est asiatico. Per quanto poi riguarda lo straripamento culturale... ci
limiteremo, a questo proposito, a osservare che in ogni invasione, l'invasore
suggerisce, dona, impone all'invaso la propria cultura; ma a sua volta,
fatalmente e inconsapevolmente, riceve, accetta e adotta la cultura
dell'invaso. È fatale, ripetiamo, e diamo alla parola fatale tutto il suo tragico
significato originario. Se gli americani, invece che una delle parti di più
antica civiltà del mondo, avessero invaso, mettiamo, il Borneo, ebbene ben
presto, senza né volerlo né rendersene conto, si sarebbero "borneizzati". Ora
che cosa ricevono e adottano sia pure senza rendersene conto i soldati
atletici, supernutriti e infantili, le donne bionde, linfatiche e "deodorate", i
turbolenti bambini quasi albini che affollano gli alberghi delle città
summenzionate, passano attraverso gli aeroporti, riempiono gli aeroplani in
volo tra una città e l'altra?
Al livello della consapevolezza, si sa perché gli americani sono in Asia,
Perché hanno l'ossessione e l'odio del comunismo. S'intende che quando
diciamo "comunismo" in riferimento al motivo della guerra di
"containment" americana, non ci riferiamo al comunismo oggettivo, reale,
di Marx, di Lenin e magari, di Stalin. No, ci riferiamo ad una parola
mitologica e al tempo stesso logora, esplosiva e al tempo stesso
inconsistente, a qualche cosa insomma che rassomiglia molto all'altra parola
"imperialismo", così spesso adoperata nei paesi che si considerano nemici
degli americani. Beninteso, comunismo e imperialismo sono due realtà;
beninteso, noi viviamo in un mondo spaccato da queste due realtà. Ma nello
stesso tempo, strano a dirsi, le parole "comunismo" e "imperialismo" stanno
ormai a designare non già le realtà oggettive del comunismo e
dell'imperialismo bensì i sentimenti di coloro che fanno uso di queste
parole. Quanto dire qualche cosa di assolutamente impreciso, vago,
mistificatorio, illusorio, irreale.
Dunque, gli americani sono in Asia per fronteggiare il comunismo. Ma al
tempo stesso ricevono dagli asiatici qualche cosa che, nel futuro, è destinato
a correggere, modificare, integrare profondamente l'"american way of life".
In che cosa consisterà questa correzione, questa modificazione,
quest'integrazione? Si potrebbe rispondere che sarebbe già una grande
correzione essere andati a vedere coi propri occhi, l'aver toccato con mano
che cosa sia il comunismo. Ma non c'è soltanto il comunismo in Asia.
Prima del comunismo c'erano altre credenze forse anche più importanti. A
questo punto dovremmo fare qualche cosa di irrazionale a cui, per carattere
nativo, non siamo portati: profetizzare. Ci limitiamo, invece, a indicare a
guisa di esempio, gli effetti, negli Stati Uniti, della guerra e soprattutto
dell'occupazione del Giappone. La cultura giapponese, il gusto giapponese,
il costume giapponese, la visione del mondo giapponese sono stati assorbiti
più di quanto non si creda dall'America anglosassone e puritana. E, forse,
proprio la guerra e l'occupazione del Giappone non sono state che il primo
passo di questo fatale straripamento dell'America in Asia. Di questo
connubio fatto di odio e di amore. Di questa simbiosi o tentativo di
simbiosi...
Penso queste cose, mentre, in automobile, su e giù per le buche, i
monticelli e le pozzanghere di numerose quanto inefficienti opere
pubbliche, corro attraverso la città di Seul in direzione di Panmunjon, cioè
verso il confine con la Corea del Nord.
Sono accompagnato da un funzionario sudcoreano, amabile, sorridente,
levigato, incredibilmente, tenacemente, inflessibilmente ottimista. Gli dico:
"Seul non finisce mai. Il centro è molto piccolo ma la città è immensa. I
sobborghi cominciano al centro e poi non finiscono mai."
