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Igor Sibaldi

Il mondo dei desideri


101 progetti di libertà

© 2016 Igor Sibaldi


© 2016 Edizioni Tlon
Tutti i diritti riservati
DEDICA
Ti parlerò dei desideri, ma tu, per favore, dammi torto.
Ti dimostrerò che senza desiderio non si vive, si finge soltanto di vivere, e
che la maggior parte delle persone non lo sa, o l’ha dimenticato. Ma tu
convincimi che non è vero.
Io sosterrò che l’arte, la scienza, la filosofia, il bisogno di religione sono
tutti modi di desiderare, e che dunque ogni cultura si nutre di desideri: ma
tu di’ che esagero. E quando ti racconterò di come il desiderio conduca oltre
i confini del mondo, e cominceremo a superarli, tu cerca di fermarmi, di
convincermi che di cose da capire ne abbiamo già abbastanza nella vita di
tutti i giorni, senza andare a cercarne altrove.
Insomma, fa’ per me quel che il diavolo fa per tutti, da quando il diavolo è
stato inventato.
Tanti credono che il cosiddetto diavolo spinga a chiedere più di ciò che si
ha già, ma è il contrario: le sue tentazioni mirano a farci rassegnare ai limiti
che il mondo ci ha imposto – come quando, nel deserto, consigliava a Gesù
di rinunciare al progetto di far evolvere l’umanità. Lascia che rimangano
nei loro incantesimi di sempre – diceva – nella venerazione del denaro, dei
potenti, dei miracoli. Tentazioni diaboliche sono il “bisogna farsi piacere il
proprio lavoro”, o “tanto non cambierà mai nulla” o “in fondo, tutto ciò non
è nient’altro che…”
Dimmi cose del genere, per scoraggiarmi. Oppure dimostrami che chi
desidera ha più problemi di chi non desidera, mentre chi soffoca un
desiderio ha l’impressione di aver trovato una soluzione. Io invece voglio
moltiplicare i miei problemi e trovarne di sempre più grandi, e ci riuscirò
meglio, se tu dai voce a quel diavolo ragionevole e conformista che tutti
abbiamo in qualche angolo della mente: ogni volta che mi ostacolerai, io
troverò argomenti più forti, per dissuaderti. Proviamo?
«D’accordo».
Per esempio?
«Condivido quel che hai appena detto: ovvero, è chiaro che tu
sopravvaluti i desideri. Secondo me, i desideri sono soltanto una reazione
allo stress. Meno stress, meno desideri. Adèguati alle circostanze, e non
perderai tempo a cercare altri mondi, che probabilmente esistono solo nella
tua fantasia. Ti va bene così?»
Benissimo. Secondo me, invece, lo stress c’è quando hai paura di
desiderare.
«No, sei un ingenuo e complichi invano. Lo stress diminuisce solo quando
desideri di non avere desideri. E puoi riuscirci, con un po’ di buona volontà.
Grandi sapienti hanno insegnato le tecniche necessarie, già nell’India
antica».
Sei bravo come diavolo: citi Buddha per convincermi.
«E poi, il desiderio non è altro che avidità. Vuoi tessere l’elogio
dell’avidità e dell’egocentrismo?»
Questo è il tono giusto. Grazie, carissimo: di questo passo la
conversazione sarà interessante. Ti ricompenserò aumentando i tuoi
problemi tanto quanto aumenteranno i miei.
«No, grazie, di problemi non ne ho proprio bisogno».
Sicuro? Io, con quel poco che so di filologia, i problemi li vedo alla
maniera antica: problema in greco significava “ciò che si è lanciato (-
blema) avanti (pro-)”. I latini lo tradussero: proiectum. Non mi dirai che
preferisci non avere pro-getti?
«E se proprio questo fosse il mio desiderio segreto?»
Sarebbe già un progetto. E io farò in modo che diventi il tuo unico
desiderio irrealizzabile.
IL MONDO DEI DESIDERI
DE-SIDERARE
Intanto, caro diavolo, faresti bene a tener presente che desiderare è una
parola coraggiosa.
Viene dal latino sidera, “astri”. Siderare e con-siderare significava
ragionare in termini astrologici, cioè valutare ciò che in un dato momento
gli astri consentono di fare. De-siderare, invece, voleva dire: smettere di
dipendere dalle potenze astrali, e guardare altrove.
Oggi i nostri termini di riferimento sono meno poetici, e invece che agli
astri siamo abituati a conformarci ai governi, alle condizioni dell’economia,
della società: ma il tipo di dipendenza è analogo a quello di allora, e perciò
quella parola antica vale ancora, metaforicamente. Ovvero, io de-sidero
quando comincio a dire a me stesso: Qui tutto va così e cosà? A me non
importa più di tanto, io punto a qualcos’altro, perché quello che qui c’è già
non mi basta.
Ti spiace se d’ora in avanti lo scrivo, il verbo: de-siderare?
«Fa’ pure. Io per parte mia con-sidererò, cioè mi con-governerò, mi con-
economizzerò, mi con-socializzerò. Ovvero: terrò conto sopra a qualsiasi
altra cosa dei poteri che dettano legge all’umanità. Penso sia una cosa molto
più sensata e più naturale».
La mia ipotesi è diametralmente opposta: secondo me, il de-siderare è una
nostra capacità innata, ed è indispensabile per capire cos’è e com’è il
mondo in cui viviamo – proprio perché se de-sideri stai prendendo le
distanze dal mondo, e lo puoi osservare meglio.
«Mh. Il tuo modo di pensare è troppo intuitivo: corri troppo. Spiegami
perché mai una nostra capacità innata ci spingerebbe a prendere le distanze
dal mondo in cui viviamo. Le capacità innate non servono ad adattarci
meglio al mondo?»
Non al mondo che conosciamo già.
Tanti danno per scontato che la natura abbia dato all’uomo tutti i mezzi
necessari ad adattarsi a quel che c’è già, e che l’adattamento sia l’unico
modo di sopravvivere e di evolversi. Ma a me pare che di quest’idea
possano accontentarsi solo i ricchi, i servi o i disperati. A persone del
genere conviene adattarsi. Per capire, invece, bisogna andare oltre. E a
giudicare dai bambini, noi nasciamo con una gran bisogno di capire, e
potremmo sviluppare questo bisogno per tutta la vita.
«Io capisco quel che mi occorre, senza farmi domande eccessive. Ma è
curioso che tu dica: potremmo. Se è una dote innata, perché non dici:
possiamo?»
Perché così è nel nostro mondo. Si potrebbe, ma i più non possono. E la
prima cosa che ti spiegherò è il modo in cui il nostro de-siderare – di cui
tutti sarebbero capaci – viene solitamente ostacolato.
«Cioè, stando a questa tua idea, mi spiegherai le ragioni per cui la gente
non capisce abbastanza?»
Precisamente.
«È solo perché la gente non è abbastanza intelligente».
No, i motivi sono altri. E il periodo in cui viviamo si direbbe capitato
apposta per farci prendere questa questione molto sul serio.
«Sicuramente mi dirai che è perché in questo periodo le cose vanno male?
Ma non vanno male a tutti. Anzi, prima andavano peggio a molta più gente.
Pensa che fatica era vivere quando non c’erano gli elettrodomestici, le
automobili, gli aerei di linea. Non puoi negare che viviamo in un’epoca
piena di comodità. Forse per questo tu pensi che il desiderio sia ostacolato:
perché, di fatto, c’è meno da desiderare. Sei infondatamente nostalgico.
Oggi adattarsi è un piacere, goditelo e parla e pensa come tutte le persone
ragionevoli».
No, egregio tentatore. Vàntati pure del presente, ma ciò a cui mi riferisco
non è un grado di comodità. De-siderare è sempre un non accontentarsi di
ciò che si ha già. Ciò che tutti abbiamo già è la nostra epoca, cioè il mondo
così come lo conosciamo ora: e al di là della nostra epoca, oggi, c’è un gran
vuoto. L’avrai notato, guardandoti intorno o anche guardandoti dentro: da
qualche tempo l’Occidente è bloccato da un vuoto di futuro, come da una
barriera invisibile ma molto solida.
«Un vuoto di futuro? Ma il futuro è sempre vuoto, ed è bene che lo sia: il
futuro non c’è, lo facciamo noi, giorno dopo giorno, liberi di farlo come ci
va, come possiamo, tutte le volte che ci va».
Non è così oggi, se non per pochissimi.
Me ne sono accorto per la prima volta tre o quattro anni fa: durante una
conferenza, tutt’a un tratto mi venne in mente di domandare al pubblico:
«Ma, secondo voi, dopo i telefonini superaccessoriati, dopo internet, cosa ci
sarà?»
«Cioè, in che senso?» borbottò qualcuno, che sentendo parlare di
telefonini si sentì toccato sul vivo. In quel periodo si parlava molto di Steve
Jobs come di una specie di profeta venerabile, le cui profezie erano appunto
nuovi modelli di telefonini.
«Cioè» provai a spiegare «a un certo punto inventarono il telegrafo, e
dopo un po’ arrivò il telefono. Poi il fax, e subito dopo i telefoni cellulari.
Solo dieci anni prima, telefonare in auto sembrava una cosa da agenti
segreti: e tutt’a un tratto potevi avere il telefono sempre in tasca. Poi arrivò
il Web. E poi gli smartphone. A questo punto» dissi «dobbiamo aver capito
come progredisce la tecnologia: si supera di continuo. Perciò, appena si ha
un nuovo progresso viene spontaneo chiedersi cos’altro ci riserva il futuro.
La nostra mente è portata ad anticipare sempre il futuro. Dunque voi cosa
immaginate che ci si inventi, tra qualche anno? Immaginare si può, no?»
Questa era stata la mia domanda. Il mio intento era di analizzare i risultati
a cui può portare l’immaginazione quando viene sollecitata all’improvviso.
Ma non fu possibile: lì per lì la totalità di quel mio pubblico si trovò
d’accordo nel dire che dopo gli smartphone non si sarebbe inventato più
nulla, ma si sarebbero solo perfezionati i dispositivi già esistenti. Uno
aggiunse: «A meno che l’essere umano non cambi completamente e
sviluppi doti straordinarie».
«La telepatia!» esclamò un altro.
«Quella c’era già prima» segnalai io.
«Ah, infatti. Allora niente».
«Insomma» domandai «secondo voi siamo già al punto più alto?»
E qui alcuni capirono, e assunsero un’espressione suggestiva: sorriso
appena accennato e sguardo triste. La maggioranza invece disse: «Be’, sì. E
con ciò?»
In seguito ho posto la stessa domanda in altre conferenze, e quelle risposte
e quei sorrisi si sono ripetuti ovunque. Che te ne pare?
«Devo preoccuparmi se neanche a me viene in mente un’invenzione che
faccia diventare antiquato lo smartphone? Non sono un esperto di telefonia:
da noi non usa».
Non è questo il punto. Attraverso i cellulari ognuno di noi è in rapporto
immediato e costante con il progresso tecnologico, e quel che pensiamo dei
cellulari ci dà un’idea di ciò che ci aspettiamo dal progresso. Era una specie
di test: tu hai qualche bisogno, magari fantastico, di parlare, scrivere,
leggere, che le telecomunicazioni non soddisfano ancora? Se sì, nel tuo
futuro c’è qualcosa. Se no, sei tutto nel tuo presente: il tuo presente è pieno
e il tuo futuro è vuoto.
«Tu sopravvaluti anche la tecnologia. Magari quelli che vengono alle tue
conferenze sono soddisfatti dei loro telefonini, ma si aspettano qualcosa dal
futuro in altri ambiti».
L’ho pensato anch’io. Ma poco dopo ho letto che in sociologia si era
cominciato a studiare una tendenza chiamata: shock del presente. È la
sensazione che nel presente ci sia già tutto quel che si può volere, e che
perciò il futuro non serva più. E pare sia molto diffusa.
«Allora sarà sicuramente un condizionamento a cui soggiacciono gli
sprovveduti. Come diavolo, sono esperto di queste cose. Si vede che la
pubblicità ha convinto la gente che non ci sono invenzioni più progredite di
quelle che si vendono già nei negozi, e la gente ne ha tratto conseguenze
generali. Ma la gente è incostante, i condizionamenti passano. Quanta gente
si lascia tentare da me e poi cambia idea! E siccome i condizionamenti
passano in fretta, non ci dicono nulla di coloro che vengono condizionati, se
non che sono condizionabili. Non trarrei deduzioni sociologiche dagli effetti
della pubblicità, se fossi in te».
Al contrario: se la pubblicità ci può convincere di qualcosa, è perché
volevamo crederlo già per conto nostro. È che la gente, oggi, si sente come
in cima a una piramide evolutiva: cioè in un gran brutto posto dove stare.
Scenderne non si può, perché è impossibile tornare a periodi precedenti.
Salire nemmeno. Quindi possono solo stare fermi. Devono essere contenti
di quello che c’è già, per non sentirsi disperati – cioè senza speranza di
qualcos’altro. Ma uno che deve essere contento, non è contento.
«Il che dimostra che la gente non è affatto pronta ai desideri. Dunque non
è vero che sia un buon periodo per te».
La maggior parte della gente non è in grado di desiderare, certo, perché ha
quella ripugnanza del futuro. Ma non tutti sono la maggioranza: ad alcuni
quel futuro vuoto può sembrare spazioso. Il che cambia tutto.
Pensa a quella piramide evolutiva: troppo alta, e con intorno il vuoto. E
immagina, invece, come ti sentiresti se non fossi in cima a nulla, ma avessi
davanti a te un luogo spazioso, dove mettere quel che ti pare. È bello
riempire pian piano un futuro spazioso, facendolo diventare presente. Poi
magari lo svuoti, e ridiventa futuro. Oppure, quando il tuo presente è troppo
pieno, ti accorgi che è diventato passato, e te lo lasci indietro. Io mi figuro il
passato come una stanza talmente ingombra da non poterci più nemmeno
infilare una mano.
«Il che, cosa dovrebbe significare?»
Che nel passato non si rientra, come ti dicevo poco fa.
«E se ci sono cose da risolvere, nel passato? Chi non ha qualche conto in
sospeso, sul pianeta?»
Non occorre risolverle, e non si può, dato che nel passato non puoi
tornare. La miglior cosa da fare con quelle questioni è superarle.
«Questa poi! Senza risolverle?»
Quando le superi ti sembrano cose da poco, sulle quali non valeva proprio
la pena di fermarsi.
«E se nel passato ci sono cose che continuano ad angosciarti? Io sono un
esperto di rimuginamenti».
No, è impossibile che il passato ti angosci. Quel che è passato è precluso.
Tutte le nostre angosce sono nel presente e l’unica cosa che ci può
angosciare è il futuro. Ma non corri questo rischio quando cominci a de-
siderare, cioè a esplorare quel che hai davanti, a cogliere qualsiasi
occasione di curiosità, in cerca di non si sa ancora cosa: è talmente
piacevole. Pensa alla gente che passa ore e ore perlustrando internet: io,
nella loro ansia di trovare qualcosa, vedo proprio quell’impazienza d’un
futuro, che è l’antidoto della ripugnanza del futuro, e il prodromo del de-
siderare. Purtroppo è limitata a internet, cioè a una macchina in cui si cerca
riparo dalla vita.
«Sarà, ma non stai divagando troppo?»
No, non preoccuparti. In questo libro, tengo alle digressioni tanto quanto
all’argomento principale. Diciamo che è un mio modo di essere spazioso.
D’altronde stiamo parlando di un mondo intero e di quel che c’è oltre: non
mettiamoci limiti.
«Comunque, non mi hai convinto neanche un po’. Shock del presente è
un’espressione esagerata: suvvia, è solo che il progresso è andato troppo
avanti, e ha soddisfatto più bisogni di quelli che la gente ha. La gente deve
fare la fatica di sviluppare in se stessa i nuovi bisogni che il progresso le ha
imposto, e non le rimangono sufficienti energie per inventarsene altri. Ci
vorranno decenni, prima che si arrivi a desiderare più di quello che c’è già».
Certo, ma pensa più in grande. Hai notato che la gente vive più di quanto
si sarebbe aspettata? Quando ero ragazzo, la gente a cinquant’anni andava
in pensione. A sessanta cominciava già la decrepitezza. Oggi l’Occidente è
pieno di ottantenni in buona salute. E chi non è ancora vecchio intuisce che
vivrà anche più di loro, in condizioni fisiche e intellettuali migliori delle
loro, e ha paura, perché la nostra mente non è pronta all’impresa di trovare
ragioni di vita per molti decenni di fila. Così i non-vecchi si fermano, non
vogliono che il tempo passi, e non perché dopo la vecchiaia c’è la morte,
ma perché nel secolo dopo la vecchiaia si sta profilando un’altra fase,
che non ha ancora un nome, lunga poco meno di tutto il periodo che avrà
preceduto l’invecchiamento.
In questo fatto, io ci vedo l’equivalente fisiologico di quel che sta
avvenendo alla nostra epoca: sia le persone sia l’epoca avrebbero davanti a
sé molto futuro, ma temono di entrarci perché temono sia vuoto. Così si
impongono di perdere tempo, in vario modo.
«Così da un lato abbiamo i vecchi, che notoriamente detestano le novità, e
dall’altro i non-vecchi, che hanno paura di crescere? Un diavolo non
potrebbe che rallegrarsene, se il diavolo, come dici tu, è conformista».
Sì.
«E ciò significa che il de-siderio non tornerà utile né ai vecchi né ai non-
vecchi. Non avranno abbastanza temperamento per realizzare quello che
desiderano, o per goderne. Meglio che si rassegnino e diano retta a me.
Sorridi di loro, e non pensarci più».
C’è poco da sorridere: la gente ha prospettive talmente indebolite, da
credere che avere molta vita in più sia un inconveniente. Certo, non parlo
degli individui eccezionali: sono sicuro che ne esistano ovunque, inventivi,
fiduciosi che la civiltà troverà e raggiungerà molti nuovi traguardi, oppure
sicuri che la civiltà attuale crollerà e sarà sostituita da un’altra migliore. Per
individui del genere non vale il ragionamento che farò nel seguito di questo
capitolo.
Ma prendiamo il caso di qualcuno come tanti. Poniamo che uno non
ritenga di essere già del tutto soddisfatto di quel che ha, e che, perciò, ogni
tanto provi a volere qualcos’altro: non so, un elicottero, o un impiego
prestigioso alla NASA, oppure un momento di gloria per un suo magnifico
atto di generosità. All’inizio gli piace immaginarlo ma, riflettendoci,
comincia a farsi strada nella sua mente una sensazione sottile, insistente:
già, ma poi, gli dice quella sensazione, quando avrai quell’elicottero o quel
momento di gloria, che cosa cambierà veramente in te e intorno a te? E la
risposta non arriva: o perché non c’è, o perché lui la teme; allora
l’immagine che si era fatto di quelle belle cose si affievolisce, diventa una
fantasticheria, e poi pian piano sparisce. Così il presente si richiude su se
stesso.
Oppure poniamo un altro caso, secondo me più cupo. Poniamo che ti sia
andata bene nella vita, e che tu abbia già tutto per essere felice: può
bastarti? No, come ben sai. Una felicità ha senso se porta da qualche parte,
cioè se apre possibilità (in inglese, happy, “felice”, e happen, “succedere”,
sono parole apparentate); se no è una condizione noiosa o, peggio ancora,
una condizione da difendere, che induce ansia e che dunque non è più una
felicità.
Così tu, persona felice, provi a domandarti: «Verso dove sta andando la
mia fortunata esistenza, così che la mia fortuna aumenti sempre?» E subito
senti davanti a te quella barriera di vuoto compatto: non c’è niente più in là,
né dentro né fuori. E, a meno che tu non sia molto sventato, non c’è
nemmeno nulla o nessuno che potrà portarti via quel che hai. Nessuna crisi,
nessuna guerra, perché la tua civiltà è cauta, industriosa e – almeno entro i
suoi confini – in pace. Non ti succederà mai più niente, salvo la morte tra
moltissimo tempo. Allora ti viene quasi voglia di perderla, la tua felicità,
per riaprirti direzioni future. Ma ti sembra troppo stupido perderla, la tua
felicità, e perciò non la perderai, mentre rimani seduto sulla cima della
piramide.
Tu somigli a uno di questi due tipi, all’insoddisfatto o al felice?
«Un po’ a tutti e due».
Vero? In fondo anch’io. E non credo che quello stato d’animo dipenda da
nessuno in particolare. Non si tratta né di un inizio di depressione, né di
scarso vigore mentale, o debolezza di carattere. È una caratteristica
dell’epoca in cui viviamo, e non è certo la prima volta che capita.
Di quella stessa barriera hanno parlato i drammaturghi russi, i romanzieri
tedeschi e americani, i teologi cristiani, i poeti latini, le fiabe. Ritrovi quel
vuoto compatto nella storia di Paolo di Tarso, che riteneva l’Impero romano
una civiltà bloccata, ma non voleva esserne bloccato lui; o in quella del
giovane Mosè, che riteneva la mentalità egiziana immobile come i suoi
maestosi templi (e perciò pose il comandamento «Non farai sculture»).1 A
guardar bene, il futuro vuoto c’è stato perfino per Adamo ed Eva – che
nell’Eden avevano già tutto, ad eccezione della speranza che il futuro
portasse loro qualcosa di nuovo; e perciò si fecero cacciare via.
«Ah! Quindi secondo te sarebbe meglio perdere la propria felicità, in
periodi simili?»
Detto così suona male. Da quel che ho notato, è che in questi periodi le
scelte praticabili sono sempre state due: o sviluppare una depressione,
magari senza accorgersene, oppure cambiare mondo.
«Spiega bene».
Prima opzione: deprimersi. Per sviluppare una depressione basta
rassegnarsi. Fare in modo che ogni giorno somigli il più possibile al giorno
precedente. Così possono passare anni, decenni anche, finché l’epoca
termina con la improvvisa disgregazione del mondo a cui ci si era abituati.
«È precisamente il mio progetto: ma chi ti dice che quei decenni non
diventino secoli? Pensa: secoli di abitudini dolcemente noiose, di happy
hour e di letargìe. Sarebbe il mio mondo ideale».
No. Quella sensazione del futuro vuoto è tipica delle epoche al tramonto.
Quando un mondo sta per finire, la maggioranza della gente non percepisce
nulla nel futuro perché il futuro, per quel mondo, non c’è. Fu così in
Austria, nei primi anni del Novecento: leggi Musil. Fu così per i borghesi e
nobili dell’Impero russo, negli anni che precedettero la rivoluzione: leggi
Cechov; e per tutti i sovietici prima della Perestròjka: guarda i film di
Michalkòv. Fu così sul finire dell’Impero romano, come Paolo aveva
previsto. E, a quanto pare, fu così anche nell’Eden.
«Quindi la maggioranza della gente ha ragione, oggi, a desiderare poco o
nulla».
Sì, ma non lo sa, e tantomeno sa perché.
«E a me non serve che lo sappia».
Non avevo dubbi su questo.
L’altra opzione è, dicevo, cambiare mondo.
Non: cambiare il mondo. Non ne varrebbe la pena, proprio perché si tratta
di un mondo che non ha più nulla da dire o da fare, che non abbia già detto
o fatto. Sarebbe inutile che tu o io, accorgendoci di questo vuoto di futuro
della stragrande maggioranza, volessimo cambiare un mondo simile per
restituirgli vitalità e possibilità: nessun individuo ci riuscirebbe. Un mondo
è un insieme di fatti: miliardi di fatti collettivi (sociali, economici, culturali,
politici, psicologici) che delineano gigantesche tendenze: ogni individuo è,
in confronto, una minuscola serie di fatti personali, che non potrebbero
cambiare quelle tendenze più di quanto un ombrello potrebbe cambiare il
corso di un temporale.
«E se tanti individui si unissero per cambiare il mondo? A me piace
quando succede. C’è sempre qualcuno che tradisce, un Giuda che dia retta a
me».
Se pochi o tanti si unissero per cambiare il mondo, sarebbero pochi o tanti
ombrelli in un temporale. E poi, per impegnarsi a cambiare qualcosa
bisogna amare quel qualcosa, e nei fatti che costituiscono il mondo
occidentale non c’è niente da amare. Le guerre che facciamo altrove? Le
ingiustizie sociali? L’inquinamento atmosferico e mentale? La pubblicità?
La nostra politica? I nostri valori, ormai meramente retorici? O il nostro
piramidale senso di superiorità su tutte le altre culture?
«Be’, be’. Il mio amato Occidente non è tutto lì».
No, ragiona: quel che si può amare dell’Occidente sono soltanto atti di
singoli individui, artisti, scienziati, filosofi, o singole persone oneste – che
nel nostro mondo hanno incontrato soprattutto ostacoli. Oggi che i singoli
individui, da noi, sono paralizzati dalla ripugnanza del futuro, perché
dovrebbero amare il mondo che l’ha prodotta?
«Per trarne qualche vantaggio».
Sì, ma non sarebbe amore, in tal caso.
Invece, cambiare mondo non è complicato. In pratica, si tratta soltanto di
trasformare il mondo attuale in una situazione – che è una parola non meno
magica dell’«apriti Sesamo» di Alì Babà. Solo che «apriti Sesamo» serviva
per entrare in una caverna, mentre la parola situazione, se la si usa bene,
serve a uscire da ciò che ti sta intrappolando.
Situazione significa: un posto dove stai – e il modo in cui ci stai, e i
rapporti che hai lì, i pensieri che ti vengono lì, e così via. Quel posto può
essere più o meno grande: un appartamento, uno Stato, un continente, o
appunto un mondo. Piccolo o grande che sia, quel posto ti può sembrare un
destino, fino a che non riesci a pensarlo come una situazione: cioè soltanto
come un posto, limitato e limitante, intorno al quale ci sarebbero tanti altri
posti dove stare.
Per esempio, con un appartamento è facile: se ci vivi da un po’, è
probabile che gli angoli e i colori dei muri, i mobili, i tappeti e quel che si
vede dalle finestre ti siano diventati talmente familiari da tenere lontana
dalla tua mente l’idea di poter abitare altrove. Capita regolarmente, a un
certo tipo di persone. Ma è sufficiente che queste persone si accorgano che
il loro appartamento è soltanto la loro situazione attuale, e subito svanirà la
fascinazione che l’appartamento stava esercitando su di loro – e
cominceranno a pensare a una casa diversa.
Lo stesso vale per il tuo mondo, che è solo una tua abitazione più grande.
Accorgersi che può essere soltanto una tua situazione attuale, significa
rimpicciolirlo tanto da farlo diventare un posto tra tanti.
«Impossibile! Rimpicciolire il mondo? Va contro la mia idea prediletta:
che l’uomo non sia null’altro che un granello di polvere cosciente, in un
mondo immenso che non conoscerà mai per intero».
È una falsità. E poggia soltanto su un equivoco molto frequente, per il
quale si adopera il termine “mondo” per indicare il pianeta Terra, o le
condizioni geologiche e climatiche che permettono all’umanità di vivere su
questo pianeta, o addirittura la realtà tutt’intera. Perciò tante persone,
quando pensano alla fine del mondo, riescono a figurarsi soltanto un
cataclisma definitivo, le trombe del Giudizio; e non capiscono che cosa
significhi l’espressione: i confini del mondo. Al massimo, possono pensare
che si riferisca all’aldilà. Ma è solo perché queste persone si sono
rassegnate al loro mondo.
Il mondo non è la realtà. La differenza è che, come già ti accennavo, il
mondo è costituito da fatti, mentre la realtà è costituita da cose.
Il mondo è tutto quello che conosciamo e possiamo conoscere adesso della
realtà: e le conoscenze sono, appunto, fatti; e anche tutto quello che
abbiamo fatto, facciamo e possiamo fare con queste nostre conoscenze è il
mondo.
«Quindi noi siamo fatti di fatti, secondo te. Interessante. Un mio amico
d’altri tempi diceva che siamo quello che mangiamo, e io ho sempre
sostenuto questa convinzione».
Noi siamo innanzitutto quello che crediamo. Da quel che credi (magari
senza accorgerti che lo credi) dipendono tutti i fatti che costituiscono ciò
che chiami: tutto il mondo. Ma, se tra un istante li immaginerai come una
situazione, tutti i fatti che conosci ora saranno soltanto un mondo. La realtà
rimarrà quella che era prima, solo che la vedrai diversamente, perché avrai
cambiato mondo. E il mondo di prima sarà diventato troppo stretto per te.
«Oppure può capitare il contrario. Se, poniamo, io diventassi d’un tratto
più stupido, mi ricorderei che prima il mio mondo era grande, no?»
Può succedere, certo. Ma intanto che sei intelligente, prova a vedere che
effetto fa. Guardati intorno e di’ a te stesso: «Questo è il mondo».
Poi guardati di nuovo intorno e prova a dire a te stesso: «Questo è soltanto
ciò che so adesso di tutte le cose che ho intorno. C’è molto di più da sapere.
Perfino l’aria che respiro mi apparirebbe diversa, se mi accorgessi che quel
che ne so è troppo poco».
Prova, su. Per favore.
*
Com’è andata?
«Sì è strano, ma è solo un’impressione».
E che impressione è?
«Di qualcosa di più grande, senza dubbio».
Quindi il mondo di prima è diventato più piccolo.
«È un cambio di punto di vista, ma è solo un’impressione. Poi tutto ritorna
uguale: adesso vedo il mondo tale e quale a come lo vedevo prima di questo
buffo esperimento».
Sì, all’inizio è così: dopo qualche secondo tutto ritorna com’era. Ma tra
non molto, se in questo libro tutto andrà come deve andare, ti abituerai al
rimpicciolimento del mondo, e ti darà sempre più fastidio tornare a vedere
tutto come lo vedevi prima. Ed è bene che tu lo scopra, prima che sia troppo
tardi, o quasi troppo tardi, il che forse è ancora peggio.
«Cioè prima che il tramonto della nostra epoca finisca e cominci la
notte?»
Hai detto bene. Intanto, sappi che questo cambio di punto di vista è
precisamente la sensazione che dà il de-siderare.
È poca cosa, se la si sperimenta solo per qualche istante, ma quando
comincia a piacerti, ti accorgi che è la decisione di opporsi a un intero
sistema, al prepotere che la collettività ha su di te.
Quel prepotere consiste in dure pressioni selettive: la collettività, cioè, ti
impone di fare e pensare certe cose e non altre, e se non obbedisci ti
emargina. Ma obbedirle significa disobbedire a se stessi.
«Perché mai? La collettività non è forse fatta di tanti individui come te e
me?»
Non direi proprio. Collettività e individuo sono due soggetti molto diversi.
Una collettività è il risultato di un’addizione: 1 più 1 più 1 più 1... Tuttavia,
sai che non si possono addizionare cose diverse tra loro. Il risultato
dell’addizione di una mela e di una pera non è due, ma ancor sempre: una
mela e una pera. Per ottenere un due, devi vedere nella mela e nella pera
due frutti: devi cioè generalizzarle, togliendo loro ciò che hanno di
specifico. E per ottenere un tre dall’addizione di una mela, di una pera e di
una penna stilografica, devi ridurle soltanto a oggetti.
«Quindi ogni addizione di cose diverse diventa una sottrazione di
qualcosa?»
E così è anche per gli individui. Non esistono due individui uguali. Quindi
per ottenere una collettività devi togliere a ciascuna delle persone che la
compongono ciò che quella persona ha di suo, facendola diventare soltanto
un essere umano, cioè un nessuno-di-preciso. Una collettività è una somma
di moltissimi nessuno-di-preciso. Perciò chiunque sia un qualcuno di
preciso, non può sentirsi parte di una collettività.
«Ma le collettività esistono, e i loro sistemi di vita esistono. Io ci campo,
su questo».
Eccome. Al pari di tutti quelli che vengono addestrati a non accorgersi di
se stessi. Così non si accorgono nemmeno delle pressioni selettive che il
sistema esercita su di loro: il che fa diventare ancora più forti quelle
pressioni del sistema, perché se non sai che ci sono puoi difendertene.
Ora te ne indicherò le principali.
1
Esodo 20,4
DEVI FARE QUELLO CHE DEVI FARE?
«No, aspetta. Prima c’è un punto da chiarire. Se ho ben capito, tra le
pressioni selettive ci sono anche dei doveri, sì? O meglio, può succedere
che noi avvertiamo quelle pressioni anche sotto forma di doveri verso gli
altri?»
Sì, certo.
«Allora perché sottovaluti i doveri chiamandoli pressioni selettive?»
Le pressioni selettive vengono percepite come doveri, da chi vuole far
parte dei vari gruppi umani di cui consiste la collettività: famiglia, giro di
amici, colleghi, classe sociale, massa, nazione, Stato, religione, ecc. Per
farne parte devi rispettare certe condizioni, cioè devi fare alcune scelte ed
escluderne moltissime altre. È quello che di solito si chiama: senso del
dovere.
«Ovvero senso di responsabilità. Quindi quello che tu chiami “cambiare
mondo” è anche una fuga dalle responsabilità. Nel mondo hai un tuo ruolo:
impegni, obblighi. Ma tu decidi di uscirne e non te importa più: non rischia
di essere un’ingiustizia verso molte persone, verso istituzioni utili a tutti, e
anche verso gli ideali di tanta gente? L’ordine, il progresso, il benessere di
una nazione servono a chiunque, e sono garantiti dal lavoro di tutti. Il
lavoro impone doveri, o no? Dunque è giusto che ognuno stia al posto suo.
E siccome compito del diavolo è scoraggiare quelli che tu chiami de-sideri,
e trattenere la gente al di qua di quelli che tu chiami confini del mondo, va
riconosciuto che il diavolo, qui presente, non è così brutto come lo si
dipinge».
Io ti risponderei che un filosofo latino la pensava più o meno così: Seneca.
Era anche un grande scrittore e drammaturgo; finì suicida, per esprimere
disperatamente il suo disgusto verso il suo datore di lavoro, Nerone.
«Seneca a parte, ciò di cui stai parlando non è comunque troppo
individualistico?»
No, quello che chiami “individualismo” è un intoppo linguistico. Se ti
sembra importante, è perché a volte un’intera situazione viene a dipendere
da una parola mal intesa. Dovere, dici tu: e sei convinto che se uno non fa il
proprio dovere, è perché vuole scansarlo e fare il proprio piacere. È così?
«Sì, certamente».
Immagino che nel tuo vocabolario personale, piacere sia una parola non
soltanto individualistica ma anche egoistica; e forse nel tuo vocabolario
individualismo ed egoismo sono più o meno la stessa cosa. Invece, se
intuisco bene, secondo te il contrario di “dovere” è “piacere”?
«Sì, a meno che uno non provi piacere nel fare il proprio dovere».
Questo mi conferma che si tratta di una questione terminologica. E vedrai
che sarà facile superarla.
Cominciamo dalla parola “dovere”, da ciò che vogliamo dire quando la
usiamo. E per capirlo, proviamo a spostare la questione in un’altra lingua,
per esempio in tedesco. In questa lingua non riusciresti a convincere
nessuno che il contrario di ciò che in Italia definiamo “dovere” sia soltanto
“piacere”. In tedesco ci sono due verbi che significano entrambi “dovere”,
ma in accezioni contrapposte:
ich müss
vuol dire “devo, perché un mio forte impulso interiore me lo impone”,
mentre
ich soll
vuol dire “devo, perché qualcun altro lo esige”. In tedesco, müssen e
sollen sono contrari.
Immagina, infatti, il caso di uno scrittore che deve-müss scrivere un libro a
cui si sta preparando da una vita, e non può perché deve-soll accollarsi una
sceneggiatura che non gli interessa, ma che il suo agente e i suoi famigliari
ritengono che gli porterà molto guadagno. Quello scrittore dovrà risolvere
un conflitto, proprio perché quei due doveri sono diversi e contrapposti.
Sei ancora così sicuro che le pressioni selettive del mondo determinino il
tuo senso del dovere? Io direi che vogliono importi un senso del dovere che
non è il tuo.
«Cioè un müssen che non è il mio sollen?»
Sì. E non vedo perché colpevolizzare il tuo senso del dovere-sollen,
facendolo passare per un tuo piacere.
«Il tedesco mi fa pensare a Faust e quindi non mi piace. Ma come mai,
secondo te, in italiano non c’è questa differenza di doveri?»
Evidentemente perché l’italiano contemporaneo è una lingua meno etica e
più moralistica del tedesco. Il che non significa che noi, per il solo fatto di
essere nati in Italia, dobbiamo pensare al dovere soltanto in italiano.
«Ovviamente no».
Ora, includiamo in questa questione anche il piacere e l’egoismo. Se quel
tale scrittore scegliesse di lavorare al suo libro invece che alla
sceneggiatura, il piacere che gliene deriverebbe sarebbe ben poco, perché
gli costerebbe spiacevoli attriti con il suo agente e con i famigliari. Invece è
indubbio che, in un qualsiasi gruppo umano, ogni volta che fai quello che
devi-sollst – cioè quello che ti viene imposto dal gruppo – provi un certo
sollievo: la tua coscienza di membro del gruppo si sente a posto, sai che
nessuno avrà da ridire; e, se sei una persona insicura o ansiosa, a cui il
giudizio degli altri importa più del tuo, potrai dirti che quel sollievo è per te
un notevole piacere. Quindi dimmi: il nostro scrittore sarebbe più egoista se
seguisse il müssen o il sollen?
Potresti dirmi che quello scrittore è un egoista se decide di dedicarsi al
libro che de-sidera, invece di con-siderare il vantaggio finanziario di un
lavoro nel cinema? Io direi che l’egoista è chi fa ciò che la sua gente gli
chiede: infatti il suo ego sarà rafforzato dall’approvazione della sua gente, si
sentirà più importante per loro, potrà vantarsi davanti a loro – magari
vantandosi di essere modesto, come fanno certe persone che io trovo
particolarmente antipatiche.
«Io trovo particolarmente stressante questo tuo modo di ribaltare la
morale».
È comprensibile: sei un diavolo, la morale è essenziale. Traendo in breve
la conclusione di questo discorso, ti porrò una domanda escogitata da un un
filosofo che mi è caro, Popper: secondo te, un gregge è altruista?
«Gli uomini non sono pecore».
Le pressioni selettive del nostro mondo mirano spudoratamente a
trasformare le persone in un gregge, con l’unica differenza che in un gregge
di pecore il selezionatore è il pastore, cui spetta decidere quale pecora
sopravvivrà e quale no; mentre nel nostro mondo il compito di selezionare
non tocca a nessuno in particolare: ciò che ci seleziona è soltanto l’inerzia
collettiva della massa dei quasi-nessuno, dalla quale puoi uscire de-
siderando altro. Ma pochi de-siderano per più di qualche secondo.
Pochissimi riescono ad accorgersi davvero dei propri de-sideri, a trovare la
lucidità per formularli, e il coraggio di non dimenticarseli.
«Scusa, ma non sono i capi della collettività, i selezionatori? I capi
selezionano i loro vice, i loro vice selezionano i candidati ai vari gradi della
gerarchia del potere».
Proprio no. I capi sono stati a loro volta selezionati per svolgere la
funzione di amministratori delle pressioni selettive del mondo. Non appena
volessero ostacolarle, perderebbero il posto. Perciò non vale proprio la pena
di voler essere un capo. Faccio quasi fatica a immaginare una persona che
potrebbe augurarselo sinceramente.
«Oh, è facilissimo invece. I capi ci guadagnano più degli altri, da quelle
pressioni selettive».
Tutti quelli che si adattano al mondo ci guadagnano qualcosa, e tutti ci
perdono moltissimo – inclusi i capi – come vedrai tra poco. Ma intanto
dimmi: sono riuscito a convincerti almeno un po’?
«Mi hai soltanto suscitato qualche dubbio sulle mie opinioni. E, in tutta
sincerità, non sono disposto a proseguire fino a che non mi avrai dimostrato
che sono dubbi fondati – cosa di cui attualmente sto dubitando».
Domanda pure.
«Risolvi questa questione: una persona sente il dovere (il dovere-müssen)
di sacrificarsi per il gruppo di cui fa parte. Può essere Gesù, o un
normalissimo individuo che si nega certe soddisfazioni personali perché la
sua famiglia o il suo lavoro esigono tutta la sua dedizione. Qui il müssen e il
sollen vengono a coincidere, o no? È qualcun altro a richiedere la sua
abnegazione (a Gesù lo chiede suo padre Dio, al normalissimo individuo lo
chiedono i famigliari o i soci) e dunque si tratta di un sollen; ma al tempo
stesso è un müssen: Gesù e il normalissimo individuo sentono un impulso
interiore che li spinge ad accettare i propri sacrifici. Questi casi sono
frequenti, e secondo me sono non soltanto più morali, ma anche più etici e
più coraggiosi del tuo discorso sul coraggio del de-siderare. Da questa mia
convinzione credo sarà difficile che tu riesca a smuovermi».
Invece credo che te ne smuoverai, se appena provi a farti un altro paio di
domande.
«Ah, no! Non risponderai alla mia domanda con una domanda?»
Con varie domande.
Una è: qualsiasi gruppo umano – coppia, famiglia, giro d’amici, regione,
partito, Stato, religione, civiltà – è un insieme di individui: chi esiste di più,
chi è più reale, gli individui oppure il loro gruppo?
L’individuo, mi dirai tu.
Infatti se gli individui non ci fossero, non ci sarebbe neanche il gruppo;
mentre se il gruppo non ci fosse più, gli individui ci sarebbero ancora – solo
non raggruppati, ma ognuno per conto suo.
Al che si pone una seconda domanda: se l’individuo è più reale del
gruppo, per quale ragione dovremo occuparci del gruppo, più che
dell’individuo?
«Perché nel gruppo l’individuo si sente più forte, più sicuro. In un gruppo
un individuo può fare più cose di quante ne farebbe se fosse da solo. E
perciò è disposto a sacrificare sempre una parte delle sue esigenze, in
cambio di una serie di vantaggi che solo la sua appartenenza al gruppo gli
può dare».
Poniamo pure.
«L’individuo deve fare i conti con il gruppo, così va il mondo e nessuno ci
può fare nulla. Quindi il de-siderare è, tutto sommato, una cosa da poco,
mentre il con-siderare è fondamentale. L’individuo può essere più reale del
gruppo, ma i suoi de-sideri devono venire dopo le sue con-siderazioni, e
riguardare solo il suo tempo libero – a meno che non si voglia incoraggiare
la gente all’irresponsabilità, oppure illuderla».
Caro diavolo, perché dici: illuderla?
«Be’, perché il senso di responsabilità è comunque la molla più forte
nell’animo delle persone. Può essere consapevole o no, ma è decisiva: non
esiste una libertà di desiderare. Io, per esempio, quando convinco qualcuno
a sentirsi libero di desiderare qualsiasi cosa, so benissimo che lo sto
ingannando».
Perché ragioni in questo modo? Cosa ti importa di più: quali compulsioni
siano più forti in una certa fase di una civiltà, o quali siano le doti e le
aspirazioni innate degli uomini?
«Se io sono il diavolo, è chiaro che mi deve importare di più che cosa sia
più forte in un dato momento. Come sai, io sono, a mio modo, un tutore
dell’ordine».
Cioè ti interessa il modo in cui le persone fingono di non sapere qualcosa
di sé, per poter rimanere nella situazione in cui già si trovano.
«Certamente!»
Proprio in questo fatto si trova il centro di quello che chiami senso di
responsabilità o senso del dovere: dover fare, pensare, credere, dire, volere
molte cose, al solo scopo di non sapere più di ciò che si sa già, e di
equivocare i propri desideri, distruggendo la propria capacità di de-siderare.
È chiaro, infatti, che chi vive in questo modo desidererà cose che non de-
sidera. Tu, per esempio, che cosa fingi di non sapere?
«Oh, andiamo! Tutti fingono di non sapere qualcosa. Ma tu stai fingendo
di non sapere come va il mondo, e questo è veramente troppo».
Ma non sto affatto fingendo. Sono d’accordo con te, che soltanto in questo
modo il mondo può continuare a esistere così come esiste oggi. Solo,
constato ogni giorno che, dovunque il mondo stia andando, ci va nel modo
sbagliato. Gli individui credono di dipendere dai loro gruppi, ci credono a
tal punto da modellare la propria personalità, il proprio destino, le proprie
possibilità secondo le esigenze dei loro gruppi – per lo più invidiando
qualcuno, o temendo di farsi invidiare da qualcun altro – e il risultato è che
non vivono la propria vita, ma è il loro gruppo a viverla. Dopodiché
muoiono, mentre il gruppo continua a vivere. Il che non può non rattristarci,
dato che in realtà gli individui sono più reali del gruppo: è brutto quando
qualcosa di illusorio schiaccia qualcuno di reale, non trovi? A proposito, tu
chi stai invidiando?
«Sono fatti miei, lascia stare. Quindi secondo te sarebbe meglio che
morissero i gruppi?»
Questa è una frase famosa: la pronuncia il summus pontifex Caifa, nel
Sinedrio, mentre si sta discutendo la sorte di Gesù:
Voi non capite niente: non vi accorgete che è più vantaggioso per voi
che muoia un uomo solo, perché se no sarebbe tutta la nostra nazione a
perire!
Giovanni 11,50
Così ragionano quegli individui normalissimi di cui mi dicevi, che si
sacrificano perché non sia la loro famiglia o la loro azienda “a perire”: e si
ripete ogni giorno un dramma che da quasi duemila anni è inutilmente noto.
Ognuno di quegli individui normalissimi si lascia crocifiggere nel proprio
ruolo, e lì finisce. Meglio pensarla in termini più semplici. Se invece di
vedere i gruppi tu vedessi altri individui, non meno reali di te, i gruppi che
ti inchiodano nel tuo ruolo sparirebbero.
Guardando tua figlia, invece di vedere una figlia vedresti una donna che,
tra l’altro, è anche tua figlia.
Guardando tua madre, invece di vedere una madre vedresti una donna che
sta anche facendo la madre.
«Certo, “chi è mia madre?”»2
E guardando te, se stai dalla parte dei gruppi a cui appartieni, vedresti ciò
che un qualsiasi tuo gruppo vuole che tu veda; mentre se guardassi quel che
sei davvero e semplicemente, vedresti un mistero in forma d’individuo, che
sta continuamente rivelandosi.
Tutto ciò ti meraviglierebbe.
«Dici?»
E la meraviglia che si prova adottando questo diverso punto di vista è tale
da trasformare subito la dimensione dei gruppi in una situazione troppo
stretta, e da aprirti un mondo diverso in cui ognuno – a cominciare da te – è
libero, in ogni momento, di de-siderare ciò che il mondo attuale non gli può
offrire. A te non è mai venuto a noia il fatto di essere un diavolo, solo
perché i gruppi a cui appartieni vogliono che tu lo sia?
«Ripeto: non mettiamola sul personale. Rimaniamo oggettivi. Quel che
dici è incompatibile con l’idea di lavoro. I colleghi, i superiori, i dipendenti,
se cominci a vederli come individui, non ti faranno pensare che forse
potresti aver sbagliato tutto nella tua carriera? Per non parlare dei
concorrenti. Che figura farei con gli Angeli, se io mi vedessi come
individuo libero?»
È possibile che quella meraviglia ti mostri che hai sbagliato lavoro.
«E allora chi svolgerebbe il lavoro che uno sta svolgendo onestamente?
Pensa se una maggioranza di persone cominciasse a pensarla come te. Tutto
un sistema economico si bloccherebbe».
Anche questo è possibile. Ma, anche qui, penso sia soprattutto questione
di parole. Guarda questo elenco:
Da un lato ci sono una serie di parole – in latino, greco, inglese e russo –
che significano: “attività produttiva svolta liberamente, per propria volontà,
o per ispirazione”; dall’altro lato, ci sono parole che significano: “attività
lavorativa imposta da qualcun altro”. Alcune lingue, come qui le prime
quattro, hanno due termini diversi per indicare ciascuno dei due tipi di
attività: ovverosia, opus non è il sinonimo di labor, work non è sinonimo di
job, ecc. Altre lingue, come il francese, lo spagnolo e l’italiano, hanno
soltanto un termine che indica tutt’e due i tipi di attività, e che purtroppo si
pone sul triste lato destro dell’elenco: l’italiano “lavoro” viene dal latino
labor, “fatica servile”, il francese travail e lo spagnolo trabajo indicavano
in origine un crudele ordigno (il trabalium) in cui si incastravano i cavalli
intrattabili, per ferrarli.
«Neanche il francese e lo spagnolo sono lingue molto democratiche,
allora».
No, come ben sai. I popoli in cui si parlano lingue neolatine hanno avuto
grossi problemi con la morale, con la libera iniziativa e anche con
l’Inquisizione, per molti secoli. Ma, a parte questo, oggi tu potresti
domandarti se la tua professione attuale vada collocata sul lato sinistro o sul
lato destro.
«Non ho fretta di farlo».
No?
Sai, se si desse il caso che pertenga al lato destro, potresti domandarti
perché tu l’abbia scelta – dato che c’è stato nella tua vita un momento, e
forse più di uno, in cui avresti potuto scegliere un altro lavoro. Tu magari
mi dirai che così andava il mondo, che i gruppi a cui appartenevi al
momento della scelta ti imponevano esigenze imprescindibili, o magari che
bisogna pur campare. Tant’è. Se avessi ragionato in termini di individui, e
non di gruppi, e se avessi seguito i tuoi talenti e i tuoi de-sideri invece che
le tue con-siderazioni, la tua vita sarebbe stata diversa.
Adesso, se non hai altri dubbi da discutere, mi permetterai di illustrarti
quali sono le principali esigenze, o pressioni selettive, che nel mondo
attuale hanno impedito a molti di scegliersi, tra l’altro, anche un’attività
pertinente al lato sinistro – e che lo impediscono ancor oggi? Avremmo
dovuto parlarne in questo capitolo, ma mi hai distratto.
«Sì. Immagino che il tuo scopo sia dimostrare che quando uno impara a
conoscere quelle pressioni e a emanciparsene, può ancora cambiare? Anche
se da anni sta a destra, con il suo travail?»
E perché no? A meno che, naturalmente, non desideri di non avere
progetti, né, di conseguenza, problemi.
«Quanto a questo devo darti ragione. Mi spiace un po’, per gli italiani, i
francesi e per chi parla spagnolo. Quando usano la parola “lavorare”,
travailler, trabajar, di fatto stanno sempre parlando di una fatica imposta da
altri, cioè di un sollen. Qualcosa in loro se ne accorge sicuramente. Anche
se dicono “sto lavorando duro per capire qualcosa”, “sto lavorando su me
stesso”, e nel dirlo si sentono quasi felici, la parola che usano risuona nella
loro mente e nel loro animo come un’obbedienza a un volere diverso dal
loro. Non è una bella cosa essere obbedienti e contenti di esserlo. È
strozzare la propria sensibilità. Fingere di non accorgersi. È malafede.
Niente mi ripugna di più».
Sei un buon diavolo. È così: ogni parola ha vari significati, e il problema è
che, ogni volta che usiamo una parola, tutti i suoi significati si presentano
sempre insieme nella nostra mente e nel nostro animo, anche se noi ci
sforziamo di intenderla in un significato solo: e, ogni volta, tutti quei
significati determinano reazioni nella nostra psiche. Perciò bisogna fare
attenzione alle parole, averne cura. È un punto, questo, che ci tornerà molto
utile quando parleremo di come precisare i de-sideri.
«Bene. Ma stavi dicendo, riguardo alle pressioni selettive?»
2
Matteo 12,48
LIMITI ED ERRORI.
I MECCANISMI DI DIFESA
Le pressioni selettive che il mondo esercita su di te, e che ti impediscono
di de-siderare, si possono vedere in due modi. Se assumi il punto di vista
dei gruppi umani a cui appartieni, quelle pressioni selettive sono doveri e
