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STORIA DELLA MATEMATICA

NUMERAZIONE ROMANA

I Romani erano gente pratica, e il sistema da loro escogitato per scrivere i numeri
basta a darcene la dimostrazione. I nostri progenitori non si diedero neanche la pena
di inventare delle cifre, presero alcune lettere dell’alfabeto e attribuirono a ciascuna
un particolare valore.

Es. I – V – X – L – C – D – M

1 – 5 – 10 – 50 – 100 – 500 – 1000

Sette lettere, e poi con la combinazione si potevano scrivere tutti gli altri numeri,
seguendo alcune semplici regole.

1) oltre alle sette lettere dei numeri base i romani usavano sei gruppi base con
cui indicavano numeri particolari.

IV – IX – XL – XC – CD – CM

4 – 9 – 40 – 90 – 400 – 900

In ognuno di questi gruppi la prima lettera s’intende sottratta alla seconda. Non vi
sono altri casi di sottrazione, oltre questi.

2) Scrivendo una cifra o un gruppo base alla destra di una cifra, di uguale o di
maggiore valore, questi si sommano ad essa. Bisogna tener presente però,
alcune particolarità della numerazione romana.
3) Le cifre V – L – D e i gruppi base non si raddoppiano mai; le altre cifre non
si possono scrivere di seguito più di tre volte.

Es. III – IV – VIII – LXXXII – CDVIII - MMMCMVI

3 – 4 – 8 - 82 – 408 – 3906

come possiamo vedere il numero più alto che si può scrivere in cifre è soltanto 3999
cioè MMMCMXCIX.
Per poter proseguire la numerazione, i Romani trovarono un sistema semplicissimo
ponevano una lineetta (-) sopra i numeri, e con questo segno moltiplicavano per 1000 il
loro valore.

Es. II – X – C – M

2000 – 10.000 – 100.000 – 1.000.000

Se poi volevano moltiplicare per 100.000 incorniciavano il numero con il segno Π:

Es. X = 1.000.000 L = 5.000.000 XV = 1.500.000

In questo modo avevano la possibilità di scrivere numeri sempre più alti.

NUMERAZIONE DECIMALE

Nel 1200 un mercante di Pisa che si chiamava Leonardo Pisano, detto anche Fibonacci
perché ‘figlio di Bonaci’, ritornato da un lungo viaggio in Africa e nel Medio Oriente,
scrisse un libro intitolato ‘Liber Abaci’ . In questo libro il Fibonacci esponeva la
matematica che aveva appreso dagli Arabi e dimostrava la convenienza di adottare il
particolare sistema di numerazione usato da quel popolo. Gli Arabi lo avevano appreso
a loro volta dagli Indiani. La grande novità della numerazione era rappresentata dallo
‘zero’, un numero che significa ‘niente’. Questo numero rappresentato dalla cifra ‘0’ è
una delle più grandi invenzioni dell’ingegno umano perché, non solo ha reso possibile la
costruzione di un sistema di numerazione, ma ha anche facilitato enormemente
l’esecuzione delle operazioni aritmetiche.
L’opera di Fibonacci fu un fatto veramente rivoluzionario, ma dovettero trascorrere
altri tre secoli perché la sua conoscenza si diffondesse in tutta l’Europa. La stampa
non era stata ancora inventata e fu soltanto nella seconda metà del XV sec che il
‘Liber Abaci’ e le opere di altri italiani (Luca Paciolo, Paolo dell’Abaco e Scipione dal
Ferro), furono conosciute da tutti e permisero l’adozione della cosiddetta
‘numerazione decimale’, quella ormai in uso presso tutti i popoli civili e che si apprende
alle scuole elementari.
L’ADDIZIONE

