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Poniamo che questo sia il mondo. Un qualsiasi istante del mondo, o anche
il mondo com’è sempre, di per sé. È un insieme di fatti, qui rappresentati
dai puntini, tra i quali solo tu puoi stabilire rapporti. Puoi non stabilire alcun
rapporto tra i fatti-puntini?
«Sì. Posso guardarli e basta».
Risposta sbagliata. Nel momento in cui tu dicessi: «Tra questi puntini non
c’è alcun rapporto», mentiresti due volte: da un lato, perché avresti già
stabilito che il rapporto tra questi puntini consiste nel loro non avere alcun
rapporto gli uni con gli altri, il che è pur sempre la definizione di un
rapporto tra i puntini; e, d’altro lato, perché quei fatti-puntini si trovano tutti
in rapporto con te che li stai guardando, e si differenziano gli uni dagli altri
in base alle loro distanze da te: il che li pone in rapporto anche tra loro,
rispetto a te.
Quindi, da te viene a dipendere il senso di quest’insieme di puntini. Ora,
poniamo un’altra condizione all’insieme dei puntini, facendo ciò che fece
Dio il Secondo Giorno della Creazione: dividiamo i puntini-fatti passati dai
puntini-fatti futuri. Così:
Ma quest’altra cosa non esiste, se non nel tuo immaginarla: nel tuo mondo
quel qualcosa è un vuoto. E allora quel qualcosa comincia a esistere. Un
mondo può sopportare al proprio interno un’area di vuoto. Natura abhorret
a vacuo, come dicevano gli artistotelici: non so se in natura esista il vuoto,
magari c’è in qualche parte nell’universo, ma di certo non esiste nel mondo:
nel nostro mondo fatto di fatti, un’area vuota, una mancanza di qualcosa,
non appena la produci diventa un fatto tra gli altri: in capo a un attimo,
costituirà un fatto del tuo passato, e comincerà a influire su di te. Secondo
te, influirà più o meno di tanti altri fatti passati?
«Non saprei».
Secondo me, influirà di più, per lo stesso motivo per cui, in un discorso,
una frase interrogativa attira la nostra attenzione più di una frase
affermativa. Ogni fatto della tua vita può porti qualche interrogativo, non
appena lo esamini con il tuo pensiero, che cerca sempre il perché di tutto.
Ma il vuoto di un qualcosa che hai de-siderato con la tua immaginazione è
di per sé totalmente interrogativo: è un fatto incompiuto, un processo in
corso, che ti si presenta soltanto sotto forma di domande: perché l’ho
immaginato? cosa ne deriverà? è vero? non è vero? è un’illusione? è una
premonizione? sarà una delusione? cosa esige da me? e così via. La tua
mente cosciente può sforzarsi di dimenticarlo, può anche convincersi di
esserci riuscita, ma ai margini della mente cosciente quel vuoto-
interrogativo continuerà a esercitare un’azione tanto più efficace, proprio
perché inconsapevole e perciò incontrollata.
«Per esempio?»
Hai presente quando hai associato un numero a una circostanza, e poi ti
capita spesso di ritrovarti davanti quel numero? Per esempio, una mia amica
si sentiva addirittura perseguitata dall’11: quando dava un’occhiata
all’orologio, la lancetta dei minuti era sempre sull’11; quando pagava
qualcosa, c’era un 11 nel conto o nel resto, oppure notava che sommando
tra loro le cifre del totale del conto il risultato era 11; se accendeva la radio
o la tv, il primo numero che sentiva pronunciare era per lo più 11; e quando
stavo per darle il mio numero di telefono mi chiese: «C’è un 11, sì?» e
c’era. Poi un giorno si mise d’impegno a capire da dove derivasse questa
sua fissazione dell’11, e quasi subito si ricordò che il suo grande amore
aveva una figlia di undici anni, di cui la mia amica si sforzava di non essere
gelosa. Dunque, secondo te perché le capitavano davanti tutti quegli 11?
«È chiaro: senza che lei se ne accorgesse, il suo sguardo perlustrava di
continuo lo spazio circostante, in cerca di qualche 11. Per forza gliene
capitavano. Se la bambina avesse avuto dodici anni, le sarebbero capitati
altrettanti numeri 12. Il nostro mondo è tutto pieno di numeri, e per farti una
fissazione hai solo l’imbarazzo della scelta».
Certo, quando si ha una fissazione del genere, l’attenzione si polarizza per
sostenerla. Ma l’11 nel mio numero di telefono? E gli 11 alla radio o in tv?
Non pensi che, nelle fissazioni, si attivino anche sensori più sottili?
Secondo me, la mia amica era diventata capace di prevedere quando alla
radio sarebbe stato pronunciato il numero 11, e accendeva la radio proprio
in tempo.
«E ha fatto amicizia con te perché sentiva che nel tuo numero di telefono
c’era un 11?»