Risponde sorridendo: "Era il centro di una città di trecentomila abitanti
fino a poco tempo fa. Gli imperatori vi avevano costruito dei giardini e dei
palazzi; i giapponesi qualche edificio pubblico e qualche albergo. Poi con la
guerra siamo stati sommersi dall'emigrazione dalla campagna. Seul oggi ha
quattro milioni di abitanti."
"Ma che fanno, come vivono questi quattro milioni? È ricca Seul? Ci
sono molte industrie a Seul?"
Sempre sorridendo, risponde: "Non è ricca e ci sono poche industrie. Ma
diventerà ricca e creeremo le industrie. Tutta questa gente è venuta dalla
campagna per lavorare e progredire. Noi la faremo lavorare e progredire."
Lavorare e progredire? Guardo alla strada che stiamo percorrendo: file di
casupole, baracche con negoziucci dalle insegne enormi e dalle vetrine
minuscole, ogni tanto qualche casa più grande, vecchia e scrostata, o
qualche palazzo di bell'aspetto, più moderno; i marciapiedi gremiti di gente,
che corre e si rimescola; un torrente di macchine di tutti i generi che
serpeggia lentamente tra le buche e i monticelli delle già notate opere
pubbliche. Dico: "Ci sono le metropoli prodotte dal concentramento delle
ricchezze, dei gruppi dirigenti, delle fabbriche e dei prodotti. E poi ci sono
le metropoli prodotte da cause extraeconomiche come le guerre, la
disoccupazione delle campagne, il bisogno di protezione e così via. Le
prime, con l'eccezione del Giappone, sono quasi tutte occidentali, le
seconde quasi tutte asiatiche. Seul, mi pare che appartenga a questa seconda
categoria."
Risponde sorridendo: "Noi faremo in modo che passi al più presto nella
prima categoria."
"Ma tutte le industrie e le materie prime si trovano nella Corea del Nord."
"Le industrie le stiamo organizzando. Quanto alle materie prime le
importeremo. Anche la Svizzera non aveva materie prime, eppure è
diventata un paese industriale."
La Svizzera? Guardo alle colline scoscese, rupestri, nude, e troppo
lucenti, di autentico carattere asiatico, in fondo alle quali, come un'acqua
limacciosa in fondo ad un terreno inondato, Seul si sta spandendo fuori
della valle originaria in tante altre valli e valloni limitrofi; e dico: "Il reddito
medio annuo procapite nella Corea del Sud è di 108 dollari, quello della
Repubblica Popolare Cinese di 120, quello del Giappone di 800 dollari. Tra
la Cina e il Giappone, a quale dei due vorreste accostarvi?"
"Al reddito del Giappone, si capisce."
"Mi pare che il Giappone sia ancora molto lontano."
"È lontano. Ma la prego di riflettere su queste cifre."
"Quali cifre?"
"Tra il 1960 e il 1963 c'è stato un aumento globale annuo della
produzione di circa il dieci per cento. Questo, in seguito al lancio del piano
quinquennale di sviluppo economico. Sa di quanto è aumentata, per
esempio, la produzione industriale dall'anno passato? Del diciotto per
cento."
"Non sono capace di giudicare sulle cifre. Sto piuttosto a quello che vedo.
La Corea dà l'impressione, almeno per ora, di essere un paese
sottosviluppato e povero, in grandissima prevalenza agricolo, con una
enorme e caotica capitale la cui popolazione sembra avere un tenore di vita
piuttosto basso."
"È basso ma si eleverà."
Ma ecco la campagna. In città si vedono gli effetti della guerra, in
campagna si vede la guerra o meglio quello stato di cose malsano e più
unico che raro, che è un regime di armistizio che duri da quindici anni.