Quando gli uomini inventarono i numeri, certamente non immaginavano che la loro
invenzione avrebbe dato origine ad una grande scienza quale è oggi la Matematica.
Ecco, ad esempio un problema che alcuni pastori, nostri antichissimi antenati,
dovettero un bel giorno risolvere: ‘Se qui ci sono 20 pecore e lì ce ne sono altre 30,
quante saranno le pecore se si mettono tutte assieme?’ Oggi si risolve il problema con
l’addizione. Ma gli uomini di allora non conoscevano questa operazione e dopo aver
messo insieme le pecore, le ricontavano.
Un primo passo per semplificare le cose fu compiuto incidendo su un bastone una tacca
per ogni pecora, dopo di che si contavano le tacche e si risparmiava il lavoro di
ricontare le pecore. Un altro passo consisté nel porre delle pietruzze dentro un
recipiente. Il contabile poneva le pietruzze nel recipiente a secondo del numero delle
pecore di ogni gruppo e le contava. Così si faceva strada l’idea di somma, cioè di un
numero che esprime l’insieme delle unità di gruppi diversi.
I romani chiamavano Addictio l’operazione di aggiungere alle unità di un gruppo già
contate, quelle, pure contate, di uno o più altri gruppi; e per risparmiare la fatica di
ricontare tutte le unità riunite nel nuovo gruppo (che chiamavano summa) si servivano
di uno strumento chiamato abacus.
Un simile venne usato, più o meno modificato anche dalla maggior parte dei popoli
antichi: l’abacus era una tavoletta in legno e di argilla, suddivisa da scanalature
parallele: una per le unità semplici, un’altra per le decine, la terza per le centinaia, ecc.
Nelle scanalature si ponevano dei sassolini, detti dai romani calculi (da cui la parola
‘calcolo’ per indicare qualsiasi procedimento operativo).
Facciamo un esempio, prendendo sempre come soggetto le pecorelle: uno dei gruppi da
addizionare ne comprendeva 1243, si ponevano allora un sassolino nella scanalatura
delle migliaia, due sassolini in quella delle centinaia, ecc… l’altro gruppo da addizionare
era composto di 1232 pecore e si ripeteva la stessa operazione. Alla fine si aveva
questo risultato: nella scanalatura delle migliaia i sassolini erano 2, in quelle delle
centinaia erano 4, in quella delle decine erano 7 e in quella delle unità erano 5. In tutto
quindi, MMCDLXXV (2475) pecore. Se poi in un determinato ordine i sassolini
superavano la decina, si toglievano 10 sassolini da quell’ordine e se ne aggiungevano uno
nell’ordine immediatamente successivo. L’uso dell’abacus si protrasse fino al tardo
Medio Evo, fu variamente modificato a seconda dei paesi e delle epoche fino a
trasformarsi in un pallottoliere. Gli europei poterono fare a meno di questo aggeggio
dopo che ebbero conosciuto lo zero; solo allora l’addizione poté essere eseguita
rapidamente per iscritto come facciamo noi.
L’operazione vera e propria di addizione, eseguita cioè senza artefici meccanismi ma
operando direttamene sui numeri, risale a circa 50 anni fa. Noi sappiamo fin dalle
elementari come si fa ad eseguire una addizione, ma nessuno pensa al meccanismo che
si nasconde in un’operazione che l’abitudine e la sua stessa semplicità hanno reso
comunissimo.
Dati due numeri da addizionare, per esempio 768 e 925, la prima cosa da fare è
questa: si scompongono i numeri nelle unità dei vari ordini:
768 = 7 centinaia, 6 decine, 8 unità.
925 = 9 centinaia, 2 decine, 5 unità.
Fatto questo, si sommano le unità con le unità le decine con le decine, ecc. così si
ottiene 16 centinaia, 8 decine, 13 unità.
Ora si scompone la somma delle unità semplici, 13, in due gruppi uno di 3 e un altro di
10 unità. Quest’ultimo, formando una decina perfetta, può essere senz’altro aggiunto
alle 8 decine che sono subito a sinistra, la nostra somma diventa allora 16 centinaia, 9
decine, 3 unità.
In questa somma c’è il gruppo delle 16 centinaia che può essere anch’esso scomposto in
un gruppetto di 6 centinaia e in un altro di 10 centinaia (cioè un migliaio) che
trasferiamo in una nuova colonna di sinistra.
In definitiva la somma è composta di 1 migliaio, 6 centinaia, 9 decine, 7 unità. Ecco che
ora possiamo scrivere un nuovo numero 1693. esso rappresenta la somma, cioè il
risultato dell’operazione di addizione compiuta sui numeri 768 e 925. Normalmente
l’operazione viene disposta così 768+925 =1693 e nessuno si preoccupa di scomporre
questi numeri nelle loro unità dei vari ordini, però è quello che tutti fanno senza
accorgersene perché operano automaticamente per forza di abitudine.
MOLTIPLICAZIONE

Gli antichi non conoscevano la moltiplicazione vera e propria. Erano riusciti, si, ad
abbreviare l’addizione di più addendi uguali; ma non erano andati più in là dei primi
dieci numeri, sommati fino a dieci volte. Essi avevano calcolato il risultato di queste
addizioni:

1+1=2 1+1+1=3 2+2=4 2+2+2=6

e così via fino al 10: 10 + 10 = 20 10 + 10 + 10 = 30

Con i risultati di queste addizioni, essi avevano compilato una tabella che risultava di
grande utilità nei calcoli più comuni. La conosciamo, è la famosa ‘Tavola Pitagorica’, così
chiamata perché era stata attribuita al matematico greco Pitagora, vissuto nel V sec
a. C. In realtà essa era conosciuta già diversi secoli prima, e anzi da molto tempo
erano in uso alcuni metodi più o meno ingegnosi di moltiplicazione che servivano a
calcolare il prodotto di numeri anche più grandi di 10. In seguito, si cercò di
introdurre nell’uso vari altri metodi, nel Medio Evo ad esempio, i matematici italiani ne
escogitarono parecchi. Ma si dovette arrivare alla introduzione dello zero nella
numerazione per inventare l’operazione abbastanza semplice e rapida che si usa ancora
oggi. Esempi di moltiplicazione coi numeri romani:

XV 15 x
VI 6=
 
X V 90
L X X V

L X X X VV cioè XC

‘Moltiplicare’ significa in latino ‘piegare molte volte’. Piegare che cosa? La stoffa!
Proprio la stoffa che si compra, oggi come al tempo dei romani, nei negozi di tessuti o
al mercato. Se un tempo si chiedeva al venditore ad esempio 5 ‘metri’ di una certa
stoffa, egli ne misurava un ‘metro’ e poi piegava più volte la stoffa in modo da
riportare ogni volta la lunghezza di quel primo ‘metro’ sulla pezza, e quando aveva
sovrapposto (cioè in pratica ‘moltiplicato’) cinque strati di stoffa lunghi un ‘metro’
ciascuno, tagliava e consegnava il prodotto.
Nei secoli XIII e XIV l’operazione del moltiplicare si indicava con i vocaboli ‘ dùcere’,
‘producere’ o ‘facere’, il prodotto si chiamava ‘factum’, i termini venivano detti
‘factores’ (cioè fattori, come sono chiamati tutt’ora).
Un primo passo compiuto sulla lunga strada della moltiplicazione fu quello che portò
alla compilazione della Tavola Pitagorica, che permetteva di conoscere il prodotto di
due fattori qualsiasi, purché compresi fra l’uno e il dieci, e cioè a parte la fatica che
può costare imparare a memoria tutta la tavella, era già una bella comodità. Un passo
immediatamente successivo portò ad una scoperta interessante: ‘un prodotto non
cambia se si muta l’ordine dei fattori’. Non fu necessario troppo logorio delle menti
per arrivare a questa conclusione: infatti basta osservare la stessa tavola pitagorica
per accorgersene:
se 3 x 5 = 15 è anche 5 x 3 = 15
Questa caratteristica della moltiplicazione prende il nome di proprietà commutativa.
Un giorno qualcuno si prese la briga di fare una moltiplicazione con più di due fattori,
per esempio 2 x 3 x 4 e osservò che si poteva farla in più modi:

