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A MARIANNA

A qualche metro la guardia del corpo. Dietro, in basso, il leader. Attorno altri sette uomini. Alti, con occhiali
neri a specchio. Mitraglietta in mano. E io lì. Sorridente. Pigiata tra un’infinità di popolo altrettanto
sorridente, un po’ fuori di sé. Signore con rossetto, molto rosso, e fondotinta impeccabile. Signori con
cravatta, molto azzurra, qualcuna a pois. Piccoli. Bianchi. Signore e signori urlano o per lo meno fanno
gridolini stucchevoli in tanta eleganza. Strette di mano, facendosi spazio tra le guardie armate. Ma il leader
incoraggia, permette, sicuro di essere adorato, consente e si offre. E io pure. Tendo la mano, enorme
sorriso, lo accompagno con lo sguardo più entusiasta che mi riesce e lui mi sfiora con la punta della dita la
mano, la mia mano sinistra. E con la destra gli sparo. Mentre lo spiraglio tra di noi si chiude perché le
guardie mi afferrano per i capelli, per le spalle, per i polsi e un pugno mi colpisce in pieno viso, o forse una
gomitata, nel movimento goffo che fa tutto il girotondo attorno a me. Ho appena il tempo di vedere non i
suoi occhi – per fortuna – ma la sua bocca che si storce in un ghigno di sorpresa, più che di paura. L’ho
ucciso, ne sono certa. Mentre la stessa cosa vogliono fare a me non solo gli armati, ma tutta la folla. Il
popolo che ho liberato.

E’ solo una fantasia. E nasce da una lezione a scuola. E’ arrivato anche oggi il momento che si ripete ogni
anno nelle varie classi in cui mi capita di insegnare: “professore’! Ma a che serve la storia? A me non mi
piace”. E, come sempre, non mi sconvolge l’errore grammaticale, perché sono troppo dispiaciuta dal fatto
di non essere riuscita a trasmettere il mio amore per questa materia, di non averli coinvolti nel mio
entusiasmo, di non averli affascinati. Ultimamente non cerco più di convincerli dell’ importanza della Storia,
maestra di vita e cazzate di questo tipo, oppure ginnastica per la mente - più delle lezioncine di grammatica,
che odio, e considero “scienza a posteriori” Non spiego più come la Storia consenta di capire che esiste
sempre un rapporto di causa-effetto e ogni evento ne determina un altro, con un legame complesso. Ecco,
la Storia insegna la complessità, insegna a capire che la complessità esiste. Adesso, che tutti i media e tutte
le discussioni da bar (e sono sinonimi) riducono tutto alla banalità del hic et nunc, io mi adatto e sono
piuttosto brutale, ma chiara e convincente: “Ragazzi, ma chi vi ha detto che la vita comincerà solo quando
avrete finito la scuola? La vostra vita è anche qui e ora. E studiare la Storia vi serve per non essere bocciati”.
Punto. E li convinco, o almeno li zittisco. Ma giusto oggi sono tornata sui vecchi argomenti de “la storia
siamo noi, nessuno si senta escluso”. E lì è difficile dimostrare che la nostra, singola, individuale, irripetibile
esistenza modifichi o determini la Storia . E non sono i grandi a farla ma … E qui può scattare la trappola del
“chi sarebbe stato Napoleone senza i suoi soldati etc. etc.” I grandi e le comparse. E se vuoi essere più
protagonista? Non è che devi ammazzare, per caso, il tiranno? Da qui la fantasia.

Ma se non vuoi diventare un assassino? Se non vuoi diventare un dittatore o al massimo la moglie del
dittatore? Se vuoi che si ricordi la tua vita, che si sappia che tu sei esistita, che ha avuto un senso il tuo
esserci stata, al di là di te e dei pochi anni che ci sarai? Se sei stata una persona intelligente, importante per
chi ti ha conosciuto, forse determinante? Perché poi non ci sei più, e restano solo i tuoi vestiti nell’armadio
perché c’è qualcuno che non sa darli via, come se tu potessi tornare, e se non torni è solo perché non ne hai
voglia. E quando quel qualcuno non ci sarà più, dove andrà il ricordo di te, del tuo esserci stata, del tuo
esser stata “Storia”? Parlo di mia madre.

Mia madre è stata una distinta signora del popolo. Di quelle con i capelli tinti castano chiaro, con la
permanente e con gli occhiali. Gli occhi cerulei e piuttosto stretti, il naso dritto, i denti forti e bianchi. Mia
madre si faceva la croce prima di mangiare, aveva una bella voce decisa e chiara e gesticolava molto
quando parlava. Soprattutto con gli estranei, incassando per un vezzo timido la testa, piegandola un po’ tra
le spalle, sul suo collo breve. Per truccarsi usava solo il rossetto e non usciva mai senza. E la lacca. E una
crema Avon per il viso. E aveva belle mani, mia madre, con i mignoli un po’ piegati come le madonne in
alcuni quadri rinascimentali. E’ stata una donna forte e determinata. Ma gentile. Tranne con me e mio
fratello. Di me non era contenta mai. Non le piacevo e, cercando di correggermi, spesso finiva invece per
offendermi e ho pianto spesso di rabbia per quello che mi diceva. Ma l’ho amata profondamente per tutta
la vita e ho sempre saputo che mi avrebbe lasciata.