responsabilità, come già abbiamo constatato. Se invece le osservi da fuori –
come potrebbe osservarle il tuo gatto, un topo di passaggio, un Angelo, o
anche come le potrai osservare tu quando sarai uscito dal tuo mondo per
esplorare un mondo nuovo – quelle pressioni selettive assumono tutte
l’aspetto di limiti ed errori che imbrigliano gli individui. E il vantaggio di
vedere sia i nostri limiti sia i nostri errori è sempre grande. Sia gli uni sia gli
altri, quando li vediamo per quel che sono, diventano una benedizione.
«Una benedizione. Ah!»
Sì. Nel caso dei limiti, è perché riuscire a individuare un limite dentro di
noi, è averlo già superato.
«Ma niente affatto: un limite è un limite. E quindi è da superare, semmai,
e non già superato appena lo vedo. Se, per esempio, un mio limite è la viltà,
e io so di avere un problema di viltà, è probabilissimo che io continui ad
avere questo problema anche quando saprò di averlo».
No: pro-blema è pro-getto, lo sai: nel momento preciso in cui ti accorgi di
una tua viltà, tu non sei più vile. Un limite è un confine tra due zone, una al
di qua del limite e l’altra al di là. Per vederlo, devi aver già visto tutt’e due
le zone: dunque in qualche modo devi essere già arrivato oltre il limite in
questione, perché se no non sapresti che c’è. Quando arrivi a un confine di
Stato, come fai a sapere che lì uno Stato finisce e ne comincia un altro?
Perché vedi che al di là di una linea ci sono cartelli in un’altra lingua. Così è
anche con i nostri limiti interiori: scorgerli significa essersi già accorti che
c’è qualcos’altro in noi: che siamo più di ciò che siamo al di qua del limite.
Poi, si tratterà di decidere se dimenticarsi di quel qualcos’altro, o magari
fare in modo che quel qualcos’altro diventi più importante di ciò che sapevi
di essere prima d’aver visto il tuo limite.
Quanto agli errori, si sa che ti aprono la strada. Le persone che vogliono
evitare di sbagliare sono per lo più mediocri, o meschine: «chi sbaglia poco,
è perché ama poco» leggo nel Vangelo di Luca, capitolo 7.
«Davvero c’è scritto così?»
Sì. Questo ti rovina un po’ il tuo mestiere di diavolo, vero?
«Quindi tutte le religioni sbagliano, nel loro pretendere che la gente si
comporti come si deve? Averlo saputo! Avrei avuto un buon argomento, in
molti casi».
Dovresti leggere le Scritture.
«Mi hano sempre fatto troppa impressione».
Non avresti avuto bisogno di lavorare come diavolo.
Comunque, stando a quel passo del Vangelo, sbaglia chi si sforza di
obbedire scrupolosamente alle norme che la sua religione gli impone: la
limitazione esistenziale che deriva da questa obbedienza, produce una
scissione della psiche in due parti, una delle quali sorveglia continuamente
l’altra, per evitare che disobbedisca. In tal modo la persona religiosa ripiega
la propria attenzione e la propria affettività su se stessa: è una forma di
narcisismo; e il narcisismo è possibile solo in chi ha scarso amore per il
resto dell’umanità.
«Ah. Quindi quel passo del Vangelo non è religioso».
Decisamente no.
Invece, come di certo saprai, tutte le volte che hai imparato qualcosa, hai
imparato sbagliando. Dopo che ti sei accorto di aver commesso errori nel
fare una cosa a cui tieni, puoi farla molto meglio. Quando invece un tuo
comportamento è ritenuto sbagliato non da te, ma da altri, puoi essere te
stesso con più determinazione: è sufficiente che ti accorgi che quel
comportamento è il tuo, e che gli altri lo ritengono sbagliato solo perché è
diverso da ciò che si aspettavano da te. Se invece i tuoi comportamenti sono
sempre approvati da tutti, non conoscerai mai la differenza tra ciò che devi
essere (sollen) e ciò che sei e che puoi diventare.
Nell’uno e nell’altro caso vale quello che dicevamo per i limiti: non puoi
vedere un tuo errore se non hai già intuito ciò che puoi essere – o meglio
ancora: ciò che sei davvero, e che è ciò che sarai.
«Ciò che sono è ciò che sarò? Che bisticcio. In che senso vorresti
intenderlo?»
Ciò che sei davvero, lo si vedrà nel futuro. Ne dubiti? Credi che la tua
storia sia già tutta qui e ora? No, lo so che non lo credi. Lo senti che in te ci
sono tante qualità che non si sono ancora mostrate. Con quelle farai bene a
riempire il futuro: non certo con ciò che sei o che sei stato.
«Magari quelle mie qualità nascoste sono rimaste nel mio passato. Chiuse
nella stanza troppo piena che non si può più aprire».
No, ascolta: se il futuro del presente è il futuro, qual è il futuro del
passato?
«Il presente».
E se un qualcosa che nel tuo passato era futuro è prigioniero del passato,
che cosa è prigioniero del tuo passato?
«Il mio presente».
Può il presente essere nel passato?
«No. Se è presente non può essere passato».
Invece il passato può essere nel presente, sotto forma di peso del passato,
di ingombro del passato: come se quella stanza chiusa fosse in mezzo alla
carreggiata della strada che stai percorrendo verso il futuro, e ti impedisse
di proseguire. In questo senso il tuo presente può essere prigioniero del tuo
passato: il che non toglie che sia ancora presente, e che abbia un futuro.
Riesci a seguirmi?
«Sì. Quindi tu pensi che nulla di ciò che adesso è mio, inclusi i miei
talenti, possa rimanere confinato nel passato: può soltanto essere intralciato
dal mio passato».
Sì. E ne è intralciato fino a che tu lo permetti.
«Ma allora, dimmi, perché ti importa tanto del significato antico delle
parole? Se sono significati antichi, sono anche quelli passati».
No. A me interessano i significati che voglio esprimere adesso. Se ci sono
lingue antiche in cui quei significati erano ben espressi, tanto meglio. Come
nel caso di pro-blema, o di de-siderio. In nome di quei significati, dà una
certa soddisfazione trasformare quello che per moltissimi è presente (come
l’accezione in cui tanti usano oggi la parola problema) in un passato da
lasciarsi indietro.
«Trasformare il presente in passato!»
È quel che ho intenzione di fare anche con il nostro mondo. E l’unico
ostacolo sono i limiti e gli errori che la collettività fa passare per doveri –
solo perché ha paura che scoprendo noi stessi ci avviamo verso un mondo
diverso. Tu, come tutore dell’ordine, sei soprattutto un tutore di questa
paura.
«Lo ammetto. E sentiamo: secondo te, se volessi cambiare, come dovrei
fare? Per pura curiosità».
Potresti cominciare lasciando da parte il verbo dovere, che come abbiamo
visto non è affidabile. Sostituiamolo con potere.
«D’accordo. Allora, in pratica, come potrei fare?»
Ascolta la descrizione del primo tipo di errori e limiti con cui il mondo ti
intrappola, e vediamo se intuisci da te come liberartene.
Il primo tipo di pressioni selettive del mondo, ovvero di limiti ed errori
che ti impediscono di scoprire e diventare te stesso, sono i meccanismi di
difesa.
Sono insidiosi: è difficile sia coglierli sul fatto, sia premunirsene in
anticipo. Scattano quando scorgi una tua difficoltà e ti ci identifichi. Cioè:
invece di accorgerti che tu hai quella difficoltà e che da subito puoi
prenderne le distanze, ti convinci fin troppo rapidamente che quella
difficoltà è un aspetto di te, cioè qualcosa che tu sei, e che va difeso contro
le critiche altrui o contro il tuo stesso desiderio di eliminarlo. E davvero ti
sembra, allora, di stare difendendo te stesso.
Per esempio: un uomo, parlando, fa un lapsus, dice “madre” invece di dire
“moglie”. È chiaramente il sintomo di un’avversità psichica che sta
intralciando la vita di quell’uomo. Il significato che sua madre aveva o ha
per lui si è sostituito al significato che ha per lui sua moglie. Nel suo
rapporto con le donne non c’è stato progresso significativo,
dall’adolescenza ad adesso. Tiene alla sua donna come da ragazzo teneva
alla mamma: ovverosia la teme, la esagera, la subisce allo stesso modo, e
riversa sulla moglie quelle numerose e complesse tensioni che lo legavano a
sua madre, e che lui non ha superato. È un’avversità che da subito potrebbe
cominciare a cessare, se solo ammettesse di averla – cioè se la vedesse
come un ostacolo, come una situazione in cui lui si trova, e che lui potrebbe
cambiare. Invece dice, a chi gli ha fatto notare quel lapsus: «No, be’, che
significa? Mi sono semplicemente confuso. Capita a tutti, è normale.
Figurati se bisogna far caso a queste cose. Allora non si può più parlare?»
Ovvero difende se stesso, e quella sua avversità diventa davvero tutt’uno
con lui.
«E in che modo questo limite ed errore costituirebbe una pressione
selettiva che il mondo esercita sugli individui?»
Molte professioni, molte relazioni, molte forme di rassegnazione sono
gravi avversità che intralciano la vita psichica delle persone che le hanno:
ma molte di queste persone, per non creare conflitti con i gruppi a cui
appartengono, si convincono di essere la professione che svolgono, o che le
loro relazioni e la loro rassegnazione siano espressioni autentiche della loro
personalità.
«Per esempio, quali professioni?»
Il diavolo, per esempio. Oppure l’avvocato o il giudice, in un Paese in cui
le leggi sono ingiuste. Oppure il fido subalterno di un individuo spregevole.
Con tutte le relazioni e tutta la rassegnazione che da queste posizioni sociali
conseguono.
I meccanismi di difesa sono sciaguratamente corroborati dalla famosa
autostima – che è soltanto una riverniciatura di quello che in italiano si
chiama orgoglio, cioè di un eccessivo sentimento della propria dignità.
«L’orgoglio non è soltanto questo. Si dice: sono orgoglioso di essere
italiano, sono orgoglioso di te, e così via. Non è solo un difetto ma anche un
pregio. Io, per esempio, ho il mio orgoglio di diavolo».
No, quello di cui parli non si chiama orgoglio ma fierezza. Fiero viene da
ferus, che in latino voleva dire “simile a un animale libero”, non domato.
Orgoglio invece viene da orghé, che in greco significava “ira”. Un
orgoglioso è sempre pronto ad arrabbiarsi, perché sente che nel suo orgoglio
qualcosa non va ma non vuole ammetterlo, il che indebolisce la sua tempra
fino a un alto grado di nervosismo. Tu sei orgoglioso o fiero di fare il
diavolo?
«Ci penserò e ti farò sapere. Ma l’autostima non può essere fierezza?»
Penso proprio di no. L’autostima consiste nell’obbligarsi ad avere un’alta
considerazione di quello che si è già, ovverosia nel contentarsi, sperando
che sia vero che “chi si contenta gode”. Contentarsi viene da continere, che
in latino significava “trattenersi”; e contentarsi è possibile soltanto
continendo, tenendo a bada e soffocando la delusione di non aver potuto o
voluto essere di più – delusione che è invece giustificata, sempre, e che è
sempre fruttuosa, se diventa abbastanza forte. L’autostima va bene per le
persone che sono sull’orlo del suicidio: la si usa per dissuaderle
dall’autodistruzione, convincendole che dopotutto valgono qualcosa; ma ha
effetti deleteri quando la si applica a qualcuno che possa migliorare se
stesso. Che te ne fai? Tu non sei un aspirante suicida. Amarti come sei è il
contrario del diventare ciò che ami, diceva qualcuno, non ricordo chi.
Dunque preparati a stimarti ben poco.
«Cioè ad aumentare i miei problemi?»
Come ti avevo promesso. E i problemi più grandi, che incominciano
quando smetti di autostimarti, sono molto più interessanti e più happy dei
piccoli problemi che ti rassegni a non risolvere quando ti accontenti di
come sei già, e che ti fanno ignorare ogni giorno le occasioni che la vita
offrirebbe a tuoi talenti che ancora non conosci.
L’IGNORANZA
Il secondo tipo di limiti ed errori che ti impediscono di de-siderare e di
cambiare mondo è per l’appunto l’ignoranza.
Deriva direttamente dal tipo precedente, cioè dai meccanismi di difesa.
Scopo dei meccanismi di difesa è, come hai visto, convincersi che hai avuto
e hai ragione a vivere come hai vissuto e come stai vivendo. L’ignoranza è
indispensabile alla convinzione di aver ragione, perché solo ignorando altre
possibilità che ti si offrirebbero puoi accontentarti di quel che decidi, fai,
dici, pensi, o credi, come se fosse il meglio.
«Scusa, ma allora tutte le persone che credono di aver ragione in qualcosa
sarebbero ignoranti?»
È inevitabile che lo siano.
«Allora nessuno potrebbe dire più niente con convinzione».
Si potrebbe dire con convinzione una cosa sola: che è sbagliato essere
convinti di qualcosa.
«Ma chi lo dicesse crederebbe di aver ragione. E sarebbe un modo
furbastro di averla».
Quindi concorderai che è meglio non essere convinti di niente. Come si
legge nei Vangeli: «Io vi dico di non giurare mai: sentitevi liberi di dire “sì”
quando è sì e “no” quando è no» (Matteo 5,33-37); ovverosia: non
preoccupatevi se cambiate parere su qualcosa, e non fate niente per
impedirvelo, perché altrimenti la vostra conoscenza non aumenterà mai.
«In pratica, bisogna sapere di essere ignoranti per non esserlo?»
Adesso ti sembra un paradosso ma tra poco cambierai idea.
«E la scienza? Non si basa tutta quanta sull’aver ragione? Lo chiedo
perché ho molta gente mia, tra gli scienziati».
C’è molta cattiva scienza, che crede di aver ragione solo perché non fa
differenza tra la scienza e la verità: si illude che questa differenza sia già
stata superata. Ovvero, vuole somigliare alle religioni, perché ne ha
nostalgia.
«Senti, ma non sarà anche questa una situazione? Voglio dire: un po’ più
in là del nostro non sapere ancora abbastanza, non ci sarà un’altra
dimensione della conoscenza, in cui aver ragione non è uno svantaggio?»
Ti manca il Paradiso?
«Un po’, a volte».
Chissà, forse c’è quella dimensione. Quel che immagino io, è che al di là
del nostro non sapere ancora abbastanza c’è molto di noi: molto di me,
molto di te. E l’unico modo di avventurarcisi è accorgersi che capire una
qualsiasi cosa è soltanto uno star capendo molto di più.
«Star capendo».
Sì. E l’ignoranza blocca lo star capendo, immobilizzandolo in un aver
capito già abbastanza.
«Noi nasciamo ignoranti. Si vede che è un nostro destino. Il contrario
dell’ignoranza è lottare contro il proprio destino?»
No. L’ignoranza è solo una situazione, cioè l’esatto contrario di un
destino. Ed è una situazione nella quale non nasciamo, ma veniamo messi.
“L’ignoranza non si studia”, mi dicevano da bambino: ma è solo uno slogan
per insegnanti, ed è strumentale e falso. L’ignoranza si apprende a prezzo di
un lungo impegno: è infatti quel che dice la parola stessa, cioè l’abitudine a
ignorare, la quale è tutt’altro che innata. Il contrario dell’ignoranza è il de-
siderio di conoscenza, e quello, da bambini, l’avevamo tutti.
Ha cominciato a diminuire, in tutti noi, quando gli adulti si sono messi
d’impegno a inculcarci che fare troppe domande è male. A scuola abbiamo
imparato soprattutto a non questionare quello che ti dicono gli insegnanti, ai
quali lo Stato ha accordato lo strano diritto di punire chi dubiti di loro. Nel
frattempo, la religione (qualunque sia, in Occidente come in Oriente) ci ha
addestrato a dover ignorare, cioè a non cercare le risposte a una notevole
quantità di domande principali e belle: perché si nasce? perché si muore?
perché c’è il dolore? perché bisogna obbedire a certe regole? perché esiste il
peccato? e così via. La religione ci ha imposto di credere che nessuno di
questi “perché?” ci si chiarirà mai veramente, perché Dio ha deciso così e
non vuole dare spiegazioni; e Dio, dal canto suo, è ciò che di più
incomprensibile esista nell’universo: ovvero la proiezione suprema e totale
del tuo irrimediabile destino di essere ignorante.
Dopo questo addestramento, diventare atei, rifiutando la metafisica, serve
a poco: perché significa soltanto abbandonare tutte quelle domande
principali senza aver tentato di rispondere.
«Perché dici che chi rifiuta la metafisica non risponde a quelle domande?
La scienza rifiuta la metafisica e ci spiega perché siamo nati e perché
moriamo e perché c’è il dolore. La storia rifiuta la metafisica e ci spiega
perché bisogna obbedire a certe leggi e perché c’è l’idea di peccato. E a me
interessa molto il modo in cui gli storici e gli scienziati lo spiegano».
Non è così. La scienza prova a spiegare come nasciamo, come moriamo e
come soffriamo. E la storia prova a spiegare come e da quando obbediamo a
certe regole e usiamo la parola “peccato”. Ma non spiegano né vogliono
spiegare perché. Perciò le scienze, inclusa la storia, ci appaiono a volte
come complicati rituali preliminari, su una soglia al di là della quale sta il
senso di ciò che le scienze sembrano studiare: ma quella soglia non viene
varcata mai, dagli scienziati.
«E la filosofia?»
A noi è stata insegnata non la filosofia ma la storia della filosofia: cioè un
elenco di tentativi di scoprire la verità, che evidentemente non hanno
portato a nulla, perché altrimenti l’elenco si sarebbe interrotto.
«Si direbbe una cospirazione. Come se qualcuno volesse che l’ignoranza
domini».
Non c’è bisogno di nessuna cospirazione. L’ignoranza domina già. Non
appena si esce dall’infanzia, l’abitudine all’ignoranza comincia a diventare
talmente vasta che non ci si accorge più di averla; ed è anche talmente
compatta che se volessi liberartene ti troveresti in circostanze molto
difficili.
Nel mondo, chi non vuole più essere ignorante non è ben visto, perché è
pericoloso. Socrate fu uno dei filosofi che scontarono duramente quel tipo
di sforzi, a cui si dedicava e a cui esortava gli amici: i capi ateniesi si
accorsero che costituiva una minaccia per l’ordine vigente. Ogni volta che
un suo interlocutore intavolava una qualche certezza, Socrate incominciava
a smontarla dicendo: io, per conto mio, so di non sapere. E intendeva: so
che quello che oggi si sa è un non sapere abbastanza, di cui troppi si
accontentano; e, accontentandosene, si accontentano anche del loro modo di
vita, di ciò che dicono i capi, di ciò che insegnano i sacerdoti, e in generale
di come va il mondo – perché il mondo attuale è soltanto quel che
attualmente sai del mondo, e se ti basta quel che ne sai, anche il mondo
attuale ti basta. Invece, non appena si fa strada nella tua mente il dubbio che
quel che sai è troppo poco, anche il mondo in cui oggi ti tocca vivere
diventa troppo poco. Solo se sai di non sapere, puoi cominciare a sapere di
più, e ad ampliare tutto ciò che è tuo: esigenze, diritti, desideri – in una
parola, la tua libertà. Solo chi può sapere, può essere libero. L’ignoranza è
ignorarlo.
Anche Gesù la pensava così, dato che disse: «La verità vi farà liberi»
(Giovanni 8,32). E finì anche peggio di Socrate.
«Già, già».
Ma a scuola si impara che quella frase di Socrate era soltanto un lodevole
e melenso esempio di modestia, da parte di uno degli uomini più colti del
suo tempo. E gli esperti delle Scritture garantiscono che quella frase di
Gesù non esortava l’uomo alla libertà, ma gliela precludeva, perché la verità
era ed è nota soltanto a Dio.
«Non esattamente. Molti teologi di mia conoscenza hanno spiegato che la
verità venne rivelata da Gesù, e chi crede nella sua rivelazione si sente
libero da chiunque altro esponga verità diverse dalla sua».
E come viene rivelata la verità esposta da Gesù, mio caro diavolo?
«Nei dogmi della religione».
Ma i dogmi di una religione non sono misteri? Creazione, incarnazione,
resurrezione, transustanziazione, rivelazione: non sono tutte quante cose
che la mente umana non può comprendere? Quando diciamo che qualcosa è
vero, intendiamo qualcosa che è vero per noi, sì? E qualcosa che è vero per
noi, è necessariamente qualcosa che conosciamo, dico bene? Dunque come
può essere vero per te qualcosa che non conosci? I misteri sono
nell’inconoscibile: cioè, sono frasi di cui nessuno può dire di conoscere il
vero contenuto. Come puoi chiamarli: verità?
«Per fede».
Cioè per rassegnazione a non poter conoscere. Prendila più
semplicemente: “la verità vi renderà liberi” è l’invito a pensare che
ignoranza e servitù vadano di pari passo. È un’ipotesi, e il meglio che si può
fare con un’ipotesi è sperimentarla: verificala nella tua esperienza, e fammi
sapere i risultati.
«Comunque, misteri o non misteri, che cosa sia la verità non lo sa
nessuno. Quindi a una certa quota di ignoranza siamo condannati
comunque».
Io la vedo in maniera diametralmente opposta. Noi viviamo, con i nostri
apparati conoscitivi, in una dimensione che in filosofia si chiama realtà. La
realtà non è la verità.
La verità è il senso delle cose, la risposta alla domanda: “perché c’è quello
che c’è?”
La realtà è quello che c’è: tutto ciò che vediamo, udiamo, tocchiamo, o di
cui sentiamo il sapore o l’odore; dall’esperienza che abbiamo della realtà, ci
facciamo molte idee e opinioni: naturalmente, nemmeno queste idee e
opinioni sono la verità: sono soltanto le nostre interpretazioni della realtà,
che possono sembrarci più o meno giuste o sbagliate, a seconda di come
riusciamo ad adattarle a quel poco che sappiamo della realtà. Al massimo,
possiamo dire che queste opinioni e idee tendono alla verità, ma senza mai
essere sicure di averla raggiunta.
«Queste idee e opinioni sono i fatti che costituiscono il mondo?»
Sì.
«Quindi nel mondo la verità non c’è?»
No. La verità non è né nella realtà, né nei dati che ci forniscono i nostri
apparati conoscitivi, né nelle interpretazioni che diamo di questi dati, e
bisogna dunque dedurne che la verità non esista, dato che la realtà, e quei
dati, e quelle interpretazioni sono tutto ciò che per noi esiste.
«Dunque ci sono le cose, ci siamo noi, ci sono i fatti del nostro mondo, ma
il perché di tutto questo non c’è, per noi, e forse per nessun altro
nell’universo».
Infatti. La verità non esiste. Ma in noi e per noi ciò che esiste adesso non è
tutto.
«Tu fai una differenza tra essere ed esistere».
Certo. Fortunatamente le lingue europee mi permettono di accorgermi di
questa distinzione. Ci sono in te qualità, talenti, che tu non fai esistere
ancora: tanto che, come già ti ho suggerito un paio di volte, la mia ipotesi è
che ciò che tu sei davvero non esista ancora né nella realtà, né in ciò che sai
della realtà. Ma ciò che tu sei davvero ma che ancora non esiste può
determinare certe tue decisioni importanti, se non ti rassegni di credere che
non sia, solo perché non esiste ancora. Bene: secondo me, in ciò che di
ognuno di noi non esiste ancora, c’è la verità.
«Ma questo potrebbe significare che ognuno di noi ha una sua verità, dato
che ciò che non esiste ancora di me è diverso da ciò che non esiste ancora di
te».
Infatti, ognuno ha la sua verità. Di verità ce ne sono tante quanti sono gli
esseri viventi: l’insieme di queste verità si chiama: la verità – nello stesso
modo in cui l’insieme di tutti gli esseri umani si chiama: l’umanità.
«Quindi la verità ce l’hanno tutti, ma ognuno ci starebbe arrivando per
conto suo? E arrivandoci scoprirebbe qualcosa di diverso da ciò che
scoprirebbero gli altri? Ma poi scopriranno tutti che la verità è una sola per
tutti, anche se ognuno la desidera e la trova in modo diverso?»
Tanti dicono di sì. Tutte le persone religiose, vari scienziati, la maggior
parte dei filosofi, i seguaci di ideologie, e così pure gli iracondi che si
accalorano discutendo al bar, sono convinti che la verità alla fine risulterà
essere una sola – e molti di loro ritengono di averla intuita meglio di altri.
Io invece immagino che la verità di ogni individuo sia soltanto sua, e non
valida per altri; e appunto perciò immagino anche che tutte le persone che
cercano la verità possano intendersi tra loro – cioè apprezzare ciascuno le
ricerche altrui, ed essersi d’aiuto reciprocamente, perché gli intralci che
incontrano sono gli stessi per tutti. Così la penso io.
«Ma è solo quello che pensi tu».
Il che mi autorizza a pensarlo.
E intendo in questo modo anche la frase di Gesù: «Io sono la verità»
(Giovanni 14,6). Ritengo cioè che fosse riferita a chiunque, cioè che il
senso della frase fosse: la verità è ciò che ognuno di noi è davvero, e la si
trova soltanto nel proprio io.
«Citi il Vangelo perché ti piace o per provocarmi?»
Lo cito spesso per varie ragioni; adesso, è anche per preparare il terreno:
tra poco cominceremo a rintracciare proprio nei Vangeli un’utilissima teoria
del de-siderio, e questo discorso sulla verità è il suo presupposto.
«Quindi la ricerca della verità...»
...è la ricerca della propria autenticità.
«Quindi la psicologia, più che la filosofia o la religione, servirebbe da
guida nella scoperta della verità?»
Mah. Può servire, certo. Tutto può servire, a volte. Ma quel che escludo è
che si debba essere esperti di psicologia per progredire nella ricerca della
verità. La via è più diretta. Quello che adesso non esiste di te, può
manifestarsi in un modo solo: come un senso di mancanza, cioè sotto forma
di de-siderio.
D’altronde, sai da cosa deriva la parola “vero”? Da varâmi, che in
sanscrito, quattromila anni fa, significava: “io desidero”. Quando l’ho
saputo è stato un bel momento.
«Certe volte la filologia sembra una tecnica da prestigiatori».
Altre volte aiuta a ricostruire percorsi di verità tra i quali, accanto ai quali,
si muove la nostra mente. E questo è il caso.
«Dunque secondo te la verità sarebbe quello che uno vuole!»
La verità è quello che uno de-sidera davvero. Il che la congiunge alla
libertà: dato che sentirci liberi è accorgerci di cosa de-sideriamo.
«Quanti nel mondo d’oggi sarebbero disposti ad accettare questa idea, a
tuo parere?»
Pochissimi, lo so bene. Nel mondo vale l’idea che la verità debba essere
come si vuole che sia. Come la vogliono le autorità o i ribelli all’autorità,
come la vuole una religione o un’altra religione, come la vuole una scuola
di filosofia o una corrente scientifica, come la vuole una classe, una casta,
un popolo, e come ogni giorno la vuole e se la fabbrica chi ha bisogno di
ignorare i propri dubbi, per poter continuare a vivere nel mondo come ci
viveva il giorno prima. In tutti questi casi la verità e l’ignoranza coincidono,
dato che bisogna ignorare le verità altrui per potersi convincere che la
propria verità sia l’unica.
«E che il mondo non sia una situazione».
Appunto.
«No, qui c’è qualcosa che non va. Quello che dici vale anche per te: anche
nella tua teoria la verità è come tu vuoi che sia».
Ma non la voglio imporre agli altri.
D’altra parte, hai ragione: è inevitabile che anch’io, parlando di verità,
sembri sostenitore di una verità esclusiva. Te l’ho detto: nel mondo vale
l’idea che la verità debba essere come qualcuno vuole che sia; e il
corollario di quest’idea è che conviene prendere per vero ciò che dice chi è
più forte di te. Spesso ciò permette di fare considerevoli carriere: occorre
solo adeguarsi a quello che è vero secondo i superiori. Ma è bello vivere
così, solo perché così va il mondo?
«Devi mettere in conto la paura: tanta gente obbedisce, rinunciando alla
verità, soprattutto per paura».
Certo, questo è un altro grande limite, un’altra principale pressione
selettiva grazie alla quale il de-siderare si blocca e il mondo rimane com’è.
LA PAURA
Anche tu avrai paura, di tanto in tanto, in questo capitolo. E, quando
avverrà, ti raccomando di tenere desta la tua attenzione, e di far caso a una
caratteristica di ogni nostra paura: la sensazione che possa essere
invincibile.
È una sensazione realistica. Nel mondo la paura è veramente invincibile,
in tutte le sue forme: sia come paura di qualche cosa conosciuta o
sconosciuta, sia come paura della paura, sia come paura della paura della
paura, sia come paura della paura della paura della paura – che è la più
frequente di tutte.
«Cioè?»
Supponiamo che tu soffra di vertigini e che se in piscina tu salissi sul
trampolino dei dieci metri avresti una terribile paura. Questa è la paura
semplice: una normalissima paura del vuoto.
«Come il vuoto di futuro?»
Tale e quale. Tu, dicevo, soffri talmente di vertigini, che non ti
azzarderesti mai a salire in cima a quel trampolino. Il tuo non salirci è la
paura della paura dell’altezza.
La sola idea di salirci ti farebbe venire i brividi, così ti impedisci di
pensarci: questa è la paura della paura della paura dell’altezza.
Ma siccome se andassi in piscina avresti continuamente quel trampolino
nel tuo campo visivo, e l’idea di salirci potrebbe venirti in mente, preferisci
non andarci nemmeno, in piscina: e questa è la paura della paura della
paura della paura dell’altezza.
«E perché dici che è la più frequente?»
Perché moltissime persone organizzano meticolosamente la propria vita in
base alla paura della paura della paura della paura di qualcosa – in genere,
della scoperta di sé stessi, della propria verità, dei propri autentici de-sideri,
e dell’altezza a cui si verrebbero a trovare se de-siderassero.
«Ma per vincere queste paure e paure di paure non basterebbe un po’ di
normalissimo coraggio?»
No. Ogni paura è invincibile, nel mondo, perché quando cominci a
sentirla, ha già vinto la partita: a partire dai primi sintomi indubbi di paura,
tutto ciò che puoi fare per combatterla è una sua conseguenza. Anche il
coraggio è uno dei comportamenti che la paura ti spinge ad adottare: è
infatti un modo di resisterle, di opporlesi, e dunque esiste soltanto perché
esiste la paura.
Nel coraggio facciamo soltanto ciò che la paura ci impedirebbe di fare: e
in tal modo lasciamo che la paura limiti le nostre possibilità d’azione – le
quali, altrimenti, sarebbero migliaia in ciascun istante della nostra giornata.
Per esempio: se un nostro amico superstizioso ha paura di un determinato
numero, perché crede sia nefasto, può darsi che un giorno trovi il coraggio,
su un aereo straniero, di sedersi in un posto che abbia proprio quel numero
(sui nostri aerei, com’è noto, la numerazione dei posti tiene conto delle
paure superstiziose); e magari il viaggio andrà felicemente, e nei giorni
seguenti non capiterà nessun grave contrattempo a quel nostro amico, che
potrà così convincersi di avere sconfitto, quella volta, la sua paura del tal
numero.
Ma non l’avrà affatto sconfitta: avrà soltanto scelto uno dei due
comportamenti che la sua paura del tal numero gli consentiva: fuggire da
quel numero, o sfidarlo.
Proprio come prima, anche dopo quel suo viaggio i numeri non saranno
per lui quel che semplicemente sono, cioè le unità minime di significato
della lingua della matematica, bensì ricettacoli di misteriosi poteri, che per
ragioni ancor più misteriose emanano da alcuni numeri e da altri no, e che
lui, il nostro amico, ha finalmente avuto il coraggio di affrontare – cosa di
cui ora è inutilmente fiero. Né si tratterà soltanto dei numeri: per poter
credere nei loro influssi, il nostro amico deve aver strutturato molte altre
sue interpretazioni della realtà in maniera che non contrastino con quella
sua credenza: deve, cioè, credere che nelle lettere degli alfabeti non ci siano
i pericoli che ci sono invece nei numeri: che tutte le lettere siano “buone”
mentre certi numeri no. In tal modo, dato che i numeri e gli alfabeti
definiscono tutto ciò che conosciamo, la sua paura sta influenzando, per lui,
tutto ciò che esiste. Non possiamo neppure dire che nel nostro amico
agiscano meccanismi di difesa per giustificare la sua paura dei numeri, ma è
questa paura ad attivare un meccanismo di difesa che, per lui, è grande
quando l’intero universo.
Più o meno lo stesso, se ci ragioni un poco, vale per tutte le nostre paure.
«Non tutte le nostre paure sono superstiziose. La paura di ammalarsi
durante l’inverno o la paura di non riuscire in quel che si sta facendo sono
assolutamente ragionevoli, e anche utili, direi».
Tu dici? A me risulta che la paura non sia utile mai.
La prudenza e la determinazione possono attivare comportamenti utili, in
tutte le circostanze in cui ci si potrebbe lasciar prendere dai processi
epilettoidi che chiamiamo paura. Le paure non fanno che limitare le tue
scelte e sfigurare la tua immagine della realtà. La paura di ammalarti
determinerà una tua idea della natura, nella quale attacco e difesa ti
appariranno fattori più importanti di quanto non siano realmente nel
rapporto tra il tuo corpo e i virus. La tua paura di non riuscire in un’impresa
ti farà sospettare che in te ci siano impulsi autolesionistici che
probabilmente non ci sono affatto, il che distoglierà la tua attenzione dalle
tue capacità.
In più, l’uomo è assai bravo a stimolare in se stesso o negli altri i processi
della paura senza che nulla lo spinga a farlo; ad aver paura di qualche suo
pensiero, a figurarsi rischi inesistenti, e ad accumulare queste paure nella
sua memoria tanto da sentirla, a un certo punto, foderata, strutturata di
paure soltanto. E di paure delle paure. E di paure delle paure delle paure e
via dicendo, che lo spingeranno a vivere un numero di esperienze
incredibilmente scarso, se comparato alle sue autentiche possibilità – inclusi
i suoi impulsi a de-siderare. Ti è evidente, credo, che chi ha paura non de-
sidera, dato che de-siderare è spingersi oltre i confini del mondo: chi ha
paura, si accontenta di una piccola porzione di mondo e ci si rifugia, a volte
anche per tutta la vita.
«Dunque la paura è servitù, giusto? Come l’ignoranza».
Giusto.
«Ma a differenza dell’ignoranza, la paura è invincibile, per chi ha
cominciato a provarla».
Sì.
«Ed è grande come il mondo. Lo terrò presente. E, secondo te, anch’io
vivrei in un mondo fatto di paure, e di paure della paura? Dato che io vivo
nel mondo».
Giudica tu. Comunque, da quel che stiamo dicendo deriva che al dominio
che una qualsiasi nostra paura esercita su di noi si può sfuggire solo a una
condizione: abbandonando il mondo che la nostra paura ci ha plasmato, e la
nostra mentalità che ha prodotto la paura e se ne è lasciata plasmare. Tale
abbandono è possibile solo adottando il “so di non sapere” in maniera
radicale: pensando, cioè, che tutto ciò che il mio io sa adesso, e dunque
tutto il suo mondo, non abbia valore per un altro mio io, che si è accorto di
poterne sapere di più, e dunque di avere un mondo diverso.
«Quanti io avrei, io?»
Numerosi. Alcuni già esistenti, alcuni in attesa di esistere. Quest’altro io
che ti ho appena detto è fuori dal tuo mondo, e ti ci puoi avvicinare soltanto
con il tuo de-siderio di conoscenza.
«Sarebbe così semplice? È sufficiente voler conoscere e de-siderare, e le
paure passano?»
Sì, ma aspetta a rallegrartene.
Può piacerti l’idea che il de-siderio di verità ci liberi dalle servitù, come
diceva Gesù, inclusa la servitù determinata dalle paure – e che dunque le
nostre paure dipendano da una carenza di quel de-siderio, cioè
dall’ignoranza. Ma abbiamo visto che il nostro de-siderio di conoscenza è
stato sabotato da ogni parte fin dai primi anni della nostra vita. Dunque in
noi ci devono essere, fin dall’infanzia, carenze di quel de-siderio che hanno
determinato in noi chissà quante paure, alcune delle quali ci sono già note,
mentre altre no – perché le nostre paure di aver paura ce le tengono
nascoste. Quanto ne è stato sfigurato il nostro mondo? Io ho l’impressione
che nella creazione del mondo di ognuno di noi il Dio Timore sia
intervenuto in maniera molto più efficace di quanto non possa intervenirvi
quello che le persone religiose chiamano il timor di Dio. E anzi, ti chiedo,
non sarà che il Dio Timore ha influito anche su quel che pensiamo di Dio
stesso? Tu, in quanto diavolo, cosa ne penseresti?
«Be’, Dio perdona. Non c’è solo il timore di Dio, c’è anche la bontà di
Dio».
Non so e neanche tu sai se ci sia la bontà di Dio.
«Be’...»
In realtà non sai nemmeno se ci sia Dio, altrimenti non dovresti credere
che c’è, lo sapresti e basta. Invece risulta dalle Scritture che tu ci credi, caro
diavolo, qualunque cosa tu intenda con Dio:
Tu credi che esista un Dio unico? Bene. Anche i demòni ci credono, e
tremano di paura.
Lettera di Giacomo 2,19
«E quindi?»
A parte il credere, quello che possiamo sapere è soltanto che cosa si dice,
si pensa, si crede di Dio. E da molto tempo si crede, tra le altre cose, che
Dio serbi rancore per un furto di frutta, e che abbia scatenato il Diluvio,
bloccato Babele, distrutto Sodoma con una pioggia di zolfo – cioè in modo
molto doloroso per i suoi abitanti. Si crede inoltre che abbia preparato o
approvato, nell’Inferno e nel Purgatorio, una serie di terribili torture.
«Be’, c’è molta esagerazione al riguardo. Ma anche se fosse, non sarebbe
inutile: bisogna pur far rispettare l’ordine».
E ti sembra che gli ordini divini siano rispettati? E poi, perché immaginare
un Dio che dà ordini e poi ricorre ai castighi per farli rispettare? È una
grave contraddizione teologica. Quel ricorso alle minacce può essere
spiegato, teologicamente, solo in due modi: o gli ordini di Dio non sono
abbastanza convincenti, oppure Dio ha creato gli uomini in modo che non
capissero la sua volontà, e si sta insensatamente accanendo contro di loro,
come uno scultore che si arrabbiasse contro una sua statua perché l’ha
scolpita male.
Sia con l’una sia con l’altra spiegazione, il discorso contrasta con il
principio fondamentale secondo cui Dio sarebbe perfetto: dato che un Dio
perfetto non fa questi pasticci. Dunque, se la fede nel Dio che punisce e va
temuto è ancor oggi diffusissima, è perché esprime una qualche dinamica
psicologica talmente forte da far passare in secondo piano le contraddizioni.
E questa dinamica psicologica è ancor sempre la paura di cui stiamo
parlando.
«Ma quella fede c’è, nelle religioni. Perché c’è e c’è stata così a lungo, se
è solo paura, e se la paura, come dici tu, è un processo epilettoide? Non tutti
hanno problemi di epilessia, ma tutte le nostre religioni hanno quella fede».
Le religioni devono utilizzare le tendenze della gente, per poter durare, e
se certe tendenze vantaggiose per le religioni vengono meno in qualche
periodo, le religioni che non vogliono sparire devono fare il possibile per
riattivarle. Abbiamo visto che paura e ignoranza sono interdipendenti: e
infatti sono sostenute entrambe dalle medesime istituzioni, scuole, regimi
ecc. Nell’indurre processi epilettoidi le religioni non sono mai state prive di
alleati.
Ad ogni modo, tu e io non siamo una religione, non ci interessa durare
millenni, vogliamo solo capire e pensare. E se osserviamo la quantità di
paura che intride il nostro mondo e il suo aldilà, l’unico lato positivo che
notiamo è che gli esseri umani, in Occidente, stanno dando prova di una
grande capacità di adattamento a circostanze sfavorevoli. Ma c’è da
domandarsi perché doversi adattare a un mondo del genere, invece di capire
cosa ci impedisca di lasciarselo indietro.
«È che ne siamo prigionieri, caro mio. Me compreso. E da una prigione
non si esce perché si ha voglia di uscire».
No. Questo è un equivoco in cui è facile cadere a questo punto della nostra
rassegna dei limiti ed errori che ci bloccano. Non è vero che la tua o la mia
attuale personalità siano disgraziatamente prigioniere di un mondo ingiusto.
Se ti ho dato questa impressione, è stato soltanto perché mi sono espresso
male: e se è così mi scuso. Ma se questa impressione l’hai avuta tu, senza
che io te la suscitassi, è solo perché è meno pro-blematico sentirsi vittime di
avversità, invece che corresponsabili di quelle stesse avversità.
In realtà, se ti osservi bene, non potrai nemmeno dire che tu ti senta
particolarmente a disagio, nel convivere con i limiti che ti ho indicato
finora. Nonostante i meccanismi di difesa, e l’ignoranza, e la paura, di per
sé la tua condizione nel mondo non è brutta al punto da suscitarti un
irresistibile desiderio di cambiarla. Tanti ci vivono e se ne sentono
addirittura soddisfatti; anche tu ci vivi da un bel po’.
«Che c’entra? Anche in una prigione si può tentare di stare il meno peggio
possibile. Oppure vedi anche qui un meccanismo di difesa,
un’identificazione con l’avversità?»
La mia impressione è che nel tuo io esistente ci siano due personalità, una
delle quali non si sente affatto in prigione in questo mondo, mentre l’altra
ritiene che la prima sia il carceriere.
«E io di nuovo torno a domandarti: quante personalità avrei, io, secondo
te? Ne abbiamo già totalizzate quattro: l’io esistente, l’io ancora inesistente,
e adesso l’io carcerato e l’io carceriere. Mi sento sempre più affollato».
Sono una serie di modi in cui esistiamo. Ognuno di noi passa da un modo
all’altro, un po’ come il nostro corpo ha un diverso centro di gravità, a
seconda delle posizioni che assumiamo. Le posizioni che un corpo può
assumere sono limitate, ma numerose, e così anche la serie dei nostri modi
di esistere – cioè dei nostri io – è limitata, ma è numerosa. Ora, se permetti,
ti descrivo quei due modi-io che ti ho appena detto: il libero cittadino e
quello che se ne sente prigioniero.
Il primo è un essere sociale, integrato bene o male nel mondo, mentre
l’altro se ne sta sempre per conto suo.
Il primo parla come parlano adesso i tuoi connazionali, pensa pensieri che
loro sono in grado di capire, vuole quello che a loro può sembrare
ragionevole volere, e nasconde e dimentica i propri desideri, oppure li
scambia per fantasie irrealizzabili. È corazzato da elaborati meccanismi di
difesa, pratica quotidianamente l’ignoranza, sa di avere qualche paura ma
non ha idea (né vuole averla) di quante paure abbiano strutturato la sua
esistenza.
L’altro, l’essere asociale, non parla. Aspetta da molto tempo. Ha una solo
tipo di paure: teme se stesso, teme di temere se stesso, teme di temere di
temere se stesso, e perciò si nasconde di continuo, anche a se stesso.
Uno di questi tuoi due esseri ti sembra inautentico. Cioè, quando sei in
uno di quei due modi, ti sembra di non essere veramente te, di essere come
un attore che recita un personaggio. Ciononostante, quel tuo io si comporta
il più delle volte come se fosse il vero te stesso, quello che conta, che
decide, che fa, che capisce.
Ora prova a domandarti: qual è dei due?
«Cioè quale di questi miei due io presento al mondo, ma secondo me non
è veramente me?»
Sì. E poi vedrai quale dei due ha più paura.
Poniamo che tu ti sia accorto che è il secondo, l’asociale. A te non sembra
di essere veramente lui, ma spesso ti comporti come se lo fossi. Se è così,
vuol dire che sei seriamente nei guai: la gente pensa di te che hai qualche
grave disturbo, che sei depresso. Mi spiace per te, e un po’ anche per me,
perché se quello che tu sei veramente è il cittadino integrato nel mondo,
vuol dire che di ciò che sto scrivendo non stai capendo e non te ne sta
importando niente.
«Uno può avere un aspetto asociale e sotto sotto essere un cittadino
integrato nel mondo?»
Certo. È frequentissimo. Tanti apparenti asociali sono persone che sotto
sotto amano talmente il mondo, da voler attirare l’attenzione del mondo con
la loro asocialità. Non per nulla il diavolo, come ben sai, nel mondo è
asociale e conformista insieme.
Se invece ti sei accorto che quel che tu presenti al mondo ma che non è te
è il cittadino integrato, allora possiamo parlare. Sei un individuo molto
falso, ma almeno lo sai. Ciò che nel mondo decidi, che fai, che capisci ti
basta, per ora: ma almeno puoi sapere che ti basta soltanto per ora. La gente
ti ritiene normale; ma capita almeno un paio di volte al mese che l’aggettivo
“normale”, applicato a te, ti irriti un po’.
Sei una persona civile, un suddito cioè della tua collettività. Ora,
domandiamoci: per quale causa e a che scopo ti comporti come un suddito
della collettività, se sai di non esserlo?
Per solidarietà – mi dirai tu.
Certamente: sei solidale ai gruppi a cui sei stato abituato. E lo sei perché
questa solidarietà ti toglie molte delle tue responsabilità personali,
permettendoti di inserirti in un contesto di responsabilità collettive. Tante
decisioni che riguardano te, le lasci prendere a gruppi sociali più o meno
grandi – che sono tutti quanti strumenti della tua civiltà: a loro hai lasciato
decidere quando devi lavorare e quando puoi riposarti, quando devi o puoi
andare in vacanza (tanti non vogliono andare in vacanza, ma sono obbligati
ad andarci), quando e cosa festeggiare, quando e cosa mangiare e bere, di
che cosa ridere, di che cosa rattristarti, quali pensieri considerare importanti
e quali no, come misurare il tempo, come misurare il tuo potere personale,
la tua riuscita sociale, quale valore e quali limiti dare ai tuoi sentimenti e ai
tuoi impulsi, cosa ritenere bello e cosa brutto, e tante altre cose
estremamente importanti per te.
Anche in passato hai lasciato che questi gruppi decidessero per te, e la
ricompensa per questa devoluzione è sempre stata la stessa: vivendo in
mezzo a loro, sapevi qual era il tuo posto – il che ti faceva sentire meglio,
ogni volta che ti passavano per la mente domande del tipo: “Cosa ci faccio
qui?”, “Chi sono io per gli altri?”, “Che cosa posso aspettarmi?” e così via.
Sapevi anche di appartenere a un corpo collettivo forte e numeroso – e fin
dagli albori dell’umanità questo senso di appartenenza ha dato sicurezza
agli individui. Il grosso svantaggio è che senza quel tuo gruppo
d’appartenza ti sentiresti di non essere nessuno. Ma da molto tempo stai
facendo in modo che nella tua vita non capitino spesso momenti in cui
dubiti che appartenere ai tuoi gruppi sia quello che ti aspettavi dalla vita.
«Un paio di volte al mese?»
Già. E ti piace esistere così? Ti basta? O meglio, continua a piacerti o a
bastarti, ora che ne abbiamo parlato un po’? Oppure hai solo paura di quello
che saresti e di ciò che ci sarebbe per te, se così non fosse?
«No. Io sento che il mio io inautentico è il libero cittadino. Ma non mi
piace e non mi basta. Certo, recito questa parte in società per i motivi che
hai detto poco fa: la solidarietà, il senso di appartenenza, la paura di non
essere nessuno se non mi adeguo alle decisioni che gli altri hanno preso per
me in passato e continuano a prendere ogni giorno. E dicendo “gli altri”
intendo molti altri, non solo i genitori, gli amici o i miei superiori al lavoro:
intendo tutta la società, tutta la civiltà, per usare un termine moderno.
«Duemila anni fa, il Vangelo li chiamava: il prossimo tuo, cioè tutta la
gente che uno ha intorno. Ama il prossimo tuo! Dice così, no? Addirittura
ama il prossimo tuo come te stesso. Io ci credevo da bambino, ma adesso
penso che ci sia un grosso sbaglio, qui: se sono in una situazione che non
mi piace è proprio perché ho amato molto il mio prossimo, tanto da
adeguarmi al mio prossimo, da lasciare che una grande quantità di miei
prossimi mi organizzasse la vita. Li ho amati come se fossero me stesso, sì;
ed è stato così che loro hanno deciso per me come se fossi io a decidere. E
adesso non so più come venirne fuori. Va bene?»
Bella risposta.
Io penso che quella esortazione evangelica sia stata fraintesa. Noi siamo
stati abituati a pensare che il termine “prossimo”, nelle Scritture,
significasse: “qualunque altra persona ti càpiti accanto”. Ma è uno sbaglio:
nelle Scritture “il prossimo tuo” indica sempre un amico o il connazionale;
e, da che mondo è mondo, se la si intende in questo senso, l’esortazione
“ama il prossimo tuo” è un principio che vige in tutti i popoli: un popolo è
infatti un numeroso gruppo di persone che si amano a vicenda più di quanto
non amino gli stranieri. Ma non mi risulta che Gesù dicesse di far così.
Anzi:
Avete udito che fu detto: Amerai il prossimo tuo e odierai il tuo
nemico. Io invece vi dico: amate i vostri nemici.
Matteo 5,43-44
Cioè: invece di dover per forza amare i tuoi connazionali, prova ad amare
chi è molto diverso da loro – e dunque anche a pensare in modo molto
diverso dai tuoi connazionali, dato che se ami qualcuno devi perlomeno
sapere come la pensa su tante cose, e puoi sapere come la pensa solo
pensando per un po’ come lui.
In un altro punto, Luca 10,25-37, a un intellettuale che gli ricorda il
comandamento biblico «ama il prossimo tuo come te stesso», Gesù
risponde raccontando la parabola del buon samaritano. Ti ricordi com’è? È
la storia di un uomo di Giudea, che mentre era in viaggio viene aggredito e
ferito dai briganti. Quell’uomo di Giudea rimane mezzo morto sul ciglio
della strada. Due suoi connazionali gli passano accanto, lo vedono e non
fanno nulla per aiutarlo. Poi passa un tizio della Samaria, che era
tradizionalmente nemica della Giudea, e questo samaritano aiuta il ferito.
Al che Gesù domanda:
Quale dei tre passanti ti sembra sia stato il prossimo dell’uomo che si
era imbattuto nei briganti?
Luca 10,36
Cioè chi dei tre si è comportato come ci si dovrebbe comportare con un
connazionale? Gli rispondono che è stato il samaritano, cioè uno straniero
nemico. E Gesù è soddisfatto di questa risposta.
«Il che comporta un grosso problema: se ami un nemico, i tuoi
connazionali se ne avranno a male e ti odieranno. In pratica, quel che Gesù
esorta a fare è non voler andare d’accordo con il proprio prossimo, e non
dipenderne. Ma questo che c’entra con i de-sideri?»
Le conseguenze di questa esortazione sono più vaste di quel che ti sta
sembrando. Se te l’avessero spiegata per tempo, fin dall’adolescenza non
avresti lasciato che la collettività decidesse il tuo modo di vivere. Ma è