(2 x 3) x 4 = 6 x 4 = 24 (2 x 4) x 3 = 8 x 3 = 24 2 x (3 x 4) = 2 x 12 = 24

Si ebbe così conferma della proprietà commutativa, e non solo; si poté stabilire che un
prodotto di più fattori non cambia se a due (o più) di essi si sostituisce un numero che
sia uguale al loro prodotto. Questa è la proprietà associativa della moltiplicazione. Se
vale questa proprietà è naturale che valga anche un’altra: un prodotto non cambia uno
(o più) dei suoi fattori si sostituiscono due (o più) numeri il cui prodotto sia uguale al
fattore stesso. E’ la proprietà dissociativa, per convincersi della quale basta
rovesciare gli esempi di prima: 3 x 2 x 4 = 24
Un altro progresso fu compiuto quando si fece ‘‘l’esperimento’’ illustrato in questo
esempio:
dovendo eseguire: 4 x (2 + 6) =
si può fare: (2 + 6) = 8 e poi: 4 x 8 = 32
ma si può anche fare: 4 x (2+6) = (4x ) + (4x6) = 8 + 24 = 32
Abbiamo osservato che invece di eseguire subito la somma indicata tra parentesi (che
è uguale a 8) e di moltiplicare poi, (8x4) (ottenendo 32), si è operato separatamente
sugli addendi, per sommare poi i risultati ottenuti. Visto il risultato positivo del
suddetto ‘esperimento’ si poteva tentare lo stesso procedimento anche nel caso di una
sottrazione. Dovendo risolvere l’espressione 4 x (6–2) si poteva procedere così: 4 x
(6–2) = 4 x 4 = 16
Ma si otteneva lo stesso risultato anche nel modo seguente: 4 x (6–2) = (4x6) – (4x2)
= 24 – 8 = 16
C’era dunque motivo sufficiente per affermare che per moltiplicare un numero per una
somma (o per una differenza) si può moltiplicare per quel numero ciascun termine
della somma (o della differenza) e quindi addizionare (o sottrarre) i prodotti ottenuti.
A questa proprietà della moltiplicazione si è dato il nome di proprietà distributiva.
Incoraggiati da questi risultati, i matematici fecero un altro esperimento, provarono
moltiplicare fra loro due somme, senza eseguirle:
Es. (3 + 2) x (4 + 5)

Si possono sommare semplicemente gli addendi compresi fra due parentesi e


otteniamo: 5 x 9 = 45
Ma ormai i matematici avevano preso gusto a fare esperimenti sui numeri. Un sistema
così era troppo facile! Doveva essercene un altro, magari apparentemente più
complicato, ma che avrebbe potuto fare scoprire una nuova proprietà della
moltiplicazione. Infatti, arrivarono a questo procedimento :
(3x4) + (3x5) + (2x4) + (2x5) = 12 + 15 + 8 + 10 = 45
Il risultato era lo stesso. L’esperimento perciò era riuscito, e se ne ricavò questa
regola: per moltiplicare tra loro due somme, si possono moltiplicare i termini dell’una
per ciascun termine dell’altra e quindi sommare i prodotti ottenuti.
L’ultima scoperta che ci interessa fra quelle fatte dai matematici nei loro studi sulla
moltiplicazione, è questa: il prodotto di un numero per 10, 100, 1000…. È uguale al
numero stesso seguito da tanti zeri quanti sono quelli del moltiplicatore.
Es. 3x10=30 3x100=300 3x1000=3000
Perché? È evidente! Basta mutare l’ordine dei fattori per vedere che:
10 x 3 = 1 decina x 3 = 3 decine = 30
100 x 3 = 1 centinaio x 3 = 3 centinaia = 300
1000 x 3 = 1 migliaio x 3 = 3 migliaia = 3000
e se volessimo moltiplicare un numero per 20 o 500, o 7000? Semplicissimo:
3x20 = 3x(2x10) = (3x2)x10 = 6x10 = 60
3x500 = 3x(5x100) = (3x5)x100 = 15x100 = 1500
3x7000 = 3x(7x1000) = (3x7)x1000 = 21x100 = 21000
Come vediamo, non si è fatto altro che applicare la proprietà dissociativa e
associativa. Praticamente si moltiplica il numero per la cifra significativa del
moltiplicatore (quella che rimane tagliando gli zeri), e al prodotto si aggiunge lo stesso
numero di zeri che figurano a destra delle cifre stesse.

Curiosità:
guardiamo che cosa accade moltiplicando il numero 37 per i numeri della terza riga
della Tavola Pitagorica :
3x37=111 1+1+1=3
6x37=222 2+2+2=6
9x37=333 3+3+3=9
12x37=444 4+4+4=12
15x37=555 5+5+5=15
18x37=666 6+6+6=18
21x37=777 7+7+7=21
24x37=888 8+8+8=24
27x37=999 9+9+9=27
LA PROVA DEL NOVE

Il numero 9 ha in sé qualche cosa di ‘magico’, c’è stato un tempo in cui i matematici


passavano un po’ per stregoni perché si dedicavano alla ricerca delle più strane
particolarità dei numeri provocando il diffondersi di certe credenze superstiziose
come quella del numero 13 che, ancora oggi, è ritenuto da alcuni infausto, e da altri
propizio. Ma per quanto suggestive siano certe interpretazioni, non si può dimenticare
che la matematica è una ‘scienza esatta’ e che niente di quanto rientra nel suo campo è
dovuto al caso o alla fatalità neanche la proprietà del numero 9.
Dividendo più numeri per un medesimo divisore, tanto la somma dei numeri dati, quanto
la somma dei loro resti, divise per codesto divisore, danno il medesimo resto.

