IRVIN D. YALOM
Diventare se stessi
traduzione dall’inglese di
Serena Prina
Titolo originale:
Becoming Myself
© 2017 by Irvin D. Yalom
ISBN 978-88-545-1689-2
La prima fase della mia vita si divide in due parti: prima e dopo il mio
quattordicesimo compleanno. Fino ai quattordici anni ho vissuto con mio
padre, mia madre e mia sorella nel nostro piccolo e modesto appartamento
sopra la drogheria. L’appartamento era esattamente sopra il negozio, ma
l’ingresso era all’esterno, proprio dietro l’angolo. C’era un atrio dove
veniva lasciato il carbone, quindi la porta non veniva chiusa a chiave.
Quando faceva freddo, capitava di trovare uno o due ubriachi addormentati
sul pavimento.
Al piano di sopra c’erano le porte di due appartamenti: il nostro era
quello che dava su First Street. Avevamo due camere da letto, una per i
genitori e l’altra per mia sorella. Io dormivo nella piccola sala da pranzo, su
un divano che poteva essere trasformato in letto. Quando compii dieci anni
mia sorella andò al college e io presi possesso della sua camera. C’era una
piccola cucina con un tavolino sul quale consumavo tutti i miei pasti.
Durante l’intera infanzia mai, nemmeno una volta, ho pranzato con mio padre
o mia madre (eccetto la domenica, quando si riuniva l’intera comunità
familiare, dalle dodici alle venti persone). Mia madre cucinava e lasciava il
cibo sui fornelli, e io e mia sorella mangiavamo seduti al tavolino della
cucina.
I miei amici vivevano in luoghi simili, quindi mai mi era venuto il
desiderio di un appartamento più carino, ma il nostro aveva un unico e
persistente orrore: gli scarafaggi. Erano dappertutto, nonostante gli sforzi per
sterminarli: io ne ero (e ne sono tuttora) terrorizzato. Ogni notte mia madre
infilava le zampe del mio letto in ciotole piene d’acqua o di cherosene, per
impedire che s’arrampicassero fin dentro il letto. Tuttavia spesso mi
cadevano sopra dal soffitto. La notte, quando le luci erano spente, la casa era
loro, e potevo sentirli strisciare veloci sul pavimento di linoleum della
nostra minuscola cucina. Non osavo andare in bagno a fare pipì di notte, e
usavo invece un vaso che tenevo accanto al letto. Ricordo che una volta,
quando avevo all’incirca dieci o undici anni, stavo leggendo un libro in
salotto quando uno scarafaggio gigante volò attraverso la stanza e mi atterrò
in grembo (sì, gli scarafaggi possono volare; non lo fanno spesso, ma
possono!). Mi misi a urlare e mio padre accorse, lo buttò per terra e lo
schiacciò. La vista dello scarafaggio spappolato fu la cosa peggiore, e corsi
in bagno a vomitare. Mio padre cercò di calmarmi, ma non riusciva davvero
a comprendere come potessi essere così sconvolto da un insetto morto. (La
mia fobia degli scarafaggi è ancora qui, in stato d’ibernazione, ma da tempo
ormai non ha ragione di attivarsi: Palo Alto è un posto troppo secco per gli
scarafaggi e non ne vedo più uno da mezzo secolo: uno dei grandi vantaggi
della vita in California.)
Poi, un giorno, quando avevo quattordici anni, mia madre mi disse, quasi
per caso, che aveva comprato una casa e che molto presto ci saremmo
trasferiti. La cosa che ricordo, subito dopo, fu il mio ingresso nella nostra
nuova casa, in una strada graziosa e tranquilla a un solo isolato da Rock
Creek Park. Era una casa a due piani, ampia e bella, con tre camere da letto
e una sala giochi foderata di legno di pino nel seminterrato, un porticato
laterale coperto e un piccolo prato circondato da una siepe. Il trasferimento
era stato quasi completamente opera di mia madre: era stata lei ad acquistare
la casa, senza che mio padre si assentasse mai dal negozio per vederla.
Quando traslocammo? Vidi gli addetti ai traslochi? Quale fu la mia prima
impressione della casa? Come andò la mia prima notte lì dentro? E che dire
dell’enorme piacere di dire addio per sempre a quell’appartamento infestato
dagli scarafaggi, alla vergogna, alla sporcizia e alla povertà, e agli ubriachi
che dormivano nel nostro atrio? Devo aver sperimentato tutte queste cose,
ma rammento molto poco. Forse ero troppo preoccupato e ansioso all’idea
di passare a una nuova scuola, e di farmi nuovi amici. Ricordi ed emozioni
hanno una relazione curvilinea: un’emozione eccessiva o troppo ridotta
spesso provoca una carenza nel ricordo. Rammento bene di aver vagato per
la nuova casa e per il cortile pulito in preda allo stupore. Devo essere stato
orgoglioso di invitare gli amici nella nuova casa, devo essermi sentito più
tranquillo, meno spaventato, mi dev’essere stato più facile dormire lì dentro,
ma tutte queste sono solo supposizioni. Quello che davvero ricordo nel modo
più nitido di tutto quel periodo è la storia che mia madre raccontava con
orgoglio a proposito dell’acquisto del tavolo rosso.
Aveva deciso di comprare tutto nuovo e di non tenere nulla del vecchio
appartamento: nessun mobile, niente biancheria, nulla, con l’eccezione delle
pentole da cucina (quelle che uso ancora oggi). Anche lei doveva essere
stufa del modo in cui vivevamo, anche se non mi parlava mai dei suoi
desideri e sentimenti intimi. Tuttavia, più di una volta, mi raccontò la storia
del tavolo. Dopo aver comprato la casa era andata al Grande Magazzino
Mazor, un negozio di mobili molto popolare all’epoca, frequentato da tutte le
sue amiche, e in un unico pomeriggio aveva ordinato tutto il necessario per
una casa con tre camere da letto, inclusi i tappeti, gli arredi per la casa e il
porticato, e le sedie da giardino. Doveva trattarsi di un ordine enorme e,
proprio mentre il venditore stava facendo la somma, un vistoso tavolo da
gioco in stile neo-barocco con il ripiano in cuoio d’un rosso brillante e
quattro sedie in cuoio rosso abbinate attirò la sua attenzione. Mia madre
disse al venditore di aggiungere all’ordine il tavolo e le sedie. Lui le rispose
che quel particolare articolo era già stato venduto e che, purtroppo, per
colmo di sfortuna, non ce n’erano altri disponibili: quel modello non era più
in produzione. A quel punto mia madre gli disse di cancellare l’intero ordine
e prese in mano la borsa, pronta ad andarsene.
Forse faceva sul serio. Forse no. In ogni caso, la mossa funzionò. Il
venditore capitolò e il tavolo fu suo. Tanto di cappello, madre, per un bluff
così audace: ho giocato molto a poker, ma questo è il miglior bluff di cui
abbia sentito parlare. A volte sono stato tentato dall’idea di scrivere una
storia dal punto di vista della famiglia che non ha avuto il tavolo. C’è della
forza in quest’idea, si potrebbe raccontare la storia da entrambe le
prospettive, quella del grande bluff di mia madre e quella della delusione
dell’altra famiglia.
Possiedo ancora quel tavolo, nonostante mia moglie si lamenti che non
s’abbina a nulla nella nostra casa. Sebbene i suoi limiti estetici siano
evidenti anche a me, quel tavolo racchiude in sé i ricordi delle partite a
scacchi domenicali con mio padre e con gli zii, e in seguito con i miei figli e
nipoti. Quando ero alla scuola superiore giocavo nella squadra di scacchi e
indossavo con fierezza una felpa sportiva con sopra disegnato un grosso
pezzo del gioco. La squadra, composta da cinque membri, affrontava tutte le
scuole superiori di Washington. Io giocavo per primo e, dopo essere uscito
imbattuto dal mio ultimo anno a scuola, mi consideravo il campione
giovanile della città. Ma non migliorai mai abbastanza da poter giocare a un
livello superiore, in parte per colpa di mio zio Abe, che sbeffeggiava l’idea
di seguire le regole tradizionali, soprattutto nelle mosse d’apertura. Ricordo
come indicava la mia testa, diceva klug (intelligente) e m’incitava a usare la
mia buona kopf (testa) di Yalom e a giocare in modo poco ortodosso, per
confondere gli avversari. Questo in seguito si rivelò un pessimo consiglio.
Smisi di giocare a scacchi durante gli anni del college, prima della facoltà di
medicina, ma il giorno dopo esservi stato ammesso provai a entrare nella
squadra dell’università. Giocai come secondo membro per il resto del
semestre e poi, quando cominciai davvero a studiare, smisi di nuovo fino a
quando non mi decisi a insegnare a giocare ai miei figli, Victor e Reid, che
divennero giocatori eccellenti. Solo negli ultimi anni ho ripreso a
impegnarmi seriamente negli scacchi. Ho cominciato a prendere lezioni da
un maestro russo e ho visto lievitare il mio punteggio su Internet. Ma ormai è
troppo tardi, temo: l’inevitabile declino della memoria è un avversario
invincibile.
Se fosse dipeso da mio padre avremmo continuato a vivere sopra al
negozio a tempo indeterminato. Sembrava quasi indifferente a quello che lo
circondava. Mia madre gli comprava tutti i vestiti e gli diceva cosa
indossare, persino la cravatta, quando uscivamo la domenica.
Mio padre aveva una bella voce e amavo sentirlo cantare canzoni yiddish
assieme a zia Luba alle riunioni di famiglia. A mia madre invece non
importava nulla di nessun tipo di musica, e non l’ho mai sentita cantare una
sola nota: quel gene dev’essere passato da lei a me. La domenica mattina io
e mio padre giocavamo quasi sempre a scacchi sul tavolo barocco rosso, e
lui metteva delle canzoni yiddish sul fonografo e cantava, accompagnandole,
finché mia madre strillava: «Genug, Barel, genug!, basta così, Ben, basta
così!» e lui obbediva sempre. Erano le occasioni in cui mi deludeva di più:
avrei tanto voluto che invece le tenesse testa e l’affrontasse. Ma non accadde
mai.
Mia madre era un’ottima cuoca e spesso penso ai piatti che cucinava.
Spesso, ancora oggi, cerco di rifarli utilizzando le sue pentole massicce di
alluminio. Sono molto legato a quelle pentole. Il cibo ha un gusto migliore
quando le uso. I miei figli spesso le concupiscono, ma io ci sono ancora
troppo affezionato.
Quando traslocammo nella nostra nuova casa, mia madre cucinava ogni
giorno e poi guidava per venti minuti per raggiungere il negozio, dove
trascorreva il resto della giornata e della serata. Io riscaldavo il cibo e
mangiavo da solo, leggendo un libro. (Mia sorella Jean aveva cominciato a
frequentare l’Università del Maryland.) Mio padre veniva a casa a mangiare
e a schiacciare un pisolino, ma i nostri orari raramente coincidevano.
Blagden Terrace, la nostra nuova strada, era fiancheggiata da alti alberi di
sicomoro piantati davanti a case grandi e belle, tutte piene di ragazzini della
mia età. Ricordo come venni accolto il primo giorno. I bambini della via,
che stavano giocando a calcio, mi chiamarono subito a gesti: avevano
bisogno di altri giocatori, e io mi tuffai in mezzo a loro. Più tardi, quello
stesso giorno, direttamente sull’altro lato della strada, sul prato davanti a
casa sua, vidi il tredicenne Billy Nolan che lanciava la palla con il vecchio
nonno che, come seppi in seguito, un tempo era stato un lanciatore dei Boston
Red Sox. Io e Billy un giorno avremmo giocato a baseball insieme. Ricordo
anche la mia prima passeggiata per l’isolato. Adocchiai nel giardino di una
casa uno stagno con diverse foglie di ninfea, e la cosa mi eccitò moltissimo
perché sapevo che in quell’acqua avrei raccolto eccellenti campioni per il
mio microscopio: sciami di larve di zanzare che galleggiavano in superficie
e orde di amebe che avrei potuto grattar via dal fondo delle foglie di ninfea.
Ma come raccogliere quei campioni? Nel mio vecchio quartiere mi sarei
intrufolato nel giardino di notte e avrei rubato alcune creature sacrificabili
dallo stagno. Ma non avevo idea di come ci si dovesse comportare lì.
Blagden Terrace e dintorni offrivano un ambiente idilliaco. Niente
sporcizia, niente pericolo, niente crimine e mai un commento antisemita. Mio
cugino Jay, che è mio amico intimo da una vita, si era trasferito anche lui a
soli quattro isolati di distanza, e ci incontravamo spesso. Rock Creek Park
era a soli due isolati da casa, con il suo ruscello, le piste ciclabili, i campi
da baseball e da tennis. Nel vicinato si giocavano partite di baseball quasi
ogni giorno, dopo la scuola e fino a sera.
Tanti saluti ai ratti! Tanti saluti agli scarafaggi, al crimine, al pericolo e
alle minacce antisemite. Adesso la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Di
quando in quando tornavo al negozio per dare una mano, quando c’era
carenza di lavoranti, ma per lo più mi ero lasciato alle spalle quei luoghi
sordidi. E non avrei mai più dovuto mentire su dove abitavo. Se solo Judy
Steinberg, la mia ragazzina del campo estivo, avesse potuto vedere la mia
nuova casa!
10.
L’incontro con Marilyn
Incoraggio sempre gli studenti che aspirano a diventare terapeuti a sottoporsi
a una terapia personale. «Il vostro “io” è lo strumento più importante che
avete a disposizione. Imparate tutto quello che potete al riguardo. Non
lasciate che i vostri punti ciechi intralcino la comprensione dei pazienti o la
possibilità di entrare in empatia con loro». E tuttavia dall’età di quindici
anni sono stato così strettamente legato a un’unica donna e in seguito così
circondato dalla mia grande famiglia, che spesso mi domando se sono
davvero in grado di capire il mondo di una persona che viaggia attraverso la
vita da sola.
Penso spesso ai miei anni prima di Marilyn come a un periodo in bianco e
nero: il colore si è manifestato dopo che lei ha fatto il suo ingresso nella mia
vita. Ricordo il nostro primo incontro con una chiarezza sovrannaturale. Ero
al decimo anno della Roosevelt High School e vivevo in quella zona da
circa sei mesi. Un sabato, all’inizio della serata, dopo aver trascorso un paio
d’ore a giocare a bowling, Louie Rosenthal, uno dei miei compagni di gioco,
mi disse che c’era una festa lì vicino, in casa di Marilyn Koenick, e propose
di andarci. Ero timido, non amavo molto le feste e non conoscevo Marilyn,
che era al nono anno, mezzo semestre più indietro rispetto a me, ma siccome
non avevo altro da fare, accettai.
La casa era una modesta casetta a schiera in mattoni, identica a tutte le
altre case di Fourth Street, tra la Farragut e la Gallatin, con pochi gradini che
portavano al piccolo porticato d’ingresso. Nell’avvicinarci, vedemmo un
gruppo di ragazzini della nostra età che s’affollava sulla scala e nel
porticato, cercando di entrare dalla porta d’ingresso. Io, con la mia scarsa
socialità, girai immediatamente i tacchi e feci per tornarmene a casa, ma
Louie, l’amico pieno di risorse, mi afferrò per un braccio, indicò la finestra
che dava sul portico e propose di aprirla e infilarci dentro. Lo seguii
attraverso la finestra e ci facemmo strada tra la gente fino all’atrio dove,
esattamente al centro della folla che le girava attorno, una ragazza vivace,
molto piccola, molto graziosa, con i capelli castani, teneva banco. «È lei,
quella piccola, lei è Marilyn Koenick» disse Louie mentre s’avviava verso
la stanza attigua alla ricerca di qualcosa da bere. Ora, come ho detto, in
genere ero molto timido, ma quella notte stupii me stesso e, invece di fare
dietro front e battere in ritirata attraverso la finestra, avanzai tra la folla e mi
feci strada fino alla padrona di casa. Quando la raggiunsi non avevo idea di
cosa dirle e mi limitai a blaterare: «Salve, sono Irv Yalom e mi sono appena
intrufolato attraverso la tua finestra». Non ricordo le parole che
scambiammo prima che l’attenzione di lei venisse distratta da qualcun altro,
ma so che a quel punto ero spacciato: ero attratto da lei come un chiodo da
una calamita, ed ebbi la sensazione immediata, no, più che la sensazione la
convinzione, che quella ragazza avrebbe svolto un ruolo cruciale nella mia
vita.
Le telefonai il giorno dopo, in preda al nervosismo, la mia prima
telefonata a una ragazza, e la invitai al cinema. Era il mio primo
appuntamento. Di cosa parlammo? Ricordo che mi disse che di recente era
stata sveglia tutta la notte a leggere Via col vento, e si era dovuta assentare
da scuola il giorno successivo. Trovai la cosa così adorabile che quasi persi
la testa. Eravamo tutti e due amanti della lettura e immediatamente ci
ritrovammo immersi in interminabili discussioni sui libri. Per qualche
ragione sembrava provare un grande interesse per la mia dedizione alle
biografie della biblioteca centrale. Chi mai avrebbe potuto anche solo
immaginare che la mia avventura con le biografie dalla A alla Z si sarebbe
rivelata così utile? Ci suggerivamo i libri a vicenda: in quel periodo io
divoravo John Steinbeck e lei stava leggendo libri che non avevo mai preso
in considerazione, come Jane Eyre e Cime tempestose. A me piaceva James
Farrell, a lei Jane Austen, ed entrambi amavamo Thomas Wolfe – a volte ci
leggevamo a voce alta i brani più melodiosi di Angelo, guarda il passato.
Dopo solo qualche appuntamento scommisi trenta dollari con mio cugino Jay
che l’avrei sposata. Me li diede il giorno del mio matrimonio!
Che cosa c’era di speciale in lei? Mentre scrivo le mie memorie e torno a
familiarizzare con il mio “io” più giovane e mi rendo conto di quanto fossi
incasinato e quanto mi sia lamentato tutta la vita di non aver avuto un
mentore, all’improvviso mi viene in mente che io un mentore l’ho avuto! È
stata Marilyn. Il mio inconscio aveva afferrato che lei era l’unica persona in
grado di civilizzarmi ed elevarmi. La storia della sua famiglia era
abbastanza simile alla mia da farmi sentire a casa con lei, ma ne differiva
solo nei punti giusti. Anche i suoi genitori erano immigrati dall’Europa
orientale, ma erano giunti un quarto o mezza generazione prima dei miei e
avevano ricevuto una qualche istruzione laica. Il padre era arrivato da
adolescente, ma non nelle ristrettezze economiche del mio. Aveva avuto
un’istruzione, era un romantico, amava l’opera, e aveva viaggiato per il
paese come il suo eroe, Walt Whitman, svolgendo una varietà di lavori poco
qualificati per mantenersi. Dopo aver sposato Celia, la madre di Marilyn,
una donna dolce e bellissima che era cresciuta a Cracovia e non possedeva
traccia della grossolanità e della rabbia di mia madre, aveva aperto una
drogheria che, anni dopo il nostro incontro, scoprimmo che si trovava a un
solo isolato dal negozio di mio padre! A piedi o in bicicletta, devo essere
passato centinaia di volte davanti a quel negozio. Ma suo padre aveva avuto
la lungimiranza di non costringere la famiglia a vivere in quel quartiere
turbolento, insicuro, impoverito, così Marilyn era cresciuta in un quartiere
piccolo-borghese, modesto ma sicuro, e non aveva quasi mai messo piede
nel negozio del padre.
I nostri genitori s’incontrarono molte volte dopo che cominciammo a
uscire insieme e, paradossalmente, i suoi svilupparono un grande rispetto nei
confronti dei miei. Suo padre era consapevole che il mio era un uomo
d’affari di successo, e percepiva correttamente che mia madre possedeva
una mente acuta e penetrante, e che era lei la vera forza motrice alle spalle
del successo di mio padre. Sfortunatamente il padre di Marilyn morì quando
avevo ventidue anni e non ho mai avuto l’opportunità di conoscerlo bene,
anche se fu lui a portarmi per la mia prima volta all’opera (Il pipistrello).
A scuola Marilyn era indietro di sei mesi rispetto a me, e a quell’epoca
c’erano cerimonie per i diplomi a febbraio e a giugno. Pochi mesi dopo
averla incontrata assistetti al suo diploma, in febbraio, alla McFarland
Junior High (che era accanto alla mia scuola superiore) e l’ascoltai con
venerazione quando, con notevole compostezza, fece il suo discorso di
commiato. Oh, come ammiravo e amavo quella ragazza!
Fummo inseparabili per tutta la durata della scuola superiore: ogni giorno
pranzavamo assieme e, invariabilmente, ci vedevamo ogni fine settimana.
Provavamo una tale dedizione forte e condivisa per la letteratura che
qualsiasi altro interesse sembrava del tutto insignificante. Molto presto lei si
era innamorata della lingua, delle letteratura e della cultura francesi, mentre
io preferivo le scienze. Ero in grado di compiere l’impresa piuttosto
straordinaria di sbagliare la pronuncia di qualsiasi parola francese
incontrassi, mentre, per parte sua, quando utilizzava il mio microscopio lei
riusciva a vedere solo le proprie ciglia. Amavamo entrambi le lezioni di
letteratura inglese e, a differenza di altri studenti della scuola, eravamo
estasiati dalle letture che ci venivano assegnate: La lettera scarlatta, Silas
Marner, Il ritorno del nativo.
Un giorno, alle superiori, tutte le lezioni del pomeriggio vennero sospese
per permettere all’intera scuola di assistere alla proiezioni del film
britannico del 1946 Grandi speranze. Eravamo seduti vicini e ci tenevamo
per mano. Il film rimane uno dei nostri preferiti di sempre; con il passare dei
decenni, probabilmente abbiamo accennato a questo film centinaia di volte.
Mi spalancò il mondo di Dickens e nel giro di breve tempo divorai ogni
singolo libro da lui scritto. Li ho riletti molte volte da allora. Anni dopo,
quando tenevo conferenze e viaggiavo molto per gli Stati Uniti e la Gran
Bretagna, presi l’abitudine di visitare i negozi di libri usati e di comprare le
prime edizioni di Dickens. Rimangono l’unica cosa che abbia mai
collezionato.
Marilyn, anche allora, era così adorabile, intelligente e abile nelle
relazioni sociali da avere la meglio su tutti i suoi insegnanti. In quegli anni io
ero molte cose, ma nessuno, nemmeno nei sogni più sfrenati, avrebbe pensato
a me come a una persona adorabile. Ero un bravo studente ed eccellevo nelle
scienze e anche in inglese, con la signorina Davis che regolarmente
aumentava la mia impopolarità lodando i miei temi e inserendoli nella
bacheca della scuola. Sfortunatamente l’ultimo anno fui assegnato alla classe
della signorina McCauley, l’altra insegnante di inglese, che era anche
l’insegnante di Marilyn e la stimava moltissimo. Un giorno, nell’atrio, mi
vide mentre mi sporgevo sopra l’armadietto di Marilyn, chiacchierando con
lei, e da allora si rivolse sempre a me apostrofandomi come «il cowboy
dell’armadietto». Non mi perdonò mai per la corte che facevo a Marilyn e in
classe con lei non avevo speranze. Aveva l’abitudine di fare commenti aspri
e carichi di derisione sui miei temi scritti. Mi prendeva in giro per aver
interpretato goffamente la parte del messaggero in una lettura in classe di Re
Lear. Di recente due dei miei figli, sfogliando vecchie carte trovate in un
cassetto, si sono imbattuti in un testo entusiasta che avevo scritto sul
baseball, che la signorina McCauley aveva valutato “Appena sufficiente”, e
si sono sentiti profondamente offesi da commenti tipo: «Assurdo!» o «Un
simile entusiasmo per simili banalità», con i quali aveva impietosamente
costellato le mie pagine. E, badate bene, stavo scrivendo di giganti quali
Jolting Joe DiMaggio, Phil Rizzuto, King Kong Keller, Smokey Joe Page e il
“buon vecchio” Tommy Henrich.
Non ho mai dimenticato la grande fortuna di aver avuto Marilyn nella mia
vita da quando avevo quindici anni. Ha elevato i miei pensieri, stimolato la
mia ambizione e mi ha offerto un modello di grazia, generosità e dedizione a
una vita intellettuale. Quindi grazie, Louie, ovunque tu sia. Grazie per avermi
aiutato a strisciare attraverso quella finestra.
11.
I giorni del college
Due anni fa me ne stavo seduto in un caffè di Sausalito con il mio amico
Larry Zaroff, ammirando la baia di San Francisco. Il vento faceva
ondeggiare nell’aria i gabbiani e noi guardavamo il vaporetto di Sausalito
che avanzava a fatica verso la città, fino a sparire dalla nostra visuale. Io e
Larry ci stavamo abbandonando ai ricordi degli anni del college: eravamo
stati compagni di classe alla George Washington University e avevamo
seguito la maggior parte delle lezioni assieme: corsi estenuanti come chimica
organica, analisi qualitativa e anatomia comparata, nel corso della quale
sezionavamo ogni singolo organo e muscolo di un gatto. Eravamo persi nei
ricordi di giorni che, per me, erano stati i più stressanti della mia vita,
quando Larry si era lanciato nel racconto della festa scatenata di una
confraternita, a base di bevute turbolente e valanghe di studentesse
disponibili.
Avevo rizzato le orecchie. «Confraternita? Quale confraternita?»
«Ma la TEP , ovviamente».
«Di cosa stai parlando?»
«Della Tau Epsilon Pi. Che ti prende oggi, Irv?»
«Che mi prende? Sono davvero turbato. Ti vedevo ogni giorno al college
e non ho mai sentito parlare di una confraternita alla GW. Perché non mi è
stato proposto di farne parte? Perché non mi hai invitato?»
«Irv, come puoi aspettarti che me lo ricordi? Siamo nel 2014, e noi
abbiamo cominciato la GW nel 1949».
Appena tornato a casa, avevo telefonato al mio caro amico Herb Kotz, a
Washington. Io, Herb e Larry eravamo sempre insieme al college. Eravamo i
tre migliori studenti di tutte le lezioni a cui partecipavamo, e andavamo a
scuola in macchina e pranzavamo insieme quasi ogni giorno.
«Herb, poco fa ho parlato con Larry, e mi ha detto che alla GW
apparteneva a una confraternita, la TEP . Lo sapevi?»
«Be’, certo. Ne facevo parte anch’io».
«COSA? Anche tu? Non ci posso credere. Perché non mi avete chiesto di
farne parte?»
«Chi si può ricordare una cosa successa tanto tempo fa? Probabilmente te
l’ho chiesto, ma tutto quello che si faceva era partecipare a bevute di birra il
venerdì sera, e tu odi la birra, e a quell’epoca non uscivi con nessuna
ragazza, ti limitavi a essere fedele a Marilyn».
Per un po’ di tempo avevo covato in me quel rancore, fino a quando,
qualche mese fa, durante le grandi pulizie di casa, Marilyn aveva trovato una
lettera del 1949 nella quale mi si accettava come membro della Tau Epsilon
Pi, assieme a un certificato di iscrizione. A quanto pareva ero stato membro
della confraternita, ma non avevo mai frequentato alcun incontro e ne avevo
cancellato dalla memoria qualsiasi ricordo!
Considero il primo anno alla facoltà di medicina come il peggiore della mia
vita, non solo per colpa delle pretese accademiche, ma perché Marilyn era in
Francia, dove stava trascorrendo il suo terzo anno di università. Ci davo
dentro e memorizzavo quello che mi veniva chiesto di studiare, lavorando
forse persino più duramente di quanto avessi fatto quando aspiravo alla
facoltà di medicina. Il mio unico piacere era costituito dalla relazione con
Herb Kotz e Larry Zaroff, i miei amici di una vita. Erano loro i miei
compagni nel laboratorio di anatomia quando dissezionavamo il nostro
cadavere, che avevamo battezzato Agamennone.
Riluttante all’idea di sopportare un’ulteriore separazione da Marilyn,
verso la fine del primo anno decisi di spostarmi a Boston e, mirabile dictu,
venni accettato dalla facoltà di medicina dell’Università di Boston in qualità
di studente trasferito e, quando Marilyn fece ritorno dal suo anno in Francia,
ci fidanzammo. A Boston affittai una stanza in una grande pensione a quattro
piani sulla Back Bay, in Marlborough Street. Era il mio primo anno lontano
da casa e la vita cominciò a cambiare in meglio, tanto interiormente che
esteriormente. Altri studenti della facoltà di medicina vivevano nella stessa
pensione, e in breve mi feci degli amici. Uno di loro, Bob Berger, sarebbe
rimasto un mio grande amico per tutta la vita. Ma parlerò di Bob più avanti.
Tuttavia il pièce de résistance del mio soggiorno a Boston per il secondo
anno di facoltà di medicina era costituito dai fine settimana con Marilyn. Il
Wellesley College aveva regole molto rigide per le studentesse che
trascorrevano la notte fuori dal college, così ogni settimana Marilyn doveva
inventarsi una qualche scusa plausibile per stare fuori e ottenere un invito da
parte di una qualche amica di larghe vedute. Studiavamo parte del fine
settimana, giravamo in macchina lungo la costa del New England, visitavamo
i musei di Boston e cenavamo al Durgin-Park.
Anche la mia vita interiore stava cambiando. Non ero più così agitato,
solo un po’ ansioso, e finalmente dormivo bene. Fin dal mio primo anno alla
facoltà di medicina sapevo che mi sarei specializzato in psichiatria, anche se
avevo seguito solo poche lezioni sull’argomento, e non avevo mai parlato
con uno psichiatra. Penso di aver deciso di fare psichiatria addirittura prima
di entrare alla facoltà di medicina: veniva dalla passione per la letteratura e
dalla convinzione che la psichiatria mi permettesse di avvicinarmi a tutti i
grandi scrittori che amavo. Il mio piacere più grande consisteva nel
perdermi nel mondo di un romanzo, e non facevo che ripetermi che la cosa
migliore che una persona potesse fare nella vita era scriverne uno di valore.
Ho sempre avuto brama di storie, e da quando lessi per la prima volta
L’isola del tesoro nella prima adolescenza mi sono tuffato profondamente
nella narrativa che i grandi scrittori ci offrono. Persino mentre scrivo queste
parole all’età di ottantacinque non vedo l’ora di tornare, questa sera, alla
Marcia di Radetzky di Joseph Roth. Centellino questo libro e combatto la
spinta a divorarlo tutto d’un colpo. Quando, come in questo caso, la storia è
più della narrazione di una vita, ed è anche un’esplorazione del desiderio,
della paura e della ricerca di significato da parte dell’uomo, allora sono
ammaliato: ammaliato dal fatto che quel dramma sia doppiamente carico di
significato, appartenga non solo a un’esistenza particolare, ma anche a un
processo parallelo che si sta svolgendo in un’intera cultura, nella fattispecie
nell’impero austro-ungarico negli anni precedenti alla prima guerra
mondiale.
Nonostante il mio amore per la letteratura, la medicina non fu mai una
decisione forzata, perché sono sempre stato affascinato anche dalla scienza,
specialmente dalla biologia, dall’embriologia e dalla biochimica. E c’era
sempre anche il forte desiderio di essere d’aiuto, e di passare ad altri quello
che il dottor Manchester mi aveva offerto all’epoca della mia crisi.
12.
Il matrimonio con Marilyn
Quando ci sposammo, nel 1954, Marilyn era già del tutto francofila. Dopo
aver trascorso il terzo anno di studi in Francia, sognava una luna di miele in
Europa, laddove io, ragazzo di provincia che non s’era mai allontanato dal
nordest degli Stati Uniti, non avevo il minimo interesse ad andare all’estero.
Ma lei fu astuta: «Che ne dici di una luna di miele in Francia in
motocicletta?» Sapeva che ero affascinato da moto e motociclette, e sapeva
anche che negli Stati Uniti non era possibile affittarle. «Ecco, guarda qui»
disse, e mi porse un annuncio in cui si affittava una Vespa a Parigi.
E così partimmo alla volta di Parigi, dove tutto eccitato scelsi una grossa
Vespa presso un noleggiatore a un isolato dall’Arco di Trionfo. Anche se non
avevo mai sfiorato e tanto meno guidato una Vespa, dovevo rassicurare il
sospettoso gestore e dimostrare di essere un guidatore esperto. Montai sulla
Vespa e, con la massima scioltezza possibile, gli chiesi dove fossero
l’avviamento e il pedale del gas. Lui assunse un’aria seriamente preoccupata
mentre mi mostrava il piccolo pulsante per l’avviamento e mi diceva di
girare le manopole del manubrio per controllare il flusso del gas. «Oh»
dissi. «Negli Stati Uniti è diverso». E senza altre parole partii per un giro di
prova, mentre Marilyn saggiamente mi attendeva in un caffè lì accanto.
