Sei sulla pagina 1di 309

I NARRATORI DELLE TAVOLE

IRVIN D. YALOM

Diventare se stessi
traduzione dall’inglese di
Serena Prina
Titolo originale:
Becoming Myself
© 2017 by Irvin D. Yalom

© 2018 Neri Pozza Editore, Vicenza

ISBN 978-88-545-1689-2

Il nostro indirizzo internet è: www.neripozza.it


In memoria dei miei genitori, Ruth e Benjamin Yalom, e di mia
sorella Jean Rose
1.
La nascita dell’empatia
Mi sveglio dal mio sogno alle tre del mattino, e soffoco il pianto nel cuscino.
Mi muovo piano, per non disturbare Marilyn, scivolo fuori dal letto e vado
in bagno, mi asciugo gli occhi e seguo le indicazioni che per cinquant’anni
ho dato ai miei pazienti: rivedere il sogno nella propria mente e prendere
nota di quanto si è visto.
Ho all’incirca dieci anni, forse undici. Sto scendendo in bicicletta lungo una collina, a poca
distanza da casa. Vedo una ragazza di nome Alice seduta sulla veranda di casa sua, che
s’affaccia sulla strada. Sembra un po’ più grande di me ed è attraente, anche se ha la faccia
coperta di macchie rosse. Mentre le passo accanto in bicicletta, la saluto gridando: «Salve,
Morbillo!»
All’improvviso un uomo dall’aspetto un po’ troppo robusto e minaccioso si para davanti alla
mia bicicletta e mi costringe a fermarmi, afferrando il manubrio. In qualche modo so che si tratta
del padre di Alice.
Mi dice: «Ehi, chiunque tu sia. Pensaci un attimo, se sei in grado di pensare, e rispondi alla
mia domanda. Pensa a quello che hai appena detto a mia figlia e dimmi una cosa: Che cosa deve
aver provato Alice, sentendo le tue parole?»
Sono troppo spaventato per rispondere.
«Avanti, su, rispondi. Sei il figlio di Bloomingdale [la drogheria di mio padre si chiamava
Bloomingdale Market e molti clienti pensavano che il nostro cognome fosse Bloomingdale], e
scommetto che sei un ebreo furbo. Quindi avanti, su, prova a indovinare come si sente Alice
quando le dici così».
Tremo. Non riesco a parlare per il terrore.
«D’accordo, d’accordo. Calmati. Ti renderò le cose più semplici. Basta che rispondi a questo:
le parole che hai detto ad Alice come la fanno sentire con se stessa, bene o male?»
Tutto quello che riesco a fare è balbettare: «Non lo so».
«Non ti riesce di pensare chiaramente, vero? Be’, ti darò una mano io. Immagina che ti abbia
guardato e abbia colto qualcosa di negativo nel tuo aspetto, e vi alluda ogni volta che
t’incontro». Mi fissa molto da vicino. «Un po’ di moccio nel naso, che ne dici? E l’orecchio
sinistro più grande del destro. Supponiamo che io dica: “Ehi, ‘orecchione’”, ogni volta che ti
vedo. Oppure che te ne pare di “ebreuccio”? Già, che ne dici di questo? Ti piacerebbe?»
Nel sogno mi rendo conto che non è la prima volta che passo in bicicletta accanto a casa sua,
che l’ho fatto un giorno dopo l’altro, passando in bici e dicendo ad Alice quelle stesse parole,
cercando di dare inizio a una conversazione, cercando di fare amicizia. E ogni volta che
gridavo: «Salve, Morbillo!» la ferivo, la insultavo. Sono orripilato… per il danno che ho
provocato, tutte quelle volte, e per il fatto di essere stato così cieco al riguardo.
Quando il padre di Alice ha finito, lei scende dalla scaletta della veranda e dice con voce
dolce: «Vuoi venire di sopra a giocare?» Lancia poi uno sguardo al padre, che annuisce.
«Mi sento così male» rispondo. «Provo vergogna, una vergogna tremenda. Non posso, non
posso, non posso…»