andata così, e oggi, per amorevole solidarietà con il tuo prossimo, sei
ingranato nella nostra civiltà occidentale, come una rotella in un congegno.
È una civiltà ferma e perciò piena di paura. E anche tu obbedisci al tuo
prossimo – cioè ai tuoi connazionali – per paura, invece di de-siderare
qualcos’altro.
«Obbedisco per paura o per amore? Non mi è chiaro e ci terrei a
chiarirlo».
L’amore è un sentimento complicato e ambivalente. Ti sarai accorto che si
teme chi si ama e dunque si ama chi si teme. Io penso che nel tuo amore per
il tuo prossimo ci sia anche molta paura.
Tuttavia stai discutendo con me, mi stai ascoltando, mentre ti parlo di
queste cose. Ti interessano, se no avresti lasciato da parte il libro già da un
pezzo. Dunque è vero: una qualche parte di te, vedremo se piccola o grande,
è proprio asociale e sta ragionando sul fatto che vivere secondo il mondo è
uno spreco di vita. Ti sta venendo l’idea che potresti cominciare a pensare e
a sentire più del tuo prossimo, più rapidamente del tuo prossimo.
«E questa parte sarebbe il mio io asociale?»
Sì. Quello che adesso se ne sta per conto suo, perché tu non lo fai vedere
in giro. Pensare e sentire più dei tuoi prossimi ti condurrà nell’asocialità:
significherà perdere contatto con tutte o quasi tutte le persone che stai
frequentando ora nel tuo Paese, perché non capiranno più quello che dirai.
Ti sentirai solo. Ma intuisci anche che in Occidente ci sono non pochi
individui che stanno ragionando proprio come quella parte di te, che per
adesso è depressa.
«Stai cercando di convincermi che gli outsider saprebbero de-siderare
meglio degli altri, e cambiare mondo? In tal modo darai ragione a me: l’ho
detto fin dall’inizio che la sopravvalutazione del desiderio è una
conseguenza dello stress. Essere outsider è uno stress perenne, e io ne so
qualcosa».
È comunque l’unico modo di essere se stessi, quando si è in questo
mondo; ma può diventare una condizione fruttuosa soltanto se si dà al
nostro io asociale il diritto di non nascondersi.
«Cioè di entrare in conflitto con il proprio io sociale e poi con il mondo
intero? Cioè di trasformarsi da emarginati in ingombranti? Conosco la
storia: beati i poveri di spirito, beato chi ha fame e sete di giustizia. Io sono
sempre stato povero di spirito, e tanto nervosamente assetato e affamato di
giustizia, da mettere continuamente alla prova il senso di giustizia di tutti,
in terra e in cielo. Ci ho guadagnato qualcosa? Solo cattiva reputazione. E,
in tutto l’universo, forse solo Dio è più stressato di me. Ecco cosa vuol dire
entrare in conflitto con tutti! E credi che gli io asociali delle persone
sarebbero abbastanza robusti da reggere?»
Non lo credo. È probabile che quelle tante persone che nascondono in sé
un io asociale se ne staranno ciascuno per proprio conto, dissimulando per
anni, forse per sempre, la loro differenza dal “prossimo”; e quando saranno
scomparse nessuno saprà più nulla di ciò che provavano.
Ma io posso immaginare. E voglio e posso immaginare che trovino il
modo di riconoscersi l’un l’altra e di comportarsi di conseguenza, insieme:
cioè di pensare, parlare, decidere, comportarsi davvero come esseri
differenti dalla loro civiltà e da qualsiasi altra. Se fosse così, si formerebbe
una nuova specie psicologica e culturale, come a volte si formano nuove
specie animali. Una speciazione di incivili (come altro potrei chiamarle?),
alle quali l’assoggettamento di un individuo al suo «prossimo», cioè a una
civiltà, farà la stessa impressione che fanno oggi cose che solo qualche
generazione fa sembravano inevitabili e vantaggiose per tutti a tutti, come il
servizio militare obbligatorio, la giornata lavorativa di dieci ore, la servitù
della gleba o il commercio degli schiavi. Quegli incivili esploreranno e
realizzeranno un mondo di de-sideri.
«Immagina pure. Probabilmente il loro amore e la loro paura dei
connazionali li paralizzerà, come li ha sempre paralizzati».
Non solo. C’è anche un’altra ragione, un altro tipo di limiti ed errori, che
può rinforzare in loro sia la paura, sia i meccanismi di difesa, sia lo sforzo
di ignoranza che è indispensabile per rimanere a lungo dove si è nonostante
i fenomeni depressivi: ed è il senso di colpa, cioè la sensazione di non
meritare nulla di bello, di libero, di grande. È il principale ostacolo ai de-
sideri.
«Non è anche quella una forma di paura? La cosiddetta paura del
successo?»
La differenza è che chi ha paura può dimostrarti, a volte, di avere motivi
validi: può cioè indicarti un pericolo reale. La convinzione di non meritare,
invece, non ha mai fondamento, dato che il merito non esiste. Un albero
non merita, una nuvola non merita, un falco, un virus non meritano, e
neppure tu: perché meritare significa ricevere quel che è dovuto, e
l’universo non deve nulla a nessun vivente, né i viventi devono nulla
all’universo. Esiste invece, ben constatabile, quella che i cristiani chiamano
la “Grazia”, e gli ebrei ḤeṢeD: un’abbondanza inesauribile di campi
d’azione e di occasioni. Ma questa abbondanza appare troppo semplice a
chi si è lasciato complicare l’esistenza dal comunissimo, contagiosissimo,
inesorabile senso di colpa.
IL SENSO DI COLPA
C’è chi lo confonde con il rimorso, dicendo per esempio “Mi sento in
colpa per averti fatto quella mascalzonata”. Ma è sbagliato, e io ho
l’impressione che sia sbagliato apposta: che molti usino a sproposito
l’espressione “senso di colpa”, perché se la usassero correttamente ne
sarebberro atterriti.
La differenza tra senso di colpa e rimorso è che il rimorso puoi averlo
soltanto per qualcosa che hai fatto o non hai fatto; il senso di colpa, invece,
lo hai per qualcosa che sai di essere. Io mi sento in colpa vuol dire che io
sento me in un determinato modo, sento che ciò che sono non va bene.
E, proprio perché riguarda il nostro essere e non il nostro fare, il senso di
colpa è particolarmente tenace. Mentre un rimorso lo posso annientare
facendo qualcosa per rimediare a ciò che ho fatto di male, il senso di colpa
non me lo posso togliere, perché io sono ciò che sono, e ciò che io sono
precederebbe e determinerebbe qualunque cosa io provassi a essere di
diverso.
«Certo, l’essere precede il fare».
Almeno, così sarebbe nel mondo che conosco già, nella mia situazione,
cioè, che per anni ho continuato a sistemare in ogni minimo dettaglio in
modo da farla corrispondere ai vari “io” che io sono.
«Spiega meglio quest’ultima cosa».
Il tuo mondo corrisponde sempre a quel che sei. Così, perché tu non fossi
più ciò che sei dovrebbe cambiare anche il mondo intero: e perché il tuo
senso di colpa scompaia dovresti cambiare mondo.
«Sempre lì vai a parare. Ma ascolta, a proposito del senso di colpa: può
esserti utile sapere che l’inferno, o diciamo meglio il cosiddetto inferno,
consiste esattamente di ciò che stai dicendo, e non è chissà dove nell’aldilà,
ma è nel mondo. Per usare le tue parole, dirò che è un modo di essere nel
mondo, un modo di fare esistere te stesso e il mondo per te. E il bello è che
sotto sotto lo si sa da sempre, da quando ci si è cominciati a immaginare
l’inferno. Non è forse il luogo in cui si obbligano i dannati a scontare le
proprie colpe? I dannati, nota bene. Quelli che sono e non possono non
essere colpevoli, come li hai descritti tu. Il mondo così com’è per loro è il
loro supplizio, da cui non possono uscire, perché, che io sappia, non si esce
dal mondo».
Certo che si può uscirne.
È capitato in passato: gli emigranti che giungevano in America
centovent’anni fa, si ritrovavano d’un tratto in un mondo diverso e
diventavano diversi, liberandosi rapidamente del senso di colpa che li aveva
attanagliati da sempre. Irlandesi, o meridionali italiani, o ebrei russi o
polacchi o ungheresi e così via, nel loro Paese d’origine erano stati convinti
fin dall’infanzia di essere colpevoli di inferiorità essenziale: persone nate
peggio del loro prossimo, e che erano e non potevano non essere peggiori
del loro prossimo. In patria, questa loro convinzione era talmente forte da
costituire un elemento stabile del sistema economico: la produttività del
Meridione d’Italia, dell’Irlanda, dell’Impero russo e dei vari territori
polacchi sarebbe stata diversa se un qualche prodigio avesse d’un tratto
guarito tutta quegli individui dal senso di colpa, permettendo loro di
cogliere occasioni di miglioramento o di inventarsene. Ma un prodigio del
genere non è avvenuto mai, in Occidente, per lo stesso motivo per cui in
nessun lager nazista si ebbero mai rivolte degli internati: il senso di colpa ha
una straordinaria capacità di associarsi all’ignoranza, all’autoidentificazione
con l’avversità e soprattutto con la paura, tanto da diventare invincibile
proprio come quest’ultima. Ma (c’è un ma, caro diavolo) l’invincibilità del
senso di colpa è limitata al contesto in cui si è sviluppato. Infatti, nel
continente americano, il destino di moltissimi emigrati cambiava: d’un
tratto scoprivano di avere e di poter mettere a frutto talenti nuovi.
«Per forza, si trovavano in un nuovo sistema economico, in forte ascesa».
No. Se la pensi così non hai mai fatto caso a come si manifesta il senso di
colpa. È un processo psichico che ti condanna a restare in basso, perché ti
impedisce di immaginare, di rischiare, oltre che di rallegrarti davvero per
qualsiasi tua sia pur piccola riuscita. Se non si fossero scrollati di dosso il
loro senso di colpa, quegli emigrati avrebbero condotto una vita misera
anche negli Stati Uniti, al pari di tanti altri statunitensi. Invece, una volta
che si erano lasciati indietro la patria, diventavano iperattivi. Io me lo
spiego con l’ipotesi che il senso di colpa non sia soltanto un processo
interiore ma anche una dinamica relazionale: che possa mantenersi, cioè, se
trova costantemente conferma nel tipo di rapporti che chi soffre di senso di
colpa si è abituato ad avere con l’ambiente circostante.
Quindi, se una persona è incagliata nel senso di colpa è perché, con il
passare dei decenni, ha scelto di accorgersi solo di quei fatti che lo
confermavano e lo rafforzavano: ha notato, considerato, ricordato ciò che il
suo senso di colpa voleva che notasse, considerasse, ricordasse. Il che non
soltanto ha determinato il suo atteggiamento, ma ha influenzato
l’atteggiamento degli altri nei suoi confronti: saprai, infatti, che in larga
misura noi facciamo in modo che gli altri si comportino con noi come ci
aspettiamo che si comportino. A ciò si aggiunga l’influsso esercitato dal
senso di colpa delle generazioni precedenti: in alcuni luoghi, come
nell’Impero Russo, da secoli gli ebrei erano considerati inferiori; nel nostro
Meridione, alla fine del secolo XIX, il senso di inferiorità degli abitanti era
diventato intollerabile dopo l’unità d’Italia, cioè da una quarantina d’anni.
Ora immagina: come ti saresti sentito tu, in un luogo in cui tutto ciò che
percepivi era in qualche modo segnato dal senso di colpa tuo e dei tuoi
genitori, e nonni, e avi? E come ti saresti sentito, sbarcando dal piroscafo, in
una città dove tutto era nuovo e nessuno sapeva nulla di te?
Avresti potuto tentare di ricostruire lì quei rapporti con l’ambiente ai quali
eri abituato, così da sentirti tanto colpevolmente inferiore come ti sentivi in
patria: ma sarebbe stata un’impresa gigantesca, dato che lì conoscevi e
capivi pochissimo. Ti ci sarebbero voluti anni per modellare la tua vita
americana in modo che riproducesse l’inferno colpevole della tua vita
siciliana, irlandese, russa o polacca. Invece dovevi darti da fare al più
presto, per vivere. In tal modo, arrendendoti alla tua incapacità di riprodurre
lì le condizioni ambientali indispensabili al tuo senso di colpa, te ne
scoprivi libero, e potevi essere nuovo.
Ma (purtroppo c’è un altro ma) questa guarigione geografica poteva
avvenire allora, quando le Americhe, oltre a essere più sviluppate o più
capaci di sviluppo di quanto non lo fossero alcuni Stati europei, erano
radicalmente diverse da questi ultimi: a new world. Oggi non è più così,
innanzitutto perché le distanze non sono più quelle di allora.
Già nel secondo dopoguerra l’emigrazione italiana in Paesi del Centro
Europa non produceva rinnovamenti tanto radicali come quelli che avevano
sperimentato i loro nonni in America: perché il viaggio era troppo breve, e
il cambiamento d’ambiente troppo poco significativo. Oggi, i Paesi
economicamente più sviluppati del nostro sono omogenizzati da internet: se
ti trasferissi oggi negli Stati Uniti, rischieresti di continuare a comportarti
più o meno come prima di partire, proprio perché ti ci saranno volute poche
ore d’aereo per arrivarci. Mentre se ti trasferissi in un Paese sottosviluppato,
al tuo senso di colpa che finora ti ha fatto credere di meritare poco si
aggiungerebbe un’aggravante: la sensazione di essere stato
immeritatamente più fortunato degli abitanti di quel Paese, perché sei nato
nel ricco Occidente.
«Quindi ho ragione: oggi se uno ha il senso di colpa se lo tiene? E se uno
non ce l’ha? Conosco persone a cui sembra di non averlo, e non si tratta di
vecchi emigrati».
Secondo me, è solo perché hanno paura di accorgersi che ce l’hanno. Ma
possono continuare a ignorarlo soltanto se sono di quelli che credono che la
religione, la politica, la morale, la cultura e i più ricchi di loro non stiano
facendo il possibile per farli sentire insufficienti.
No, convincitene: il nostro mondo così com’è non reggerebbe nemmeno
un’altra settimana, se potesse prodursi quella prodigiosa immunità dal senso
di colpa sulla quale avevamo fantasticato due pagine fa. Ma nel nostro
mondo non possiamo farci niente: il dogma del peccato originale – cioè del
senso di colpa inevitabile e ineliminabile – esprime ancor oggi una realtà
della psiche, che tutte le nostre istituzioni hanno sempre avuto cura di
mantenere e rinvigorire, nutrendolo di ignoranza. Ignorarlo non porta a
nulla, così come ignorare le conseguenze dello smog sulla salute degli
abitanti di una metropoli non diminuisce il tasso di metalli pesanti nel loro
corpo. Quel che occorre è trovare un equivalente dell’emigrazione di
centovent’anni fa.
«Bene. Prova a scoprirla! Usa pure la tua immaginazione ottimistica».
È tutt’altro che semplice. Siamo arrivati al punto principale: l’avevo detto
che qui avremmo trovato il maggior ostacolo al de-siderio. Qui ci sono i
confini del mondo.
«Ti propongo un accordo, se questo ragionamento sarà troppo difficile e
non riuscirai a venirne a capo: ammetti che il de-siderio è un’illusione, bella
quanto vuoi ma pur sempre un’illusione, il cui scopo è trovare qualcosa da
fare dentro di sé quando fuori non si può fare nulla di quel che si vorrebbe;
e io in compenso riconoscerò che, nella mente delle persone più sensibili,
questa illusione è necessaria per vivere, anche se non porta a nulla. Ti va?»
No. Dammi il tempo e trovo la via. Non ti dispiace se ti obbligo a pensare
con me?
«Sentiamo».
Innanzitutto, valutiamo le conseguenze del senso di colpa sulla nostra
capacità di de-siderare.
Da quanto abbiamo detto finora, sappiamo che de-siderare significa
decidere di aver bisogno di qualche cosa che nel nostro mondo attuale non
ci è data.
Per conoscere che cosa sia quel qualcosa che de-sideri, devi aver guardato
più in là del tuo mondo attuale.
Per guardare più in là, devi superare i confini del tuo mondo,
trasformandolo in una situazione.
Quando si esce dal proprio mondo attuale, i problemi aumentano
inevitabilmente, dato che de-siderare una cosa al di là di esso è accorgersi di
avere un problema che prima del de-siderio non c’era. Per continuare a de-
siderare qualcosa dopo esserti accorto che de-siderarla è un problema, non
ti servirà a granché confidare nella tua capacità di risolvere e superare
problemi: infatti, se tu avessi avuto quella capacità, avresti già ciò che ora
puoi soltanto de-siderare. Dovrai invece confidare in capacità che ancora
non hai.
Per confidare in capacità che ancora non hai, dovrai aprirti alla possibilità
di averle.
Dunque chiedere che un tuo de-siderio si realizzi (sia che tu lo chieda a
Dio, alla sorte, all’universo, o a qualcuno di preciso) è sempre un chiedere
innanzitutto e in ultima analisi a se stessi.
De-siderare è chiedere innanzitutto a se stessi, perché per esprimere
chiaramente un desiderio devi darti preliminarmente il permesso di pensare,
di prendere sul serio, di formulare la richiesta: quel permesso, tu puoi anche
non dartelo – e, se hai un senso di colpa, quel permesso non te lo darai.
E de-siderare è anche chiedere in ultima analisi a se stessi, perché quando
formuli la richiesta ti metti in gioco. Metti alla prova la tua capacità di
reggere all’inevitabile aumento di stress che comporteranno l’aver espresso
il de-siderio e l’attesa che si realizzi. Ma nulla esaurisce quanto il sentirsi
sbagliati: e la quantità di energie psichiche che il senso di colpa deprime e
consuma fa apparire insostenibile un ulteriore aumento di stress.
Così la possibilità di de-siderare è preclusa a chi abbia un senso di colpa.
«Non fai che darmi ragione. Se dici che il senso di colpa ce l’hanno tutti,
ne consegue che il de-siderio di cui parli tu è un’esperienza impossibile.»
Fin qui sì, hai ragione: ma questo capitolo prosegue ancora per diverse
pagine.
«Adesso mi dimostrerai che questo influsso del senso di colpa sulla
capacità di de-siderare si potrebbe dissolvere con una qualche tua
rielaborazione dell’autostima? O con il pensiero positivo? Daresti ancora
ragione a me, dato che io l’autostima la ritengo importante».
Il pensiero positivo è la rassegnazione allo status quo. Al pari
dell’autostima, è un modo di non avere problemi, non di averne; perciò
bloccherebbe tutto il processo di de-siderare fin dall’inizio. Se uno de-
sidera, è perché ha bisogno di cose che non ha: cioè, non ha saputo valere e
fare abbastanza per avere quelle cose. Chi ha una forte autostima non
ammetterebbe mai di aver saputo valere e fare abbastanza.
«Io invece continuo a pensare che l’autostima possa spingere una persona
a desiderare più di quel che ha, proprio perché si convincerà più facilmente
di poter avere quel che desidera».
Può darsi. Ma sarebbero desideri ipocriti.
Oltre a convincersi di aver sempre fatto tutto nel migliore dei modi e di
aver ottenuto più o meno tutto ciò che voleva, chi ha una forte autostima si
tiene alla larga da tutte le situazioni che potrebbero peggiorare l’opinione
che ha di sé: e l’unico modo di tenersene alla larga è non accorgersi di quel
che veramente de-sidera. Quindi, quando si porrà un obiettivo, si
preoccuperà che sia realizzabile, e non che sia qualcosa di cui sente davvero
la mancanza.
«Cioè si abituerà a convincersi di desiderare ciò che in realtà non de-
sidera?»
Certo. Così, se non riuscirà a ottenerlo, potrà sempre dire che in fondo non
gli occorreva.
«Allora vedi che non c’è proprio via d’uscita. Chi soffre del senso di colpa
non è in grado di de-siderare, e così pure chi contrappone al senso di colpa
l’autostima. Il senso di colpa è diffuso ovunque, e il de-siderio si direbbe
destinato a rimanere nel profondo dell’animo di quello che tu chiamavi: il
nostro essere asociale. Il rimedio qual è, nella tua teoria? Ricorrere al
perdono?»
No: non ci si libera del senso di colpa perdonando se stessi, o facendosi
perdonare da qualcuno. Sappiamo che il senso di colpa non è suscitato da
un atto compiuto, ma è un modo di sentire se stessi. Perdonare significa
rifiutarsi di prendere provvedimenti contro qualcuno, e tollerarlo per quel
che è: quindi, perdonarsi di essere come si è non porta a nulla, se non a
rassegnarsi a quel che si è.
«Quindi?»
Ampliamo il nostro ragionamento.
«Ancora digressioni!»
Ascolta. Ogni tuo de-siderio, nella sua fase iniziale, consiste in un atto di
conoscenza: è lo scoprire che cosa de-sideri. E poiché l’oggetto di un tuo
de-siderio è qualcosa che nel tuo mondo non c’è, all’origine di ogni nostro
de-siderio deve necessariamente esserci un de-siderio di conoscere qualcosa
di più di ciò che nel tuo mondo conosci già.
«L’hai già detto».
Ma il nostro conoscere è limitato: ognuno sa che dal giorno della sua
nascita ha sempre imparato cose nuove, e altre ne imparerà – superando
ogni volta limiti ulteriori del suo sapere – ma sa anche che non tutti i limiti
del conoscere si possono superare. Al di là di questi limiti si trovano i
«perché?» che ti avevo elencato nello scorso capitolo: Dio, e quel che segue
alla morte, e l’origine della vita e via dicendo. Molte persone illustri, nel
corso dei secoli, hanno discusso su vari aspetti di questa insuperabilità. La
questione più importante che si è posta in proposito è stata: quei limiti non
si possono superare perché è impossibile superarli, o perché è proibito?
Ovvero, a dirla in un’altra lingua più precisa della nostra riguardo al potere:
you can not oppure you may not?
I più ottimisti riguardo all’intelligenza umana sono, naturalmente, coloro
che hanno pensato che sia proibito sapere più di tanto: noi potremmo
superare quei limiti della conoscenza, we can do it, ma qualcun altro o
qualcosa che non è in noi ce lo vieta. A pensarla così sono state, spesso,
persone religiose, e per definire tale insuperabilità hanno usato la parola
“sacro” – dal latino sacrum, che significa “ciò che emana un potere
pericoloso”, e a cui perciò non bisogna avvicinarsi.
I più pessimisti, per esempio Kant, sono invece convinti che noi non
abbiamo la possibilità di sapere più di tanto, we can’t, e che è inutile che ci
sforziamo.
Si potrebbe provare a mettere d’accordo ottimisti e pessimisti dicendo che
certi divieti sacri – certi you may not con i quali si voleva limitare la nostra
intelligenza – hanno esercitato sulla nostra psiche un influsso talmente
potente e prolungato, che la nostra psiche ha finito per conformarvisi, e si è
strutturata in modo da escludere la possibilità di violare quei divieti: di aver
paura della paura della paura della paura di violarli. Tale impostazione della
nostra psiche, col passare del tempo, può essere diventata una tradizione, un
automatismo collettivo, ed ecco che oggi non possiamo perché non ne
saremmo più in grado, we can’t. Non penso che né i pessimisti né gli
ottimisti avrebbero da obiettare a questo tentativo di conciliazione.
Dunque, noi non abbiamo la possibilità di conoscere Dio, o che cosa vi sia
oltre la morte, o le origini della vita sul pianeta, e non lo potremmo
nemmeno in un mondo diverso dal nostro, perché la nostra mente si è
formata in modo da sapere e da constatare sempre e comunque di esserne
incapace, in obbedienza a un divieto istituito chissà quando.
«Il che pone limiti al nostro de-siderare, e dà nuovamente ragione a me».
Sì. Ma a questo punto possiamo domandarci chi o che cosa avrebbe
imposto quel divieto, e quando.
Quando sia avvenuto, non lo sappiamo. Ma se supponiamo che risalga a
molto tempo fa, andiamo incontro a problemi veramente insuperabili. Come
spiegare il successo di quel divieto? Da quando esistono i divieti, l’umanità
non ha fatto altro che violarli. Perché proprio con questo divieto di
conoscere gli uomini si sarebbero comportati diversamente? Non se ne vede
il motivo. Forse l’obbedienza a un particolare divieto può diventare
ereditaria? Io ne dubito molto.
L’unica ipotesi che possiamo avanzare è che il divieto imposto alla
conoscenza, ovvero il sacrum, sia il risultato di un’esperienza che la
stragrande maggioranza degli individui hanno avuto nei primi anni della
loro vita, quando la loro mente era aperta come non mai all’apprendimento
e alla scoperta. Proprio perché la mente infantile è così aperta, così pervasa
dal desiderio di conoscenza, è da escludere che i bambini si procurino da
soli quell’esperienza limitante. Devono dunque essere stati gli adulti, a
determinarla. Dunque, la nostra capacità di conoscere è bloccata da limiti
sacri perché, quando eravamo bambini, il nostro desiderio di conoscenza è
stato danneggiato da un certo comportamento degli adulti, che
evidentemente si perpetua di generazione in generazione, dato che i nostri
limiti sacri sono molto antichi.
Ci deve essere un qualche inciampo che da molto tempo gli adulti non
riescono a superare, e che, generazione dopo generazione, determina quel
loro comportamento che danneggia la capacità di conoscere dei bambini. Al
contempo, questo inciampo degli adulti è la conseguenza dei divieti di
conoscere che, quando erano bambini, erano stati loro imposti da altri
adulti, che quando erano bambini avevano subito quei divieti da altri adulti,
che quando erano bambini avevano subito quei divieti da altri adulti, e così
via. Se riusciamo a definire questo inciampo, troviamo l’origine del sacrum,
dei limiti della conoscenza – che sono i limiti del mondo che già
conosciamo.
«E tu pensi che abbia a che fare con il senso di colpa?»
Anche. Chiunque si avvicini a un sacrum (tanti, chissà perché,
preferiscono il termine tabù, che è polinesiano) sperimenta uno stato
d’animo spiacevole, addirittura doloroso, prodotto da un acuirsi delle
pressioni selettive che ben conosciamo: avverte l’imminenza di una
frustrazione, ansia, paura; adotta meccanismi di difesa, per difendere se
stesso da qualche suo eventuale impulso a conoscere ciò che il sacrum gli
vieta; preferisce non sapere: rimanere ignorante lo rassicura; e soprattutto si
sente in colpa, per essersi avvicinato a qualcosa di proibito. Il che spiega,
per esempio, perché i fedeli che si accostano all’altare per un sacramentum
abbiano tutti un’aria triste.
«Ci sono tutte le nostre pressioni selettive».
Tutti i nostri limiti ed errori.
Ora – se è giusta la mia teoria dell’inciampo perdurante che ci ha
danneggiati tutti – sarebbe utile ritrovare gli episodi della nostra infanzia,
nei quali ci venne istillato il timore del sacrum: si tratterà di tornare con la
memoria a un’occasione in cui, nei primi anni di vita, avevamo provato
frustrazione, ansia, paura, voglia di conoscere ma al tempo stesso di
ignorare, oltre a un grande senso di colpa, e avevamo messo in opera
meccanismi di difesa che ci proteggessero da questo po’ po’ di turbamento.
Tu hai idea di come avvenne?
«Non ricordo proprio».
Fu in una qualche notte, o di prima mattina, o magari un pomeriggio, di
chissà quanti anni fa: tu potevi essere tra i tre o quattro anni. In un’altra
stanza mamma e papà facevano qualcosa. Tu avevi intuito che cosa.
Hai guardato. O stavi davanti alla porta chiusa, o socchiusa, e ascoltavi.
Oppure eri nella stessa stanza, e mamma e papà pensavano che dormissi.
Ricordi?
Forse no, perché il sacrum si è esteso a quel tuo ricordo. In tal caso è
possibile che non lo ritrovi mai più, quell’inizio dei limiti della tua
conoscenza. Ma provo a parlartene io.
Stavi lì e guardavi. Ciò che provasti allora fu un senso trafiggente della tua
inadeguatezza. Loro erano incomparabilmente più grandi e più forti di te.
C’era nei loro movimenti un vigore che, se si fosse rivolto contro di te, ti
avrebbe annientato, ucciso; e tu ti domandasti: «Se io facessi questa cosa
che stanno facendo loro, sicuramente soffrirei: potrei sopravvivere?»
Eppure loro ci riuscivano. Non ne avevano paura.
Ci riuscivano e anzi ne godevano. E non avevano bisogno di te, in quel
momento: tu eri di troppo. Forse l’avevi già pensato altre volte, che loro due
sarebbero potuti benissimo stare senza di te, mentre tu senza di loro no. In
ogni caso, lì lo pensasti.
Sì, ma che cosa facevano? Cos’era? Tu non sapevi come si chiamasse. Eri
talmente ignorante. Loro non ti avevano mai parlato di quella cosa.
Certe volte eravate arrivati molto vicini a parlarne – perché tu avevi
chiesto, tu avresti voluto sapere – ma le loro facce e le loro voci erano
diventate talmente imbarazzate. Tu, nemmeno questa parola sapevi:
imbarazzo. Vedevi le loro espressioni e pensavi: cos’è, cos’hanno, perché
sembra che si allontanino da me anche se stanno fermi? C’è qualcosa di
brutto in quello che ho chiesto? Io sono brutto perché ho chiesto? Ti era
sembrato, quelle volte, che si stessero difendendo da te. Era stato molto
triste.
E adesso, ascoltando, spiandoli, eri tu che tentavi di difenderti da te stesso:
quel qualcosa che stavano facendo ti attirava talmente, e non bisognava,
non era bene che tu ci fossi, lì, eri colpevole di esserci. Una parte di te
voleva restare e un’altra parte no, entrambe lottavano l’una contro l’altra.
Lì, probabilmente, cominciò a formarsi il tuo io asociale. E intanto, da
quello che provavi non c’era difesa possibile.
«E che cosa provavo?»
Provavi, innanzitutto, ciò che poi avresti imparato a chiamare gelosia:
un’agitazione che ti squassava e sembrava spaccare qualcosa dentro. Di
quale dei due genitori eri più geloso in quel momento? Cosa avresti voluto
fare, per gelosia? Questo è difficile che te lo ricordi, era troppo tremendo.
Troppo colpevole. Già allora, di istante in istante, cominciasti a
dimenticarlo: a ogni istante dimenticavi l’istante precedente, e poi, alla fine,
lottasti dentro di te, contro di te, per dimenticare tutto.
E se ti videro, poi cercarono di dimenticare anche loro.
Pensarono che si usasse così nella civiltà: che dovesse esserci, nella
civiltà, questa proibizione.
Così imparasti che nel de-siderare di sapere c’è qualcosa di male.
Non per nulla la parola sacrum ha la stessa origine di “sesso”: deriva
dall’indoeuropeo -o -, che significava “tagliar fuori”, “separare”,
“escludere”. L’indoeuropeo è la protolingua da cui, secondo gli esperti,
sarebbero derivate le lingue europee: se gli esperti hanno ragione, la si parlò
da qualche parte tra il Punjab e l’Europa sette o ottomila anni fa. Dunque
già allora si era intuita una connessione tra gli atti sessuali dei genitori e le
limitazioni del desiderio di conoscenza? Non è un’ipotesi insensata.
In uno dei più antichi miti hindu si narra che il Dio Shiva-Rudra scagliò
una freccia contro suo padre Brahma-Prajapati, quando lo vide accoppiarsi;
dallo sperma di Brahma misto al sangue di quella ferita ebbe avuto origine
l’umanità; e da allora Shiva fu un Dio colpevole, agli occhi di tutti gli altri
Dei. Tu capisci questo linguaggio mitico, sì? Significa che quattromila anni
fa si poté già pensare che al principio dell’esistenza umana ci fossero la
collera, il crimine e la colpa di un figlio che aveva guardato suo padre fare
l’amore.
E Adamo ed Eva si accoppiarono mentre Dio non guardava, e anche Dio
andò in collera, quando lo seppe: nella Genesi non è scritto così, ma così
venne e viene inteso – e anche questo è importante. Lo si poté intendere così
perché qualcosa, nel corso delle generazioni, fece sembrare sensato che la
perdita del Paradiso e il peccato originale dipendessero dalla scoperta degli
atti sessuali dei due progenitori dell’umanità. Ora, vorrei tanto domandarti
come ti immagini quel Dio che lì scoprì e si infuriò: come un vecchio, o
come un bambino?
«Un Dio bambino?»
Proprio come lo eri tu, quella volta.
«Dio è un bambino. Non mi era mai venuto in mente. Chi è il diavolo, chi
sta tentando chi, tu o io?»
Non dire sciocchezze.
Poi ci fu Edipo, che divenne cieco quando scoprì di aver ucciso il padre e
di aver preso il suo posto accanto alla madre. Il linguaggio del mito va
interpretato. Quel diventare cieco è un simbolo del - -: esprime
l’origine traumatica dei limiti della conoscenza. Anche noi siamo diventati
in qualche modo ciechi, dopo aver visto ciò che non dovevamo vedere. E ai
tempi di Sofocle, quattro secoli avanti Cristo, questa intuizione era già
antica.
Dopo d’allora si succedono, nei millenni, tante altre intuizioni di quel
trauma del desiderio di conoscenza: dal principe Amleto – che immagina
disgustato gli amplessi della madre con il re che lo vuole uccidere, e che lui
ucciderà – fino alla teoria di Freud, secondo cui l’evoluzione della psiche è
bloccata dall’antichissimo senso di colpa di figli che non potevano accettare
la supremazia sessuale dei padri.
A proposito, anche a te è capitato qualcosa del genere, da bambino?
«Penso di sì».
Se ti capitò, avvenne prima dei quattro anni – a meno che, naturalmente,
tu non avessi avuto la triste fortuna di essere orfano, come le protagoniste e
i protagonisti delle nostre fiabe più celebri.
«Vorresti dire che c’è un rapporto tra l’aver perso almeno un genitore e la
conquista della celebrità?»
È solo una constatazione. Biancaneve, Cenerentola, Cappuccetto Rosso,
Aladino, Pinocchio sono orfani o hanno un genitore solo: nelle fiabe si
esprime, se non altro, il desiderio di credere che ci sia un rapporto inverso
tra il numero dei genitori presenti e le possibilità dei figli di compiere atti
memorabili e di scoprire meraviglie.
Ma dicevamo: avevi meno di quattro anni. Dunque quel tuo
sconvolgimento sarebbe stato un problema superabile, dato che a quell’età
la psiche è ancora discontinua, insulare: le esperienze destinate a fissarsi
nella psiche avvengono in seguito, nella cosiddettà età dell’imprinting, che
negli esseri umani sembra essere tra i sette e i dodici anni (non per nulla è
in quel periodo che la Chiesa cattolica inizia i ragazzini ai sacramenti della
confessione e della comunione, e somministra la cresima). Ma tu non
superasti quello sconvolgimento, perché in seguito venne rafforzato in una
serie di imboscate al tuo intelletto, alle quali non avresti potuto sottrarti in
alcun modo.
Forse non ti parlarono mai dell’arciere Shiva e di Brahma, e solo molto
più tardi scopristi Edipo e Amleto, ma nella tua religione, se è il
cristianesimo, imparasti presto che il momento in cui tale religione ebbe
inizio, e che costituisce altresì il suo più grande mistero, è quell’atto
chiamato Annunciazione, dopo il quale la giovanissima Maria si ritrovò
incinta. Fu un atto sessuale, dato che non c’è altro modo di concepire: e
viene proclamato imperscrutabile. - -!
Se invece la tua religione è l’ebraismo, hai imparato altrettanto presto dal
tuo rabbino che il momento in cui ebbe inizio la storia dell’umanità sulla
Terra fu quell’atto sciagurato compiuto dal primo uomo e dalla prima donna
mentre Dio – pur essendo onnipresente – era chissà perché altrove. Ma che
cosa avessero fatto precisamente quell’uomo e quella donna, il tuo rabbino
non te l’ha detto, perché parlare di queste cose è male. E perché mai Dio
andò in collera quando seppe che l’avevano fatto, neanche questo ti disse il
rabbino. Dio aveva pur creato gli animali, che si accoppiano senza
suscitargli indignazione? Perché non tollerò la stessa cosa negli esseri
umani, benché all’inizio avesse detto: «Crescete e moltiplicatevi»? Non ti è
stato detto. È imperscrutabile. - -.
Poi hai fatto un’altra scoperta: che guardare pornografia provoca
sensazioni stranamente inesauribili. Qualche decennio fa questa scoperta
avveniva attraverso fotografie. A partire dagli anni Ottanta gli adolescenti
lo scoprirono facilmente anche mediante filmati. Di quei filmati avevi
sentito dire che erano osceni: oscenità è una parola d’origine latina, che
significava “sudiciume, deformità” e anche “malaugurio”. Se da
adolescente avessi conosciuto questa etimologia, non ti avrebbe
meravigliato: fin da quella prima esperienza infantile ti era entrata in mente
l’idea che nel desiderio sessuale ci fosse qualcosa di ripugnante. Eppure
trovavi qualcosa che terribilmente attrae, nella pornografia: e secondo me
era proprio il bisogno, edipicamente cieco a sé stesso, di rivivere quei
momenti in cui eri rimasto ad ascoltare e spiare, e quella sofferenza
infantile che la tua mente cosciente ha dimenticato, e che in tutte le religioni
è sacra. - -!
«Quindi ciò che ci eccita guardando pornografia, è ancor sempre lo spiare
i genitori?»
Io penso di sì.
«Ma era stata un’esperienza dolorosa: come può essere eccitante e
produrre piacere?»
Come diavolo lasci un po’ troppo a desiderare. L’eccitazione è uno dei
modi in cui un dolore straziante, negato, disperatamente inesprimibile,
arriva in qualche modo a manifestarsi. Riviverlo è un piacere tristemente
masochistico, esprimerlo è un sollievo triste, ma pur sempre un sollievo. Se
così non fosse, guardare pornografia eccitandosi sarebbe altrettanto assurdo
quanto lo sarebbe per uno che ha fame eccitarsi guardando gente che
mangia con gusto.
E poi è toccato a te.
Hai scoperto il sesso. E naturalmente non è stato male.
Finchè non hai avuto bambini, il sesso per te è stata soltanto una cosa più
o meno bellissima. Il tuo corpo ne sapeva più di te, per tua fortuna, e
dirigeva le operazioni. Finché, con i figli, tutto ha cominciato a ripetersi. Ai
tuoi bambini è avvenuto quello che era avvenuto a te, e non hai potuto
impedirlo. Il tuo senso di colpa è diventato il loro, e anche in loro, come già
in te, il senso di colpa ha cominciato a interagire con la paura, con la voglia
di ignoranza, con i meccanismi di difesa.
Non l’hai potuto impedire, perché il senso di colpa ha plasmato la tua
psiche e la tua psiche non può controllarlo.
Il vago ricordo della sua origine si riaffaccia in te, sotto forma di
irritabilità, ogni volta che alle domande di un bambino rispondi malamente
di no. A irritarti non è l’insistenza di quelle domande: è il non poter fare
nulla contro le frustrazioni del de-siderio di conoscenza, che ci sono
imposte perché così va il mondo. Da bambino le hai subite, da adulto le
trasmetti. Ma, poiché ogni de-siderio è de-siderio di conoscenza, non puoi
neppure de-siderare di liberarti da quell’imposizione subita e riprodotta.
«E quindi, come fare?»
Come evitare questa situazione, intendi? Andrebbe diversamente se, nella
nostra civiltà, le tenerezze tra genitori diventassero momenti di gioia che da
loro due emanano intorno. Se, cioè, i due trovassero del tutto naturale
baciarsi sulla bocca, abbracciarsi, accarezzarsi davanti ai figli, e si
rallegrassero talmente di provare desiderio reciproco, da comunicare la loro
allegria ai bambini. «Che bella cosa che la mamma voglia stare il più vicino
possibile al papà! Che bella cosa che il papà guardi così la mamma! Non
c’è stupirsi se da queste cose così belle siete nati voi!»
Dopodiché risulterebbe solamente ovvio che mamma e papà si appartino,
per compiere i loro atti sessuali: così come ci si apparta per dormire o
riflettere o studiare, perché sono cose che riescono meglio se nelle
immediate vicinanze non c’è nessuno.
Allora il sacrum non ci bloccherebbe più, e la nostra civiltà si
trasformerebbe radicalmente.
«La civiltà?»
Certo. Cambierebbe non soltanto la psicologia, ma anche la psiche che gli
psicologi ci hanno convinti che abbiamo: cioè un apparato scisso tra
conscio e inconscio.
Da Freud in poi è stata instaurata la certezza che l’inconscio sia, come il
peccato originale, innato. Si sa che nella scienza non c’è certezza che non
produca danni, dato che la scienza procede per ipotesi, e nulla intralcia le
ipotesi quanto le certezze; ma riguardo all’esistenza dell’inconscio la fase di
ipotesi durò per brevissimo tempo, per poi lasciare il posto a una certezza
che di scientifico non aveva nulla, e che evidentemente rispondeva ad altre
esigenze, di cui né Freud né i suoi successori si accorsero.
«Voglia di ignoranza, paura, identificazione con il problema?»
Direi proprio di sì, caro il mio diavolo.
Un bambino non ha inconscio.
Per un bambino, fin verso i tre anni, la psiche e il mondo sono orizzonti
altrettanto aperti, che incessantemente si allargano in tutte le direzioni.
Sarebbe addirittura difficile stabilire dove quei due orizzonti confinino:
come se non li separasse una linea, ma qualcosa di ancor più sottile, un’area
infinitesima e indistinta. Com’è anche tra la nostra psiche e il nostro corpo,
e in genere, nella teologia più seria, tra lo spirituale e il materiale.
«Cioè? La psiche e il mondo? Non capisco».
Stai capendo ma hai paura di capire.
Immagina una stanza che ogni giorno si riempie di qualcosa di nuovo: così
è la psiche-mondo di un bambino. La differenza tra un bambino e un ex-
bambino, è che il bambino non ha ancora cominciato a dover nascondere a
se stesso qualcosa, in quella sua stanza. A un certo punto deve farlo,
improvvisamente: nel suo mondo-psiche gli càpita qualcosa di talmente
doloroso e incomprensibile, da non poterne sopportare il ricordo. Lì avviene
la svolta.
«Doloroso e incomprensibile come quella volta che ha spiato».
Si sa che un avvenimento sconvolgente è tanto più doloroso quanto più è
incomprensibile. Quindi, poniamo che il bambino non sia stato aiutato da
nessuno a comprendere le impressioni che lo hanno fatto soffrire, oppure
che non abbia osato chiederne spiegazioni. Lì, dicevo, avviene una svolta
decisiva, dovuta al fatto che far sparire quel ricordo non si può: una cosa
dolorosa e incomprensibile è anche ingombrante, e come puoi nasconderti
qualcosa di ingombrante in una stanza che conosci palmo a palmo e in cui ti
muovi quotidianamente?
«Potrei mettere quel qualcosa fuori dalla stanza».
Sì, se quella tua stanza non fosse il tuo mondo-psiche. Come puoi mettere
qualcosa fuori dal mondo? Fuori dove? Puoi soltanto mettere quell’oggetto
ingombrante in un angolo della stanza e importi di non guardare più nella
sua direzione. Così non lo vedrai più: potrai dimenticare un tuo contenuto
psichico – come dicono gli ex-bambini, pensando di dire una cosa del tutto
naturale, mentre è uno degli atti più brutali e complicati che la mente possa
compiere.
«È una mutilazione».
Sì. E per dimenticare quell’oggetto non avrai più accesso a una parte della
stanza. Così comincia a formarsi il cosiddetto inconscio.
«Dunque secondo te l’inconscio non è innato e tutta la psicologia moderna
si fonda su un presupposto sbagliato?»
Infatti. L’inconscio è un settore della psiche che da bambini abbiamo
cominciato a oscurare per non soffrire troppo. Ed è l’inizio di sofferenze
molto grandi. Supponi che nella tua stanza, in quell’angolo che ti sei
proibito di guardare, ci sia una porta che dà in un’altra stanza. E che
quell’altra stanza sarebbe stata meravigliosa a vedersi. Se vi avessi avuto
accesso, oggi saresti una persona meravigliosa, invece che un diavolo a
servizio di un progetto altrui.
«Tu sei crudele».
Non fare il furbo. Continua ad ascoltare. Oggi quella porta non è affatto
perduta, non è nel passato, è solo stata esclusa dalla tua mente cosciente, ad
opera dell’inconscio che hai creato per dimenticare un avvenimento troppo
traumatico.
«Dimenticare! In questo modo, per dimenticare, si può soltanto ricordarsi
in continuazione di aver dimenticato, perché se per un attimo ti dimentichi
di dimenticare, te lo ricordi. Che aberrazione!»
Paura della paura della paura. Colpa della colpa della colpa. Ignoranza
dell’ignoranza dell’ignoranza. Questo è l’inconscio. E sicuramente a
quell’avvenimento traumatico ne sono seguiti altri, rimasti inspiegati perché
nessuno te li ha potuti spiegare, un po’ perché così va il mondo, e un po’
anche perché hai imparato come si fa, con i traumi: li si nasconde in una
parte della psiche-mondo e ci si proibisce di guardare lì; così, di tante altre
cose dolorose o sconvolgenti non chiedi o non cerchi spiegazioni, perché
ormai sai dimenticarle. Hai imparato, diciamo, come si fa a non-conoscerle-
più. E in tal modo la tua stanza-mondo-psiche ti è diventata sempre meno
accessibile: se prima c’era soltanto un angolo precluso, adesso non puoi
voltarti verso metà della stanza, o anche di più.
E lo stesso è avvenuto con il tuo mondo: prima era un orizzonte aperto,
ora è pieno di ignoto, e d’ignoto inviolabile, precluso da un sacrum che,
qualunque sia la tua religiosità o irreligiosità, prende le forme più svariate,
tutte invincibili come la paura. Quell’area ignota del mondo e quell’area
ignota della tua psiche le immagini facilmente come ostili e potenti; e
perciò cerchi di non turbarle; le veneri, offri loro sacrifici, le aumenti. Così
è nella scienza, nella religione, nella vita quotidiana, nel tuo parlare con te
stesso, nel tuo guadarti intorno: in tutto, insomma.
«Mentre prima era tutto uno, o quasi. E sarebbe potuto essere così».
Ricordi: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel Regno dei
Cieli»? E nel buddhismo, nel Prajña parāmitā sutra, leggiamo che se un
bodhisattva pensasse di aiutare un qualsiasi essere vivente, quel bodhisattva
non sarebbe un bodhisattva, perché per un bodhisattva non esiste un essere
che sia distinto da un altro, ma tutto è uno.
«Non c’è il prossimo tuo?»
No, in verità. Non ci sono nemmeno gli altri.
«E allora perché ci lasciamo influenzare dal prossimo?»
Perché un bodhisattva è un bambino, e noi no.
«Dunque se non ci fosse ciò che gli psicologi attuali chiamano
grossolanamente l’inconscio, io conoscerei il mondo tanto quanto conosco
me stesso, e in ciò che vedrei intorno constaterei di continuo chi sono, come
guardandomi allo specchio…»
Più ancora: come tastando il tuo corpo.
«…e così sarebbe per ognuno, e ognuno sarebbe parte del mondo di ogni
altro, tu saresti un aspetto di me e io un aspetto di te, e non ci sarebbe più
quella che tu chiami situazione, ma soltanto un universo, nel senso più
stretto del termine: ciò che gira e si dispone attorno a uno, e in cui quell’uno
si esprime? Questo intendi?»
Così ho detto e così la penso, finora.
«Gli esseri umani sarebbero una moltitudine di universi?»
Esatto.
E ogni volta che uno cambiasse, cambierebbe mondo. E ogni volta che
uno de-siderasse qualcosa, scoprirebbe un altro mondo.
Invece, gli adulti, da quando imparano a non-conoscere-più, imparano
anche a non-conoscere in un modo tutto speciale né il mondo né se stessi.
Prima, durante l’infanzia, si trattava di un non conoscere ancora, e di uno
stare scoprendo. Poi, per loro, il non conoscere diventa un sempre più
ostinato, duro, impenetrabile non-poter-conoscere, in cui si cela un non-
voler-conoscere: un boicottaggio, insomma, del loro apprendere – dal quale
deriva tutto il nostro studio scientifico del mondo come di un qualcos’altro
diverso dalla nostra psiche.
«Be’, ma ci sono molte cose che non conosciamo davvero!»
Io mi chiedo se siano più numerose le cose che non conosciamo davvero,
o quelle che ci sforziamo di non conoscere, con il nostro non-conoscere-
più; e mi sa che queste due categorie dell’ignoto siano talmente intrecciate
l’una con l’altra da non poterle più separare. Quanto al mondo conosciuto,
io lo immagino come le figure di un bassorilievo: cose di cui noi vediamo
solo alcuni aspetti, mentre il resto è nella pietra da cui le abbiamo sbozzate.
E la pietra è ciò che gli psicologi attuali chiamano grossolonamente:
inconscio.
«E non vedremo mai gli altri aspetti?»
Non li vediamo per ora. Li possiamo conoscere solo de-siderandoli.
«Dunque se i genitori non producessero il timore del - l’inconscio
comincerebbe a sparire? Prima da alcuni bambini, poi da molti? E tale
sparizione si estenderebbe, grazie al successo esistenziale di coloro che
sono cresciuti senza quel - -? E le religioni perderebbero uno dei loro
fondamenti? E la psicologia prenderebbe direzioni oggi imprevedibili?»
Sì.
E la filosofia ridiventerebbe importante e nuova come non mai.
E invece che di thriller l’editoria popolare si nutrirebbe di storie di
esplorazioni, nelle quali le soluzioni dei misteri comincerebbero fin dalla
prima pagina invece di arrivare soltanto alla fine. Pensa, infatti, a quanto i
thriller siano sintomatici del nostro modo di vivere al di qua dei limiti della
conoscenza: per un libro intero il lettore proietta sulla vicenda narrata i
propri sensi di colpa e recita il ruolo di chi non sa ancora, e quando sa, non
c’è più niente da leggere. Così ci si immagina l’esistenza: come una lunga
impossibilità di sapere, racchiusa in un senso di colpa, da cui solo il finale
può liberare.
«Si ricomincerebbe a tendere la mano verso l’albero della conoscenza del
bene e del male».
E verso altri alberi dell’Eden. Che altro può fare oggi, l’uomo?
Tra l’altro, non si sopporterebbe più il fatto che i Vangeli finiscano con
l’allontanamento definitivo di Gesù dal mondo. Qualcuno scriverebbe il
seguito: dove è andato Gesù, come, cosa ha visto, fatto, pensato là. Perché
doversi rassegnare a un non-poter-conoscere, di cui ormai conosciamo la
triste origine? Come gli uomini hanno immaginato e creato i Vangeli, così
potrebbero immaginare e creare anche dei sequel.
«E in generale si de-sidererebbe di più?»
Chiaro.
«Ma è impossibile, vero? Ormai è andata così, per chi c’è ora; e quelli che
ci sono ora non mi sembrano propensi a cambiare le loro abitudini
famigliari».
Non sono propensi, no. Non sanno che è solo una situazione. Ma noi
possiamo giungere oltre il sacrum che limita il nostro conoscere, e farlo
sparire: alcuni antichi lo pensavano, e anch’io lo penso. E lo possiamo
perché siamo già vissuti senza quel limite, da bambini. Abbiamo la
memoria di quel modo di essere aperti.
«E vedremmo un altro tipo di mondo».
Con molto da scoprire e da de-siderare oltre le porte che adesso abbiamo
dimenticato.
«Via dall’inferno».
Ma sì, certo. Caro diavolo, avresti tanta strada da fare là fuori.
IL REGNO DEI CIELI