Ahimè, mi trovavo in una via a senso unico che s’immetteva direttamente
nella strada principale, caotica e a dieci corsie, che girava attorno all’Arco
di Trionfo. Quel giro di novanta minuti fu una delle esperienze più
tormentose della mia vita: automobili e taxi sfrecciavano a destra e a
sinistra, i clacson strombazzavano, i finestrini venivano abbassati, contro di
me venivano lanciati urli e agitati i pugni. Non capivo una parola di
francese, ma avevo la netta sensazione che le frasi che mi venivano gridate
non fossero parole di benvenuto. Mi si spense il motore almeno trenta volte
nel corso della mia eroica circumnavigazione dell’Arco di Trionfo, ma
un’ora e mezzo più tardi, quando riuscii a tornare al caffè accanto al
noleggiatore a prendere mia moglie, sapevo guidare una Vespa.
Oggi, oltre sessant’anni più tardi, i ricordi della nostra luna di miele mi
fanno sempre sorridere. Tuttavia i ricordi del giorno delle nozze sono
sbiaditi, con l’eccezione di una scena: verso la fine del grande pranzo
nuziale lo zio di Marilyn, Sam Eig, il severo e inaccessibile patriarca della
famiglia, che aveva costruito una parte considerevole di Silver Spring, nel
Maryland ed era in rapporti confidenziali con il governatore, che dava alle
vie i nomi dei suoi figli e mai prima d’allora s’era degnato di rivolgermi la
parola, mi si avvicinò, mi mise un braccio attorno alle spalle e, mentre con
l’altro faceva un gesto in direzione dell’intera congrega, mi bisbigliò in un
orecchio: «Congratulazioni, ragazzo mio. Ti sei preso la migliore di tutte».
Le parole di sostegno di zio Sam sono ancora piene di verità per me: è
raro che passi un giorno senza che io mi senta grato di aver potuto
trascorrere la mia vita con Marilyn.
13.
La mia prima paziente psichiatrica
Il mio primo corso pratico in psichiatria, nella primavera del 1955, durante
il terzo anno alla facoltà di medicina, si svolse nel reparto ambulatoriale del
Boston City Hospital. A ogni studente di medicina veniva richiesto di
incontrare un paziente ogni settimana per dodici settimane, e ciascuno
doveva presentare il paziente a un incontro comune alla presenza degli altri
studenti in praticantato e di una dozzina di membri della facoltà, molti dei
quali erano membri dell’Associazione Psicoanalitica di Boston e incutevano
grande soggezione. Avevo assistito alle presentazioni di altri studenti e mi
ero sentito morire di fronte alle reazioni brutali dei membri della facoltà in
competizione per dimostrare la propria competenza ed erudizione, senza
mostrare un briciolo di gentilezza o empatia.
Il mio turno venne dopo che avevo incontrato la mia paziente per più o
meno otto sedute, e quando cominciai mi tremava la voce. Avevo deciso di
non seguire l’esempio di quelli che avevano presentato i casi prima di me,
cioè facendo ricorso a una formale struttura tradizionale, presentando il
problema principale del paziente, l’anamnesi, la storia della famiglia,
l’istruzione e un esame psichiatrico. Ricorsi invece a un espediente che per
me era naturale: raccontai una storia. Con un linguaggio diretto descrissi gli
otto incontri con Muriel, una giovane donna attraente, snella e con i capelli
d’un rosso acceso, la voce tremula e gli occhi bassi. Descrissi il nostro
primo incontro, che aprii dicendo che ero uno studente di medicina proprio
all’inizio della sua formazione e che l’avrei incontrata per le successive
dodici settimane. Le chiesi perché avesse cercato aiuto presso la nostra
clinica e lei rispose, a voce bassa: «Sono lesbica».
In quel momento esitai, deglutii e risposi: «Non so cosa significhi. Le
spiacerebbe istruirmi?»
E lei lo fece, dicendomi cosa significasse il termine “lesbica” e come
fosse la sua vita. Le feci delle domande per aiutarla a esprimersi e le dissi
che ammiravo il suo coraggio nel parlare in modo così aperto. Le dissi che
avrei fatto tutto quello che potevo per esserle d’aiuto nel corso dei
successivi tre mesi.
All’inizio della seduta successiva con Muriel ammisi quant’era stato
imbarazzante per me riconoscere la mia ignoranza. Lei mi disse che la nostra
conversazione era stata una vera novità per lei: ero il primo maschio al
quale aveva rivelato la sua vera storia, ed era stata proprio la mia onestà a
consentirle di continuare a essere aperta.
Dissi ai presenti che io e Muriel eravamo entrati in confidenza, che
attendevo con ansia i nostri incontri, che parlavamo dei problemi con la sua
amante nello stesso modo in cui avremmo discusso una qualsiasi altra
relazione umana, che adesso lei incrociava spesso il mio sguardo, che stava
ritornando alla vita e si rammaricava che fossero rimaste soltanto quattro
sedute. Alla fine del mio discorso mi sedetti, abbassai la testa e mi preparai
a essere attaccato.
Ma non accadde nulla. Nessuno parlò. Dopo un lungo silenzio il dottor
Malamud, presidente del dipartimento, e il dottor Bandler, un eminente
analista, convennero entrambi che la mia presentazione non aveva bisogno di
spiegazioni e che non avevano ulteriori commenti da aggiungere. Uno dopo
l’altro, tutti i membri della facoltà seduti al tavolo fecero commenti simili.
Uscii stordito dall’incontro: tutto quello che avevo fatto era stato raccontare
una storia che mi sembrava molto semplice e naturale. Durante il college e la
mia istruzione medica mi ero sempre sentito invisibile, ma in quel momento
ogni cosa cambiò. Uscii da quella stanza pensando che potevo avere
qualcosa di speciale da offrire in quel campo.
Con l’approssimarsi della conclusione dei nostri due anni alle Hawaii, ci
trovammo di fronte alla decisione di scegliere dove vivere. Avevo
pubblicato altri due articoli professionali e mi stavo orientando verso la
carriera accademica. Ma, ahimè, fermarsi alle Hawaii non era un’opzione
praticabile: la facoltà di medicina si fermava ai primi due anni precedenti la
formazione clinica e non c’era una facoltà di psichiatria a tempo pieno. Mi
sentivo molto solo e avvertivo la mancanza di un mentore, qualcuno che
potesse fornirmi una guida su come procedere. Nemmeno per un istante mi
passò per la mente l’idea di contattare i miei insegnanti della Hopkins, John
Whitehorn e Jerry Frank. Adesso, ripensando a quel periodo, sono
disorientato: perché non ho pensato di chiedere loro consiglio, o una
referenza? Devo aver pensato che mi avessero completamente dimenticato al
termine del mio periodo di internato.
Intrapresi invece il percorso meno fantasioso possibile: gli annunci sui
giornali! Controllai le inserzioni del bollettino dell’American Psychiatric
Association e individuai tre posti di un certo interesse: uno nella facoltà di
medicina della Stanford University, uno in quella della University of
California a San Francisco (UCSF), e un posto di membro del personale al
Mendota State Hospital nel Wisconsin (interessante solo perché l’eminente
psicologo Carl Rogers lavorava in quello stesso ospedale). Presentai
domanda per tutti e tre i posti: tutti e tre accettarono di concedermi un
colloquio, quindi presi un aereo militare alla volta di San Francisco.
Il primo colloquio, alla UCSF, fu con un membro anziano della facoltà,
Jacob Epstein, che al termine di una conversazione di un’ora mi offrì un
posto nella facoltà in qualità di clinico con uno stipendio annuo di
diciottomila dollari. Dato che il mio stipendio al terzo anno di internato era
stato di tremila dollari e quello militare di dodicimila ero tentato di
accettare, anche se sapevo che avrei dovuto dedicare al lavoro moltissimo
tempo: non avrei dovuto solo fare lezione agli studenti di medicina e agli
psichiatri interni, ma anche gestire un reparto grande e affollato di pazienti
ricoverati.
Il giorno successivo David Hamburg, il nuovo preside del dipartimento di
psichiatria della Stanford, mi ricevette per il colloquio. La facoltà di
medicina della Stanford e il suo ospedale si erano appena trasferiti da San
Francisco a una nuova struttura di recente costruzione situata nel campus
della Stanford a Palo Alto, e al dottor Hamburg era stato dato l’incarico di
formare un dipartimento completamente nuovo. Fui colpito dalla sua visione
elevata, dalla preoccupazione per il nostro settore e dalla sua saggezza. E le
sue frasi! Sentir uscire dalla sua bocca una frase solenne e complessa dopo
l’altra era come ascoltare un bel concerto. Inoltre avevo la netta sensazione
che, oltre ad averlo come mentore, avrei anche avuto tutte le risorse e la
libertà accademica di cui avevo bisogno.
Dico questo a posteriori: all’epoca non credo di aver avuto alcuna idea di
ciò che il mio futuro avrebbe potuto essere o di cosa sarei stato capace di
fare. Sapevo cos’era la pratica privata, sapevo che comunque ne sarebbe
valsa la pena e sapevo anche che la pratica privata mi avrebbe
probabilmente fruttato il triplo rispetto a quello che il dottor Hamburg mi
avrebbe offerto alla Stanford.
Il dottor Hamburg mi offrì un posto da lettore e uno stipendio di soli
undicimila dollari annui, mille in meno del mio stipendio nell’esercito. Mise
anche in chiaro la politica della Stanford: i membri a tempo pieno della
facoltà dovevano anche essere studiosi e ricercatori e non potevano integrare
i loro stipendi con la pratica privata.
La notevole discrepanza tra gli stipendi della Stanford e della UCSF in un
primo momento mi lasciò perplesso, ma mentre soppesavo le due offerte
cessò di essere il fattore determinante. Anche se non avevamo risparmi di
sorta e vivevamo da una busta paga all’altra, il denaro non era la
preoccupazione principale. L’incontro con David Hamburg mi aveva colpito,
e volevo far parte del dipartimento universitario che stava costruendo. Mi
resi conto che quello che davvero volevo era una vita di insegnamento e di
ricerca. Inoltre, se si fosse presentata un’emergenza, ero certo di poter
contare sul supporto finanziario dei miei genitori, come pure sul reddito
della potenziale carriera di Marilyn. Dopo essermi consultato con lei al
telefono, accettai il posto alla Stanford e cancellai il volo per il Mendota
State Hospital.
17.
Giungendo a riva
Nel 1964, tre anni dopo l’inizio della mia carriera alla Stanford, decisi di
frequentare un seminario di formazione di livello nazionale, della durata di
otto giorni, a Lake Arrowhead, nel sud della California. Il programma di
quella settimana di lavoro offriva diverse attività d’ordine psicologico, ma il
punto principale, e la ragione per cui volevo andarci, era costituito dalle tre
ore giornaliere destinate a incontri di gruppo con un numero ridotto di
persone. La mattina del primo incontro arrivai qualche minuto prima
dell’inizio, presi posto su una delle tredici sedie disposte in cerchio e mi
guardai attorno, per osservare chi l’avrebbe guidato e le altre persone
arrivate in anticipo. Anche se avevo parecchia esperienza nella conduzione
di gruppi di terapia ed ero molto impegnato nella ricerca e
nell’insegnamento relativi alla terapia di gruppo, non ero mai stato un
membro di un gruppo. Era giunto il momento di rimediare.
Nessuno parlava mentre gli altri arrivavano in fila indiana e prendevano
posto. Alle otto e trenta il responsabile del gruppo, Dorothy Garwood, una
terapeuta con due dottorati (in biochimica e psicologia) che praticava
privatamente, si alzò in piedi e si presentò: «Benvenuti all’istituto NTL di
Lake Arrowhead del 1964» disse. «Questo gruppo si incontrerà a questa
stessa ora tutte le mattine, per tre ore, nei prossimi otto giorni e gradirei che
tutti noi mantenessimo quello che diciamo, tutti i nostri commenti, ancorati
nel “qui e ora”».
Seguì un lungo silenzio. «Tutto qui?» pensai e mi guardai attorno,
vedendo undici facce che irradiavano perplessità e undici teste che si
scuotevano, disorientate. Dopo un minuto i presenti cominciarono a reagire.
«Un orientamento piuttosto sintetico».
«È una specie di scherzo?»
«Non conosciamo nemmeno i nostri nomi».
Nessuna risposta dalla guida. Gradualmente l’incertezza collettiva
cominciò a generare una propria energia.
«Questo è patetico. Sarebbe questa la conduzione che avremo?»
«Non essere maleducato. Sta facendo il suo lavoro. Non capisci che si
tratta di un processo di gruppo? Dobbiamo prendere in esame il nostro
processo».
«Giusto, ho la sensazione, direi più di una sensazione, che lei sappia
esattamente quello che fa».
«Questo significa fidarsi ciecamente: non mi è mai piaciuto dovermi
fidare ciecamente. La verità è che stiamo annaspando, e lei dov’è? Di certo
non ci sta dando una mano».
Ci furono poche pause tra un commento e l’altro, mentre i membri
aspettavano che la guida rispondesse. Ma lei si limitava a sorridere e a
restare in silenzio.
Altri membri intervennero.
«E comunque come si può pensare di riuscire a stare nel “qui-e-ora”
quando non abbiamo una storia in comune? Ci siamo incontrati oggi per la
prima volta».
«Sono sempre a disagio con questo tipo di silenzio».
«Già, anch’io. Paghiamo un bel po’ di soldi e ce ne stiamo qui seduti
senza fare niente, buttando via il nostro tempo».
«Personalmente, il silenzio mi piace. Stare seduto qui dentro con tutti voi
mi manda in brodo di giuggiole».
«Anche a me. Scivolo in uno stato meditativo. Mi sento concentrato,
pronto a tutto».
Quando, nel 1962, la nostra famiglia di cinque persone era arrivata per la
prima volta a Palo Alto, dopo che tre anni prima ero stato congedato
dall’esercito, io e Marilyn ci eravamo dati da fare per trovare un luogo in
cui vivere. Avremmo potuto acquistare una casa nell’area residenziale
riservata ai membri della Stanford ma, come alle Hawaii, scegliemmo un
ambiente differente. Comprammo una casa vecchia di trent’anni (quasi
antica, secondo gli standard della California) a quindici minuti dal campus. I
criteri economici erano molto diversi allora: con un reddito modesto non
avevamo avuto difficoltà ad acquistare una casa, con un acro di terreno, per
trentaduemila dollari. Il prezzo era tre volte il mio reddito annuale alla
Stanford: oggi le condizioni economiche di Palo Alto sono così cambiate che
una casa equivalente costerebbe trenta o quaranta volte lo stipendio annuo di
un giovane professore. I miei genitori ci diedero i settemila dollari per la
caparra, e quella fu l’ultima volta che accettai dei soldi da loro. Tuttavia,
anche dopo aver completato la mia formazione e aver dato vita a una
famiglia di sei persone, mio padre insisteva sempre per pagare il conto al
ristorante. Mi piaceva questo suo modo di occuparsi di me e mi limitavo a
opporre solo una blanda resistenza. E ho trasmesso la sua generosità facendo
esattamente la stessa cosa con i miei figli adulti (che, a loro volta,
oppongono solo una blanda resistenza). È un modo per essere ricordati: il
volto di mio padre mi viene spesso in mente mentre pago il conto per i miei
figli. (E anche noi abbiamo potuto dare ai nostri figli la caparra per le loro
prime case.)
Quando mi presentai per la prima volta al mio dipartimento seppi che ero
stato assegnato al ruolo di direttore medico di un grande reparto al Veterans
Administration Hospital, a dieci minuti dalla facoltà di medicina,
interamente gestito dalla Stanford. Anche se supervisionavo i medici interni,
organizzavo un gruppo d’analisi del processo per gli studenti di medicina
(ovvero un gruppo nel quale studiavamo i modi in cui ci relazionavamo gli
uni agli altri) e avevo del tempo libero per frequentare le conferenze
dipartimentali e i simposi di ricerca, non ero contento del mio lavoro al
Veterans Administration. Sentivo che troppi pazienti, per lo più reduci della
seconda guerra mondiale, non erano ricettivi al mio approccio alla terapia.
Era del tutto possibile che i vantaggi secondari garantiti loro dal mantenere
la condizione di malati fossero troppo elevati: cure mediche gratuite, vitto e
alloggio gratuito e una residenza confortevole. Verso la fine del mio primo
anno dissi a David Hamburg che prevedevo poche occasioni di ricerca al VA
per i miei interessi specifici. Quando mi chiese dove avrei voluto lavorare,
suggerii il reparto ambulatoriale dello Stanford, il centro del programma di
formazione dei medici interni e un luogo dove avrei potuto organizzare un
programma di terapia di gruppo per la formazione e la ricerca. Avendo
osservato il mio lavoro e preso parte a un paio delle mie presentazioni di
casi ai colleghi, ebbe sufficiente fiducia in me per acconsentire a questa
richiesta. Non mi fece mai mancare la sua collaborazione e il suo sostegno, e
da quel momento, per moltissimi anni, non ebbi alcuna responsabilità
amministrativa e godetti della quasi completa libertà di seguire i miei
interessi clinici, didattici e di ricerca.
Nel 1963 Marilyn completò il suo dottorato (con una dissertazione
intitolata Il motivo del processo nelle opere di Franz Kafka e Albert
Camus) nel programma di letteratura comparata della Johns Hopkins. Volò a
Baltimora per gli esami orali, li superò e ricevette il dottorato e la lode.
Tornò a casa sperando di ottenere un posto alla Stanford, e fu crudelmente
disillusa quando il capo del dipartimento di francese, John Lapp, le disse:
«Non assumiamo le mogli di membri della facoltà».
Una generazione dopo, con l’aumento della mia consapevolezza delle
questioni femminili, avrei potuto cercare un posto in un’altra università più
tollerante e in grado di valutarla unicamente sulla base dei suoi meriti, ma
nel 1962 quel pensiero non mi passò nemmeno per la mente, e nemmeno a
Marilyn. Mi dispiacque per lei. Sapevo che meritava un posto alla Stanford,
ma accettammo entrambi la situazione e ci mettemmo semplicemente alla
ricerca di un’alternativa. Poco tempo dopo fu il rettore delle materie
umanistiche del nuovissimo California State College a Hayward a contattare
Marilyn. Avendo sentito parlare di lei da un collega della Stanford, ci venne
a trovare e le offrì un posto di assistente di lingue straniere. Insegnare a
Hayward implicava un viaggio di un’ora per l’andata e una per il ritorno per
quattro giorni alla settimana, con il quale Marilyn dovette fare i conti per i
successivi tredici anni. Il suo stipendio iniziale fu di ottomila dollari, tremila
dollari in meno rispetto al mio stipendio iniziale alla Stanford. Ma i nostri
due stipendi ci permisero di vivere senza problemi a Palo Alto, di pagare
una domestica a tempo pieno e persino di fare diversi viaggi memorabili.
Marilyn ebbe una carriera appagante alla California State e in breve fu
promossa al ruolo di professore associato, fino a conseguire la cattedra.
I primi cinque anni della mia famiglia a Palo Alto, dal 1962 al 1967,
coincisero con l’inizio dei movimenti per i diritti civili, antimilitaristi,
hippie e beatnik, tutti irradiatisi dall’area della baia di San Francisco. A
Berkeley gli studenti inaugurarono il Movimento per la Libertà di parola e
gli adolescenti scappati di casa sciamarono tutti a Haight-Ashbury, a San
Francisco. Ma alla Stanford, a meno di cinquanta chilometri di distanza, le
cose rimasero relativamente tranquille. Joan Baez viveva nella zona, e una
volta Marilyn partecipò a una marcia contro la guerra assieme a lei. Il mio
ricordo più vivido del periodo è la partecipazione a un enorme concerto di
Bob Dylan a San Jose, dove all’improvviso, in modo del tutto inaspettato,
Joan Baez salì sul palco per eseguire alcune canzoni. Divenni un fan di Joan
Baez per tutta la vita e, anni dopo, fui eccitatissimo quando ebbi l’occasione
di ballare con lei dopo una sua esibizione in un locale.
Come tutti, fummo devastati dalla notizia dell’assassinio di John F.
Kennedy nel 1963, evento che mandò in frantumi l’idea che le nostre vite
pacifiche a Palo Alto non sarebbero state sfiorate dai mali del mondo
esterno, e comprammo la nostra prima televisione per assistere agli
avvenimenti legati alla morte di Kennedy e i servizi commemorativi.
Personalmente rifuggivo qualsiasi credo e pratica religiosi, ma in
quell’occasione Marilyn, sentendo il bisogno del rito e del contatto con la
comunità, portò i nostri due figli più grandi (Eve, di otto anni, e Reid di
sette) a un servizio religioso nella chiesa dello Stanford Memorial. Non
essendo riusciti a sottrarci completamente al richiamo del cerimoniale,
organizzavamo sempre un seder pasquale a casa nostra, con amici e parenti.
Dato che non avevo mai imparato l’ebraico, chiedevo sempre a un amico di
leggere le preghiere cerimoniali.
Nonostante i ricordi sgradevoli dell’infanzia, continuai a preferire il cibo
con il quale ero stato cresciuto: cucina ebraica dell’Est Europa, e niente
maiale. Marilyn invece no. Ogni volta che ero fuori città i bambini sapevano
che avrebbe preparato le braciole di maiale. Io restavo comunque attaccato
ad alcuni riti cerimoniali. Feci circoncidere i miei tre figli maschi, con tanto
di rinfresco cerimoniale per familiari e amici. Reid, il maggiore, scelse di
avere il suo bar mitzvah. Oltre a queste poche tradizioni ebraiche, facevamo
l’albero di Natale, preparavamo le calze piene di doni per i bambini e
organizzavamo una grande festa il 25 dicembre.
Mi è stato chiesto spesso se la mancanza di un credo religioso fosse mai
stata un problema nel corso della mia vita o della mia pratica psichiatrica.
La mia risposta è sempre stata negativa. In primo luogo ci tengo a
sottolineare che sono “areligioso”, e non “antireligioso”. La mia posizione
era tutt’altro che insolita: per la stragrande maggioranza della mia comunità
alla Stanford e per i miei colleghi medici e psichiatri la religione aveva un
ruolo minimo, se non nullo, nella loro vita. Quando trascorro del tempo con i
miei amici devoti (per esempio Dagfinn Føllesdal, un amico norvegese
nonché filosofo cattolico), provo sempre un enorme rispetto per la
profondità della loro fede, e sono portato ad affermare che le mie posizioni
laiche non hanno quasi mai influenzato la mia pratica di terapeuta. Devo
tuttavia ammettere che in tutti i miei anni di pratica è venuto da me solo un
numero relativo di individui impegnati dal punto di vista religioso. Il mio
contatto più frequente con individui devoti nel mio lavoro si è verificato con
pazienti in punto di morte, e in tutti i casi accolgo sempre con gioia e
sostengo qualsiasi conforto religioso riescano a trovare.
Anche se negli anni Sessanta ero profondamente immerso nel mio lavoro e
perlopiù apolitico, non potei fare a meno di notare i cambiamenti culturali in
corso. I miei studenti di medicina e gli interni di psichiatria cominciarono a
indossare i sandali invece di scarpe “adeguate” al loro ruolo, e anno dopo
anno i loro capelli divennero sempre più lunghi e arruffati. Un paio di
studenti mi portarono in regalo del pane che avevano cotto in casa. La
marijuana faceva capolino in tutte le feste di facoltà, e i costumi sessuali
stavano radicalmente mutando.
Quando questi cambiamenti si verificarono mi sentivo già parte della
vecchia guardia e fui turbato quando, per la prima volta, vidi un interno che
indossava pantaloni scozzesi rossi o qualche altro indumento “oltraggioso”.
Ma quella era la California, e il cambiamento non poteva essere fermato.
Gradualmente mi lasciai un po’ andare, smisi di portare la cravatta e ad
alcune feste di facoltà, dove anch’io indossavo pantaloni scampanati, provai
con piacere la marijuana.
Negli anni Sessanta i nostri tre figli (il quarto, Benjamin, non sarebbe
nato prima del 1969) erano concentrati sui loro piccoli drammi quotidiani:
frequentavano le scuole pubbliche locali senza doversi allontanare troppo da
casa, avevano amici, prendevano lezioni di piano e di chitarra, giocavano a
tennis e a baseball, imparavano ad andare a cavallo, facevano parte delle
organizzazioni giovanili dei Blue Birds e dei 4-H e avevano costruito un
recinto per due caprette nel nostro cortile sul retro. Gli amici che vivevano
in case più piccole venivano spesso a giocare a casa nostra, una casa a
stucco secondo lo stile spagnolo antico, con la porta d’ingresso circondata
da una buganvillea d’un viola brillante e un patio che conteneva un piccolo
stagno e una fontana. Il vialetto che portava alla strada era dominato da una
maestosa magnolia, attorno alla quale i bambini giravano con i loro tricicli.
A mezzo isolato di distanza c’era un campo da tennis, dove due volte alla
settimana giocavo con i miei vicini o, quando questi divennero troppo
vecchi, con i miei figli.
Quando mio padre morì ero proprio agli inizi della mia vita alla Stanford.
All’epoca non penso di aver apprezzato appieno la mia straordinaria buona
sorte. Avevo un posto in una grande università, lavoravo con totale
indipendenza e vivevo in un’enclave benedetta da un clima che forse era il
migliore al mondo. Non rividi mai più la neve (eccetto che nei luoghi di
vacanza sciistici). I miei amici, per lo più colleghi della Stanford, erano alla
mano e di mente aperta. E nemmeno una volta mi capitò di sentire
affermazioni antisemite. Anche se non eravamo ricchi, io e Marilyn avevamo
la sensazione di poter fare qualsiasi cosa avessimo desiderato. La nostra
vacanza favorita era nella Baja California, in un luogo pittoresco, anche se
modesto, chiamato Mulegé. Ci portammo i nostri figli un anno a Natale, e
amarono moltissimo l’atmosfera messicana a base di tortillas e piñatas. Io e
i miei figli ci divertimmo a pescare con boccaglio e fiocina, procurandoci in
tal modo diversi pasti deliziosi.
Marilyn tornò in Francia per un convegno nel 1964 ed espresse il
desiderio di portare l’intera famiglia in Europa per un viaggio. Quello che ne
risultò fu persino meglio: un intero anno a Londra.
18.
Un anno a Londra
Nel 1967 ricevetti un premio alla carriera come insegnante dal National
Institute of Mental Health che mi permise di trascorrere un anno alla clinica
Tavistock di Londra. Avevo programmato di studiare l’approccio della
Tavistock alla terapia di gruppo e di cominciare a lavorare sul serio al libro
di testo su tale argomento. Trovammo una casa in Reddington Road, a
Hampstead, vicino alla clinica, e la nostra famiglia formata ancora da cinque
persone (Ben, il figlio più piccolo, non era ancora nato) cominciò a vivere
un magnifico e memorabile anno all’estero.
Avevo scambiato il mio studio con quello di John Bowlby, un eminente
psichiatra britannico della clinica Tavistock che stava trascorrendo un anno
alla Stanford. Il suo studio londinese era nella parte centrale della clinica,
cosa che mi permetteva di avere molti contatti con la facoltà. Nel corso di
quell’anno ogni mattina andavo a piedi da casa alla clinica, a dieci isolati di
distanza, passando accanto a una bella chiesa del diciottesimo secolo. Il
piccolo camposanto all’interno del giardino conteneva una ventina di pietre
tombali, molte delle quali sbilenche e così rovinate da essere illeggibili. Il
cimitero più grande, dall’altra parte della strada, era il luogo dell’eterno
riposo di alcune figure di rilievo del diciannovesimo e ventesimo secolo,
come la scrittrice Daphne du Maurier. Poco oltre passavo accanto a
un’imponente magione provvista di colonne, nella quale aveva vissuto il
generale Charles De Gaulle durante l’occupazione tedesca della Francia. Era
in vendita per centomila sterline, e spesso io e Marilyn desiderammo e
fantasticammo di avere i fondi per acquistarla. Un isolato più avanti c’era
l’enorme palazzo che era stato usato nel film Mary Poppins per le scene del
ballo sul tetto di Julie Andrews e Dick Van Dyke. Poi proseguivo lungo
Finchley Road fino a Belsize Lane, ed entravo nel banale edificio a quattro
piani che ospitava la clinica Tavistock.
John Sutherland, l’uomo a capo della Tavistock, era uno scozzese gentile
e molto cordiale. Il mio primo giorno mi accolse con grande cortesia e mi
presentò ai suoi collaboratori, mi invitò a partecipare a tutti i seminari
clinici e a osservare i gruppi di terapia condotti dal suo staff. Venni
presentato agli psichiatri coinvolti nel lavoro di gruppo, e per tutto l’anno
ebbi contatti costanti con Pierre Turquet, Robert Gosling e Henry Ezriel.
Anche se li trovai perspicaci e pronti ad accogliermi, il loro approccio alla
conduzione dei gruppi mi colpì perché bizzarramente distante e
disimpegnata. I leader dei gruppi della Tavistock non parlavano mai
direttamente a nessun membro in particolare, ma rivolgevano il cento per
cento dei loro commenti al soffitto, limitandosi a osservazioni che
riguardavano il “gruppo”. Rammento un incontro, una sera, in cui uno di
loro, Pierre Turquet, disse: «Se tutti i membri di questo gruppo sono venuti
sotto questa pioggia battente dai punti più remoti di Londra e hanno scelto di
parlare di cricket, be’, per me va bene». I leader di gruppi della Tavistock
seguivano le idee di Wilfred Bion, che si concentravano sui processi
inconsci in atto nei gruppi nel loro complesso, e avevano poco interesse per
l’ambito interpersonale, a meno che non fosse collegato alla conduzione e
all’autorità. Era per questo che i commenti riguardavano sempre il gruppo
nel suo complesso e il terapeuta non si rivolgeva mai a un singolo paziente.
Anche se, come persone, alcuni degli psichiatri della Tavistock mi
piacevano, in particolare Bob Gosling, che ci invitò a casa sua tanto a
Londra che nella casa di campagna, dopo pochi mesi giunsi alla conclusione
che questo approccio alla terapia di gruppo era profondamente inefficace, e i
pazienti lo dimostravano in modo chiaro: la frequenza era eccezionalmente
bassa. C’era la regola che, se si presentavano meno di quattro membri, la
seduta veniva cancellata e, in effetti, la cosa capitava un po’ troppo spesso.
Più tardi, quell’anno, partecipai al congresso di una settimana organizzato
dalla Tavistock a Leeds, con altre cento persone provenienti da ambiti
diversi quali l’istruzione, la psicologia e il mondo degli affari. Ricordo
chiaramente come ebbe inizio: ai partecipanti fu chiesto di dividersi in
cinque gruppi utilizzando le cinque stanze destinate allo scopo. Al suono
della campana, i partecipanti dovevano raggiungere rapidamente le stanze.
Alcuni membri cominciarono a rivaleggiare per ottenere la guida del gruppo,
altri chiesero che le porte venissero chiuse affinché il gruppo non diventasse
troppo numeroso, altri ancora insistettero sulle regole relative alle
procedure. Il seminario continuò con incontri in piccoli gruppi, ciascuno
affidato a un consulente della facoltà che rifletteva sui processi del gruppo, e
con grandi incontri di gruppo, frequentati dall’intera facoltà e dagli altri
partecipanti, in modo che si potesse fare uno studio delle dinamiche dei
gruppi di massa.
Anche se i gruppi Tavistock continuano a essere usati come mezzo di
formazione per aiutare gli individui a orientarsi nelle dinamiche di gruppo e
nel comportamento organizzativo, per quel che ne so l’approccio della
Tavistock è fortunatamente scomparso dalla psicoterapia di gruppo.
In genere seguivo uno o due incontri di piccoli gruppi alla settimana e
assistevo a conferenze e convegni, ma per la maggior parte del tempo
quell’anno me ne restai completamente per conto mio, impegnato quasi a
tempo pieno nella scrittura del mio libro di testo per la terapia di gruppo. La
facoltà Tavistock non amava il mio approccio ai gruppi così come io non
amavo il loro. Quando presentai il mio lavoro di ricerca sui “fattori
terapeutici” basati sui colloqui avuti con un gran numero di pazienti che
avevano partecipato con successo a una terapia di gruppo, il personale
britannico derise la tipica fissazione americana del “cliente soddisfatto”.
Essendo l’unico americano, mi sentivo isolato e senza sostegno. Un anno più
tardi, quando incontrai John Bowlby a tu per tu, mi disse di avere avuto
un’esperienza simile con il personale della Tavistock, e che a volte aveva
fantasticato di lanciarci contro una bomba. Mi sentivo così isolato,
sottovalutato e a disagio con me stesso che decisi di trovarmi un terapeuta,
come ho fatto in vari momenti difficili nel corso della mia esistenza.