Es. 3000 : 9 = 333 con resto 3


500 : 9 = 55 con resto 5
40 : 9 = 4 con resto 4
7 : 9 = 0 con resto 7

somma dei numeri 3547 : 9 = 394 con resto 1
somma dei resti 19 : 9 = 2 con resto 1

E’ così spiegato il criterio di divisibilità per 9: un numero è divisibile per 9 se la somma


delle sue cifre è divisibile per 9.
Possiamo affermare che per trovare il resto della divisione di un numero per 9 non è
affatto necessario eseguire l’operazione: si calcola la somma delle cifre del numero e
si divide questa per 9, il resto che si ottiene è quello cercato. Ma il 9 rende ancora più
facile questa ricerca nel fare la somma delle cifre, si può togliere 9 tutte le volte che
si può, ed il numero ottenuto è il resto stesso.

Es. 3+5+4+7=19 19-9=10 10-9=1

Anzi, del numero 19 possiamo cancellare la cifra 9 senza pensare di sottrarre il 9.


Per provare l’esattezza di un’addizione si può fare così: si cercano i resti della
divisione per 9 degli addendi e se ne calcola la somma; la somma dei resti e la somma
degli addendi divise per 9, daranno lo stesso resto se l’addizione è esatta.

Es. 4827 + resto della divisione per 9 3+


389 + resto della divisione per 9 2+
1257 = resto della divisione per 9 6=
 
6473 :9 resto 2 11 :9 resto 2
E’ come quella di un’addizione in cui gli addendi sono la differenza e il sottraendo, e la
cui somma è data dal minuendo.

Es. 5894 - resto della divisione per 9 8–


879 = resto della divisione per 9 6–
 
5015 resto della divisione per 9 2

2+6=8 che diviso per 9 da il resto 8 come il minuendo.


Se cerchiamo i resti della divisione per 9 dei fattori e se ne calcola il prodotto, il
prodotto dei resti e il prodotto della moltiplicazione, divisi per 9, devono dare lo
stesso resto.

Es. 5753 x resto della divisione per 9 2x


498 = resto della divisione per 9 3=
 
46024 6 :9 resto 6
51777
23012

2.864.994 resto della divisione per 9 6

In pratica i resti si dispongono così: in alto a sinistra il resto del moltiplicando e a


destra quello del moltiplicatore, in basso a sinistra il resto del prodotto di questi
ultimi e a destra il resto del prodotto della moltiplicazione.
Se non c’è alcun resto la prova è come quella della moltiplicazione in cui quoziente e
divisore sono fattori e il dividendo è il prodotto.
Es. 156 : 12 = 13

Il resto della divisione (per 9) di 13 è 4x


Il resto della divisione (per 9) di 12 è 3=

12 (resto 3)

il resto della divisione (per 9) di 156 è 3. Se la divisione eseguita da un resto, si divide


anche questo per 9 e si aggiunge il resto che si ottiene al prodotto dei resti del
quoziente e del divisore la somma ottenuta e il dividendo, divisi per 9, devono dare
resti uguali.
Es. 49035 : 59 = 831
472

183
177

65
59

6

il resto della divisione (per 9) di 831 è 3x


il resto della divisione (per 9) di 59 è 5=

15
il resto della divisione (per 9) di 6 è 6

21 (resto 3)

Il resto della divisione (per 9) di 49035 è 3. I vari resti si possono disporre in croce:

3 5

3 3

CURIOSITA’

L’uso della prova del 9 delle quattro operazioni risale a molti secoli prima di Cristo.
Pare che già Pitagora, vissuto intorno al 500 a.C. se ne servisse, dopo che l’aveva
appreso da studiosi egiziani, che a loro volta l’avevano imparata dagli indiani.
ALGEBRA

La parola ‘Algebra’ è stata usata per la prima volta dal matematico arabo Al-
Khuwarizmi vissuto nel IX sec d.C.
L’Algebra consiste nel tradurre l’enunciato di un problema in un equazione, sicchè la
risoluzione del problema si riduce alla risoluzione della sua equazione. Risolvere
un’equazione significa calcolare il valore da attribuire all’incognita in essa contenuta.
Nel Medioevo l’incognita era detta semplicemente ‘la cosa’ e perciò l’algebra era ‘l’arte
della cosa’ mentre gli algebristi erano ‘cosisti’. Si deve a Leonardo Pisano il già
ricordato autore del ‘Liber Abaci’ (libro dell’abbaco), la diffusione delle cognizioni
algebriche raggiunte dagli arabi, i quali avevano inventato dei procedimenti speciali
per risolvere le equazioni. Le origini dell’algebra risalgono però al tempo dei Babilonesi
e degli Egiziani e gli ulteriori sviluppi di questa scienza matematica hanno richiesto
secoli di studi. Le principali difficoltà incontrate dai matematici dediti all’algebra
erano rappresentate dai ‘numeri negativi’ che saltavano fuori nel corso delle loro
trattazioni senza che si sapesse bene come interpretarli, e dall’ insufficienza della
notazione numerica e letterale il cui perfezionamento è una conquista relativamente
recente.