Rappresenterei così il sacrum, visto da fuori: un varco chiuso dinanzi alla


nostra psiche. Al di qua del varco ci sono tutte le nostre situazioni. E sulla
soglia di quel varco stanno tutti i nostri misteri: tutti, e uno vale l’altro,
perché nessuno di essi è segreto di per sé, ma solo perché rispecchia il
nostro atteggiamento cosciente, che fin dall’infanzia è improntato al divieto
di conoscere e cerca, ovunque può, simboli di quel divieto.
Di là dal varco c’è quell’ignoto che gli psicologi chiamano inconscio, e
che secondo molti di loro contiene soltanto l’obscenum: aberrazioni e
deformità delle componenti meno evolute della nostra psiche, descritte da
Freud come più basse di noi, e da Jung come caotiche; e da quelle
componenti la mente cosciente starebbe cercando di proteggersi, perché
l’inconscio, sempre secondo gli psicologi, potrebbe in ogni momento
ingoiarla, trascinandola giù.
Supponiamo invece il contrario: e cioè che la mente cosciente sia
terrorizzata da quel varco e da ciò che c’è oltre, non perché si tratti di aree
molto inferiori al nostro attuale stadio evolutivo, ma solo perché le è stato
inculcato il dovere di temerle. Di là dal varco, supponiamo ci siano vie
verso un’evoluzione ulteriore, superiore: non Mister Hyde o i diavoli, ibridi
di caproni o rettili, ma l’Eden perduto, o i poteri psichici del Paradiso
dantesco, cioè un qualche superconscio, in cui si attivino appieno i nostri
apparati conoscitivi, che secondo certe teorie neurologiche noi
utilizzeremmo, oggi, solo al dieci per cento, o meno ancora.
Ora, l’ipotesi a cui tengo, è che di là da quel varco si trovino anche le aree
dalle quali proviene il nostro de-siderare, così come da una qualche parte di
noi, a noi ignota durante la veglia, ci provengono i sogni quando dormiamo.
«I sogni son desideri e così via?»
Sì, ma dei sogni parleremo più avanti. Per ora restiamo nell’ambito del
sacrum. Il punto su cui insisterò adesso è: da oltre il mondo ci giungono i
de-sideri che nel mondo si realizzeranno.
«Perché? Non desideriamo semplicemente qualcosa che ci manca nel
mondo? Non è la nostra mente cosciente a desiderare, al di qua del varco
che hai disegnato? Se mentre desidera si trova al di qua, anche ciò che
desidererà è al di qua».
Secondo me, desideriamo cose che nel mondo ci mancano, ma la nostra
capacità di accorgerci che ci mancano la dobbiamo a ciò che è al di là del
varco. Lì la nostra immaginazione coglie che cosa manca alla nostra psiche-
mondo, e nel mondo cerchiamo ciò che somiglia a quel qualcosa che ci
manca; e può coglierlo là, perché noi non siamo in tutto e per tutto al di qua
di quel varco: crediamo di esserlo solo per effetto delle tante pressioni
selettive che agiscono su di noi. Se superassimo i nostri limiti ed errori, ci
accorgeremmo di essere più grandi di ciò che siamo nel mondo.
«Più grandi della nostra situazione».
Questa origine extra-mondana, extra-mondana del nostro de-siderare, è il
motivo per cui nelle preghiere si affidano i desideri a Dio, agli Angeli, o ai
santi.
Di là dal varco, per le persone religiose, ci sono infatti anche Dio, e gli
Angeli, e quei coloni dell’aldilà che, secondo il cristianesimo, sono i santi:
esseri umani stanziatisi, come avanguardie, in quelli che nel linguaggio
religioso si chiamano: i cieli. Quando nelle preghiere affidiamo un nostro
de-siderio a Dio, agli Angeli o ai santi, lo facciamo perché abbiamo intuito
un rapporto tra quell’aldilà e i nostri desideri.
«Ma così non invertiamo il senso? Tu dici che il desiderio ci viene da là, e
noi invece immaginiamo che lo stiamo mandando là?»
Inversioni del genere sono frequenti, sia nella mentalità religiosa sia
nell’attività quotidiana della nostra psiche. Aristotele diceva: tutto vuole
ritornare da dove è venuto. In questo senso, potremmo dire che facciamo
ritornare i desideri da dove sono venuti. Li riconnettiamo alla loro origine.
Oppure può piacerti di più il concetto di proiezione: uno avverte che i suoi
desideri provengono da qualcosa di più grande di ciò che ha deciso di essere
e che ha cominciato a essere nel mondo; sente, intuisce questo aldilà, ma
non può ammettere che sia qualcosa che appartiene a lui stesso, e perciò lo
proietta nei cosiddetti cieli, che sono un simbolo religioso di ciò che c’è
oltre il varco.
Quello che non può non colpire, è la spontaneità delle proiezioni stesse:
non solo le si ritrova in tutte le religioni del mondo, ma non c’è individuo,
non c’è bambino che non percepisca immediatamente quell’affidare i
desideri alla divinità come un qualcosa di interessante e attraente. Io penso
che in questa universale percezione di un legame tra desideri e aldilà si
esprima un altrettanto universale bisogno di riconnetterci con quell’aldilà –
come se fosse una di quelle porte della nostra stanza, di cui dicevamo nello
scorso capitolo. Vogliamo ritrovare quelle porte perché sono nostre, tuttora
nostre, anche se le abbiamo perse di vista da quando abbiamo imparato a
dimenticare.
«Avrei una domanda che mi riguarda da vicino.
Dimmi.
«Se permetti, i desideri vengono connessi altrettanto spontaneamente al
diavolo. Anche le tentazioni sono desideri. Quindi al di là del varco ci sono
anche forze oscure, che si percepiscono come malvage, e cionondimeno
efficaci?»
Certo. Da un paio di millenni o poco più, oltre il varco c’è anche il
cosiddetto diavolo – che qui sarebbe rappresentato da te. Ma il diavolo è
un’escogitazione religiosa che non mi è mai andata a genio. I patriarchi
biblici non ne sapevano nulla: né Noè, né Abramo, o Isacco, o Giacobbe, o
Giuseppe egizio, o Mosè hanno mai avuto a che fare né con il diavolo
(termine di origine greca, a loro ignoto) né con suoi eventuali equivalenti
semitici; nemmeno nei comandamenti è mai nominato nulla che possa
lontanemente assomigliare al diavolo.
«E quando comincia a esistere il diavolo?»
Nell’area da cui provengono le nostre religioni occidentali, cioè in Medio
Oriente, il diavolo ebbe inizio quando si cominciò ad avere a che fare con i
grandi imperi stranieri, e Dio divenne il Dio degli Stati, dopo essere stato a
lungo il Dio degli individui. Prima, quando gli ebrei vivevano in disparte da
ogni autorità statale, Dio era il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di
Giacobbe. Tutti singoli individui. Quando Mosè sottrasse gli ebrei
all’autorità del faraone, il Dio era innanzitutto il Dio di Mosè stesso, e
parlava solo con lui. Qualche secolo dopo, il “noi” cominciò ad acquistare,
tra gli ebrei, una forza, una realtà più decisiva della realtà dell’“io”, e con la
conquista macedone l’“io” perse definitivamente la partita. Dio diventò in
tutto e per tutto il Dio degli ebrei – del “noi” ebraico – da contrapporre agli
Dei dei “noi” greci, prima, e poi a quelli dei “noi” romani.
A quel punto, divennero normali, quotidianamente inevitabili i conflitti tra
ciò che l’“io” poteva desiderare e ciò che il “noi” voleva: Dio era dalla
parte del “noi”, e di conseguenza l’origine extra-mondana dei de-sideri
individuali (che già da millenni era stata intuita, a giudicare dalle preghiere
descritte nella Genesi) non poté più venir riferita a Dio, in tutti quei
moltissimi casi in cui le aspirazioni o i bisogni di un “io” discordavano
dalla volontà del “noi”. E per spiegare quell’origine extra-mondana dei
desideri individuali si ricorse al diavolo.
«Si inventò il diavolo?»
Ci si sforzò di immaginare il diavolo. Il risultato di questo sforzo divenne,
rapidamente, un tema da racconto horror, che poteva colpire allora la
fantasia della gente tanto quanto i cattivi della letteratura popolare la
colpiscono oggi. Piacque a tanti, perché emozionava. Piacque alle autorità,
ovviamente, perché fu utilizzato da subito come uno strumento per
intensificare quelle che chiamiamo le pressioni selettive, ovvero per
potenziare l’influsso del “tuo prossimo” sui comportamenti individuali.
Pensa, che comodità, per chi governa, poter definire diaboliche, antidivine
tutte le aspirazioni dell’“io” che intralciavano le intenzioni del “noi”! Poco
meno di duemila anni fa l’invenzione del diavolo fece breccia a Roma,
insieme al cristianesimo, e da lì si diffuse in tutto l’impero romano – benché
nei Vangeli il diavolo di cui parlava Gesù avesse una funzione
completamente diversa da quella che ti ho appena descritta.
«Cioè?»
Gesù ribaltò il significato del diavolo: il suo diavolo tentatore induce a
fare quello che il “noi” vuole: ricorrere al potere e al denaro per convincere
la gente, e così via – come ben sai. Il diavolo spinge Giuda a consegnare
Gesù alle autorità. In pratica i Vangeli mettevano in guardia dall’idea di
diavolo, avvertendo i loro lettori che il diavolo immaginato dal “noi” era
fondamentalmente un modo per demonizzare l’“io”. Ma questa idea non
venne accettata né ai tempi di Gesù né poi: in Israele Gesù venne accusato
di essere al servizio di Beelzebub, e nel cristianesimo il diavolo fu sempre il
marchio con cui il “noi” bollava le manifestazioni dell’“io”. Gli “io” dei
secoli seguenti si convinsero di non poter pensare altrimenti, e così continua
fino a oggi.
«E a te tutto questo non piace e vorresti tornare a com’era prima? Cioè
fare a meno del diavolo?»
Esattamente.
«La penso anch’io così».
Ah.
«Ma sì, mi sono stufato di fare il diavolo e d’altra parte non mi è mai
venuto bene. Parliamo normalmente, facendo a meno di questa maschera.
Cosa stavamo dicendo, riguardo alle proiezioni? Mi interessava il
discorso».
Davvero?
«Davvero».
Bene. Bel gesto. Ma continuerai a darmi torto, sì?
«Non so, non te lo garantisco. Mi interessa questo discorso, va’ avanti».
Dicevamo: l’origine extra-mondana dei de-sideri e il bisogno di
riconnettersi al proprio aldilà sono anche i motivi per cui Gesù, nei Vangeli,
insiste tanto perché i discepoli de-siderino e prendano molto sul serio i loro
de-sideri. Lo si vede specialmente verso la fine del Vangelo di Giovanni –
capitoli 14, 15, 16 – nell’estremo, lunghissimo discorso ai discepoli.
Ricordi com’è?
Alla fine dell’ultima cena, quando Giuda è già corso via, Gesù decide di
ricapitolare un’ultima volta i suoi insegnamenti, prima di venire arrestato.
Dapprima, rimane perplesso dall’ottusità delle domande di alcuni dei
discepoli, Tommaso e Filippo: si accorge che non hanno capito niente o
quasi, ed è molto scoraggiato. Ma si fa forza, insiste, condensando e
semplificando il più possibile i punti fondamentali della sua teoria; e a due
di questi punti torna continuamente: uno è «io vi ho tolti dal mondo» e
l’altro è «chiedete e vi sarà dato».
«Il famoso “chiedete e vi sarà dato”».
Sì; questi due punti Gesù li ripete ben cinque volte in quel suo discorso:
come a dire che sono importanti e che lo sono in eguale maniera. Solo se si
viene tolti via, emancipati dal mondo, si può chiedere a Dio qualsiasi cosa,
e ottenerla.
Il quesito è se il chiedere e ottenere sia la conseguenza del venire a
trovarsi fuori dal mondo, o se il chiedere a Dio sia di per sé la connessione
con l’aldilà divino. E io penso che la seconda ipotesi sia la migliore, ossia
che chi chiede, nell’istante in cui si accorge di poter chiedere, viene a
trovarsi su quello che abbiamo chiamato il varco del mondo, e lo supera:
perciò Gesù può dire di sé «io vi ho tolti dal mondo» (Giovanni 15,19)
perché da lui i discepoli hanno appreso questo potere trascendente del
chiedere.
La penso così, perché altrimenti non si spiegherebbe proprio perché Gesù
insista tanto sul chiedere. Se la possibilità di chiedere e ottenere fosse
soltanto una conseguenza della liberazione dal mondo, avrebbe insistito
sull’«io vi ho tolti dal mondo» più che sul «chiedete e vi sarà dato». D’altra
parte, uno dei cardini dell’insegnamento di Gesù nei Vangeli è che il Regno
di Dio si trovi «dentro di voi»; dunque anche la soglia del Regno, il varco
del mondo, è dentro la nostra psiche, e tocca a ciascuno accorgersene ed
entrarvi. In più, una mia ipotesi molto solida è che quando Gesù dice “io”
nei Vangeli intenda non tanto se stesso quanto quella verità ancora
inesistente che è in ciascuno di noi; se tu convenissi con me su questo,
sapremmo che, secondo la teoria di Gesù, è proprio la nostra verità a
toglierci dal mondo dei “noi” e dalle sue pressioni selettive, quando osiamo
de-siderare ciò che nel mondo non ci è ancora dato.
«Quindi il de-siderio è anche l’accesso al Regno dei Cieli?»
Proprio così.
«Quindi se imparo a de-siderare potrei entrarci anch’io?»
Perché no?
«Sarebbe proprio una novità».
Intanto possiamo farci un’idea di cosa fosse il “Regno dei cieli” di cui
parla Gesù. Ai suoi tempi era un concetto molto meno vago di quanto non
sia oggi. Da secoli questo “Regno” veniva scrupolosamente indagato dai
predecessori di quelli che in seguito si chiamarono qabbalisti. Dalle loro
ricerche derivarono mappe simboliche dell’aldilà, la più nota delle quali è il
“Ramificarsi delle Vite”, che ti disegno qui accanto, e di cui ti descriverò
subito dopo gli aspetti che concernono il de-siderio come noi lo intendiamo.
Spiegare il “Ramificarsi delle Vite” è semplice, e all’inizio ti sembrerà la
spiegazione di un’assurdità: è probabile che penserai: “Questi antichi
avevano proprio tempo da perdere”. Poi d’un tratto scatterà in te una
qualche intuizione, e il Ramificarsi ti apparirà perfettamente sensato, e utile
in numerosi ambiti – ragione per cui mi capita spesso di parlarne in
conferenze, e di scriverne nei miei libri.
Innanzitutto devi sapere che nella mappa del Ramificarsi delle Vite è
incluso anche lo spazio bianco intorno al disegno. Questo spazio bianco
rappresenta l’Infinito, il Tutto, l’Uno, che c’è al di fuori del nostro mondo
tridimensionale e di ciò che in questo mondo arriviamo a conoscere,
pensare o immaginare. Le sfere, e i canali che le collegano, formano un
percorso (che probabilmente ispirò gli inventori del giuoco dell’oca), ed è il
percorso che devono affrontare tutte le energie vitali, cioè le anime, per
giungere dalla loro fonte, che è il Tutto-Uno-Infinito, fino alla nostra
dimensione terrestre, che è rappresentata nella sfera più bassa.

«Proprio come un gioco».


Tante cose di cui si è perso il senso, ma che ci sono ancora, si sono
conservate nella memoria della gente come giochi o come fiabe.
Le sfere del Ramificarsi sono, secondo i qabbalisti, le sedi degli Angeli: in
ciascuna sfera sono indicate la categoria di Angeli che lì risiede e la qualità
propria di quella categoria e di quella sfera: Volontà, Sapienza, Intelligenza
ecc. Di tutte queste qualità le anime devono diventare partecipi, per potersi
incarnare, e dovranno riuscire ad esprimerle durante la loro vita terrena:
perciò durante il tragitto dall’alto verso il basso le anime sostano nelle sfere,
assimilando una dopo l’altra tutte le nove qualità, dalle nove Gerarchie
angeliche (Serafini, Cherubini, Troni ecc.).
«E tu credi veramente in queste cose?»
Non si tratta di credere. È uno schema simbolico, che alcuni millenni dopo
è ricomparso nell’immagine che abbiamo del DNA:

– e di questo schema simbolico comincerai, tra poco, a intuire il senso.