C’erano moltissime scuole di terapia nel Regno Unito all’epoca. Mi
venne subito in mente il celebre psichiatra britannico R.D. Laing, che a
giudicare dai suoi scritti sembrava un pensatore sorprendente e originale. Di
recente aveva fondato Kingsley Hall, un luogo dove i pazienti psicotici e i
loro terapeuti vivevano assieme in comunità. Inoltre trattava i pazienti in
maniera egalitaria, del tutto diversa dall’approccio della Tavistock. Quando
partecipai a una conferenza che tenne alla Tavistock, fui colpito dalla sua
intelligenza e mi piacque parecchio il modo in cui le sue vedute iconoclaste
fecero saltare la mosca al naso della dirigenza. Ma lo trovai anche un po’
disorganizzato, e non faticai a capire perché così tante persone tra il
pubblico ipotizzassero che fosse sotto l’effetto dell’LSD, la droga che
all’epoca prediligeva. Ciò nonostante scelsi di incontrarlo individualmente
per discutere se entrare o meno in terapia con lui. Ricordo di avergli chiesto
della sua esperienza all’istituto Esalen, nel Big Sur, in California, e dei
commenti che aveva fatto durante la conferenza sui gruppi di nudisti
impegnati in sedute-maratona che si svolgevano laggiù. Rispose in modo
enigmatico. «Io pagaiavo la mia canoa e altri pagaiavano la loro». Alla fine
conclusi che, per le mie esigenze, era troppo poco focalizzato su un obiettivo
specifico. (Mai avrei pensato che, di lì a qualche anno, avrei partecipato a
una di quelle maratone di nudisti.)
Mi consultai quindi con il responsabile della scuola psicoanalitica
kleiniana di Londra. Ricordo di essermi interrogato sul suo pressante
tentativo di ottenere informazioni sui miei primi due anni di vita e di essermi
anche chiesto come mai l’analisi kleiniana durasse in genere dai sette ai
dieci anni. Al termine della nostra consultazione di due ore lui concluse (e io
concordai) che il mio scetticismo nei confronti del suo approccio era troppo
grande. Come si espresse lui: «il volume della nostra musica di fondo
[ovvero la mia resistenza] oscurerà gli accordi autentici dell’analisi».
Bisogna proprio ammirare i britannici per la loro eloquenza!
Alla fine scelsi di lavorare con Charles Rycroft, che era stato l’analista di
Laing. Era uno dei principali psichiatri londinesi della “scuola di mezzo”,
influenzata dagli analisti britannici Fairbairn e Winnicott. Per i dieci mesi
successivi incontrai Rycroft due volte alla settimana. Aveva circa
cinquantacinque anni ed era piuttosto riflessivo e cortese, anche se un po’
distaccato. Ogni volta che entravo nel suo studio di Harley Street, che aveva
un’aria dickensiana ed era arredato con un folto tappeto persiano, un divano
e due comode poltrone dallo schienale alto, lui si affrettava a spegnere la
sigaretta che fumava tra una seduta e l’altra, mi salutava con una stretta di
mano e m’invitava cortesemente a prendere posto sulla poltrona (non sul
divano!) collocata davanti alla sua. Mi trattava da collega. Lo ricordo in
particolare mentre raccontava del ruolo avuto quando Masud Khan era stato
cacciato dalla società psicoanalitica, un resoconto che in seguito avrei
rielaborato nel mio romanzo Sul lettino di Freud.
Trassi beneficio dalle nostre sedute, ma avrei voluto che lui fosse più
attivo e interattivo. Le sue complesse interpretazioni non mi davano quasi
mai l’impressione di essere davvero utili, tuttavia dopo qualche settimana la
mia ansia migliorò e mi sentii in grado di scrivere in modo più efficace.
Perché? Forse grazie alla sua accettazione benevola e alla sua empatia. Era
estremamente importante per me sapere di avere qualcuno dalla mia parte.
Anni dopo, quando mi recavo a Londra, andavo a fargli visita e insieme
riesaminavamo spesso la nostra terapia. Quando disse di rammaricarsi per
aver aderito alla regola di offrire soltanto interpretazioni, apprezzai molto la
sua onestà.
A Londra dedicai tutto il mio tempo alla stesura del libro sulla terapia di
gruppo. Trattandosi del mio primo libro, dovevo inventarmi un metodo e
finii per trarre ispirazione da tre fonti principali: gli appunti per le
conferenze ai corsi che avevo tenuto per i medici interni gli anni precedenti;
le centinaia di riassunti delle sedute di gruppo che avevo scritto e inviato ai
membri dei gruppi; e la letteratura sulla ricerca nella terapia di gruppo, in
gran parte accessibile grazie all’eccellente biblioteca della clinica
Tavistock. Non sapevo scrivere a macchina (la maggior parte dei
professionisti all’epoca non lo sapeva fare). Ogni giorno scrivevo a mano tre
o quattro pagine e le davo a una dattilografa della Tavistock, che avevo
assunto privatamente e che ogni sera mi batteva a macchina il lavoro della
giornata, in modo che fosse pronto per la revisione la mattina successiva.
Da dove cominciare? Cominciai proprio con le prime questioni che un
terapeuta di gruppo si trova ad affrontare: come selezionare i pazienti e
comporre un gruppo.
La selezione consiste nel determinare se un particolare paziente è adatto a
un particolare tipo di terapia di gruppo. Comporre il gruppo si riferisce
invece a un altro aspetto: se il paziente è adatto e c’è un certo numero di
gruppi in grado di accogliere un nuovo membro, quale gruppo sarà il
migliore per quel paziente? O si consideri ancora un altro scenario
(estremamente improbabile): si immagini una lista di un centinaio di
pazienti, sufficiente a formare dodici gruppi. Quale criterio dovrebbero
seguire i terapeuti per formare questi dodici gruppi in modo che siano
efficaci al massimo grado? Sulla base di queste domande, esaminai la
letteratura a disposizione e scrissi due capitoli eruditi, densi, pieni di
dettagli ed eccessivamente noiosi.
Subito dopo aver completato i due capitoli sulla selezione dei pazienti e
sulla composizione del gruppo, il mio preside, David Hamburg, venne a
trovarci a Londra e mi diede la notizia sorprendente e inaspettata che la
commissione per l’assegnazione degli incarichi di ruolo della Stanford si era
riunita e mi aveva concesso l’incarico in anticipo. Non era previsto che
venissi preso in considerazione per il ruolo prima dell’anno successivo e,
naturalmente, fui felicissimo che mi fosse stata risparmiata l’ansia dell’attesa
della decisione. Negli anni successivi, quando vidi colleghi e pazienti
passare attraverso quelle tormentose traversie, avrei apprezzato ancora di
più la fortuna che mi era capitata.
La notizia del passaggio in ruolo ebbe un effetto notevole sul progetto del
libro. Non stavo più scrivendo per i professori severi, dall’orientamento
empirico e la faccia emaciata che immaginavo riuniti nella commissione per
il ruolo. Mi sentivo gioiosamente emancipato e cominciai quindi a scrivere
il libro per un pubblico del tutto diverso, ovvero per medici principianti che
si sforzavano di imparare a essere utili ai loro pazienti. Quindi tutti i capitoli
successivi del libro sono di gran lunga più vivaci e sono pieni di esempi di
casi clinici, alcuni solo di poche righe, altri lunghi tre o quattro pagine. Ma
quei primi due capitoli erano come fatti di cemento: mi erano rimasti sul
gozzo e non riuscii mai a trovare il modo di renderli più vivi. Venticinque
anni dopo pubblicai la quinta edizione di La teoria e la pratica della
psicoterapia di gruppo, e persino dopo quattro profonde revisioni, ciascuna
delle quali aveva richiesto due anni di correzioni e di intensa revisione
letteraria, quei due capitoli scritti a Londra prima del passaggio in ruolo
(che erano diventati i capitoli otto e nove) sembrano inserirsi male nel testo,
scritti da un’altra persona con una prosa morta, innaturale. Quando scriverò
la sesta edizione ho intenzione di rinnovarli completamente.
I miei tre figli, di nove, dodici e tredici anni, erano stati naturalmente
riluttanti all’idea di lasciare i compagni di scuola di Palo Alto, ma finirono
per trovare piacevole il loro anno a Londra. Nostra figlia Eve fu molto
demoralizzata quando venne rifiutata dalla Parliament Hill School per le sue
carenze calligrafiche, ma seppe poi apprezzare la scuola che frequentò, la
Hampstead Heath School per ragazze, dove si fece diverse ottime amiche e
concluse l’anno con una calligrafia eccellente, anche se non destinata a
restare a lungo tale. Nostro figlio Reid andò nella vicina University College
School, e ne indossò con fierezza la giacca e il berretto a strisce rosse e
nere. La sua modesta calligrafia, persino peggiore di quella di Eve, era stata
doverosamente notata ma subito dimenticata perché, come il direttore della
scuola ebbe a dirmi in diverse occasioni, era «un ottimo giocatore di rugby».
Victor, con i suoi otto anni, frequentò con gioia la scuola locale. Non gli
andava l’idea di dover fare un pisolino ogni giorno a scuola, ma era
felicissimo di fare una sosta al negozietto di dolci quando tornava a casa.
Anche se in Europa avevamo comprato una macchina, la usavamo di rado
a Londra e andavamo dappertutto in metropolitana: al Royal National
Theatre, alle letture di poesie locali, al British Museum e alla Royal Albert
Hall. Grazie ai contatti di Marilyn presso la rivista letteraria franco-
americana Adam incontrammo Alex Comfort, con il quale rimanemmo amici
fino alla sua morte, nel 2000. Alex è stato uno dei due geni con i quali ho
avuto un rapporto molto intimo; l’altro è stato Josh Lederberg, un biologo
molecolare della Stanford che aveva vinto il premio Nobel. A quell’epoca
Alex divideva il suo tempo tra la moglie e l’amante, e aveva un guardaroba
completo in casa di entrambe. Dotato di una mente enciclopedica, era in
grado di discutere all’infinito di qualsivoglia argomento: letteratura inglese e
francese, arte e mitologia indiana, pratiche sessuali di tutto il mondo, il suo
campo professionale, la gerontologia, l’opera del diciassettesimo secolo.
Una volta ci disse di aver chiesto alla moglie che cosa volesse per Natale e
che lei aveva risposto: «Qualsiasi cosa, basta che non sia un’informazione».
Mi è sempre piaciuto molto parlare con Alex, una mente così rara, fertile
e affascinante. Sapevo che era molto attratto da Marilyn, ma io e lui
mantenemmo la nostra amicizia non soltanto a Londra ma anche in seguito,
quando venne a trovarci a casa nostra, a Palo Alto.
Alla fine Alex divorziò dalla moglie, sposò l’amante e scrisse La gioia
del sesso, uno dei best seller d’ogni tempo. Poi, principalmente per sfuggire
alle tasse britanniche, si trasferì in un centro di studiosi a Santa Barbara, il
Centro per lo studio delle istituzioni democratiche, a solo poche ore da Palo
Alto. Anche se La gioia del sesso è la sua opera più conosciuta, Alex
scrisse altri cinquanta libri, che spaziavano dalla gerontologia alla poesia e
ai romanzi. Scriveva in fretta e con grande facilità. Ero stupefatto e persino
infastidito dalla fluidità della sua scrittura: la prima stesura era spesso anche
l’ultima, laddove io ho sempre oscillato tra le dieci e le venti stesure per
ogni libro che ho pubblicato. I miei figli lo conoscevano di fama prima
ancora di incontrarlo, perché molte delle poesie di Alex erano inserite in
un’antologia di poesia moderna che avevano usato come libro di testo alla
scuola di Palo Alto. Passeggiare con lui per le strade del nostro quartiere era
un piacere, in quanto Alex immediatamente riconosceva il richiamo degli
uccelli, ne diceva il nome e senza alcuno sforzo ne riproduceva il suono.
Anche se Londra ci aveva affascinato, eravamo ormai californiani e ci
mancava moltissimo il sole. Un intraprendente agente di viaggio ci mandò
per una settimana di vacanza a Djerba, una grande isola a poca distanza dalla
costa della Tunisia che, secondo la leggenda, era l’isola dei mangiatori di
loto dove Ulisse ebbe a fermarsi. Visitammo i bazar, le rovine romane e una
sinagoga vecchia di duemila anni. Mentre entravo un custode con indosso
una veste araba mi chiese se fossi uno della tribù e, quando annuii, mi prese
per un braccio e ci avviammo a braccetto verso il Bimah, l’altare al centro
della sinagoga. Lì mi mise in mano un’antica Bibbia ma, grazie al cielo, non
verificò il mio ebraico.
19.
La vita breve e turbolenta dei gruppi d’incontro
Durante la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in California e in
altre parti del paese esplose il movimento dei gruppi d’incontro. Questi
gruppi erano dappertutto, e molti ricordavano a tal punto i gruppi di terapia
da suscitare il mio più vivo interesse. La Free University a Menlo Park, una
comunità annessa alla Stanford University, pubblicava annunci per dozzine di
gruppi di crescita personale. Le sale comuni dei pensionati studenteschi
della Stanford ospitavano una varietà di gruppi d’incontro: gruppi-maratona
della durata di ventiquattr’ore, gruppi di psicodramma, gruppi T, gruppi
sullo sviluppo del proprio potenziale. Inoltre, molti studenti della Stanford
cercavano esperienze di gruppo nei vicini centri di sviluppo quali Esalen o,
come centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, entravano a far parte
dell’EST o di Lifespring, che organizzavano entrambi grandi incontri che poi
spesso si suddividevano in gruppi più piccoli, simili a quelli d’incontro.
Ero perplesso, come tutti. Questi gruppi erano, come molti temevano, una
minaccia, un segnale di disintegrazione sociale? O erano esattamente
l’opposto? Era possibile che contribuissero efficacemente alla crescita
personale? Più stravaganti erano le richieste, più i fanatici si sgolavano e la
risposta conservatrice si faceva più piccata. Seguii dei gruppi T guidati da
leader ben preparati, e mi sembrò che molti membri ne traessero beneficio.
Frequentai anche dei gruppi di psicodramma con accesso libero, che mi
preoccuparono e mi portarono a chiedermi se i partecipanti non rischiassero
di subire dei danni psicologici. Frequentai un gruppo-maratona di
ventiquattr’ore nel quale i membri erano nudi, a Esalen, ma non ebbi
riscontri successivi sugli effetti dell’esperienza sul gruppo. Mi sembrò che
alcuni dei quindici membri del gruppo ne avessero beneficiato, ma non ebbi
modo di conoscere gli effetti sui membri meno comunicativi. Molti
coprivano di lodi questi nuovi gruppi sperimentali, altri li condannavano. La
situazione aveva decisamente bisogno di una valutazione empirica.
Ascoltai un intervento di Mort Lieberman, un professore dell’università
di Chicago, a un convegno sulla terapia di gruppo tenuto in quella città, e
rimasi molto colpito dal suo lavoro. Parlammo per ore, fino a notte fonda, e
ci accordammo per intraprendere un’inchiesta ambiziosa sugli effetti dei
gruppi d’incontro. I nostri interessi si sovrapponevano: non solo era uno
stimato ricercatore di sociologia, ma si era anche formato come leader di
gruppi T e come terapeuta di gruppo. Programmava di trascorrere un intero
anno alla Stanford, e in breve reclutammo Matt Miles, un professore di
formazione e psicologia della Columbia University, nonché ricercatore ed
esperto statistico, che si unì alla nostra squadra. Tutti e tre insieme
delineammo uno studio ambizioso sull’efficacia dei gruppi d’incontro. Tali
gruppi erano molto di moda nel campus della Stanford, e molti membri della
facoltà erano preoccupati che gli studenti potessero essere danneggiati dai
confronti forzati, dai feedback privi di censura e dalla posizione anti-
establishment dei gruppi. In effetti, l’amministrazione dell’università era così
preoccupata da questi gruppi presenti nel campus da concederci
immediatamente il permesso di condurre delle ricerche su di essi. Per
assicurarci un vasto campione, l’università ci permise persino di offrire dei
crediti agli studenti per la partecipazione ai gruppi d’incontro.
Il nostro progetto di ricerca finale richiedeva un campione di
duecentodieci studenti, che vennero assegnati a caso a un’analisi a campione
o a uno dei venti gruppi; ciascun gruppo doveva riunirsi per un totale di
trenta ore. Gli studenti avrebbero ricevuto tre crediti per aver seguito il
corso. Selezionammo dieci metodologie popolari e diffuse e offrimmo due
gruppi per ciascuna metodologia:
Quindi reclutammo due noti leader esperti di gruppi per ciascuna di queste
modalità. Mort Lieberman elaborò un’ampia batteria di strumenti per
misurare i cambiamenti dei membri e valutare il comportamento del leader, e
reclutammo e addestrammo una squadra di osservatori per studiare i membri
e i leader durante ciascun incontro. Quando il comitato per la ricerca
dell’università ebbe approvato il nostro piano di ricerca, intraprendemmo
questo progetto memorabile: sarebbe stato lo studio più vasto e rigoroso mai
condotto su questi gruppi.
Alla fine dello studio scrivemmo una monografia di cinquecento pagine
pubblicata dalla Basic Books, I gruppi d’incontro: primi dati. Le
conclusioni complessive furono notevoli: all’incirca il quaranta per cento
degli studenti che intraprendevano un corso trimestrale al college
subivano un significativo e positivo cambiamento personale, che
perdurava per almeno sei mesi. Naturalmente c’erano state anche sedici
“vittime”, ovvero studenti che avevano evidenziato un peggioramento sei
mesi dopo la loro esperienza nel gruppo.
Io scrissi i capitoli che descrivevano lo sviluppo clinico e l’evoluzione
di ciascun gruppo, il comportamento dei leader e gli effetti sugli “studenti di
successo” e sulle “vittime”. Il capitolo sulle “vittime” fu accolto con enorme
attenzione da chi si opponeva al movimento dei gruppi d’incontro e venne
citato in centinaia di giornali in tutto il paese, poiché procurava alla destra
conservatrice gli argomenti di cui aveva bisogno. D’altro canto, il capitolo
sugli “studenti di successo”, ovvero l’ampio numero di chi aveva ottenuto un
sostanziale cambiamento personale come risultato di dodici incontri di
gruppo, non ricevette alcuna attenzione. Questo fu davvero spiacevole per
me, in quanto ero sempre stato incline a ritenere che questi gruppi, se guidati
in modo adeguato, avessero molto da offrire.
Dieci anni più tardi il movimento dei gruppi d’incontro aveva perso
importanza, sostituito in molti pensionati della Stanford dai gruppi sulla
Bibbia. E, con la scomparsa dei gruppi d’incontro, il nostro libro I gruppi
d’incontro: primi dati perse il suo pubblico di lettori, con l’eccezione degli
studiosi, che trovavano utili molti degli strumenti di ricerca utilizzati. Tra
tutti i miei libri, è l’unico a non essere stato più pubblicato. Mia moglie non
era mai stata favorevole a questo progetto perché richiedeva una enorme
quantità del mio tempo, e perché un incontro fondamentale con i vari
partecipanti al progetto mi impedì di riportarla a casa in auto dallo Stanford
Hospital, dove aveva dato alla luce il nostro quarto figlio, Benjamin Blake.
Lei ricorda che uno dei recensori del libro aveva commentato: «Questi
autori devono aver lavorato veramente sodo, perché la loro prosa era molto
affaticata».
Continuai a lavorare al mio libro di testo sui gruppi (La teoria e la pratica
della psicoterapia di gruppo) per altri due anni, e una volta terminata la
stesura finale volai a New York per incontrare gli editori che David
Hamburg aveva contattato per mio conto. Pranzai con Arthur Rosenthal, il
fondatore della Basic Books, che mi colpì molto e mi convinse a pubblicare
con la sua casa editrice, nonostante avessi avuto offerte da altri editori.
Rivedere la mia vita in queste pagine mi ricorda quanto David Hamburg
abbia non solo sostenuto la mia ricerca, ma anche facilitato la mia carriera
editoriale.
La teoria e la pratica della psicoterapia di gruppo fu un immediato
successo, e nel giro di un anno o due venne adottato come libro di testo nella
maggior parte dei programmi di formazione psicoterapeutica del paese; in
seguito venne adottato anche in molti altri paesi. Strumento per la formazione
dei terapeuti di gruppo, il libro è passato attraverso cinque edizioni rivedute
e ha venduto oltre un milione di copie che, nel tempo, hanno garantito a me e
a Marilyn un nuovo grado di sicurezza finanziaria. Come molti collaboratori
della giovane facoltà di psichiatria, avevo arrotondato il mio reddito
facendo consulenze durante i fine settimana in vari ospedali psichiatrici, ma
dopo la pubblicazione del libro interruppi questa attività e accettai invece
gli inviti a tenere conferenze sulla terapia di gruppo.
Il mio approccio globale alla remunerazione fu radicalmente modificato
un giorno, all’incirca cinque anni dopo la pubblicazione del libro di testo,
quando mi rivolsi a un ampio pubblico alla Fordham University di New
York. Come al solito mi ero portato dietro la videocassetta di un incontro di
terapia di gruppo che avevo tenuto la settimana precedente, che intendevo
usare nella mia lezione. Il videoregistratore della Fordham però funzionava
male e alla fine il tecnico si arrese, lasciandomi con il compito faticoso e
stressante di dover improvvisare per l’intera mattinata. Nel pomeriggio feci
le mie due conferenze preparate, seguite da una lunga seduta basata su
domande e risposte con il pubblico, e alla fine della giornata ero
completamente esausto. Mentre il pubblico usciva, mi capitò di dare
un’occhiata al programma prestampato e notai che la quota per il laboratorio
era di 40 dollari (era il 1980). Mi guardai attorno nell’auditorium e calcolai
che dovessero esserci stati almeno seicento partecipanti. Un rapido calcolo
indicò che lo sponsor della conferenza aveva guadagnato oltre ventimila
dollari, mentre a me ne spettavano quattrocento! Da quel momento mi
accordai sempre su una buona percentuale di quanto veniva incassato a ogni
incontro, e il reddito derivato dalle conferenze in breve superò di gran lunga
il mio stipendio universitario.
20.
Soggiorno a Vienna
Vienna ha sempre occupato un posto di primo piano nella mia coscienza, in
quanto luogo di nascita di Freud e culla della psicoterapia. Avendo letto
molte biografie di Freud, avvertivo un senso di familiarità con la città che
aveva ospitato tanti dei miei scrittori preferiti, inclusi Stefan Zweig, Franz
Werfel, Arthur Schnitzler, Robert Musil e Joseph Roth. Così, nel 1970,
accettai senza esitare l’offerta della Stanford di insegnare agli studenti
universitari dei primi anni durante il trimestre estivo al campus che la
Stanford aveva a Vienna. Il trasferimento non fu privo di complicazioni:
avevo quattro figli, all’epoca di quindici, quattordici, undici e un anno. Ci
portammo dietro una vicina di vent’anni, amica di mia figlia, che avrebbe
vissuto con noi nel pensionato studentesco e avrebbe dato una mano a badare
al piccolo Ben. Accolsi con gioia l’opportunità di lavorare con gli studenti
più giovani della Stanford, e Marilyn fu come sempre felice della possibilità
di un soggiorno in Europa.
Era fantastico abitare nel centro di Vienna, dove aveva vissuto Freud. Mi
tuffai nel suo mondo, passeggiando per le strade lungo le quali aveva
passeggiato lui, visitando i suoi caffè, e contemplando il grande condominio
anonimo di cinque piani al numero 19 di Berggasse, che aveva ospitato la
dimora di Freud per quarantanove anni. Anni dopo, la Fondazione Sigmund
Freud comprò l’edificio, lo trasformò nel Museo Freud, ben segnalato da un
ampio striscione rosso, e lo aprì ai visitatori, ma all’epoca della mia visita
non c’era alcuna indicazione che Freud avesse mai vissuto e lavorato lì. La
città aveva piazzato dozzine di targhe d’ottone per indicare le dimore di
viennesi più o meno illustri, incluse diverse residenze di Mozart, ma non
c’era nulla che segnalasse il luogo dove Sigmund Freud aveva trascorso la
vita.
Vedere la casa di Freud e passeggiare per le strade della sua Vienna mi
risultò utile trent’anni più tardi, quando scrissi il romanzo Le lacrime di
Nietzsche. Attinsi a quei ricordi e alle foto che avevo scattato quell’anno per
creare un ambiente visivo credibile per gli incontri immaginari tra Nietzsche
e il famoso medico viennese Josef Breuer, che era stato il mentore di Freud.
A Vienna il mio incarico principale come insegnante prevedeva un corso
agli studenti della Stanford sulla vita e sull’opera di Sigmund Freud. Le
quaranta lezioni che preparai divennero la base di un corso “per la piena
comprensione di Freud” che avrei tenuto agli interni di psichiatria nei
successivi quindici anni. Con enfasi facevo notare sempre ai miei studenti
che Freud non era stato solo il creatore della psicoanalisi (che conta per
meno dell’uno per cento di tutta la terapia che viene offerta oggigiorno), ma
aveva inventato l’intero campo della psicoterapia: non esisteva nulla, in
forma alcuna, prima di Freud. Per quanto sia critico nei confronti dell’analisi
freudiana ortodossa contemporanea, ho sempre provato un grande rispetto
per la creatività e il coraggio di Freud. Mi viene spesso in mente quando
faccio terapia. Di recente, per esempio, ho incontrato un nuovo paziente che
era assillato da ossessioni oscene verso membri della propria famiglia, e ho
immediatamente pensato all’osservazione di Freud che, dietro simili
ossessioni persistenti, spesso c’è la rabbia. Mi rammarico che Freud oggi
sia così fuori moda. Come dichiara il titolo di un capitolo del mio Il dono
della terapia, «Freud non aveva sempre torto».
Poco prima di lasciare la Stanford per Vienna mi accaddero due eventi
traumatici significativi. Per prima cosa fui colpito dalla morte per cancro
alle surrenali di un caro amico, Al Weiss, che avevo incontrato quando era
interno alla Stanford. Tra le altre cose, io e Al eravamo compagni di pesca
con la fiocina, e avevamo fatto dei viaggi insieme a Baja.
Poi, durante una visita il giorno prima della partenza, il mio dentista trovò
una lesione sospetta su una gengiva. Fece una biopsia e mi disse che avrei
ricevuto il referto del patologo dopo il mio arrivo a Vienna. All’epoca stavo
leggendo del fatale cancro alla bocca di Freud, probabilmente causato
dall’abitudine di fumare il sigaro, e mi allarmai a causa delle mie abitudini
di fumatore: fumavo la pipa per gran parte della giornata, scegliendo ogni
giorno una pipa diversa dalla mia collezione e godendo dell’aroma del
tabacco Balkan Sobranie. A Vienna, mentre aspettavo il referto, divenni
estremamente ansioso al pensiero che avrei potuto presto sapere di avere lo
stesso cancro che aveva ucciso Freud.
Quella prima settimana a Vienna smisi di punto in bianco di fumare: di
conseguenza ebbi problemi a dormire e succhiai un sacchetto dopo l’altro di
caramelle al caffè per alleviare i miei bisogni orali. Finalmente ricevetti un
telegramma dal mio dentista che m’informava che la biopsia dava esito
negativo. Dovevo comunque superare il lutto per l’amico, mentre aspettavo
l’arrivo della mia famiglia. Cercai di obbligarmi a lavorare (ero arrivato a
Vienna una settimana prima per preparare le mie quaranta lezioni), ma ero
talmente in ansia che decisi di cercare aiuto. Tentai di avere un consulto con
un eminente terapeuta viennese, Viktor Frankl, autore di Uno psicologo nei
lager, un libro molto conosciuto, ma la sua segreteria telefonica m’informò
che si trovava all’estero per una serie di conferenze.
Quando arrivarono mia moglie e i miei figli recuperai un certo equilibrio
e mi sentii più a mio agio, e il nostro soggiorno di tre mesi a Vienna con gli
studenti della Stanford finì per diventare un’esperienza positiva e
indimenticabile per tutti noi. I due ragazzi più grandi erano particolarmente
eccitati dai contatti quotidiani con gli studenti della Stanford. Tutti i nostri
pasti erano in comune, compresa la cena del primo compleanno di nostro
figlio Ben. Sul nostro tavolo apparve una grande torta e l’intero corpo
studentesco cantò Happy birthday to you, mentre mia figlia Eve sollevava
Ben per mostrarlo ai presenti. Marilyn portò tutti i bambini, uno alla volta, al
Sacher Hotel per gustare la giustamente famosa Sachertorte, la migliore
torta che abbia mai assaggiato.
Accompagnammo gli studenti in due gite di classe. La prima fu un giro in
barca lungo il Danubio, costeggiato da milioni di girasoli, luminosi e vigili,
che giravano la corolla verso il sole man mano che si muoveva in cielo. La
giornata si concluse con una visita a Budapest, grigia e austera sotto
l’occupazione russa, ma comunque affascinante. Poi, proprio alla fine del
trimestre, accompagnammo la classe in una gita in treno a Zagabria, dove
salutammo gli studenti per l’ultima volta. Io e Marilyn, che avevamo lasciato
i bambini al pensionato di Vienna con la loro tata, affittammo una macchina e
per qualche giorno girammo per l’indimenticabile e bellissima costa dalmata
fino a Dubrovnik, e da lì attraverso la pacifica campagna serba.
Anche se il tempo che avevo trascorso a Vienna si era concentrato
massicciamente sul corso e sugli studenti, era impossibile resistere ai tesori
culturali. Marilyn mi aveva guidato attraverso il museo del Belvedere e fatto
conoscere le opere di Gustav Klimt ed Egon Schiele, che da allora sono
diventati, assieme a van Gogh, i miei pittori preferiti. Anche se non avevo
mai parlato di Klimt ai miei editori tedeschi, anni dopo loro scelsero di
utilizzare le sue opere per le copertine di quasi tutte le traduzioni tedesche
dei miei libri.
I bambini facevano passeggiate nei parchi lussureggianti, stando bene
attenti a non camminare sull’erba (altrimenti una qualche anziana signora
viennese li avrebbe rimproverati) e facevano escursioni nei boschi attorno
alla città, dove le persone si salutavano l’un l’altra con un amichevole:
«Grüss Gott». E, naturalmente, andammo all’opera per un’esecuzione
indimenticabile dei Racconti di Hoffmann. Vienna ci offriva una visione
opulenta di un mondo leggendario che si era solo di recente ripreso dal suo
passato nazista. Nemmeno nei miei sogni più audaci avrei potuto immaginare
che, quarant’anni più tardi, la città avrebbe assegnato un premio a uno dei
miei libri, ne avrebbe distribuito centomila copie gratis e mi avrebbe reso
onore con una settimana di festeggiamenti.
Verso la fine del nostro soggiorno riuscii finalmente a raggiungere
telefonicamente Viktor Frankl e a presentarmi come un professore di
psichiatria della Stanford affetto da alcuni problemi personali e bisognoso di
aiuto. Mi rispose che era molto occupato, ma accettò di incontrarmi quello
stesso giorno, nel tardo pomeriggio.
Frankl, un uomo dai capelli bianchi, piccolo e attraente, mi salutò con
cordialità e s’interessò immediatamente ai miei occhiali, chiedendomi subito
informazioni su chi li producesse. Non ne avevo idea, ma me li tolsi e glieli
porsi. La montatura da due soldi l’avevo acquistata in una catena
californiana chiamata “Quattr’occhi” e lui, dopo un breve esame, li giudicò
privi d’interesse. La sua montatura spessa in acciaio era piuttosto bella, e
glielo dissi. Sorrise e mi condusse nel salotto, indicando con un gesto della
mano un’enorme libreria che conteneva le traduzioni del suo libro Uno
psicologo nei lager.
Sedemmo in un angolo ben illuminato dal sole e Frankl esordì dicendo
che non avrebbe potuto dedicarmi molto tempo, dato che era tornato a casa il
giorno prima da un viaggio nel Regno Unito e aveva risposto alle lettere dei
suoi ammiratori fino alle quattro del mattino. Lo trovai strano, era come se
mi volesse impressionare. Inoltre non chiese le ragioni per cui lo avevo
contattato, ma espresse invece grande interesse per la comunità psichiatrica
della Stanford. Pose numerose domande e poi passò direttamente alla
descrizione della rigidezza della comunità psichiatrica viennese, che aveva
rifiutato di riconoscere i suoi contributi. Cominciai ad avere la sensazione di
trovarmi a un tè con il Cappellaio Matto: l’avevo cercato per una
consultazione terapeutica, e invece era lui a cercare conforto in me per il
trattamento irrispettoso ricevuto dalla comunità professionale di Vienna. Le
sue lamentele continuarono per il resto della nostra seduta, durante la quale
non mi chiese assolutamente nulla delle ragioni che mi avevano spinto ad
andare da lui. Durante il nostro incontro successivo, il giorno seguente,
alluse alla possibilità di essere invitato a tenere conferenze al personale e
agli studenti di psichiatria della Stanford in California. Promisi che avrei
cercato di organizzare la cosa.