Fin dalla prima adolescenza ho sempre letto qualcosa prima di


addormentarmi, e le ultime due settimane è stato il turno di un libro intitolato
I nostri migliori angeli, di Steven Pinker. Stanotte, prima del sogno, avevo
letto un capitolo sullo sviluppo dell’empatia durante l’Illuminismo e su come
la diffusione del romanzo, in particolare dei romanzi epistolari britannici
quali Clarissa e Pamela possa aver avuto un ruolo nella diminuzione della
violenza e della crudeltà, aiutandoci a sperimentare il mondo da un altro
punto di vista. Avevo spento la luce verso mezzanotte, e poche ore dopo
ecco che mi sveglio dall’incubo su Alice.
Dopo essermi calmato torno a letto, ma me ne rimango sveglio a lungo,
pensando a quel che mi era successo: quell’ascesso primordiale, quella
sacca sigillata di colpa che mi tenevo dentro ormai da settantatré anni, era
improvvisamente scoppiata. Nella vita reale, adesso ricordo, ero passato
davvero a dodici anni davanti alla casa di Alice, gridandole: «Salve,
Morbillo!» nel tentativo rozzo e dolorosamente privo di empatia di attirare
la sua attenzione. Il padre di lei non mi aveva mai affrontato, ma mentre me
ne sto disteso a letto all’età di ottantacinque anni, riprendendomi dal mio
incubo, posso immaginare come lei debba essersi sentita, e il danno che
potrei aver fatto. Perdonami, Alice.
2.
Alla ricerca di un mentore
Michael, un fisico di sessantacinque anni, è l’ultimo paziente della giornata.
Lo avevo incontrato vent’anni fa per una terapia durata circa due anni, e da
allora non avevo più avuto sue notizie fino a qualche giorno prima, quando
era arrivata una sua email che diceva: «Ho bisogno di vederla, l’articolo che
allego ha innescato una serie di reazioni, positive e negative». Il link portava
a un articolo del New York Times che descriveva come Michael avesse
recentemente ricevuto un importante premio scientifico internazionale.
Mentre Michael si accomoda nel mio studio, prendo la parola per primo.
«Michael, ho ricevuto il suo messaggio, dove diceva di avere bisogno di
aiuto. Mi spiace che sia depresso, ma voglio anche dirle che è bello vederla
e magnifico sapere del suo premio. Mi sono spesso chiesto come se la stesse
passando».
«Grazie per quello che ha detto». Michael abbraccia lo studio con lo
sguardo: è un uomo atletico, reattivo, quasi calvo, alto all’incirca un metro e
ottanta, con lucenti occhi castani che irradiano competenza e fiducia. «Ha
rinnovato il suo studio? Queste poltrone prima erano là in fondo, vero?»
«Già, lo rinnovo ogni quarto di secolo».
Ridacchia. «Allora, ha visto l’articolo?»
Annuisco.
«È probabile che possa indovinare che cosa m’è accaduto subito dopo:
un’ondata di orgoglio, comunque troppo breve, e poi, onda dopo onda, un
attacco di ansiosa insicurezza. La solita vecchia storia, nelle mie profondità
l’acqua è bassa».
«E allora tuffiamoci dentro».
Trascorriamo il resto della seduta riesaminando vecchio materiale: i
genitori, emigrati irlandesi senza istruzione, la sua vita nei palazzoni
periferici di New York, la modesta istruzione elementare, la mancanza di una
qualsiasi figura di mentore. Parlò a lungo di quanto avesse invidiato le
persone che venivano guidate e stimolate da un adulto, mentre lui aveva
dovuto lavorare senza posa e ottenere in assoluto i voti più alti solo perché
si accorgessero di lui. Aveva dovuto farsi da solo.
«Sì» gli dico. «Farsi da soli è fonte di grande orgoglio, ma può portare
anche alla sensazione di essere privi di fondamenta. Ho conosciuto molti
figli di immigrati che, pur dotati, hanno l’impressione di essere fiori di
palude: fiori magnifici, ma senza radici profonde».
Rammenta che gli avevo detto le stesse cose anni prima, e dice che è
contento che tutto questo gli venga ricordato. Programmiamo di incontrarci
ancora per un paio di sedute e lui mi dice di sentirsi già meglio.
Avevo sempre lavorato bene con Michael. Eravamo entrati in
connessione fin dal primissimo incontro, e in certi momenti mi aveva detto
che gli sembrava che fossi l’unica persona a capirlo veramente. Durante il
nostro primo anno di terapia aveva parlato molto dei dubbi relativi alla