Perché no? Come già sappiamo, l’insieme dei fatti che costituiscono un
mondo è di per sé caotico. E i teorici del caos hanno individuato il concetto
di attrattore strano: una struttura che influenza l’evoluzione, appunto, dei
sistemi caotici. Secondo me, nel caso della mia amica il sistema caotico in
questione era costituito sia dal suo modo di dare rilievo ai fatti, sia
dall’insieme dei fatti in cui lei veniva a trovarsi di volta in volta. Un fatto
che la sua fissazione arrivava a produrre era la precognizione di quel che
avrebbe sentito alla radio o in tv. Un altro fatto che lei aveva intuito da
subito era il rapporto tra me e il suo grande amore: anch’io avevo una
famiglia di cui l’amica sarebbe potuta essere gelosa; e l’attrattore strano
costituito da quella sua fissazione aveva fatto in modo che la nostra
amicizia prendesse un aspetto via via più sentimentale, proprio perché nel
mio numero di telefono c’era un 11 – di cui lei aveva una qualche
precognizione già diverso tempo prima che io glielo comunicassi.
«Il che è evidentemente insensato».
Né l’evidenza né la sensatezza sono mai state un valido criterio di verità.
Non ti è mai capitato di pensare tutt’a un tratto a una persona che non
vedevi da tempo, e di incontrarla pochi minuti dopo?
«Be’, sì».
Quando capitano fatti del genere non è onesto liquidarli dicendo che sono
pure coincidenze, e che siccome non sappiamo che cosa siano le
coincidenze non possiamo dedurne nulla. Secondo me, non è affatto vero
quel che affermava Wittgenstein, che «di ciò di cui non si può parlare, si
deve tacere». Non sono disposto a far dipendere il mio desiderio di
conoscenza dalla lingua parlata oggi dal mio “prossimo”. Per ciò di cui
non si può ancora parlare, bisogna usare l’immaginazione. E io immagino
che in noi – nel novanta per cento delle sinapsi che non utilizziamo ancora,
o nel nostro superconscio, o nella nostra pienezza che ci attende in ogni
state nelle sfere del Ramificarsi delle vite – noi possediamo sensori la cui
portata supera notevolmente quella dei nostri cinque sensi. E possiamo
lasciarci guidare da questi sensori, il che avviene ogni volta che lasciamo
agire in noi un nostro de-siderio.
«Quindi i de-sideri agiscono sulla realtà come quella fissazione per l’11?»
Sì, se si dà loro il tempo di agire. Perché un attrattore strano riesca a
influenzare un sistema occorre che perduri a lungo. Perciò in uno dei suoi
discorsi sui de-sideri Gesù precisa che bisogna continuare a chiedere
qualcosa, «senza stancarsi» (Luca 18,1).
«Sì, ma dice anche:
Nel pregare, non usate tante parole, come fanno gli stranieri, che
credono di venir esauditi perché sono verbosi. Non fate come loro,
perché il Padre vostro sa che cosa vi occorre prima ancora che glielo
chiediate.
Matteo 6,7-8.
«Questo non è in contrasto sia con l’insistenza nel chiedere, sia anche con
la possibilità di chiedere qualsiasi cosa? Nel caso dell’uomo che dava ordini
alle alture, la montagna si sarebbe spostata perché Dio sapeva che a
quell’uomo occorreva un prodigio del genere? Se è così, tu sei in
disaccordo con il Vangelo e anche Gesù è in disaccordo con se stesso,
quando dice che nulla è impossibile a chi chiede con fede. Avrebbe dovuto
dire: a chi chiede con fede è possibile tutto ciò che Dio ha deciso di far
accadere».
Mi hai fatto due domande in una. La prima è: perché Gesù dice di essere
concisi quando si precisa che cosa si sta de-siderando? La seconda è:
l’uomo è libero di chiedere qualsiasi cosa oppure Dio lo vincola in qualche
modo? Nessuna delle due c’entra con ciò che stavo dicendo prima, ovvero
che il de-siderio attiva i nostri sensori speciali se gli si dà il tempo di
attivarli.
«Sia pure. Diamogli il tempo. Ma rispondi a quelle due domande».
Dire che Dio sa già quel che un individuo sta per chiedergli è un modo
antico per dire che la nostra immaginazione è un apparato percettivo e non
un’attività puramente fantastica. Dio per gli antichi significava un ignoto
che può essere soltanto immaginato. Bene: l’immaginazione ha una portata
superiore a quella della mente della veglia, e coglie possibilità che
quest’ultima ignora; ma l’immaginazione coglie quelle possibilità perché
quelle possibilità ci sono, da qualche parte fuori dal mondo a noi noto in un
determinato momento. Che c’è di strano o di contraddittorio?
«Quindi Dio, se gli chiedi qualcosa, ti dà quel qualcosa che ha in serbo da
qualche parte; ma se non glielo chiedi che fa, se lo tiene per sé?»
Penso di no. Immagino che se una possibilità che esiste da qualche parte
non ti interessa tanto da spingerti a chiederla, la chiederà e la otterrà
qualcun altro. Il che va benissimo, dato che a te non interessava.