Uno psicologo nei lager, un libro commovente e stimolante scritto nel
1946, è stato letto da milioni di persone in tutto il mondo e ancora oggi è uno
dei best seller della psicologia. Frankl vi racconta la storia della propria
esperienza durante l’Olocausto e come la determinazione di condividere la
propria storia con il mondo intero fosse stata decisiva per la sua
sopravvivenza. Ho ascoltato diverse volte la sua conferenza fondamentale
sul significato della vita: era un eccellente oratore e non mancava mai di
comunicare idee stimolanti.
Tuttavia la sua visita alla Stanford, qualche mese più tardi, si rivelò
piuttosto problematica. Quando venne a trovare me e mia moglie a casa
nostra fu subito chiaro che non era a suo agio con la cultura informale della
California. Una volta la nostra ragazza au pair, una svizzera che viveva con
noi e ci aiutava a badare ai nostri figli, venne da noi in lacrime perché
Frankl l’aveva rimproverata: le aveva chiesto del tè, e lei lo aveva servito in
una tazza di ceramica, non di porcellana.
Una dimostrazione clinica che offrì agli interni della Stanford prese una
piega catastrofica. Il suo approccio terapeutico (la logoterapia) consisteva
per lo più nel determinare, grazie a un’indagine di dieci-quindici minuti,
quale dovesse essere il significato della vita del paziente, e nel prescriverlo
a quello stesso paziente in modo autoritario. A un certo punto, durante un
colloquio dimostrativo, uno degli interni di psichiatria tra i più turbolenti,
con tanto di capelli lunghi e sandali ai piedi, si alzò in segno di protesta e
uscì a testa alta dalla stanza, borbottando: «Tutto questo è inumano!» Fu un
momento terribile per tutti, e nessuna scusa servì a rabbonire Viktor, che
chiese ripetutamente che l’interno venisse cacciato dal programma.
In alcune occasioni cercai di offrirgli un feedback, ma quasi sempre lo
interpretò come una critica offensiva. Dopo che ebbe lasciato la California
ci scrivemmo per parecchio tempo, e un anno dopo mi mandò un manoscritto,
chiedendomi un parere critico. In un punto descriveva, con dovizia di
dettagli, una conferenza che aveva tenuto a Harvard, durante la quale il
pubblico si era alzato in piedi e aveva applaudito cinque volte. Mi trovai di
fronte a un dilemma: tuttavia lui aveva chiesto un mio commento e così, dopo
essermi tormentato per trovare una risposta, decisi di essere franco. Risposi
nel modo più gentile possibile che porre un’attenzione così netta
sull’applauso toglieva forza alla sua presentazione e avrebbe potuto indurre
alcuni lettori a concludere che quell’applauso lo interessava troppo. Mi
rispose immediatamente con queste parole: «Irv, tu non vuoi capire, non eri
presente: si sono DAVVERO alzati in piedi e hanno applaudito cinque volte».
Persino i migliori di noi a volte sono accecati dalle loro ferite e dal loro
bisogno di lodi.
Di recente ho letto un resoconto autobiografico dei tempi in cui era
studente all’università di medicina di Vienna negli anni Sessanta scritto dal
professor Hans Steiner, un collega della Stanford e un amico, che offriva una
prospettiva differente. Da studente, a Vienna, Hans aveva avuto
un’esperienza estremamente positiva con Viktor Frankl: lo descriveva come
un insegnante eccellente, il cui approccio creativo sembrava un soffio d’aria
pura in contrasto con i metodi rigidi della facoltà di psichiatria di Vienna.
Alcuni anni dopo io e Viktor Frankl parlammo entrambi a un grande
congresso di psicoterapia e partecipai alla sua conferenza su Uno psicologo
nei lager. Come sempre affascinò il pubblico e ricevette un’ovazione
fragorosa. In seguito ci incontrammo, e lui e sua moglie Eleanor mi
abbracciarono con grande affetto. In seguito, mentre stavo scrivendo La
psicoterapia esistenziale, riesaminai attentamente il suo lavoro e mi resi
conto più che mai dell’importanza dei suoi contributi innovativi e
fondamentali per il nostro settore. Più di recente ho visitato un istituto di
psicoterapia a Mosca che aveva nel suo programma un dottorato in
logoterapia, e fui colpito da una fotografia a grandezza naturale di Viktor.
Mentre la guardavo, all’improvviso divenni consapevole della grandezza del
suo coraggio, come pure della profondità del suo dolore. Dal suo libro
sapevo come gli orrori di Auschwitz lo avessero traumatizzato, ma durante
quei primi incontri a Vienna e alla Stanford non ero pronto a entrare in piena
empatia con lui o a offrirgli il sostegno che avrei potuto dargli. In seguito,
nelle mie relazioni con altre figure di primo piano nel mio campo, quali
Rollo May, non avrei ripetuto quell’errore.
21.
Ogni giorno s’avvicina
Scrivere queste memorie mi ha portato a guardare indietro e a contemplare
l’intero arco della mia attività di scrittore. A un certo punto ero passato dal
produrre articoli orientati verso la ricerca e libri pensati per altri
accademici a scrivere di terapia per un pubblico meno specializzato, e
rintraccio i primi segni di questa metamorfosi in uno strano libro dal titolo
bizzarro Ogni giorno s’avvicina, pubblicato nel 1974. In questo testo mi
allontanavo dal linguaggio della ricerca quantitativa e cercavo di emulare i
narratori che avevo letto per tutta la vita. A quel tempo non avevo idea che
avrei continuato a insegnare psicoterapia attraverso quattro romanzi e tre
raccolte di racconti.
La mia metamorfosi cominciò quando, alla fine degli anni Sessanta,
inserii nel mio gruppo di terapia Ginny Elkins (è uno pseudonimo), che
aveva ottenuto una borsa di studio in scrittura creativa alla Stanford. La sua
terapia era problematica a causa dell’estrema timidezza e della riluttanza a
richiedere o accettare attenzione da parte del gruppo. Dopo alcuni mesi
concluse la borsa di studio e accettò un lavoro come insegnante in una scuola
serale che entrò in conflitto con gli orari degli incontri del gruppo.
Anche se avrebbe voluto continuare una terapia individuale con me,
Ginny non poteva permettersi le tariffe della Stanford, così le proposi un
insolito accordo. Accettai di rinunciare alla parcella se lei avesse scritto un
riassunto alla fine di ogni seduta, descrivendo tutti i sentimenti e i pensieri
che non aveva espresso durante il tempo passato insieme. Io, per parte mia,
avrei fatto esattamente lo stesso, ed entrambi avremmo consegnato i riassunti
in una busta sigillata alla mia segretaria. Poi, dopo diverse settimane di
terapia, ciascuno avrebbe letto i riassunti dell’altro.
Perché questa proposta strana e insolita? Da un lato, Ginny mi vedeva in
modo non realistico – nel gergo della psicoterapia, aveva un forte transfert
positivo –, cioè mi idealizzava, aveva un atteggiamento deferente e in mia
presenza regrediva a uno stadio infantile. Mi sembrava che potesse essere
utile per lei un confronto con la realtà, leggendo i miei pensieri sinceri, non
censurati, dopo ciascuna delle nostre sedute e, in particolare, venire a
conoscenza dei dubbi e delle incertezze che avevo su come aiutarla. Così
intendevo essere più autorivelatorio nella terapia, nella speranza di
incoraggiarla a fare altrettanto.
Ma c’era un’altra ragione, più personale: desideravo essere uno scrittore,
uno scrittore vero. Mi ero sentito soffocato dalla fatica di scrivere un libro
di testo erudito di cinquecento pagine, seguito dalla collaborazione a una
monografia di ricerca di altre cinquecento pagine sui gruppi d’incontro, e
immaginavo che questo progetto con Ginny potesse permettermi un esercizio
insolito, l’opportunità di spezzare i ceppi professionali, di trovare la mia
voce esprimendo qualsiasi cosa mi venisse in mente subito dopo ogni seduta.
Inoltre Ginny era una scrittrice magistrale, e pensavo che potesse sentirsi più
a suo agio comunicando attraverso la parola scritta invece che a livello
verbale.
Il nostro scambio di appunti ogni pochi mesi fu oltremodo istruttivo. Ogni
volta che chi partecipa a un’attività studia la propria relazione con essa, si
ritrova immerso più profondamente nell’incontro stesso. Ogni volta che
leggevamo i riassunti dell’altro, la nostra terapia ne veniva arricchita. Inoltre
gli appunti fornivano una sorta di esperienza alla Rashomon: anche se
avevamo condiviso la stessa ora, l’avevamo sperimentata in modo molto
diverso, dando valore a parti diverse della seduta. Le mie interpretazioni
eleganti e brillanti? Ahimè, non le aveva nemmeno sentite! Invece aveva dato
valore a piccoli atti personali che quasi non avevo notato: i complimenti per
il suo abbigliamento o il suo aspetto, le goffe scuse per essere arrivato con
un paio di minuti di ritardo, aver ridacchiato a una sua battuta, averle
insegnato a rilassarsi.
Per anni, in seguito, utilizzai i nostri riassunti nelle mie lezioni di
psicoterapia con gli interni di psichiatria, e fui colpito dall’intenso interesse
degli studenti per le nostre diverse voci e i diversi punti di vista. Quando
mostrai i riassunti a Marilyn, trovò che andassero letti come un romanzo
epistolare e suggerì di pubblicarli in un libro, offrendosi immediatamente di
revisionarli. Poco dopo lei e nostro figlio Victor fecero una vacanza sulla
neve e la mattina, mentre Victor prendeva lezioni di sci, lei sfrondò e rese
più chiari i nostri riassunti.
Ginny fu entusiasta del progetto editoriale: sarebbe stato il suo primo
libro e concordammo di dividere i diritti d’autore in parti uguali, mentre
Marilyn avrebbe ricevuto il venti per cento. Nel 1974 la Basic Books
pubblicò il libro con il titolo Ogni giorno s’avvicina. A posteriori il
sottotitolo suggerito da Marilyn, Una terapia raccontata due volte (un
adattamento da Hawthorne), sarebbe stato di gran lunga migliore, ma Ginny
amava la canzone Ogni giorno del vecchio Buddy Holly e aveva sempre
voluto farne la canzone del giorno del suo matrimonio. Qualche anno dopo,
quando uscì il film su Buddy Holly, ascoltai con grande attenzione il testo e
restai esterrefatto quando scoprii che Ginny aveva capito male il verso. In
effetti le parole erano: «Ogni giorno è un avvicinarsi».
Io e Ginny scrivemmo entrambi una prefazione e una postfazione, e ho un
ricordo indelebile di come scrissi le mie. Anche se avevo scritto parecchio a
livello professionale nel mio studio nel dipartimento per pazienti
ambulatoriali psichiatrici, lo trovavo troppo rumoroso e pieno d’attività per
ispirarmi a scrivere. All’epoca psichiatria occupava l’ala sud dello Stanford
Hospital, con studi per il preside e i membri della facoltà, e molti locali
riservati alla terapia. Lì accanto c’era l’ala occupata da Carl Pribram, un
membro della facoltà che portava avanti delle ricerche sulle scimmie, una
delle quali di tanto in tanto scappava e si metteva a correre per la clinica e
la sala d’aspetto, scatenando il caos. Appena oltre il laboratorio di Pribram
c’era l’archivio, dove venivano conservate le cartelle dei pazienti. Era un
angolo buio e senza finestre, ma tranquillo e completamente privato,
abbastanza ampio perché potessi camminare avanti e indietro, costruire frasi
complesse e leggermele ad alta voce. Quell’orrenda stanza mi piaceva: mi
faceva pensare al mio studio nel seminterrato dove, da adolescente, avevo
passato ore a scrivere poesie composte solo per le mie orecchie (anche se
mi era capitato di leggerne qualcuna a Marilyn).
Mi sono goduto le ore trascorse in quella stanza buia, alla ricerca del
tono giusto. Era un punto di svolta critico – nessun dato, nessun fatto, nessuna
statistica o insegnamento –, dovevo solo lasciar scorrere i miei pensieri.
Non so cantare, ma in quei momenti cantavo per me. Sono anche convinto
che le montagne di carte che mi circondavano, le migliaia di storie di
pazienti, si infiltrarono nella mia coscienza quando cominciai la prefazione:
Mi sconvolge sempre trovare le vecchie agende piene di nomi semidimenticati di pazienti con i
quali ho avuto le esperienze più tenere. Tante persone, tanti bei momenti. Che cosa gli è
successo? I miei schedari a più ripiani, gli ammassi di cassette registrate spesso mi ricordano un
vasto cimitero: vite compresse in cartelle cliniche, voci intrappolate su bande elettromagnetiche
che senza sonoro mettono eternamente in scena il loro dramma. Vivere con questi monumenti mi
riempie di un acuto senso della nostra caducità. Anche quando mi sento immerso nel presente,
percepisco lo spettro del declino che guarda e attende, un declino che alla fine sgominerà
l’esperienza vissuta e tuttavia, con la sua stessa inesorabilità, le conferisce significato e bellezza.
Il desiderio di narrare la mia esperienza con Ginny è molto incalzante: sono affascinato
dall’opportunità di prevenire il declino, di prolungare l’ampiezza della nostra breve vita insieme.
È molto meglio sapere che esisterà nella mente del lettore invece che nel magazzino abbandonato
dove si ammucchiano note cliniche non lette e nastri elettromagnetici non ascoltati.
Più o meno nello stesso periodo in cui vedevo Ginny in terapia, ebbi un altro
incontro letterario. Un collega di Marilyn ci offrì una visione dietro le quinte
di Ernest Hemingway, che si era suicidato nel 1961. In una biblioteca
universitaria questo collega aveva potuto esaminare un deposito di lettere
inedite che Hemingway aveva scritto all’amico Buck Lanham, il generale al
comando di una delle armate impegnate nell’invasione della Normandia.
Anche se non gli era stato permesso copiarle, il collega di Marilyn di
nascosto aveva letto ad alta voce le lettere registrandole su un piccolo
registratore, le aveva trascritte e ci aveva prestato la sua copia per alcuni
giorni, permettendoci di parafrasarle ma non di usarle come citazioni.
Le lettere gettavano una luce considerevole sulla psiche di Hemingway.
Raccolsi ulteriori informazioni andando a Washington a trovare Buck
Lanham, che allora era uno dei dirigenti della Xerox e che fu abbastanza
gentile da parlare con me della sua amicizia con Hemingway. Dopo aver
riletto molte opere di Hemingway, io e Marilyn arruolammo una serie di
baby-sitter e partimmo per un lungo e appartato fine settimana al Villa
Montalvo Arts Center di Saratoga, in California, per scrivere insieme un
articolo.
Il nostro lavoro, intitolato Hemingway: una visione psichiatrica, fu
pubblicato nel 1971 sul Journal of the American Psychiatric Association e
venne immediatamente ripreso da centinai di giornali in tutto il mondo. Nulla
di quanto ciascuno di noi due, prima o in seguito, ha scritto ha mai più
attirato una simile attenzione.
Nell’articolo esaminavamo il senso d’inadeguatezza sotteso
all’esteriorità spaccona di Hemingway. Sebbene si fosse temprato e
impegnato accanitamente in difficili occupazioni mascoline quali la boxe, la
pesca d’alto mare e la caccia grossa, nelle sue lettere al generale Lanham
appariva vulnerabile e infantile. Venerava l’autentico e reale comandante
militare, forte e coraggioso, e parlava di sé come di uno «scrittore
insignificante». Anche se come scrittore lo apprezzo moltissimo, non ho mai
ammirato la sua immagine pubblica: era troppo caustico, troppo ipermacho,
troppo privo di empatia, troppo dipendente dall’alcol. La lettura delle sue
lettere rivelava un bambino più debole, più autocritico, abbagliato dagli
adulti davvero tosti, davvero coraggiosi sparsi per il mondo.
Esponemmo subito le nostre intenzioni all’inizio dell’articolo:
Mentre apprezziamo le considerazioni esistenziali generate dagli incontri di Hemingway con il
pericolo e con la morte, non vi troviamo la stessa misura di universalità e atemporalità di un
Tolstoj, di un Conrad o di un Camus. Perché, ci chiediamo? Perché la visione del mondo di
Hemingway è così limitata? Sospettiamo che le limitazioni delle visioni di Hemingway siano
collegate alle sue restrizioni psicologiche personali… Come non c’è alcun dubbio che fosse uno
scrittore estremamente dotato, così non esiste nemmeno il dubbio che fosse un uomo estremamente
problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso
all’età di sessantadue anni.
Tremai, quando lo sentii parlare. La forza della sua capacità oratoria era
aumentata dal potere particolare che diamo sempre alle parole di chi sta per
morire. Gli studenti delle scuole superiori ascoltavano in silenzio,
percependo, proprio come me, che parlava sinceramente, che non aveva
tempo per giochetti o messe in scena.
Un’altra paziente, Evelyn, gravemente malata di leucemia, procurò a Sal
un’ulteriore opportunità per il suo ministero. Portata nel gruppo su una sedia
a rotelle e con una trasfusione di sangue in corso, Evelyn disse: «Lo so che
sto morendo. Posso accettarlo, non è più una cosa importante. Ma quello che
davvero importa è mia figlia, che sta avvelenando i miei ultimi giorni!»
Descrisse poi la figlia come «una donna vendicativa, incapace d’amore».
Qualche mese prima avevano avuto un litigio amaro e assurdo dopo che la
figlia, che badava al gatto di Evelyn, gli aveva somministrato il cibo
sbagliato. Da allora non si erano più parlate.
Dopo averla ascoltata, Sal le disse, in modo semplice e appassionato:
«Ascolta quello che ho da dirti, Evelyn. Anch’io sto morendo. Lascia che ti
chieda: che cosa importa quello che mangia il tuo gatto? Che importa chi
cederà per prima? Lo sai che non hai molto tempo. Smettiamola di fingere.
L’amore di tua figlia per te è la cosa più importante del mondo. Non morire,
ti prego, non morire senza dirglielo. Le avvelenerà la vita, non si riprenderà
più, e a sua volta passerà quel veleno a sua figlia! Spezza il cerchio! Spezza
il cerchio, Evelyn!»
L’appello di Sal funzionò. Anche se Evelyn morì qualche giorno più tardi,
l’infermiera del reparto ci disse che, sotto l’influsso delle parole di Sal, lei
e la figlia si erano riconciliate tra le lacrime. Ero molto fiero di Sal. Era il
primo trionfo del nostro gruppo!
Dopo diversi mesi sentii di aver imparato abbastanza da poter cominciare
a lavorare con un numero maggiore di pazienti. Pensai anche che un gruppo
omogeneo avrebbe potuto essere più efficace. La maggior parte delle
pazienti che avevo visto durante le consultazioni avevano un cancro al seno
con metastasi, così decisi di formare un gruppo composto interamente da
donne con quella malattia. Paula cominciò a reclutarle con impegno.
Facemmo alcuni colloqui, accettammo sette nuove donne e aprimmo
ufficialmente la nostra attività.
Paula mi sorprese dando inizio alla prima seduta con la lettura ad alta
voce di un antico racconto chassidico:
Un rabbino ebbe una conversazione con il Signore a proposito del Paradiso e dell’Inferno. «Ti
mostrerò l’Inferno» disse il Signore, e condusse il rabbino in una stanza che conteneva un ampio
tavolo rotondo. Le persone sedute attorno al tavolo erano affamate e disperate. In mezzo al
tavolo c’era un’enorme pentola di stufato dal profumo così delizioso che al rabbino venne
l’acquolina in bocca. Tutte le persone attorno al tavolo avevano in mano un cucchiaio con un
manico molto lungo. Anche se quei lunghi cucchiai servivano a raggiungere la pentola, i manici
erano più lunghi delle braccia delle persone, così nessuno riusciva a mangiare, perché non era
in grado di portare il cucchiaio alle labbra. Il rabbino vide che la loro sofferenza era davvero
terribile.
«Adesso ti farò vedere il Paradiso» disse il Signore, ed entrarono in un’altra stanza,
esattamente uguale alla prima. C’erano lo stesso ampio tavolo rotondo, la stessa pentola di
stufato. Le persone, come in precedenza, erano equipaggiate con gli stessi cucchiai dal lungo
manico – ma qui tutti erano ben nutriti e in carne, ridevano e chiacchieravano. Il rabbino non
riusciva a capire. «È semplice, ma richiede una certa abilità» disse il Signore. «In questa stanza
hanno imparato a imboccarsi l’un l’altro».
È rassicurante credere che Dio abbia uno scopo per noi. I laici trovano
frustrante la consapevolezza di dover lanciare i loro bastoncini da soli.
Come sarebbe rassicurante sapere che da qualche parte, là fuori, esiste un
autentico e tangibile scopo nella vita, invece del solo senso di uno scopo
nella vita! Viene alla mente il commento di Ovidio: «Conviene che esistano
gli dei, quindi, se conviene, crediamo che esistano».
Anche se ho spesso pensato a La psicoterapia esistenziale come a un
libro di testo per un corso che non esisteva, non ho mai avuto intenzione di
creare un nuovo ambito di terapia. Il mio intento era aumentare la
consapevolezza di tutti i terapeuti riguardo all’importanza delle questioni
esistenziali nelle vite dei loro pazienti. In anni recenti sono sorte
organizzazioni professionali di terapeuti esistenziali e, nel 2015, sono
intervenuto in videoconferenza al primo grande congresso internazionale di
terapeuti esistenziali a Londra. Anche se sono lieto dell’aumento
dell’interesse alle questioni esistenziali in terapia, ho qualche problema a
concepire la psicoterapia esistenziale come una scuola a sé. Gli
organizzatori del congresso internazionale hanno incontrato enormi difficoltà
a trovare una definizione esaustiva di questa scuola. Dopotutto esisteranno
sempre pazienti il cui lavoro terapeutico coinvolgerà in primo luogo
questioni interpersonali, o l’autostima, o la sessualità, o la dipendenza, e per
tali pazienti le questioni esistenziali potrebbero non essere immediatamente
pertinenti. Questo fatto ha implicazioni riguardo la formazione. È raro che
passi una settimana senza che uno studente mi chieda dove può essere
formato per diventare uno psicoterapeuta esistenziale. Suggerisco sempre
che prima si formi come terapeuta, che conosca una varietà di approcci
terapeutici, e poi, nei programmi successivi alla laurea o nella supervisione,
familiarizzi con l’aspetto più specialistico della psicoterapia esistenziale.
26.
I gruppi di pazienti ospedalizzati e Parigi
Nel 1979 mi venne chiesto di prestare servizio, su base temporanea, come
direttore medico dell’unità per pazienti psichiatrici ospedalizzati dello
Stanford. A quell’epoca l’ospedalizzazione psichiatrica era in subbuglio
nell’intera nazione: le compagnie d’assicurazioni ne avevano tagliato la
copertura, insistendo affinché i pazienti venissero trasferiti il più in fretta
possibile in istituti di ricovero meno costosi. Dato che i pazienti non
rimanevano in ospedale più di una settimana, spesso anche meno, la
composizione di ciascun gruppo era di rado la stessa per due sedute
consecutive, e gli incontri erano diventati caotici e inefficaci. In gran parte a
causa di tale subbuglio, il morale del personale era sempre più basso.
Non avevo in programma di intraprendere un nuovo progetto di terapia di
gruppo, ma ero inquieto e in cerca di una sfida. La mia scrivania era
sgombra, il libro sulla terapia esistenziale concluso, ed ero pronto per un
nuovo progetto. Date la mia fede profonda nell’efficacia dell’approccio di
gruppo e la sfida allettante di creare un nuovo modo di condurre gruppi di
pazienti ospedalizzati, accettai di assumere quella carica per due anni.
Reclutai uno psichiatra che si era laureato alla Stanford per gestire i
trattamenti medicinali nel reparto (la psicofarmacologia non è mai stata uno
dei miei punti di forza o dei miei interessi), quindi mi concentrai in primo
luogo sull’organizzazione di un nuovo approccio alla terapia di gruppo per i
reparti di degenti che cambiavano in continuazione. Cominciai con il visitare
gli incontri di gruppo nei reparti psichiatrici dei principali ospedali del
paese. Ovunque trovai un’estrema confusione: nemmeno i più rinomati
ospedali accademici avevano un programma efficace per i gruppi di degenti.
In presenza di una rotazione così rapida, i leader dei gruppi si sentivano
costretti a presentare il nuovo o i nuovi membri all’inizio di ogni seduta e a
invitarli a illustrare perché fossero ricoverati in ospedale. Quasi
invariabilmente questi resoconti, seguiti dal tentativo dei terapeuti di
ottenere risposte da altri membri del gruppo, assorbivano tutto il tempo
dell’incontro. Nessuno sembrava ricevere un gran beneficio da questi gruppi,
e gli attriti erano frequenti. Era necessaria una strategia completamente
diversa.
L’unità di pronto soccorso psichiatrico dello Stanford aveva venti
pazienti: li suddivisi in due gruppi ad alto e a basso livello di
funzionamento, ciascuno formato da sei a otto membri (gli altri pazienti, per
lo più le nuove ammissioni al reparto, erano troppo disorganizzati per
frequentare un qualsiasi gruppo nei primi due giorni di permanenza). Dopo
alcune sperimentazioni sviluppai una struttura praticabile. A causa della
rapida rotazione, rinunciai completamente all’idea della continuità tra un
incontro e l’altro e adottai un nuovo paradigma: la vita di ciascun gruppo
sarebbe durata una sola seduta, e il compito del leader sarebbe stato quello
di rendere quell’unico incontro il più efficiente ed efficace possibile.
Sviluppai uno schema per i pazienti ad alto livello di funzionamento che
consisteva in quattro fasi:
1. Ogni paziente, a turno, avrebbe formulato un ordine del giorno collegato a una questione
interpersonale sulla quale lavorare nell’incontro (questo compito impegnava almeno un terzo
dell’incontro).
2. Il resto dell’incontro del gruppo veniva trascorso seguendo l’ordine del giorno di ciascun paziente.
3. Alla fine dell’incontro, gli osservatori (studenti di medicina, psicologia o counseling, medici interni e
infermiere che avevano assistito all’incontro attraverso un falso specchio) entravano nella stanza e
discutevano dell’incontro, mentre i pazienti assistevano, seduti in cerchio attorno a loro.
4. Alla fine, negli ultimi dieci minuti, i membri del gruppo rispondevano a quanto emerso nella
discussione successiva al gruppo da parte degli osservatori.
Anche se per molti anni non mi dedicai alla meditazione, sono giunto a
provare maggiore rispetto per questa pratica, in parte perché ho conosciuto
molte persone per le quali è stata un grande sollievo nella sofferenza e ha
offerto una via verso una vita più compassionevole. Negli ultimi tre anni ho
letto di più sulla meditazione, ho parlato con colleghi che la praticano e ho
sperimentato approcci differenti. Spesso la sera, se mi sento agitato, ascolto
una delle innumerevoli meditazioni disponibili su Internet, e in genere mi
addormento prima della fine.
L’India è stata la mia prima introduzione approfondita alla cultura
asiatica. E non sarebbe stata l’ultima.
28.
Il Giappone, la Cina, Bali e Il carnefice dell’amore
Mentre mi stavo registrando in un albergo di Tokyo nell’autunno del 1987,
incontrai lo psicologo che parlava inglese che i miei ospiti giapponesi
avevano fatto venire da New York per farmi da traduttore. Alloggiava nella
stanza adiacente e sarebbe stato a disposizione in qualsiasi momento per
l’intera settimana.
«Può dirmi esattamente che cosa dovrò fare?» chiesi.
«Il direttore del programma dell’ospedale Hasegawa non mi ha detto
nulla di specifico sul programma per la settimana».
«Mi chiedo come mai. Ho cercato di saperne qualcosa, ma non ho
ricevuto risposte: sembra vogliano essere deliberatamente riservati».
Si limitò a guardarmi, alzando le spalle.
La mattina successiva, quando arrivammo all’ospedale Hasegawa fui
accolto cortesemente con un enorme mazzo di fiori da un numeroso
contingente di psichiatri e responsabili amministrativi, tutti in attesa
all’ingresso dell’ospedale. Mi dissero che la mia prima mattinata era
un’occasione speciale: l’intero personale ospedaliero avrebbe partecipato a
un incontro di terapia di gruppo di pazienti degenti che io avrei commentato.
Poi mi accompagnarono in un auditorium che poteva accogliere all’incirca
quattrocento persone. Avevo commentato incontri di gruppo innumerevoli
volte, ero rilassato e mi accomodai immaginando la descrizione verbale o il
video di un incontro di gruppo. Restai invece sbalordito quando mi resi
conto che il personale aveva preparato un’elaborata drammatizzazione di un
incontro di gruppo. Dopo aver registrato una seduta di gruppo tenutasi in uno
dei reparti dell’ospedale il mese precedente, l’avevano trascritta, avevano
assegnato le parti a vari membri del personale e avevano ovviamente
passato molte ore a mettere in scena la rappresentazione. Fu un’esibizione
raffinata ma, ahimè, si trattava di uno degli incontri di gruppo più terrificanti
che avessi mai visto. I leader giravano attorno al gruppo, offrendo consigli e
prescrivendo vari esercizi a turno a ciascuno dei membri. Nemmeno una
volta un membro del gruppo si rivolse a un altro: a parer mio, quello era un
chiaro esempio di come non si deve fare una terapia di gruppo. Si fosse
trattato della registrazione di un’autentica seduta di gruppo, non avrei avuto
problemi a fermarla e a proporre approcci alternativi. Ma come potevo
fermare una produzione accuratamente preparata, che doveva aver richiesto
innumerevoli ore di prove? Sarebbe stato un terribile insulto. Così me ne
rimasi seduto e seguii l’intero spettacolo (con il traduttore che mi sussurrava
la traduzione all’orecchio). Poi, durante il mio intervento, con gentilezza,
estrema gentilezza, suggerii alcune tecniche basate sulle relazioni
interpersonali.
Feci del mio meglio per essere un insegnante valido nel corso della mia
settimana a Tokyo, ma non ebbi mai la sensazione di essere davvero
efficace. Mi resi conto che qualcosa di profondamente integrato nella cultura
giapponese si opponeva alla psicoterapia occidentale, in particolare alla
psicoterapia di gruppo: si trattava principalmente della ritrosia a rivelare se
stessi o a condividere i segreti di famiglia. Mi offrii di condurre un gruppo
di analisi del processo per terapeuti, ma l’idea fu respinta e, a essere onesto,
ne fui sollevato. Credo che ci sarebbe stata una resistenza silenziosa così
potente che avremmo fatto ben pochi progressi. Quella settimana in tutte le
mie presentazioni il pubblico fu rispettosamente attento, ma nessuno fece mai
un commento o mi rivolse una sola domanda.
In quello stesso viaggio Marilyn visse un’esperienza simile. Tenne una
conferenza sulla letteratura femminile americana del ventesimo secolo a un
Istituto delle donne giapponesi, davanti a una vasta folla e in un auditorium
magnificamente arredato. L’evento era ben orchestrato, con un bellissimo
recital di danza prima della conferenza e un pubblico attento e rispettoso. Ma
quando lei chiese se ci fossero domande o commenti, ci fu solo silenzio. Due
settimane più tardi tenne la stessa conferenza all’Università degli studi
stranieri di Pechino, e alla fine fu bombardata di domande dagli studenti
cinesi.
A Tokyo mi fu riservata ogni possibile cortesia. Mi piacquero moltissimo
i pasti nel contenitore bento tradizionale, con sette strati di portate delicate e
splendidamente disposte. In mio onore vennero organizzate feste sontuose e
il mio ospite generosamente mi invitò a usare ogni volta che l’avessi
desiderato il suo appartamento alle Hawaii provvisto di una vista
mozzafiato.
Dopo le consultazioni, ovunque andassimo in Giappone fummo sempre
trattati con generosità da ospiti e sconosciuti. A Tokyo una sera, mentre
eravamo diretti al teatro Kabuki ma avevamo smarrito la strada, mostrammo
i biglietti a una donna che stava lavando la scala di un edificio e le
chiedemmo indicazioni. Subito lei lasciò perdere quello che stava facendo e
ci scortò per quattro isolati fino alla porta del teatro. Un’altra volta, a Kyoto,
eravamo scesi da un autobus e stavamo passeggiando per la città quando
sentimmo dietro di noi dei passi affrettati. Un’anziana signora che respirava
a fatica per l’affanno ci raggiunse per porgerci l’ombrello che avevamo
lasciato sull’autobus. Poco tempo dopo, in un tempio buddhista,
cominciammo a parlare con uno sconosciuto, un professore che
immediatamente ci invitò a cena a casa sua. Tuttavia la cultura di quel paese
non ha accolto con favore il mio approccio alla terapia e pochissimi dei miei
libri sono stati tradotti in giapponese.