Comunque, è pressoché inevitabile che le anime non riescano a esprimere
sulla Terra le qualità che hanno assimilato durante il loro percorso
prenatale; e ciò si deve a due ragioni.
La prima ragione è che lo sforzo e le trasformazioni che avvengono
durante l’ultimo tratto del percorso (che in un certo senso corrisponde al
canale del parto) ti fanno dimenticare pressoché tutto quel che hai appreso
più su.
E la seconda ragione è che, come risulta dalla nostra mappa del
Ramificarsi, ogni sfera è piena, e nell’ultima sfera non ci sarebbe spazio
sufficiente a contenere quel che riempie tutte le altre sfere: ovvero, il
mondo terreno è troppo piccolo per qualunque anima che volesse realizzarsi
davvero. E purtroppo anche le anime migliori, cioè quelle che riescono a
ricordare qualcosina del loro percorso extra-terreno, tendono ad adattarsi
alle anguste dimensioni del mondo, rinunciando a quel che avevano appreso
nelle sfere superiori.
«Come quando la nostra stanza-psiche-mondo comincia a ridursi perché
possiamo dimenticare i traumi?»
Precisamente! Stai cominciando a capire il simbolo del Ramificarsi.
E la conseguenza di questo adattamento al mondo è che ogni anima – o,
come noi diciamo oggi, ogni psiche – nel corso della vita avverte la
mancanza di qualcosa che non sa. Secondo i qabbalisti, questo qualcosa è
proprio ciò che l’anima aveva appreso nelle sfere superiori, e che avrebbe
dovuto manifestare: e non sa che cosa sia, perché non se ne ricorda più; e la
mancanza che ne sente somiglia, più che a ogni altra cosa, a una nostalgia.
La psiche cerca invano di definire quel qualcosa, nei suoi desideri: i
desideri d’amore, di ricchezza, di salute, di successo ecc., sono tutti e
sempre tentativi di identificare quel qualcosa che ti manca – e prova ne sia
che, quando un nostro desiderio si realizza, dopo un po’ ricominciamo a
desiderare qualcos’altro.
In tal modo gli antichi spiegavano ciò che oggi i neuropsicologi stanno
scoprendo del cosiddetto “sistema della ricerca”, che è indispensabile alla
vita animale. I neuropsicologi chiamano “ricerca” l’impulso primario a
trovare risorse per la sopravvivenza – cibo, riparo, sesso, piacere – e, nei
loro laboratori, hanno raccolto dati sufficienti a dimostrare che la ricerca
produce negli animali una gradevolissima eccitazione già prima che
l’obiettivo della ricerca sia a portata. Cercare fa sentire bene, come se la
Natura avesse voluto incoraggiare questa attività.
Negli animali il “sistema della ricerca” si attiva, all’inizio, come una
pulsione priva di uno scopo preciso, come una vigorosa curiosità
indeterminata, alla quale poi l’ambiente fornisce obiettivi. Anche questo
corrisponde alla teoria del de-siderio fondata sulla mappa del Ramificarsi:
si tratta solo di sostituire alla Natura le sfere degli Angeli, alle risorse per la
sopravvivenza il desiderio di ricordare le lezioni di quelle sfere, e alla
pulsione la nostalgia. Qabbalah e neuropsicologia adoperano due linguaggi
differenti per descrivere lo stesso fenomeno.
Altra scoperta della neuropsicologia è che gli animali depressi non
avvertono lo stimolo alla ricerca; e lo stesso può dirsi del nostro de-siderio
di riconnessione: sono le persone più sensibili, più elevate, ad avvertire
maggiormente quella mancanza delle sfere, e dunque a de-siderare, a
chiedere di più; mentre le persone più rozze la avvertono meno, e tendono
ad accontentarsi di ciò che nel mondo hanno già, lasciando in latenza la loro
dimensione spirituale.
«Dunque il “chiedete e vi sarà dato” si spiega col fatto che quel che uno
desidera davvero è qualcosa che non ricorda di avere? E che chiedere è
ricordare?»
Sì.
«Allora, invece di dire che il Regno dei Cieli “è dentro di voi”, Gesù
avrebbe dovuto dire “il Regno dei Cieli è dentro quella dimensione della
vostra memoria extra-mondana che è al tempo stesso più grande di voi e
racchiusa in qualche parte di voi che avete dimenticato”.
Probabilmente disse così, ma gli evangelisti preferirono semplificare.
«E in pratica significa: non accontentatevi del mondo ma tornate a voi
stessi, riscoprite e ricostituite la pienezza del vostro spirito?»
Sì.
«Ma grazie al suo sistema della ricerca l’animale finisce per trovare
qualcosa. Chi sente la nostalgia delle sfere riesce a fare altrettanto, o
continua a inseguire somiglianze nel mondo? O forse, dato che l’uomo è a
immagine e somiglianza di Dio, anche il mondo degli uomini è a immagine
e somiglianza del Ramificarsi delle sfere?»
C’è questa probabilità e la indagheremo. Ma il de-siderio che si volge
verso le somiglianze non toglie che la nostalgia possa anche attrarre al di là
del varco, via dal mondo. Dopo la morte, dicono alcuni qabbalisti, la psiche
dovrà risalire per dove era discesa. L’anima si inoltrerà di sfera in sfera, e in
ogni sfera dovrà accorgersi di quali qualità immense avrebbe potuto
manifestare durante la vita, se fosse riuscita a ricordarsene. Alcune anime
invece possono tentare quella risalita già durante la vita, con la meditazione,
la mistica, la rivelazione: e riscoprendo il loro tragitto prenatale attueranno
una eccezionale autoanalisi delle loro aree superconsce o, come dicevano
gli antichi, della loro natura spirituale – precedente alla loro nascita fisica.
«Scusa se ti interrompo, ma mi viene un nervoso, quando sento parlare
della superiorità di un piano spirituale e dell’inferiorità del piano materiale.
Da quando sono nato ho trovato persone che mi hanno fatto lezioncine su
questo tema, ed erano sempre lezioncine di morale. Ne ho proprio
abbastanza».
Anch’io sento e penso lo stesso. È stretto il mondo, e sono stretti anche i
modi di pensare che circolano nel mondo. Il bello della mappa del
Ramificarsi è che non si tratta di superiorità ma di estensione. Hai notato
che le dieci sfere sono tutte uguali? Le nove sedi degli Angeli hanno lo
stesso diametro della sede degli uomini. Il problema è solo che, a chi ha
assimilato quelle nove qualità, una sede sola non può bastare.
«Dunque non gli basterebbe nemmeno una sede degli Angeli, così come
non deve bastargli la Terra?»
Esatto. A ciascuna Gerarchia di Angeli invece basta la sfera in cui si trova:
i Serafini si accontentano di risiedere nella prima sfera, i Cherubini nella
seconda, i Troni nella terza, e così via. Dunque, a voler parlare di
superiorità, chi è superiore qui?
«Eventualmente noi».
Ma la superiorità qui c’entra tanto poco quanto nel confronto tra una
palma da datteri, una colomba e un lupo: chi dei tre è superiore?
«Nessuno».
È un concetto che anche Dante sviluppa, nel Canto III del Paradiso:
Chiaro mi fu allor come ogne dove
in cielo è Paradiso, etsi la grazia
del sommo ben d’un modo non vi piove.
Intende dire che, in Paradiso, il Paradiso è ovunque, e l’energia divina
assume tante forme ma è sempre la stessa. Secondo me, dappertutto è così.
Tutto è psiche-mondo: dappertutto e in tutto si manifesta la nostra psiche, il
mondo e l’aldilà sei sempre tu, tu sei il tuo piccolo io nel mondo, tu sei ogni
tratto del tragitto immaginato dai qabbalisti, tu sei l’io più grande che
riscopri risalendo per quel tragitto, etsi la grazia del sommo ben d’un modo
non vi piove.
«Bello. Ma allora perché de-siderare, se dappertutto è così?»
Appunto perché dappertutto è così, e perché tutti noi siamo spaziosi.
Perché costringersi in una situazione angusta, quando nulla ci impedisce di
esplorare? Perché non ampliare ciò che riesci a essere? Puoi.
«Bene. Saresti un buon tentatore».
Grazie! Avrai notato che, nella risalita verso le sfere alte, la prima che si
incontra è la sfera dei desideri. Intendila come un bivio che è bene
percorrere in entrambe le sue direzioni: una va verso l’alto, verso le sfere,
l’altra verso le cose del mondo materiale. Perché sceglierne una sola? Io
sono convinto che la risalita ampli il nostro io: che, cioè, da quella sfera dei
desideri non abbia inizio un’ascesa da alpinisti, durante la quale il nostro io
rimanga quello che era diventato nel mondo, ma che il nostro orizzonte e il
nostro essere si estendano nelle due direzioni, conoscendo il mondo tanto
quanto conoscono le sfere, e de-siderando in entrambi i versanti.
«Così l’orizzonte si amplierebbe e il mondo si rimpicciolirebbe?»
Sì. E se poi risultasse che tra le cose del mondo se ne trovino alcune che
sono a immagine e somiglianza di quel che c’è nelle sfere, tanto meglio.
«Ma i qabbalisti non dicono che bisogna risalire, staccandosi dal mondo?»
Certi dicono così. Ma a noi che importa? Tu e io non siamo qabbalisti.
«Già. E dicevamo che l’ultimo tratto del percorso è il canale del parto?
Dunque avviarsi alla scoperta dei propri desideri sarebbe come dare inizio a
una rinascita».
Giusta osservazione.
E infatti:
Gesù rispose: «In verità, in verità ti dico: se uno non è nato dall’alto,
non può vedere il Regno di Dio». Nicodemo gli dice: «Ma come può un
uomo nascere, quando è vecchio? Può forse entrare un’altra volta nel
grembo di sua madre e nascere?»
Giovanni 3,3-4
Il passo è anche ironico: a Nicodemo, che è un tipico intellettuale
gerosolimitano, membro del Sinedrio, viene attribuita una battuta che ce lo
fa immaginare perplesso. Nicodemo è dotto ma non coglie il senso
simbolico di quel nascere: è come uno che sentendo il proverbio “tanto va
la gatta al lardo che ci lascia lo zampino” chiedesse di che razza era la gatta.
In realtà, è un’ironia un po’ triste: vuole significare che Gesù usava un
linguaggio che le persone colte della sua epoca non erano capaci di
intendere: e non perché fosse più rozzo, troppo provinciale, galileo, figlio di
un falegname, ma perché era più colto di loro. È sempre un guaio, quand’è
così. Chi usa un linguaggio troppo colto per i colti finisce per essere
sottovalutato e frainteso: infatti Nicodemo non seguì Gesù; e proprio
sfruttando la difficoltà dei concetti di Gesù, alla fine i suoi avversari ebbero
buon gioco a convincere la gente che quel che diceva non era poi tanto
importante, né coerente.
Quando le cose vanno così, poi possono volerci anche millenni per
arrivare a ristabilire quel che Gesù e tanti altri come lui volevano dire.
«Quindi è sempre meglio parlare semplicemente. Perché Gesù non lo fece,
secondo te?»
Probabilmente contava più sul futuro che sul presente. Comunque,
tornando alla nascita, in quel passo del Vangelo di Giovanni il linguaggio di
Gesù è più colto di quello di Nicodemo, proprio perché si riferisce alla
mappa del Ramificarsi, di cui Nicodemo evidentemente non era abbastanza
informato: quell’“entrare un’altra volta nel grembo” è infatti una delle
chiavi ebraiche della filosofia dei Vangeli. Secondo la mappa, la nascita non
è un fatto isolato nella vita di un individuo, ma è una porta da cui chi ha
imparato a risalire può entrare e uscire quando si vuole.
«Una porta».
Sì, una porta di quelle che il cosiddetto inconscio ci ha precluso.
«Ho una domanda, posso? Mi chiedevo: ma se non si fosse formato in noi
il cosiddetto inconscio, e quella porta, quelle porte ci fossero state
accessibili, noi saremmo cresciuti incredibilmente nell’universo, invece di
comprimerci dentro il mondo della collettività... o sbaglio?»
Sì, saremmo cresciuti così.
«E comunque dicevamo: la porta della nascita, l’accesso alla sfera dei de-
sideri? Quello è il varco che il - - ci preclude?»
Sì. Il “Regno di Dio” lo si vede quando il tuo orizzonte si amplia oltre il
varco, oltre i confini del mondo: quando, cioè, ogni volta che dalle sfere
ritorni nel mondo-situazione è come se riattraversassi il momento della
nascita, mentre ogni volta che dal mondo-situazione risali su, è come se ti
ritrovassi com’eri prima di nascere.
«E non avrei più gli stessi genitori che ho avuto ora?»
Non avresti più genitori.
«Non dovrei somigliare più a nessun parente. Ho sempre pensato che ci
fosse qualcosa che non va nell’ereditarietà, che non potesse essere tutto lì.
Magnifica prospettiva. Ma immagino che uscire dalla sfera della Terra non
sia facile. Quelle sfere avranno sicuramente qualcosa come un campo
gravitazionale».
Non so se gli antichi avessero già intuito qualcosa della forza di gravità.
Ma di certo la sfera del mondo-situazione trattiene: anch’essa è “dentro di
noi”, dato che, come sai, il mondo è ciò che uno sa del mondo e il modo in
cui lo sa; e dentro di noi c’è la paura di lasciare ciò che si ha e si sa già. Io
me la immagino come la paura di accorgerci delle nostre qualità più grandi,
e di come non le abbiamo ancora manifestate. Sono sicuro che tutti la
conoscono: è la paura di scoprire-riscoprire
perché fin dall’infanzia ti hanno sempre detto che tu tutte queste cose non
le hai e che, se le vuoi, devi impararle faticosamente dagli adulti, i quali,
poi, non te le insegnano veramente mai. Noi, per influsso delle ben note
pressioni selettive, preferiamo ignorare che tutto ciò è nostro, e tutto quello
che ne è derivato finora e che potrebbe derivarne.
Siamo convinti – fin dall’infanzia, come sai – di non meritare tutta questa
nostra magnificenza, perché se la manifestassimo il nostro senso di colpa
scatenerebbe in noi conflitti tremendi. Perciò ce ne difendiamo –
difendendo quello che è al di qua della soglia del de-siderare, da quel che è
al di là, cioè da quel che la nostra psiche è, e che, al di fuori del mondo, è
sempre. E la civiltà rinforza questo campo auto-gravitazionale,
istituzionalizzando la paura, e l’ignoranza, e il senso di inadeguatezza, e i
meccanismi di difesa della psiche, come abbiamo visto.
Ammetterai che, a inquadrarlo nella mappa angelica, il fenomeno del
desiderare acquista una prospettiva ben diversa da quella che in cui lo
confinano le idee correnti riguardo all’egoismo. In confronto, quelle idee
risulterano a loro volta un prodotto di meccanismi di difesa.
Anche un’altra teoria, che oggi in filosofia va per la maggiore, perde di
peso in confronto alle riflessioni che ci suscita il Ramificarsi delle Vite: è il
cosiddetto monismo contemporaneo, secondo il quale tutta la nostra psiche
sarebbe costituita da una serie di sistemi elaboratisi nel corso
dell’evoluzione, unico scopo dei quali è garantire la sopravvivenza della
specie umana.
«Ne ho sentito parlare».
È una tendenza della filosofia attuale, soprattutto anglosassone; purtroppo
è anche alla base della neuropsicologia – il che, secondo me, intralcia
questa nuova branca. Secondo i monisti, la psiche (i neuropsicologi
preferiscono dire “la mente”, the mind) e il cervello non devono essere
intese come due cose distinte, perché il cervello è la mind, e ogni attività
psichica altro non è che un’attività cerebrale, totalmente organica, di cui
solamente oggi stiamo comprendendo i processi biochimici. Perciò,
secondo i monisti, la psicologia e la filosofia della psiche precedenti alla
neuropsicologia hanno fornito soltanto ipotesi approssimative, primitive,
frutto di immaginazione. E poiché la mind è un sistema organico, tutto ciò
che avviene nella mind può e deve venire analizzato e spiegato soltanto in
termini biologici, i quali fanno capo innanzitutto al concetto di specie.
Naturalmente ciò vale, deve valere (i monisti sono molto intransigenti)
anche per il desiderare. I monisti hanno, al riguardo, un punto di vista molto
simile a quello che esprimevi tu, quando discutevi del senso della
responsabilità, a cui dovrebbero adeguarsi i desideri. Ti ricordi, sì?
«Sì, ma sto cambiando idea».
Bravo. Secondo i monisti è la specie che ti fa desiderare, e che, attraverso
il tuo desiderare, cerca di guidarti soltanto verso ciò che è bene per essa. E
ciò che è bene per la specie, è che ciascun individuo svolga come si deve il
suo compito di gene carrier, di prolificatore, perché la specie possa
perdurare, aumentando sempre per quanto possibile.
L’unica libertà che la tua specie ti lascerebbe – sempre secondo i monisti –
è di scegliere che cosa desideri; ma attenzione: è soltanto una libertà di
sbagliare, e se commetti errori li pagherai. La tua specie farà in modo che si
realizzino soltanto i desideri che le convengono: ti aiuterà a realizzarli,
attivando in te i sistemi psico-organici necessari a tal fine, con aumenti di
dopamina, acetilcolina ecc. Se invece hai un desiderio che va contro le sue
esigenze, la specie farà in modo che si blocchi oppure che non ti porti bene.
Il grosso problema è che non tutti possono sapere sempre quali siano oggi le
esigenze della specie.
Per esempio: tu potresti desiderare di fare qualcosa di molto utile a tutti gli
italiani, e questa scelta ti sembrerebbe nobile, perché ami l’Italia. Ma
poniamo che la scarsa capacità riproduttiva degli italiani ne stia facendo un
popolo composto in maggioranza da vecchi, fragili, depressi, irritabili, e
molto ostili ai gruppi di stranieri prolifici che stanno migrando nel nostro
Paese. Stando al monismo, la specie non può non preferire questi stranieri
agli italiani, e farà in modo che quel tuo desiderio incontri difficoltà:
qualcosa dentro di te, nel profondo della psico-biochimica del tuo corpo,
boicotterà i tuoi progetti, intralcerà il tuo “sistema della ricerca”, ti sentirai
fiacco, depresso, e finirai per fare ben poco, o per fare cose per le quali gli
italiani non ti apprezzeranno, proveranno antipatia per te. Così, da qui a
qualche anno sarai una persona molto infelice.
«Come Gesù in Israele».
Sì. Mentre se avessi desiderato di fare qualcosa che contribuisse al
disastro della cultura, dell’etica, dell’economia italiana, e intanto avessi
cercato una bella storia d’amore con una persona extracomunitaria, tutto ti
sarebbe andato per il meglio.
Fa’ tu il confronto, tra il punto di vista monistico e ciò che deriva dalla
mappa del Ramificarsi delle Vite. Stando alla mappa, il tuo de-siderare è la
via maestra per lasciarti alle spalle le limitazioni che il mondo ti impone, e
per scoprire tue magnifiche qualità che, quando le eserciterai, ti faranno
cambiare mondo.
Stando al monismo, invece, la tua capacità di desiderare è uno strumento
con cui le pressioni selettive della specie umana limitano le tue possibilità, e
ti concedono qualche istante di libero arbitrio solo per poi punirti se l’hai
usato male. Tu cosa ne dici?
«Immagino che i monisti pensino di sapere quali siano le esigenze della
specie umana, giusto?»
Sì, ed è malafede.
Il concetto di “specie umana”, oggi, è illusorio, è un idolo del pensiero.
Nessuno saprebbe spiegare con precisione la differenza tra specie umana e
civiltà. Perciò, è molto probabile che i monisti, quando parlano di esigenze
della specie umana, in realtà stiano intendendo certe convinzioni ben
radicate nella civiltà occidentale: per esempio, la convinzione che lo scopo
di ogni specie sia continuare ad accrescersi, e che quindi i vecchi siano
d’ostacolo, perché non figliano. Darwin proclamò che così stavano le cose,
per le stesse ragioni per le quali Marx, poco prima di Darwin, si era
convinto che i capitalisti devono continuamente accrescere la produttività
delle loro imprese: non perché così fosse, ma perché la civiltà occidentale, a
quel tempo, si riteneva particolarmente evoluta e perciò in diritto di
dominare il pianeta: e per dominare il pianeta bisognava che gli occidentali
fossero più numerosi.
«Ma Marx non era colonialista».
No, certo. Ma risentiva, senza accorgersene, dell’influsso della mentalità
del suo tempo. Non che quella superiorità evolutiva fosse un’idea nuova: in
sostanza, era un rivestimento scientifico-filosofico degli impulsi paranoici
dei conquistadores spagnoli e portoghesi di tre secoli prima, che per
giustificare la loro voglia di dominare disponevano soltanto della religione.
Ma nell’Ottocento quegli impulsi erano ancora forti, e diedero forza al loro
rivestimento scientifico-filosofico. Tutti, conservatori o rivoluzionari,
furono irresistibilmente spinti a credere che se la razza più evoluta doveva
diventare più numerosa, era evidente che l’evoluzione di una specie e la sua
prolificità andavano di pari passo. E purtroppo questa idea permane ancora
nella mente di molti – con un ulteriore rivestimento, questa volta di
carattere economico, post-marxisteggiante: invece della prolificità, utile alle
guerre che bisognava fare per conquistare territori, nel Novecento si è
preferita l’idea della produttività, utile alla conquista di mercati. Così la
specie più evoluta deve essere, agli occhi di tutti, la più industriale. Anche
nella versione novecentesca, non soltanto i vecchi, ma anche gli individui
poco prolifici e i poveri appaiono meno validi degli altri: perché comprano
poco. Ma ai monisti sembra che così sia per la specie, non per la civiltà.
«E invece quale altro potrebbe essere lo scopo della specie umana?»
Se riuscissimo a pensarla al di fuori della civiltà, dici? Forse, il suo scopo
sarebbe non di accrescersi né di produrre oggetti a prezzo competitivo, ma
di migliorarsi di continuo, cioè di aumentare le capacità dei suoi individui,
la loro naturale resistenza alle malattie, e la loro maestà, e bellezza, ed
equilibrio, e il loro senso di giustizia, la loro abbondanza interiore, la loro
sapienza e intelligenza e volontà, e i loro de-sideri. Tu che ne diresti?
«Be’, suona bene. Sempre meglio di quel che per tanto tempo ho pensato
io: venire allevati per servire padroni sempre diversi, alcuni in terra e alcuni
in cielo».
Questo è lo scopo di chi appartiene a una civiltà.
E, certamente, una confusione tra specie e civiltà permette, alla teoria
monistica, di diventare un’espressione particolarmente ottusa del
conservatorismo. In fondo, il suo intento è di giustificare la voglia che tutto
continui ad andare come andava prima: che cioè la civiltà si difenda
caparbiamente contro ogni impulso individuale a liberarsi dalle sue inerzie.
Al contrario, la prospettiva del Ramificarsi delle Vite è quella di un
continuo superamento individuale dei limiti del mondo: in base alla mappa,
qualsiasi cosa si trovi già nel nostro mondo è troppo poco, per un’anima
non intorpidita.
«Strano che non se ne accorgano».
Io temo che molti se ne accorgano, anche tra i monisti, ma si adeguino a
questo neo-materialismo per paura del futuro vuoto: il monismo frena, e
tanto basta. Probabilmente tra qualche anno si rivelerà una svista troppo
testarda, una perdita di tempo filosofico e scientifico: ma, come già
dicevamo, questo è lo scopo di molti, in Occidente: perdere tempo, stare
fermi, aver capito solo quello che si è già capito.
«Mi spiace di aver contribuito a questa impasse, a suo tempo».
Bah, è passato.
Invece, lo svantaggio della mappa del Ramificarsi delle Vite è che risale a
molto tempo fa e che per descriverla occorre adottare un linguaggio
mistico, a motivo del quale ogni occidentale mediamente colto è tentato di
scartarla subito come una superstizione. Mi rincresce per le persone
mediamente colte, e spero di far cambiare loro idea nei prossimi capitoli:
quel linguaggio antico è molto prezioso, se si ha la pazienza di interpretarlo,
invece di limitarsi brutalmente a decidere se crederci o no.
Come già ti dicevo, non c’è alcun bisogno di credere che quella decina di
sfere e i loro canali esistano in qualche parte dell’universo, e che da lassù
nascano i nostri corpi, e che qualcosa di noi ritorni lassù dopo la morte. La
mappa del Ramificarsi permette soltanto di pensare in modo elegante e
sistematico al fatto che i nostri de-sideri siano scoperte di ciò che non
conosciamo ancora, perché conosciamo ancora troppo poco di noi stessi.
Ciò che di noi stessi non conosciamo ancora è il nostro futuro, la nostra
autenticità e il nostro plèroma, o pienezza, ovvero ciò che a noi manca per
essere interi. Io ritengo che il nostro futuro, la nostra autenticità e il nostro
plèroma possano essere tutt’uno.
«Anche quando una persona è vecchia?»
Ragioni anche tu come Nicodemo? No, senti: a qualsiasi età, conoscersi è
sapere cosa puoi diventare d’ora in poi. La tua pienezza non la esaurisci
mai, stanne certo. Cercarla è diventare. E diventare è de-siderare. E che gli
antichi progenitori dei qabbalisti l’avessero capito tremila anni fa mi
rallegra, oltre a suscitarmi grossi dubbi sull’idea, molto diffusa, che
dall’epoca di quella chiacchierata tra Gesù e Nicodemo la filosofia e la
psicologia occidentale non abbiano fatto che progredire.
«Diventare, dici: in che senso?»
Hai ragione a chiedermelo. Diventare, divenire, in italiano, non sono
parole adeguate a quel che si vorrebbe esprimere dicendole. Provengono dal
latino devenire, che significava: “scendere giù”. Sarebbe meglio dire:
intendere. Tendere, protendersi in qualcos’altro.
«Allora diciamo intendere. In pratica è sempre un sinonimo di de-
siderare».
Sì. Non accontentarsi di essere e basta. Far esistere ciò che di te non si
vede e che tu stesso non conosci ancora. Come stai facendo tu: prima eri il
diavolo, e adesso stai intendendo.
«Io sarò quello che sarò».
Appunto.
«Tutte cose che mi piacciono».
LA MIGRAZIONE
De-siderare è intendere altrove. Per scoprire quell’altrove bisogna andarci,
e la maggioranza della gente non ci va. Bisogna quindi trasgredire alla
maggioranza. Trans-gredire: avviarsi oltre. Il precedente più celebre è
quello degli ebrei – dato che, come forse sai, in ebraico “ebreo”, ‘iBRiY,
significa “trasgressore”.
«Voi filologi!»
Ma è così, almeno per i protagonisti della Bibbia. Non erano
semplicemente nomadi in cerca di pascoli per il loro bestiame: in qualsiasi
luogo venissero a trovarsi, facevano qualcosa che lì rappresentava un de-
siderio, cioè era qualcosa in più, diverso da ciò che in quel luogo era
considerato un dovere o una necessità. Mentre i personaggi che, nella
Bibbia, si adeguano a una situazione sono poco interessanti, e fanno una
brutta fine più o meno brutta: da Abele, che da bravo allevatore amava i
suoi recinti; ai costruttori di Babele, che volevano arroccarsi nella loro città
turrita; a Lot, che voleva rimanere a Sodoma; a Esaù, che non si mosse mai
da casa e venne truffato. Risultato: meglio transgredire. Non solo, ma la
storia degli ebrei più trasgressori narra anche, a puntate, di come Dio
insegnasse loro a de-siderare.
All’inizio, stando al racconto della Genesi, Dio instilla in Adamo la
capacità di de-siderare, dicendogli che può nutrirsi di tutto, nel giardino
recintato dell’Eden, meno che dei frutti del cosiddetto albero della
conoscenza del bene e del male.
Pensa alla sorte di quell’Adamo, solo in mezzo a tante bestie: difficile
immaginare una situazione più disperante. Ma Dio gli dice: «Non
affliggerti, Adamo: c’è un limite, guarda: è il divieto di mangiare i frutti di
quell’albero laggiù. Se superi quel limite, cambia tutto». Adamo ci ragiona
e per un bel po’ non osa, poi, appena arriva Eva, decide: e mangia il frutto
dell’albero della conoscenza.
«Non dovresti scherzare su queste cose. Di solito questa storia non la si
racconta così, e anche tu ne dai versioni più serie, nei tuoi libri».
Di solito la racconto diversamente, ma certi scherzi hanno un senso utile.
Tu dubiti che Dio abbia fatto in modo che Adamo ed Eva potessero attuare
il loro de-siderio? Si allontanò per il tempo necessario, e gli mandò il
serpente a incoraggiarli. Non penserai che nel giardino di Dio il serpente
fosse capitato per caso? O che Dio avesse creato quell’albero perché lo si
guardasse e basta?
«In sostanza, Dio indusse Adamo in tentazione?»
Aveva questa tendenza, il Dio degli “io”. Dal che deduco che il versetto
del Padre nostro, «e non indurci tu in tentazione», potrebbe significare:
speriamo che tu non debba forzarci a de-siderare, ma che ci riusciamo da
soli prima che tu ti scomodi.
«Tu stai tentando me, lo sai? Me, le mie certezze».
Non sono robuste.
Comunque, dopo Adamo venne Noè, che se ne stava tranquillo nel suo
mondo. Dio gli insegnò a de-siderare un mondo altrove, e a darsi da fare per
raggiungerlo. Perché ciò avvenisse, Dio arrivò addirittura a sommergere,
per Noé, il mondo esistente – il che avviene anche per noi, ogni volta che
con i nostri de-sideri cambiamo mondo.
«Noi con i nostri de-sideri produrremmo diluvi?»
Non nel senso che stermineremmo gente. Il Diluvio nella Genesi è il
simbolo del superamento di una situazione, di uno stadio evolutivo: l’acqua
porta Noè in alto e altrove, impedendogli di tornare dov’era prima; e così
avviene a noi quando de-sideriamo.
«Quindi nel Diluvio non è morto nessuno? Infatti mi ero sempre chiesto
perché Dio avesse sterminato tutti i viventi meno i pesci».
È un simbolo. Nessuno muore in Diluvi del genere: un tipo di umanità
rimane indietro, e i Noè ne perdono i contatti, con loro grande
soddisfazione.
Anche Abramo venne «tolto dal mondo», come avrebbe detto Gesù. Dio
gli spiegò che doveva lasciare «la casa del padre, la patria, il parentado»
(Genesi 12,1), cioè tutto il mondo in cui Abramo era nato e cresciuto, e
andarsene via, verso una serie di problemi uno più grande dell’altro – che
divennero altrettanti impulsi, per Abramo, a de-siderare e pro-gettare
soluzioni. E Abramo fu anche il primo che riuscì a chiedere
spontaneamente ed esplicitamente qualcosa a Dio: un figlio. E venne
esaudito.
Poi, a Mosè, profugo, Dio spiegò nei minimi dettagli cosa de-siderare: la
Terra Promessa; e come de-siderarla; e come insegnare ad altri a de-
siderarla e a persistere nel de-siderio. Con Mosè si formò una comunità di
de-sideranti trans-gressori, mista di israeliti, nubiani, egiziani, e questa
comunità divenne un popolo del de-siderio.
E quel popolo del de-siderio sarebbe stato anche l’obiettivo, l’ideale di
Gesù, che più volte, dal Padre nostro in poi, insegnò a sua volta a de-
siderare, e a precisare i de-sideri, e a persistervi, e a chiedere, sostituendo
alla Terra Promessa l’idea di un Regno dei cieli che si attuasse anche sulla
Terra.
«Dio, in questa chiave, si direbbe l’equivalente di ciò che secondo i
monisti è la specie».
Sì, ma senza alcun intento conservatore che giustificasse una qualche
civiltà dominante. Purtroppo, qualche secolo dopo Mosè il popolo
leggendario di cui narrava l’Esodo si identificò con una popolazione storica,
e fu definito una razza; e questa razza formò una sua piccola, caparbia
civiltà, ancor oggi esistente. Razza è termine di origine ignota, forse
semitica (da râs, che in arabo è “origine”, o r’eš, che in ebraico è
“principio”, “estremità”), e il significato attuale di razza è: un certo tipo
collettivo, genetico. Quello che per Mosè era stato un ideale esistenziale da
realizzare mediante grandi conquiste interiori, divenne soltanto un fatto
ereditario.
Io ho origini ebraiche, ma questo slittamento dalla filosofia all’ereditarietà
mi è sempre sembrato tanto arbitrario quanto controproducente. In generale,
non penso neppure che esistano, in natura, razze umane talmente distinte le
une dalle altre, da poter costituire un principio di identità – da poter dire
cioè: «io sono di razza ebraica», o «io sono di razza vietnamita» o altro. Da
quando vive la nostra specie, gli esseri umani non hanno fatto che
incrociarsi tra di loro. Mi pare, invece, che esistano e vadano prese sul serio
le r’eš culturali, etiche, psicologiche, esistenziali: cioè che ciascuno di noi
si scelga sempre (se ne accorga o no) un “principio” collettivo a cui riferirsi,
e lo esprima nel suo modo di vivere. Ma il fatto stesso che questi “princìpi”
si possano scegliere, mi permette di ritenere che non siano ereditari. Io li
immagino come futuri, come tipi ideali a cui ci accorgiamo di tendere.
Insomma, così come per Mosé doveva esistere una “Terra Promessa”, allo
stesso modo per ognuno di noi esiste un ideale collettivo – un popolo futuro
– dal quale trarre ispirazione.
«Cioè, una prospettiva d’evoluzione culturale e psicologica?»
Sì. Ti sarà capitato di incontrare persone, magari con la pelle di un altro
colore e nate e cresciute a decine di migliaia di chilometri da te, con le quali
ti intendevi magnificamente, come non ti è capitato con altri: ecco, quelle
erano persone della tua r’eš, così come la intendo io.
E non è difficile da intendere: così come domani ci sono tante cose che tu
e io potremo fare, allo stesso modo anche nel futuro dell’umanità ci sono da
sempre – secondo me – moltissime possibilità di evoluzione, diverse l’una
dall’altra. Alcune di queste possibilità sono state colte e attuate da alcuni
individui, per la prima volta chissà quanti millenni fa, e continuano da
allora a venir colte e attuate da molti altri individui, senza che il potenziale
evolutivo di quelle r’eš si sia ancora esaurito.
Altre r’eš sono state colte anticamente e poi sono state dimenticate. Altre
non sono state colte affatto. Così, chiunque di noi potrebbe riscoprire
qualcuna di quelle o scoprire qualcuna di queste per la prima volta, e
avrebbe magari l’impressione di star inventando una nuova r’eš. Qualcosa
del genere dovette avvenire a Mosè, quando tolse i suoi seguaci dall’Egitto
e tentò a lungo di estendere a loro quella r’eš che il suo Dio gli aveva
prospettato nel deserto di Madian, e di cui continuò a dargli precisazioni
sulle alture del Sinai.
Forse quella r’eš era esistita molti secoli prima, o forse Dio la stava
inventando allora. O forse se la stava inventando Mosè. Come che sia,
Mosè de-siderò di realizzarla.
E tu che ne pensi: potremmo fare lo stesso anche noi: inventarci una r’eš a
suo modo “ebraica”, cioè trans-grediente, e prepararne l’esodo, così come
fece Mosè? Chi potrebbe impedircelo?
«A me nessuno crederebbe, ormai».
Che te ne importa? Ho detto: inventarci. Farla esistere. Poi sarà quel che
sarà.
Di questa r’eš di de-sideranti, sappiamo per ora da quale faraone deve de-
siderare di allontanarsi: dal mondo così come è stato plasmato dai
meccanismi di difesa, dall’ignoranza, dalla paura, dal senso di colpa, che
accomunano oggi la stragrande maggioranza dei nostri contemporanei.
Sappiamo anche in quale deserto deve inoltrarsi: in un futuro vuoto, che
appare angosciante a molti, come avevamo detto all’inizio. Ora si
tratterebbe di progettare la migrazione.
«D’accordo. Ma allora cominciamo dalla meta. Se questa r’eš di trans-
gressori è futura, stabiliamo di che futuro si tratterà. Venire via da un luogo
è troppo poco. Chi si limita a venire via da una situazione, ha solo quella
situazione in mente: può allontanarsene quanto vuole, ma sarà più o meno
lontano da qualcosa, invece che più vicino a qualcos’altro. Solo se si sa
verso dove si va c’è un senso dell’andare».
Su questo non posso convenire con te.
C’è una ragione per cui Dio dice ad Abramo di andare verso «un paese che
io ti indicherò» (Genesi 12,1) e non glielo indica ancora. È quel che avviene
sempre nell’evoluzione: in nessuna speciazione – cioè quando si sta
formando una specie nuova – gli individui sanno in anticipo quali saranno
le loro caratteristiche quando la speciazione sarà avvenuta. Non lo si può
sapere da subito, perché all’inizio quegli individui non sono ancora ciò che
saranno nelle varie fasi evolutive ulteriori. In ciascuna di quelle fasi il loro
modo di pensare, l’orizzonte delle loro conoscenze sarà diverso: si sarà
mutato, si sarà ampliato, così che quel che sapevano prima potrà servire a
ben poco o costituirà addirittura un intralcio.
Quando un animale acquatico cominciò a saggiare la possibilità di
evolversi in anfibio, le sue facoltà, tutte basate sul nuoto, non potevano
aiutarlo né a risolvere i problemi del movimento sulla terraferma, e
nemmeno a intuire e comprendere quei problemi.
«Ma allora come si fa a de-siderare qualcosa?»
Si tenta. Ci si mette in cerca, come vedrai quando parleremo della
formulazione dei de-sideri. Per ora sappi che cominciare a de-siderare
somiglia sempre a un salto nel buio, mentre intorno tutto comincia a
cambiare rapidamente.
«Ma bisogna pur avere qualche presupposto per mettersi in moto!»
È vero, non si può sapere nulla se non si ha un qualche presupposto: ogni
nostra conoscenza è la conseguenza di un punto di vista che avevamo
assunto prima di darle forma; dunque, la scelta del punto di vista precede il
sapere, e non viceversa.
Ma noi siamo precisamente al momento della scelta, ovvero non sappiamo
ancora nulla. Al massimo, potrei dirti: quel che cominceremo a de-siderare
sarà, secondo la mappa del Ramificarsi delle Vite, espressione della
Bellezza, della Maestà, dell’Equilibrio, della Giustizia, dell’Abbondanza,
dell’Intelligenza, della Sapienza e della Volontà – cioè delle qualità delle
sfere angeliche. Nel mondo cercheremo qualcosa che somigli a quelle
qualità, ma all’inizio non sappiamo ancora se c’è. Ci apriamo alle
possibilità, soltanto.
«Ma non potremmo cominciare dicendo, per esempio: in quanto membro
del futuro popolo dei de-sideri, io vorrei una Rolls-Royce? Così,
sperimentalmente, tanto per smuoverci».
Perché vorrei? Perché usare il condizionale? A quale condizione vorresti
una Rolls-Royce?
«D’accordo. Allora posso dire: io voglio una Rolls-Royce. Va bene così?»
Direi proprio di no, o almeno non ancora. Formulato così sarebbe un
desiderio sprecato e probabilmente un equivoco. Perché vorresti o vuoi una
Rolls-Royce, adesso?
«Perché è una macchina di prestigio».
Cioè? Di’ la verità.
«Perché fa sembrare ricchi».
A chi? E dove?
«Dovunque. A chiunque».
Ma precisamente dove e a chi? Agli altri inquilini del tuo palazzo? Ai
commessi dei negozi davanti a cui parcheggi? Ai tuoi amici?
«Sì, per esempio».
Ti interessa il loro parere?
«Penso di sì».
Perché?
«Perché rafforza l’idea che ho di me».
L’opinione di un po’ di gente rafforza l’idea che tu hai di te?
«No?»
Penso che l’idea che tu hai di te sia tua, e non di altri.
«Che male c’è a volersi vantare un po’?»
C’è che non è un de-siderio: non cambia nulla né in te né nel tuo mondo: ti
lega un po’ di più a quello che sai di essere, senza farti scoprire nulla di
nuovo, di te.
«Ah. E se avessi risposto che voglio una Rolls-Royce perché è una bella
macchina?»
Come sai che è bella? L’hai mai guidata?
«No, ma immagino che lo sia. Tanti lo dicono».
C’è un bel comandamento, tra i primi dieci: di solito viene tradotto non
desiderare la roba d’altri, ma così diventa insensato. Ne risulterebbe che
Dio abbia proibito di desiderare qualsiasi cosa, dato che al mondo non
esiste nulla che in qualche modo non sia di qualcuno: quindi, per rispettare
questo comandamento, in un negozio dovresti non desiderare nulla (perché
tutte le merci esposte sono del negoziante) e comprare soltanto ciò che non
ti piace. Essendo ciò impossibile, il comandamento «non desiderare la roba
d’altri» può servire solo a esacerbare il tuo senso di colpa, a sentirti
disapprovato continuamente da Dio, se ci credi, oppure a non dare peso ai
comandamenti perché sono assurdi – il che è la soluzione preferita da tutti
coloro per i quali la religione è un fatto sentimentale, privato, che ognuno
può aggiustare a se stesso come gli pare.
«Certo. Erano i miei prediletti. I miei più fedeli ascoltatori, al tempo del
mio conformismo».
Peggio per loro. Il senso di quel bellissimo comandamento, se ne hai il
coraggio, è: Non de-siderare quello che desiderano gli altri. Cioè, accorgiti
che i tuoi desideri sono un mezzo magnifico per scoprire chi sei, e che
questa scoperta non avviene se scambi per un tuo desiderio quello che è
soltanto un desiderio altrui.
«Quindi è un comandamento contro la pubblicità. La pubblicità è far
desiderare a qualcuno quello che desiderano altri».
Sicuramente. Ma siccome ai tempi in cui fu scritto l’Esodo la pubblicità
non c’era ancora, faremo meglio a dire che la pubblicità va contro questo
comandamento: ti insegna a mettere il dover volere al posto del desiderare.
Chi la ascolta comincia a dover volere la tal cosa perché altri la vogliono, e
altri la vogliono perché altri ancora dicono che bisogna volerla per essere
come tanti, oppure per essere al di sopra di tanti nei modi in cui tanti sono
stati abituati a figurarsi l’essere al di sopra di tanti.
«È che come diavolo ero abituato a suscitare voglie negli altri. Ho qualche
comprensibile resistenza a provare desideri miei, o addirittura de-sideri
miei. È una cosa nuova per me. Ho solo fatto un tentativo, con la Rolls-
Royce».
Per tanti è una cosa nuova, e hai detto bene: conviene evitare che sia il tuo
ruolo sociale a dirti cosa desiderare: «io come diavolo», dici: e «tu come
diavolo» non sei tu. Tu sei tu e basta, senza nessun come.
«Insomma dovrei istituire una specie di controllo d’origine sui miei de-
sideri?»
Per quanto riguarda il tuo desiderio di una Rolls-Royce, ti consiglierei di
aspettare a formularlo fino a quando non avrai cominciato a chiederti chi è
quell’“io” che dentro di te desidera, e quali rapporti ha questo tuo “io” con
gli altri. E se ti risulterà che un tuo “io” si è troppo integrato al suo mondo
attuale, e che perciò riesce a desiderare soltanto quello che desiderano altri,
farai bene a lasciarlo perdere e ad andare in cerca di un altro tuo “io”,
libero, fuori dal mondo.
«Tra i tanti “io” che ho, qualcuno di utile ce ne sarà, dici tu».
Certo. E magari è un “io” che prima non conoscevi.
«E se poi risultasse che quest’altro io non de-sidera niente, perché è il mio
asociale, ancora bisognoso di nascondersi? Magari se ne sta lì imbronciato,
astratto, sentendosi troppo superiore a tutto quello che so già...»
Lo escludo. Il tuo “io” autentico ha certamente de-sideri talmente grandi
da meravigliarti.
«Mi ci vorrà molto per individuarlo?»
No. Non ci si arriva attraverso lunghi ragionamenti. Per individuare il
proprio “io” più autentico basta qualche istante, è intuitivo: lo senti d’un
tratto, e dirai: Eccomi, ecco il mio io, quello che fa sembrare tutti gli altri
miei “io” approssimazioni, compromessi, finzioni anche.
«Già. Ecco l’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Ma l’agnello
di Dio è quello che viene sacrificato a Pasqua. Si rischia, così. Sicuramente
si rischia».
Ci sono due modi di sentirti l’agnello di Dio. Uno è rischioso, certo: ed è
quando hai voglia che il tuo vecchio mondo, i tuoi gruppi ti diano ragione,
approvino e festeggino il tuo cambiamento. Gesù aveva questa forte
esigenza e la pagò cara. L’altro è un superamento di se stessi talmente netto
e ampio da costituire già un sacrificio totale di sé. È un aspetto
particolarmente impressionante del salto nel vuoto che ti dicevo.
«E sarebbe?»
Smetti di essere te stesso. Smetti di far esistere soltanto il te stesso che
conosci.
Smetti di difenderlo.
Smetti di temere e di ignorare quel che sei di più.
Decidi che il tuo senso di colpa proviene, prima di tutto, dal fatto che tu,
nel profondo di te, sai di essere troppo poco te – perché hai deciso di
acconsentire a ciò che alcuni ti avevano imposto fin dall’infanzia, e che
tanti continuano ad aspettarsi da te oggi.
Nel mondo, si vuole che tu sappia che solo a condizione di adeguarti a
queste imposizioni ti è permesso di far parte dei gruppi umani. «Perché
questa è la realtà», ti dicono. E tu te ne sei convinto.
Forse sei di quelli che si sono adeguati del tutto, e che hanno cominciato a
ignorare sistematicamente tutto ciò di cui potrebbero dire «mi piace». E
vivono come robot. Oppure hai provato a opporti, a sfidare le esigenze del
mondo – come un eroe che lotta contro un drago: complimenti, in tal caso:
hai avuto coraggio. Ma era un tranello, oggi puoi accorgertene. Il drago
c’era e c’è davvero, sì, ma sappi che il suo scopo è farti combattere: attirarti
cioè nella gola montana in cui è rintanato, distogliendoti da tutte le altre
direzioni.
«Cioè il drago è come la paura?»
È una paura delle paure. Vuole dominarti. Se hai ingaggiato la lotta con il
drago-mondo, il drago-mondo ha già vinto: tutte le tue energie hanno finito
per concentrarsi su di lui, e proprio nell’atto di ribellarti e di opporglisi tu
ne sei rimasto calamitato.
«Era questo che intendevi davvero, quando dicevi che siamo come
ombrelli in un temporale?»
Sì, lì ci andavo ancora cauto. Ora che siamo più in dimestichezza
possiamo parlare più francamente, per chiarirci bene le nostre intenzioni.
È spiacevole e difficile quello che ti sto proponendo, ma penso sia l’unico
modo di accorgerti di ciò che hai difeso e voluto finora, e di quanto fosse
poco.
Per tutti è seccante accorgersi di aver avuto torto in qualcosa. Io ti chiedo
di accorgerti di aver avuto torto in tutto: di avere sbagliato la vita, sia che tu
sia stato una rotella di uno dei tanti ingranaggi del mondo, sia che tu sia
stato un Don Chisciotte che si scagliava contro gli ingranaggi di un mulino
a vento, credendo che fossero un drago.
Prova a pensare: La mia vita non vale niente, così come l’ho vissuta. Non
ho fatto né quel che potevo né quel che dovevo. Sono in debito verso di me,
il mio comportamento è stato ingiusto verso di me. Sono stato uno stronzo
con me stesso. Scappo. Sono sempre scappato da me. Così non mi piaccio e
decido che questo mio io è finito. Da oggi.
Penso che non ci sia sconfitta più grande di questa, per un individuo. Ma
l’ignoranza si sconfigge solo così.
I meccanismi di difesa si sgretolano così, e tutta la prigione in cui ti hanno
rinchiuso va in pezzi.
Le tue paure rimangono indietro, così, sempre più lontane, perché erano
soltanto ciò che tratteneva quel tuo “io” dallo scorgere veramente la sua
situazione. E ora quell’“io” non sei più tu. Lo hai soltanto, come si ha un
ricordo o semmai una cicatrice.
E anche il tuo senso di colpa sta cominciando a scomparire, così, perché
anche quello era suo, di quel tuo ex-“io”, mentre il tuo “io” di adesso è il
danneggiato: non ha colpe, ha soltanto sdegno.
«Ma così non sono più nessuno».
Appunto per ciò puoi desiderare tutto, adesso. Ci guadagni molto, a
perdere te stesso.
«Ma… sdegno, dici? Io ho la sensazione che se provassi davvero a far
così, sarei pieno di rabbia».
Non più di quanto lo sei ora. E non solo. Alle quattro categorie di limiti ed
errori che già conosci, aggiungi queste altre: rabbia, rimorso, rimpianto,
rancore. Sono sentimenti che proveresti, sì, se facessi quel che ti ho chiesto:
ma non perché nascerebbero in te soltanto adesso. Ci sono da tanto tempo,
ma nascosti in profondità. Ti accorgeresti soltanto di averli provati da
decenni.
Rabbia repressa, contro chi ti ha frustrato e contro te stesso, per esserti
lasciato frustrare.
Rimpianto, per ciò che c’era prima delle frustrazioni, e che dopo si è
perso; e per ciò che sarebbe potuto accadere se le frustrazioni non ti
avessero piegato, e che non è accaduto.
Rimorso di non aver reagito, quando avresti dovuto e potuto. Avresti
potuto, sì. E, probabilmente, se avessi reagito avresti fatto un gran bene a
quelli che ti frustravano. Frustravano te perché a loro volta erano stati
frustrati, e se avevano potuto pensare di rivalersi malamente su di te, è stato
soltanto perché avevano creduto che nel mondo le frustrazioni fossero
inevitabili. Se avessi reagito, gli avresti dimostrato che si sbagliavano. Li
hai amati poco, rinunciando a reagire. E di questo hai rimorso.
E, infine, rancore: cioè quel sentimento speciale, misto, greve, che risulta
dall’aver covato a lungo rabbia, rimorso e rimpianto, tanto da lasciarli
irrancidire, e da far diventare irrespirabile l’atmosfera in certe profondità
del tuo animo, che perciò sono divenute impraticabili.
Tutto questo c’è dentro di te da chissà quanto tempo, ma senza che tu
osassi saperlo. Non ci badavi, e in tal modo permettevi che rabbia, rimorso,
rancore e rimpianto influissero sulle tue decisioni: non potevi impedirlo,
perché non li guardavi. Quanti fatti del tuo mondo ne sono stati
determinati?
«L’ho sempre visto negli altri, non in me».
Ora puoi guardarli, quei fatti, invece di tenerli accantonati in qualche parte
oscura del tuo cosiddetto inconscio: e lo sdegno che proveresti sarebbe il
fastidio con cui ti stacchi da quei residui.
«Li espellerei? È davvero così semplice?»
C’è una regola, nella vita psichica di ogni individuo. Io la chiamo la regola
del sei-sai, e la porrei come uno dei valori principali del futuro popolo dei
de-sideri. Funziona così: se sai di essere qualcosa, non la sei più.
«Tutto qui?»
Tutto qui. Se, poniamo, un bugiardo compulsivo sa, in un dato momento,
di stare mentendo, in quel momento non è più un bugiardo, ma è sincero. Se
un vile sa di essere un vile, nel momento in cui lo sa non è più un vile, ma
sta guardando se stesso da una posizione di coraggio.
«Il tuo sei-sai sarebbe il contrario del - -, più o meno?»
Più o meno. Ma non è mio; è una regola che ha una lunga storia. Un suo
risultato recente lo si trova in psicologia. Qualsiasi trattamento
psicoanalitico o psicoterapeutico consiste in un lungo periodo iniziale
durante il quale il paziente deve essere aiutato a sapere che è nevrotico, e
quale sia precisamente la dinamica della sua nevrosi: durante questo
periodo, il paziente tenderà a giustificare ogni suo comportamento
sintomatico, sarà convinto di aver avuto in qualche modo ragione a essersi
comportato a quel modo, dimostrerà al medico la logica che lo spingeva a
determinati atti. Poi, se l’analista non è disonesto e ha sufficiente tenacia,
verrà il giorno in cui il paziente riconoscerà il carattere solamente morboso
di quei suoi comportamenti. «Vedo che sono ammalato», ammetterà. E
dicendolo, non fosse che per un attimo, non sarà più nevrotico. La fase
successiva della terapia consisterà nel moltiplicare e rafforzare quegli
attimi, fino a che diventino ore, giorni, mesi, durante i quali il mondo intero
apparirà al paziente sotto una luce nuova.
Ma la stessa cosa avviene da millenni – in maniera molto più sbrigativa –
nella confessione cristiana, per la quale se il confessando ammette
sinceramente di aver commesso un peccato, la sua ammissione di essere un
peccatore perde d’un tratto fondamento: per la regola del sei-sai, il
peccatore che sa di esserlo non lo è più: è sciolto, absolto dalle sue azioni
sbagliate.
E millenni prima del sacramento della confessione avveniva lo stesso
anche quando si chiedeva semplicemente «scusa!» per qualcosa. Avrai
notato lo strano potere della parola «scusa!»: quando qualcuno te la dice,
senti subito un impulso a non tener conto di un suo atto che ti è dispiaciuto;
e se reprimi questo impulso ti senti, subito dopo, in torto, a disagio – ovvero
nella condizione di dover chiedere scusa tu stesso. C’è parola magica che
sia stata usata più spesso? E così è da sempre. Questo potere veramente
magico ti appare meno strano se ti accorgi che si basa anch’esso sul sei-sai:
«scusa!» significa infatti: «so che faccio qualcosa di sbagliato, dunque non
sono più uno che fa quel qualcosa di sbagliato».
«E non è la stessa cosa del perdono?»
No. Puoi perdonare uno che si è comportato vilmente con te anche se
quello non sa di essersi comportato vilmente con te. E il perdono che
concedi riguarderà solo te, e non colui al quale lo concedi – e che potrà non
riceverne alcun impulso a cambiare. Invece il sei-sai riguarda chi ha fatto
qualcosa che non andava fatto.
«D’accordo. Ma sei sicuro che il sei-sai sia un rimedio tanto universale?
Cioè che valga per tutto, per qualsiasi sentimento, o condizione in cui si
possa trovare? Poniamo: se io amo una persona e mi accorgo di amarla,
oppure la odio e so che la odio, il mio amore o il mio odio cessano?»
Fa’ la prova.
«Be’, l’ho fatta più volte. Ho pensato: “io amo questa persona” e ho
continuato ad amarla, e “io odio quel tale” o “lo invidio” e ho continuato a
odiarlo o a invidiarlo».
Dici bene: hai continuato. Potresti dire ancor meglio: «Ho ricominciato ad
amare o a odiare o a invidiare certe persone, dopo essermi accorto che le
amavo, od odiavo o invidiavo». In quell’accorgerti c’è stata una soluzione
di continuità nei sentimenti che provavi per loro, e non sarebbe stato
possibile altrimenti: per scorgere una qualsiasi cosa, inclusi i sentimenti,
devi non essere quella cosa – per la stessa ragione per cui una pupilla non
vedrà mai se stessa.
«E se la pupilla vede se stessa in uno specchio?»
Vedrà non se stessa ma lo specchio, e nello specchio la propria immagine
bidimensionale, e dunque distorta.
«Dunque dicendo “so che ti amo”, o “so che ti odio”, o “so che li invidio”,
io sto dicendo la verità sul mio sapere ma sto mentendo riguardo al mio
amare, odiare e invidiare?»
Non proprio. Dicendolo, intendi dire che un tuo “io” sta amando, odiando
o invidiando, ma che tu sei un altro tuo “io”, che lo sta osservando.
«Questo significa che non conoscerò mai me stesso».
Conoscerai soltanto un tuo “io”, che nel momento in cui lo conosci non è
tutto di te stesso. L’altro “io” che lo guarda non lo puoi conoscere, perché lo
sei. Quest’altro “io” ti dirà quali sono i tuoi veri de-sideri, finchè lo sarai.
Non sei convinto? Cosa ti trattiene dallo scoprirlo?
Cosa non vorresti perdere?
«In che senso?»
Chiunque si stacchi da un mondo e dai suoi “io” che agivano in quel
mondo, sarà trattenuto dal dispiacere di perdere qualcosa che fa parte di
quel mondo e di quei suoi “io”. A me, per esempio, se d’un tratto dovessi
trasferirmi in California dispiacerebbe molto dover dire addio, almeno per
un po’, ai miei tre gatti.
«Cosa non vorrei lasciare lasciando i miei “io” attuali… È un test, vero?»
Sì.
«Be’, immagino: alcuni amori. L’amore che ho adesso verso certe persone,
alle quali i miei vecchi “io” erano legati, e forse il mio “io” nuovo non lo
sarebbe più».
O anche l’odio verso certe cose e persone? O l’invidia?
«Molto, sì».
E, se provassi a immaginare come avverrebbe, quali di questi sentimenti ti
tratterrebbe di più: l’amore, l’odio o l’invidia?
«Non saprei. L’invidia, forse».
Se vuoi la mia opinione, l’amore no. Se temi di perdere un sentimento
d’amore, ho seri dubbi che si tratti di vero amore. L’unica ragione per cui si
può voler difendere un amore è l’aver capito che si tratta di qualcosa più
grande di te, e che l’unica persona da cui doverlo difendere sei tu stesso,
quando vorresti distruggerlo per paura della sua grandezza.
«Quindi se è un grande amore non lo perderei, perdendo i miei “io”
attuali?»
No.
«Ma se mi stacco dai miei vecchi “io” e comincio una nuova vita, può
darsi che la persona che amo non mi stia dietro, e allora la perderei».
Allora non dire che ti tratterrebbe l’amore. Di’: mi tratterrebbe una
persona da cui non voglio staccarmi. E non mi metterò a de-siderare
davvero ciò che de-sidero, perché altrimenti quella persona sarebbe troppo
lontana da me. Mi spiace se questa frase, quando l’avrai ripensata un paio
di volte, rischierà di rovinare i rapporti tra te e quella persona. Ma è un
problema che va affrontato.
L’odio, invece, potrebbe trattenerti molto, secondo me. L’odio per
qualcuno o qualcosa ti ha certamente spinto a dichiarare qualche guerra che
oggi stai combattendo. Magari hai qualche grande ideale di giustizia, e odi
profondamente coloro che impediscono che questi ideali si realizzino. Se
dovessi andartene dal mondo in cui costoro spadroneggiano, ti sembrerebbe
di lasciare il campo.
Oppure provi odio verso certe persone che ti hanno ostacolato: ti sei
prefisso di surclassarle e svergognarle, e non ti va che, con il tuo andartene
via dal loro mondo, quelle persone la passino liscia.
«Può darsi».
L’invidia, in qualche modo, è anche peggio. L’invidia è l’aver desiderato
troppo quel che hanno desiderato altri. Ha plasmato il tuo modo di vedere, i
tuoi obiettivi e, attraverso i tuoi obiettivi, tutte le forze di cui ora disponi
nelle tue attività. Staccarsi dall’invidia è un atto titanico.
«E la superbia, l’accidia, l’avarizia…»
Certo. Sono tutti fatti che ti tratterrebbero dal de-siderare e dal cambiare
mondo; ma non ti pare che sarebbe deprimente rinunciare per garantirti
questi ignobili difetti?
«Di tutto questo, io dubito fortemente. Come ex-diavolo, io so che una
persona è i suoi vizi capitali. Sono fonti inesauribili del suo carattere, di
tutti i suoi problemi, o progetti che dir si voglia, e perciò di tutto il suo
mondo. Questo so, per esperienza».
Perciò quando cominciassi a cambiare mondo, quei vizi ti ripugnerebbero.
Ti accorgeresti che hanno contribuito potentemente a impedirti di de-
siderare, finora. Da adolescente, ti hanno fatto credere che de-siderare ti
facesse essere troppo diverso dagli altri. Da giovane, ti hanno fatto credere
che de-siderare è da deboli: era il tempo delle vanterie, e il de-siderare è il
contrario della vanteria. Da adulto, ti hanno fatto credere che de-siderare
distrae dalla deadline della tua giornata di lavoro. Da vecchio, ti faranno
credere che ormai sia troppo tardi per de-siderare.
«D’accordo. Capito. Ma come la mettiamo con le persone da cui non
vorrei allontanarmi?»
Vuoi dire al di là del senso di colpa, della paura, dell’ignoranza, dei
meccanismi di difesa, della rabbia, del rancore, del rimorso e del rimpianto,
per i quali il legame con una persona diventa tanto spesso una muraglia
insuperabile? Pensi che nell’attaccamento a una persona ci sia altro oltre a
questi limiti ed errori? Vuoi che te ne parli?
«Solo un po’. Giusto per mandare giù un altro rospo».
Stai fingendo: in realtà hai già capito.
Cominciamo dai meccanismi di difesa. L’autoidentificazione con i nostri
blocchi viene spesso rafforzata da legami affettivi. Capita di voler rimanere
accanto a una persona perché certe nostre vecchie esigenze sono esaudite da
quella persona, o perché abbiamo deciso che lei sia l’unica in grado di
esaudirle: e ciò ci fa credere che quelle esigenze siano ancora nostre –
insieme alle nostre condizioni interiori, che le avevano determinate –
mentre né quelle esigenze né quelle condizioni ci appartengono più da
tempo.
Quanto alla paura, il nostro attaccamento a una persona può facilmente
dipendere dalla paura delle scoperte che compiremmo in noi stessi e nel
mondo, se quella persona si allontanasse.
L’ignoranza contribuisce a vincolarci a una persona, perché se non
ignorassimo una quantità di dettagli non potremmo figurarci quella persona
in modo che corrisponda esattamente a ciò che ci aspettiamo da lei.
E il senso di colpa…
«Va bene, basta, basta. Ho capito. Davvero».
E il senso di colpa ti tiene attaccato a una persona per due ragioni: la
prima è che pensi di non averle dato abbastanza, e la seconda, molto più
perfida, è che, essendo convinto di non meritare, non hai osato chiederle
abbastanza, e perciò stai ancora aspettando che ti dia ciò che finora non ti
ha dato.
Ma poi, cos’è questa storia? Perché, precisamente, una persona che ti è
cara non dovrebbe voler cambiare come cambieresti tu, o anche più di te?
Non è che temi di scoprire che da quella persona vorresti liberarti, ma non ti
permetti di pensarlo?
«A questo punto non so più niente. Va bene così».
IL SENSO DEL MONDO
«Va bene così… Si fa per dire! A considerare la situazione in questo
modo, potrei anche cominciare a de-siderare, con tanto di salto nel buio, ma
il mondo così come lo sto vivendo adesso perderebbe completamente di
senso».
Ha senso, adesso?
Il mondo non ha mai un senso, di per sé. Ciascuno degli innumerevoli fatti
di cui consiste può avere tanti sensi quanti si è disposti a dargliene – e tutti
quei sensi si possono dimostrare validi, se si stabiliscono premesse ben
calcolate a tal fine. Ma proprio perciò il mondo, di per sé, non ha un senso.
Non hanno un senso e hanno moltissimi sensi le guerre, e di conseguenza
anche i periodi di pace; e così pure le libertà concesse o negate dai governi;
e i conflitti tra i poveri e i ricchi; e l’inquinamento e il progresso; e
l’arretratezza e la miseria, e qualsiasi altra cosa tu veda spesso nel mondo
che conosci. Il che significa che il nostro mondo rientra tra i fenomeni
caotici, all’interno dei quali i sensi sono talmente tanti da impedire qualsiasi
previsione dei loro sviluppi.
«Ma… C’è un ma, vero?»
Sì. Ma in qualsiasi istante tu puoi dare un senso al mondo. Anzi, in
qualsiasi tuo istante tu gli stai dando un senso, anche se per lo più non fai
caso a questa tua strabiliante facoltà.
«È quel che dicevamo della ricerca della verità indivi-duale?»
È qualcosa di meno e qualcosa di più.
«Cioè?»
Noi possiamo dire: «Ecco, questo è il vero senso del mondo» Dunque il
senso del mondo e la verità non sono la stessa cosa, anche se ognuno di noi
può stabilire per suo conto sia l’uno che l’altra.
«Sto capendo. Il senso del mondo è il modo in cui il mondo si evolve,
diviene, intende. La verità invece è oltre. Dico bene?»
Sì. Ora occupiamoci solo del senso del mondo.
Parlare del senso di una qualsiasi situazione significa valutare ciò che in
quella situazione è giusto o sbagliato. Ovvero: possiamo dire che in una
situazione qualcosa ha senso, cioè è giusto, solo se in quella situazione
qualcos’altro non ha senso, cioè è un errore. Ora, secondo te, in tutto ciò
che avviene nell’universo c’è un qualche errore?
Guardati intorno e trovami un errore. C’è un colore errato, nelle cose che
ci circondano? Una nuvola errata? Un’onda errata nel mare? Una pietra
errata? No. Nell’universo non c’è errore. Tutto ha senso a suo modo.
Dunque non c’è un senso, fino a che tu non intervieni con questa
sorprendente parola: “errore”, con la quale indichi ciò che soltanto secondo
te è insensato, perché discorda dal senso che tu dai alle cose. Ne viene che
senza di te il mondo non ha un senso. A questo punto il problema diventa:
tu hai senso?
«Cioè, vuoi sapere se io sono giusto o sbagliato?»
Sì. È chiaro che quello è il punto principale, e lo è in modo circolare: è il
punto d’arrivo, perché dal senso che avrebbe l’universo deriveresti il senso
che hai tu; ed è anche il punto di partenza, perché se tu non hai senso non
hai neppure il criterio per valutare se il mondo abbia senso o no.
«Io penso che l’universo abbia un senso, anche se io non lo conosco, e
dunque ho senso anch’io, anche se non so qual è questo senso».
E, secondo te, è un senso solo?
«Non lo so».
Decidilo.
«Sì, decido che ho un senso. Mi va così. Io ho senso».
Dunque vedi che il senso di tutto dipende non soltanto da te, ma dal senso
che tu ti dai.
«Se no, niente ha un senso».
Niente.
«Bella responsabilità, la mia».
Già. E con ciò che ti dirò a questo proposito rischierò di metterti di cattivo
umore per almeno un’oretta. Proseguo?
«Prosegui».
D’altronde sono cose che riguardano direttamente la capacità di de-
siderare, e la formulazione dei de-sideri, e anche la loro realizzazione. È
bene che, a questo punto, tu mi stia a sentire, anche se farò un po’ di
filosofia che potrà sembrarti difficile.
Quelli che danno un senso al mondo, e poi si convincono che il mondo
abbia appunto quel senso, sono gli individui razionali.
«Il reale è razionale e il razionale è reale, come diceva Hegel».
E Hegel infatti teneva moltissimo alla Ragione. Ma dare un senso
razionale a una qualsiasi cosa significa contare che molti possano approvare
quel senso che gli dai: dico molti, e non tutti: infatti, se qualcuno dice
qualcosa di razionale, lo possono approvare solo quelli che parlano la sua
lingua.
«La Ragione non è sempre una in assoluto? Così la intendono i filosofi».
Così l’hanno intesa alcuni filosofi e si sono sbagliati, ciascuno per i suoi
motivi ma tutti allo stesso modo. La Ragione è sempre un fatto locale. Può
essere la Ragione prussiana ottocentesca di Hegel, oppure quella ebraica
seicentesca di Spinoza, o quella austriaca novecentesca di Wittgenstein, e
così via; e il mondo acquisterà, per Hegel, Spinoza, Wittgenstein, il senso
razionale che Hegel, Spinoza, Wittgenstein vogliono e riescono a dargli nel
loro periodo, come esponenti della razionalità della loro epoca e del loro
popolo. E difficilmente il senso razionale dato dagli uni corrisponderà al
senso razionale dato dagli altri.
La stessa cosa succede anche a te: se tu dai un senso razionale al mondo,
chi parla la tua lingua lo capirà e magari lo approverà; ma se fossi vissuto in
un’altra epoca, avresti dato al mondo un senso razionale diverso, che i tuoi
contemporanei d’allora avrebbero approvato, e che né tu né i tuoi
contemporanei attuali approvereste oggi.
«Spiegami bene cosa c’entra la Ragione con la lingua».
La Ragione – a differenza del sentimento, dell’intuizione,
dell’immaginazione, della sensazione ecc. – non può agire se non con
l’ausilio di una lingua: la Ragione coordina i dati forniti dal sentimento,
dall’intuizione, dall’immaginazione, dalla sensazione ecc., formalizza quei
dati, e li elabora entro il mondo che una determinata lingua fa esistere.
«Ogni lingua fa esistere un mondo diverso…»
Certamente. Può trattarsi di differenze lievi, come quelle tra l’inglese e il
tedesco, o di differenze enormi, come quelle tra il tedesco e il francese. Non
mi dirai che un mondo in cui la parola “Spirito” è sinonimo soltanto di
“spettro”, come nell’inglese Ghost, sia lo stesso mondo in cui la parola
“Spirito” è sinonimo di “brillantezza intellettuale”, come nel francese
esprit. Mentre in greco, in latino, in ebraico, la parola “Spirito” (pneûma,
spiritus, RwaḤ) è sinonimo soltanto di “vento leggero”. Se ciò che è
spirituale è tanto diverso nella mente degli inglesi, dei francesi, dei greci,
dei latini, degli ebrei, altrettanto diversi saranno anche i limiti, le
configurazioni, i significati di ciò che nella mente di ciascuno di questi
popoli è materiale. Ciascuna lingua fa esistere un mondo diverso,
strutturandolo in un certo modo attraverso il proprio lessico e la propria
sintassi: e la Ragione non esiste se non in una serie di atti linguistici più o
meno complessi.
«Suppongo che anche questo c’entri con la capacità di de-siderare?»
Eccome. Vedrai. E spero che poi non ti verrà più in mente di dire che non
puoi de-siderare qualcosa perché non è razionale.
«Corro questo rischio?»
Tutti corrono questo rischio, perché purtroppo la Ragione è potentissima:
limita le prospettive della nostra psiche tanto quanto la nostra lingua, dando
forma al mondo, limita la nostra percezione della realtà. Non per nulla è
locale, proprio come il senso di colpa.
La Ragione, infatti, è quell’apparato psichico che sceglie, calcola e critica
i mezzi per giungere a un obiettivo. Non fa né può fare altro. Non può
scegliere essa stessa gli obiettivi a cui giungere – a meno che non si tratti di
obiettivi intermedi, di tappe, per il raggiungimento di un obiettivo ulteriore,
principale, che la Ragione trova già bell’e pronto nell’orizzonte di un
popolo o di una civiltà. Dunque la Ragione è innanzitutto obbediente.
«Lo sapevo, lo sapevo d’avere sempre lavorato per la Ragione. Nessuno
più di me».
La Ragione è l’esatto contrario della ricerca della verità, la quale, come
già sai, è del tutto individuale. La Ragione illumina soltanto ciò che già
sappiamo per averlo sentito dire da altri, e oscura ciò che un individuo
potrebbe scoprire per proprio conto. Per esempio: la Ragione interviene
nello stabilire quali comportamenti siano migliori nel contesto del tuo
lavoro (come fare per arrivare al lavoro in orario, come comportarti con i
colleghi, come svolgere le tue mansioni in modo soddisfacente e in un
tempo ragionevole) ma la Ragione non si porrà mai la questione se sia
ragionevole lavorare, perché la tua civiltà ti ha posto come obiettivo
fondamentale e non negoziabile la necessità di lavorare. Oppure, la tua
Ragione dubiterà che sia ragionevole lavorare, se avrai aderito
appassionatamente a un qualche movimento spirituale contrario al lavoro, e
questo movimento ti avrà posto obiettivi diversi da quelli della tua civiltà,
escludendo il lavoro dagli obiettivi principali. In un caso o nell’altro, chi
pone alla Ragione gli obiettivi principali sono e saranno sempre altri:
moltitudini più o meno vaste, che le loro vicende passate (le loro, non le
tue!) hanno orientato, come l’orografia di un territorio conforma i corsi
d’acqua che lo attraversano.
Se invece immaginassimo che fossi tu, soltanto tu, in assoluta libertà,
indipendentemente da ogni tuo rapporto col mondo presente e passato, a
porti i tuoi obiettivi principali, e che riuscissi in qualche modo a formularli,
ci sarebbe un’altissima probabilità che quei tuoi obiettivi risultassero
irrazionali agli occhi degli altri. E potrai dimostrare il contrario, cioè che
quei tuoi obiettivi sono razionali, soltanto se riuscirai a convincere gli altri
che i loro obiettivi principali sono obiettivi intermedi, e che i veri obiettivi
fondamentali sono i tuoi. Allora gli altri diranno che la Ragione è dalla tua
parte, cioè ti obbediranno. Non c’è altro modo: la Ragione può solamente
obbedire a qualcun altro – in questo caso, a te. Ovvero, è una facoltà
psichica servile. È abbastanza chiaro?
«Non esiste una Ragione sola, ne esistono tante quante sono i periodi
storici dei vari popoli, e sono tutte forme di obbedienze: questo è chiaro. E
ciononostante ogni popolo ritiene che l’unica Ragione valida sia la sua, e
che le altre, in confronto, siano più o meno irrazionali. Quindi l’uso della
Ragione ha alla sua base questa contraddizione decisiva».
Sì. È tipico dei servi vantarsi dei propri padroni, cioè della propria servitù.
Ma dimmi: una facoltà psichica che si sottomette sempre agli orientamenti
altrui, e che ha bisogno del consenso degli altri per sapere se ha lavorato
bene, non è espressione di un senso di colpa profondo? La Ragione è un
chiedere permessi ad altri. E chiede permessi ad altri chi sa che non
basterebbe chiederne a un proprio io, perché quell’io non conta, non merita
di contare.
«Il mio io asociale, dunque, è irrazionale?»
Sì. Ed è il tuo io capace di de-siderare. La Ragione porrebbe al nostro io
asociale ostacoli insuperabili, se non avessimo un piano per affrontarla, se
cioè lasciassimo che sia la nostra Ragione a dare senso al mondo – come
vogliono le persone razionali.
«Quindi è buona cosa dare al mondo un senso irrazionale?»
Sì, se stai cercando la tua verità e i tuoi de-sideri puoi dare al mondo un
senso solamente tuo, indipendente dall’approvazione altrui, ovvero
irrazionale; e proprio questo tuo senso prepara la realizzazione dei tuoi de-
sideri, in un mondo che di per sé è insensato.
«Non riesco a seguirti. In che mondo il senso che io do al mondo farebbe
addirittura avverare i miei desideri?»
Tu dai sempre un senso al mondo, e questo senso ruota intorno agli
obiettivi che tu ti poni, razionali o irrazionali che siano. Guarda questo
disegno:

Poniamo che questo sia il mondo. Un qualsiasi istante del mondo, o anche
il mondo com’è sempre, di per sé. È un insieme di fatti, qui rappresentati
dai puntini, tra i quali solo tu puoi stabilire rapporti. Puoi non stabilire alcun
rapporto tra i fatti-puntini?
«Sì. Posso guardarli e basta».
Risposta sbagliata. Nel momento in cui tu dicessi: «Tra questi puntini non
c’è alcun rapporto», mentiresti due volte: da un lato, perché avresti già
stabilito che il rapporto tra questi puntini consiste nel loro non avere alcun
rapporto gli uni con gli altri, il che è pur sempre la definizione di un
rapporto tra i puntini; e, d’altro lato, perché quei fatti-puntini si trovano tutti
in rapporto con te che li stai guardando, e si differenziano gli uni dagli altri
in base alle loro distanze da te: il che li pone in rapporto anche tra loro,
rispetto a te.
Quindi, da te viene a dipendere il senso di quest’insieme di puntini. Ora,
poniamo un’altra condizione all’insieme dei puntini, facendo ciò che fece
Dio il Secondo Giorno della Creazione: dividiamo i puntini-fatti passati dai
puntini-fatti futuri. Così:

«Ma il Secondo Giorno non fu quello in cui Dio divise le acque?»