IL CALCOLO LETTERALE

Per capire l’importanza della ‘notazione letterale’ basti pensare che dopo le ‘scoperte’
avvenute in Grecia nel campo dei numeri e della geometria, lo sviluppo della
matematica, che con quello delle arti e di altre scienze aveva caratterizzato la civiltà
ellenica giunta al suo massimo splendore, si è arrestato proprio per la mancanza di un
adeguato mezzo di espressione. I greci non conoscevano la numerazione decimale, né
disponevano dei simboli coi quali oggi si rappresenta per iscritto qualsiasi espressione
matematica. La difficoltà di esprimersi impedì ancora per molti secoli il progredire di
una scienza che soltanto nel XVI secolo riprese il suo cammino, per raggiungere le
altezze a cui è pervenuta in epoca moderna. Tale progresso si deve in parte,
all’elaborazione di tutto un sistema di scrittura e di rappresentazione delle grandezze
e delle operazioni da eseguire con questi, di tale sistema è parte preponderante la
notazione letterale, con tutto l’armamento del calcolo letterale.
LA NUMERAZIONE BINARIA

Molte cose ci sarebbero da dire sull’origine dei numeri e sul loro primo impiego, perché
ogni popolo si è affacciato alla ribalta della storia con usi e costumi propri e anche con
un proprio sistema di numerazione. Il più antico dei sistemi, quello a base due o
numerazione binaria, capostipite delle numerazioni più evolute: la quinaria, la duo
decimale, la vigesimale, la sessagesimale, usate in tempi e luoghi diversi e sulle quali la
decimale ha prevalso fino ai giorni nostri, affermandosi come la più comoda e
conveniente.
La scrittura binaria è molto comoda infatti: richiede soltanto due cifre, 0 e 1 , per
rappresentare qualunque numero. Per esempio se dobbiamo scrivere 1 si intende ‘uno’
scrivendo 10 si intende ‘due’ scrivendo 100 si intende ‘quattro’ scrivendo 1.000 –
10.000 – 100.000 si intende ‘otto, sedici, trentadue,…..’
In altre parole: la cifra 1 indica 20, 21, 22, 23, 24, 25… a seconda che occupi il
1°,2°,3°,4°,5°,6°… posto da destra verso sinistra, mentre 0 è in significativo. I due
sistemi presentano questa analogia: mentre il valore relativo delle cifre 1,2,3,… si va
decuplicando da destra verso sinistra, il valore della cifra 1 va raddoppiando nello
stesso senso. Possiamo notare che con la numerazione binaria la scrittura di certi
numeri è lunghissima; per esempio, un numero come 62 su scrive 111110, però è anche
vero che le cifre usate sono soltanto 1 e 0, mentre quelle della numerazione decimale
sono dieci, da 0 a 9.
Già tre secoli or sono Leibniz proponeva l’adozione della numerazione binaria, dandone
un’interpretazione religiosa: la cifra 1 sarebbe il simbolo di Dio e la cifra 0
rappresenterebbe il nulla, il vuoto, sicchè l’impiego di queste due cifre per la scrittura
di qualsiasi numero dimostrerebbe come Dio può creare l’universo dal nulla.
Un’interessante applicazione del sistema binario potrebbe essere quella relativa a un
nuovo sistema monetario che in alcuni casi semplificherebbero i cambi. Pensiamo per
esempio, che vengano adottate monte da 1,2,4,8,16,… lire: con quali e quante delle
monete attualmente in circolazione potremmo formare una somma di 84 lire? Possiamo
formarlo con qualunque combinazione, ci occorrerà sempre più di una moneta dello
stesso valore; invece, con quelle binarie, essendo 84 = 1010100, si possono impiegare
solo tre monete tra loro diverse: una per ciascuno dei valori corrispondenti alle
posizioni occupate dalla cifra 1.
Per trasformare la scrittura decimale di 84 nella sua equivalente binaria, si sottrae da
84 il massimo multiplo di 2 in esso contenuto: 84 – 2 6 = 84 – 64 = 20; ora si sottrae 20
il massimo multiplo di 2 in esso contenuto: 20 – 2 4 = 20 – 16 = 4 e ora si ripete il
procedimento operando : 4 – 22 = 4 – 4 = 0.

Dunque 84 = 26 + 24 + 22 = 1 (26) + 0 (25) + 1(24) + 0(23) + 1(22) + 0(21) + 0(20)


Oppure si fa così:
84 : 2 = 42 con resto 0 10 : 2 = 5 con resto 0
42 : 2 = 21 con resto 0 5:2=2 con resto 1
21 : 2 = 10 con resto 1 2:2=0 con resto 0

Ora possiamo scrivere l’ultimo quoziente ottenuto, seguito da tutti i resti incolonnati;
a cominciare dal basso e abbiamo 84 = 1010100
Un altro motivo di comodità della numerazione binaria è la facilità con cui si eseguono
le operazioni a termini binari. Per l’addizione teniamo presente che 1+0 e che 1+1 =10
quindi:
uno + 1+ cinque + 101 + sette + 111 +
uno + 1+ due = 10 + quattro = 100 =
uno + 1+    
  sette 111 undici 1011
tre 11

Dal terzo esempio possiamo vedere che la somma dei primi 1 di ciascun addendo è 10 e
mentre lo 0 si scrive incolonnato con quelli, ci si deve spostare a sinistra per scrivere
l’1.

Es.

tredici + 1101 +
quattro + 100 =
 
diciassette 1001

quindici + 1111 +
undici + 1011 =
 
ventisei 11010

dalla moltiplicazione si tiene presente che 0x0 = 1x0 = 0x1 =0 e che 1x1 =1

Es. due x 10 x tre x 11 x 15 x


due = 10 = tre = 11 = 3=
    
quattro 100 nove 11 15
11 3
 
1001 45
1111 x 17 x
11 = 5=
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1111 35
1111- 5-
 
101101 85

per la sottrazione teniamo presente che 1-1=0, 1-0=1 e che 0-1=1 con 1 di riporto da
aggiungere alla cifra immediatamente successiva del sottraendo, quindi:
I CALCOLATORI