Piove sottilmente sulla campagna verdissima dal cielo gonfio di nera
nuvolaglia bassa e immobile; e noi procediamo a passo di uomo, dietro una
colonna di autocarri. Sono autocarri pieni di truppa, i soldati stanno in
duplice fila con gli elmetti sugli occhi chini in avanti, ci guardano ma
probabilmente non ci vedono: facciamo parte anche noi di questo sogno ad
occhi aperti che è la Corea, l'Asia, l'intervento americano in Corea ed in
Asia. Ad una svolta la colonna s'ingolfa, tra due sentinelle, nell'ingresso
d'un campo recinto di filo di ferro spinato. Intravediamo file e file di
cannoni autotrainati, di autoblinde verniciate di verde con la stella bianca;
le caserme prefabbricate dipinte di verde; e, dappertutto, l'andirivieni dei
soldati. Andiamo oltre, prendiamo a correre, finalmente. Domando alla
guida: "Quanti sono i soldati americani di stanza in Corea?"
Risponde sorridendo: "Cinquantamila."
"E l'esercito sudcoreano quanti soldati ha?"
"L'esercito sudcoreano ha seicentomila soldati." Tace un momento,
quindi soggiunge: "È uno dei più forti del mondo."
"Quanti soldati avete nel Vietnam?"
" Quarantacinquemila."
"La Corea del Nord ha inviato anche lei soldati in aiuto al Nord
Vietnam?"
"La Cina avrebbe voluto. Ma la Corea del Nord si è rifiutata."
"Come si fa a sapere che la Cina ha voluto e la Corea del Nord s'è
rifiutata?"
"A Pechino, il governo della Corea del Nord, improvvisamente, è stato
attaccato nei giornali murali."
Non insisto. La Corea è una specie di Polonia dell'Asia: influenza cinese,
influenza russa, influenza americana, influenza inglese, per secoli si sono
date battaglia in questo paese. Il risultato, almeno per ora, è la divisione
della Corea in due parti. Intanto la macchina corre. Ecco una fila di soldati
americani. Camminano lentamente, sotto la pioggia, in fila indiana, sul
ciglio della strada. La maggior parte, alti, dinoccolati, biondi. Qualche
piccoletto, bruno, italoamericano oppure portoricano. Ogni tanto, un negro.
Ci guardano con la coda dell'occhio, annoiati, indifferenti. Riprendiamo a
correre. Ecco dei carri armati. Non so perché, mi viene fatto di pensare agli
elefanti da combattimento dell'antichità: stesse masse enormi, lente,
torreggianti, sormontate da una piccolissima testa di guidatore indifferente e
quasi disumana, insensibile comunque a ciò che la massa può schiacciare
rotolando; stesse proboscidi o cannoni anteriori, che si protendono in
avanti, minacciose.
Dopo alcuni chilometri, ecco un largo, larghissimo fiume che si svela
gradualmente poiché ci avviciniamo al ponte di ferro che lo scavalca: anse
ampie, di acqua color fango, marrone, rive acquitrinose e basse a sud, ripide
e rocciose a nord. Aria di solitudine, di natura spopolata, di deserto. Si
pensa subito alla guerra (si pensa sempre alla guerra, in Corea)
immobilizzata su queste rive, in attesa che i ponti distrutti siano ricostruiti.
È un fiume da disastro militare, da invasione o da ritirata. Il ponte è stretto,
tutto di ferro; lungo il ponte, nell'aria scura, imbronciata e piovosa,
camminano le sentinelle americane. Altre sentinelle sono all'estremità del
ponte, presso un casello di controllo. Dico alla guida: "Quante precauzioni!"
"Contro le infiltrazioni comuniste."
"Ne avvengono spesso?"
"Passano il fiume di notte e anche di giorno. Se guarda, può vedere le
pattuglie americane, laggiù, tra i canneti. Cosa crede? È a causa di queste
infiltrazioni che a Seul c'è il coprifuoco da tredici anni."