Sì, ma le acque simboleggiavano il tempo, come spiego in un mio libro.3 E
il Secondo Giorno Dio ebbe dinanzi a sé un insieme di puntini-fatti analogo
a quello del disegno qui sopra, suddiviso in un prima e in un poi, in cui non
vi era nessun adesso, perché un adesso è una posizione all’interno del
mondo dei puntini, e Dio invece ne è fuori: essendo eterno, ingloba passato,
presente e futuro ed è più grande della loro somma. In quel Secondo
Giorno, dicevo, creò l’adesso. Scelse un puntino e in base a quello separò le
acque del tempo.
Ed è una cosa che ci riguarda personalmente, perché dinanzi a un analogo
insieme di puntini-fatti ci troviamo anche noi in ogni istante della nostra
esistenza, con un prima da una parte e un poi dall’altra, e con la differenza
che noi, non essendo eterni, siamo l’adesso di tutti i nostri prima e di tutti i
nostri poi. Sei d’accordo con me che questa semplice suddivisione
temporale comincia a dare ancor più senso all’insieme dei tuoi puntini-fatti?
«Sì».
È un senso di marcia, una direzione. Tutto il tuo mondo va da un prima
verso il poi: così dicono tutte le persone che conosci, non è vero? E il tuo
prima ti spinge verso il tuo poi: la pensi così anche tu? Obbedisci a questo?
«Non saprei, adesso…»
Questo sarebbe un senso razionale del tuo mondo, se la pensassi così:
saresti cioè in armonia con le scienze, la filosofia e il buon senso dominanti
in Occidente, dato che da molto tempo si ritiene, in Occidente, che il
passato determini il presente e di conseguenza anche il futuro. La
Rivoluzione francese ha determinato il periodo napoleonico della storia
d’Europa e la sconfitta di Napoleone ha determinato il periodo della
Restaurazione. Tu puoi non aver avuto abbastanza successo nel tuo mestiere
di diavolo perché i tuoi genitori non ti hanno amato abbastanza. La tua
conoscenza è limitata perché hai subito dei traumi che hanno dato forma,
nella tua psiche, al cosiddetto inconscio e al - -. È vero questo?
«Sono cose che avevi detto anche tu. Penso sia vero. No?»
Nel mondo è vero. Agli occhi di chi vuole obbedire agli altri, di chi vuole
ragionare come gli altri, il passato determina tutto: nel mondo c’è
indiscutibilmente questo senso di marcia – perché gli altri ce l’hanno messo
in maniera indiscutibile. Ma nel frattempo c’è anche un altro fattore da
considerare, ed è un certo grado di libertà di decisione e d’azione che tu hai
sempre, nel tuo adesso.
Secondo l’idea che sia il passato a causare il presente e il futuro (il che, in
filosofia, si chiama determinismo) risulterebbe che tu stia seguendo una
certa direzione nella tua vita perché ci sono forze, fasci di forze che, dal
passato, ti spingono in tale direzione: queste forze vengono dal passato e
dunque tu – secondo il determinismo – non puoi fare nulla per opportici,
perché qualunque cambiamento di direzione tu volessi attuare, sarebbe
determinato anch’esso da qualche avvenimento passato. Lo schema sarebbe
il seguente:

Questo, ripeto, secondo i nostri contemporanei è il senso del mondo,


perché i nostri contemporanei sono deterministi: per loro, il prodotto delle
forze del passato è il senso di qualsiasi avvenimento del mondo, e dunque
anche il senso del mondo nel suo complesso.
«Questa è per loro la verità?»
Non si domandano mai se questa sia la verità. Hanno solo stabilito che
questo è il senso razionale del mondo. E se pensassero che questa è la
verità, sarebbe molto facile contraddirli, perché è vero che in ogni istante
della tua vita tu scegli un tuo futuro – il che contrasta con il loro
determinismo.
«Non sono convinto che sia così vera, questa mia libertà di scelta».
Con “istante” intendo un infinitesimo di secondo, che quando apri la
bocca per dire la “a” di “adesso” è già passato: nondimeno, in ciascuno di
quegli infinitesimi tu, e tu solo, decidi in che direzione muovere le tue
sensazioni, il tuo pensiero, il sentimento, l’intuizione, l’immaginazione e
via dicendo. Pensaci: è facile. Pensaci. Tu ti trovi una certa situazione, cioè
in certo rapporto con i fatti-puntini del tuo mondo, e in queste ore stai
conversando con me delle tue molte possibilità; alcune di queste possibilità
contrastano con la tua situazione attuale: sono inconsuete; dieci istanti fa,
una di queste possibilità inconsuete ti è balenata nel pensiero molto
nitidamente; cinque istanti fa ti sei accorto che questa possibilità ti è
piaciuta, era bella, è bella; due istanti fa l’hai scelta; un istante fa la
decisione del tuo “io” prevalente è stata lievemente modificata dalle
decisioni dei tuoi altri “io”; adesso la decisione risultante sta per far deviare
il corso della tua situazione attuale, e tra dieci minuti la tua vita starà
cominciando a cambiare. Tra venti minuti capiterà magari un istante in cui
rifiuterai quella bella possibilità e deciderai di tornare alla tua situazione di
mezz’ora prima; oppure no. Che c’è di incredibile nel pensare che queste
tue decisioni dipendano sempre e soltanto da te?
«Solo da me? Credi davvero che siamo così liberi, noi?»
Be’, non liberi come potremmo immaginare che lo sia un unico Dio, che
in ogni infinitesimo di secondo decida lucidamente non solo la direzione
delle correnti di forze del passato ma anche tutto un progetto evolutivo che
da quella direzione consegue, e di cui solo Dio conosca il senso e la mèta
ultima. Il fatto che noi possiamo immaginarci un simile punto di vista
divino mi fa pensare che si tratti di un punto vista che abbiamo intuito in
noi stessi, e che un giorno riusciremo ad avere, ma per ora la nostra libertà
ha un orizzonte minore: in genere la direzione che prendi in un determinato
istante non è il risultato di una tua unica scelta, a te ben chiara; è piuttosto la
risultante di varie tue scelte simultanee, che interagiscono le une con le
altre, e non tutte queste tue scelte sono pienamente coscienti; perciò potresti
trovarti in una direzione che non sapevi di aver deciso, il che ti farebbe
sentire un po’ meno libero, se con il termine “libertà” intendiamo la piena
responsabilità delle tue decisioni. Ma le decisioni degli altri tuoi “io”
sarebbero pur sempre tue. Liberamente tue.
«E le direzioni che stavo seguendo nell’ora, nel giorno, nell’anno
precedente a quell’adesso? Non contano? Io nella mia vita mi sono sempre
sentito come su un’autostrada, o addirittura su una ferrovia, costruita non da
me ma dal mio passato».
Forse è perché hai sempre avuto paura della libertà di cui ti sto parlando. E
ne hai paura perché hai l’impressione che sia un modo di disobbedire agli
altri; cioè che sia irrazionale.
«Ripeto: secondo te, i miei mesi e anni precedenti non contano? Non
limitano la mia libertà?»
Certo. Alle tue spalle, nel tuo prima, una serie di fatti esercitano
sicuramente una spinta su di te, conducendo la tua vita in una direzione ben
precisa, che magari stai seguendo da mesi, da anni: ma quella serie di fatti è
limitata. Non è tutto il tuo passato.
Nel tuo passato ci sono tutte le esperienze che hai avuto con i tuoi genitori,
e tutte le esperienze che hai avuto con gli altri tuoi parenti, e amici, e
conoscenti, e tutto ciò che hai provato riguardo a persone che ti hanno
colpito per un qualsiasi motivo ma di cui non hai saputo il nome (e sono
state milioni, nella tua vita), e le impressioni che hanno prodotto su di te
personaggi di romanzi e di film, e vicende e opere di persone che hai
studiato a scuola o per tuo conto, e gente di cui hai letto nei giornali, o che
hai visto in tv, o in internet, e persone sognate, e persone che non sai bene
se esistano o no, come Dio, gli Angeli, i diavoli; e aggiungerei, senza alcun
dubbio, anche gli animali e i vegetali che in qualche modo hanno colpito la
tua sensibilità, e anche gli oggetti: hai idea di quanto influiscano sulle
decisioni fondamentali della tua vita le forme dei giocattoli, dei banchi di
scuola, delle auto, degli abiti, degli elettrodomestici, dei letti in cui dormi,
degli armadi, delle scarpe, dei reggiseno, degli occhiali, dei computer, delle
calze, dei telefonini, delle penne e delle matite con cui scrivi e disegni, e
così via, così via? Tutti questi puntini-fatti del mondo sono forze che hanno
agito e agiscono su di te, imprimendoti ciascuna una spinta in una
direzione, e le loro direzioni sono talmente diverse le une dalle altre, che
dalla loro somma non si può trarre né una né poche e neppure molte
risultanti vettoriali, ma se ne trarranno solamente di innumerevoli.
Ebbene, queste innumerevoli risultanti vettoriali non esercitano su di te
alcuna incidenza che non sia tu stesso a stabilire, in ogni tuo istante. E la
stabilisci proprio nelle decisioni che stanno formando la direzione in cui ti
muovi verso il tuo futuro. Questa direzione intercetta, in ogni tuo adesso, un
numero limitato di forze del prima, e se ne lascia portare. E questa
direzione, quando da un tuo adesso la osservi a perdita d’occhio, volgendoti
sia verso il passato sia verso il presente, diventa ed è, di istante in istante, il
senso della tua vita e, di conseguenza, anche il senso che il mondo ha per te
– indipendentemente da ciò che potrebbero dirne i tuoi contemporanei, o i
contemporanei di chiunque altro.
«A perdita d’occhio? Io guardo il mondo a perdita d’occhio in ogni mio
istante? Anche quando camminando per strada incontro uno sguardo
sorridente?»
Sì. Quello sguardo sorridente non è un punto isolato, assoluto,
nell’universo. Ha uno sfondo, ed è tutto ciò che per te può significare uno
sguardo sorridente soltanto perché ha uno sfondo nel tuo passato e nel tuo
futuro: nel passato, quello sfondo è costituito da tutto ciò che ti ho appena
elencato, cioè da tutti i minimi dettagli dell’esistenza che hai vissuto, e che
sono impressi per sempre nella tua memoria; nel futuro, si amplia fin dove
arriva la tua capacità di prevedere, di aspirare, di volere e di de-siderare. Su
questo sfondo tu scegli, in un determinato istante, di vedere soltanto quello
sguardo sorridente – che magari è il tuo, riflesso nella vetrina di un negozio
– invece di notare anche la cacca di cane sulla quale tra tre passi, se non
cambi direzione, poggerai un piede.
«Che sciocca battuta».
No, hai riso: è una buona battuta. Comunque, dicevamo: la direzione in
cui stai conducendo la barca della tua vita, quale che sia, è ciò che per te sta
dando al mondo un senso, buono o cattivo che sia: e se nel tuo passato trovi
tante e tante conferme che così è e così deve essere, e di conseguenza non ti
sembra che le tue decisioni siano libere, è perché tieni conto soltanto di
quei tuoi ricordi che giustificano la tua posizione e la tua direzione attuale.
In questo modo:

Per esempio: se per un qualsiasi motivo (rimorso, rancore, rimpianto ecc.)


un nostro amico ha scelto di sperimentare un periodo d’umore triste, di
delusioni, o di piccole vittorie di cui non c’è ragione di andare fieri,
selezionerà nel suo passato una serie di fatti significativi che giustifichino la
sua tristezza, le sue delusioni. La corrente di forza di questi fatti agirà sul
suo comportamento più di quella di tutti gli altri miliardi di fatti che
costituiscono il suo passato, e la sua non invidiabile situazione attuale potrà
sembrargli inevitabile per qualche tempo, magari per sempre. Si ricorderà
spesso di quando suo padre e sua madre erano stati scontenti di lui: in
realtà, non più d’una ventina di volte in tutta la sua infanzia e adolescenza,
ma a lui sembrerà di averli delusi centinaia di volte. Si ricorderà spesso di
qualche brutto voto preso a scuola (chi non ne ha presi?), di qualche
corteggiamento troppo goffo (a chi non è capitato?), di qualche tentativo
artistico non riuscito (chi non ha mai scritto brutte poesie?), e questi pochi
fatti determineranno tutto, per lui.
Arriverà magari a convincersi che la sua situazione attuale è il suo destino
(parola di cui lui non conosce il senso preciso, ma che gli suonerà
appropriata e, in qualche modo, anche dolce) o che così va il mondo durante
questa generazione, in questa civiltà, o addirittura che questa è la
condizione umana. Nel frattempo, continuerà a prendere – istante dopo
istante – decisioni che corrispondano a quel suo stato d’animo e a quel suo
presunto destino, rifiutandosi di scorgere le molte occasioni di cambiare
vita che in ogni istante gli si offrono, nella sua mente o intorno a lui.
«Il fine che uno si propone giustifica i mezzi che uno ha a disposizione, è
così?»
Hai detto bene. Se, invece, un’altra nostra amica ha scelto di cambiare, di
rischiare e di mostrare quanto vale, le avverrà proprio il contrario di quel
che sta avvenendo al nostro amico di prima: lei selezionerà nel suo passato
alcuni fatti incoraggianti (un sorriso dei genitori, qualche parola buona di
un nonno, un bel voto preso magari in prima elementare, l’affetto di un
gatto o di un cane, e così via), attribuirà a quei fatti un valore via via più
grande, e sia l’orientamento della sua vita, sia la qualità delle occasioni che
coglie, sia il senso che il mondo avrà per lei saranno talmente diversi da
quelli del nostro amico, che lei e lui non potranno mai intendersi su nulla.
«A meno che l’amico non cambi idea. O che non cambi idea lei. E
cambiare si può in qualsiasi momento, secondo te?»
Sì.
«Secondo me, no. Secondo me, la tua prospettiva è troppo ottimistica e,
come al solito, troppo individualistica. Vuoi forse escludere che certi
avvenimenti del passato esercitino influssi decisivi sulle tue scelte? Credi
veramente che le persone siano completamente libere, nel loro adesso?
Potrei dimostrarti facilmente che traumi o avvenimenti felici determinano
ogni nostra decisione, e tu non potresti dimostrarmi il contrario».
E non ne ho nemmeno intenzione. È un problema seriale, risolviamolo con
uno schema: indichiamo con X i fatti passati che influenzerebbero le nostre
decisioni attuali, e chiamiamo Y queste decisioni. Tu dici: X influisce
sempre e comunque su Y. Io dico: è vero, X influisce su Y, ma noi possiamo
scegliere adesso di lasciarci influenzare da un X deprimente o da un X
corroborante, ovvero: possiamo scegliere quale passato conta per noi; e
dunque Y influisce su X. Ma tu dici anche dietro a ogni Y ci sarà sempre un
X che determina Y: cioè che se scelgo di lasciarmi influenzare da un passato
corroborante, è perché qualche episodio della mia vita passata mi ha spinto
a farlo. Secondo te è il nostro passato a decidere per noi, secondo me siamo
noi a decidere quale sia il nostro passato. Giusto? La serie diventa:
…XYXYXYXYXYXYXYXYXY
Io, a un certo punto, decido di interrompere questa serie a una Y, cioè a
una mia scelta attuale: dico: «Questo è l’inizio per me! Qui decido in piena
libertà di cambiare la mia vita e di prendere dal passato solo ciò che serve a
questo cambiamento», per cui tutte le mie X saranno decise da Y. Tu invece
decidi di interrompere la serie a una X, cioè a un qualche avvenimento
passato, bello o brutto che sia, cioè di dire: «Quello è l’inizio per me! Tutta
la mia vita, tutte le mie Y dipendono da quella X».
Chi di noi due ha più ragione?
«Questione di punti di vista?»
Già, ma il tuo punto di vista e il mio quando agiscono? Adesso. Dunque è
Y che decide il senso del mondo. Il vero problema è, semmai, quanto dura
un adesso. E, se ci riflettiamo un po’, scopriamo di avere torto tutti e due, e
di potercene rallegrare.
«Cioè, dove mi stai portando, adesso?»
Fuori dal mondo, come al solito.
«Hai detto che abbiamo torto tutti e due: hai fatto tutto questo
ragionamento per mostrarmi che avevi torto? Strano modo di tentarmi».
Ho fatto tutto questo ragionamento per arrivare a un punto di vista più alto
dal quale posso rallegrarmi del fatto che il mio ragionamento era
insufficiente.
Dicevamo prima che l’adesso è una frazione di tempo talmente
infinitesimale, che non appena la si intuisce è già passata. Ogni adesso è
solo il ricordo di un adesso che non è più adesso. Dunque, nessuno di noi
esiste soltanto nell’adesso: nessuno di noi è talmente infinitesimale. Noi
siamo anche quel che ricordiamo di noi; e siamo anche quel che stiamo per
fare o per volere. Dunque, in qualche modo siamo anche nel passato e nel
futuro: tanto che se, per assurdo, tu perdessi d’un tratto tutto il tuo passato,
non saresti più tu; e se, per assurdo, non potessi più immaginarti nessun
futuro, non saresti più. Il fatto stesso che solo per assurdo possiamo pensare
a una condizione tanto mutilata, ci dimostra che il nostro essere non include
queste possibilità, sei d’accordo?
«Su questo sono d’accordo».
Bene. Ma tu non sei nel passato, sei diverso dal tuo passato, perché il
passato è irrimediabile e tu no: tu puoi cambiare quando vuoi. E tu non sei
nel futuro, perché il futuro non c’è ancora e tu invece ci sei. Ma non sei
nemmeno nell’adesso, dato che l’adesso c’è troppo poco, per ognuno di
noi. Sicché, dove sei?
«Nel passato, nel presente e nel futuro, insieme».
Contemporaneamente. Proprio così: tu sei sempre. Ovvero: tu sei sempre
più grande del tuo passato, del tuo presente e del tuo futuro. Nessuno di
questi tre settori del tempo ti può contenere per intero. Allora, prova a
immaginare che il tuo passato, il tuo presente e il tuo futuro siano più
piccoli di te. In che parte del tempo ti trovi tu, nel tuo essere tanto più
grande di tutto il tempo del mondo? Dato che il mondo consiste soltanto di
fatti passati, presenti e futuri.
«Non saprei. Direi che sono fuori dal tempo. Ma è impossibile essere fuori
dal tempo».
Infatti. Sei nel sempre. L’hai detto tu. E ti accorgerai di aver avuto ragione
nel dire che sei «nel passato, nel presente e nel futuro, insieme»: la parola
“sempre” deriva proprio dalla radice sanscrita , che voleva dire
“insieme”.
«Questo nostro ha a che fare con il punto di vista dell’unico Dio, che
dicevi prima?»
È una sua prossimità. Di certo questa dimensione del sempre si estende
fuori dal mondo che conosci: non può che essere fuori dal mondo, se è
diversa dal passato, dal presente e dal futuro del mondo. Penso sia la
dimensione temporale delle sfere della Ramificazione delle Vite.
«Cioè lo spazio bianco in cui i qabbalisti disegnano quel loro mandala
topografico?»
Sì. E ti dimostrerò, tra poco, che ciò che quello spazio bianco simboleggia
è una dimensione di sempre in cui si svolgono tutte le attività della nostra
psiche, ciascuna delle quali è come in una sua bolla di presente, o di
passato, o di futuro, nel sempre.
«E se è una dimensione della mia psiche, sono io?»
Sì. E quel tutto essere-nel-sempre può agire sulla tua esistenza. È un’altra
cosa che ti dimostrerò.
«Be’, mi piacerebbe pensare che quel che sono nel sempre decida cosa
conta nel mio passato e dove dirigere il mio futuro. Ma continuo ad avere
l’impressione che sia soprattutto il mio passato a decidere la mia vita. L’hai
detto anche tu che nella sfera della Terra sentiamo la mancanza delle sfere
superiori, della nostra pienezza: se ne sentiamo la mancanza, vuol dire che
nel mondo non l’abbiamo: cioè che nel mondo quel sempre non agisce».
Non ho mai negato che il passato influisca. Anzi, non ho difficoltà a
pensare che ciò che io sono nel sempre si sia espresso nel mio passato in
modi che adesso non sono più suoi. Ha fatto alcuni esperimenti nel mondo,
e non gli sono riusciti; vuole farne altri, ma i risultati di quegli esperimenti
passati lo intralciano. È un po’ come quando scriviamo un libro:
cominciamo una prima stesura, a un certo punto ci accorgiamo che non va
bene e che dovremmo riscrivere alcune parti che non ci piacciono; ma
quelle parti del libro sono connesse con altre, e cambiando le une bisognerà
cambiare anche altre, e allora diventa una faccenda complicata.
«Cioè pensi che quel che io sono nel sempre, fuori dal mondo, possa
cambiare, evolversi?»
Dio, nella sua eternità, può cambiare idea, come risulta da tanti passi delle
Scritture. Perché non potremmo cambiare idea noi, nel nostro sempre?
«Nella mappa del Ramificarsi delle Vite non era inclusa questa possibilità
di cambiamenti nelle sfere superiori, o sbaglio?»
Come ti dicevo, noi non siamo qabbalisti.
«Sì, ma a questo punto mi sa che ci siamo veramente persi. Troppe
variabili. Oltre a vari “io” che mi avevi già descritto, adesso immagini
anche un nostro “io” nel sempre, che può cambiare, e che magari diventa a
sua volta diversi “io”. Riuscirai mai a farti un’idea complessiva della tua
teoria degli “io” umani?»
Ci proverò prima o poi, l’argomento mi interessa.
Ma per ora mi concentro sull’idea che il nostro «io»-nel-sempre possa
cambiare e riscrivere le nostre vicende nel mondo: forse non saprò mai se
questa idea è verità, ma – per ora – decido che è così, e verifico se in questo
modo riesco a capire un po’ di più.
«Ma se è così, noi nel mondo come possiamo sapere cosa vorrebbe il
nostro “io”-nel-sempre?»
Attraverso i de-sideri.
«Cioè?»
Se quel che sei nel sempre è oltre il mondo, lo puoi soltanto de-siderare. E
se nel sempre c’è la tua pienezza, lì sei più autentico di quel che sei nel
mondo, ed è a partire da lì che puoi de-siderare, cioè immaginare e chiedere
cose che nel tuo mondo non ci sono ancora.
Ovverosia: nessun nostro de-siderio sarebbe fine a se stesso; de-siderare,
per noi, è scoprire.
«E se cominciassimo a diventare… volevo dire, a intenderci in quell’“io”
che siamo nel sempre? A intenderlo nel mondo, invece di riceverne SMS
telepatici sotto forma di de-sideri?»
È un’idea molto forte. La si è discussa in passato, tra Giovanni Battista e
Gesù. Giovanni Battista supponeva che non fosse possibile. Diceva:
In mezzo a voi c’è uno che non conoscete, uno che viene dopo di me,
e io non sono degno nemmeno di sciogliergli un laccio del sandalo.
Giovanni 1,26
Era la sua teoria principale. L’argomento è la fede nell’avvento del
Messia: Giovanni Battista elaborava questa fede in termini psicologici ed
evolutivi. Spiegava che “in mezzo a voi”, cioè nel nostro mondo, il Messia
c’è già, ed è qualcuno che nel mondo non si conosce. Questo qualcuno –
diceva – è talmente “alto”, che noi in confronto appariremmo minuscoli,
tanto da non arrivare nemmeno alle sue stringhe: se non lo vediamo, è
perché non possiamo ammettere che un simile essere umano ci sia. A
trasporlo nel nostro linguaggio odierno, diremmo che quel qualcuno si trova
a uno stadio evolutivo talmente più alto del nostro, che noi non possiamo
ancora né capirlo né tantomeno vedere il mondo dal suo punto di vista.
Possiamo soltanto sapere che ciò che sappiamo del mondo è ben poco in
confronto a ciò che ne sa lui, il che ci spinge a superarci continuamente,
non rassegnandoci a ciò che sappiamo già: e da qui Giovanni Battista
deduceva la necessità di confessare i peccati, per liberarsi dagli intralci
passati. È più o meno quel che teorizzò Jung diciannove secoli dopo,
riguardo al cosiddetto «Sé» e alla necessità dell’analisi. Ciò che il Battista
lasciava in sospeso è in che modo, in che misura e dove quel qualcuno ci
fosse già, nel mondo: se, cioè, fosse un ideale a cui guardare, come quello
che Freud avrebbe chiamato “super-io”, oppure una dinamica interiore degli
individui, come quello che Jung avrebbe chiamato “archetipo”.
«Non aveva ancora questi concetti psicologici, nel I secolo».
Li aveva, li aveva. Giovanni Battista era figlio di un grande sacerdote del
tempio di Gerusalemme: alta intellighenzia, gente molto informata. Invece
di “super-io” avrebbe usato qualche analogo termine egiziano, o platonico;
e il concetto di “archetipo” era diffuso nel culto di Hermes Trismegisto. È
solo che Giovanni Battista esitava un po’, stava ancora elaborando le sue
convinzioni, pur avendo già cominciato ad avere successo come filosofo
religioso, professione allora molto stimata in Palestina.
Ma, proprio nel pieno di quel suo successo, tutt’a un tratto gli si presenta
Gesù, con una teoria ulteriore: quel qualcuno più grande esiste, sì – dice
Gesù, – ma la novità è che quel qualcuno sono io e puoi esserlo anche tu,
invece di aspettare idealizzandolo.
«E Giovanni Battista cosa disse?»
Gli diede ragione e di lì a poco smise di tenere lezioni alla gente. «Lui
deve crescere, io devo diminuire» si dice che abbia ammesso (Giovanni
3,30).
«Perché non ci proviamo anche noi, a essere quel qualcuno?»
Infatti, non c’è nessun motivo per cui non dovremmo.
«Sarebbe la nostra r’eš. Ma se ci riuscissimo, come sapremmo di esserci
riusciti, fino a che siamo nel nostro mondo?»
Non lo sapremmo mai. La regola del sei-sai ce lo impedirebbe. Se uno sa
di essere in un determinato modo, è perché non lo è più; e viceversa, noi
siamo ciò che non sappiamo di essere.
«E quindi?»
Quindi si tratterebbe di esserlo e basta, e di agire nel mondo come
agirebbe il nostro “io”-nel-sempre. Vedremmo in ogni aspetto del mondo un
confine del mondo che ci va stretto. Cioè de-sidereremmo continuamente.
«Chiaro. E ora non si potrebbe finalmente parlare di come si fa, in pratica,
a de-siderare? E a verificare se funziona?»
3
Libro della Creazione, Frassinelli, Milano 2011, pp. 203-208
LA FORMULAZIONE DEI DE-SIDERI.
DINAMICHE DELLA LIBERTÀ
Sì. Ma dovrà cambiare tutto. L’interesse per i confini del mondo,
ovverosia la libertà dal mondo, trasforma profondamente le persone: quello
che eri prima di averla non è quello che sei quando ce l’hai. «Non resterà
pietra su pietra che non sia diroccata», come diceva Gesù.
«Ho già cambiato mestiere, mi pare. Vediamo come continua».
Diversi saranno i tuoi pensieri, diverse le tue intuizioni, diversi i tuoi
sentimenti, diverse le tue sensazioni. La tua etica sarà diversa. Il tuo volere
sarà diverso, e ciò ti farà avere desideri diversi da quel che nel tuo mondo
c’è già.
«I desideri dipendono dal volere?»
Certo. Il mondo è come tu vuoi che sia: abbiamo visto che quando tu
selezioni alcuni fatti del tuo passato invece di altri, è perché vuoi essere in
un certo modo e vuoi che il mondo sia un certo modo. Da questo tuo modo
di volere quel che c’è già, deriva il tuo modo di de-siderare, cioè di
immaginare quello che ancora non c’è.
«Avevo sempre pensato il contrario: che i de-sideri fossero un immaginare
qualcosa, e che per avere quel qualcosa bisognasse volerlo».
Cioè, pensi che tutto dipenda dai tuoi “io” che sono nel mondo, e che la
metafisica del de-siderare, di cui stiamo parlando, sia solo un romanticismo.
Naturalmente credi anche che più vuoi una cosa, e più la otterrai?
«Va da sé che per avere qualcosa che vuoi devi fare uno sforzo di volontà.
O no?»
Nel mondo lo sforzo di volontà è una cosa molto apprezzata, e talvolta è
anche utile. Ma non mi ha mai convinto. Trovo che sia deprimente, se
rifletto al senso della parola volere.
“Volere”, nelle nostre lingue, ha due significati molto diversi: uno è
scegliere, l’altro è aver bisogno di qualcosa.
Il volere che è scegliere è quello che intendiamo dicendo, per esempio:
«Voglio fare in modo che tu mi ascolti con grande interesse»; cioè: tra tutti i
comportamenti che potrei adottare con te, scelgo quello che ti incuriosirà di
più.
Il volere che è aver bisogno è quello che intendiamo dicendo: «Voglio
saperne di più, prima di decidere» oppure «Questa pianta vuole acqua».
Una differenza evidente è che, nel primo caso, cioè nel volere-che-è-
scegliere, si tratta di un atto preciso, di una decisione; mentre nel volere-
che-è-aver-bisogno, si tratta di una condizione che magari non hai scelto tu,
ma di cui non puoi fare a meno. Un’altra differenza è che il volere-che-è-
scegliere deve per forza riferirsi a qualcosa che conosci, mentre il volere-
che-è-aver-bisogno può riferirsi a qualcosa che non sai:
Qualcosa vorrei, cosa voglio non so
è un verso di una vecchia canzone, in cui il verbo “volere” è usato nella
sua seconda accezione. Invece nella brillante frase del Conte di
Montecristo,
Io faccio sempre quello che voglio e sappiate che vien sempre fatto
benissimo
il verbo “volere” è usato nella sua prima accezione: il Conte di
Montecristo è ricchissimo e ha sempre dinanzi a sé una grande quantità di
possibilità tra cui scegliere, sia che si tratti di carrozze, cavalli, abiti, viaggi,
libri, inviti, divertimenti, impegni, amicizie o altro; in realtà, non ha
bisogno di nessuna di queste cose, anzi lo annoiano tutte: trae solo un certo
annoiato piacere dal precisare quale possibilità vuole in ogni occasione.
Ora, prova ad applicare l’idea di “sforzo di volontà” alle due accezioni del
volere.
Rispetto al volere che è aver bisogno: perché mai sforzarsi di aver bisogno
di qualcosa? Avrebbe senso solo se, in realtà, non hai bisogno di quel
qualcosa e vuoi convincerti del contrario. Ma che motivo ci sarebbe?
«Perché ogni tanto bisogna, no? Quando non sei abbastanza convinto, fai
uno sforzo di volontà per convincerti di più».
Cioè bisogna aver bisogno? Che gioco è? E poi magari bisognerà che
bisogni aver bisogno? No, lasciamo stare.
Rispetto al volere che è scegliere: se hai scelto, hai scelto; uno sforzo di
volontà sarebbe uno sforzarsi di scegliere qualcosa che hai già scelto: e
anche qui, perché mai? Applicata al volere-che-è-scegliere, l’espressione
“sforzo di volontà” vale soltanto a indicare un modo di non essere autentici,
di obbedire a qualcuno che ti impone di scegliere qualcosa – e allora devi
sforzarti di volere, per obbedire a quel qualcuno. Pensi che questo sforzarsi
possa servire per i nostri de-sideri, che hanno a che fare soltanto con la
libertà e con la scoperta della nostra autenticità?
«Quel qualcuno che mi impone uno sforzo di volontà non potrei essere io
stesso?»
Sì, se fossi in conflitto con te stesso. Ma non vedo che cosa ci
guadagneresti, a litigare dentro di te. Molto meglio non sforzare nessuna
volontà. Accorgiti di quel che vuoi, nel mondo, nei due sensi del volere: e
poi de-sidera di più. Risparmierai tempo e fatica, avrai conflitti molto più
ampi e più interessanti, e soprattutto ti accorgerai che tra il volere e il de-
siderare c’è un balzo notevole. Il de-siderare sta al volere come
l’immaginare sta al guardarsi intorno, o come il meravigliarsi sta al
ragionare.
«Lasciamo pure da parte il volere».
Non occorre. Teniamo per buona l’idea che quanto più cambi il tuo volere
– in entrambe le accezioni – tanto più de-sidererai cose che nel tuo mondo
sarebbero ritenute impossibili o comunque straordinarie.
«Cioè de-sidererò solo cose che mi meravigliano?»
Non vale la pena di de-siderare nient’altro.
«Questa me la segno. E dicevi che questo amplia i miei conflitti con il
mondo».
Senza dubbio. E ci sono vari generi di conflitti, alcuni utili e altri inutili.
Un conflitto utile, ampio e interessante che ne deriverebbe subito è quello a
cui si riferì acidamente Benjamin Franklin, quando disse che «se uno
riuscisse a ottenere la metà delle cose che desidera, avrebbe il doppio dei
problemi che ha già». Franklin aveva ragione. Non solo se incominciassi ad
avere quel che de-sideri, ma anche soltanto se incominciassi ad aspettare di
averlo dovresti ingaggiare una lotta contro tutti i tuoi limiti ed errori, e
contro tutto ciò che i tuoi limiti ed errori ti hanno fatto essere finora. Allora
assisteresti, molto probabilmente, a ciò che abbiamo chiamato “uno sforzo
di volontà”, ma sarebbe quello che tu faresti contro i tuoi de-sideri, per
continuare a tener saldi in te quei limiti ed errori.
«Allora come chiamare l’impulso a sconfiggere quei limiti ed errori?»
Chiamalo semplicemente libertà, e avrai già fatto un gran passo verso la
sconfitta di quella parte di te che obbedisce ai limiti e agli errori del suo
mondo.
Chiama libertà quel tuo impulso a sconfiggere ciò che sei stato e a
superare i limiti di ciò che sei, e ti accorgerai subito che il verbo “volere”
non basta a esprimere ciò che avviene in te quando de-sideri. Di volere – sia
nell’accezione di scegliere, sia nell’accezione di aver bisogno – sono capaci
tutti, nel mondo. Anche i servi possono essere bravissimi a volere, in un
modo o nell’altro. Si sentono anche soddisfatti, provano anche una forma di
godimento, quando stanno volendo obbedire al padrone, e quel godimento è
tanto più forte quanti meno dubbi hanno sul loro volere. Ma il loro senso
del piacere, il più delle volte, è danneggiato, e ne vengono contrattempi
analoghi a quelli che verrebbero da indicatori guasti: se l’indicatore della
pressione, o dell’olio o della benzina fosse guasto, il tuo viaggio in auto
sarebbe altrettanto complicato quanto la vita di quei molti il cui senso del
piacere è alterato.
«Cosa intendi per senso del piacere?»
La capacità di sentirsi attratti da qualcosa. Di scorgere, non importa dove o
come, una promesse de bonheur. E i guasti del senso del piacere,
complicando la vita delle persone, plasmano al tempo stesso la loro psiche e
il loro mondo. Ripararli è superare l’una e l’altro.
Chiama libertà il tuo impulso a superare quei guasti, e ti accorgerai di
come il mondo che tu hai voluto e fabbricato sia pieno di complicazioni
inutili, di aberrazioni che, purtroppo, tu stesso hai contribuito ad animare,
che tu stesso hai voluto. Questo voler avere ostacoli è, nel mondo, il modo
di volere più diffuso – e perciò quello che dà maggiore godimento alle
persone integratesi al mondo: perché a loro piace fare quello che fanno tanti
altri. E in pratica, anche se alcuni non se ne accorgono mai, è un voler non
fare, non pensare, non amare, non scoprire, non chiedere qualcosa. Con
molti sforzi di volontà per riuscire sia a volere-non qualcosa, sia a
scambiare questo volere-non per un volere qualcosa.
«Un volere-non! Una paura della paura?»
Eh sì. In un bel libro di Canfield e Hansen, The Aladdin Factor, a cui
certamente sono debitore, c’è un elenco dei mostri che tanti di noi hanno
creato, prendendo spunto dalle brutte esperienze che fin da bambini
abbiamo avuto tutti nel chiedere ad altri: la paura di sembrare sprovveduti,
nel chiedere qualcosa che i tuoi coetanei non chiedono; la paura di dare
troppo potere a coloro ai quali si chiede; la paura di sentirsi dire di no; la
paura di venire puniti, perché chiedi più di quanto il tuo ambiente ti possa
concedere; la paura di trovarsi poi in debito con chi ha esaudito la tua
richiesta. Tutte queste paure ci hanno ferito profondamente durante
l’infanzia e l’adolescenza, guastando il nostro senso del piacere, e tendono a
diventare veri e propri automatismi, compulsioni non governabili dalla
coscienza, e a esserti di ostacolo non soltanto quando vuoi chiedere
qualcosa a qualcuno, ma anche quando cominci a precisare il tuo volere tra
te e te. In pratica, diventano un voler-non chiedere.
E pensare che quelle paure sono talmente contraddittorie.
Molti hanno disimparato a chiedere, perché spesso hanno preferito non
chiedere, piuttosto che dare potere a coloro ai quali avrebbero chiesto
qualcosa. Cioè, perché hanno avuto paura di doverli poi rispettare troppo.
Ma al tempo stesso, hanno disimparato a chiedere anche perché avevano
avuto paura di venire puniti, discriminati, esclusi, se avessero chiesto più di
quanto l’ambiente in cui vivevano stava già concedendo loro. E in tal modo
hanno dimostrato soltanto di nutrire un tale rispetto per il loro ambiente, da
svolgere, in esso, la stessa funzione di un oggetto d’arredamento. Una sedia
non può chiedere di diventare una doccia, un soprammobile non può
chiedere di venir usato come una motocicletta. Dunque da un lato hanno
temuto di dare troppa importanza al prossimo, e dall’altro davano già a tutto
ciò che li circondava un’importanza immensa, che li paralizzava. Il che è
contraddittorio.
Addirittura paradossale è il caso dei molti che hanno disimparato a
chiedere perché spesso hanno temuto di sembrare sprovveduti chiedendo
ciò che altri non chiedevano. Hanno pensato a lungo che chiedere per
sapere equivalesse ad ammettere di non sapere ancora abbastanza; e che
chiedere per avere, equivalesse ad ammettere di non avere ancora ciò di cui
abbisognavano; e che chiedere per essere o per fare, equivalesse ad
ammettere di non essere ancora riusciti a essere o a fare qualcosa a cui
tenevano. Il loro orgoglio, la loro autostima non l’avrebbero permesso: la
loro priorità era quella di sembrare individui che sanno già e hanno già, e
sono e fanno già quanto basta, sicuri di sé e vittoriosi. Ma intanto non lo
erano affatto, e quanto più si obbligavano a esserlo, tanto più dovevano
obbligarsi, al contempo, a ignorare la propria sconfitta.
Ma la più insidiosa di tutte le paure da cui deriva l’incapacità di chiedere,
penso sia la paura di sentirsi dire di no: senza che tu te ne accorga, gli
automatismi che derivano dalla paura di sentirsi dire di no si diramano a
processi del tuo pensiero indipendenti dal volere e dal de-siderare,
programmandoti in modo da proibirti anche soltanto di considerare
situazioni o possibilità che potrebbero venire disapprovate dalla
maggioranza delle persone che frequenti.
Invece, è ben evidente che sia nel desiderare sia in ogni altro ambito delle
tue attività psichiche, l’unico modo per crescere è rischiare: quel che dici e
pensi ha valore soltanto se può venire criticato e negato da qualcuno.
Altrimenti, è qualcosa che tutti sanno già.
«Quindi non è affatto vero che i no aiutino a crescere?»
Aiutano soltanto a far crescere il tuo tasso di alienazione, cioè a
dimenticarti di chi sei, per essere come gli altri. Il che è tanto dannoso per te
e per ogni altro individuo, quanto è utile allo status quo.
«In pratica, quanto più impossibile è un tuo desiderio, tanto più è utile?»
Purché sia un tuo desiderio, e non solo un’impossibilità che tu scegli per
rinnovare il dolore di vederti frustrato: gli uomini e alcuni animali
domestici hanno il senso del piacere talmente danneggiato, da sentire il
bisogno di provare di nuovo qualche loro sofferenza particolarmente
cocente. Ogni tanto si sforzano di riviverla nell’immaginazione, nel modo
più vivido possibile; ogni tanto organizzano le loro vicende in modo che
quella sofferenza si ripeta. Quando si chiedono il perché di questa loro
cattiva abitudine, molti pensano che si tratti di un modo di sapere se siano
ancora in grado di sopportare quella sofferenza come la avevano sopportata
altre volte. Ma ne dubito: probabilmente si tratta soltanto del loro grande
Dio del Timore, che vuol essere onorato ed esige sacrifici.
«Intanto che risolvi questo tuo dubbio, torno a segnalarti che quel che dici
sui no e sui desideri impossibili va contro i principi basilari
dell’educazione».
I principi basilari dell’educazione sono sempre serviti a due cose: a
formare individui disposti a farsi uccidere se i loro capi dichiaravano una
guerra, e a non rischiare nulla per cambiare situazioni ingiuste nella
collettività. Conviene dare importanza a questi principi.
«No, ma molti se ne avranno a male a leggere queste frasi».
Vuoi dire che molti troverebbero irrazionali questi miei argomenti? Sì,
moltissime persone sono dedite non soltanto all’obbedienza, ma anche alla
sconfitta. Si sono abituate ad attendersi il peggio, e a godere del pensiero
che oggi non vada ancora tanto male in confronto a domani. In queste
persone, il vuoto di futuro che accomuna tutto l’Occidente diventa uno
sforzo di volontà, per aver paura della paura: un imporsi di non guardare
avanti, per non rabbrividire. E rinchiudendosi nel loro presente diventano
talmente presuntuosi! È comprensibile: aspettarsi il peggio è una forma di
pigrizia (se no, farebbero qualcosa per evitare il peggio); si può essere pigri
soltanto se si è soddisfatti di sé; si può essere soddisfatti di sé soltanto se
non si ritiene sbagliato il vantarsi; e ci si può vantare solo se non si
vogliono vedere i propri difetti. Così i loro ego si rafforzano, e i loro “io” si
indeboliscono sempre più.
«Spiega meglio quest’ultima cosa. Chi ha un ego forte ha un “io” debole?
Ovvero ha degli “io” deboli, perché secondo te gli “io” sarebbero tanti».
Sì. L’ego è ciò che uno crede di essere, o si impone di essere davanti agli
altri, per non essere da meno degli altri. Gli “io” sono ciò che uno
troverebbe dentro di sé se si desse la pena di cercare. Ma per essere
presentuoso devi evitare anche di guardarti dentro: così gli “io” di quelle
moltissime persone rimangono da parte, dimenticati, e deperiscono. Va da
sé che queste moltissime persone non riuscirebbero a seguire i nostri
discorsi: ci vogliono un forte senso del piacere, e un “io” forte, per riuscire
a de-siderare. Con l’ego puoi soltanto fare sforzi di volontà.
«E quanti sarebbero questi moltissimi?»
La maggioranza, temo. Perciò è un problema grave. Abbiamo già parlato
dei vincoli che legano l’individuo ai gruppi: il vantaggio di sentirsi al
proprio posto nel mondo, il vantaggio di appartenere a un potente
organismo collettivo, e via dicendo. Ma ogni gruppo ha leggi da rispettare:
alcune sono scritte, altre no; quelle non scritte sono le più potenti. E le
tendenze pessimistiche che ti ho appena elancato sono appunto una legge
non scritta di vaste aree della popolazione occidentale: cioè, non fai parte di
quella popolazione se non le rispetti – e se non ne fai parte, sei diverso e sei
solo.
«È soltanto una legge, e le leggi si possono cambiare. Qualcuno potrebbe
parlare francamente a quelle persone e convincerle che stanno vivendo
male».
Dipende. Le leggi scritte si cambiano, certo. Ma certe leggi non scritte