L’uomo ha sempre cercato di aiutarsi, in qualche modo, a seguire calcoli senza


affaticare troppo il cervello, risparmiando così tempo prezioso da dedicare ad altre
attività. La prima calcolatrice è stata certamente quella costituita dalle mani: si
servivano anche di sassolini, chicchi di grano, ecc, per rappresentare i numeri e per
questa via pervennero all’invenzione dell’ abbaco. E sono stati costruiti di vari tipi,
successivamente perfezionati fino a rendere possibile la rapida e facile esecuzione
delle operazioni fondamentali mediante lo spostamento di alcune palline. Dobbiamo
arrivare al 1620 per incontrare un nuovo strumento di calcolo, ideato dall’inglese
Gunter; in quel secolo Pascal e Leibniz progettarono le prime macchine calcolatrice
vere e proprie; nel 1709 il veneziano Poleni realizzò un’altra macchina per calcolare. Si
trattava di meccanismi ingegnosi, anche se poco pratici, funzionanti per mezzo di
ruote dentate azionate manualmente: una per le unità, un’altra per le decine, ecc. ad
ogni giro completo di una ruota di un certo ordine, quella dell’ordine immediatamente
superiore scattava di 1/10 di giro e questo è il principio di funzionamento delle comuni
macchine calcolatrici. Queste macchine devono essere azionate con un’apposita
manovella, ma i tipi più recenti sono dotati di un motorino elettrico, per cui basta
premere alcuni tasti per farle funzionare automaticamente. Nel 1812 l’inglese Babbage
ideò una macchina calcolatrice a vapore ma non riuscì a costruirla per mancanza di
fondi. Le sue idee tuttavia, furono riprese in seguito con successo e altre furono
apportate da scienziati illustri, fra i quali ricordiamo Lord Kelvin. Arriviamo così al
decennio 1930-1940 durante il quale si è avuto uno sviluppo prodigioso di idee e di
iniziative e si sono raggiunti risulti che hanno dell’incredibile: da allora le macchine
costruite per calcolare meritano il nome di cervelli, essendo in grado di risolvere
problemi complicatissimi. Esse sono dotate, oltre che dei dispositivi automatici di
calcolo, di altri dispositivi che permettono di importare o programmare la risoluzione,
dopo di che agiscono veramente da sole, obbedendo con esattezza all’impostazione o
programmazione predisposta. L’automatismo delle macchine calcolatrici è stato
perfezionato ulteriormente, ed è tutt’ora oggetto di studi e ricerche, con l’impiego di
elaborare apparecchiature elettriche che ne hanno accresciuto a dismisura le
possibilità.
Il sistema è costituito da una gran numero di circuiti percorsi da corrente elettrica.
La velocità della corrente, pressappoco uguale a quella della luce, spiega la
straordinaria rapidità con cui il calcolatore esegue le operazioni: possiamo pensare che
in 1 ns. (nanosecondo=10-6 5) la luce percorre cm 30 nel vuoto.
I risultati di un lungo calcolo escono stampati alla velocità di circa 1000 righe al
minuto, di circa 130 caratteri ciascuna, e si sta realizzando la possibilità di stampare
un milione di carattere al secondo.
Dati e impostazione si traducono in simboli speciali impressi su una scheda o su un
nastro magnetico; se si tratta di una scheda, i simboli si riducono a dei fori praticati
in un certo modo: il calcolatore ha un dispositivo speciale per questo. Scheda o nastro
si introducono nel calcolatore e questo basta: tutto il resto avviene automaticamente.
E cioè: dati e impostazione si trasferiscono alla cosiddetta memoria e intanto si mette
in azione il cervello che trasmette gli ordini alla parte calcolatrice vera e propria e ne
sorveglia il funzionamento.
I risultati dei calcolatori vengono impressi su un’altra scheda o in un altro nastro, in
forma simbolica che poi si traduce in forma leggibile. Con una comune macchina
calcolatrice, la quale è corredata da una tastiera: dieci tasti con le cifre da zero a
nove possiamo eseguire l’ addizione 158+62. Premiamo i tasti 1 – 5 – 8 e poi azioniamo
quello che imposta l’addendo. Quindi premiamo i tasti 6 e 2 e impostiamo il secondo
addendo. Ora spostiamo nella posizione (+) una levetta e la macchina ci da il risultato,
cioè 220. La stessa operazione, con un moderno calcolatore, si imposta in altro modo.
Immaginiamo che ci sia un solo tasto per formare gli addendi; dal momento che la
corrente è immessa nel calcolatore, si ha una successione di intervalli durante i quali
dobbiamo premere oppure no il tasto: se lo premiamo formiamo la cifra 1, se non lo
premiamo formiamo la cifra 0. Se vogliamo impostare l’addendo 158 col sistema
binario esso si scrive: 10011110 e lo traduciamo con una serie di azioni: ‘premo, non
premo, ecc’ la stessa cosa facciamo col secondo addendo: 62=111110. Ora comandiamo,
per mezzo di un bottone, l’addizione e otteniamo il risultato 1101110 equivalente 220.
ma ormai quel tasto è immaginario perché gli addendi sono già entrati nella macchina
per mezzo della scheda perforata e del nastro magnetico.
EVOLUZIONE DELLA MATEMATICA