«Va bene. E l’altra domanda, sulla brevità?»
Be’, più sei prolisso nella formulazione, e più è probabile che tu stia
esitando a venire al punto. Vale nei de-sideri come in qualunque altro
discorso.
«E quante parole ci vorrebbero per un de-siderio ben formulato, secondo
te?»
A me una volta era venuto in mente che il numero massimo di parole per
formulare bene un de-siderio fosse quattordici. Lo pensai e mi parve giusto,
non sapevo perché. Cercai di capirlo poi, e la mia ipotesi fu che in italiano
quattordici parole sono, mediamente, quelle che riusciamo a pronunciare
con una sola emissione di fiato. Ma poi mi capitò sott’occhio questo brano
di Borges, in cui si narra di come un sacerdote atzeco prigioniero scoprì una
formula magica:
È una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e
mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente. Mi
basterebbe dirla per abolire questo carcere di pietra, perché il giorno
invada la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il giaguaro
laceri Alvarado, per affondare il santo coltello in petti spagnoli, per
ricostruire la piramide e l’impero. Quaranta sillabe; quattordici parole, e
io, Tzinacàn, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che
mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacàn.
La scrittura del Dio (1949)
«Quattordici parole».
Già.
«I sensori della tua immaginazione ti avevano fatto cogliere quell’idea
borgesiana delle quattordici parole?»
Penso di sì. E forse analoghi sensori avevano fatto cogliere a Borges
quell’idea del sacerdote azteco, di cui nessuno aveva saputo più nulla da
quando era stato incarcerato dagli spagnoli.
«Già. Ma quel sacerdote poi non le pronunciò e non divenne onnipotente».
Era di cattivo umore e voleva godere della propria sconfitta. Decidi tu, se
sei o non sei di cattivo umore e se hai o no qualche tua sconfitta di cui
godere a quel modo.
«E quando pronuncerò il mio de-siderio ben formulato e conciso, poi
dovrò semplicemente aspettare?»
Sì, se ti va. Ma se gli attrattori strani si mettono in azione, il tuo semplice
aspettare non sarà mai un semplice aspettare e basta. I fatti si evolveranno
intorno a te, che tu ti accorga o no di come si staranno evolvendo. Poi a un
certo punto ti accorgerai (non potrai proprio farne a meno) che molto si sta
evolvendo anche dentro di te, e a quel punto saprai come fare per ottenere
quel che avevi cominciato a de-siderare.
«In pratica, ci penserà Dio».
Se tu e io stessimo conversando non oggi ma tremila anni fa in Israele,
converrei anch’io che ci penserebbe Dio: perchè allora Dio era soltanto una
bella idea di tutto ciò che è Ignoto. Ma oggi Dio è una Persona, che i più
tendono a figurarsi come antropomorfa, e credere che ci sia una Persona che
da qualche parte si occupa delle tue faccende è eticamente e
psicologicamente sbagliato, secondo me.
«Allora diciamo che ci penserà l’Ignoto».
C’è un bel passo, riguardo a questo ignoto.
Il regno di Dio è così: come un uomo che abbia gettato la semina nella
terra, e poi, che l’uomo dorma o vegli, di notte come di giorno, i semi
germogliano e crescono, senza che lui sappia come. La terra dà il frutto
di per sé: prima gli steli, poi la spiga e poi nella spiga il grano pieno. E
quando il frutto è pronto, lui subito ci mette la falce, perché è il tempo
della messe.
Marco 4,26-29
Non so bene perché, ma questo brano mi commuove sempre per la sua
potente semplicità.
«Poniamo pure. Ma adesso che siamo arrivati all’ultima pagina sono
preoccupatissimo».
E di cosa?
«Con il futuro vuoto che abbiamo davanti, fare il vuoto per i miei de-sideri
è così semplice… E se un giorno de-siderassi qualcosa di brutto per qualcun
altro, o addirittura per me, in un momento di collera? Se lo de-siderassi
proprio come si deve, e lo formulassi bene, magari in quattordici parole
esatte?»
Nessuno potrebbe impedirtelo. Sarebbe una cosa molto stupida, ma
potrebbe succedere.
«Tutto qui?»
Tutto qui. La tua libertà è la tua libertà.
«È una grossa responsabilità. Sapere di essere io il responsabile di tutto
quello che mi è capitato, che mi sta capitando e che mi capiterà. La
responsabile pressoché onnipotente».
È un senso che tu puoi dare al tuo mondo, e ai mondi che scoprirai.
«Non so. Forse avrei preferito non saperle, tutte queste cose. Forse
sarebbe stato più comodo, per me, pensare come la pensavo prima: che
desiderare fosse soltanto un modo di illudersi di avere un qualche controllo
sulla realtà, una qualche possibilità di agire sul mondo anche quando non ne
abbiamo».
Davvero? Be’, ora le sai, tutte queste cose, per sempre. E stiamo a vedere
cosa ne viene.
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