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Michele Calcagno

- ESSERE MOBY DICK -

“Che cosa proveresti ad essere Moby Dick?”


“Ma io non voglio essere Moby Dick!”
“Sì, ma immaginalo lo stesso. Come il pipistrello di Thomas Nagel, hai presente?
Secondo te, che cosa proveresti?”
Da quando Elisa si era iscritta alla facoltà di filosofia, amava ostentare la sua cultura.
Naturalmente io, dopo il suo “hai presente?” avevo subito assentito con sicurezza,
come se mi fosse tutto ben chiaro, anche se non ne avevo assolutamente idea. Chi era
questo famoso pipistrello e che c’entrava con quello che stavamo dicendo?
Eravamo nella minuscola stanza del piccolissimo appartamento che Elisa condivideva
con altre tre ragazze, tutte studentesse universitarie come lei, e ci eravamo immersi in
una discussione accanita e assurda su Moby Dick, senza che mi fosse ben chiaro il
motivo per cui avessimo iniziato. Probabilmente tutto partiva dal fatto che, quando ci
incontravamo nella sua stanza più o meno due volte alla settimana, c’era un piccolo
rituale che quasi senza che ce ne accorgessimo scandiva in un modo sempre identico
la successione di ciò che facevamo. Prima si parlava, abbastanza a lungo, come se
fossimo soltanto due buoni amici che amano chiacchierare un po’ insieme, poi a poco
a poco io mi avvicinavo sempre di più, con la scusa di aiutarla a fare qualcosa o per
prendere qualche oggetto casuale che si trovava nei suoi paraggi. Lei intanto
continuava a parlare come se non si fosse accorta di nulla. A un certo punto ci
baciavamo e di lì tutto era in discesa, finivamo risucchiati nel suo lettuccio e
passavamo felicemente una o due ore insieme, perché poi io dovevo anche ritornare
alla stazione e non erano molti i treni per casa. Non saprei come definire la relazione
che ci legava. Non eravamo ufficialmente fidanzati, ma neppure, con una parola
orrenda oggi in voga, degli scopamici (accidenti che brutta, e l’ho anche scritta).
Però quel giorno qualcosa era andato nel verso sbagliato e ci eravamo arenatati in un
confronto demenziale che non capivo dove ci avrebbe portato. Intanto ero ancora
bloccato sulla mia sedia nell’angolo e non osavo alzarmi.
Dimenticavo di dirvi una cosa, indispensabile per capire quello che stava accadendo.
Se c’è un libro che per Elisa è sempre stato come un testo sacro, quello è Moby Dick.
Lo aveva scoperto da bambina, in una sgualcita edizione ridotta per ragazzi che aveva
scovato in soffitta, e se ne era subito innamorata, ancor più quando aveva potuto
leggere la traduzione di Cesare Pavese, “affascinante ed infedele”, come la definiva
lei con un sorrisetto compiaciuto.
A dire il vero, la cosa mi è sempre sembrata un po’ assurda. D’accordo amare un
libro, ma fino a questo punto… Riusciva a recitarvi per filo e per segno intere pagine,
si immedesimava nelle scene e non finiva mai di rielaborare le sue interpretazioni su
dei passaggi infinitesimali della vicenda.
Ammetto di non essere un gran lettore, ma Moby Dick, dopo che ho conosciuto Elisa,
ho provato a leggerlo. Dico ho provato, perché se ha un difetto, per me, è proprio la
sua infinita lunghezza. Non sono mai riuscito ad arrivare in fondo.
Risvegliandomi da questi pensieri, mi accorsi solo in quel momento che lei aveva
continuato a fissarmi sorridente, sicura che l’espressione immobile del mio volto
fosse il segno che stavo riflettendo molto.
“E allora?”
“E allora…”. La fissavo anch’io, imbambolato, senza sapere che dire.
“E allora tu mi stai prendendo per il culo!” Si stava arrabbiando e non sapevo cosa
fare. Disperato le andai incontro, cercando di abbracciarla, stringendo però solo
l’aria, perché lei nel frattempo si era spostata sull’altro lato della stanza e mi
inceneriva con uno sguardo infuocato.
“Pietro non prendermi più in giro. Ne ho abbastanza…”
“Sì, ne ho abbastanza”, tornò a ripetere più volte con una voce sempre più alterata.
Passò così un tempo interminabile, tutti e due immobili a guardarci in faccia.
La vidi improvvisamente tranquillizzarsi, come se avesse maturato dentro di sé una
decisione.
“Bene, Pietro, è tutto molto semplice” disse con una voce diversa, calmissima.
“Adesso te ne vai e torni soltanto quando, bontà tua, vorrai rispondere alla domanda
che ti ho fatto: che cosa proveresti ad essere Moby Dick? Si risistema tutto, facciamo
finta di niente, e ripartiamo come prima. Altrimenti…”
Non ebbe bisogno di aggiungere altro. Mi alzai ed uscii senza dir nulla.