vengono facilmente scambiate per leggi di natura: cioè per necessità
immutabili, onnipresenti, impersonali, non giudicabili, come potrebbe
esserlo la legge di gravità. Avviene così: quelle tendenze pessimistiche ti
sono state imposte da quando hai imparato a parlare, e tu sei cresciuto tra
persone che la pensano così. Se la tua indole è debole, le hai assimilate al
punto che ti risulta insensato pensare diversamente. Oppure ti ci opponi, te
ne indigni, fai grandi sforzi di volontà per dimostrare che quelle tendenze
pessimistiche sono dannose. Ma proprio perché le hai subite fin da
bambino, ogni volta che ti capita di ripensarci in un momento di malumore
riconosci in esse qualcosa che ti sembra profondamente tuo – e negli sforzi
di volontà che hai fatto per liberartene vedi qualcosa di insincero, di
illusorio, oltre che irrazionale. Credo che questo fosse il caso tuo, quando
insistevi che i de-sideri sono illusioni. Come ti sentivi, dicendolo?
«Non so. Più intelligente?»
Giusto. Obbedire alle leggi scritte o non scritte dà sicurezza. Ci si sente
sicuri di aver capito molto, tanto da poter fare previsioni: è allora che dici:
«Le cose mi andranno certamente così, perché è così che devono andare»,
come se nelle vicende umane le occasioni obbedissero alle stesse leggi a cui
obbedisci tu. Ma si sa: quando si fanno previsioni, specialmente su se stessi,
è facile fare in modo che si avverino.
«Il fine giustifica i mezzi, come dicevamo».
E quelle leggi non scritte condizionano la scelta dei fini, mantenendoli in
un’area di mediocrità.
Se invece uno prevedesse per sé eccezionali successi, andrebbe contro
quelle leggi e diverrebbe da subito un estraneo per moltissimi. Al primo
sbalzo d’umore avrebbe la sensazione che quella sua previsione sia finta, si
sentirebbe su una via inadatta; e se perseverasse andrebbe incontro a un
senso di tristezza. Anche in questo caso sarebbero le leggi della collettività
a determinare la sua vita, e non lui.
«Quindi meglio non fare previsioni su di sé?»
Noi cominciamo a dar forma alla nostra esistenza solo quando smettiamo
di fare previsioni.
«Cioè quando abbiamo l’impressione di non sapere nulla di preciso su
come andranno le cose? Non è come dire che la nostra esperienza del
mondo è scarsa, che siamo ancora troppo impreparati?»
Troppo piccoli, certo. Ma crescere si può soltanto se si è piccoli. Fare
meglio si può soltanto se ci si accorge di non aver fatto granché finora, di
non sapere abbastanza, di non avere veramente nulla di quel che potresti
avere, e che ti darebbe gioia. Come già ti avevo detto.
«Cioè si tratta di volgere il pessimismo dal futuro al presente».
Sì, e allora ti senti d’un tratto alle soglie di una sorte avventurosa. Ti fa
venire in mente le fiabe, come quella di Aladino, in cui i protagonisti
imparano a chiedere cose splendide solo quando si trovano in circostanze
disastrose – come appunto Aladino quand’è chiuso nella caverna. Immagina
che il tuo mondo sia quella caverna: e che l’unica cosa che te ne importi
siano i confini.
«Come un brutto sogno».
Ma è il contrario dei sogni. Sai, un buon momento per accorgerti di quel
mondo-caverna è poco prima del risveglio, quando stai uscendo dalla
dimensione dei sogni, e ricominci a sentire il corpo, e gli occhi sono quasi
aperti: allora vedi la caverna in cui sei nato e sei rinchiuso, e che è il tuo
mondo ben noto, in cui stai per rientrare e dimenticare tutto o quasi di ciò
che hai colto e intuito nel sonno.
«Questo ha a che fare con il nascere di nuovo, di cui dicevamo?»
Anche. Ma quello che conta è che, per formulare bene i tuoi de-sideri, tu
faccia durare quegli istanti il più a lungo possibile.
LA FORMULAZIONE DEI DE-SIDERI.
IL CHI E IL CHE COSA
«Ma, di solito, quando si adopera la metafora del risveglio, il sonno è una
condizione limitante dalla quale uscire, e la veglia è una condizione di
libertà e di attiva presenza: per te invece è il contrario?»
È una immagine che fa al caso. Al momento del risveglio noi siamo tra
due dimensioni della nostra psiche. I neurologi hanno appurato che durante
il sonno le aree attive nel nostro cervello sono molto più numerose di quelle
attive durante la veglia: dunque il sonno e la veglia costituiscono per noi
due dimensioni diverse, due nostri orizzonti psichici determinati da due
centri di coscienza diversi fra loro.
In una di queste due dimensioni, c’è il mondo che condividiamo con tutti,
e in cui riapprodiamo quando ci siamo del tutto svegliati: qui, la nostra
mente cosciente è per noi al centro di tutto, a fare da perenne testimone di
ciò che avviene nel nostro mondo. Ininterrottamente percepisce, ricorda,
capisce qualcosa e si accorge di non aver capito qualcos’altro. E su ciò che
la mente cosciente ha percepito, ricordato, capito, noi, durante la veglia,
basiamo i nostri modi d’agire. Ovvero: nella dimensione della veglia
l’attività della mente consiste soprattutto nell’apprendere competenze, e nel
comprenderle.
Nell’altra dimensione, quando dormiamo, la nostra mente cosciente non
comprende granché e non è affatto il centro di tutto. Da quel che ricordiamo
al risveglio, si direbbe che durante il sonno la nostra mente cosciente sia
spesso assente: la ritroviamo solo nei sogni (anche se non sempre: ci
capitano sogni in cui noi non compariamo) e nei sogni è il più delle volte
perplessa, non sa esattamente dov’è, o addirittura non capisce quale sia lo
spazio in cui capire dove si trovi: se si tratti del nostro universo
tridimensionale o di qualche altro universo n-dimensionale. Eppure le
nostre funzioni vitali non si interrompono, durante il sonno: la qual cosa ha
confermato la convinzione che l’essere umano consista di un corpo e di una
mente. Secondo questa convinzione, il corpo è un insieme di organi che può
funzionare per conto suo, mentre la mente cosciente è un’area privilegiata
della psiche, che senza il corpo non potrebbe stare: perciò si pensa che la
mente cosciente o l’intera psiche (qui i pareri degli esperti divergono)
possano prendersi ogni notte un periodo di vacanza, senza che il corpo ne
risenta danno.
Il problema è che cosa avvenga alla mente e all’intera psiche durante
queste assenze notturne. Secondo alcuni, l’intera attività psichica si riduce a
un qualche minimo: e dal giovamento che il corpo trae dal sonno si
potrebbe dedurre che la nostra attività psichica rappresenti, per il nostro
corpo, una fonte di stress.
Secondo altri, la psiche continua a funzionare come o anche più del solito,
ed è solo la mente cosciente che si affievolisce – il che farebbe pensare che
non l’intera psiche ma soltanto la mente cosciente sia una fonte di stress per
il corpo. Quelli che la pensano così si dividono a loro volta in due categorie:
chi ritiene che l’unica forma di coscienza nella nostra psiche sia appunto la
mente, e che dunque durante il sonno noi siamo totalmente inconsci; e chi
ritiene che la mente sia soltanto una delle nostre forme di coscienza,
dimodoché durante il sonno noi saremmo solo diversamente coscienti,
dotati di altre competenze, forse mai apprese.
In ogni epoca, quest’ultimo punto di vista ha trovato sostenitori sia tra
persone di scarsa cultura sia tra i dotti, molti dei quali (Maometto, Dante
ecc.) credevano che durante il sonno noi compiamo esperienze sbalorditive,
di cui soltanto le menti più eccelse riescono a conservare ricordi. E anch’io
sono di questo avviso; solo che ciò che più mi interessa è che fine faccia
durante la veglia quell’altro centro psichico che noi abbiamo oltre alla
mente cosciente.
«Cioè ti interessa sapere chi siamo quando non siamo i nostri “io”
coscienti? E vuoi capire dove vada quell’altra nostra modalità di essere
quando siamo soltanto i nostri “io” coscienti? E che competenze abbia? E
se le comprenda o no?»
Sì. E non mi accontenterò di una risposta neurologica, basata sul calcolo
delle sinapsi. Le sinapsi stanno a quei due centri psichici come il timpano
sta a un conoscitore di musica: quando tu ascolti musica, è il tuo timpano
che ascolta oppure sei tu? Sei tu. Il tuo timpano non sa niente di Stravinskij,
tu sì. Allo stesso modo le mie sinapsi non sanno niente della mia mente
cosciente e di ciò che sono quando non sto usando la mia mente cosciente,
mentre io de-sidero sapere quali siano i rapporti tra queste due modalità del
nostro essere.
«E pensi che sia quello il Messia di cui discutevano Giovanni Battista e
Gesù? L’“io” che è nel sempre?»
Qualcosa del genere.
«Capito. Ma se quell’altra forma di coscienza non esistesse? Se avessero
ragione quelli che dicono che nel sonno la mente si spegne e basta?»
Io penso che esista. Durante certi sogni abbiamo la sensazione di capire
qualcosa in un modo diverso da quando siamo svegli. Fu nel sonno che
Kekulé scoprì la molecola del benzene. E anche Stravinskij raccontava di
aver risolto diversi passaggi musicali durante il sonno.
«Ma se queste fossero soltanto impressioni? Se Kekulé e Stravinskij
avessero soltanto immaginato di aver fatto scoperte mentre dormivano?»
Può darsi. Non ci sono prove, all’infuori dei loro racconti. Ma per ora io
resto della mia idea, e voglio scoprire dove va la nostra mente sognante
quando la nostra mente sveglia diventa il centro del nostro mondo
quotidiano. La mente del sonno (chiamiamola così) si affievolisce durante
la veglia così come la mente della veglia si affievolisce durante il sonno?
Oppure persiste – è “in mezzo a noi” – senza che la mente cosciente sappia
notarla?
La mia ipotesi è che la nostra mente del sonno persista, durante la veglia, e
che la mente della veglia non la noti per una ragione opposta a quel che
solitamente si crede: nel mondo, cioè durante la veglia e non durante il
sonno, l’attività complessiva della nostra psiche si affievolisce, al punto che
una sua piccola parte, cioè la mente cosciente, può credere di essere il suo
elemento principale – un po’ come il maggiordomo di un palazzo quando i
suoi padroni dormono.
«Stai ribaltando un’altra volta tutto un sistema psicologico».
Già. La mia ipotesi è che durante il sonno la nostra psiche funziona a
maggior regime: un po’ come all’inizio del Paradiso di Dante, dove
nostro intelletto si profonda tanto
che dietro la memoria non può ire.
Cioè, si destano in noi facoltà tanto alte, e perciò tanto profonde, che la
memoria – attività preferita dei nostri «io» coscienti – non riesce a tener
loro dietro. Certo, posso sbagliarmi. Né la scienza né la filosofia sono
ancora riuscite a farsi un’idea interessante di quali mondi sperimentiamo
durante il sonno e durante i sogni: l’unica certezza che abbiamo è che si
tratti di mondi diversi da quelli che sperimentiamo durante la veglia, e
altrettanto totalizzanti. Infatti se così non fosse potremmo ricordarli dopo il
risveglio: invece, si direbbe proprio che quando rientriamo nei nostri mondi
della veglia, quando cioè riattiviamo la nostra mente cosciente consueta, i
sistemi di quest’ultima non siano applicabili ai mondi del sonno, che perciò
sfuggono alla sua memoria. Ancora meno si sa, sia in scienza sia in
filosofia, come sia fatta la mente del sonno. Forse la nostra mente del sonno
ricorda poco o nulla dei mondi della veglia, e quando si sforza di ricordarne
qualcosa, fa racconti che le sembrano altrettanto strambi e bisognosi di
interpretazione quanto lo sono i nostri racconti di quel poco che ci sembra
di ricordare dei sogni.
«O forse la mente del sonno sa tutto di noi, e la mente della veglia non
arriva neanche a scioglierle le stringhe delle scarpe».
Mi piacerebbe che fosse così. Ma chissà: forse la mente del sonno è più
ottusa, più vaga, più superficiale della mente della veglia? Magari è solo un
po’ più lungimirante, perché la sua dimensione temporale è diversa da
quella della mente della veglia (il che spiegherebbe i cosiddetti sogni
profetici), ma è più elementare, e non sa fare buon uso di quel che prevede:
si limita ad affidarlo alla mente della veglia, sperando che se ne ricordi e se
ne occupi lei.
«Un’altra dimensione temporale? Cioè, Kekulé non scoprì la sua formula
durante il sonno, ma semplicemente seppe in anticipo che cosa avrebbe
scoperto di lì a poco?»
È probabile. Il mondo della mente della veglia ha tre dimensioni spaziali e
un tempo lineare, unidimensionale, e monodirezionale. Nessuno, ai giorni
nostri, può legittimamente dubitare che esitano anche altre strutture
spaziotemporali: mondi con quattro o cinque dimensioni spaziali e con un
tempo bi- o tridimensionale, e multidirezionale, lungo il quale ci si possa
muovere a piacimento; e non possiamo escludere che la mente del sonno
abiti o si affacci in mondi del genere. Ma forse le manca il senso pratico o il
senso dell’orientamento necessari ad agire in quei mondi. Non lo sappiamo.
Magari tra cinquanta o cent’anni ne avremo scoperto qualcosa.
«Sì, ma risulta a tutti che i nostri sogni riguardino problemi che la mente
della veglia non riesce a risolvere, mentre non mi pare che la mente della
veglia affronti problemi che la mente del sonno non è riuscita a risolvere.
Dunque la mente del sonno ha una qualche superiorità sulla mente della
veglia».
Ripeto: tutto può darsi, allo stato attuale delle conoscenze. Può anche
essere il contrario di quel che dicevo prima: forse quei problemi non risolti
dalla mente della veglia compaiono nei nostri sogni perché in realtà non
sono problemi del mondo della veglia, bensì problemi della mente del
sonno che la mente della veglia ha portato con sé al risveglio, senza
accorgersi che erano ricordi d’altrove: e proprio perché non sono problemi
suoi, la mente della veglia non riesce a risolverli, mentre la mente del sonno
sì.
«A me comunque piace l’idea che la mente del sonno sia molto più
intelligente della mente della veglia».
Di sicuro è vasta: le rare volte che mi è brevissimamente accaduto di
sperimentare un cosiddetto sogno lucido, ho assistito non allo svolgersi
un’unica vicenda (a differenza di quel che crediamo tutte le volte che
raccontiamo un nostro sogno) ma a una molteplicità di vicende, ciascuna a
sé stante, che si svolgevano l’una accanto all’altra, come altrettanti
spettacoli in altrettanti teatri, e sono rimasto sbigottito dalla capacità che
avevo di seguirne alcune, non tutte, contemporeamente. Da sveglio non
potrei guardare non dico cinque o sei spettacoli, ma nemmeno cinque o sei
dipinti nello stesso istante.
Non meno mi ha impressionato il fatto che dinanzi a quella moltitudine di
sogni la mia mente cosciente si sentisse soltanto spettatrice, e non autrice in
alcun modo. Qualche altro centro cosciente, o più di uno, creava,
componeva, dirigeva, orchestrava e aveva evidentemente programmato tutte
le mie vicende sognate. Quel qualcun altro era comunque qualcosa di mio.
E sapeva e poteva più della mia mente cosciente.
«Forse la mente del sonno ha nove centri coscienti, interagenti: nove come
le sfere superiori della mappa».
O forse di più.
«E, secondo te, quest’altra parte della psiche agirebbe anche nella veglia,
ma meno, così che l’“io” non può porle domande?»
La si può far agire di più, portando i nostri “io” in prossimità, diciamo
così, di quella mente del sonno, attraverso il de-siderare.
«Cioè in qualche modo sognando da svegli?»
Qui alcune nostre lingue ci sarebbero d’impaccio. L’italiano sogno, il
russo son, significavano invece, in origine, solamente “sonno”: il sogno, nei
contesti di queste lingue, era ed è soltanto qualcosa di non meglio definito
che avviene quando si dorme. Il francese rêve viene dall’antico francese
resver, che significava “sbagliarsi”. Il tedesco Traum viene dal proto-
germanico draughmas, “fantasma”. Va molto meglio l’inglese dream – che
anticamente significò, per qualche secolo, “visione” e “gioia”.
«Allora diciamo dream?»
Diciamo dream.
«Se ho ben capito, i nostri “io” avrebbero a disposizione queste due menti,
e quando dormiamo ne usano una e quando siamo svegli usano l’altra. Ma
tu confidi che possano usarle contemporaneamente o quasi…»
Non proprio. I nostri “io”, secondo me, sono i modi in cui abbiamo a che
fare con il mondo della veglia. Quando dormiamo possono anche spegnersi
del tutto o quasi. Un altro centro della nostra psiche adopera i nostri “io”, la
nostra mente della veglia, oppure la nostra mente del sonno. E, sì, penso che
possa adoperarli contemporaneamente. Il problema è che non saprei proprio
come chiamarlo, quest’altro centro. Nella canzone della Cenerentola di
Disney è chiamato your heart, “il tuo cuore”.
A dream is a wish your heart makes…
Naturalmente, se fossero stati francesi, russi, o italiani, gli autori di quella
canzone non l’avrebbero potuta scrivere così, dati i significati delle parole
rêve, son e sogno.
E non l’avrebbero scritta così se avessero pensato a Freud. Secondo la
psicoanalisi i sogni sarebbero desideri, ma soltanto desideri rimossi, perché
angosciosi: impulsi più o meno brutali che l’“io” cosciente (gli psicoanalisti
lo chiamano così, al singolare) non ammette di aver avuto e scaraventa nelle
penombre e nel buio dell’inconscio; e ne riemergerebbero quando, nel
sonno, il controllo censorio esercitato dall’«io» cosciente sarebbe più labile.
Gli autori di quella canzone non intendono nulla del genere, e neanche io:
condivido con loro l’idea che i de-sideri siano un fenomeno analogo al
ricordare i sogni nel momento del risveglio. Ma possono avvenire anche
quando siamo svegli.
«In qualsiasi momento della giornata?»
Sì, capita. E non di rado. L’importante, quando capita, è non dimenticare
quel che se ne è riusciti a cogliere, e nel dargli importanza.
«E come ci si accorge di quando capita?»
Secondo me, nella fase di rientro nel mondo e così pure nei momenti in
cui de-sideriamo, noi non vediamo più i fatti ma soltanto le cose.
«Cioè?»
Ricordi che già nelle prime pagine di questo libro dicevamo che il nostro
mondo, ogni nostro mondo, è fatto di fatti e la realtà è fatta di cose? Per cui,
nessuno dei nostri mondi è la realtà.
Un mondo è soltanto un modo di vedere, un’immagine che la mente della
veglia ha della realtà, ed è un’immagine sempre parziale. La mente
cosciente si accorge di percepire, pensare, immaginare, ricordare sempre e
soltanto alcune delle cose che i tuoi vari “io” possono percepire, pensare,
immaginare, ricordare. Opera costantemente una selezione; e al tempo
stesso è perennemente impegnata in un’altra attività, che consiste nel
coordinare la propria selezione con le selezioni della realtà che hanno
operato e stanno operando i gruppi umani ai quali appartieni o con cui hai a
che fare – e che spesso sono talmente diverse dalle tue selezioni, da
produrre conflitti. I tentativi di appianare o gestire questi conflitti
costituiscono il maggior dispendio di energia per qualunque individuo in
stato di veglia. Richiedono operazioni estremamente complesse: non solo
adattamenti – cioè negoziazioni e compromessi – per evitare che i mondi
dei gruppi annientino il mondo dei tuoi “io”, ma anche una ininterrotta
attività di raffronto, di decodificazione, di transcodificazione da un mondo a
un altro. Noi ci chiediamo di continuo: «Quale mondo è più reale o più
necessario per me, di minuto in minuto: uno o più mondi dei miei vari “io”
o uno o più mondi dei gruppi umani che conosco?» E dobbiamo rispondere,
se no ci troveremmo in capo a qualche secondo in stati confusionali.
È un po’ come se dovessimo pensare e parlare continuamente in una
dozzina di lingue diverse. E se non ci accorgiamo di questa iperattività
mentale durante le nostre giornate, è appunto perché abbiamo elaborato a
tale scopo un apparato selezionatore, codificatore, transcodificatore,
coordinatore e memorizzatore, che è quella che chiamiamo la nostra mente
cosciente, la mente della veglia.
«Quindi a suo modo la mente della veglia è tanto molteplice quanto la
mente del sonno».
È la mia idea.
«E per questo la nostra mente cosciente consueta non c’è durante il sonno:
perché chiudiamo la connessione con i mondi dei nostri gruppi, e
quell’apparato selezionatore, codificatore, transcodificatore, coordinatore e
memorizzatore non serve più?»
Io la penso così.
«Mh. D’accordo. Ma la fase di rientro? Il momento dei de-sideri, da
ricordare perché non si perdano?»
La fase di rientro è il momento del reset. In quegli istanti ci prepariamo a
rientrare nella nostra mente della veglia. Ristabiliamo codici, riattiviamo
sistemi di transcodificazione, aggiustiamo la selezione delle prospettive
percettuali e la valutazione delle selezioni altrui. Tutto ciò non avviene
immediatamente, ci vogliono alcuni secondi. E in quei secondi intermedi tra
una dimensione e l’altra noi non stiamo ancora vedendo i fatti della veglia.
Percepiamo e pensiamo le cose ma non i mondi.
Qualcosa di molto simile capita, secondo me, anche quando tutt’a un tratto
ci accorgiamo di de-siderare: anche nel de-siderare, infatti, si è al di là dei
mondi, in direzione di ciò che nei mondi non c’è ancora.
«Niente più pressioni selettive, né rabbia o rimorso o rancore o
rimpianto».
Come dice la canzone di Cenerentola: in dreams you have no heartaches:
il “cuore” non “soffre”. Se ti trovi in uno stato di dreaming, i rapporti con i
mondi dei gruppi umani sono momentaneamente sospesi: e non subisci le
loro pressioni selettive, indubbiamente dolorose. Tutta l’energia che di
solito ti serve per adattarti ai fatti dei mondi si ritrova libera, e può spaziare
tra le cose stabilendo nuove connessioni. Se in quei momenti hai il coraggio
di lasciarti guidare da un “mi piacerebbe tanto che…”, hai in pugno uno o
più de-sideri.
«Che sono nuove connessioni, belle per te».
Sì. Il guaio è che poi lo si dimentica, perché appena quegli attimi di
dreaming sono passati, pensiamo che non siano importanti. Un altro verso
della canzone di Cenerentola avverte che nel dreaming
whatever you wish for, you keep
cioè, qualunque cosa riesci a desiderare la puoi, la dovresti trattenere nella
memoria. Ed è una citazione dal Canto XIII del Paradiso, dove Dante spera
che chi immagina
ritegna l’image come ferma rupe,
cioè trattenga quel che ha immaginato, perché non rotoli giù chissà dove.
«Disney e i suoi autori la sapevano lunga».
Altroché. Se avesse abbracciato qualche religione, Walt Disney
l’avrebbero fatto santo.
«E se…»
Cosa?
«Un’ipotesi che mi è venuta in mente: e se i nostri vari “io” fossero
anch’essi un’attività della nostra mente della veglia, uno dei suoi sistemi di
adattamento eccetera, e si attivassero solo dopo il reset del risveglio? Forse
nel momento del reset ognuno di noi è un io unico».
È una bella idea. È indimostrabilissima, è impossibile anche da constatare,
ma è bella.
«Sì, pensa: un nostro unico “io” che se ne sta fuori dai mondi, e che quindi
non possiamo conoscere con la mente della veglia, e che è il nostro
autentico “io”. Ed è questo “io” che de-sidera. Di conseguenza, quando de-
sideriamo non sappiamo chi siamo, e non importa chi siamo nei mondi. E
da ciò che de-sideriamo in quei momenti intermedi, possiamo anche
cominciare a farci un’idea di chi sia e di come sia quel nostro unico “io”...
Io me lo immagino bellissimo».
Chissà. E se invece fosse più sciocco dei nostri “io” della veglia?
«No, no. Io mi immagino che sia come l’“io” degli emigrati del secolo
scorso, quando arrivavano in America e per un po’ non capivano nulla. La
loro mente della veglia non riusciva a codificare e transcodificare nulla, e
dunque nemmeno a rimettere in funzione i comportamenti depressivi che
avevano tenuto nel loro Paese d’origine. Lì veniva fuori il loro “io” vero, e
de-sideravano e facevano grandi cose, che nei mondi di casa loro non
avevano mai nemmeno osato pensare».
Pensalo pure. Personalmente, non capisco perché tu tenga tanto al numero
uno: non è sempre meglio un plurale? Dev’essere perché, in quanto ex-
diavolo, sei molto monoteista.
«E tu no?»
Bah, io sono anche monoteista. Quindi no, non sono monoteista. Ma non
mi sembra sia questo il momento di discutere delle mie ipotesi religiose.
«E invece sarebbe il caso, perché il tuo discorso sul poter percepire le cose
indipendentemente dal mondo è, in pratica, un’esortazione a guardare la
vita come la guarderebbe un Dio. Esattamente il contrario di quel che
facevo io quando tentavo la gente».
Forse ne parleremo più avanti. Quello che importa adesso è la differenza
tra i de-sideri che sorgono in noi in quei momenti intermedi, e le voglie che
abbiamo in uno stato di coscienza ordinario. Ti interessava sapere come
riconoscere i momenti intermedi, no?
«Certo. Ma poi ne parliamo, di Dio?»
Sì.
«Ci tengo. È una mia vecchia questione».
Quando ci sforziamo di desiderare qualcosa in uno stato di coscienza
ordinario, desideriamo sempre qualcosa che nel nostro mondo c’è già, e che
appare plausibile e possibile alla nostra mente della veglia. Ma in tal modo
non facciamo che confermare la solidità di questo mondo, accontentandoci
di ciò che che questo mondo ci offre. Magari possiamo desiderare oggetti e
condizioni che nelle nostre vicinanze non ci sono: per esempio una
piantagione di caffè in Costa Rica, o una casa sulla spiaggia in un’isola
della Micronesia. E questo potrebbe darci l’impressione di stare
fantasticando su una forma di libertà dal nostro mondo. Ma ne saremmo
veramente liberi? È molto probabile che anche il Costa Rica e la Micronesia
non siano luoghi, per noi, ma fatti che il nostro mondo ci sta offrendo:
relazioni tra noi e quei luoghi esotici, che abbiamo stabilito per sentito dire,
oppure attraverso il nostro atlante, la tv, i nostri libri, il computer o, se
siamo stati più fortunati, attraverso un viaggio in aereo. Ed essendo fatti che
il nostro mondo ci ha offerto, non sono autentici de-sideri ma soltanto
scelte, atti di volontà, per ottenere i quali dovremmo sobbarcarci proprio di
quei famosi sforzi di volontà, di cui abbiamo già parlato.
Leggi questo brano: è stato scritto verso la fine del I secolo, e dà un ottimo
criterio generale per de-siderare autenticamente:
Da dove vengono le guerre e le liti che avete in voi stessi? Non da qui?
Dai piaceri che cercate, e che tuttavia combattono gli uni contro gli altri
nelle vostre membra? Voi bramate e non avete; uccidete e siete invidiosi
eppure non potete ottenere; litigate e fate guerra, eppure non riuscite ad
avere: ed è perché non chiedete. E chiedete e non ottenete: ed è perché
chiedete male.
Lettera di Giacomo 1,1-3
Di questo Giacomo non si sa nulla di preciso, ma dal suo scritto vediamo
che dev’essere stato un notevole oratore e che fu un fine psicologo, le cui
idee valgono ancora. Le “guerre e liti” di cui parla qui, sono due due tipi di
conflitti inutili: i conflitti che gli “io” di ciascuno di noi hanno con se stessi
in nome del nostro mondo, e i conflitti che i nostri «io» hanno con il nostro
mondo. Questi due generi di conflitti si intersecano inevitabilmente. Se
quelli a cui Giacomo si rivolge provano a desiderare qualcosa che il loro
mondo offre loro, si rassegnano a questo mondo, e dunque non possono non
sentirsene sconfitti; se provano a volere qualcosa di diverso da quel che il
loro mondo offre, si oppongono a questo mondo – che a loro non basta,
perché se no non de-sidererebbero, e che tuttavia è opera loro, del loro
sistema di selezione, codificazione e integrazione di fatti. Dunque finiscono
comunque per rassegnarsi e, al contempo, per opporsi a se stessi. Invece di
de-sideri, si trovano ad avere soltanto “bramosie”, cioè sforzi di volontà
pieni di rabbia, rancore, rimorso, rimpianto, e qualunque cosa ottengano o
vogliano ottenere, non può soddisfarli: è comunque un non ottenere quel
che potrebbero de-siderare. È un chiedere male.
«Quindi, in pratica, cosa bisognerebbe fare?»
In pratica, tu avevi provato a desiderare una Rolls-Royce. Era un modo di
metterti in contrasto con il tuo mondo, dato che nel tuo mondo non ti puoi
permettere un’auto del genere; ma quell’auto era anche una cosa che il tuo
mondo offre come simbolo di ricchezza. In questo tuo desiderio abbiamo
una contraddizione giacomita, un «combattimento dentro le tue membra»:
per opporti al tuo mondo vuoi qualcosa che il tuo mondo ti dà? Vedi che
non ha senso.
E le conseguenze della contraddizione, se davvero avessi desiderato una
Rolls-Royce, si sarebbero viste ben presto. Nel tuo modo di vivere, una
Rolls-Royce non ci sta. Se l’avessi desiderata, di lì a poco avresti dovuto
desiderare anche un voluminoso garage da qualche parte, per evitare che
qualcuno rigasse, per esempio, la carrozzeria della tua Rolls parcheggiata in
strada nottetempo. Avresti anche dovuto desiderare itinerari diversi dal
solito, dato che non puoi adoperare la Rolls per andare al lavoro o al
supermercato: sarebbe ridicolo e scomodo. L’idea della tua Rolls-Royce
sarebbe entrata “in guerra” – direbbe Giacomo – con te, e non solo ti
avrebbe verosimilmente sconfitto, ma ti avrebbe dimostrato che il tuo
mondo offre sì le Rolls-Royce, ma non a te, perché tu nel tuo mondo non ne
sei all’altezza. Lì ti si sarebbero aperte due vie: o insistere nel volere la
Rolls-Royce, trasformando quel tuo volerla in una bramosia piena di
rancore, rabbia, rimorsi e rimpianti, oppure accorgerti di come sono andate
veramente le cose, quando hai creduto di desiderare la Rolls-Royce.
«E invece che cosa avrei desiderato, secondo te?»
Forse, in un tuo momento intermedio, ti era venuta in mente la possibilità
di provare un bel de-siderio: non sapevi ancora di cosa, ma avresti de-
siderato che quel de-siderio fosse festoso, sfarzoso, allegro, e che stupisse te
e i tuoi amici, e suscitasse l’ammirazione di tante persone che ora non ti
rispettano abbastanza. Questa possibilità di de-siderare ti era piaciuta per
qualche istante, e poi ti ha sgomentato, non appena quel momento
intermedio è passato e sei ritornato nel tuo mondo consueto: da un lato, hai
avuto l’impressione di non meritare un simile cambiamento in meglio, e di
non poter reggere a un tale cambiamento, se davvero si fosse prodotto; e,
d’altro lato, hai provato rancore e rabbia verso tutti quelli che, nel corso
della tua vita, hanno contribuito a consolidare in te il senso di colpa, da cui
dipende la tua sensazione di non meritare più di quello che hai.
A quel punto, dentro di te la situazione è precipitata: tra tutte le cose che
avresti avuto a disposizione per esprimere quel tuo desiderio, ne hai scelta
una che suscitasse l’invidia di moltissimi e che, al tempo stesso, fosse
troppo al di sopra e al di fuori del tuo attuale livello di vita. La scelta è stata
appositamente brusca, perché tu non ti accorgessi di quanto fosse
autolesionistica: tanto che non ti sei nemmeno chiesto se le Rolls-Royce ti
piacciano o no: volevi solo qualcosa che facesse soffrire molte persone e
anche te. Così hai scelto non una cosa, ma un marchio di auto di lusso. Non
hai nemmeno precisato il modello, il colore, l’anno. Solo il marchio,
eccessivamente lussuoso.
Questo è chiedere male. Non avrai quella macchina. E anche se l’avessi,
quando andrai ogni tanto a vederla in garage non ti sembrerà di avere quello
che veramente avresti voluto avere.
«Allora dovrei desiderare poco? E starei meglio?»
Non so. Per esempio?
«Dovrei accontentarmi di desiderare una bicicletta nuova?»
Sai bene che sarebbe troppo poco. Sarebbe un volere qualcosa tanto per
volere qualcosa. E qualche ora dopo averlo pensato, questo desiderio ti
sembrerebbe insignificante: un modo di rassegnarti al tuo mondo. E anche
in questo caso il mondo l’avrebbe vinta su di te.
«E allora che cosa dovrei chiedere, nei miei de-sideri?»
Quello che nel tuo mondo di fatti non c’è ancora.
«Per esempio che cosa?»
Qualsiasi cosa. Purché la de-sideri nel momento del reset, quando sei sulla
soglia del mondo.
«Se non mi fai qualche esempio pratico di de-sideri autentici, non avrò
mai la certezza di aver capito».
Posso darti qualche consiglio, tratto dalla mia esperienza: per esempio, nei
tuoi de-sideri evita qualsiasi paragone.
«Cioè?»
Evita espressioni del tipo: essere più bravo di qualcun altro, avere più
successo di qualcun altro, e così via. Altrimenti il tuo sguardo interiore
resterebbe ancorato a qualcuno che già conosci nel tuo mondo.
«Non de-sidererò cose che hanno desiderato altri. D’accordo».
Per la stessa ragione, evita anche il “non” o qualsiasi forma di negazione:
perché negheresti qualcosa che già conosci nel mondo, e in tal modo saresti
ancora ancorato a qualcosa del tuo mondo.
«Va bene. Niente non».
Poi si tratterebbe di essere estremamente precisi, sia nell’individuare ciò
che de-sideri, sia nel precisare sentimenti e pensieri che ti suscitano i tuoi
de-sideri.
«Per esempio?»
Per esempio, quando ti è sembrato di desiderare una Rolls-Royce il tuo
impulso più forte non era il desiderio ma il dovere. Dovevi trovare qualcosa
che suscitasse determinate reazioni negli altri. Non eri libero. Quel
desiderio era un’imposizione, e sono sicuro che avresti fatto il possibile per
boicottarlo, perché a tipi come te non piace subire imposizioni nemmeno da
se stessi.
«Questa faccenda della precisazione si annuncia come piuttosto
complicata».
Sì. Anche per ragioni sociali. Devi sapere che in alcuni Paesi, tra cui il
nostro, quando si prova a precisare il “che cosa de-sidero?” ci si imbatte in
grandi ostacoli determinati dall’atteggiamento dei connazionali.
Ci sono Paesi in cui, per la maggioranza della gente, ciò che più conta non
è il “che cosa?” ma il “chi?”: sono Paesi che per lunghi periodi hanno avuto
regimi autoritari, e una struttura di classi sociali troppo rigida, che impediva
ai meno abbienti di accumulare ricchezze. In questi Paesi, il “chi?” decide
tutto: vengono rispettate, ammirate, prese a modello le persone che
detengono potere, indipendentemente da cosa facciano, e le persone in
buoni rapporti con loro, indipendentemente da cosa facciano; tutte le altre
persone sono inchiodate alla loro condizione di inferiori, di “uomini della
strada”, indipendentemente da cosa facciano o sappiano fare o vogliano
fare. In questi Paesi, ai limiti ed errori che già conosci, e alla rabbia e
rancore e rimorso e rimpianto, e agli automatismi prodotti dalle paure del
chiedere, si aggiunge un senso di fatalità, che può addirittura far risultare
irritanti i problemi relativi al “che cosa?”
In altri Paesi conta di più il “quanto?”. Non importa chi sei ma quanto
guadagni. È già meglio del fatalismo dei Paesi del “chi?”, ma presenta altri
svantaggi: non solo le persone ma anche le cose vengono valutate in base al
“quanto costa?” o “quanto me ne viene?” E il “che cosa?” passa in secondo
piano.
In altri Paesi conta il “perché?”, ovvero: l’ideologia è il fattore decisivo.
Sono per lo più Paesi religiosi, oppure Paesi che prima erano religiosi e poi
hanno sostituito la religione con qualche credo politico. In questi Paesi ogni
cosa, ogni atto, ogni atteggiamento deve avere un senso non di per sé, ma in
base a una certa idea del mondo e in vista di un progresso della collettività.
In altri Paesi, infine, conta più di tutto il “come?” Sono i Paesi in via di
sviluppo, nei quali ogni obiettivo, sia collettivo sia individuale, è stato
copiato dall’estero – ovvero, le risposte a ogni domanda riguardante il “che
cosa?” sono state date altrove da gente straniera. “Come realizzare anche in
casa nostra ciò che gli altri hanno realizzato a casa loro?” è l’unico
interrogativo che in questi Paesi abbia senso; ciò non può non incidere
pesantemente sul modo di intendere le attività delle persone: l’alienazione
diventa la regola – e anche il “che cosa?” è perciò soltanto una forma di
quel “come?”, la cui risposta è “come quelli là!”
“Noi in che tipo di Paese viviamo?”
Una domanda più utile sarebbe: Io a che tipo di Paese somiglio? Gli
influssi delle nazioni non si subiscono: si scelgono. Molti non lo sanno,
perché sono stati addestrati a vivere come se il loro luogo di nascita
stabilisse un destino: cioè li si è obbligati a scegliere di lasciarsi influenzare
soltanto da quel che avevano intorno da piccoli.
«Certo, e io cosa ti dicevo: allevamenti di uomini. Cuius regio eius religio:
l’obbligo a credere che ciò che ci può essere in te dipenda dalla mentalità
della tua regione».
È uno dei tanti fatti del mondo. Quindi, tu a quale Paese somigli?
«Ci penserò. Forse ai Paesi del “perché?”»
Scoprilo.
Un’altra informazione che può esserti utile per precisare i tuoi “che cosa?”
è che questa domanda ha sempre due tipi di risposta, dei quali sappiamo
molto fin dai tempi di Aristotele, benché pochi se ne ricordino.
Il primo tipo di risposta alla domanda “che cosa?” serve a placare, a dare
certezze, a imbrigliare il corso del pensiero e a bloccare l’intuizione e
l’immaginazione: e sono le risposte brevi, nelle quali per lo più compare un
unico sostantivo. Purtroppo ne usiamo di continuo; alcuni usano solo questo
tipo di risposte, ignorandone i danni. Vedendo un personaggio politico in
televisione, dicono a se stessi: “È il presidente”. Oppure: “È un politico”. E
a loro basta così.
«Cioè, adoperano etichette, invece di pensare. Etichette imparate in
famiglia, nella regio, nel Paese, nella civiltà, certo…»
Sì. E tutti i nostri mondi si reggono su risposte di questo genere, come ti
accorgerai non appena avrai capito in che cosa consiste il secondo tipo di
risposta.
Il secondo tipo di risposta alla domanda “che cosa?” stimola il pensiero,
l’intuizione, l’immaginazione, disgrega certezze e suscita inquietudine:
sono le risposte più lunghe, costituite da frasi. Queste risposte più lunghe
sono caratteristiche dei bambini, dei grandi filosofi, poeti, scienziati, e di
tutte le persone capaci di de-siderare. Vedendo quello stesso personaggio
politico in televisione, queste persone dicono a se stesse: “A quanto pare,
quello è un uomo che vuole dominare su altri. Sarebbe interessante capire
perché”.
E sia ai bambini, sia ai grandi filosofi, poeti, scienziati, sia alle persone
capaci di de-siderare, le risposte del primo tipo sembrano soltanto impacci
logici, culturali o psichici, da superare con ulteriori domande: se si
sentissero rispondere: “Quello è un presidente del consiglio” insisterebbero
nel chiedere: “E che cos’è un presidente del consiglio?” per ottenere una
risposta del secondo tipo.
Hai intuito la differenza che c’è tra un mondo plasmato dal primo tipo di
risposte e un mondo plasmato da risposte del secondo tipo?
Più ci rifletterai, più quella differenza ti sembrerà abissale. In un mondo
plasmato dal primo tipo di risposte tutto è ciò che è per la gente. Con il
secondo tipo di risposte, tutto diventa oggetto di una tua scoperta.
Aristotele, purtroppo, riteneva che il primo tipo di risposte fosse quello utile
alla conoscenza: sosteneva che le risposte del primo tipo definissero le vere
essenze delle cose, mentre le risposte del secondo tipo descrivessero
soltanto le apparenze. È un punto di vista tipico delle personalità
autoritarie, cioè di coloro che sono arrivati in cima a una certa gerarchia del
mondo già noto, e perciò non vogliono che il mondo cambi, per non correre
il rischio che anche la loro gerarchia perda fondamento. Be’, niente fa
cambiare un mondo quanto la voglia di chiarire come stanno veramente le
cose, cioè cos’è cosa, chi è cosa e chi è veramente chi. Aristotele era un
cortigiano del re Filippo di Macedonia. Se gli avessero chiesto in pubblico:
“Cos’è Filippo di Macedonia?”, Aristotele avrebbe dato una risposta del
primo tipo: “Il re”. E se gli avessero chiesto: “E tu cosa sei per lui?”,
avrebbe risposto: “Un istitutore”. Se infatti avesse dato risposte del secondo
tipo, avrebbe perso il posto. Allo stesso modo, a un presidente del consiglio
non garberebbe affatto che gli chiedesse: “E che cos’è, secondo lei, un
presidente del consiglio?”, né a un Papa: “E che cos’è, secondo lei, un
Papa?”
«Passare da risposte del primo tipo a risposte del secondo tipo fa crollare
un mondo? Non ne sarei così sicuro, per mia diretta esperienza. I presidenti
del consiglio e i Papi con cui avevo a che fare io non prenderebbero
neanche in considerazione quelle domande. Hanno un apparato di potere
che li tutela, qualunque cosa possa domandarsi la gente».
Ogni apparato di potere si regge non su se stesso ma sui disagi, sul senso
di smarrimento, sulle ignoranze, sulle identificazioni con i problemi e sulle
paure derivanti dalle risposte del primo tipo.
«See, figurarsi».
No? Ascolta e guarda. Proviamo a rappresentare questa faccenda in modo
schematico, come faceva Popper settant’anni fa, ne La società aperta e i
suoi nemici. Allineiamo due colonne: nella colonna di sinistra metteremo le
risposte del primo tipo e nella colonna di destra metteremo le risposte del
secondo tipo. In ogni riga ci sarà una risposta alla domanda “Che cos’è per
te?”, e immagineremo di riferirla a varie cose e situazioni che vediamo o
sperimentiamo camminando per strada. Tendo l’indice, chiedo “Che cos’è
per te?” e rispondiamo.
un cucciolo un cane giovane
un passante un uomo che cammina
un bar una rivendita di alimentari, soprattutto allo stato liquido
una banca un ufficio in cui ci si occupa di soldi
una chiesa un posto dove si compiono i rituali di una religione
istituzionale
i soldi4
il sesso5
l’amore6
la morte7
la vita