Dopo aver scritto “Tre lettere sigillate”, la storia di Saul, utilizzando gli
appunti che avevo buttato giù in fretta sul passaporto, trascorrevo le
mattinate sulla panca in giardino, setacciando la cassetta dei miei appunti per
dar vita alla seconda storia. Nel pomeriggio io e Marilyn giravamo per ore
lungo la spiaggia e, quasi impercettibilmente, una storia si radicava e si
sviluppava con tale vigore da impormi di mettere da parte tutti gli altri
appunti e dedicarmici totalmente. Quando cominciavo a scrivere, non avevo
idea di dove la storia mi avrebbe condotto o che forma avrebbe preso. Mi
sentivo quasi uno spettatore mentre la guardavo formarsi e far crescere
virgulti che in breve si sarebbero intrecciati.
Ho spesso sentito scrittori sostenere che una storia si scrive da sé, ma non
avevo capito cosa intendessero fino a quel momento. Dopo due mesi avevo
sviluppato un apprezzamento del tutto nuovo e più profondo nei confronti di
un vecchio aneddoto che Marilyn mi aveva raccontato anni prima, a
proposito del romanziere inglese del diciannovesimo secolo William
Thackeray. Una sera, mentre stava uscendo dal suo studio, la moglie gli
aveva chiesto come fosse andata la sua giornata di scrittura. E lui aveva
risposto: «Oh, una giornata terribile! Pendennis [uno dei suoi personaggi] si
è reso ridicolo e io non sono riuscito a impedirglielo».
In breve mi abituai a sentire i miei personaggi parlare tra di loro. Ero
sempre lì a origliare, anche dopo aver concluso la scrittura giornaliera,
mentre passeggiavo a braccetto con Marilyn su una delle infinite spiagge
lisce come il burro. In breve tempo ebbi un’altra esperienza di scrittura, una
delle esperienze culminanti della mia esistenza. A un certo punto, mentre ero
profondamente immerso in una storia, osservai la mia mente volubile che
flirtava con un’altra storia, che stava prendendo forma al di là della mia
percezione immediata. Presi la cosa come un segnale, un segnale strano, da
me stesso a me stesso, che la storia che stavo scrivendo era vicina alla
conclusione e una nuova storia era pronta a nascere.
Adesso che tutte le mie parole esistevano soltanto su quel computer così
poco familiare, mi sentivo sempre più a disagio a non avere copie cartacee
del mio lavoro – cose come Dropbox, Time Machine e le chiavette USB non
erano ancora state inventate. Sfortunatamente la mia stampante portatile
Kodak non amava viaggiare e, dopo un solo mese a Bali, aveva esalato il
suo ultimo respiro. Allarmato dalla prospettiva di veder svanire in modo
permanente il mio lavoro nel profondo delle viscere del computer, cercai
aiuto. Risultò che in tutta Bali esisteva un’unica stampante, presso una scuola
d’informatica della città di Denpasar, la capitale. Un giorno portai il mio
computer alla scuola, attesi la fine delle lezioni e supplicai o allungai una
mancia (non ricordo quale delle due cose feci, forse entrambe)
all’insegnante per avere una preziosa copia cartacea del mio lavoro.
A Bali l’ispirazione giungeva rapidamente. Senza posta, telefono o altre
distrazioni, scrivevo meglio e più rapidamente di quanto avessi mai fatto
prima. Nei due mesi che trascorsi laggiù composi quattro dei dieci racconti
del libro. In ciascuna storia perdevo moltissimo tempo a occultare l’identità
dei pazienti. Ne alteravo aspetto fisico, occupazione, età, nazionalità, stato
civile, e spesso persino il sesso. Volevo essere assolutamente sicuro che
nessuno potesse riconoscerli e, naturalmente, avrei mandato a ciascun
paziente la storia, una volta ultimata, e chiesto loro il permesso scritto di
pubblicarla.
Nel tempo libero io e Marilyn esploravamo l’isola. Adoravamo gli
aggraziati balinesi e ammiravamo la loro arte, la danza, gli spettacoli di
burattini, le incisioni e i dipinti, e assistevamo pieni di meraviglia alle loro
sfilate religiose. Le passeggiate sulla spiaggia e le nuotate con il respiratore
erano un vero paradiso. Un giorno il nostro autista ci portò, assieme alle
biciclette, su uno dei punti più elevati di Bali, e ci lasciammo andare per
inerzia in discesa per diverse miglia attraverso i villaggi, dove le bancarelle
vendevano fette di giaco e di durian. Con sorpresa scoprii che gli scacchi
erano molto popolari a Bali, e trovavo dappertutto gente che giocava. Spesso
andavo in anticipo al ristorante vicino a casa nostra per giocare a scacchi
con il cameriere.
L’accordo che io e Marilyn avevamo stipulato prevedeva di trascorrere la
seconda metà dell’anno sabbatico in Europa. Io amo le isole tropicali e
Marilyn ama la Francia, e nel corso del nostro matrimonio abbiamo sempre
raggiunto un compromesso. Lei aveva appena lasciato ufficialmente il suo
incarico amministrativo alla Stanford (anche se in realtà lo mantiene ancora
oggi in qualità di membro anziano), e aveva ancora alcuni impegni
professionali che la riportarono a Palo Alto mentre ci dirigevamo in Europa.
Mi fermai alle Hawaii per un ritiro di scrittura a Oahu, nel delizioso
appartamento del nostro ospite giapponese, e lì scrissi altre due storie. Alla
fine, dopo cinque settimane, Marilyn si fece viva per informarmi che era
giunto il momento di riprendere il nostro viaggio.
La tappa successiva fu Bellagio, in Italia. Un anno prima avevamo
entrambi fatto richiesta ed eravamo stati entrambi accettati per un soggiorno
al Rockefeller Foundation Center di Bellagio, Marilyn per lavorare ai
ricordi delle donne della rivoluzione francese, e io al mio libro di racconti
sulla psicoterapia.
Ottenere un soggiorno a Bellagio dev’essere uno dei massimi benefici per
un membro del mondo accademico. A solo pochi passi dal lago di Como, il
Rockefeller aveva magnifici giardini, un cuoco superbo che faceva la pasta a
mano e ne serviva una varietà diversa ogni sera, e una bella villa centrale
che poteva ospitare trenta studiosi e fornire uno studio a ciascuno di loro.
Gli studiosi si incontravano all’ora dei pasti e per i seminari serali, dove
ciascuno presentava il proprio lavoro. Io e Marilyn scrivevamo ogni mattina
e nel pomeriggio prendevamo spesso il vaporetto per raggiungere uno dei
deliziosi villaggi sul lago di Como. Trascorsi molto tempo con uno degli
altri studiosi, Stanley Elkins, un magnifico scrittore di storie comiche.
Stanley era stato reso invalido dalla poliomielite e doveva usare la sedia a
rotelle. Ogni sera, immancabilmente, passava in rassegna le trasmissioni alla
radio, alla ricerca di trame e personaggi.
Dopo Bellagio trascorremmo i restanti quattro mesi dell’anno sabbatico a
Parigi, dove affittammo un appartamento sul Boulevard Port Royal. Marilyn
scriveva a casa, e io in un caffè all’aperto vicino al Panthéon, dove portai a
termine le ultime quattro storie. Ancora una volta ricominciai le mie lezioni
quotidiane di francese – ahimè, sempre senza alcun profitto –, e nel tardo
pomeriggio e la sera passeggiavamo per la città e cenavamo con gli amici
parigini di Marilyn.
Lavorare in un caffè all’aperto mi si confaceva e scrivevo con insolita
efficienza. In seguito, quando tornai a casa, trovai un caffè all’aperto a San
Francisco, a North Beach (il Caffè Malvino), con una buona atmosfera adatta
alla scrittura, dove continuai questa pratica. Dato che volevo che il libro
fosse una raccolta di storie didattiche per giovani terapeuti, decisi di
aggiungere qualche paragrafo al termine di ogni storia che elaborasse i punti
teorici illustrati nel testo. L’idea si rivelò troppo complessa, perciò trascorsi
diverse settimane a scrivere un epilogo didattico di una sessantina di pagine
da inserire al termine del libro. Quindi, con un senso di grande
soddisfazione, inviai il manoscritto all’editore.
Due o tre settimane più tardi Phoebe Hoss, editor della Basic Books
assegnata al libro, mi contattò. Phoebe era una editor infernale (ma anche
celestiale) ed eravamo destinati a una battaglia epica. Da quel che ricordo
fece solo interventi minimi sulle storie, con l’eccezione dell’inserimento, in
un punto, della frase «una valanga di carne» all’interno della storia di una
signora grassa. Quella frase mi è rimasta impressa perché è l’unica frase
gratuita che un mio qualsiasi editor abbia mai inserito (anche se spesso
vorrei che ne avessero inserite di più). Infine però, quando lesse il mio lungo
epilogo, Phoebe perse completamente la testa e insistette affinché lo
eliminassi. Era assolutamente sicura che non fosse necessaria alcuna
spiegazione teorica conclusiva e che le storie avrebbero parlato da sole. Io e
Phoebe iniziammo una lunga guerra che andò avanti per mesi. Le
sottoponevo una versione dell’epilogo dopo l’altra, e ogni volta mi veniva
restituita crudelmente mutilata fino a quando, dopo diversi mesi, Phoebe
aveva ridotto le mie sessanta pagine a dieci e insisteva che venissero
inserite all’inizio. Oggi, rileggendo il libro, che inizia con il breve prologo,
sono mortificato dai ricordi della mia fiera resistenza: Phoebe, editor
magnifica (non ne avrei più incontrate come lei), aveva assolutamente
ragione.
Quando il libro fu pubblicato io e Marilyn volammo a New York per una
festa organizzata dall’editore: simili avvenimenti, oggi rari, erano comuni
all’epoca. La festa era programmata per un lunedì sera, ma una recensione
negativa sul New York Times aveva smorzato il nostro entusiasmo. La
struttura del libro aveva pochissimi precedenti, e qualcosa in comune solo
con alcuni dei casi di Freud e con L’ora di cinquanta minuti di Robert
Lindner, su pazienti in ipnoterapia. Il recensore del New York Times, una
psicoanalista dell’infanzia, era oltraggiata dalla struttura e concludeva la sua
acida recensione dicendo che preferiva leggere le storie dei casi sulle riviste
professionali.
Pochi minuti dopo la mezzanotte di domenica, tuttavia, fui svegliato da
una telefonata dell’editore che, felicissimo, mi disse che l’edizione di
mercoledì del New York Times avrebbe pubblicato un articolo entusiasta di
Eva Hoffman, una nota scrittrice nonché autrice di recensioni. Ho avuto il
piacere di incontrarla anni dopo, e ancora oggi le sono grato. Tenni letture
del libro a New York e nelle librerie di una dozzina di città. Questi tour di
letture attraverso il paese appartengono in gran parte al passato, assieme alla
professione di chi fungeva da guida in tali occasioni, ovvero gli addetti che
incontravano l’autore all’aeroporto e lo accompagnavano ai luoghi in cui
doveva parlare. Quasi in ogni libreria Oliver Sacks mi aveva appena
preceduto, per promuovere il suo libro di recente pubblicazione L’uomo che
scambiò un cappello per sua moglie. I nostri cammini si incrociavano
talmente spesso che mi sembrava di conoscerlo, ma sfortunatamente questo
non avvenne mai. Ammiravo molto il suo lavoro e, dopo aver letto il
commovente finale di In movimento, gli scrissi una lettera di apprezzamento
poco prima che morisse.
Nel giro di poche settimane dopo la pubblicazione, con mio totale stupore
Il carnefice dell’amore si ritrovò nell’elenco del New York Times dei libri
più venduti, e ci rimase per parecchie settimane. Fui in breve travolto dalle
interviste e dalle richieste di conferenze, e ricordo che mi lamentai della
fatica e dello stress durante una conversazione a pranzo con Phillip Lopate,
un eccellente saggista che era stato uno dei miei istruttori a un laboratorio di
scrittura al Bennington College. Il suo consiglio fu: «Rilassati e goditi
l’attenzione: i best seller sono rari, e chissà se ne avrai mai più un altro!»
Quanto aveva ragione.
Ventitré anni dopo l’editore decise di ripubblicare Il carnefice
dell’amore con una nuova copertina e mi chiese di scrivere una nuova
postfazione. Rilessi il libro, per la prima volta in così tanti anni, ed ebbi
delle reazioni violente: orgoglio mischiato all’umiliazione per il mio
invecchiamento e all’invidia per me stesso da giovane. Non potei fare a
meno di pensare questo tizio scrive molto meglio di quanto scriva io. Fu un
piacere rivisitare tutti i miei cari vecchi pazienti, molti dei quali non erano
più in vita. Ma ci fu un’eccezione: la storia della “signora grassa”. Ricordo
di aver scritto quella storia in un caffè parigino e di aver passato ore a
costruire il paragrafo iniziale, che introduce il concetto di controtransfert, la
spontanea reazione emotiva del terapeuta a un paziente.
Il giorno in cui Betty entrò nel mio studio e la vidi dirigere i suoi centotredici chili per un metro e
sessanta verso la mia esile poltroncina high-tech, sapevo che la grande prova del controtransfert
mi stava aspettando.
La storia intende essere un racconto didattico per terapeuti e io, ancor più
del paziente, sono il vero protagonista. È una storia su quei sentimenti
irrazionali, a volte ripugnanti, che un terapeuta può provare nei confronti di
un paziente e che possono costituire un ostacolo formidabile nella terapia.
Un terapeuta può provare sentimenti di attrazione estremamente forti verso
un paziente, o può avere una potente reazione negativa che deriva da fonti
inconsce, forse da incontri con figure negative nel proprio passato. Anche se
non ero in contatto con tutte le ragioni dei miei sentimenti negativi nei
confronti delle donne obese, ero certo che la relazione con mia madre avesse
una parte importante, e sapevo che avrei dovuto combattere duramente per
avere la meglio su quel sentimento ribelle e per relazionarmi alla paziente in
modo umano e positivo. Era quella la storia che intendevo raccontare e, per
farlo, esagerai la portata del mio controtransfert: così il conflitto tra il
controtransfert negativo e il desiderio di aiutarla aveva fornito il punto
centrale del racconto.
Un episodio in particolare aveva suscitato in me una forte empatia. Betty
aveva fissato un appuntamento con l’aiuto di un’inserzione su un giornale
locale (era questa la pratica corrente, in quell’epoca che precedeva i siti
Match.com) e si era messa una rosa tra i capelli per essere identificata.
L’uomo non si era fatto vivo. Non era la prima volta che lei sperimentava
una cosa del genere, e ne aveva dedotto che l’uomo le avesse dato
un’occhiata da lontano e si fosse dileguato. Betty ebbe tutta la mia
comprensione e dovetti trattenere le lacrime alla descrizione di lei che
tentava di mantenere un contegno e beveva tutta sola in un bar affollato.
Mi inorgoglii per l’epilogo del racconto, espresso nelle parole
conclusive dopo che Betty aveva chiesto un abbraccio d’addio: «Quando ci
abbracciammo, fui sorpreso di scoprire che potevo circondarla tutta con le
mie braccia».
Avevo scelto di scrivere la storia rivelando brutalmente i miei pensieri
vergognosi sull’obesità. Ma ero andato molto più in là: per amore della
letteratura, avevo notevolmente esagerato la mia ripugnanza e strutturato la
storia come un duello tra il mio ruolo di guaritore e l’attacco di pensieri
assillanti sullo sfondo.
Avevo avuto una certa trepidazione mentre consegnavo la storia a Betty,
perché la leggesse e concedesse il permesso a pubblicarla. Naturalmente
avevo alterato tutti i dettagli che potevano portare a un’identificazione e le
chiesi se ci fossero altri cambiamenti che desiderava apportare. Le dissi che
avevo esagerato i miei sentimenti a beneficio di un più efficace risultato
didattico. Betty disse che capiva e mi diede il permesso scritto di pubblicare
la storia.
La risposta a questo racconto in particolare fu forte e vigorosa. “La
signora grassa” suscitò una marea di reazioni negative da parte di donne che
si erano sentite ferite o oltraggiate. Ma portò anche a una serie ancor
maggiore di lettere d’apprezzamento da parte di giovani terapeuti che si
sentivano sollevati, mentre cercavano di capire i propri sentimenti negativi
nei confronti di alcuni dei loro pazienti. La mia onestà, dicevano, rendeva
più facile per loro convivere con tali sentimenti negativi e permetteva loro
di parlarne apertamente con un supervisore o con un collega.
Quando Terry Gross mi intervistò a Fresh Air, un popolare programma
radio della PBS, mi interrogò, o meglio mi “stroncò”, proprio riguardo a
questa storia. Alla fine, a mia discolpa, esclamai: «Non ha letto il finale
della storia? Non ha capito che la storia riguardava il mio viaggio nella
terapia con qualcuno nei confronti del quale avevo dei pregiudizi negativi, e
che alla fine io ero cambiato e maturato come terapeuta? Sono io il
protagonista della storia, non il paziente». Non fui più invitato a partecipare
a quel programma.
Anche se forse non era stata in grado di dirmelo, immagino che la storia
abbia causato del dolore a Betty. Avevo indossato dei paraocchi. Ero troppo
ambizioso, troppo sconsiderato, troppo impegnato a dare sfogo al mio
impulso di scrivere. Lo rimpiango ancora oggi. Se scrivessi quella storia
oggi, cercherei di trasformare l’obesità in una condizione completamente
diversa e cercherei di romanzare in modo più radicale gli eventi della
terapia.
Terminai la postfazione alla nuova edizione de Il carnefice dell’amore con
un’osservazione che il mio io più giovane avrebbe trovato sorprendente,
ossia che lo spettacolo di cui si gode a ottant’anni è migliore di quanto ci si
possa aspettare. Sì, non posso negare che la vita in questi ultimi anni sia solo
una dannata perdita dopo l’altra; e tuttavia ho trovato una tranquillità e una
felicità molto maggiori nella settima e ottava decade della mia vita di quanto
avrei mai potuto credere possibile. E c’è un ulteriore vantaggio aggiuntivo:
leggere il proprio lavoro può essere più eccitante! La perdita della
memoria ha alcuni vantaggi inaspettati. Mentre sfogliavo le pagine di “Tre
lettere sigillate”, “È morto quello sbagliato” e la storia che dà il titolo al
libro, “Il carnefice dell’amore”, mi sono trovato ad ardere di curiosità.
Avevo dimenticato come andavano a finire!
29.
Le lacrime di Nietzsche
Nel 1988 ritornai all’insegnamento e all’attività clinica e collaborai con
Sophia Vinogradov, già medico psichiatra interno allo Stanford, per la
stesura di Una breve guida alla psicoterapia di gruppo per la American
Psychiatric Press. Nel volgere di breve tempo mi ritrovai preda di un
malessere che conoscevo bene: mi mancava non avere un progetto letterario
su cui lavorare e mi sentivo andare alla deriva. Mi scoprii di nuovo attratto
da alcune opere di Nietzsche. Ho sempre amato leggere Nietzsche e in breve
fui così inebriato dal suo linguaggio potente da non riuscire a levarmi dalla
mente questo strano filosofo del diciannovesimo secolo, un uomo così
brillante ma anche isolato e disperato, e con un enorme bisogno di aiuto.
Dopo aver trascorso alcuni mesi immerso nelle sue opere giovanili, mi
apparve chiaro che il mio inconscio aveva già scelto il nuovo progetto.
Adesso mi sentivo lacerato tra due desideri: continuare la vita di ricerca
e insegnamento allo Stanford o lanciarmi nell’impresa e cercare di scrivere
un romanzo. Rammento poco di questa lotta interiore. So solo che la sua
soluzione conciliò queste parti eterogenee: avrei scritto un romanzo a fini
didattici e tentato di trasportare i miei studenti indietro nel tempo, nella
Vienna della fine del diciannovesimo secolo, dove avrebbero potuto
assistere alla nascita della psicoterapia.
Perché Nietzsche? Anche se era vissuto nel periodo in cui Freud metteva
le basi della psicoterapia, non è mai stato considerato rilevante per la
psichiatria. Tuttavia molti dei pensieri di Nietzsche, sparsi in tutto il suo
lavoro e scritti prima della nascita della psicoterapia, sono profondamente
attinenti all’istruzione dei terapeuti. Considerate quanto segue:
Medico, aiuta te stesso; così aiuterai anche i tuoi malati. Questo sia il suo aiuto migliore: che lui, il
paziente, possa vedere con i propri occhi un uomo che risana se stesso.
Tu devi edificare sopra e oltre te stesso. Ma prima devi aver finito di edificare te stesso, essere retto di
corpo e d’anima. Non produrrai solo te stesso, ma produrrai qualcosa di più alto.
Tale, infatti, son io dal mio profondo e fui da principio, tirando, traendo a me, portando in alto, facendo
crescere: uno che tira su, un allevatore, un maestro severo, che non invano disse una volta a se stesso:
«Diventa chi sei!»
Spesso siamo più innamorati del desiderio che della persona desiderata.
Alcuni non possono allentare le proprie catene e possono ciò nonostante redimere i loro amici.
Verso la fine del nostro soggiorno alle Seychelles cominciai ad avere un calo
della vista, accompagnato da una reazione molto dolorosa alla luce
mattutina. Un medico locale mi diede una pomata che attenuò il dolore, ma la
fotofobia persistette e in breve mi toccò rimanere al buio fino a mezzogiorno,
quando la luce diventava sopportabile. L’unica stanza priva di finestre era il
bagno, così ogni mattina fino a mezzogiorno scrivevo lì dentro, utilizzando
solo la luce del computer. Quelli erano i primi sintomi della distrofia di
Fuchs, un problema alla cornea che per decenni mi avrebbe causato disagi e
problemi visivi. Questo disturbo determina una diminuzione del numero
delle cellule epiteliali della cornea, che presiedono all’elaborazione del
fluido che si accumula durante la notte quando le palpebre sono chiuse. La
cornea diventa più spessa e gonfia, e la visione viene compromessa. Al
mattino, quando si aprono gli occhi, il fluido nella cornea evapora
lentamente e la visione migliora per gradi nel corso della giornata.
Il romanzo fluiva così bene che me ne sarei rimasto alle Seychelles più a
lungo lasciando che Marilyn andasse a Parigi, ma era essenziale che mi
facessi vedere da un oftalmologo. A Parigi venni a sapere che l’unico
rimedio consisteva in una sostituzione della cornea, un intervento che
rimandai fino al nostro ritorno allo Stanford.
Affittammo un appartamento vicino ai giardini del Lussemburgo provvisto
di robuste imposte che mi permisero di scrivere al buio per i due mesi
successivi, finché il libro fu concluso. Inviai il manoscritto al mio agente,
Knox Burger, che mi aveva rappresentato per Il carnefice dell’amore. Lo
respinse immediatamente, affermando: «Non c’è modo che io riesca a
vendere questo romanzo: non succede niente». Poi mi suggerì di imparare a
scrivere una trama leggendo il manoscritto di Red Square, il nuovo romanzo
di Martin Cruz Smith, un altro dei suoi scrittori. Mi misi dunque alla ricerca
di un nuovo agente e mandai il manoscritto a Owen Laster, alla William
Morris Literary Agency, che lo accettò immediatamente e lo vendette alla
Basic Books, una casa editrice di opere non narrative che solo una volta
nella sua storia aveva pubblicato un romanzo (Il dottore del desiderio di
Allen Wheelis).
Subito dopo la pubblicazione, una recensione sprezzante sul New York
Times descrisse Le lacrime di Nietzsche come un «romanzetto soporifero».
Quello fu il punto più basso, seguito da una serie di recensioni molto
positive su altri giornali e riviste; pochi mesi dopo, Le lacrime di Nietzsche
ricevette la medaglia d’oro come miglior opera narrativa dell’anno dal
Commonwealth Club della California. Il secondo premio? Red Square di
Martin Cruz Smith! Marilyn non esitò a comunicare la notizia del premio
tanto al New York Times che al mio ex agente, Knox Burger.
Negli Stati Uniti le vendite delle Lacrime di Nietzsche furono buone, ma
ridicole in confronto alla sua popolarità in altri paesi. Alla fine fu tradotto in
ventisette lingue, con il pubblico più vasto in Germania e la percentuale di
lettori più alta in Grecia. Nel 2009 il sindaco di Vienna lo selezionò come
libro dell’anno. Ogni anno il sindaco di quella città sceglie un libro, ne fa
stampare centomila copie e le distribuisce gratuitamente ai cittadini,
lasciando pile di libri in farmacie, panetterie, scuole e all’annuale fiera del
libro. Io e Marilyn volammo a Vienna per numerose presentazioni pubbliche,
una delle quali al museo Freud. Lì, in quello che era stato il salotto di Freud,
si tenne un dibattito pubblico sul romanzo tra me e un filosofo austriaco.
La settimana culminò con un galà serale per diverse centinaia di persone
al municipio, presieduto dal sindaco. Dopo il mio saluto al pubblico venne
servita la cena, e la serata si concluse con un vivace valzer viennese.
Essendo io un modesto danzatore, Marilyn ballò il valzer con il nostro buon
amico Hans Steiner, uno psichiatra della Stanford di origine viennese, che
per l’occasione era venuto a Vienna con la moglie Judith. Fu un’esperienza
eccezionale per tutti noi.
Due anni dopo la pubblicazione del libro, mentre stavo facendo un giro di
conferenze a Monaco e a Berlino, un regista tedesco mi contattò per
propormi un documentario basato sulle mie visite di varie località della
Germania dove Nietzsche aveva vissuto. Visitammo insieme il luogo di
nascita di Nietzsche e la casa della sua infanzia a Röcken, nonché la chiesa
dove il padre aveva predicato. Vicino alla chiesa c’è il luogo di sepoltura di
Nietzsche, assieme a quelli della sorella e dei genitori. Girano voci che la
sorella di Nietzsche, Elisabeth, ne avesse fatto spostare il corpo in modo da
poter essere messa tra la madre e il padre. Alla scuola di Nietzsche a Pforta
un vecchio maestro mi informò che, anche se Nietzsche eccelleva nelle
materie classiche, non era il primo della classe. In casa di Elisabeth, a
Weimar, che è stata trasformata in un museo, vidi il documento ufficiale di
ammissione per il ricovero di Nietzsche a Jena, poco prima della sua morte;
la diagnosi parlava chiaramente di «sifilide paretica». Appesa a una parete
del museo c’era una fotografia di Hitler che offriva a Elisabeth un mazzo di
rose bianche. Pochi giorni dopo, negli archivi di Nietzsche a Weimar, ebbi il
grande piacere di poter tenere in mano una delle prime stesure di Così parlò
Zarathustra, scritta di proprio pugno da Nietzsche.
Anni dopo il regista Pinchas Perry trasse un film da Le lacrime di
Nietzsche. Anche se si trattò di un film a budget ridotto, contiene un notevole
ritratto di Nietzsche a opera di Armand Assante, un attore cinematografico
piuttosto noto. In una conversazione con lui venni a sapere che, dei suoi
sessanta film, andava particolarmente fiero della sua interpretazione nei
panni di Nietzsche.
Una delle grandi sorprese della mia vita si verificò undici anni dopo la
pubblicazione, quando ricevetti una lettera da una ricercatrice degli archivi
di Weimar che avevo incontrato in un precedente viaggio in Germania.
M’informava di avere appena scoperto una lettera del 1880 inviata a
Nietzsche da un amico che lo invitava a consultare il dottor Josef Breuer per
i suoi problemi medici! La sorella di Nietzsche impedì che la cosa si
concretizzasse, verosimilmente perché lui aveva già consultato diversi altri
medici famosi. Nietzsche definiva la sorella «un’oca antisemita» ed è
possibile che lei si sia opposta al progetto perché Breuer era ebreo. La
lettera a Nietzsche e due lettere successive possono essere ascoltate nella
versione inglese dell’audiolibro del romanzo. Questa sorprendente conferma
mi rassicurò sul mio essere rimasto fedele all’aforisma di Gide: la narrativa
è la storia che avrebbe potuto accadere.
30.
Sul lettino di Freud
Dopo essere vissuto tra le nuvole con Le lacrime di Nietzsche, fui riportato
bruscamente a terra dal libro di testo La teoria e la pratica della
psicoterapia di gruppo, che supplicava la mia attenzione. A quel punto
aveva ormai dieci anni e aveva bisogno di essere aggiornato e di fare un
lifting, se voleva continuare a competere con gli altri libri di testo. Per il
successivo anno e mezzo mi sentii il giogo sul collo, mentre trascorrevo un
giorno dopo l’altro nella biblioteca della facoltà di medicina della Stanford
a revisionare le ricerche sui gruppi dei dieci anni precedenti, aggiungendo
tutte le nuove ricerche più rilevanti e – la parte più dolorosa – eliminando il
materiale divenuto obsoleto.
Per tutto il tempo, nel profondo della mia mente, s’andava insinuando un
altro romanzo. Durante i giri in bicicletta e i momenti di quiete prima di
addormentarmi facevo esperimenti con trame e personaggi, e in breve
cominciai a lavorare a una storia che avrei intitolato Sul lettino di Freud1.
Ero divertito dal doppio senso: il mio libro avrebbe trattato del mentire e
dello stare distesi sul lettino di uno psicoanalista.
Avendo ormai completato il mio apprendistato di romanziere, tolsi le
rotelle alla bicicletta e non mi preoccupai più di tanto di adattare personaggi
e avvenimenti in un tempo e in un luogo storico precisi. In questo nuovo
progetto avrei avuto il piacere di comporre una trama completamente
narrativa, popolata soltanto da personaggi inventati, e a meno che il mondo
non fosse più pazzo di quanto immaginassi, questa narrativa non si sarebbe
mai realizzata nella realtà. Tuttavia, nel concentrarmi sugli avvenimenti
surreali di un romanzo comico, intendevo esplorare questioni serie e
sostanziali. Dovremmo, come insistevano i primi psicoanalisti, tenere a
freno il nostro vero io e offrire ai pazienti soltanto interpretazioni e uno
schermo vuoto? O dovremmo invece essere aperti e franchi e rivelare i
nostri sentimenti e le nostre esperienze? E in questo caso, quali insidie
potrebbero attenderci?
Ho scritto molto per la letteratura psichiatrica professionale
sull’importanza complessiva della relazione terapeutica. In terapia la forza
del cambiamento non è un’intuizione intellettuale, non è un’interpretazione,
non è una catarsi, ma è, invece, un incontro profondo e autentico tra due
persone. Il pensiero psicoanalitico contemporaneo è anche gradualmente
arrivato alla conclusione che l’interpretazione non sia sufficiente. Mentre
scrivo queste parole, uno degli articoli psicoanalitici più ampiamente citati
in questi anni s’intitola I meccanismi non interpretativi nella terapia
psicoanalitica: quel “qualcosa in più” dell’interpretazione. Questo
“qualcosa in più”, al quale ci si riferisce come a “quei dati momenti” o ai
“momenti d’incontro”, non è molto diverso da quello che è presentato
nell’articolo che il mio personaggio letterario, Ernest, sta tentando di
scrivere in Sul lettino di Freud, intitolato A proposito di quello che sta in
mezzo: il caso dell’autenticità in psicoterapia.
Nel corso della mia pratica professionale mi sforzo sempre di avere un
incontro autentico con il mio paziente, tanto nella terapia individuale che in
quella di gruppo. Tendo a essere attivo, personalmente coinvolto, e spesso
mi concentro sul “qui-e-ora”: è raro che una seduta trascorra senza che io
m’informi sulla nostra relazione. Ma quanto del proprio io reale dovrebbe
essere rivelato dal terapeuta? La questione vitale della sua trasparenza,
dibattuta accanitamente nel nostro settore di studio, viene analizzata,
esaminata e portata al limite estremo in questo romanzo comico.
Ho appena riletto Sul lettino di Freud per la prima volta dopo anni e
sono colpito da molte cose che avevo da tempo dimenticato. In primo luogo,
anche se la trama è del tutto immaginaria, contiene moltissimi episodi reali
tratti dalla mia vita. Questo non è raro: una volta ho sentito Saul Bellow
dire: «Quando nasce un romanziere, la famiglia è condannata». È risaputo
che i personaggi dell’infanzia di Bellow popolano le pagine della sua
narrativa. Ho seguito il suo esempio. All’incirca un anno prima di scrivere il
romanzo, un amico di un amico aveva cercato di truffarmi vendendomi azioni
di una compagnia che, come avrei saputo in seguito, non esisteva. Io e mia
moglie gli avevamo dato cinquantamila dollari da investire. Anche se
avevamo ricevuto quasi subito dei certificati di deposito dall’aria molto
ufficiale da parte di una banca svizzera, tuttavia c’era qualcosa in lui che
suscitava i miei sospetti. Portati i certificati alla filiale americana della
banca svizzera, venni a sapere che le firme erano false. Allora chiamai l’FBI
e informai il truffatore di averlo fatto. Poco prima del mio incontro con l’FBI
lui si presentò alla mia porta con cinquantamila dollari in contanti.
Quest’episodio con il truffatore fu l’ispirazione per Peter Macondo nel mio
romanzo, un imbroglione che depreda i terapeuti.