Non credo niente, sono qui per guardare. La macchina riprende a correre
per la verdissima campagna inzuppata di pioggia, sotto il nero cielo
primaverile, nell'odore acuto delle acacie in fiore. Ecco finalmente la zona
demilitarizzata. L'annunzia un cartello in inglese, accanto ad una specie di
piccolo arco di trionfo in stile coreano. La macchina prende a correre per un
paesaggio lievemente diverso; prima c'erano campi, risaie, coltivazioni,
insomma; adesso non ci sono più che distese di erbacce e boschi
inselvatichiti. E dappertutto un senso di abbandono. La guida dice: "È la
zona demilitarizzata. Non ci vive, non ci lavora nessuno. È tornata
selvaggia. E lo sa? Si sono moltiplicate le bestie, tanto nessuno le caccia."
"Quali bestie?"
"Caprioli, conigli selvatici, fagiani. Guardi, guardi..."
Guardo: tra l'erba alta due caprioli infatti si inseguono, liberi e felici. Più
in là, ecco, in una radura, due fagiani che zampettano e poi si levano a volo.
Dico: "Sembra il paradiso terrestre. Niente uomini, niente coltivazioni,
soltanto erbacce e animali in libertà."
Approva sorridendo: "Sì, il paradiso terrestre." Ma eccoci al luogo da
dove partono i turisti della guerra. Già, perché gli americani, un po' per
propaganda e un po' per nativa inclinazione didascalica, hanno trasformato
il confine dell'armistizio, in un'attrazione turistica ed educativa come le
cascate del Niagara o i geyser delle Montagne Rocciose. Si va al confine a
guardare la Corea del Nord come si va a guardare una curiosità naturale.
Autobus ci trasportano gruppi coreani o occidentali; automobili ci
conducono visitatori isolati, com'è il mio caso. Entriamo in un edificio
lungo e basso, prefabbricato; siamo accolti da un maggiore americano in
divisa. È lui che ci guiderà, ora; lui che ci spiegherà, Virgilio di questo
piccolo limbo coreano. Ci invita a sedere, prende un bastone e, via via
mostrandoci certi tabelloni sopra un cavalletto, ci racconta in quindici
minuti la storia della zona armistiziale.
Ascoltiamo la spiegazione atona, lenta, pacata, di stile scientifico, qua e
là venata di lievissimo umorismo, in tutto simile ad una lezione in un
college americano.
Quindi usciamo e andiamo in macchina verso il confine. Non piove più;
le acacie stillano gocciole sulle nostre teste quando scendiamo dalla
macchina e prendiamo a camminare per una strada fangosa, in salita, verso
un belvedere. Ecco una piccola tribuna simile a quelle che si vedono negli
ippodromi. Il maggiore ci prega di salire sulla tribuna. Ci troviamo di fronte
ad un immenso panorama di valli e di colline, apparentemente del tutto
spopolato. Il maggiore dice: "Laggiù ci sono i comunisti."
Una ragazza americana, molto dipinta, dall'aspetto molto florido, la quale
si è aggiunta al nostro gruppo con altre due o tre compagne, domanda
masticando con frenesia la gomma che tiene in bocca: "Dove?"
"Laggiù, dietro quel ciuffo di alberi."
"Li sono i comunisti?"
"Sì, lì sono i comunisti."
"Davvero?"
"Sì, davvero."
"Ma non li vedo."
"C'è un villaggio, ma è nascosto dalla collina."
"Un villaggio comunista?"
"Sì, un villaggio comunista."
"E gli abitanti sono tutti comunisti?"
"Sì, sono tutti comunisti."
Cade un profondo silenzio. Il maggiore soggiunge con indifferenza:
"Potrebbero spararci. Qualche volta lo fanno."