Capito? Le ultime cinque parole non causano problemi se si rimane nella


colonna di sinistra, che è quella di cui tanti si accontentano: semplicemente,
sono parole che si sentono spesso in giro, e tanti pensano che se le si dice si
sa cosa significhino. Chi invece tiene conto della colonna di destra, si
accorge di non saper dire con precisione che cosa siano per lui l’amore, i
soldi, il sesso, la morte, la vita.
«E allora le parole diventano pro-blemi e pro-getti, sì. Questo è
esattamente il modo in cui, nel circuire le persone, arrivavo al dunque:
bastava tenerle sulla colonna di sinistra, e ne facevo quel che volevo».
E così ha sempre fatto ogni centro di potere – religioni incluse. Le
personalità autoritarie, cioè coloro che vogliono che il mondo resti com’è,
arroccano la loro mente della veglia nella colonna di sinistra: non vogliono
sapere, o vogliono-non sapere, che cosa siano per loro l’amore, i soldi, il
sesso, la morte, la vita. Se cominciassero a domandarselo, i loro “che
cos’è?” si moltiplicherebbero, aprendo prospettive di ricerca di verità e di
libertà che il mondo non potrebbe contenere.
«Si accorgerebbero di essere liberi e di poterlo essere».
Per esempio, nella colonna di destra, in corrispondenza della parola soldi
dovrebbe comparire un riferimento al passo in cui Gesù, guardando una
moneta, domanda: «Di chi sono l’effigie e l’iscrizione impresse su questo
oggetto?» (Luca 20,24). Gli rispondono: «Di Cesare». Al che Gesù replica:
«Dunque questo oggetto è di Cesare; ma se è di Cesare, perché l’hai in tasca
tu?»
Se questo passo venisse preso sul serio, costituirebbe ancor oggi una
terribile minaccia per gli Stati: se un movimento sufficientemente numeroso
restituisse il denaro al proprio governo in cambio di un equivalente in
metalli preziosi o in una qualsiasi altra cosa che si saprebbe come definire
sulla colonna destra, non ci sarebbe più modo di pagare né eserciti né
amministrazioni né politici. Le più vaste ingiustizie del mondo cesserebbero
in poche ore.
«Popper dice queste cose? Era anarchico?»
No, Popper pone la questione solo su un piano logico. L’illazione politico-
economica e il riferimento scritturale sono mie. Ora, tu puoi benissimo
essere una personalità autoritaria, e ragionare come Aristotele: non avrei
nulla da obiettare; ma se tu decidessi di cominciare a de-siderare, è fuori di
dubbio che quelle che Aristotele chiamava le apparenze delle cose ti
attirerebbero più delle cosiddette essenze, a meno che tu non voglia che il
mondo ti sconfigga e ti sottometta.
«Dunque tra le regole della formulazione dei de-sideri metto anche: non
chiedere soldi?»
Certo.
D’altronde, a voler essere precisi, in questa questione il termine essenze è
inappropriato. Noi, qui, stiamo parlando del nostro rapporto con le cose.
L’essenza di una cosa è ciò che quella cosa è: invece la colonna di sinistra ti
dice soltanto quali etichette il tuo popolo ha appiccicato a quel che sa delle
cose. Invece di essenza, per indicare le risposte del primo tipo dovremmo
semmai usare il termine inerenza – che nel nostro linguaggio consueto
significa “il riferirsi a qualcos’altro”, e che letteralmente è “l’essere
attaccato, incollato a qualcosa” (dal latino inhaerere). La risposta: “Quel
tale è un politico” mi informa dell’inerenza di una persona a un sistema, del
modo in cui quella tal persona è incastrata a una struttura del mondo, e
questa risposta mi basterà soltanto se anch’io mi limito a essere, nella mia
vita, un’inerenza a quello stesso sistema del mondo. Ma ciò che mi appare
di quel politico, ciò che io veramente vedo di lui, è ciò che lui costituisce
per me solo, e non per un sistema.
Valutiamo quanto incidano queste inerenze sulla formulazione dei de-
sideri. Io ti domando: che cosa de-sideri? Se mi rispondessi: “un amore”, “il
successo”, “la ricchezza”, sarebbero tutte inerenze.
“Amore” sarebbe una risposta del primo tipo alla domanda: “Che cos’è
che provo io per quella persona?”, dato che sulla colonna di destra un
corrispettivo chiaro della parola amore non c’è. Se mi dicessi che ami
qualcuno, significherebbe soltanto: “Io provo per quella persona ciò che la
gente chiama amore”, e se ti sembra di de-siderare un amore, vuol dire che
ti sei fermato nel mondo delle inerenze – cioè al tuo bisogno di aderire al
linguaggio e al mondo della gente. Lo stesso vale per il “successo” e la
“ricchezza”.
Oppure potresti fermarti a riflettere su questo sentimento, e accorgerti che
le sue apparenze, cioè i modi in cui l’hai sperimentato, sono talmente vari,
complessi, contraddittori, che non è proprio possibile usare una parola sola
– un’inerenza – per esprimere in che cosa consistano. Lo stesso vale per il
«successo» e per la «ricchezza».
«Ma, per tornare alla Rolls-Royce, se io dicessi di de-siderarla non
intenderei dire che de-sidero tutto quello che una Rolls-Royce significa per
me?»
No. Dovresti prima essere veramente convinto che ciò che una Rolls-
Royce significa per te è veramente una Rolls-Royce. Se no, chiederesti
soltanto ciò che una Rolls-Royce significa per gli altri: chiederesti cioè di
essere come tanti altri nel mondo. Di inerire, inhaerere al mondo. Ma chi e
ciò che inerisce al mondo, non è in grado di de-siderare, perché, come ti ho
detto tante volte, ciò che de-sideri può essere soltanto ciò che il tuo mondo
non ti dà ancora.
«Quindi niente marche, nei de-sideri. Vale come regola?»
Niente marche e in generale niente nomi propri, direi: né nomi né cognomi
di produttori o di altri. Dato che i nomi servono solo nel mondo, sono in
tutto e per tutto inerenti al mondo: un nome proprio è un modo in cui il
mondo ti identifica e ti incastra in un determinato posto, perché tu non ti
smuova più di lì. Può solo intralciare il de-siderare.
«Niente nomi proprio, d’accordo. Me lo segno».
«Hai ragione. Con questa faccenda delle due colonne il mondo a me noto
va veramente in pezzi».
Ti avevo detto che avremmo avuto problemi sempre più grandi. Ora ne
abbiamo di grandi come il mondo intero. D’altronde, de-siderare è prendere
sul serio un proprio problema e la propria voglia di superarlo.
«Già, trasformando il mondo in un pro-getto. A questo modo, formulare
de-sideri è riformulare la vita».
Ti spiace? Preferisci un mondo di certezze? Sai già che, se ti interessa de-
siderare, si tratterà proprio di non avere certezze, e di non volerne
nemmeno. Le certezze sono soltanto sconfitte alle quali il pensiero dei più
ha deciso di fermarsi, e di inerire, costruendosi torri di Babele con, al posto
dei mattoni, decine di migliaia di risposte del primo tipo. Quando invece si
va oltre, si vive di ipotesi, in continua elaborazione, nel continuo ampliarsi
e mutare delle apparenze.
«Ho un dubbio. Abbi pazienza, è sempre lo stesso dubbio
sull’individualismo, che continua a tornarmi in mente. Se io comincio a de-
siderare le apparenze – il che, intendiamoci, a me va benissimo – finirò per
vedere tutto in base a quello che de-sidero. Cioè a stabilire criteri di
importanza, di valore, solo sulle mie aspirazioni. È giusto, questo? Non è
quello che si chiama wishful thinking? Il pensare in base a quello che ci va
di pensare, invece di tener conto di come stanno le cose. Non è sempre un
errore?»
In questo caso, il wishful thinking non è affatto un errore. L’errore è
semmai il suo contrario: come lo chiami tu, il “pensare tenendo conto di
come vanno le cose”. Intendi dire: come adesso stanno andando i fatti del
mondo. Ma abbiamo già detto abbastanza, al riguardo, no? Non occorre e
non puoi dimostrare a nessuno, nemmeno a te stesso, che un tuo de-siderio
sia giusto, perché sarebbe una dimostrazione razionale e i tuoi de-sideri
sono irrazionali, come lo è la tua intuizione o la tua immaginazione. Non
puoi nemmeno dire come sei arrivato a un de-siderio invece che a un altro:
ciò che conta è che ti accorgi di de-siderarlo, finché lo de-sideri.
«E se poi non lo de-sidero più?»
Allora abbandoni quel de-siderio e ne cerchi un altro. Così come si fa con
i progetti di opere d’arte, con le ipotesi, con le idee. Quindi, se vuoi
cominciare a de-siderare, comincia a metterti tranquillo, a dimenticarti di te,
come quando dormi, e ad allontanarti così da paure, identificazioni con
problemi, ignoranze, sensi di colpa e di inadeguatezza
«E da tutta la mia storia passata, dalla mia famiglia, dalla mia regio».
Da tutti i fatti che sei stato e che hai fatto, con le loro rabbie e rancori e
rimorsi e rimpianti, e anche da tutto quello che durante la tua storia passata
chissà quanti altri hanno proiettato su di te, secondo il ruolo che tu rivestivi
per loro, nel mondo della veglia. Prova. Non è impossibile. Anzi, è
semplice.
«Lasciare tutto questo, tutte le mie paure. Mi sembrerebbe di rimanere
nudo».
Ti fa paura? O paura della paura? O paura della paura della paura? Ma
paura della paura della paura di cosa?
«Forse di quello che de-sidererei se davvero lasciassi il mio passato. È
come buttarsi da un trampolino».
O da una piramide? In ogni caso, da un luogo tanto più alto quanto più dai
importanza al passato invece che al futuro. Vedrai che se provi a buttarti dal
tuo presente, presunta piramide, sarà soltanto fare un passo avanti su un
terreno piano, in dolce salita.
«Speriamo».
Non aver paura della semplicità. Si tratta solo di trasporre ciò che sai,
dalla colonna di sinistra a quella di destra. Tanti fatti scompaiono, in questa
trasposizione: fatti presunti, doveri presunti (sia del tipo sollen, sia del tipo
müssen), poteri presunti, presunte verità: tutte complicatissime presunzioni
di collettività che non sono te e che non sono nessuno di preciso. Tutti
sforzi di volontà con cui, finora, ti sei adeguato – senza sapere bene a chi.
Si chiama alienazione.
«L’alienazione dei de-sideri».
Già, e la si impara presto. Capita fin da ragazzi che ci attribuiamo i
desideri di qualcun altro: magari di una madre, che non era riuscita a
raggiungere un qualche obiettivo, e noi, commossi dalla sua delusione, ci
siamo ritenuti in dovere (müssen) di ottenere quello stesso obiettivo, perché
in famiglia qualcuno ci riuscisse. Oppure si tratterà del desiderio espresso
da una compagna di classe che ci era particolarmente odiosa, e noi ci siamo
imposti di surclassarla, giurando a noi stessi che quel suo desiderio
l’avremmo realizzato prima e meglio di lei.
Questi desideri copiati stentano a lungo a realizzarsi, perché tutte le nostre
migliori qualità vi si oppongono, «combattendoli nelle nostre membra»,
come diceva Giacomo; e quando si realizzano ci procurano non gioia, ma
un senso di vuoto e tristezza. Meglio cautelarsene: e il modo migliore
consiste proprio nel dare peso alle apparenze di ciò che ci sembra di
desiderare. Se hai lasciato che l’aspirazione irrealizzata di tua madre di
laurearsi in medicina si trasferisse in te, e stai per formularlo, prova a
immaginarti vividamente come medico, e domandati se è questo che
desideri davvero, tu che magari sei nato per fare il ballerino. Se hai lasciato
che il desiderio tanto vantato da una tua compagna, di diventare attrice del
cinema, si trasferisse in te, prova a immaginarti nell’ufficio di un agente, o
ai provini o sul set: e domandati se non è un modo di distruggere il tuo
talento per la filosofia.
«Ma dovrei conoscermi profondamente».
Non sei tu il maggior esperto mondiale di te stesso?
«Sì. Ma, per sincerarmi di aver capito bene, posso fare qualche altro
esempio? Ti dico ambiti di desiderio e tu mi dici se sono inerenze o
apparenze, va bene?»
Va bene.
«Matrimonio?»
Inerenza.
«Se desidero sposarmi incappo in un’inerenza?»
No. Il matrimonio è un’inerenza. L’atto di sposarsi, no. Ma perché desideri
sposarti?
«Per vivere a lungo con la persona che amo».
Allora perché non desideri semplicemente di vivere a lungo con la persona
che ami? Vedi tu quanto a lungo.
«Ma poniamo che io creda nel matrimonio, nel significato sacro del
vincolo matrimoniale, mentre la persona che amo non ci crede».
Allora potresti desiderare di convincere quella persona a credere nella
sacralità del matrimonio. Il mio dubbio è che se ci riuscissi l’ameresti un
po’ meno, perché se l’ami così com’è non saresti più sicura di amarla se
diventasse una persona diversa.
«Ah. Va be’. Continuiamo. Famiglia?»
Inerenza.
«Cioè dovrei desiderare non una famiglia, ma gravidanze, allattamenti,
educazione dei figli e così via?»
Sì. Se è questo che desideri. Ma la parola “famiglia” è soltanto
un’inerenza.
«Casa?»
Apparenza, se riesci a immaginarla bene.
«Meno male. Mobili?»
Apparenza.
«Abiti?»
Apparenza.
«Perché gli abiti sarebbero apparenza e una Rolls-Royce sarebbe
un’inerenza?»
Perché gli abiti sono abiti e la Rolls-Royce è un marchio. Non hai detto
“abiti di un marchio di moda”: hai detto solo “abiti”.
«Chiaro. Salute?»
Inerenza.
«Perché?»
Cosa intendi con salute?
«Non avere malattie. Stare sempre bene».
Cioè essere in perfetta salute anche quando sei in una situazione per te
dannosa? Non ricevere dal tuo corpo nessun avvertimento che in quella
situazione ti stai deprimendo e stai sprecando la tua vita? Desideresti
questo?
«Ah, no. Come non detto. Allora potrei desiderare di essere in perfetta
salute quando sono in una situazione a me favorevole?»
Cioè di star bene quando stai bene? Non è superfluo?
«Vero. E… fare cose per gli altri? Cioè fare del bene a molti altri?»
Inerenza. La parola “bene” è un’inerenza, che esiste soltanto nella colonna
di sinistra.
«Dovrei precisare che cosa vorrei fare per gli altri, giusto?»
Sì, molto in concreto.
«E fare quello che mi piace?»
Nel senso: fare sempre e soltanto quello che ti piace?
«Sì».
Apparenza.
«Ottimo».
«No, aspetta: a pensarci bene, non è tanto ottimo. Questo modo di
esplorare me stesso continua a spaventarmi».
Sì, è stressante fare i conti con i propri “io”. Attendere la realizzazione di
un de-siderio è una dura fatica psichica, ma formulare de-sideri con
precisione lo è ancora di più. Ogni aumento di conoscenza comporta un
aumento di stress. Ma non c’è nulla da fare: bisogna abituarcisi, diventando
più forti.
«E come si fa a vincere questa emozione spiacevole?»
Scopri da dove viene, e usala. Probabilmente ti torneranno alla mente tanti
episodi sgradevoli, in cui tu stavi uscendo allo scoperto con qualche tuo de-
siderio, e qualcun altro ti causava sofferenza perché avevi osato. De-sidera
qualcosa che ti risarcisca dei danni che avevi subito in quegli episodi. Le
sconfitte servono come carburante per grandi progressi. Adopera le tue
sconfitte per crescere oltre, domandandoti che cosa sarebbe oggi il tuo de-
siderio che allora venne frustrato: scopri se ancora lo de-sideri, e de-
sideralo.
«Per esempio, che qualcuno mi dicesse che i miei desideri sono
importanti?»
Questo te lo sto dicendo già io da duecentodue pagine. Adesso devi dirtelo
tu.
«Allora che qualcuno mi aiuti a non aver paura di fare quello che voglio.
Che qualcuno sia felice se lo faccio. I miei genitori non lo sono stati. Certe
persone che ho amato, nemmeno».
È un bel de-siderio. Ma definisci felice sulla colonna di destra.
«È difficile».
No, è semplice. Immagina quali sono le apparenze della felicità, per un
ex-diavolo.
«Sbaglierò sicuramente…»
Non avevamo già parlato della paura di sbagliare? Se la lasci entrare nella
tua mente, ti ci vorrà poco perché diventi la paura di fare qualsiasi cosa.
Allora, siccome restare senza far nulla non si può, comincerai a fare
soltanto piccole cose, banali, insignificanti, pensando che se ne sbaglierai
qualcuna si tratterà comunque di un errore piccolo, banale, insignificante.
Risultato: i tuoi desideri saranno piccoli, banali, insignificanti. Dunque
impara a chiedere cose strabilianti, con il probabilissimo rischio di fare
errori altrettanto stabilianti – specialmente se non ti domandi: “Mi dà gioia
questo mio de-siderio? Mi suscita un sorriso che non riesco a trattenere? Mi
fa battere il cuore in un modo diverso dal solito?”
«No, adesso mi stai veramente illudendo. Quello che dici è difficilissimo,
appunto perché è così immediato. Come si fa a essere immediati? Con tutto
quello che mi hanno obbligato a credere, con tutto quello a cui mi sono
rassegnato per tanto tempo, con tutta la mia paura, e ignoranza, e senso di
colpa, e le mie identificazioni con il problema…»
E i rimorsi e i rimpianti e la rabbia e i rancori.
«Appunto. Tutte queste sconfitte e inclinazioni sono diventate me, io oggi
sono il loro groviglio inestricabile: non c’è niente di immediato, per me.
Dove la ritrovo, l’immediatezza? Dici che devo aspettare che arrivi il
momento giusto, l’ispirazione nella fase di reset: e se non arrivasse mai?»
Di per sé il momento giusto non arriva mai, né per artisti o scienziati o
filosofi e nemmeno per il tuo de-siderare: così la penso io. Il momento
giusto arriva quando tu cominci a farlo arrivare, e prima ci provi e meglio è.
Avvicinati al vuoto che, dentro di te, incomincia non appena ti affacci fuori
dal tuo groviglio: e salta in quel vuoto.
«Non ne sono capace».
Finché non lo fai, no.
«Perché fingi di ignorare che, se lo facessi, avrei contro la stragrande
maggioranza delle persone che ho conosciuto finora, e anche delle persone
di cui ho sentito parlare finora, o che mi immagino siano esistite finora su
questo pianeta? Perché fingi di non sapere che fuori dal mio groviglio io
non so qual è il mio scopo? Non so se sono la persona giusta. Non so chi
vorrei essere. So solo che non ho fatto quello che avrei dovuto per essere
migliore di quello che sono: ma non so che cosa avrei dovuto fare. Ci
vorrebbe un altro al posto mio. Uno che stia fuori non soltanto dal mio
groviglio, ma da questo gioco altrui che è sempre stata la vita nel mondo.
Tu invece continui a parlarmi come se tutto questo non esistesse, e fingi di
non accorgerti di quanto mi fai male».
Senti senti.
«Già. Senti senti».
Insomma, ti senti ancora la vittima di una tirannia democratica grande
come il mondo intero, che ha sfigurato la tua personalità. Non hai ancora
trasformato questa sensazione in un pro-blema.
«Forse sono stato creato così e basta. Uno sciocco che fa lo sciocco dà
gloria a Dio che l’ha fatto nascere sciocco, no? Si vede che anche gli
sciocchi servono, nell’economia dell’universo».
Se invece di voler aver ragione provassi a vederla diversamente, ti
accorgeresti del tuo strano paradosso: in realtà, sei talmente libero da poter
immaginare il mondo intero come ti fa comodo, e non c’è dubbio che il tuo
pessimismo ti stia facendo comodo, dato che ti ha permesso di non fare
nulla di diverso da quello che hai sempre fatto finora. Sei talmente libero da
dichiararti vittima e schiavo. Tanto vale che tu sia libero anche di cambiare
parere.
«Ci sto pensando. Sì, posso aver esagerato, a pensarla così. Ma c’è
un’obiezione forte, del cui realismo sono ben sicuro. Io vivo in una società
in cui agiscono leggi economiche ben precise, dure, e non modificabili,
proprio come le leggi naturali. Queste leggi limitano la libertà di tutti, e
limiteranno per forza anche la formulazione dei miei desideri. A me può
piacere l’idea di diventare molto ricco, perché è meglio essere un ricco che
un povero diavolo, ma per diventare e rimanere ricco dovrei fare i conti con
le possibilità di arricchirmi che la società mi offre. Dovrei fare un lavoro
utile alla società, impiegare il denaro nei modi previsti dall’economia,
ragionare come ragiona un ricco: e così non soltanto la mia condizione, ma
anche l’idea che avrò di me, il mio senso di giustizia, la mia morale, i miei
pensieri, le mie opinioni saranno quelli di un ricco, cioè di una rotella degli
ingranaggi del sistema economico della società. E a me questo non va.
Adesso che non sono ricco, posso permettermi di pensare a modo mio,
perché so che di quel che penso non importa niente alla società. E quindi
penso che restare come sono ora sia meglio, eticamente meglio. Almeno
posso dire che io non c’entro con questa società sbagliata, produttrice di
sofferenze, veleni e inganni. Ho torto anche in questo?»
Neanche a me piace questa società, come sai. Sono dell’idea che la nostra
società – come tante altre in passato – obbedisca a leggi fatte da persone
deboli, che vogliono continuare a essere deboli e imporre a tutti di essere
deboli come loro. Ma non penso che queste leggi siano immutabili. Tu sai
come cambiano le grandi situazioni collettive che chiamiamo società?
«Non cambiano mai davvero, a quel che ne so».
Cambiano quando cambia la loro economia. Se i sistemi di produzione si
evolvono, anche il sistema sociale si evolve: dopodiché si evolve il sistema
politico, e tutta quanta la società è trasformata. Applica questo a te stesso.
«Cioè?»
Il principale mezzo di produzione, in qualsiasi sistema economico, è
l’individuo. Oggi, a causa e nonostante svariati cambiamenti avvenuti nel
secolo scorso, gli individui vendono se stessi non per vivere, come facevano
una volta, ma perché così fanno tutti. Tanto i poveri che i ricchi vendono se
stessi, rinunciando a pensare e a sentire autonomamente, e adattandosi al
mondo così com’è. Cambia il sistema.
«Io, cambiare il sistema!»
Cambia il sistema produttivo, cambiando te: includendo tra i tuoi mezzi di
produzione i de-sideri. Puoi farlo anche se non sei ricco: i de-sideri sono
gratis. Finora si è sempre ritenuto che i de-sideri, come ogni altro talento
creativo, potessero svilupparsi liberamente soltanto al di sopra di quel
“regno della necessità” – come lo chiamava Marx – in cui le leggi della
produzione e del consumo determinano tutto. In base a queste leggi, devi
lavorare un po’ di ore giornaliere nel regno della necessità, e poi sei libero
di andartene a casa tua a sviluppare le tue belle capacità individuali:
artistiche, atletiche, filosofiche – oppure l’immaginazione, con cui de-
siderare qualcosa. Capovolgi questa situazione. Adopera i de-sideri nel
“regno della necessità”: si tratta soltanto di desiderare cose, apparenze –
come ti ho spiegato. E comincerai a cambiare quella società che, così com’è
ora, tu e io detestiamo.
«Ah».
E per riuscirci bene, metti te stesso al posto della società. Invece di
adattarti alle sue esigenze, studia le esigenze tue, determinate soltanto da
ciò che ti piace e da ciò che non ti piace. Secondo me, nella Genesi, Dio
intende proprio questo, quando dice ad Abramo: «Io ti farò essere come un
grande popolo» (Genesi 12,2). Tanti hanno pensato che stesse promettendo
ad Abramo una discendenza talmente numerosa da costituire un popolo, una
razza: può darsi; in altri passi della Genesi sembra che Dio dica proprio
così. Ma se così fosse, mi spiacerebbe un bel po’: un Dio che si dà da fare
solo per formare un popolo in più, quando ce ne sono già tanti! Che peccato
– penserei, – era partito così bene nei Giorni della Creazione! Preferisco
pensare che intendesse: «Ti insegnerò a pensare da uomo libero, che non si
lascia determinare da nessun gruppo umano, ma quando sente parlare di
popoli e Paesi e Stati, ritiene di avere gli stessi diritti che secondo la
maggioranza della gente apparterrebbero solo ai popoli, ai Paesi, agli Stati».
E il testo ebraico di Genesi 12,2 può essere interpretato così, alla lettera: te
lo garantisco, sul mio onore di filologo.
«Sì, va bene. Anche se non capisco perché ti impunti a citare libri di
tremila anni fa. Perché non dici tranquillamente quello che pensi, lasciando
perdere l’ebraico?»
È vero, hai ragione. Ma perdonamela, come deformazione professionale.
«Resta comunque il fatto che, perché i miei de-sideri agiscano nel regno
della necessità, bisogna che si realizzino».
Certamente. Ed è l’ultimo argomento di cui discuteremo in questo libro.
«Magia?»
No, solo filosofia.
4
Guardando un mendicante che conta le monete, davanti alla chiesa.
5
Guardando una pubblicità quasi osée, di biancheria intima.
6
Guardando due adolescenti che si baciano appasionatamente.
7
Vedendo, in un’edicola, le prime pagine dei giornali con le notizie della guerra in Siria.
LA REALIZZAZIONE DEI DE-SIDERI
Immaginiamo che tu abbia già finito di leggere questo libro, anzi, che
siano passate già alcune settimane da quando l’hai richiuso e messo su uno
scaffale, e che tu abbia già cominciato a formulare i tuoi de-sideri.
Cos’è cambiato, da quando li formuli? Non hai più paura né di scoprire te
stesso, né di cambiare il sistema del mondo, né di cambiare mondo. Hai
cominciato a sentirti come un popolo, e a rifondare il tuo rapporto con il
“regno della necessità”. Attendi i momenti di reset: hai imparato non solo a
riconoscerli ma anche a farli durare per il tempo necessario a precisare i de-
sideri che in quei momenti riesci a scoprire.
«Pensi che sarà veramente così?»
Fingiamo che lo sia già.
Immagino che tu – sempre tra qualche settimana – stia compilando un
elenco dei tuoi de-sideri, così come si tengono diari dei sogni, o come uno
scrittore si annota su un taccuino le idee migliori che gli capitano durante la
giornata. Tu scrivi i tuoi de-sideri in un file, oppure in un quaderno che
giorno dopo giorno si sta riempiendo soprattutto di cancellature: le frasi
cancellate sono gli errori che hai imparato a non temere. Serie di due, tre,
cinque, a volte sei o sette cancellature conducono finalmente a un de-
siderio, che per ora ti piace, e che magari la settimana prossima sarà stato a
sua volta cancellato per lasciare il posto a un de-siderio migliore. Proprio
per questa ragione io preferirei il quaderno: nei file, ciò che viene cancellato
sparisce; ogni pagina del quaderno ti mostra, invece, quanti ripensamenti,
quante scoperte, quanto impegno ti ci sono voluti per poter definire le
apparenze che de-sideri, liberandoti dalle inerenze.
A quell’impegno hai preso gusto, il che ti ha insegnato a distinguere tra lo
sforzo di volontà e il de-siderio. Hai scoperto infatti che lo sforzo di volontà
è faticoso e triste, mentre un de-siderio è un’intuizione immediata,
divertente, gioiosa. Sul tuo quaderno sono annotati soltanto de-sideri, e non
chissà quali sforzi.
Hai abbandonato la colonna di sinistra e vivi sempre più nella colonna di
destra. Stai anche superando, ogni giorno di più, la barriera tra ciò che
finora hai fatto esistere nella tua vita, e ciò che non hai ancora fatto esistere.
Ti trovi più di là che di qua: ovvero, tutte le volte che ti domandi “Ma io chi
sono?”, i tuoi tentativi di risposta somigliano, più che a ogni altra cosa, a un
mare che ti si apre davanti, e al quale non ti saresti sentito pronto, qualche
settimana fa.
I tuoi de-sideri sono direzioni in quel mare. Quante sono? Già una ventina,
forse. Quante saranno alla fine? In The Aladdin Factor, Canfield e Hansen
ne consigliano 101: negli Stati Uniti, è uso chiamare “101” ogni corso base
all’università. Quindi “101” sta per “propedeutico”. I tuoi 101 de-sideri
sarebbero la tua preparazione alla tua nuova esistenza e al mondo nuovo.
Ma la stanza 101 è anche quella in cui abita il protagonista di Matrix, che
all’inizio del film si chiama Neo e alla fine diverrà the One – nella versione
italiana, l’“Eletto”. In realtà Neo era sempre stato the One, ma per qualche
tempo aveva frainteso se stesso: così, il numero 101 simboleggia il processo
della sua riscoperta di sé: era da sempre the One, per un po’ è stato uno
zero, poi è ridiventato the One. Ma anche a Disney era piaciuto quel
numero, e prima di lui all’autrice del romanzo The One Hundred and One
Dalmatians, Dodie Smith. Sia nel romanzo sia nel film (che in Italia fu
intitolato La carica dei 101), i saggi cani dalmata rappresentano, come forse
avrai notato, gli agenti d’una Provvidenza: guidano le decisioni dei loro
ottusi e amati padroni e, soprattutto, destano in loro l’emozione, l’affetto, il
coraggio di cercare nuove possibilità. Anche i tuoi de-sideri lo stanno
facendo, in te. 101, dunque, è buon numero. Ma i tuoi de-sideri potrebbero
anche essere 150: perché no? O quanti ne de-sideri. Saranno comunque
tanti quanti i momenti geniali – così semplici! – in cui, cogliendo i tuoi de-
sideri, tu ti sei accorto di essere più di te.
E continuando a immaginare come sarai tra qualche settimana,
chiediamoci: ti capita, ogni tanto, di ricordarti com’eri prima di cominciare
il tuo quaderno dei desideri?
Forse no, sei troppo preso dall’esplorare il futuro. Ma non sarebbe male
gettare qualche occhiata al tuo passato recente, eppure già lontano. Al modo
in cui prima ti rassegnavi. Ai limiti che ponevi alla tua intelligenza, alla tua
curiosità. Al modo in cui ti lasciavi trattare da tanti, perché pensavi che così
devono andare le cose nel mondo. Stai costruendo una tua personalità
nuova, e un mondo nuovo per questa personalità, e torna utile, voltandosi
indietro, sapere che cosa è bene non fare mai più.
Intorno a te, intanto, mentre il mondo che prima conoscevi ti sembra una
rete di fatti sempre più soffocante, le apparenze stanno moltiplicandosi
meravigliosamente. Era da quando avevi tre anni, che le cose non ti
apparivano tanto numerose e tanto interessanti. Solo qualche settimana fa ti
sembrava che non ci fosse nulla di nuovo, lì dove vivi. Adesso invece,
capita di continuo che vedendo, poniamo, un albero, tu ti domandi: “Mi
piacerebbe avere un albero così, nel giardino che de-sidero?” Oppure,
scorgendo la bella balaustra di un balcone mai notata prima, benchè fosse a
pochi passi da casa tua: “Mi piacerebbe un balcone così? Potrei de-
siderarlo?” La risposta può essere sì o no, ma in ogni caso quell’albero e
quel balcone acquistano per te una realtà che prima avevi percepito soltanto
in oggetti che ti sembravano eccezionali. Ed è perché li hai visti in quanto
cose della realtà, e non in quanto fatti del tuo mondo.
Adesso che il tuo criterio è diventato il “mi piace? non mi piace?”, a tutto,
ovunque arrivi il tuo sguardo, tu dai la chance di diventare un tuo scopo.
Questo significa che la tua capacità di produrre scopi e possibilità, cioè di
produrre futuro, sta sovrastando tutte le altre facoltà della tua psiche. Tra
non molto ti accorgerai che in ogni decisione della tua vita, anche le più
insignificanti, là dove prima disponevi di due o tre alternative, ne avrai a
decine. E il tuo “mi piace? non mi piace?” sarà la guida più sicura, per
scegliere la migliore. Ben presto, il tuo futuro sarà per te molto più grande
del presente e del passato, e comincerai a sentirti un creatore.
«Di un mio mondo nuovo».
Sì. Questa condizione di vastità durerà quanto vuoi, o anche di più – dato
che quando il nostro campo visivo si amplia, avviene raramente che si lasci
ridurre. E constaterai, altresì, come cambierà l’atteggiamento delle persone
nei tuoi riguardi: nel mondo di prima, il “mi piace? non mi piace?” non
contava (perché? era una domanda troppo vera? troppo importante per te?)
e di conseguenza ti trattavi maluccio, quasi sempre senza accorgertene, e,
sempre senza accorgertene, insegnavi a tutti a trattarti come tu trattavi te.
Adesso quel periodo della tua vita è passato.
Ma intanto è successo anche qualcos’altro: alcuni dei tuoi de-sideri si sono
già avverati. Quel che più ti ha sorpreso, che alcuni di questi de-sideri
diventati realtà erano decisamente assurdi: ti erano venuti in mente così
d’un tratto, e ti erano sembrati soltanto scherzosi. “Me li annoto” ti eri detto
“ma solo per scrupolo: è chiaro che cose del genere non avvengono”. E
invece.
A me – tutti i miei amici lo sanno – si avverò per primo il de-siderio di
un’auto uscita di produzione più di vent’anni prima: una Rover 2000 TC del
’74. Verde scuro. Ne avevo vista passare una, mentre ero fermo al semaforo
poco lontano casa, e mi erano piaciute la ruota di scorta sul bagagliaio, le
minuscole alette sopra i fari anteriori e l’aria d’antiquariato. Ne presi nota
sul quaderno, e due settimane dopo un collezionista incontrato per caso mi
aveva venduto quel modello di Rover. Verde scuro.
«E io non posso chiedere una Rolls?»
Io non avevo chiesto una Rover. Avevo chiesto quella Rover.
«Anch’io ne ho viste passare per strada, di Rolls-Royce!»
Io non avevo chiesto un’auto che milioni di altre persone chiederebbero
perché sono state condizionate a credere che la marca di quell’auto è
prestigiosa. Avevo chiesto un’apparenza che mi era capitata tutt’a un tratto
davanti, e di cui mi ero innamorato: ed era altresì un’auto di cui nessuna
persona ragionevole avrebbe voluto essere proprietario: antiquata, in fondo
ridicola, non particolarmente comoda e – come scoprii in seguito – celebre
ai suoi tempi per la tenuta di strada pericolosamente scarsa. Ma a me
piaceva. E probabilmente anch’io le piacqui, perché viaggiai in quell’auto
per otto anni, e per centomila chilometri, senza grossi guasti – fino a che
non le si ruppero contemporaneamente il cambio e la frizione, che erano
troppo costosi da riparare.
«E perché i de-sideri assurdi sarebbero quelli che si realizzano per primi?»
Io penso che sia per la stessa ragione per cui i de-sideri ben formulati si
realizzano sempre.
A me non piacciono le spiegazioni che richiedano all’ascoltatore una sia
pur minima quantità di fede, nel senso religioso o para-religioso del
termine. Mi piace la filosofia, cioè l’impresa di capire e conoscere; e la fede
religiosa o para-religiosa è l’esatto contrario.
Credere significa, nel migliore dei casi, fidarsi di qualcuno che ha capito
ma che non dice chiaramente che cosa ha capito; nei casi peggiori, i più
frequenti, significa doversi fidare di qualcuno che si è fidato di qualcun
altro che si è fidato di qualcun altro e così via in lunga successione, fino al
grado estremo della serie, che si ebbe quando alcuni si fidarono di uno a cui
era stato rivelato un mistero che a lui o a loro sembrava inspiegabile, e che
con il passare del tempo è diventato molto diverso da quel che era all’inizio.
Dunque far credere non è spiegare, e credere non è capire, né conoscere: è
un atto molto più comodo e, generalmente, molto più aggressivo – dato che
quelli che hanno fede ne sono orgogliosi, e sopportano male chi non
condivide la loro fede.
«Già. Questo ho sempre detestato, nelle religioni, nelle ideologie. Ma va
be’…»
Chi invece prova a capire, spiegarsi e spiegare qualcosa è solitamente un
individuo pacifico, che ci guadagna ad ascoltare i pareri altrui – perché
possono aiutarlo a capire e a spiegare meglio il quesito che gli interessa. Per
tutti questi motivi, ciò che sto de-siderando ora non è un modo più o meno
soddisfacente di credere, bensì una teoria esauriente sul curioso fenomeno
della realizzazione dei de-sideri ben formulati.
Un ostacolo a tale teoria è, per molti, il fatto che il realizzarsi dei de-sideri
passi per essere un fenomeno prodigioso, che non capita quasi mai, e che
quindi non meriti l’attenzione di chi costruisce teorie. Sappiamo perché: le
teorie, in Occidente, sono prodotte dalla Ragione, e le cose razionalizzabili
sono quelle su cui concorda la maggioranza dei nostri connazionali –
quelle, cioè, con cui la maggioranza dei nostri connazionali ha a che fare
abbastanza spesso da poterci riflettere – oppure cose inconsuete che non
contrastino con le cose consuete: per esempio, con lo svolgere una
professione attestata nei dizionari, con il nutrirsi in modo civile, con il
dormire quanto basta, con l’evitare scandali, con il rispettare il più possibile
la pubblica opinione. Capisco che i nostri comportamenti tengano conto di
tutto ciò, ma non si vede perché il nostro desiderio di conoscenza debba
coordinarsi a una Ragione ancorata a queste esigenze.
Fortunatamente, oltre alla Ragione, che ignora i fenomeni eccezionali, e
alla fede religiosa o para-religiosa, che non arriva a spiegarli, c’è anche
un’altra prospettiva: quella che troviamo nelle Scritture, le quali si
occupano quasi soltanto di fenomeni eccezionali, e soprattutto di
realizzazioni di de-sideri. Tale prospettiva, nonostante la sua antichità, oggi
è nuova, poiché si basa su idee di cui la maggior parte della gente non ha
mai sentito parlare. Prima fra tutte, un’idea di “fede” che non ha a che fare
con ciò che gli occidentali intendono con questo termine.
Se uno dicesse a questo monte: «Smuoviti di lì e gettati in mare!» e
non esitasse in cuor suo, ma avesse fede che quel che dice avvenga, gli
avverrà. Perciò vi dico: tutto quello che chiedete nella preghiera,
abbiate fede di averlo già ottenuto, e vi avverrà.
Marco 11,23-24
Oggi questo discorso viene inteso per lo più come l’esortazione a uno
sforzo di volontà.
Chi prova a pensarci, cioè, tende a inserirvi automaticamente un “devo”:
per esempio: “se chiedo a Dio che faccia in modo che io abbia una Rolls,
devo credere che la avrò, e mi sarà data”. Il motivo di questo automatismo è
che, nel linguaggio religioso, si dicono fedeli o credenti le persone che
devono credere a quello che i loro sacerdoti dicono – e ogni fedele sa bene
fin dall’infanzia che questo dover credere richiede uno sforzo. Ma il
linguaggio dei Vangeli non è quello dell’attuale religione cristiana, così
come, del resto, il linguaggio dei profeti biblici non è quello dell’attuale
ebraismo. Constatalo da te: in questo passo del Vangelo di Marco il “dover
credere” non c’è, e non è nemmeno implicito: l’esempio del monte spostato
viene invece a dipendere soltanto dal “se” iniziale. Il senso è: quello che
chiedi avverrà, se sei capace di chiedere senza esitare – cioè senza sforzarti
affatto di credere. Se no, no. Ovvero: tra i desideri che ti accorgi di avere –
dice qui Gesù – ce ne saranno alcuni che non ti convincono, e altri talmente
convincenti da non suscitarti alcuna esitazione; e solo questi ultimi si
realizzeranno. Dunque sta’ alla larga dai desideri del primo tipo, perché non
portano da nessuna parte.
«I de-sideri del secondo tipo corrispondono a quelli che noi chiamiamo
de-sideri ben formulati?»
Sì. E la portata di queste idee di Gesù ti apparirà tanto più grande se
consideri altri due elementi di quel passo del Vangelo di Marco.
Innanzitutto, il fatto che nella prima frase del passo non si parla di un
chiedere a Dio: viene soltanto proposto il caso di un uomo che dà un ordine
a una montagna – cioè formula quello che noi chiamiamo un de-siderio che
va al di là dei fatti del mondo, dato che far spostare le montagne con una
frase non rientra tra le cose ritenute possibili nel mondo. Nota bene: un
uomo. Quest’uomo potrebbe essere un romano, o un greco – cioè un ateo,
agli occhi degli ebrei d’allora – ma, stando a quel che Gesù dice, l’esempio
varrebbe comunque: è sufficiente credere senza esitare, perché qualsiasi
richiesta di qualsiasi individuo si realizzi, anche se si trattasse di una
richiesta del tutto insensata.
Dopodiché, venendo a parlare della preghiera, Gesù aggiunge che proprio
allo stesso modo, anche quando si esprime un de-siderio rivolgendosi a Dio,
il desiderio si avvererà se nell’esprimerlo non si esita a credere che avverrà.
Cioè: per spiegare l’efficacia delle preghiere, qui Gesù non rimanda a
qualcosa di imperscrutabile, a un qualche - - : non se la cava
dicendo: «Dio può tutto e ti darà tutto ciò che gli chiedi, a meno che non
decida diversamente» (che è più o meno ciò che dissero poi tutti i teologi
cristiani). La teoria di Gesù è bensì che la condizione di efficacia dei de-
sideri formulati durante le preghiere è la stessa dei de-sideri formulati al di
fuori delle preghiere: solo se uno «non esita in cuor suo» il suo de-siderio
può realizzarsi, con o senza intervento divino.
«In pratica, tra Dio e la montagna non c’è differenza? Se chiedo con fede
la montagna si sposta, e se chiedo con fede Dio mi dà quel che chiedo?»
Sì.
«E magari farebbero spostare anche Dio? In pratica sì, se gli chiedo quello
che immagino e Dio acconsente alle mie richieste».
O forse, attraverso la tua immaginazione e il tuo de-siderare si esprime
non soltanto la tua pienezza extra-mundana, ma anche quello che gli antichi
chiamavano Dio. Così Dio si sposterebbe da sé, con la tua cooperazione.
«Non posso fare a meno di sorridere, a quest’idea».
Capisco. In ogni caso, come vedi, quel passo dei Vangeli è una teoria
filosofica della realizzabilità dei de-sideri, e non un’esortazione
esclusivamente religiosa. Quando me ne sono accorto ne sono rimasto
molto sorpreso: Gesù amava il desiderio di conoscenza più di quanto i
teologi e i credenti in genere amino le idee di Gesù.
«Ah! Non c’era motivo di sorprendersene, nel mondo!»
Sì, ma allora ero molto giovane.
«Comunque, che cosa si intende qui, precisamente, con la parola “fede”?»
Non è chiaro dal testo? Quella che i Vangeli chiamano “fede” è
immaginazione, nel senso più alto del termine. Non invenzione, non
fantasia, non un banale figurarsi qualcosa: l’immaginazione è l’unica
facoltà conoscitiva su cui puoi contare, quando ti spingi al di là del mondo
che già esiste per te. Se non potessi immaginare, fuori dal mondo ti
perderesti. Ti è mai capitato, nel momento del risveglio, di domandarti
“Dove sono? Che ore sono?”, prima che si riallacciassero le fila del sistema
di fatti di cui consiste il tuo mondo? Ecco, lì la tua immaginazione cessava
di agire, perché non serve a molto, nel mondo in cui stavi tornando: ma non
eri ancora rientrato nel mondo consueto, e ti sei sentito sperso perché
l’immaginazione non ti guidava più, là fuori. Qualcosa di simile succede
quando hai l’impressione di non de-siderare nulla: ti affacci per un attimo
fuori dal mondo, ma non abbastanza; la tua immaginazione non si attiva,
perché sei ancora al di qua dei confini del mondo; e tu hai paura di
superarli, perché là fuori ti sentiresti senza guida.
«È la questione del futuro vuoto! Quindi la gente oggi soffre di una
carenza di immaginazione, nel senso più alto del termine, e perciò non va
oltre il presente? Se no, immaginerebbero montagne che si spostano?»
E tante altre cose.
«Ma probabilmente quello che dici non ha senso. Io posso immaginare
tutto quello che voglio, ma non ne deriva che tutto ciò che immagino
cominci a esistere».
No, tu non puoi immaginare tutto quello che vuoi.
Puoi pensare tutto quello che vuoi, anche quello che sai essere falso: puoi
pensarlo, perché puoi mentire a te stesso. Allo stesso modo puoi dire tutto
quello che vuoi, anche cose che non pensi: perché puoi mentire ad altri. Ma
non puoi immaginare tutto quello che vuoi, così come guardandoti intorno
non puoi percepire qualcosa che non stai percependo.
Se potessimo immaginare qualsiasi cosa, qualunque pittore avrebbe potuto
immaginare la Vergine delle rocce, e qualunque scrittore la trama di Guerra
e pace: invece ci riuscirono soltanto Leonardo e Tolstòj.
«Perché ci riuscirono, oltre naturalmente al fatto che non li avevo
molestati abbastanza?»
Secondo me, perché si spinsero più di tanti altri, al di là del mondo già
esistente, e perché là dove arrivarono c’era qualcosa che poi espressero
nella Vergine delle rocce e in Guerra e pace: lo percepirono attraverso
l’immaginazione, e comunicarono al mondo ciò che avevano percepito.
«Immaginare è percepire in una modalità diversa dalla percezione
sensoriale: questo intendi dire? Un vedere ciò che gli occhi non vedono?»
Non solo un vedere. Immaginazione non è soltanto visualizzazione. I
compositori non visualizzano le melodie che immaginano. Io posso
immaginare di provare una grande gioia per una mia scoperta, e non
sarebbe affatto necessario che visualizzassi la mia faccia sorridente.
«Quindi l’immaginazione è una specie di sistema di sensori intellettuali, e
visivi, e uditivi, e magari anche olfattivi e tattili e gustativi, che adoperiamo
come un radar al di là del mondo?»
Penso proprio di sì. E la intralciano tutte le potenze del mondo: le varie
pressioni selettive, la rabbia, il rimorso, il rimpianto, il rancore...
«Ecco perché nei Vangeli si legge che chi è stato tolto dal mondo può
chiedere qualsiasi cosa!»
Sì, il che ci impone di non dare importanza, nel de-siderare, né alla
cognizione di causa, né alla coscienza, né a ciò che dei nostri pensieri,
ricordi e sentimenti può essere condiviso, confessato, confidato,
comunicato, compreso. Nell’inizio di tutte queste parole c’è un “con”, che
nella nostra civiltà finisce per significare: con il “prossimo”. Per essere
libero di immaginare, devi accorgerti di essere molto di più di quel che sei
quando ti adatti a ciò che sai del tuo prossimo, e a ciò che il tuo prossimo
arriva a sapere di te.
«Ed è questo ciò che nei Vangeli è chiamato il non esitare?»
Sì. Non esitare: cioè sii rapido. E addirittura: non essere consapevole di te,
mentre immagini, perché altrimenti la tua attenzione si fisserà su te stesso
che immagini, invece che su quel che la tua immaginazione sta cogliendo.
Poi, quel che sei riuscito a immaginare in quei pochi istanti, dovrai
trattenerlo nella memoria, prima che svanisca: ovvero ti toccherà
descriverlo, fissarlo in una definizione. Per descriverlo, ti toccherà usare le
parole del mondo: cioè attingere a ciò che conosci e ricordi, cercandovi
equivalenti, più o meno simbolici, di ciò che la tua immaginazione ha colto.
Puoi riuscirci, puoi non riuscirci. Tu con il tuo presunto de-siderio della
Rolls-Royce non ci eri riuscito. Io, con la Rover verde scuro, ci ero riuscito,
e in altri casi no.
«Quindi, più cose conosco e ricordo, e più probabilità ho di riuscire a
definire i miei de-sideri prima che spariscano?»
Di conoscenze e ricordi ne abbiamo tutti moltissimi: qualsiasi sguardo che
gettiamo intorno intercetta milioni di cose, e la nostra memoria le archivia
tutte, anche quando non ce ne accorgiamo. Il problema è il richiamare dalla
nostra vastissima memoria quelle cose che servirebbero a definire con
precisione un tuo de-siderio, in tutta la sua meraviglia e bellezza.
Noi, infatti, ricordiamo solo ciò che ci sembra importante, e siamo stati
addestrati fin da bambini a considerare importanti pochissime delle cose
che via via conosciamo: soltanto quelle che venivano ritenute importanti da
altri – di solito dalla maggioranza degli altri, e dalle autorità a cui abbiamo
dovuto imparare a obbedire. Siamo tra l’altro molto abili nel ricordare le
cose che ci dispiacciono, o che ci annoiano, o che ci intralciano, perché
siamo stati abituati all’idea che nel mondo sia più importante vedere gli
svantaggi e i pericoli, così da potercene proteggere, invece di vedere le
possibilità belle, così da poterle perseguire. Tutto ciò limita la nostra
capacità di definire i nostri de-sideri. E questa, secondo me, è la ragione per
cui nel tuo mondo capitano soltanto alcune cose e non altre: se ciò che
chiedi senza esitare si avvera, possiamo supporre che tu stia continuamente
chiedendo senza esitare soltanto le cose che importano al “tuo prossimo” o
che ti dispiacciono – perché solo di quelle ti ricordi, e solo quelle adoperi
per definire i tuoi de-sideri – e solo quelle ti avvengono.
«Cioè, tanti di noi chiederebbero con fede cose svantaggiose per loro,
senza accorgersene? E, siccome le hanno chieste senza esitare, quelle cose
avverrebbero?»
Ti sembra così improbabile? Guardando come va il mondo, mi sembra
probabilissimo.
E adesso, se non hai altri dubbi, possiamo affrontare il problema
apparentemente più grande: come e perché i desideri si realizzino.
«Perché apparentemente più grande? È il problema più grande».
No, come vedrai. Il problema maggiore l’abbiamo già affrontato, ed era
come non esitare immaginando e ricordando quel che immagini. Il resto
viene da sé.
«Il resto avviene da sé? Siamo noi stessi a far avvenire le cose che
chiediamo? Nel senso che siamo stati noi a strutturare i fatti che
costituiscono il nostro mondo, a selezionare il nostro “prossimo”, cioè gli
altri con cui abbiamo a che fare, e quindi possiamo chiedere – con fede
immaginante e senza esitare – le cose che appunto questi altri, selezionati
da noi, ci faranno capitare?»
Più o meno.
«E se cominciamo a selezionare diversamente i fatti del mondo e il nostro
“prossimo”, possiamo porre e vedere realizzati altri de-sideri?»
Sì, ma questo spiega solo alcune delle cose che possono capitarti quando
de-sideri. D’accordo, i tuoi successi e i tuoi insuccessi li hai avuti perché li
hai voluti tu, e li hai voluti perché li hai programmati anche con decenni di
anticipo, allo scopo di mantenerti in una certa direzione. Ma se chiedessi
con fede immaginante di incontrare una persona che né tu né nessuno dei
tuoi altri conosce, o di avere una Rover 2000 TC verde scuro, o di riuscire a
far spostare una montagna, e questi de-sideri si avverassero, come lo
potremmo spiegare?
«Già».
Ti illustro la mia ipotesi.
Sai cos’è lo Tzimtzum? È un’idea dei qabbalisti del XIV secolo: in ebraico,
tzimtzem

(tsade - mem - tsade - mem) significa “contrarsi” e tzimtzum,

tsade - mem - tsade - vav - mem


è la “contrazione” che il Dio creatore avrebbe compiuto in se stesso per
cominciare a creare l’universo. Prima della creazione, Dio, essendo infinito,
era tutto. Essendo lui tutto, non c’era spazio perché ci fosse qualcos’altro:
così Dio, prima di creare, aprì nel proprio infinito un’area di nulla, e in quel
nulla poté far esistere l’universo, che non era Dio.
«Avevamo detto che bisognava evitare spiegazioni basate sulla fede
religiosa».
Infatti qui non ci interessa l’argomento religioso, cioè Dio e il suo creare,
ma solo questa splendida idea del fare il vuoto. Non è quello che facciamo
anche noi, ogni volta che facciamo esistere qualcosa che prima non c’era?
De-siderare è, per prima cosa, produrre un vuoto nel pieno del mondo già
esistente: chi osa de-siderare produce dei vuoti nel mondo riconoscendo che
gli mancano alcune cose, cioè che nel suo mondo ci sono dei vuoti, al posto
delle cose che lui de-sidera. E il bello è che quando noi, de-siderando,
apriamo questi vuoti, in realtà stiamo allargando il nostro mondo.
«Come?»
Ora te lo mostro. Questo è il mondo esistente:
Fuori da questo mondo esistente ci sono altre cose, che solo
l’immaginazione può percepire:

La tua immaginazione, quando de-siderando ti spingi oltre il mondo


esistente, coglie una di queste altre cose. E in tal modo estende fino a
quest’altra cosa il mondo che esiste per te: così:

Ma quest’altra cosa non esiste, se non nel tuo immaginarla: nel tuo mondo
quel qualcosa è un vuoto. E allora quel qualcosa comincia a esistere. Un
mondo può sopportare al proprio interno un’area di vuoto. Natura abhorret
a vacuo, come dicevano gli artistotelici: non so se in natura esista il vuoto,
magari c’è in qualche parte nell’universo, ma di certo non esiste nel mondo:
nel nostro mondo fatto di fatti, un’area vuota, una mancanza di qualcosa,
non appena la produci diventa un fatto tra gli altri: in capo a un attimo,
costituirà un fatto del tuo passato, e comincerà a influire su di te. Secondo
te, influirà più o meno di tanti altri fatti passati?
«Non saprei».
Secondo me, influirà di più, per lo stesso motivo per cui, in un discorso,
una frase interrogativa attira la nostra attenzione più di una frase
affermativa. Ogni fatto della tua vita può porti qualche interrogativo, non
appena lo esamini con il tuo pensiero, che cerca sempre il perché di tutto.
Ma il vuoto di un qualcosa che hai de-siderato con la tua immaginazione è
di per sé totalmente interrogativo: è un fatto incompiuto, un processo in
corso, che ti si presenta soltanto sotto forma di domande: perché l’ho
immaginato? cosa ne deriverà? è vero? non è vero? è un’illusione? è una
premonizione? sarà una delusione? cosa esige da me? e così via. La tua
mente cosciente può sforzarsi di dimenticarlo, può anche convincersi di
esserci riuscita, ma ai margini della mente cosciente quel vuoto-
interrogativo continuerà a esercitare un’azione tanto più efficace, proprio
perché inconsapevole e perciò incontrollata.
«Per esempio?»
Hai presente quando hai associato un numero a una circostanza, e poi ti
capita spesso di ritrovarti davanti quel numero? Per esempio, una mia amica
si sentiva addirittura perseguitata dall’11: quando dava un’occhiata
all’orologio, la lancetta dei minuti era sempre sull’11; quando pagava
qualcosa, c’era un 11 nel conto o nel resto, oppure notava che sommando
tra loro le cifre del totale del conto il risultato era 11; se accendeva la radio
o la tv, il primo numero che sentiva pronunciare era per lo più 11; e quando
stavo per darle il mio numero di telefono mi chiese: «C’è un 11, sì?» e
c’era. Poi un giorno si mise d’impegno a capire da dove derivasse questa
sua fissazione dell’11, e quasi subito si ricordò che il suo grande amore
aveva una figlia di undici anni, di cui la mia amica si sforzava di non essere
gelosa. Dunque, secondo te perché le capitavano davanti tutti quegli 11?
«È chiaro: senza che lei se ne accorgesse, il suo sguardo perlustrava di
continuo lo spazio circostante, in cerca di qualche 11. Per forza gliene
capitavano. Se la bambina avesse avuto dodici anni, le sarebbero capitati
altrettanti numeri 12. Il nostro mondo è tutto pieno di numeri, e per farti una
fissazione hai solo l’imbarazzo della scelta».
Certo, quando si ha una fissazione del genere, l’attenzione si polarizza per
sostenerla. Ma l’11 nel mio numero di telefono? E gli 11 alla radio o in tv?
Non pensi che, nelle fissazioni, si attivino anche sensori più sottili?
Secondo me, la mia amica era diventata capace di prevedere quando alla
radio sarebbe stato pronunciato il numero 11, e accendeva la radio proprio
in tempo.
«E ha fatto amicizia con te perché sentiva che nel tuo numero di telefono
c’era un 11?»
Perché no? Come già sappiamo, l’insieme dei fatti che costituiscono un
mondo è di per sé caotico. E i teorici del caos hanno individuato il concetto
di attrattore strano: una struttura che influenza l’evoluzione, appunto, dei
sistemi caotici. Secondo me, nel caso della mia amica il sistema caotico in
questione era costituito sia dal suo modo di dare rilievo ai fatti, sia
dall’insieme dei fatti in cui lei veniva a trovarsi di volta in volta. Un fatto
che la sua fissazione arrivava a produrre era la precognizione di quel che
avrebbe sentito alla radio o in tv. Un altro fatto che lei aveva intuito da
subito era il rapporto tra me e il suo grande amore: anch’io avevo una
famiglia di cui l’amica sarebbe potuta essere gelosa; e l’attrattore strano
costituito da quella sua fissazione aveva fatto in modo che la nostra
amicizia prendesse un aspetto via via più sentimentale, proprio perché nel
mio numero di telefono c’era un 11 – di cui lei aveva una qualche
precognizione già diverso tempo prima che io glielo comunicassi.
«Il che è evidentemente insensato».
Né l’evidenza né la sensatezza sono mai state un valido criterio di verità.
Non ti è mai capitato di pensare tutt’a un tratto a una persona che non
vedevi da tempo, e di incontrarla pochi minuti dopo?
«Be’, sì».
Quando capitano fatti del genere non è onesto liquidarli dicendo che sono
pure coincidenze, e che siccome non sappiamo che cosa siano le
coincidenze non possiamo dedurne nulla. Secondo me, non è affatto vero
quel che affermava Wittgenstein, che «di ciò di cui non si può parlare, si
deve tacere». Non sono disposto a far dipendere il mio desiderio di
conoscenza dalla lingua parlata oggi dal mio “prossimo”. Per ciò di cui
non si può ancora parlare, bisogna usare l’immaginazione. E io immagino
che in noi – nel novanta per cento delle sinapsi che non utilizziamo ancora,
o nel nostro superconscio, o nella nostra pienezza che ci attende in ogni
state nelle sfere del Ramificarsi delle vite – noi possediamo sensori la cui
portata supera notevolmente quella dei nostri cinque sensi. E possiamo
lasciarci guidare da questi sensori, il che avviene ogni volta che lasciamo
agire in noi un nostro de-siderio.
«Quindi i de-sideri agiscono sulla realtà come quella fissazione per l’11?»
Sì, se si dà loro il tempo di agire. Perché un attrattore strano riesca a
influenzare un sistema occorre che perduri a lungo. Perciò in uno dei suoi
discorsi sui de-sideri Gesù precisa che bisogna continuare a chiedere
qualcosa, «senza stancarsi» (Luca 18,1).
«Sì, ma dice anche:
Nel pregare, non usate tante parole, come fanno gli stranieri, che
credono di venir esauditi perché sono verbosi. Non fate come loro,
perché il Padre vostro sa che cosa vi occorre prima ancora che glielo
chiediate.
Matteo 6,7-8.
«Questo non è in contrasto sia con l’insistenza nel chiedere, sia anche con
la possibilità di chiedere qualsiasi cosa? Nel caso dell’uomo che dava ordini
alle alture, la montagna si sarebbe spostata perché Dio sapeva che a
quell’uomo occorreva un prodigio del genere? Se è così, tu sei in
disaccordo con il Vangelo e anche Gesù è in disaccordo con se stesso,
quando dice che nulla è impossibile a chi chiede con fede. Avrebbe dovuto
dire: a chi chiede con fede è possibile tutto ciò che Dio ha deciso di far
accadere».
Mi hai fatto due domande in una. La prima è: perché Gesù dice di essere
concisi quando si precisa che cosa si sta de-siderando? La seconda è:
l’uomo è libero di chiedere qualsiasi cosa oppure Dio lo vincola in qualche
modo? Nessuna delle due c’entra con ciò che stavo dicendo prima, ovvero
che il de-siderio attiva i nostri sensori speciali se gli si dà il tempo di
attivarli.
«Sia pure. Diamogli il tempo. Ma rispondi a quelle due domande».
Dire che Dio sa già quel che un individuo sta per chiedergli è un modo
antico per dire che la nostra immaginazione è un apparato percettivo e non
un’attività puramente fantastica. Dio per gli antichi significava un ignoto
che può essere soltanto immaginato. Bene: l’immaginazione ha una portata
superiore a quella della mente della veglia, e coglie possibilità che
quest’ultima ignora; ma l’immaginazione coglie quelle possibilità perché
quelle possibilità ci sono, da qualche parte fuori dal mondo a noi noto in un
determinato momento. Che c’è di strano o di contraddittorio?
«Quindi Dio, se gli chiedi qualcosa, ti dà quel qualcosa che ha in serbo da
qualche parte; ma se non glielo chiedi che fa, se lo tiene per sé?»
Penso di no. Immagino che se una possibilità che esiste da qualche parte
non ti interessa tanto da spingerti a chiederla, la chiederà e la otterrà
qualcun altro. Il che va benissimo, dato che a te non interessava.
«Va bene. E l’altra domanda, sulla brevità?»
Be’, più sei prolisso nella formulazione, e più è probabile che tu stia
esitando a venire al punto. Vale nei de-sideri come in qualunque altro
discorso.
«E quante parole ci vorrebbero per un de-siderio ben formulato, secondo
te?»
A me una volta era venuto in mente che il numero massimo di parole per
formulare bene un de-siderio fosse quattordici. Lo pensai e mi parve giusto,
non sapevo perché. Cercai di capirlo poi, e la mia ipotesi fu che in italiano
quattordici parole sono, mediamente, quelle che riusciamo a pronunciare
con una sola emissione di fiato. Ma poi mi capitò sott’occhio questo brano
di Borges, in cui si narra di come un sacerdote atzeco prigioniero scoprì una
formula magica:
È una formula di quattordici parole casuali (che sembrano casuali) e
mi basterebbe pronunciarla ad alta voce per essere onnipotente. Mi
basterebbe dirla per abolire questo carcere di pietra, perché il giorno
invada la mia notte, per essere giovane e immortale, perché il giaguaro
laceri Alvarado, per affondare il santo coltello in petti spagnoli, per
ricostruire la piramide e l’impero. Quaranta sillabe; quattordici parole, e
io, Tzinacàn, governerei le terre governate da Moctezuma. Ma so che
mai dirò quelle parole, perché non mi ricordo più di Tzinacàn.
La scrittura del Dio (1949)
«Quattordici parole».
Già.
«I sensori della tua immaginazione ti avevano fatto cogliere quell’idea
borgesiana delle quattordici parole?»
Penso di sì. E forse analoghi sensori avevano fatto cogliere a Borges
quell’idea del sacerdote azteco, di cui nessuno aveva saputo più nulla da
quando era stato incarcerato dagli spagnoli.
«Già. Ma quel sacerdote poi non le pronunciò e non divenne onnipotente».
Era di cattivo umore e voleva godere della propria sconfitta. Decidi tu, se
sei o non sei di cattivo umore e se hai o no qualche tua sconfitta di cui
godere a quel modo.
«E quando pronuncerò il mio de-siderio ben formulato e conciso, poi
dovrò semplicemente aspettare?»
Sì, se ti va. Ma se gli attrattori strani si mettono in azione, il tuo semplice
aspettare non sarà mai un semplice aspettare e basta. I fatti si evolveranno
intorno a te, che tu ti accorga o no di come si staranno evolvendo. Poi a un
certo punto ti accorgerai (non potrai proprio farne a meno) che molto si sta
evolvendo anche dentro di te, e a quel punto saprai come fare per ottenere
quel che avevi cominciato a de-siderare.
«In pratica, ci penserà Dio».
Se tu e io stessimo conversando non oggi ma tremila anni fa in Israele,
converrei anch’io che ci penserebbe Dio: perchè allora Dio era soltanto una
bella idea di tutto ciò che è Ignoto. Ma oggi Dio è una Persona, che i più
tendono a figurarsi come antropomorfa, e credere che ci sia una Persona che
da qualche parte si occupa delle tue faccende è eticamente e
psicologicamente sbagliato, secondo me.
«Allora diciamo che ci penserà l’Ignoto».
C’è un bel passo, riguardo a questo ignoto.
Il regno di Dio è così: come un uomo che abbia gettato la semina nella
terra, e poi, che l’uomo dorma o vegli, di notte come di giorno, i semi
germogliano e crescono, senza che lui sappia come. La terra dà il frutto
di per sé: prima gli steli, poi la spiga e poi nella spiga il grano pieno. E
quando il frutto è pronto, lui subito ci mette la falce, perché è il tempo
della messe.
Marco 4,26-29
Non so bene perché, ma questo brano mi commuove sempre per la sua
potente semplicità.
«Poniamo pure. Ma adesso che siamo arrivati all’ultima pagina sono
preoccupatissimo».
E di cosa?
«Con il futuro vuoto che abbiamo davanti, fare il vuoto per i miei de-sideri
è così semplice… E se un giorno de-siderassi qualcosa di brutto per qualcun
altro, o addirittura per me, in un momento di collera? Se lo de-siderassi
proprio come si deve, e lo formulassi bene, magari in quattordici parole
esatte?»
Nessuno potrebbe impedirtelo. Sarebbe una cosa molto stupida, ma
potrebbe succedere.
«Tutto qui?»
Tutto qui. La tua libertà è la tua libertà.
«È una grossa responsabilità. Sapere di essere io il responsabile di tutto
quello che mi è capitato, che mi sta capitando e che mi capiterà. La
responsabile pressoché onnipotente».
È un senso che tu puoi dare al tuo mondo, e ai mondi che scoprirai.
«Non so. Forse avrei preferito non saperle, tutte queste cose. Forse
sarebbe stato più comodo, per me, pensare come la pensavo prima: che
desiderare fosse soltanto un modo di illudersi di avere un qualche controllo
sulla realtà, una qualche possibilità di agire sul mondo anche quando non ne
abbiamo».
Davvero? Be’, ora le sai, tutte queste cose, per sempre. E stiamo a vedere
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