Ma non si trattò soltanto del truffatore: moltissimi altri conoscenti,
avvenimenti e parti di me trovarono modo di entrare nel romanzo. Ci sono
dettagli delle mie partite a poker (incluse caricature di me stesso e di altri
giocatori). Ho smesso di giocare a poker a causa dei problemi alla vista, ma
ancora oggi, quando pranzo con i miei vecchi compagni di gioco, si
chiamano l’un l’altro con i nomi che ho dato loro nel romanzo. Inoltre c’è
una paziente (debitamente occultata) che nella vita reale era stata
particolarmente seduttiva nei miei confronti, come pure uno psichiatra
sofisticato ma arrogante che una volta mi aveva fatto da supervisore. Ho
anche inserito un amico dei giorni della Hopkins, Saul, che nel romanzo è
Paul. Molti degli arredi e degli oggetti d’arte descritti sono reali, compresa
una scultura di vetro che Saul aveva fatto e mi aveva dedicato, raffigurante
un uomo che guarda sopra il bordo di una ciotola, intitolata Sisifo si gode la
vista. L’elenco è molto lungo: abitudini sgradevoli, libri, indumenti, gesti, i
primi ricordi, la storia da immigrati dei miei, le partite a scacchi e a
pinnacolo con mio padre e gli zii – tutto è disseminato nel romanzo,
compresi i miei tentativi di scrollarmi la segatura del negozio di drogheria
dalle scarpe. Racconto la storia del padre di un personaggio chiamato
Marshal Streider, che è proprietario di una piccola drogheria all’angolo tra
la Fifth ed R Street a Washington. Quando un cliente entra nel suo negozio
chiedendo un paio di guanti da lavoro, l’uomo gli dice che sono nel
retrobottega, e invece corre alla porta sul retro e galoppa lungo l’isolato fino
al mercato, per comprare un paio di guanti a dieci centesimi e rivenderlo al
cliente per tredici. Questa è una storia vera raccontatami da mio padre, che
aveva avuto un negozio a quello stesso indirizzo prima della mia nascita.
Il resoconto dettagliato di un analista bandito dal suo istituto
psicoanalitico è liberamente tratto dall’espulsione di Masud Khan dalla
Società psicoanalitica britannica nel 1988. Charles Rycroft, il mio analista
inglese, era stato testimone dell’evento e me lo aveva descritto nei minimi
particolari. Persino il sogno dell’“orso Smoky” è mio, fatto la notte della
morte di Rollo May. Molti nomi dei personaggi hanno un significato
particolare per me, per esempio quello del protagonista, Ernest Lash. Mentre
scrivevo di Ernest, che era effettivamente earnest, onesto, e della sua
paziente seduttiva, pensavo spesso a Ulisse, che si era fatto legare (lash)
all’albero della nave per sfuggire al richiamo lascivo delle sirene, ed ecco
“Ernest Lash”. Un altro personaggio, una figura del mio immaginario istituto
psicoanalitico, è Terry Fuller, un nome che ho tratto da un mio ex studente,
Fuller Torrey, che è diventato un personaggio di rilievo della psichiatria.
Marshal Streider, modellato su uno dei miei supervisori alla Johns Hopkins,
avanza a lunghi passi sicuri (strides) e sostiene strenuamente la legge come
un marshal (con l’eccezione di un notevole errore di valutazione).
Anche se personalmente ho sempre perorato l’idea dell’autenticità del
terapeuta, avevo deciso di mettere Ernest Lash davanti a una sfida enorme.
Per le ragioni spiegate nel romanzo, Ernest intraprende con baldanza un
esperimento: sarà completamente trasparente con il primo nuovo paziente
che varcherà la soglia del suo studio. Ahimè, per pura coincidenza
romanzesca, la paziente di Ernest, un avvocato, ha un suo proposito segreto:
all’insaputa di Ernest, è stata la moglie di uno dei suoi pazienti ed è in cerca
di vendetta, convinta com’è che sia stato lui a convincere il marito a
divorziare. Per rivalersi progetta di sedurlo e, quindi, di rovinarlo. Non mi
sono mai divertito tanto a scrivere come quando ho intrapreso questo
racconto su un terapeuta votato alla sincerità che incontra una paziente votata
all’inganno. E scrivere una delle trame secondarie è stato anche più
divertente, in particolare quando ho descritto la versione romanzata della
Società psicoanalitica britannica che caccia via un analista colpevole di
interpretazioni eretiche e decide di pubblicare un avviso, simile a quelli
delle case automobilistiche, per contattare tutti i pazienti trattati in base alle
sue interpretazioni dannose.
Diversi registi avrebbero voluto trarre un film da Sul lettino di Freud.
Harold Ramis, in seguito attore e regista di Ricomincio da capo,
Ghostbusters e Terapia e pallottole, comprò l’opzione per il film, e tra noi
ci furono parecchi contatti mentre stava girando Indiavolato, che si svolge
nelle strade di San Francisco. Ahimè, Indiavolato fu un fiasco al botteghino
e il produttore si rifiutò di finanziare Sul lettino di Freud fino a quando
Ramis non avesse fatto un altro film a colpo sicuro che garantisse forti
incassi, come doveva esserlo Un boss sotto stress, il seguito del grande
successo Terapia e pallottole. Sfortunatamente anche questo film fu un
fiasco. Ramis mantenne l’opzione sul libro per diversi anni, ma non riuscì
mai a ottenere un sostegno finanziario sufficiente a realizzare il progetto. Lui
mi piaceva molto come persona e sono stato molto rattristato dalla notizia
della sua morte, nel 2014.
Un’altra esperienza di quasi-film l’ho avuta con Wayne Wang, regista di
film quali Il circolo della fortuna e della felicità, Smoke e Un amore a 5
stelle. Anche lui comprò l’opzione, e anche lui non riuscì a trovare un
finanziamento. In seguito fece un film intitolato L’ultima vacanza, su una
donna (Queen Latifah) affetta da una malattia mortale, e mi chiese di tenere
un gruppo T di due giorni con tutto il cast a New Orleans, per sensibilizzarlo
alle questioni collegate a quel genere di malattia. Fu uno spasso lavorare con
Queen Latifah, LL Cool J e Timothy Hutton, che trovai tutti estremamente
disponibili, ben informati, seri nel proprio lavoro e interessati alle mie
osservazioni.
Infine Ted Griffin, uno sceneggiatore di talento (Ocean’s Eleven, Il genio
della truffa), si fece avanti e negli ultimi anni è lui che possiede i diritti del
film. Dopo aver scritto una sceneggiatura la propose ad Anthony Hopkins –
uno dei miei idoli dello schermo, con il quale ho avuto il piacere di
conversare al telefono. Ahimè, nulla ancora si è concretizzato. Inoltre c’è
una parte di me che ha il terrore della versione cinematografica, che
potrebbe ignorare i messaggi più seri del romanzo e concentrarsi
eccessivamente, forse esclusivamente, sulle parti legate al sesso e alla truffa.
Adesso mi sento un po’ imbarazzato dall’esuberanza erotica del mio
protagonista. Mia moglie, che è sempre la mia prima lettrice, aveva scritto a
lettere maiuscole sull’ultima pagina del manoscritto: «C’È QUALCOS’ALTRO
CHE VUOI FAR SAPERE ALL’AMERICA SULLE TUE FANTASIE SESSUALI?»
1. Il titolo originale è Lying on the Couch (lying ha il significato di “stare seduti o stesi”, ma anche
quello di “mentire”) (N.d.T.).
31.
Il senso della vita
Ogni anno, alle lauree del dipartimento, gli interni di psichiatria organizzano
un piccolo spettacolo prendendo in giro alcuni aspetti della loro esperienza
alla Stanford. Un anno toccò a me essere il soggetto dello spettacolo, e il
medico interno che mi prendeva in giro compariva sempre in scena
accarezzando pile di libri con la scritta “Yalom” sul dorso. Non mi offesi:
mi sentii invece piuttosto soddisfatto nel vedere tutti i libri che avevo scritto.
All’epoca stavo lavorando a un libro ideato dal mio editore, The Yalom
Reader, magnificamente redatto da mio figlio Ben, che contiene stralci da
miei lavori precedenti e alcuni saggi nuovi. Dopo aver portato a termine il
saggio conclusivo, feci un sogno poderoso, indimenticabile, su mia madre,
che ho descritto nella storia che dà il titolo al mio libro successivo, Il senso
della vita.
Crepuscolo. Forse sto morendo. Ombre sinistre circondano il mio letto: monitor cardiaci, bombole
d’ossigeno, bottiglie gocciolanti per flebo, spirali di tubi di plastica – le viscere della morte.
Chiudendo le palpebre, scivolo nell’oscurità.
Ma poi, balzando fuori dal letto, esco come una freccia dalla stanza dell’ospedale e mi
precipito a Glen Echo, il parco dei divertimenti pieno di luce e di sole, dove, decenni fa,
trascorrevo tante delle mie domeniche estive. Sento la musica delle giostre. Inalo la fragranza
umida e caramellata dei popcorn e delle mele appiccicose. Proseguo dritto, senza esitare davanti
alla bancarella del Polar Bear con i suoi coni gelati, o alle montagne russe con i loro tuffi nel
vuoto, o alla ruota panoramica, per prendere posto nella fila per i biglietti della Casa degli
Orrori. Una volta pagato il biglietto, aspetto che il vagoncino successivo giri l’angolo e venga a
fermarsi sferragliando davanti a me. Ci salgo sopra, abbasso la sbarra di sicurezza e mi
incateno saldamente all’interno, do un’ultima occhiata attorno, e là, in mezzo a un piccolo
gruppo di spettatori, la vedo.
Mi metto ad agitare tutt’e due le braccia, e la chiamo a voce abbastanza alta da poter essere
udita da tutti: «Mamma! Mamma!» Proprio in quel momento il vagoncino si muove sbandando in
avanti e colpisce la porta a due ante, che si apre bruscamente per rivelare le sue nere fauci
spalancate. Mi appoggio all’indietro il più possibile e, prima di essere inghiottito dalle tenebre,
grido di nuovo: «Mamma! Come me la sono cavata, mamma? Come me la sono cavata?»
Il senso della vita contiene il racconto didattico più efficace che abbia mai
scritto, Sette lezioni avanzate sulla terapia del lutto, che doveva essere una
sorta di manuale per i terapeuti che utilizzano l’approccio esistenziale.
Irene, uno stimato chirurgo, era venuta da me in cerca d’aiuto. Suo marito
stava morendo di cancro, pur essendo ancora giovane, e il dolore di Irene
era comprensibilmente profondo. Diversi anni prima avevo trascorso due
anni conducendo un gruppo di persone che avevano da poco perso il
coniuge, e grazie a questo progetto mi consideravo un esperto nel curare i
pazienti in lutto: per questo motivo avevo accettato di lavorare con Irene.
Straordinariamente intelligente, ma gelida e severa con se stessa e con gli
altri, Irene fu mia paziente per due anni e il nostro lavoro insieme mi mostrò
quanto ancora avessi da imparare sulla perdita: da qui il titolo del racconto,
Sette lezioni avanzate sulla terapia del lutto.
La prima lezione la ricevetti nel corso della nostra primissima seduta,
quando Irene mi descrisse il sogno che aveva fatto la notte precedente.
Sono un chirurgo, ma sono anche uno studente che si sta specializzando in letteratura inglese.
La mia preparazione per un esame include lo studio di due testi diversi, uno antico e uno
moderno, entrambi con lo stesso titolo. Non sono preparata per il seminario perché non ho letto
né l’uno né l’altro. In particolare non ho letto il testo antico, il primo, che mi avrebbe preparata
ad affrontare il secondo.
Le chiesi se ricordasse qualcosa riguardo al titolo dei testi. «Oh, sì, lo
ricordo chiaramente. Ciascun libro, tanto il vecchio che il nuovo, s’intitolava
La morte dell’innocenza». Per un terapeuta con i miei interessi e i miei
precedenti questo era un grande dono: due testi (uno antico e uno nuovo), e il
testo antico (ovvero i propri primi anni di vita) che era necessario per capire
quello nuovo.
Il sogno di Irene non si limitava a promettere una caccia al tesoro
intellettuale di primissimo grado, era anche un primo sogno. Come spiego
nelle Sette lezioni avanzate, una sorta di mistica ha circondato il sogno
iniziale che un paziente porta in terapia fin dal 1911, quando Freud ne parlò
per la prima volta. Freud credeva che il primo sogno fosse genuino e
profondamente rivelatore, perché i pazienti all’inizio tengono ancora la
guardia abbassata. Più avanti nella terapia, dopo aver analizzato diversi
sogni con il terapeuta, il tessitore di sogni che risiede nel loro inconscio
diventa cauto, e da quel momento fa in modo di elaborare sogni più
complessi e oscuri.
Sulle orme di Freud, immaginavo spesso il tessitore di sogni sotto forma
di un omuncolo grassoccio e gioviale che se la spassava in una foresta di
dendriti e neuriti. Di giorno dorme, ma di notte, adagiato su un guanciale di
sinapsi ronzanti, beve nettare dolcissimo e pigramente tesse sequenze
oniriche per il suo ospite. La notte che precede la prima seduta, il paziente si
addormenta pieno di pensieri conflittuali riguardo alla terapia imminente, e
come al solito l’omuncolo si occupa del suo lavoro notturno, intrecciando
tutte quelle speranze e paure in un sogno. Quindi, dopo la seduta di terapia,
l’omuncolo viene a sapere che il terapeuta ha abilmente interpretato il suo
sogno e da quel momento avrà cura di seppellire il significato del sogno
sempre più nel profondo, nel suo travestimento notturno. Naturalmente questa
sarebbe solo un’assurda favoletta, se solo non ci avessi creduto!
Rammento con inquietante chiarezza il mio sogno la notte precedente la
prima seduta della mia analisi personale, oltre cinquant’anni fa. Anche
questo sogno è descritto nelle Sette lezioni avanzate.
Sono disteso sul lettino di un medico. Il lenzuolo è troppo piccolo per coprirmi in modo
adeguato. Posso vedere un’infermiera che mi infila un ago in una gamba, nello stinco.
All’improvviso c’è un sibilo esplosivo, un suono gorgogliante – WHOOOSH.
Io e Irene lavorammo con impegno sul suo primo sogno. «Quindi non aveva
letto nessuno dei due testi» esordii, «in particolare quello vecchio».
«Sì, sì, mi aspettavo che mi avrebbe fatto questa domanda. Non avevo
letto nessuno dei due testi, ma in particolare non avevo letto quello antico».
«Qualche idea riguardo al significato di questi due testi nella sua vita?»
«Altro che idea» ribatté Irene. «So esattamente che cosa significano».
Attesi che continuasse, ma lei si limitò a restare seduta in silenzio,
guardando fuori dalla finestra. Non avevo ancora fatto l’abitudine a questo
tratto irritante di Irene, di non voler offrire volontariamente una riflessione a
meno di un’esplicita richiesta.
Seccato, lasciai che il silenzio si protraesse per un minuto o due. Alla
fine l’assecondai: «E il significato dei due testi, Irene, è…»
«La morte di mio fratello, quando avevo vent’anni, è il testo antico. La
morte ormai prossima di mio marito è il testo moderno».
«Quindi il sogno ci sta dicendo che lei potrebbe non essere in grado di
gestire la morte di suo marito se prima non si sarà occupata di quella di suo
fratello».
«Esatto. Proprio così».
Il contenuto con il quale avevamo a che fare era illuminante, ma il
processo (ovvero la natura della relazione tra noi due) era conflittuale e
profondamente teso e, in ultima analisi, il lavoro sulla nostra relazione
sarebbe stato la vera fonte di risanamento. In una seduta successiva la
disamina di un sogno su un muro di corpi che ci separava ci condusse a
un’esplosione di angoscia.
«Intendo dire, come può capirmi? La sua vita è irreale: calda,
accogliente, innocente. Come questo studio». Indicò gli scaffali carichi di
libri alle sue spalle e l’acero rosso del Giappone che fiammeggiava fuori
dalla finestra. «Mancano solo i cuscini di chintz e un caminetto con un fuoco
di legna scoppiettante. Lei è circondato dalla sua famiglia, vivete tutti nella
stessa città. Un circolo familiare che non si è mai spezzato. Che cosa può
saperne lei realmente della perdita? Pensa che saprebbe gestirla meglio?
Immagini che sua moglie o uno dei suoi figli stia per morire in questo
preciso istante. Cosa farebbe? Persino quella sua compiaciuta camicia a
righe… la detesto. Ogni volta che la indossa ho un sussulto. Detesto quello
che dice».
«Che cosa dice?»
«Dice: “Tutti i miei problemi sono risolti. Mi parli dei suoi”».
Il pezzo che mi piacque di più scrivere fu senza dubbio “La maledizione del
gatto ungherese”. In questa storia Ernest Lash (in libera uscita da Sul lettino
di Freud) tenta di analizzare Merges, un gatto vizioso che parla tedesco e sta
vivendo la sua nona e ultima vita. Merges aveva visto il mondo e, in una vita
precedente, aveva frequentato Santippe, la gatta che abitava in casa di
Heidegger: adesso stava spietatamente perseguitando Artemide, l’amante di
Ernest.
Su un piano la storia è una farsa, ma su un altro la ritengo il mio discorso
più profondo sulla morte e su come attenuarne il terrore. Scrissi la maggior
parte della storia durante una visita a Bob Berger, un caro amico dall’epoca
della facoltà di medicina che è scomparso di recente. Ambientai la storia a
Budapest e Bob, che era cresciuto in Ungheria, mi fornì nomi ungheresi per i
personaggi, le strade, i ponti e i fiumi.
Ricordo con affetto una lettura pubblica de Il senso della vita al Book
Depot di Mill Valley, dove io e mio figlio Ben, regista teatrale, leggemmo a
voce alta la conversazione tra Ernest e Merges. Non amo i discorsi
commemorativi ai funerali, ma se la mia famiglia dovesse decidere di
tenerne uno dopo la mia morte, mi piacerebbe che venisse letto quel dialogo:
rallegrerebbe l’intero evento. Quindi, per favore, Ben, recita la parte del
gatto e scegli uno dei tuoi fratelli, o uno dei tuoi attori preferiti, per recitare
la parte di Ernest.
32.
A proposito di diventare greco
Tra tutti i paesi stranieri nei quali sono state tradotte le mie opere, la Grecia,
uno dei più piccoli, ha una posizione di tutto rilievo nella mia mente. Nel
1997 Stavros Petsopoulos, il proprietario della Agra Publications, acquistò i
diritti su tutti i miei libri per la traduzione in lingua greca e ingaggiò una
coppia di coniugi, Yannis Zervas ed Evangelia Andritsanous, come
traduttori. Così ebbe inizio per la nostra famiglia una relazione lunga e
significativa. Yannis è uno psichiatra formatosi in America e un poeta
famoso in Grecia, mentre Evangelia è una psicologa clinica, oltre che una
traduttrice. Anche se la Grecia non ha mai avuto un ruolo di primo piano
nell’ambito della psicoterapia e ha una popolazione di potenziali lettori di
circa 5 milioni di persone, quello divenne immediatamente il paese dove
avevo il pubblico più vasto al mondo in rapporto alla popolazione, e in
Grecia sono noto come scrittore più che in qualsiasi altro luogo. Non sono
mai riuscito a capire il perché.
Dal primo incontro con la Grecia, quando il nostro bagaglio andò
smarrito e io e Marilyn facemmo per cinque giorni i turisti senza valigie,
abbiamo fatto altre due straordinarie visite insieme. La prima fu preceduta
da un viaggio in Turchia. Nel 1993 tenni un seminario per psichiatri
all’ospedale Bakirkoy di Istanbul, e poi condussi un gruppo di crescita
personale di due giorni con diciotto psichiatri turchi a Bodrum, un’antica
città sul Mar Egeo che è descritta da Omero come «la terra dell’eterno
azzurro». Il gruppo aveva lavorato sodo per due interi giorni e io ero molto
colpito dalla preparazione e dall’apertura mentale di molti dei suoi membri.
Dopo il laboratorio uno degli psichiatri, Ayça Cermak, con il quale sono
ancora in contatto, ci fece da guida e condusse me e Marilyn attraverso
alcune zone della Turchia occidentale, per poi riportarci a Istanbul. Da lì
prendemmo un aereo fino ad Atene e montammo su un vaporetto diretto
all’isola di Lesbo. Da tempo Marilyn si interessava a Saffo, la poetessa che
aveva vissuto lì nel settimo secolo avanti Cristo, circondata dalle sue
discepole.
Appena sceso dal vaporetto ebbi il grande piacere di adocchiare un
negozietto dove si affittavano motociclette, e così partimmo subito alla
scoperta di Lesbo su una moto dall’aria antica, ma apparentemente
funzionante. Sul finire della giornata, mentre il sole stava sprofondando nel
mare, la moto emise un ultimo rantolo e spirò proprio alle porte di un
piccolo villaggio. Non avemmo altra scelta che trascorrere la notte nelle
rovine di un alberghetto abbandonato, dove Marilyn quasi non chiuse occhio
dopo aver individuato un grosso roditore che attraversava di corsa il bagno.
A mezzogiorno del giorno successivo il negozio di moto ci fece avere con un
camion un mezzo sostitutivo, e continuammo il nostro giro attraversando
villaggi accoglienti, oziando nelle taverne, chiacchierando con gli altri ospiti
e osservando vecchi dalla barba bianca e l’aria soddisfatta che bevevano
retsina e giocavano a tavli (una sorta di backgammon).
Avevo incontrato Yannis nel 2002 a una conferenza dell’American
Psychiatric Association a New Orleans, dove avevo ricevuto il premio
Oskar Pfister per Religione e Psichiatria. Stupefatto da questo premio, avevo
chiesto al comitato come mai avessero scelto proprio me, uno scettico
convinto in ambito religioso, e mi avevano risposto che io, più della
maggioranza degli altri psichiatri, mi ero occupato di “questioni religiose”.
Dopo il mio intervento, che in seguito fu pubblicato come una monografia dal
titolo Religione e psichiatria e apparve in traduzioni greche e turche (ma
non in altre lingue), avevo pranzato con Yannis, che mi aveva presentato un
invito da parte di Stavros Petsopoulos a tenere delle conferenze ad Atene.
Un anno più tardi arrivammo ad Atene e prendemmo immediatamente un
piccolo aeroplano che in quarantacinque minuti ci portò a Syros, un’isoletta
greca nella quale Yannis ed Evangelia avevano una casa per le vacanze.
Soffrendo il jet lag, ho sempre bisogno di almeno un paio di giorni per
acclimatarmi prima di poter fare degli interventi in pubblico. Riposammo
sull’isola alloggiando in una piccola locanda nella cittadina di Hermoupolis,
e facendo colazione la mattina con croissant fatti in casa e marmellata di
fichi ottenuta dai frutti che crescevano su una pianta frondosa, sul prato
davanti alla casa. Due giorni più tardi avremmo dovuto lasciare l’isola per
partecipare a una conferenza stampa ad Atene ma, la notte prima della
partenza, il personale del vaporetto entrò in sciopero, e Stavros dovette
noleggiare un piccolo aereo a quattro posti.
Durante il breve volo fino ad Atene il pilota, che aveva letto Le lacrime
di Nietzsche, discusse animatamente con me del libro. Poi l’autista del taxi
all’aeroporto mi riconobbe e, durante la corsa, mi parlò delle parti che
preferiva di Sul lettino di Freud. All’Hilton mi ritrovai a partecipare a una
conferenza stampa con una ventina di giornalisti. Mai in precedenza, negli
Stati Uniti o in un qualsiasi altro paese, avevo tenuto una conferenza stampa.
Quello fu il momento della mia vita in cui mi ritrovai al punto più vicino alla
celebrità.
Il giorno successivo duemilacinquecento persone vennero a sentire il mio
intervento nella sala da ballo dell’albergo. L’atrio era così affollato che
riuscii a raggiungere la sala solo grazie a un tortuoso passaggio attraverso la
cucina sotterranea. Erano state ordinate soltanto novecento cuffie, e
all’ultimo momento si dovette ricorrere alla traduzione simultanea. Così
ridussi il mio intervento della metà, per favorirne la traduzione. La
traduttrice, che si era preparata su una copia scritta del mio intervento,
dapprima entrò nel panico, ma lo superò e fece un ottimo lavoro. Il pubblico
interrompeva il mio intervento con domande e commenti e alcuni
protestarono in modo così insistente e rumoroso, per quelle che giudicarono
risposte incomplete, da dover essere allontanati dalla polizia.
Dopo il discorso, mentre firmavo i libri, molti mi portarono dei doni:
miele dei loro alveari, bottiglie di vino greco fatto in casa, quadri che
avevano dipinto per l’occasione. Una cara vecchia signora insistette affinché
accettassi una moneta d’oro che i suoi genitori le avevano cucito nel
cappotto quando, da bambina, era scappata dalla Turchia.
Quella sera mi sentii esausto, gratificato e amato, e tuttavia perplesso
dalle dimensioni del consenso. C’era poco altro che potessi fare, se non
lasciarmi trascinare dalla corrente e cercare di mantenere il mio equilibrio.
Carichi di doni, facemmo ritorno alla nostra camera d’albergo, dove
trovammo un ulteriore regalo: una barca lunga più di mezzo metro, con le
vele spiegate, fatta completamente di cioccolato. Io e Marilyn la
sgranocchiammo di gusto.
Il giorno successivo dovevo firmare i libri alla libreria Hestia, un
negozietto nel centro di Atene. Prima e dopo quel giorno ho partecipato a
dozzine di incontri del genere, ma quello fu davvero un’apoteosi. La coda
fuoriusciva dal negozio e continuava per otto isolati, causando notevoli
problemi al traffico. La gente non solo comprava nuovi libri, ma si portava
dietro quelli che aveva comprato preventivamente per farmeli firmare.
Scrivere i nomi era complicato, in quanto la maggior parte mi risultava
straniera – per esempio Docia, Ianthe, Nereida, Tatiana – e difficile da
compitare. Ai clienti venne quindi chiesto di scrivere in stampatello i loro
nomi su strisce di carta gialla, che mi avrebbero consegnato assieme al libro.
Molti scattavano fotografie, ma questo rallentava la coda e quindi si pregò di
non farlo. Dopo un’ora ai clienti della libreria venne comunicato che, oltre
alle copie nuove, avrei potuto firmare un massimo di quattro libri per
ciascuno, tra quelli comprati in precedenza; un’ora più tardi diventarono tre
e quindi, un’ora dopo ancora, si ridussero a uno. Anche così l’incontro si
protrasse per quasi quattro ore, durante le quali firmai più di ottocento libri
nuovi e una quantità di gran lunga superiore di libri vecchi. Recentemente mi
è dispiaciuto molto sapere che la venerabile libreria Hestia ha dovuto
chiudere i battenti, vittima della crisi monetaria greca.
In quella coda, la maggior parte dei clienti della libreria era costituita da
donne, come sempre accade quando firmo i libri, e vissi la singolare
esperienza di almeno cinquanta deliziose donne greche che mi sussurrarono
all’orecchio: «Ti amo». Perché la cosa non mi desse alla testa, Stavros mi
prese da parte e mi disse che le donne greche usano quell’espressione di
frequente, e con un significato molto meno impegnativo delle donne
americane.
L’esperienza alla libreria Hestia mi tornò in mente dieci anni più tardi,
quando un anziano medico britannico mi chiese una consultazione.
Insoddisfatto della sua vita da scapolo e del proprio potenziale non
realizzato, aveva un atteggiamento assai ambivalente nei confronti della
richiesta di vedermi: da un lato voleva il mio aiuto, dall’altro era anche
profondamente invidioso del mio successo di scrittore, convinto com’era di
essere anch’egli dotato di un notevole talento per la scrittura. Verso la fine
della seduta raccontò una storia fondamentale che l’aveva assillato per
cinquant’anni, da quando aveva trascorso due anni in Grecia insegnando
inglese in una scuola femminile. Alla fine della cerimonia di commiato,
proprio mentre stava per andarsene, una bellissima studentessa greca gli
aveva dato un abbraccio d’addio e gli aveva sussurrato in un orecchio: «Ti
amo». Da allora lui aveva sempre pensato a quella studentessa, l’aveva
ascoltata mentre gli sussurrava quelle parole nella mente, e s’era torturato
per non aver avuto il coraggio di abbracciare la vita che gli si presentava.
Gli offrii tutto quello che ero in grado di dargli, ma sapevo bene che l’unica
cosa che non potevo dire era: «Quando le donne greche dicono “Ti amo”,
non vogliono dire quello che intendono le americane, e forse anche le
inglesi. Infatti, in un solo pomeriggio, cinquanta donne greche mi hanno
sussurrato quelle stesse parole».
Il giorno dopo l’incontro alla libreria Hestia, l’Università Panteion mi
attribuì la mia unica laurea ad honorem. Con un certo timore reverenziale mi
ritrovai davanti a un ampio pubblico in una grande sala le cui pareti erano
coperte da dipinti raffiguranti Aristotele, Platone, Epicuro ed Eschilo. La
sera successiva Marilyn parlò di questioni femminili all’Università di Atene.
La famiglia Yalom aveva di che essere soddisfatta!
La nostra visita successiva in Grecia ebbe luogo quattro anni più tardi,
nel 2009. Marilyn era stata invitata dall’Università di Ioannina per parlare
del suo libro La storia del seno. Sapendo che andavamo in Grecia, la
Fondazione Onassis mi chiese di tenere una conferenza sul mio nuovo libro,
La cura Schopenhauer, al Megaron, la più grande sala da concerto di Atene.
Quando arrivammo ad Atene ci venne offerto un giro privato del nuovo
Museo dell’Acropoli, che avrebbe aperto di lì a due settimane. All’entrata
restammo sbalorditi dai pavimenti di vetro che ci permettevano di vedere,
sotto i nostri piedi, strati su strati delle rovine di civiltà che risalivano a
migliaia di anni prima. In un altro punto del museo c’erano i marmi di Elgin,
dal nome dell’inglese che ne aveva portato all’incirca la metà dall’Acropoli
al British Museum. Le sezioni mancanti (qualcuno direbbe trafugate) erano
presentate sotto forma di calchi di gesso di un colore diverso dagli originali.
Al giorno d’oggi la restituzione delle opere d’arte ai paesi d’origine è un
problema tormentoso per tutti i musei. Tuttavia, mentre eravamo in Grecia,
non potevamo non simpatizzare per i greci.
Da Atene volammo a Ioannina, dove Marilyn era stata invitata dalla
professoressa Marina Vrelli-Zachou a tenere una conferenza all’università,
un’istituzione imponente con oltre ventimila studenti. Come sempre, quando
sentivo Marilyn parlare in pubblico, mi accomodai al mio posto tutto
contento, trattenendo l’impulso di mettermi a gridare: «Ehi, ehi, quella è mia
moglie!» Il giorno successivo i nostri ospiti ci portarono a fare un giro in
campagna fino a Dodona, un antico sito menzionato da Omero. Sedemmo a
lungo in un anfiteatro greco, in posti costruiti duemila anni prima, e poi
passeggiammo fino a un boschetto dove gli oracoli un tempo avevano
interpretato il linguaggio degli uccelli. Qualcosa di quel luogo – la sua
imponenza, la sua dignità e la sua storia – era profondamente commovente e,
a dispetto del mio scetticismo, provai il sentore, sia pur vago, del sacro.
Passeggiammo per la città di Ioannina, che sorgeva lungo la costa di un
magnifico lago, e ci ritrovammo in una sinagoga che risaliva all’epoca
romana ed era ancora in funzione come luogo di culto per la piccola
comunità ebraica della città. Durante la seconda guerra mondiale quasi tutti
gli ebrei di Ioannina erano stati uccisi, e pochi dei sopravvissuti vi avevano
fatto ritorno. Il gruppo rimasto è così esiguo che adesso la sinagoga permette
alle donne di far parte del minyan, i dieci ebrei maschi che secondo la legge
ebraica possono occuparsi dei servizi religiosi. Mentre attraversavamo il
mercato osservando i vecchi che giocavano a tavli e sorseggiavano ouzo,
inalammo gli odori meravigliosi associati a questo paese, ma un aroma
irresistibile, quello del baklava, mi attrasse in modo particolare; seguii il
mio naso fino a una panetteria, dove ne trovai due dozzine di varietà
differenti. Ancora oggi fantastico di fare un ritiro di scrittura a Ioannina,
preferibilmente nelle immediate vicinanze di quella panetteria.
Nella libreria dell’Università di Ioannina, mentre io e Marilyn firmavamo
i nostri libri, mia moglie chiese informazioni al proprietario sulla mia
popolarità presso i lettori greci. «Yalom è lo scrittore americano più
conosciuto» rispose lui. Marilyn chiese: «E Philip Roth?» «Ci piace anche
lui» fu la risposta, «ma consideriamo Yalom un greco come noi».