Dalla tribuna andiamo al luogo dove ogni giorno, da quattordici anni, si
riuniscono le due commissioni armistiziali. È uno spiazzo tra le colline
verdi e fiorite. Nello spiazzo, da una parte c'è un piccolo edificio
celebrativo in stile coreano con colori teneri e vivaci da cassata siciliana;
dall'altra una fila dì baracche prefabbricate dipinte alcune di blu e altre di
verde. Le verdi sono nordcoreane, le blu, sudcoreane. II maggiore spiega:
"La linea dell'armistizio passa attraverso le baracche e più precisamente
spacca a metà il tavolo al quale seggono le due commissioni. Se volete
potete assistere ad una seduta. Voglio dire, potete guardare attraverso i vetri
di una finestra. Credo che in questo momento ci sia una riunione."
Ci fa cenno di seguirlo, ci avviciniamo alla più grande delle baracche blu,
andiamo a schiacciare il naso ai vetri di una finestra, come poveri che
cerchino di spiare una festa. E infatti, in una sala lunga e bassa, vediamo un
tavolo verde che la divide in due parti. I nordcoreani seggono da una parte,
eccoli: vestiti di verde oliva scuro con le mostrine rosse, duri, rigidi, seri,
ostili; dall'altra parte stanno americani e sudcoreani, eccoli anche loro: due
sudcoreani in divisa non meno ostili e seri e un ufficiale americano in
camicia militare, le maniche rimboccate. È un omaccione biondo, con gli
avambracci biondi, il petto biondo. Le due commissioni, a quanto pare,
discutono; si vedono le bocche, le mani muoversi ma non si sente niente. La
ragazza dalla gomma domanda: "Di che cosa parlano?"
"Oh, secondo i giorni. In certi giorni di sciocchezze: per esempio dello
spostamento notturno dei pioli del confine."
"Quali pioli?"
"Ci sono dei pioli a marcare il confine. Di notte i nordcoreani vengono e
li spostano. Noi, il giorno dopo, li rimettiamo dov'erano. Questo può essere
un argomento di discussione per le due commissioni."
"O se no?"
"Beh, ieri una mina ha fatto saltare in aria una baracca militare
americana. Abbiamo avuto due morti. Ma la mina verrà discussa tra alcuni
giorni, se verrà discussa."
"Ci sono molti di questi incidenti che poi vengono discussi?"
"Finora noi abbiamo denunziato 5300 violazioni dell'armistizio da parte
dei nordcoreani. Loro hanno denunziato 42.311 violazioni da parte nostra.
Noi ne abbiamo riconosciute 89; i nordcoreani 2."
"Da quanto tempo si riuniscono le commissioni?"
"Si riuniscono tutti i giorni da quattordici anni."
"Da quattordici anni?"
"Sì. Siamo in guerra. L'armistizio non vuole dire che c'è la pace, vuol dire
che non si combatte."
"E quando ci sarà la pace?"
"Chissà. Forse mai."
Guardiamo a lungo, schiacciando il viso contro i vetri; poi
improvvisamente le due commissioni, ecco, si alzano, si salutano
militarmente, si voltano le spalle l'una all'altra e se ne vanno. Ci
precipitiamo all'ingresso posteriore dal quale debbono uscire i nord-coreani.
Ha ripreso a piovere, vediamo i nordcoreani uscire dalla baracca ed
allontanarsi lentamente sotto la pioggia. La ragazza domanda avidamente:
"Sono i comunisti?"
"Sì, sono i comunisti."
Il maggiore tace un momento quindi dice: "Potrei farvi vedere laggiù, in
territorio nordcoreano, una gabbia di piccioni viaggiatori. Dicono che li
hanno educati a volare soltanto sulle baracche verdi cioè comuniste e ad
evitare le baracche blu cioè capitaliste." Tace un momento per vedere
l'effetto che ci fa questa notizia. Quindi soggiunge: "Ma non vi ci porterò
perché non è vero. È provato infatti che i piccioni non riconoscono i colori.
E poi piove. Andiamo a far colazione."

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