Nei giorni successivi, sfruttando tutte le pause che mi lasciava libero l’impegno
dell’ufficio, iniziai a darmi da fare. Armato di buona volontà, presi in prestito dalla
biblioteca civica della cittadina in cui abitavo il libro di Melville, la famosa
traduzione “affascinante e infedele” che Elisa celebrava sempre con aria incantata.
Ma, in fondo, già lo sapevo: ne ricavai ben poco. Era al di là delle mie possibilità. Ero
un po’ come un alpinista della domenica che decide di sfidare una cima
dell’Himalaya. Purtroppo la buona volontà non basta.
I giorni scorrevano veloci ed io non riuscivo a raggiungere una minima sicurezza su
ciò che le avrei potuto raccontare per farla contenta. Furono altrettanto inutili,
naturalmente, tutte le consultazioni del web, tra enciclopedie on-line e riassunti vari
più o meno attendibili, inutili tutte le interminabili ore passate al computer
girovagando tra i migliori siti sparsi nel mondo. Tanto tempo perso, niente mi
convinceva abbastanza di aver centrato finalmente il mio obiettivo.
Allora, un po’ come la volpe e l’uva, decisi che sarei diventato anch’io duro ed
implacabile, per metterla alla prova. Mi dicevo: perché dovrei sottostare sempre ai
suoi capricci? Persa una se ne trovano mille uguali a lei.
Eppure la consapevolezza di ciò che stavo perdendo, la perdita di Elisa che mi
appariva sempre più definitiva, alimentava la mia tristezza depressa, a cui purtroppo
già normalmente tendevo. Ero costretto ad ammettere con me stesso che non avrei
saputo fare a meno di Elisa.
Ero già con l’acqua alla gola, tanto che mi stavo a poco a poco rassegnando a veder
comparire i titoli di coda della mia storia, quando, un po’ come accade ai naufraghi
disperati che vedono improvvisamente comparire la nave che li salverà, mi balenò
un’idea, e questa idea aveva un nome: Danilo. Il mio vecchio compagno di banco
all’istituto tecnico industriale era diventato ora, a ventiquattro anni, un solitario asceta
del web, cioè uno di quegli strani individui che, trascorrendo intere giornate seduti di
fronte allo schermo del computer, posseggono una conoscenza pazzesca di tutto ciò
che il web può offrire.
Con una telefonata da cui trapelava probabilmente tutta la mia preoccupazione,
riuscii a convincerlo a vederci, senza bisogno di spiegargli troppo per telefono. Mi
invitò a casa sua. Quando però nella sua stanza fiocamente illuminata sentì ciò che
volevo da lui, mi scrutò con uno sguardo perplesso, come se temesse che lo stessi
prendendo in giro.
“Hai capito, Danilo, quello che vorrei da te è che tu mi aiutassi ad usare bene quella
nuova applicazione che c’è sul web. ChatGPT, mi pare si chiami”.
“Sì, questo me l’hai già detto. E tu gli faresti quella domanda su Moby Dick?”
“Esatto”.
“E poi andresti a recitare la risposta che ti dà alla tua ragazza?”
“Be’ non è proprio la mia ragazza, ma sì, farei così”.
Scosse più volte la testa e mi guardò con uno sguardo sconsolato. Appoggiò una
mano sulla mia spalla e mi disse: “Fai così e non la rivedrai mai più”.
Prima che io potessi obiettare qualcosa, mi bloccò e aggiunse: “Inutile che
sprechiamo tante parole. Ti faccio vedere e così capisci”.
Smanettò velocemente sulla tastiera: “Ecco, questo è il sito. La domanda che volevi
fare è…”
Non ebbi il tempo di finire di dettargliela che in pochi secondi vidi comparire sullo
schermo la risposta. La lessi rapidamente e con un sobbalzo mi accorsi che era
proprio ciò che cercavo: “Ma è fantastico! Senti cosa scrive: interessante domanda!
Se immaginiamo di interpretare la tua domanda in senso figurato, potremmo
considerare l'esperienza di essere Moby Dick come una sorta di riflessione sullo
stato d'animo e l'essenza dell'omonima balena bianca. Naturalmente, come esseri
umani, non possiamo sperimentare direttamente ciò che si prova ad essere un
animale o un oggetto inanimato. Tuttavia, possiamo provare a riflettere su alcune
delle caratteristiche e degli aspetti di Moby Dick per ottenere una comprensione
approssimativa. E poi continua…”
Danilo mi bloccò subito. Scosse di nuovo la testa con aria rassegnata, come se avesse
davanti a sé un idiota incapace di capire. Ticchettò con un dito sullo schermo: “Credi
che tutto questo lei non l’abbia già visto? Scommetto uno contro dieci che è stata la
prima cosa che ha fatto”.
“E allora?” chiesi, di nuovo senza speranza.
“E allora ti ci vuole altro”. Mi guardò con aria sardonica, come il prestigiatore che sta
per completare un suo trucco ben preparato e mi spiegò.
“Probabilmente sai che esiste una cosa chiamata dark web, un fondo segreto della
rete a cui pochi accedono, una cosa in genere piuttosto brutta e pericolosa. Ma
proprio lì puoi trovare in mezzo a tante schifezze quello che stai cercando:
programmi di intelligenza artificiale che ti risolvono i problemi molto meglio di
quelli che sono per tutti. Guarda questo”.
Smanettò di nuovo ed aprì una pagina apparentemente identica alla precedente. Ma
quando inserì la domanda: che cosa proverei ad essere Moby Dick? la risposta mi
sorprese, perché anziché una ricca spiegazione proponeva a sua volta un’altra
domanda:
“Perché lo vuoi sapere?”
Stavo per inventare qualche finto motivo, quando, chissà perché, mi convinsi che era
meglio dire la verità. Scrissi:
“Perché voglio convincere la mia ragazza che io so che cosa si prova ad essere Moby
Dick”.
Dagli altoparlanti uscì una poderosa risata. Lo schermo si illuminò più intensamente e
dopo pochi secondi comparve la risposta:
“E allora sii te stesso”.
Queste parole risplendevano.
Era tutto così semplice...

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