Negli anni i giornalisti mi hanno spesso interrogato a proposito di questa
mia popolarità in Grecia, e non sono mai stato in grado di dare loro una
risposta. So che, nonostante non parli una parola di greco, ciò nondimeno là
mi sento a casa, e persino negli Stati Uniti provo una forma di affettuosa
predisposizione nei confronti delle persone di origine greca. Sono
affascinato dalla tragedia e dalla filosofia greche, e da Omero, ma questa
non è certo una spiegazione. Potrebbe essere più un fenomeno relativo al
Medio Oriente, dato che il mio numero di lettori è elevato in modo
sproporzionato anche in Turchia, in Israele e in Iran.
Sorprendentemente ricevo con regolarità email da studenti, terapeuti e
pazienti iraniani. Non ho idea di quante copie dei miei libri siano state
vendute in lingua farsi: l’Iran è l’unico paese che pubblichi il mio lavoro
senza autorizzazione e senza pagare i diritti d’autore. I miei contatti
professionali in Iran mi dicono di conoscere bene le opere di Freud, Carl
Gustav Jung, Mortimer Adler, Carl Rogers e Abraham Maslow e che
vorrebbero avere maggiori contatti con gli psicoterapeuti occidentali.
Purtroppo, dato che non viaggio più all’estero, ho dovuto rifiutare i loro
inviti a tenere conferenze in Iran.
Nel mondo di oggi, dove i telegiornali sono pieni di notizie catastrofiche,
ci sentiamo tutti impotenti e attoniti: tuttavia, ogni volta che un conduttore
televisivo menziona la Grecia, io e Marilyn ci facciamo sempre attenti.
Proverò sempre un senso di stupore nei confronti dei greci e sarò sempre
grato di essere considerato un greco onorario.
33.
Il dono della terapia
Il libro di Rilke Lettere a un giovane poeta ha sempre occupato un posto
particolare nella mia mente: per anni avevo immaginato di scrivere un’opera
simile per i giovani terapeuti, ma non ero mai riuscito a trovare una forma e
una struttura per questo progetto. La situazione mutò nel 1999, quando io e
Marilyn visitammo i giardini Huntington a San Marino, nel sud della
California. Ci recammo laggiù per visitare quei luoghi straordinari, in
particolare il giardino giapponese con i suoi bonsai. Verso la fine della
nostra visita feci un giro per la Biblioteca Huntington e diedi un’occhiata a
una nuova esposizione, “I libri più venduti del Rinascimento inglese”. I libri
più venduti? Il titolo della mostra attirò la mia attenzione. Fui colpito dal
fatto che sei dei dieci libri più venduti del sedicesimo secolo fossero libri di
“consigli”. Per esempio Cento suggerimenti per l’agricoltura di Thomas
Tusser, del 1570, offriva per l’appunto cento consigli relativi a raccolti,
allevamento del bestiame e buona gestione della casa ai contadini e alle loro
mogli. Era stato ristampato undici volte prima della fine del secolo.
Quasi sempre i miei libri sono germogliati con calma nella mia mente,
senza che fosse possibile individuare il momento preciso del loro
concepimento. Il dono della terapia è l’unica eccezione. Prima di uscire
dalla mostra sapevo esattamente come sarebbe stato il mio prossimo libro.
Avrei scritto un libro di suggerimenti per giovani terapeuti. Mi venne in
mente il volto di una mia paziente, una scrittrice che avevo incontrato alcuni
anni prima. Dopo aver lasciato due romanzi incompiuti mi aveva annunciato
che non ne avrebbe cominciato un altro se l’idea del romanzo non fosse
andata da sola a morderle il culo. Be’, quel giorno all’Huntington il libro mi
morse il culo, così misi da parte tutto il resto e il giorno successivo
cominciai a scrivere.
Il processo fu estremamente lineare. Fin dai primi anni di lavoro alla
Stanford avevo aperto un file intitolato “Pensieri per l’insegnamento”, nel
quale inserivo idee e brevi storie tratte dalla mia attività clinica. Non feci
altro che saccheggiare quel file. Leggevo e rileggevo gli appunti finché uno
non stuzzicava la mia fantasia: allora gli davo corpo, sviluppandolo in
diversi paragrafi. I suggerimenti non erano scritti secondo un ordine
particolare, ma alla fine li esaminai con attenzione e li suddivisi in cinque
gruppi:
1. Natura della relazione terapeuta-paziente
2. Metodi per esplorare le preoccupazioni esistenziali
3. Problemi che si presentano nella conduzione quotidiana della terapia
4. Uso dei sogni
5. Rischi e privilegi di essere un terapeuta
Più cose imparavo su Arthur Schopenhauer, più trovavo tragica la sua vita:
che cosa triste che uno dei nostri grandi geni fosse stato così inesorabilmente
tormentato. Mi sembrava un uomo che avesse il disperato bisogno di una
terapia. La sua relazione con i genitori ricorda un desolato dramma edipico.
Dapprima aveva fatto infuriare il padre rifiutandosi di entrare nelle attività
commerciali della famiglia. Adorava la madre, una scrittrice popolare, e
quando il padre si suicidò il sedicenne Arthur fu così insistente nei suoi
tentativi di possederla e controllarla che lei, alla fine, arrivò a interrompere
i loro rapporti, rifiutandosi di vederlo per gli ultimi quindici anni della sua
vita. Lui era a tal punto terrorizzato dall’idea di essere sepolto prima di
essere completamente morto che nel testamento ordinò di non essere messo
sotto terra prima di diversi giorni, fino a quando il fetore del corpo non
avesse appestato la campagna circostante.
Mentre meditavo sulla sua triste esistenza, cominciai a chiedermi se
Schopenhauer avrebbe potuto essere aiutato dalla psicoterapia. Se mi avesse
consultato, sarei stato in grado di procurargli un qualche conforto?
Cominciai a immaginare scene della nostra terapia, e a poco a poco prese a
delinearsi il contorno di un romanzo su Schopenhauer.
Schopenhauer in analisi: provate a immaginare una cosa simile! Oh, sì, sì,
che pensiero delizioso e stimolante! Ma chi avrebbe potuto fargli da
terapeuta? Schopenhauer era nato nel 1788, più di un secolo prima dei vagiti
iniziali della psicoterapia. Per settimane presi in considerazione l’idea di un
ex gesuita caritatevole e colto, con una preparazione filosofica, che avrebbe
potuto offrirgli dei ritiri di meditazione intensiva che Schopenhauer avrebbe
potuto accettare di frequentare. L’idea non era del tutto da buttar via. A
quell’epoca c’erano centinaia di gesuiti disoccupati: il papa aveva sciolto
l’ordine nel 1773 e non l’avrebbe ripristinato che dopo quarantun anni. Ma
quella trama non arrivò mai a concretizzarsi, e abbandonai l’idea.
Decisi invece di creare un clone di Schopenhauer, un filosofo
contemporaneo dotato della stessa intelligenza, interessi e caratteristiche
(inclusi la misantropia, la compulsione sessuale e il pessimismo). E così
venne concepito il personaggio di Philip. Avrei collocato Philip nel
ventesimo secolo, quando la psicoterapia era facilmente accessibile. Ma che
genere di terapia poteva essere la più efficace per lui? Problemi
interpersonali così acuti reclamavano a gran voce una terapia di gruppo. E il
terapeuta di gruppo? Avevo bisogno di una persona esperta e abile, così
creai Julius, un medico saggio, anziano, con un approccio alla terapia di
gruppo simile al mio.
Poi creai gli altri personaggi (i membri della terapia di gruppo), inserii
Philip nel gruppo e lasciai che tutti fossero liberi di interagire tra loro. Non
seguivo formule prestabilite: mi limitavo a registrare l’azione mentre si
sviluppava nella mia immaginazione.
Provate a pensarci! Un clone di Schopenhauer entra in un gruppo di
terapia, mette tutti in subbuglio, sfida il leader e fa infuriare gli altri membri,
ma in ultimo passa attraverso un cambiamento radicale. Pensate al messaggio
che avrei mandato alle persone del mio ambiente: se la terapia di gruppo
poteva aiutare Arthur Schopenhauer, un arci-pessimista e il misantropo più
accanito di qualsiasi epoca, allora la terapia di gruppo era in grado di
aiutare chiunque!
In seguito, quando il romanzo fu finito, mi resi conto che avrebbe potuto
essere un utile strumento didattico per addestrare i terapeuti di gruppo, e in
molte sezioni della quinta edizione del libro di testo sulla terapia di gruppo
rimando gli studenti a varie pagine del romanzo, dove è possibile trovare la
drammatizzazione di alcuni principi terapeutici.
Scrissi il romanzo in maniera insolita, alternando capitoli in cui venivano
descritti gli incontri di terapia di gruppo a capitoli che delineavano una
biografia psicologica di Schopenhauer. Ho il sospetto che molti lettori siano
rimasti perplessi da questa struttura particolare, e persino durante la stesura
dell’opera sapevo di aver scelto un amalgama complicato. Ciò nonostante
credevo che un riassunto della vita di Schopenhauer avrebbe aiutato il
lettore a capire Philip, il suo doppio. Ma questa è solo una parte della
spiegazione: confesso di essere rimasto a tal punto affascinato dall’opera,
dalla vita e dalla psiche di Schopenhauer da non potermi lasciar sfuggire
l’occasione di speculare sulla formazione del suo carattere. Né potevo
resistere all’idea di esplorare le modalità con le quali Schopenhauer aveva
anticipato Freud e preparato la scena per la psicoterapia.
Credo che questo libro sia la migliore dimostrazione dell’efficacia della
terapia di gruppo che io abbia mai scritto. Julius era il terapeuta che avevo
sempre cercato di essere. Nel libro, tuttavia, viene colpito da un melanoma
maligno non operabile. Nonostante la malattia, continua a trovare un
significato alla sua vita, persino in prossimità della morte, nel tentativo di
migliorare le vite di tutti i membri del gruppo. È aperto, generoso,
concentrato sul “qui-e-ora”, e mette a disposizione tutta l’energia che gli
rimane per aiutare i membri a esplorare le loro relazioni reciproche e ad
apprendere cose su loro stessi.
Scegliere il titolo del romanzo fu insolitamente indolore: appena La cura
Schopenhauer si presentò alla mia mente, subito l’adottai. Mi piacque il suo
doppio senso: all’uomo Schopenhauer viene offerta una cura, e il pensatore
Schopenhauer offre una cura a tutti noi.
Vent’anni dopo la pubblicazione il romanzo è ancora piuttosto vivo. Una
casa di produzione ceca ne sta preparando una versione cinematografica. La
cura Schopenhauer ha anche anticipato l’ambito della filosofia clinica,
come sono venuto a sapere da persone eminenti impegnate in questa
disciplina.
Diversi anni fa, al convegno annuale dell’American Group Psycotherapy
Association a San Francisco, un vasto pubblico di terapeuti di gruppo
assistette per mezza giornata allo spettacolo di attori che recitavano le parti
dei membri del gruppo del romanzo, guidati da Molyn Leszcz, un mio ex
allievo e coautore della quinta edizione del libro di testo sulla terapia di
gruppo. Mio figlio Ben aveva selezionato gli attori, diretto la produzione e
recitato la parte di uno dei personaggi. Gli attori non avevano un copione,
ma erano stati preparati a immaginarsi in un gruppo di terapia, a rimanere
all’interno del loro personaggio e a interagire spontaneamente con gli altri
membri. Io partecipavo alle discussioni dedicate a vari segmenti di
quest’interazione. Un altro dei miei figli, Victor, preparò un film dell’evento
e ne ha tratto un video disponibile sul suo sito web. Per me fu un grande
piacere potermi sedere comodamente e guardare i personaggi che avevo
immaginato interagire in carne e ossa.
35.
Fissando il sole
Mia sorella Jean morì mentre stavo scrivendo quel libro. Maggiore di me di
sette anni, Jean era un’anima gentile e le volevo molto bene. Da adulti lei
aveva vissuto sulla costa est, io su quella ovest, ma ci eravamo sempre
telefonati ogni settimana, e ogni volta che andavo a Washington alloggiavo
da lei e Morton, suo marito, un cardiologo sempre generoso e accogliente.
Jean aveva sviluppato una demenza con episodi di aggressività e durante
la mia ultima visita a Washington, poche settimane prima che morisse, non mi
aveva riconosciuto. Sentendo di averla già persa, non fui scosso dalla notizia
della sua morte, per lo meno non a livello conscio. L’accolsi invece come
una liberazione per lei e per la sua famiglia, e il giorno successivo io e
Marilyn volammo a Washington per partecipare al funerale.
Avevo avuto l’intenzione di cominciare il mio discorso funebre
raccontando la storia del funerale di nostra madre a Washington, quindici
anni prima. In quell’occasione avevo cercato di renderle onore cuocendo il
kichel, un dolce del vecchio continente che avrebbe dovuto essere servito
alla famiglia riunita dopo il funerale. Il mio kichel aveva un bell’aspetto e un
profumo meraviglioso ma, ahimè, era completamente insapore. Avevo
seguito la ricetta di mia madre, ma mi ero dimenticato di metterci lo
zucchero! Jean era sempre stata gentile e generosa e il motivo per cui volevo
raccontare quella storia era per sottolineare la dolcezza di lei, dicendo che,
se avessi preparato il kichel per lei, non avrei mai potuto dimenticare lo
zucchero. Ma, anche se ero arrivato al funerale del tutto composto e
inconsapevole del dolore profondo che provavo, non ressi durante il
discorso e me ne tornai al mio posto senza portarlo a termine.
Il mio posto era nella prima fila, abbastanza vicino da poter toccare la
semplice bara di legno di mia sorella. Quando forti raffiche di vento si
levarono e infuriarono sul cimitero, la bara cominciò a muoversi. Nonostante
tutta la mia razionalità non potei togliermi dalla mente il pensiero bizzarro
che mia sorella stesse cercando di uscire dalla bara, e dovetti lottare contro
l’istinto di scappare via dal cimitero. Tutta l’esperienza che avevo avuto con
la morte, tutti i pazienti che avevo accompagnato fino alla fine, tutto il mio
supremo distacco e la razionalità espressa sull’argomento della morte: tutto
evaporò davanti al mio terrore.
Questo episodio mi sconvolse. Avevo cercato per decenni di
comprendere e migliorare la mia personale angoscia nei confronti della
morte. Avevo messo in scena queste paure nei miei romanzi e nelle mie
storie e le avevo proiettate in personaggi letterari. Ne La cura
Schopenhauer Julius, il leader del gruppo, annuncia di aver ricevuto una
diagnosi infausta, e i membri del gruppo tentano di consolarlo. Una di loro,
Pam, cerca di offrirgli conforto citando un passo dalle memorie di Vladimir
Nabokov, Parla, ricordo, in cui si descrive la vita come una scintilla tra due
identiche pozze di oscurità, una prima della nascita e l’altra dopo la morte.
Immediatamente Philip, il clone e accolito di Schopenhauer, risponde nel
suo solito modo condiscendente, dicendo: «Nabokov ha indubitabilmente
preso l’idea da Schopenhauer, il quale sosteneva che dopo la morte saremo
quello che eravamo prima della nascita e da qui procedeva per dimostrare
l’impossibilità che ci fosse più di una qualità di non essere».
Pam, furiosa con Philip, ribatte: «Tu pensi che Schopenhauer una volta
abbia detto qualcosa di vagamente simile. Cazzo, davvero interessante!»
Philip chiude gli occhi e comincia a declamare: «D’un tratto si esiste, con
nostra meraviglia, dopo non essere stati per innumerevoli millenni, e dopo
breve tempo si deve non essere per un periodo altrettanto lungo». Cito dal
saggio di Schopenhauer Aggiunte alla dottrina della nullità dell’esistenza.
È abbastanza vago per te, Pam?»
Parlo di questo episodio per ciò che non vi è incluso: e precisamente che le
affermazioni di Schopenhauer e Nabokov si rifanno entrambe a Epicuro, un
antico filosofo greco che sosteneva che la fonte primaria della miseria
umana fosse la nostra onnipresente paura della morte. Per alleviare questa
paura, Epicuro sviluppò una serie di potenti argomentazioni secolari per i
discepoli della sua scuola ad Atene e stabilì che le imparassero così come si
memorizza il catechismo. Una di queste è la famosa “argomentazione della
simmetria”, che sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la
morte è identica alla nostra condizione prima della nascita, e tuttavia il
pensiero del nostro stato “prima di essere” non è mai associato all’angoscia.
Nel corso delle varie epoche i filosofi hanno attaccato
quest’argomentazione, e tuttavia per me è magnifica nella sua semplicità e
racchiude ancora un valore considerevole. Ha offerto conforto a molti miei
pazienti, e anche a me.
Mentre leggevo vari testi sulle argomentazioni di Epicuro per disperdere
il terrore della morte, un’idea formidabile per un nuovo libro mi esplose
nella testa e mi affascinò per parecchi mesi. Ecco l’idea. Un incubo
raccapricciante terrorizza un uomo: in una foresta, al calare della notte, è
inseguito da una bestia terrificante. L’uomo corre fino a quando non ne può
più; inciampa, sente che la creatura gli piomba addosso e si rende conto che
si tratta della sua morte. Si sveglia urlando, con il cuore che batte
all’impazzata, fradicio di sudore. Salta fuori dal letto, si veste in fretta,
abbandona di corsa la camera e la casa dove abita e parte alla ricerca di
qualcuno – un anziano, un pensatore, un guaritore, un prete, un medico –,
chiunque lo possa aiutare per questo suo terrore della morte.
Immaginai un libro formato da otto o nove capitoli, ciascuno che iniziava
con l’identico primo paragrafo: l’incubo, il risveglio e la partenza alla
ricerca di aiuto per il terrore della morte. Tuttavia ciascun capitolo sarebbe
stato ambientato in un secolo diverso! Il primo l’avrei ambientato nel III
secolo avanti Cristo, ad Atene, e il sognatore si sarebbe precipitato
all’agorà, la zona di Atene dov’era situata la maggior parte delle grandi
scuole filosofiche. Sarebbe passato accanto all’Accademia, fondata da
Platone e ora diretta da suo nipote Speusippo; accanto al Liceo, la scuola di
Aristotele; accanto alle scuole degli stoici e dei cinici, e alla fine avrebbe
raggiunto la sua destinazione, il giardino di Epicuro, dove, al levar del sole,
gli sarebbe stato permesso di entrare.
Un altro capitolo avrebbe potuto essere ambientato all’epoca di
Sant’Agostino, un terzo durante la Riforma, un quarto alla fine del
diciottesimo secolo, all’epoca di Schopenhauer; uno ai giorni di Freud, un
altro forse ai tempi di Sartre o di Camus, e altri ancora magari in un paese
musulmano e in un paese buddhista.
Una cosa alla volta. Decisi di scrivere l’intero episodio della Grecia di
Epicuro nel 300 a.C. e poi di rivolgermi a ciascuno dei periodi di tempo
successivi. Per mesi feci ricerche sui dettagli della vita quotidiana nella
Grecia di quell’epoca, relativi all’abbigliamento, alla colazione, alle
abitudini di tutti i giorni. Studiai testi storici e filosofici antichi e moderni,
lessi romanzi ambientati nell’antica Grecia (di Mary Renault e di altri
scrittori), e alla fine giunsi alla triste consapevolezza che per le ricerche
necessarie a scrivere questo e i capitoli successivi avrei impiegato il resto
della vita. Con grande rammarico abbandonai l’idea. È stato l’unico progetto
di libro che ho cominciato senza riuscire a portarlo a termine.
Alla fine del 2015, dopo aver subito la perdita di mia sorella e di tre
carissimi amici, m’ammalai d’influenza per diverse settimane, con
conseguenti mancanza di appetito e perdita di peso, e poi ebbi un attacco
violento di gastroenterite, molto simile a un avvelenamento da cibo, con
vomito e diarrea che mi lasciarono disidratato. La pressione sanguigna era
così pericolosamente bassa che mio figlio Reid mi portò da San Francisco al
pronto soccorso dello Stanford, dove rimasi per una giornata e mezzo. Lì
ricevetti sette litri di flebo per via intravenosa, e lentamente la pressione del
sangue tornò alla normalità. Mentre attendevo i risultati di una tomografia
computerizzata all’addome, ebbi per la prima volta la netta sensazione che
avrei potuto morire. Mia figlia Eve, che è medico, e mia moglie rimasero
con me, offrendomi conforto, e per parte mia cercai di trovare sollievo
facendo ricorso a un pensiero che avevo spesso suggerito ai miei pazienti:
più grande è il senso di vita non vissuta, più grande è il terrore della morte.
Quest’equazione mi calmò, dopo che considerai quanti pochi rimpianti
avessi riguardo alla vita che avevo vissuto.
Dopo le dimissioni dall’ospedale pesavo soltanto sessantatré chili,
all’incirca nove in meno rispetto al mio peso abituale. A volte i vaghi
ricordi della mia formazione medica si risvegliano per crearmi dei
problemi. In quell’occasione fui assillato da una massima medica: se il
paziente subisce una significativa perdita di peso per una causa
sconosciuta, occorre pensare a un cancro occulto. Immaginai il mio
addome segnato da lesioni metastatiche. Durante quel periodo trovai
conforto in un esperimento di pensiero suggerito da Richard Dawkins, che
chiede di immaginare un faretto laser che si muove inesorabilmente lungo
l’immensa linea del tempo. Tutto quello che il raggio supera sprofonda
nell’oscurità del passato; tutto quello che precede il faretto è occultato
nell’oscurità di ciò che ha ancora da venire. Solo ciò che è illuminato
dall’esile raggio di luce del faretto è vivo e consapevole. Questo pensiero
mi dà sempre sollievo, mi fa sentire quanto sia fortunato a essere vivo in
questo momento.
A volte penso che l’atto stesso della scrittura sia il mio tentativo di
cancellare lo scorrere del tempo e la morte inevitabile. Faulkner lo dice nel
migliore dei modi: «Lo scopo di ogni artista è di arrestare il movimento e di
tenerlo fissato in modo tale che, a un certo punto, uno sconosciuto lo leggerà
e quello tornerà alla vita». Credo che questo pensiero spieghi l’intensità
della mia passione per la scrittura, per non smettere mai di scrivere.
Considero molto seriamente l’idea che, se si vive bene e non si hanno
profondi rimpianti, si affronterà la morte con maggiore serenità. Ho sentito
questo messaggio non solo da molti pazienti in punto di morte, ma anche da
scrittori e grandi spiriti quali Tolstoj, il cui personaggio Ivan Il’ič si rende
conto che sta morendo male perché ha vissuto male. Tutte le letture e le
esperienze della mia vita mi hanno insegnato l’importanza di vivere in modo
tale da morire con pochi rimpianti. In questi miei ultimi anni ho fatto lo
sforzo consapevole di essere generoso e gentile con tutti quelli che ho
incontrato, e sono entrato nel mio ottavo decennio di vita con un ragionevole
grado di appagamento.
Un altro elemento che mi ricorda la mia mortalità è costituito dalle email.
Da più di vent’anni ricevo ogni giorno una notevole quantità di email da
parte dei miei fan. Cerco di rispondere a ciascuno di loro, lo considero parte
della mia amorevole meditazione buddhista quotidiana. Mi dà gioia pensare
che il mio lavoro offre qualcosa a coloro che mi scrivono. Ma sono anche
consapevole, con il passare degli anni, del numero sempre crescente di
email, un flusso alimentato dalla consapevolezza che non vivrò molto a
lungo. E il messaggio è spesso del tutto esplicito, come in questa lettera
arrivata solo pochi giorni fa:
…volevo scriverle molto tempo fa, ma ho pensato che fosse sopraffatto dalle email e non avesse il
tempo di leggerle tutte; tuttavia ho pensato che le avrei scritto comunque. Come dice lei stesso, la sua
età è avanzata e potrebbe non essere in giro ancora per molto, e allora sarebbe troppo tardi.
In breve tempo elaborai una spiegazione del tutto plausibile per il “problema
Spinoza” dei nazisti. Dalle mie letture venni a sapere che Goethe, l’idolo
letterario di tutti i tedeschi, inclusi i nazisti, era affascinato dall’opera di
Spinoza. Infatti in una lettera sosteneva di essersi portato in tasca l’Etica di
Spinoza per un anno intero! Di sicuro questo doveva aver rappresentato un
problema enorme per l’ideologia nazista: com’era possibile che il più
grande scrittore della Germania fosse così devoto a Spinoza, un ebreo di
origine portoghese-olandese?
Decisi di intrecciare la narrazione di due vite: quella di Baruch Spinoza,
il filosofo ebreo del diciassettesimo secolo, e quella di Alfred Rosenberg,
pseudo-filosofo e uomo della propaganda nazista. In quanto membro
ferocemente antisemita della cerchia più intima di Hitler, Rosenberg aveva
ordinato la confisca della biblioteca di Spinoza, ed era stato sempre lui a
ordinare che i libri venissero salvati, invece che bruciati. Nel 1945, al
processo di Norimberga, Rosenberg fu condannato a morte per impiccagione
assieme ad altri undici nazisti di grado elevato.
Cominciai a scrivere capitoli alternati (la vita di Spinoza era ambientata
nel diciassettesimo secolo e quella di Rosenberg nel ventesimo) e sviluppai
una connessione narrativa tra i due personaggi. In breve, tuttavia, divenne
troppo macchinoso continuare a spostarsi avanti e indietro tra le due epoche,
così decisi di scrivere prima l’intera storia di Spinoza, poi quella di
Rosenberg, e alla fine intrecciare le due storie con le necessarie limature e
rifiniture per garantire una perfetta adesione.
Scrivere storie situate in due secoli diversi aumentò notevolmente la mole
di ricerche necessarie, e Il problema Spinoza richiese più tempo di qualsiasi
altro libro io abbia mai pubblicato (con l’eccezione della Psicoterapia
esistenziale). Ma non lo considerai mai un lavoro: al contrario, ero
stimolato e desideroso di continuare a leggere e a scrivere ogni mattina.
Lessi, non senza difficoltà, le opere maggiori di Spinoza, i commentari a
queste opere e numerose biografie; infine, per sbrogliare i misteri rimanenti,
chiesi consiglio a due studiosi di Spinoza, Rebecca Goldstein e Steven
Nadler.
Mi occorse ancora più tempo per cercare informazioni sulla nascita e
sullo sviluppo del partito nazista, e sul ruolo in esso avuto da Alfred
Rosenberg. Anche se rispettava le capacità di Rosenberg e gli aveva
assegnato posizioni di rilievo, Hitler preferiva di gran lunga la compagnia di
Joseph Goebbels e Hermann Göring. Giravano voci che una volta Hitler
avesse scagliato attraverso la stanza l’opera principale di Rosenberg, Il mito
del ventesimo secolo, gridando: «Chi può capire questa roba!» Rosenberg
soffriva talmente di non essere amato da Hitler quanto gli altri gerarchi che
arrivò a cercare in più di un’occasione un aiuto psicologico; nel mio
romanzo avrei utilizzato una perizia psichiatrica vera.
A differenza degli altri miei romanzi, Il problema Spinoza non è un’opera
didattica, ma la psicoterapia vi ha comunque un ruolo importante: il mondo
interiore di ciascuno dei miei due protagonisti è messo a nudo in continue
discussioni con un uomo di fiducia. Spinoza si confida con Franco, un amico
che a tratti assume il ruolo di terapeuta, mentre Rosenberg si reca a diverse
sedute di psicoterapia con uno psichiatra inventato, Friedrich Pfister. In
effetti, Franco e Pfister sono gli unici due personaggi importanti che abbia
creato per il romanzo: tutti gli altri sono figure storiche.
Sfortunatamente Il problema Spinoza ha avuto una scarsa attrattiva per i
lettori americani, ma ha invece incontrato il favore del pubblico all’estero:
in Francia venne premiato nel 2014 con il Prix des Lecteurs. Nel 2016
ricevetti una email da Hans van Wijngaarden, un collega olandese, che mi
informava che un ritratto di Spinoza dipinto durante la sua vita era appena
stato scoperto in un quadro del 1666 di Berend Graat. Scrutando gli occhi
espressivi di Spinoza mi rammaricai moltissimo di non aver potuto vedere il
ritratto prima di scrivere il romanzo. Forse mi sarei sentito personalmente
più vicino a lui, come mi era capitato in precedenza dopo aver visto i ritratti
di Nietzsche, Breuer, Freud, Lou Salomé e Schopenhauer.
Più di recente Manfred Walther mi ha inviato un suo articolo accademico
del 2015 intitolato La presenza di Spinoza in Germania durante l’era
nazista, che descrive l’enorme influenza avuta da Spinoza non solo su
Goethe, ma anche su eminenti filosofi tedeschi quali Fichte, Hölderin,
Herder, Schelling e Hegel. Se l’avessi letto mentre stavo scrivendo il
romanzo, avrebbe rinsaldato la mia argomentazione che Spinoza avesse
costituito davvero un grosso problema per la campagna antisemita dei
nazisti.
Tre anni fa, quando sentii parlare per la prima volta di terapia via SMS, nella
quale terapeuta e paziente comunicano unicamente mandandosi messaggi,
ancora una volta la respinsi con disgusto. UNA TERAPIA VIA SMS! ACCIDENTI!
Sembrava una distorsione, una disumanizzazione, una parodia del processo
della terapia. Era un passo eccessivo! Non volevo aver niente a che fare con
una cosa del genere e mi rintanai nel mio atteggiamento da bacchettone. Poi
Oren Frank, il fondatore di Talkspace, il più grande programma di terapia
via SMS online, mi telefonò e mi disse che la sua compagnia stava al
momento offrendo terapie di gruppo via SMS, e mi chiese di incontrare i suoi
terapeuti per un consulto. TERAPIA DI GRUPPO VIA SMS! Ancora una volta ne
fui sconvolto. Un gruppo d’individui che non si vedevano mai (per
mantenere l’anonimato le loro facce non venivano mai mostrate sui monitor,
erano rappresentati da simboli) e comunicavano unicamente per iscritto –
questo era troppo! Non riuscivo a immaginare un gruppo di terapia che
funzionasse via SMS, ma accettai di partecipare, quasi esclusivamente per
curiosità.
Osservai alcuni dei gruppi, e questa volta avevo ragione. La terapia di
gruppo di cui fui testimone si rivelò troppo complicata e il progetto venne
presto abbandonato. La compagnia si concentrò allora completamente
sull’uso dei messaggi per una terapia individuale. In breve negli Stati Uniti e
in diversi altri paesi vennero create altre compagnie che si occupavano di
terapia via SMS, e tre anni fa accettai di supervisionare i terapeuti
responsabili dell’addestramento del personale di Talkspace.
Ora che ho superato gli ottant’anni leggo raramente le riviste e di rado mi
sposto per partecipare a convegni professionali del mio settore, e mi sento
sempre più distante da questi nuovi sviluppi. Anche se l’uso dei messaggi mi
sembrava il paradigma stesso dell’impersonalità e l’autentico opposto del
mio approccio profondamente intimo alla terapia, mi rendevo conto che
avrebbe potuto avere un ruolo significativo nel futuro della terapia stessa.
Per combattere l’obsolescenza, scelsi di tenermi aggiornato su questo
metodo sempre più diffuso di offrire psicoterapia.
La struttura della piattaforma offre ai clienti l’opportunità di inviare e
ricevere messaggi (quotidianamente, se lo desiderano) a e da un terapeuta,
per una modesta tariffa mensile. L’uso di questo genere di terapia si va
diffondendo in modo esponenziale e, mentre scrivo, la Talkspace, la
compagnia più grande degli Stati Uniti, impiega oltre mille terapeuti. Molte
di queste piattaforme vengono aperte in altre nazioni: tre compagnie cinesi
mi hanno contattato, ciascuna affermando di essere la più grande compagnia
di terapia via Internet del suo paese.
L’innovazione si sviluppò rapidamente. In breve Talkspace fu in grado di
offrire non solo terapia via SMS, ma anche la possibilità che clienti e
terapeuti potessero scambiarsi a vicenda messaggi vocali. Poco tempo dopo,
al cliente venne poi proposta l’opzione di incontri in videoconferenza. In
breve solo il cinquanta per cento delle sedute si svolgeva via SMS, il
venticinque attraverso messaggi telefonici e l’altro venticinque per cento con
videoconferenze. Mi aspettavo che si consolidasse un’inevitabile sequenza,
cioè che i clienti usassero i messaggi solo nella fase iniziale della terapia e
gradualmente passassero alla fase audio, e infine a quella video, quella più
seria. Come mi sbagliavo! Non fu affatto ciò che accadde! Molti clienti
preferirono i messaggi e rinunciarono al contatto telefonico e video. La cosa
mi sembrava illogica, ma in breve fui informato che molti clienti si sentivano
più sicuri nella condizione di anonimato garantita dal messaggio e, inoltre,
che molti clienti giovani erano particolarmente a loro agio con questo
sistema: erano cresciuti mandando messaggi e spesso preferiscono inviare un
SMS piuttosto che telefonare ai loro amici. Da quel che sembra attualmente,
questa terapia scritta continuerà ad avere un ruolo di primo piano nel futuro
del nostro ambito di specializzazione.