Accenniamo allo sviluppo dell’antica matematica greca. Questa si innesta su


preesistenti matematiche orientali, soprattutto l’egiziana e la assiro – babilonese.
Queste antichissime matematiche erano già giunte a notevoli risultati nella aritmetica
e nell’algebra, mentre la geometria era rimasta piuttosto arretrata. Difatti la
geometria era rimasta ancorata alla materia, cioè si parlava di una tavola rettangolare
anziché della figura del rettangolo, di una vasca circolare anziché di un cerchio. Si può
dire che nelle matematiche pre-elleniche la geometria si limitasse al ritrovamento di
regole di misura (spesso approssimate) che davano occasione alla esecuzione di calcoli
aritmetici o algebrici. Sembra che il passaggio delle matematiche pre-elleniche nella
Grecia sia avvenuto intorno al 600 a.C.
In Grecia la geometria acquistò il suo carattere scientifico in quanto si liberò dal
vincolo della materia e quindi il punto viene considerato senza dimensioni, la linea
senza larghezza, la superficie senza spessore ed inoltre poligono e cerchi diventano
figure e non oggetti. Cioè i matematici greci ‘idealizzavano’ gli enti geometrici e quindi
possono sviluppare la teoria.
Lo sviluppo della macchina greca ha il suo periodo importante intorno al 300 a.C.
quando Euclide espone nella sua opera giunta fino a noi, gli ‘Elementi’, tutta la
matematica elementare greca: geometria, aritmetica, algebra. Questa opera
rappresenta oltre che un punto di arrivo in quanto raccoglie e coordina i risultati sino
ad allora raggiunti, anche il punto di partenza per lo sviluppo successivo che culmina
nel periodo seguente (300 – 200 a.C.), quando Archimede segnò il passaggio dalla
matematica elementare al calcolo infinitesimale ed Apollonio studiò le curve che si
ottengono sezionando il cono con un piano, dette perciò coniche (ellisse, parabola,
iperbole).
Dopo il 300 a.C. lo sviluppo della matematica greca decade, anche se abbiamo ancora
qualche matematico di rilievo. Infine tra il 300 e il 600 d.C. ci si limita a commentare
le opere dei predecessori. Ritornando indietro, al periodo pre-euclideo, quello del
primo sviluppo della matematica greca, emerge la figura di Pitagora, matematico e
filosofo (570 – 500 circa a.C.). Egli fondò a Crotone, nella Magna Grecia, la scuola che
prese il nome di scuola pitagorica, che si occupò anche di matematica e forse a questa
si deve la idealizzazione degli enti geometrici prima accennata.
A questa scuola vengono attribuiti il teorema sulla somma degli angoli di un triangolo,
con estensione ai poligoni ed il teorema detto di Pitagora sul triangolo rettangolo
(teorema già noto alle matematiche pre-elleniche, almeno per casi particolari).
Euclide, autore degli ‘Elementi’ noti sotto il suo nome, come prima detta, visse ad
Alessandria intorno al 300 a.C.
La tradizione ci ha conservato due aneddoti sulla vita di questo grande geometra. Al
re Tolomeo che gli avrebbe chiesto se esistesse, per imparare la geometria, un
metodo più rapido e facile di quello fornito dagli Elementi, Euclide avrebbe risposto
che esistono ‘vie regali’ in geometria; egli avrebbe dato ordine ad un servo di pagare
una moneta all’incanto e di scacciarlo dal momento che voleva trarre profitto dalla
scienza. Questi due aneddoti servono a chiarire la personalità di Euclide quale
scienziato puro, tutto preso dall’ideale delle sue ricerche e lontano dalle
preoccupazioni di cercare nodi semplificati per insegnare oppure di scoprire
applicazioni pratiche. Ripetiamo che gli Elementi di Euclide costruiscono la sintesi
della matematica pre-euclidea ed anche il punto di partenza per gli sviluppi successivi,
essi si compongono di tredici libri. I primi sei libri riguardano la geometria piana, quelli
settimo, ottavo e nono l’aritmetica (numeri interi e loro proprietà), il decimo, che è il
più complesso, studia gli irrazionali, cioè grandezze geometriche incommensurabili, gli
ultimi tre sono dedicati alla geometria solida. L’autore espone con intento critico la
sintesi organica dell’opera dei predecessori; pur curando l’esposizione non si preoccupa
di facilitare l’apprendimento, come vuole appunto significare l’aneddoto relativo al re
Tolomeo. È stato osservato che è assai difficile dire quali scoperte originali Euclide
abbia aggiunto all’opera dei suoi predecessori, ma che a lui va riconosciuto una grande
capacità di pensiero matematico al punto da aver egli costituite le fondamenta della
matematica sino ai i nostri tempi; fondamenta radicate sulla pura intuizione e sulla
logica rigorosa.
Nello sviluppo della matematica greca immediatamente dopo Euclide emerge il grande
Archimede di Siracusa (287-212 a.C.) noto nella storia per aver contribuito a
respingere per ben due anni l’assedio dei Romani, al comando del console Claudio
Marcello, mediante l’invenzione di macchine belliche. Il cambiamento da Euclide ad
Archimede sta innanzi tutto nel fatto che si passa dalla assoluta teoricità al gusto
delle applicazioni. La geometria si rivolge anche alle regole di misura (lunghezza, aree,
volumi) e non vengono disdegnate le applicazioni numeriche; la matematica trova poi la
sua naturale estensione alla meccanica dei solidi e dei fluidi. Si può dire che
Archimede, oltre ad essere il più grande matematico dell’antichità e uno dei più grandi
di tutti i tempi, sia pure il più grande ingegnere dell’antichità, che non solo applicava
teorie ma costruiva le basi teoriche delle sue applicazioni. Fra queste basta citare la
teoria del baricentro. Fra i libri di Archimede pervenutici ‘sulla sfera e sul cilindro’,
‘la misura del cerchio’ e soprattutto ‘il metodo’, nel quale Archimede svolge
considerazioni di carattere infinitesimale in un modo non rigoroso, ma tale da
consentirgli di ottenere risultati esatti nel calcolo di aree e volumi di varie figure.
Questo metodo verrà poi ripercorso nel periodo di formazione del calcolo
infinitesimale, particolarmente nel secolo XVII. Il principio di natura infinitesimale
che è alla base del ‘Metodo’ consiste nel considerare ogni superficie come somma di
tanti elementi di superficie accostati e così ogni volume come tanti elementi volume
accostati (infinitesimi di superficie ed infinitesimi di volume).