La mia infanzia è stata segnata dal distacco. Si alzava alle cinque e mezza, mia madre, per andare a lavorare
in fabbrica. Per qualche anno andava a piedi alla stazione poi decisero di passare a prendere gli operai con
un pulmino, e io mi sentii sollevata. Quando mi capitava di svegliarmi al suono della sua sveglia, mi assaliva
un’ansia che era pena per lei e per il suo sacrificio. Pensavo si stancasse e avevo paura che si facesse male e
non tornasse. Allora mi raggomitolavo nelle coperte, sotto il piumone pesante di piume d’oca e piangevo.
Una mattina, con lei che aveva appena chiuso la porta, mi convinsi che se non facevo qualcosa sarebbe
morta e, visto che all’epoca avevo un dialogo sicuro con Dio, gli chiesi di non farla morire e sentii la sua vita
nelle mie mani. Era successa un’altra cosa terribile che mi faceva temere per lei. Era giovane, mia madre, e
in un raro momento di allegra intimità, mi aveva confidato – così, per celia – che una zingara le aveva
predetto che sarebbe morta a trentasei anni. E ancora non li aveva trentasei anni! Fu una cosa atroce,
avermelo raccontato. Quando anni dopo le rinfacciai di avermi così rovinato l’infanzia, così come le
rinfacciai tutto (niente è rimasto in sospeso tra noi) lei negò di avermi mai detto una cosa del genere. Mi
disse che ricordava questa lettura della mano, ma le aveva solo detto che a trentasei anni avrebbe avuto un
problema agli occhi e nient’altro. E vita lunga. Non mi convinse. Perché mai avrei dovuto torturarmi senza
un motivo così forte? Quella notte comunque risolsi la mia angoscia a modo mio. Chiesi a Dio di far vivere
mia madre per un numero di anni pari ai secondi che sarei riuscita a contare prima che un qualsiasi rumore
mi interrompesse. E arrivai, col cuore che mi scoppiava e il fiato che mi mancava, a 104 prima che fuori si
udissero le campane. Mia mamma sarebbe vissuta centoquattro anni. Rinnovai quel patto con gesti
scaramantici di ogni tipo, accendendo e spegnendo la luce dieci volte, mettendo le scarpe ben allineate
lungo il limite della mattonella, guardandomi allo specchio cinque volte prima di uscire da una stanza,
reggendo il bicchiere con la mano sinistra, rileggendo dalla fine al principio una pagina già letta, salendo
una rampa di scale sulle ginocchia … e questo fino ai miei quarant’anni! Quell’anno mia madre morì dopo
sei mesi di sofferenze. Aveva sessantotto anni. Ne mancavano 36 ai 104. E credo che la cosa che mi
impedisce di dimenticare anche solo per un attimo il mio dolore, oltre al mio identificarmi in mia madre e
nella sua morte, è quella truffa ad una bambina che si era fidata e addormentata tranquilla perché la sua
preghiera era stata sicuramente accolta.

Questa certezza l’avevo raccontata a mia madre e lei sembrava non prendermi tanto sul serio. Tranne il
giorno in cui compì sessantasei anni. Mi disse che si sentiva così forte da credere quasi possibile la mia
“previsione”. Anzi la sera che la festeggiammo (blandissima celebrazione, con mio padre, mio fratello, mia
cognata e i miei due bellissimi nipotini) lei raccolse il 66 di plastica che avevamo posto sulla torta e
ammiccando con complicità, mi fece vedere come lo capovolgeva, facendolo diventare un 99. E ridendo
disse: “Questo lo conserviamo”. Risi anch’io, veramente felice per lei, per il suo buonumore e per la
serenità che aveva voluto comunicarmi e regalarmi.
Collezionavamo segni della benevolenza del destino.

Ora non so che fare. Non inteso come “non so come organizzarmi la giornata”, ma proprio che senso darle.
Che senso dare alle giornate? La mia vita non girava attorno a mia madre, ma sicuramente sapere che c’era
e stava bene mi “illuminava la via”. Io sono sempre stata apparentemente propensa ad una visione cinica
della vita e senza grandi illusioni. L’”ironia distaccata” che mi caratterizza era già presente in me. Ma, in
fondo, avevo una visione “magica” delle cose, dei gesti, degli incontri, dei fatti. E anche mia madre ce
l’aveva.

- Vengono sempre qua i bambini, a chiedere da bere. Chissà cosa vuol dire.

Era vero. Bambini di tutto il quartiere, che magari abitavano una porta prima, infilavano la testa da lei per
poter avere un bicchier d’acqua. Sapevano che era disponibile, che con lei si poteva parlare, che lei avrebbe
fatto qualche commento o qualche osservazione simpatica, diretta a loro, individui, e anche se poi non
aggiungevano niente al loro veloce sorseggiare l’acqua fresca e scappavano via lasciando il bicchiere
sull’orlo del tavolo, era lì che volevano bere.

- Quasi non riuscivo ad arrivare in cima alla Scala Santa, mancavano due, tre gradini e, in ginocchio,
non ce la facevo più. Ma una signora allegra mi ha dato una mano, mi ha detto “forza, ch’è fatta” e sono
salita anch’io. Chissà cosa vuol dire.

- Quando arrivo a messa, la chiesa piena da scoppiare, trovo sempre un posto a sedere, qualcuno che
aveva tenuto una sedia occupata per un parente e decide, appena mi vede, che non verrà più, che ne avrà
trovata un’altra, e la cede a me. Oppure tutta la fila sulla panca si sposta per darmi spazio ed io mi siedo, e
siamo tutti comodi. Chissà cosa vuol dire.

Era vero. Era incredibile! Anche sull’autobus, in questo mondo di cafoni che non si sarebbero alzati per
nessun motivo, davanti a mia madre, in piena salute, che non chiedeva niente a nessuno, si alzavano e le
cedevano il posto con mille insistenze. Chissà cosa voleva dire.

E collezionavamo segni della benevolenza del destino.

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