Per un certo tempo continuai a provare disprezzo per la terapia basata sui
messaggi, che mi sembrava una pallida copia dell’esperienza reale. Mentre
esaminavo il lavoro dei miei supervisionati, ero certo che questa modalità
non garantisse il tipo di terapia che io offrivo ai miei pazienti. Tuttavia a
poco a poco sono arrivato a capire che, anche se non si tratta della stessa
terapia offerta dagli incontri a tu per tu, comunque offre qualcosa di
importante ai clienti. Senza dubbio molti di loro considerano la terapia via
SMS importante e operano un cambiamento. Ho insistito affinché Talkspace
sviluppasse delle ricerche accurate sui risultati ottenuti, e i riscontri iniziali
sembrano rilevare la presenza di un cambiamento significativo. Ho letto
commenti di pazienti che nei loro messaggi esprimono quanto ritengano
valido il processo. Una paziente ha scritto di aver stampato alcune parole
del suo terapeuta e di averle appiccicate sullo sportello del frigorifero, per
poterle rileggere regolarmente. Se i clienti hanno un attacco di panico nel bel
mezzo della notte, possono mandare immediatamente un messaggio al loro
terapeuta. Anche se il terapeuta non leggerà quel messaggio prima di ore,
comunque si avrà la sensazione di un contatto immediato. Inoltre i clienti
possono facilmente riesaminare la loro intera terapia, ogni parola detta al
loro terapeuta, e questo darà la misura dei progressi che hanno fatto.
La supervisione dei terapeuti che utilizzano la terapia dei messaggi è
diversa dalla supervisione dei terapeuti tradizionali. Innanzitutto, quando
supervisiono il lavoro di un terapeuta che usa i messaggi, non devo fare
affidamento sulla ricostruzione del terapeuta di quanto accaduto durante
l’ora, che non sempre è affidabile; ho invece a disposizione l’intera
trascrizione, parola per parola, di tutto quanto è stato detto tra terapeuta e
paziente – nulla rimane nascosto agli occhi del supervisore.
Infine ho a tal punto insistito con i terapeuti sotto la mia supervisione di
prestare attenzione alla natura umana, empatica e genuina della relazione
cliente-terapeuta, che si è verificato un curioso paradosso: nelle mani giuste
di terapeuti ben addestrati l’approccio dei messaggi può offrire un incontro
più personale degli incontri faccia a faccia con terapeuti che seguono in
modo rigido i manuali di comportamento standardizzati.
38.
La mia vita nei gruppi
Ho condotto una gran quantità di gruppi di terapia nel corso di decenni:
gruppi di pazienti psichiatrici, degenti e ambulatoriali; pazienti malati di
cancro, coniugi in lutto, alcolizzati e coppie sposate; studenti di medicina,
interni di psichiatria e terapeuti in attività; ma sono anche stato membro di
molti gruppi, e lo sono anche adesso, a ottantacinque anni passati.
Il gruppo che ha assunto per me l’importanza maggiore è quello formato
da alcuni terapeuti senza leader che, negli ultimi ventiquattro anni, si è
incontrato una volta ogni due settimane, per novanta minuti, nello studio dei
vari membri. Una delle nostre regole di fondo è la totale riservatezza: ciò
che trapela nel gruppo deve rimanere all’interno del gruppo. Quindi in questi
paragrafi rivelerò per la prima volta qualcosa su questo gruppo, e lo faccio
non solo con l’autorizzazione dei membri, ma anche con il loro
incoraggiamento: nessuno di noi vuole che questo gruppo muoia. Non che
aspiriamo all’immortalità, ma tutti noi vogliamo incoraggiare altri a vivere
l’esperienza vitale e arricchente che abbiamo avuto.
Un paradosso della vita dei terapeuti è che non siamo mai soli quando
lavoriamo, e tuttavia molti di noi sperimentano un profondo isolamento.
Lavoriamo senza una squadra – niente infermiere, supervisori, colleghi o
assistenti. Molti di noi cercano di rendere meno pesante questa solitudine
organizzando pranzi o caffè con colleghi, o frequentando discussioni di casi,
o cercando una supervisione o una terapia personale, ma per i più questi
rimedi non giungono abbastanza nel profondo. Io ho scoperto che incontrarsi
regolarmente con un piccolo gruppo di altri terapeuti è rigenerante; il gruppo
offre cameratismo, supervisione, perfezionamento post universitario, crescita
personale e, di quando in quando, intervento in momenti di crisi. Pertanto
incoraggio con energia altri terapeuti a formare gruppi simili al nostro.
Il nostro particolare assembramento nacque un giorno, più di vent’anni fa,
quando Ivan G., uno psichiatra in attività che avevo incontrato quando ero
interno allo Stanford, mi telefonò per invitarmi a partecipare a un gruppo di
sostegno che si sarebbe incontrato regolarmente in un edificio che ospitava
gli studi dei medici, vicino allo Stanford Hospital. Elencò i nomi degli altri
psichiatri che fino a quel momento avevano aderito all’iniziativa: li
conoscevo quasi tutti, e alcuni molto bene, dato che ero stato il loro
insegnante quando erano interni di psichiatria.
Aderire a un gruppo del genere si presentava come un grosso impegno:
non solo richiedeva novanta minuti ogni due settimane, ma non prevedeva
una conclusione prefissata. Quindi, quando accettai, sapevo che poteva
essere un impegno a lungo termine, ma nessuno di noi avrebbe potuto
prevedere che ci saremmo ancora incontrati ventidue anni più tardi. In tutto
questo periodo, salvo rari conflitti con le feste più importanti, non abbiamo
mai cancellato un incontro, e nessuno si è mai assentato per ragioni banali.
Per parte mia, non avevo mai fatto parte di gruppi che non prevedevano
una conclusione, anche se spesso avevo invidiato i miei pazienti in terapia di
gruppo. Anch’io desideravo essere membro di un gruppo di terapia, avere
una cerchia di gente fidata con cui confidarmi. Sapevo da esperienze
precedenti come leader di gruppi quanto il gruppo potesse rivelarsi utile per
i suoi membri.
Una volta avevo condotto per sei anni un gruppo per terapeuti e avevo
osservato, una settimana dopo l’altra, i benefici che offriva ai partecipanti.
Molyn Leszcz, coautore della quinta edizione del mio libro di testo sulla
terapia di gruppo, era un membro dello Stanford nel 1980. Era venuto lì per
approfondire le proprie conoscenze sulla terapia di gruppo, e nel corso della
sua formazione gli avevo chiesto di condurre il gruppo assieme a me per un
anno. Da allora, anche a decine di anni di distanza, entrambi ricordiamo
quello che vedemmo e provammo durante quegli incontri. Mi allontanai dal
gruppo con grande rammarico quando partii per il mio anno sabbatico a
Londra. Innanzitutto, fu il solo gruppo da me condotto che si concluse con un
matrimonio: due dei membri intrecciarono una relazione e si sposarono poco
dopo la fine degli incontri del gruppo. Trentacinque anni dopo li incontrai a
una conferenza, ed erano ancora felicemente sposati.
Così, nonostante l’imbarazzo di unirmi a un gruppo che comprendeva miei
ex studenti, mi iscrissi, non senza una buona dose d’ansia: come molti altri
membri, mi sentivo a disagio nel rivelare la mia vulnerabilità, la mia
vergogna e i dubbi su me stesso a colleghi ed ex studenti. Mi ripetei che ero
un uomo adulto, e che sarei probabilmente sopravvissuto all’imbarazzo.
I mesi iniziali furono utilizzati per decidere il tipo di gruppo che
intendevamo essere. Non volevamo discutere casi, anche se tutti
desideravano mantenere viva quell’opzione. In ultima analisi decidemmo di
diventare un gruppo di supporto polivalente: in altre parole, un gruppo di
terapia senza leader. Una cosa fu chiara fin dall’inizio: nonostante la mia
maggiore esperienza con i gruppi, non sarei stato il leader, e nessuno mi ha
mai considerato tale. Per evitare di ritrovarmi in qualsiasi modo in questa
posizione, mi sforzai di essere particolarmente aperto nel rivelarmi fin dai
primi incontri. Nel corso della mia attività ho imparato che, se si vuole
trarre profitto da esperienze del genere, ci si devono prendere dei rischi. (In
effetti in anni recenti ho generalmente sottolineato questo punto con i miei
pazienti nel corso della seduta individuale iniziale, e l’ho ribadito spesso,
ogni volta che manifestavano qualche resistenza.)
Cominciammo a incontrarci in undici, tutti maschi, tutti psicoterapeuti
(dieci psichiatri e uno psicologo clinico). Nella fase iniziale due membri si
ritirarono, e un terzo dovette allontanarsi per motivi di salute. Negli ultimi
ventidue anni il gruppo si è mostrato notevolmente coeso: non un solo
membro si è ritirato di sua volontà, e la frequenza è stata strabiliante.
Personalmente, quando ero in città, non sono mai mancato a un incontro, e
anche gli altri membri danno al gruppo la priorità su ogni altra attività.
Quando sono turbato da una qualche interazione problematica con mia
moglie, con i figli o i colleghi, o sono bloccato nel mio lavoro, o
preoccupato da qualche sentimento intenso, positivo o negativo, nei confronti
di un paziente o di un conoscente, o irritato da un incubo, attendo sempre con
ansia di discuterne al prossimo incontro. E, naturalmente, tutti i sentimenti
spiacevoli esistenti tra i membri del gruppo sono sempre stati trattati in
profondità.
Forse esistono altri gruppi di terapia senza un leader, dedicati all’esame
del processo come delle esistenze e della psiche dei membri, ma nessuno è
mai stato sottoposto alla mia attenzione, sicuramente non uno che sia
sopravvissuto così a lungo. Durante questi due decenni abbiamo vissuto la
morte di quattro dei nostri membri e la demenza di altri due, che li ha
costretti al ritiro. Abbiamo discusso della morte dei coniugi, dei nuovi
matrimoni, della pensione, delle malattie in famiglia, dei problemi con i figli
e del trasferimento in case di riposo. In ogni caso siamo rimasti fedeli a
un’analisi onesta di noi stessi e degli altri.
Per me la cosa più notevole è stata la persistenza dell’elemento novità nei
nostri incontri. Nonostante siano ormai oltre cinquecento, ogni singola volta
continuo a scoprire qualcosa di nuovo e diverso nei miei compagni e in me
stesso. Forse l’esperienza più difficile per tutti noi è stata assistere
all’insorgere e allo svilupparsi della demenza in due amatissimi membri. Ci
siamo trovati di fronte a molti dilemmi. Quanto avremmo dovuto rivelare di
quello che vedevamo? Come avremmo dovuto rispondere al senso di
superiorità assoluta che s’accompagna alla demenza, o alla sua ostinata
negazione? E, cosa ancor più pressante, che fare se ci fossimo resi conto che
un membro non doveva più incontrare i suoi pazienti? Ogni volta che è
capitato, abbiamo reagito invitando con forza il membro in questione a
consultare uno psicologo e a sottoporsi a un controllo neuropsicologico, e in
ciascuna situazione il medico consultato ha esercitato la propria autorità
ordinando al membro di smettere di incontrare pazienti. Come molte persone
che hanno superato gli ottant’anni mi preoccupo io stesso della demenza, e in
tre o quattro occasioni sono stato informato dal gruppo che avevo già riferito
in precedenza l’episodio appena raccontato. Per quanto la cosa sia
mortificante, sono stato grato al gruppo per la sua onestà. Da qualche parte,
nel profondo della mia mente, è in agguato il terrore che un giorno un
membro del gruppo insista affinché mi sottoponga a un controllo
neuropsicologico.
Quando uno dei nostri membri più giovani ci lasciò esterrefatti
annunciandoci che gli era appena stato diagnosticato un tumore incurabile al
pancreas, gli rimanemmo tutti accanto mentre discuteva apertamente e con
coraggio le sue paure e le sue preoccupazioni. All’approssimarsi della fine,
quando era troppo malato per spostarsi, tenemmo un incontro a casa sua, e
l’intero gruppo partecipò alla sua commemorazione.
Ogni volta che un membro moriva ne aggiungevamo uno nuovo, per
mantenere le nostre dimensioni relativamente costanti. Partecipammo tutti al
matrimonio di uno di noi, che si svolse a casa di un altro membro, mentre un
terzo si prendeva carico della cerimonia nuziale. Il gruppo partecipò anche
ad altri due matrimoni e al bar mitzvah del figlio di uno di noi. In un’altra
occasione l’intero gruppo visitò la casa di riposo dov’era confinato uno dei
membri, ora affetto da una grave forma di demenza. Più volte discutemmo la
possibilità di aggiungere membri di sesso femminile, ma siccome inserivamo
un unico membro per volta, la maggior parte di noi pensava che una donna si
sarebbe sentita in sgradevole minoranza. Ripensandoci adesso, credo che
quella sia stata una decisione sbagliata. La mia sensazione è che il gruppo
sarebbe stato ancora più proficuo se fin dall’inizio fosse stato formato da
uomini e donne.
Sono sempre stato attivo nel gruppo, e nella sua fase iniziale ero io quello
che, quando il gruppo sembrava poco impegnato e riluttante ad affrontare
questioni più profonde, spesso proponevo un’analisi del processo, ovvero
sottolineavo l’eccessiva preoccupazione del gruppo per argomenti sicuri e
superficiali; dopo i primi anni, tuttavia, anche altri si sono cimentati in
questo ruolo e con la mia stessa frequenza. Ci siamo offerti aiuto a vicenda a
diversi livelli. A volte lavoriamo su questioni profonde della personalità, o
sulle tendenze dei membri a lasciarsi andare al sarcasmo, a osservazioni
denigratorie, al senso di colpa per prendersi troppo tempo, alla paura di
esporsi o alla vergogna, e a volte il nostro obiettivo è semplicemente offrire
un sostegno e far sapere a uno di noi che gli siamo vicini. Di recente mi sono
presentato a un incontro piuttosto scosso per un incidente d’auto in cui ero
stato coinvolto la settimana prima. Dopo quell’incidente guidare mi causava
ansia e stavo cominciando a chiedermi se, alla mia età, dovessi ancora
mettermi al volante. Uno dei presenti mi raccontò di aver avuto un incidente
piuttosto grave pochi anni prima, e di esserne rimasto scosso per mesi.
Pensava che si trattasse di una piccola sindrome da stress post-traumatico.
Considerare la cosa in quella prospettiva mi fu molto utile e percorsi il
tragitto in auto fino a casa sentendomi più calmo, anche se guidai sempre con
prudenza.
Nel 2012 una regista svizzera, Sabine Gisiger, mi contattò per girare un
documentario sulla mia vita. Sembrava una proposta curiosa, ma quando al
Mill Valley Film Festival assistetti alla proiezione di Guru, un film
eccellente che aveva girato su Rajneesh, il popolare leader che con le sue
manipolazioni aveva guidato una comune in Oregon, cominciai a provare un
certo interesse. Quando le chiesi perché avesse scelto me come soggetto di
un film, mi rispose che si era sentita “sporcata” dal lavoro su Rajneesh e
aveva deciso di fare un film su una «persona rispettabile». Una persona
rispettabile: fu così che mi conquistò.
Cominciammo un periodo di riprese che durò più di due anni, con Sabine
come regista, Philip Delaquis come produttore, e i loro magnifici tecnici del
suono e della fotografia. La troupe fece diverse visite a casa nostra, a Palo
Alto, alla Stanford e ai luoghi di vacanza della nostra famiglia, nelle Hawaii
e nel sud della Francia, e in breve l’intero cast si sentì parte della famiglia.
Venni ripreso in varie situazioni: mentre parlavo in pubblico, andavo in
bicicletta, nuotavo, facevo immersioni, giocavo a ping-pong, e una volta
mentre ero immerso nella vasca idromassaggio con Marilyn.
Per tutto il tempo mi chiesi chi diavolo avrebbe voluto vedere un film che
mostrava tutti questi aspetti banali della mia vita. Non avevo fatto
investimenti finanziari nel film ma, essendo diventato amico della regista e
del produttore, mi preoccupavo per i soldi che avrebbero perso. Alla fine,
quando l’intera famiglia e diversi amici intimi assistettero alla proiezione
privata di una prima versione a San Francisco, mi sentii sollevato: Sabine e i
suoi collaboratori avevano fatto un lavoro eccellente, selezionando scene da
molte dozzine di ore di riprese e organizzandole in un insieme coerente della
durata di settantaquattro minuti. Nonostante le mie proteste, venne intitolato
La cura di Yalom. Tuttavia mi sconcertava l’idea che qualcuno, al di fuori
della famiglia più stretta e degli amici più intimi, potesse provare il minimo
interesse per il film. Inoltre mi sentivo imbarazzato ed esposto. Anche se
sono giunto a identificarmi con quello che scrivo e considero i miei libri, in
particolare le storie e i romanzi, i capitoli più importanti della mia vita
adulta, il film si occupa poco di me in quanto scrittore e si concentra invece
sulle mie attività quotidiane. E tuttavia, con mia sorpresa, il film in Europa
fu un successo, e alla fine venne proiettato in cinquanta cinema per diverse
centinaia di migliaia di spettatori.
Nell’autunno del 2014, quando venne proiettato a Zurigo, la regista chiese
a me e a Marilyn di essere presenti alla prima mondiale. Anche se avevo
deciso di non fare più viaggi oltreoceano, quello era un invito che non
potevo rifiutare. Volammo a Zurigo e assistemmo a due proiezioni, la prima a
inviti, con un pubblico di terapeuti e persone importanti, e la seconda per un
pubblico normale. Al termine di ciascuna proiezione risposi alle domande
dei presenti e mi sentii molto esposto, specialmente per le riprese di me e
Marilyn nell’idromassaggio, anche se si vedevano soltanto le nostre teste e
le spalle. Ma mi emozionai vedendo le scene di una vacanza della famiglia,
quando i nostri nipoti Alana e Desmond si sfidano in una gara di ballo. Alla
fine del film si sente cantare un’altra nipote, Lilli Virginia, che è una
cantautrice professionista.
Quando, pochi mesi dopo, il film fu proiettato in Francia, Marilyn si recò
a Parigi per la prima e parlò al pubblico del teatro dopo la proiezione. Fu
poi emozionata di vedere le nostre facce sulla copertina di Pariscope, una
guida popolare agli eventi della città di Parigi.
Pochi mesi dopo il film fu proiettato a Los Angeles ma, a differenza
dell’Europa, suscitò scarso interesse. Nonostante una recensione favorevole
sul Los Angeles Times, fu tolto dal cartellone dopo pochi giorni.
In concomitanza con il viaggio a Zurigo per la prima del film, avevo
accettato l’offerta di tenere una conferenza a Mosca. L’incentivo era stato un
compenso insolitamente generoso, nonché il volo da Zurigo a Mosca su un
jet privato. Quel volo fu una vera e propria storia a sé. Eravamo solo quattro
passeggeri: io, Marilyn, un ex paziente che avevo incontrato per un’unica
seduta molti anni prima e un caro amico di questi, un oligarca russo e
proprietario dell’aeroplano. Io sedevo accanto all’oligarca, con il quale
ebbi una cordialissima conversazione per tutto il volo. Mi diede
l’impressione di essere un individuo riflessivo, profondo, afflitto da alcune
aree problematiche della propria esistenza. Capii bene i suoi travagli ma,
per cortesia, non volli andare troppo a fondo. Solo molto tempo dopo venni
a sapere che lo scopo (non esplicitato) di quel volo era che offrissi un po’ di
terapia a quell’uomo tormentato. Se solo l’avessi saputo, se solo qualcuno
avesse parlato chiaro, mi sarei maggiormente concentrato su come essergli
d’aiuto.
La mia conferenza ebbe luogo all’Istituto di psicoanalisi di Mosca, una
grande università e sede spesso usata per i concerti rock. Lo sponsor aveva
programmato di avere una traduzione simultanea grazie a settecento cuffie,
ma si presentarono millecento persone, causando una tale confusione che lo
sponsor, abbandonata l’idea della simultanea, chiese che le cuffie venissero
restituite e diede istruzioni a un traduttore molto ansioso affinché
provvedesse a una traduzione dal vivo.
Quando cominciai a parlare e notai che nessuna delle mie battute veniva
accolta da sorrisi, mi resi conto che doveva esserci un serio problema con la
traduzione. In seguito il mio ospite mi disse che il traduttore, innervosito dal
brusco cambiamento di programma, aveva avuto bisogno di una quindicina
di minuti per riprendersi, ma alla fine riuscì a fare un buon lavoro. Dopo la
conferenza gli sponsor avevano organizzato una rappresentazione in russo di
uno dei racconti di Creature di un giorno, “Arabesque”, la storia di una
ballerina russa. Due attori di straordinaria bellezza, con abiti esotici, misero
in scena la storia, della quale era testimone un uomo anziano e silenzioso
(presumo si trattasse di me), seduto in un angolo. Lo sfondo dell’azione era
un grande schermo sul quale veniva proiettata la mano di un artista che, con
un pennello, creava bellissimi disegni surreali usando i colori a olio. Alla
fine dell’evento firmai libri per un tempo infinito.
Ogni giorno, senza eccezioni, ricevo email da lettori da molte parti del
mondo, e ci tengo a rispondere a ogni lettera, in genere con un semplice:
«Grazie per avermi scritto» o: «Sono molto lieto che il mio lavoro significhi
qualcosa per lei». Faccio attenzione a menzionare il nome dello scrivente, in
modo che chi mi ha scritto sia certo che ho effettivamente letto la sua lettera
e sto provvedendo a una risposta personale. Questo porta via parecchio
tempo, ma sento che in tal modo sto facendo qualcosa di simile alla pratica
della meditazione quotidiana e benevola dei miei amici buddhisti. Quasi
quotidianamente ricevo una richiesta di consultazione da qualche parte del
mondo, via Skype o da parte di individui disposti a volare in California per
incontrarmi. L’altro giorno un uomo mi ha scritto per chiedermi se avrei
potuto collegarmi via Skype con sua madre, una psicoterapeuta in pensione,
il giorno del suo centesimo compleanno.
Oltre alla posta, a volte i lettori mandano dei doni, e la nostra casa è
adorna di oggetti provenienti da Grecia, Turchia, Iran, Cina. Ma il dono più
straordinario mi è stato inviato da Sakellaris Koutouzis, un noto scultore
greco che vive e lavora sull’isoletta di Kalymnos. Ricevetti una email da
parte sua nella quale mi chiedeva l’indirizzo, m’informava che aveva
apprezzato molto i miei libri e che mi stava facendo un busto in gesso,
basandosi sulle fotografie che aveva trovato sul Web. Andai a cercare
informazioni su di lui in Internet e scoprii che era un abile scultore, le cui
opere erano in mostra in diverse città in tutto il mondo. Insistetti per pagare i
costi di spedizione, ma lui rifiutò. Un mese più tardi un busto a grandezza
naturale arrivò alla mia porta, in un’enorme scatola di legno. Adesso se ne
sta in casa nostra ed è talmente somigliante che ogni volta quasi mi spavento
a guardarlo. Spesso io o i miei figli lo adorniamo con occhiali, con cravatte
o con uno dei miei numerosi cappelli.
Per quanto io cerchi di non dar peso a questi indici di notorietà, non ho
dubbi che abbiano accresciuto il mio io. Credo anche che l’età avanzata,
l’autorevolezza e la reputazione mi rendano più efficace come terapeuta.
Negli ultimi venticinque anni la maggior parte dei miei pazienti mi ha
contattato perché aveva letto alcuni dei miei scritti, e si è presentata nel mio
studio con una forte fiducia nei miei poteri terapeutici. Avendo incontrato
noti terapeuti, nel corso della mia vita, ho un’idea precisa di come simili
incontri possano lasciare il segno: riesco ancora a vedere le rughe profonde
sul volto di Carl Rogers. Cinquant’anni fa avevo chiesto di poter avere una
conversazione con lui e avevo raggiunto in aereo la California del Sud, per
trascorrervi un pomeriggio. Gli avevo mandato alcuni dei miei lavori e
ricordo che mi disse che, anche se il mio libro sulla terapia di gruppo era
ben fatto, era il libro che avevo scritto con Ginny (Ogni giorno s’avvicina)
che considerava molto speciale. E i volti di Viktor Frankl e Rollo May sono
così chiari nella mia mente che, se avessi il talento artistico che non ho,
potrei riprodurli con precisione a memoria.
Quindi, grazie alla mia reputazione, i pazienti rivelano segreti che non
hanno mai detto a nessun altro, nemmeno ai terapeuti precedenti, e, se li
accetto senza esprimere giudizi e in modo empatico, i miei interventi hanno
probabilmente un peso maggiore semplicemente per le idee preconcette che
loro hanno a mio riguardo. Di recente, nel corso di uno stesso pomeriggio,
ho incontrato due nuovi pazienti che conoscevano il mio lavoro. La prima,
una terapeuta in pensione, aveva guidato fino al mio studio da casa sua, a
diverse ore di distanza. Era preoccupata dalla propria tendenza ad
ammucchiare oggetti (in una sola stanza della casa) e da un comportamento
ossessivo: quando usciva di casa in macchina, dopo essersi allontanata di un
isolato doveva tornare indietro e controllare se aveva chiuso la porta e
spento il gas. Le dissi che non pensavo che la cosa potesse essere risolta da
una terapia breve con me, né che interferisse in modo significativo con la sua
vita. La giudicai una persona ben integrata, una donna che aveva un ottimo
matrimonio e che si trovava alle prese con il compito difficile di cercare un
significato alla sua vita dopo la pensione. Le fece piacere sentirmi dire che
non pensavo che avesse bisogno di una terapia. Il giorno successivo mi
mandò l’email che segue:
Volevo solo farle sapere quanto abbia apprezzato e avuto cara la nostra consultazione di giovedì, ha
significato moltissimo per me. Ho sentito il suo appoggio e la conferma che me la stavo cavando bene,
che sono felice e soddisfatta della mia vita e ho davvero apprezzato il suo commento a proposito del
fatto che non ho bisogno di una terapia. Sono uscita dal suo studio meno in ansia e con più fiducia in me
stessa, e pronta ad accettarmi. Ho sentito che è stato un vero dono. Niente male davvero per un’unica
seduta!
Al cospetto dei miei ottantacinque anni non sono che un principiante e, come
Howard, combatto l’evidenza di essere vecchio. A volte accetto l’idea che
la pensione dovrebbe essere un periodo di pace e di riposo, un tempo di
serena riflessione. Tuttavia so anche che ci sono sentimenti ribelli
provenienti dalla prima fase della mia vita che continuano a creare
turbolenza e minacciano di riemergere, se rallento il ritmo. In precedenza ho
citato una frase presa da Dickens: «Poiché, quanto più m’avvicino alla fine,
viaggio come in circolo e m’avvicino sempre più al principio». Queste
parole mi assillano. Sempre di più sento delle forze che mi strattonano
indietro, verso le mie origini. Due sere fa io e Marilyn assistemmo al
Factory Festival dei foolsFURY a San Francisco (un evento sponsorizzato
ogni due anni dalla compagnia teatrale di mio figlio Ben), nel corso del
quale venti piccoli teatri provenienti da tutto il paese presentano i loro
spettacoli. Prima dell’inizio ci fermammo a mangiare un boccone al Wise
Sons, una piccola gastronomia ebraica che sembra uscita direttamente dalla
Washington degli anni Quaranta della mia infanzia. Le pareti del locale sono
quasi interamente coperte da foto di famiglia: gruppi di profughi dai grandi
occhi profondi e spaventati, in arrivo a Ellis Island dall’Europa dell’Est. Le
fotografie mi folgorarono: ricordavano quelle della mia famiglia d’origine.
Vidi un ragazzino triste, che avrei potuto essere io, che faceva il suo
discorso per il bar mitzvah. Vidi una donna che in un primo momento pensai
fosse mia madre. Provai un improvviso – e nuovo – impeto di tenerezza nei
suoi confronti e mi sentii mortificato e colpevole per averla criticata in
queste pagine. Come mia madre, la donna della fotografia sembrava priva di
istruzione e spaventata, una gran lavoratrice impegnata a sopravvivere e a
occuparsi della propria famiglia in una cultura nuova e strana. La mia vita è
stata così ricca, così privilegiata, così sicura – in gran parte grazie al duro
lavoro e alla generosità di mia madre. Rimasi seduto in quella gastronomia a
piangere mentre guardavo i suoi occhi, e gli occhi degli altri profughi. Ho
avuto una vita intera per esplorare, analizzare e ricostruire il mio passato,
ma adesso mi sto rendendo conto che in me c’è una valle di lacrime e dolore,
con i quali non verrò mai a patti.
Fin dalla pensione anticipata dalla Stanford nel 1994, il mio programma
quotidiano è rimasto invariato: scrivo tre o quattro ore ogni mattina, di solito
per sei o sette giorni alla settimana, e cinque volte alla settimana incontro i
miei pazienti, nel resto della giornata. Da oltre cinquant’anni vivo a Palo
Alto, e il mio studio è in un edificio separato a una cinquantina di metri da
casa. All’incirca trentacinque anni fa ho comprato un appartamento a Russian
Hill, a San Francisco, con una magnifica vista sulla città e sulla baia, e lì
incontro i pazienti nei pomeriggi di giovedì e venerdì. Marilyn mi raggiunge
il venerdì sera e di solito trascorriamo il weekend a San Francisco, una città
che trovo infinitamente interessante.
Mi rimprovero il mio falso pensionamento. «Quanti psichiatri
ottantacinquenni lavorano sodo come me?» Anch’io, come il mio paziente
Howard, sto forse continuando a lavorare per prevenire la senilità e la
morte? Domande del genere mi turbano, ma ho il mio arsenale di risposte.
«Ho ancora molto da offrire… L’invecchiamento mi rende più capace di
capire e aiutare le persone della mia età… Sono uno scrittore, e sono
inebriato dal processo della scrittura, quindi perché dovrei smettere?»
Sì, lo confesso: mi preoccupa terribilmente giungere a quest’ultimo
paragrafo. Ho sempre avuto una sfilza di libri in attesa di essere scritti, in
fondo alla mia mente, ma adesso non più. Una volta terminato questo, sono
sicuro che non ci saranno altri libri ad attendermi. I miei amici e i colleghi
brontolano quando mi sentono dire queste parole. Le hanno sentite molte
altre volte, in precedenza. Ma temo che questa volta sia diverso.
Chiedo sempre ai miei pazienti di esplorare i rimpianti e consiglio loro di
aspirare a una vita che ne sia priva. Guardandomi indietro, io ne ho pochi.
Ho avuto una donna straordinaria come compagna della mia vita. Ho figli e
nipoti affettuosi. Ho vissuto in un luogo privilegiato del mondo con un clima
ideale, bellissimi parchi, poca povertà e criminalità, senza dimenticare la
Stanford, una delle grandi università del mondo. E ogni giorno ricevo lettere
che mi ricordano che sono stato utile a qualcuno in una terra lontana. Quindi
le parole dello Zarathustra di Nietzsche hanno un senso per me:
«Era questa la vita? Avanti, ancora una volta».
Ringraziamenti
Sono grato a molte persone che mi hanno assistito in questa avventura. I
membri di Pegasus, il mio gruppo mensile di medici-scrittori della Stanford,
hanno sottoposto a critica diversi capitoli. E un ringraziamento speciale va
al fondatore di questo gruppo, Hans Steiner, e al mio amico Randy
Weingarten, psichiatra e poeta, che ha proposto il titolo del capitolo “Un
principiante dell’invecchiamento”. Ringrazio i miei pazienti, che mi hanno
permesso di descrivere episodi presi dalla loro terapia. Per proteggerne la
privacy, ho cambiato tutti i nomi e mutato profondamente ciascun dettaglio
che avrebbe potuto portare a una loro identificazione, tentando al tempo
stesso di comunicare certe particolari verità. I miei pazienti sono per me una
costante fonte di insegnamento e ispirazione. Sono stato estremamente
fortunato ad avere Sam Douglas e Dan Gerstle come editor. Grazie a David
Speigel e, come sempre, alla mia agente letteraria, Sandra Dijkstra, e al suo
collaboratore, Andrea Cavallaro, che mi hanno offerto un sostegno entusiasta
dall’inizio alla fine del lavoro. Gli amici di una vita Julius Kaplan e Bea
Glick mi hanno aiutato a mettere in moto la memoria, come pure i miei
quattro figli e i sette nipoti. E, soprattutto, sono grato alla mia amata moglie
Marilyn, che mi ha aiutato a ricordare avvenimenti di molto tempo fa e ha
svolto la mansione di redattore-capo dentro casa.
L’autore con la madre e la sorella, circa 1934.
I genitori negli anni Trenta.
L’autore mostra un suo ritratto giovanile alla cena alla Stadthaus, Vienna, 2009.
Mentre impartisce al nipote di tre anni la prima lezione di scacchi nel 2016.