Come prima detto, nel Medioevo si verificò la decadenza degli studi matematici
nell’Occidente; in compenso l’Occidente, mediante le Crociate ed i fiorenti commerci
delle città marinare con l’Oriente, potè venire a conoscenza del progresso compiuto
dagli Arabi. Questi non solo assolsero al compito di mantenere presente il patrimonio
di nozioni della matematica greca e compresero queste con elementi provenienti dalla
Aritmetica degli Indiani, ma gettarono le basi di quel ramo della scienza matematica
che proprio da loro ricevette il nome di Algebra. Il più noto tra gli studiosi di algebra
arabi e Al-Khuwarizmi (prima metà del sec. Nono). Questo nome è celebre anche
perché, trasformato in algoritmi da un traduttore in latino, sembra abbia dato origine
al temine ‘algoritmo’ che oggi serve per indicare qualunque schema di calcolo.
Al-Khuwarizmi compilò due opere, una delle quali è un libro di aritmetica, l’altra è di
algebra ed il suo titolo tradotto significa ‘sistemazione e confronto’. Tuttavia nella sua
opera non compare alcun procedimento generale per equazioni di grado superiore al
secondo, di recente è stato detto che Al-Khuwarizmi è soltanto un ordinatore di
nozioni che erano già a disposizione. In merito alla storia dell’algebra si può dire che
ha origini orientali di antichità remote; che sia passata in Grecia nel periodo classico,
ricevendo anche una veste geometrica, che sia passata presso i matematici arabi
consolidandosi sulla base di nozioni dei greci e forse di altri orientali, ma non
superando le equazioni di secondo grado.
Dagli arabi l’algebra torna in Occidente, principalmente con il matematico Leonardo
Pisano (XIII sec.), e qui, dopo un periodo di elaborazione riprende il suo cammino: con
gli algebristi della Scuola Bolognese del secolo XVI° che risolvono le equazioni di terzo
grado e col simbolismo algebrico che pure comincia in questo secolo. In realtà gli Arabi
ed anche i Greci avevano escogitato soluzioni geometriche per la soluzione delle
equazioni di terzo grado, ma solo gli algebristi bolognesi riuscirono a superare l’opera
degli antichi risolvendo con metodi generali aritmetici queste equazioni. Da questo
momento ha inizio lo sviluppo della matematica moderna che prosegue senza sosta sino
ai nostri tempi. Difatti, fra il XVI° e XVII° secolo, in Occidente nascono nuovi rami
della matematica: il calcolo logaritmico dovuto allo scozzese Napier (Neperius), la
geometria analitica dovuta al francese Descartes (Cartesio), il calcolo infinitesimale
con Galileo. Il calcolo logaritmico rese possibile un passo avanti nella possibilità di
eseguire, mediante un metodo semplificato e preciso , i calcoli sempre più complessi
che scienze come l’astronomia e la contabilità statale e commerciale dovevano
affrontare in tale epoca. La geometria analitica nasce dal concetto di Cartesio, cioè
che l’algebra come scienza più generale possa, fra gli altri problemi, risolvere quelli
della geometria. Con questo la geometria viene detronizzata definitivamente dal rango
datole dai Greci, di regina della matematica e quindi al posto della matematica
‘geometrizzata’ subentra la matematica ‘algebrizzata’.
Così nell’ opera di Cartesio ‘Geometria’ del 1659, considerata rivoluzionaria e
fondamentale, viene fondata la geometria analitica dove, stabilito un sistema di assi di
riferimento per le coordinate (oggi detti assi cartesiani quando perpendicolari tra
loro), ad ogni espressione algebrica corrisponde una curva, e viceversa, e con il metodo
del calcolo algebrico è possibile conoscere le proprietà di ogni curva. Alla geometria
analitica molti debbono il progresso sino ad oggi della fisica, in particolare della
meccanica.
Galileo però non mostra interesse a questi nuovi campi della matematica che si
sviluppano nel suo temo, forse anche perché alcuni, come la geometria analitica
sorgono tardi rispetto al ciclo della sua vita. Egli per il proprio modo di pensare e di
immaginare, è attratto dalle questioni che in qualche modo riguardano l’infinito.
Archimede si era già accostato con l’intuizione soprattutto, all’infinito matematico.
Galileo rispondendo allo spirito dei suoi tempi, o forse è meglio dire che Faglielo
influisce in questo spirito, indaga sull’infinitamente grande e sull’infinitamente piccolo;
cioè sulla struttura della continuità per la quale si passa dall’uno all’altro limite. Si è
alla soglie del calcolo infinitesimale. Nella sua opera ‘Discorsi e dimostrazioni
matematiche intorno a due nuove scienze’ Galileo tratta con massima
spregiudicatezza, intuizione e immaginazione quei problemi, una linea è
indefinitamente divisibile; i punti di una linea, pur essendo questa limitata, sono
infiniti, però perché questo sia possibile detti punti debbono essere indivisibili, cioè
non avere quantità, perché altrimenti un infinito di quantità dovrebbe essere una
quantità infinita cioè una linea illimitata. Galileo quindi affronta il contrasto fra il
concetto di esistenza di elementi indivisibili ed il concetto di infinita divisibilità. Egli
intuisce che gli indivisibili vanno a costituire in quantità infinita una entità continua,
anche se limitata, e per chiarire ciò ricorre anche ad un esempio geometrico.
Considera un segmento di retta e lo divide piegandolo in quattro, otto parti uguali e
cosi prosegue e forma ogni volta una figura chiusa (quadrato, ottagono, ecc). Egli
osserva che proseguendo con continuità e teoricamente sono a formare un poligono di
lati infiniti, cioè un cerchio, si potrà affermare di aver ridotto i lati a entità
indivisibili (punti) che in numero infinito compongono un alinea limitata.
Il modo geniale di intuire e dissertare di Galileo precorre così quello più rigoroso di un
grande matematico, il tedesco Leibniz (XVII sec.), che getterà le basi del calcolo
infinitesimale al punto da consentire in pochi anni, ad altri studiosi, rapidi progressi di
questo. Nel secolo XVII infine si verificarono le condizioni per cui i diversi rami della
matematica si allargarono al punto da accostarsi e formare la ‘matematica superiore’,
che tutt’ora si evolve in nuove scoperte, ultima delle quali, anche se del secolo scorso
ma tutt’ora campo di ricerche, la ‘teoria degli insiemi’ del danese Cantor.

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