propria identità. Era davvero lo studente modello che si lasciava alle spalle
tutti gli altri? O era invece lo scansafatiche che passava il tempo libero a
giocare a biliardo o a sparare cazzate?
Una volta, mentre si stava lagnando di questa identità confusa, gli avevo
raccontato la storia del mio diploma alla Roosevelt High School di
Washington, DC. Mi era stato comunicato che, al momento del diploma,
avrei ricevuto il Citizenship Award della scuola, il premio per “il cittadino
modello”. Tuttavia, nel corso del mio ultimo anno, avevo fatto l’allibratore e
gestito una piccola attività di scommesse sul baseball: davo 10 a 1 che in
una data giornata tre giocatori selezionati a caso non avrebbero fatto,
sommando i loro risultati, sei battute valide. Le probabilità erano a mio
favore. Me l’ero cavata alla grande e avevo sempre avuto i soldi per
comprare mazzi di gardenie per Marilyn Koenick, la mia ragazza fissa. Però,
pochi giorni prima del diploma, avevo perso il mio taccuino da allibratore.
Dov’era finito? Ero agitatissimo e lo avevo cercato dappertutto fino al
giorno stesso del diploma. Persino quando avevo sentito chiamare il mio
nome e mi ero avviato a lunghi passi attraverso il palcoscenico tremavo,
pensando: Sarei stato onorato come un allievo modello della Roosevelt High
School per l’anno 1949, o espulso dalla scuola per gioco d’azzardo?
Quando raccontai la storia a Michael, lui si fece una gran risata e
borbottò: «Ho proprio trovato lo strizzacervelli adatto a me».
Dopo aver annotato gli appunti della nostra seduta, indosso abiti comodi e
scarpe da ginnastica e tiro fuori la bicicletta dal garage. A ottantaquattro
anni, mi sono da tempo lasciato alle spalle il tennis e il jogging, ma ogni
giorno faccio un giro su una pista ciclabile vicino a casa. Comincio
pedalando attraverso un parco pieno di frisbee, passeggini e bambini che si
arrampicano su strutture ultramoderne, poi supero un ponte in legno grezzo
sul Matadero Creek e a mia volta mi arrampico su per una collinetta che di
anno in anno si fa sempre più ripida. Una volta in cima mi rilasso, mentre
comincio la lunga discesa verso valle. Amo lasciarmi andare per inerzia con
l’aria calda che mi scorre sul viso. Solo in questi momenti comincio a capire
i miei amici buddhisti che parlano di svuotare la mente e di crogiolarsi nella
sensazione del semplice esistere. Ma la calma è sempre di breve durata e
oggi, nelle ali della mente, avverto il fruscio di un sogno a occhi aperti che
si prepara a salire sulla scena. È un sogno a occhi aperti che ho immaginato
dozzine, forse centinaia di volte nel corso della mia lunga vita. Per diverse
settimane è rimasto latente, ma il lamento di Michael a proposito della
mancanza di mentori lo ha agitato fino a risvegliarlo.
Un uomo con una valigetta in mano, vestito con un abito di tessuto a strisce increspate, cappello
di paglia, camicia bianca e cravatta, entra nella piccola drogheria di quart’ordine di mio padre.
Io non faccio parte della scena, vedo ogni cosa come se mi stessi librando all’altezza del soffitto.
Non riconosco il visitatore, ma so che si tratta di una persona influente. Forse è il direttore della
mia scuola elementare. È una giornata calda e umida, tipica di Washington, DC, e l’uomo tira
fuori un fazzoletto per strofinarsi la fronte prima di voltarsi e apostrofare mio padre. «Ho alcune
cose importanti da discutere con lei riguardo a suo figlio Irvin». Mio padre è stupito e ansioso;
in passato non si è mai trovato in una situazione del genere. Non essendosi mai integrati nella
cultura americana, mio padre e mia madre erano a loro agio solo tra altri ebrei che erano
emigrati con loro dalla Russia.
Anche se nel negozio ci sono dei clienti che richiedono attenzione, mio padre sa che
quest’uomo non può essere lasciato lì ad aspettare. Telefona a mia madre – abitiamo in un
appartamentino sopra il negozio – e, fuori dalla portata d’orecchio dello sconosciuto, le dice in
yiddish di precipitarsi di sotto. Pochi minuti dopo lei fa la sua comparsa e comincia a occuparsi
con efficienza degli altri clienti, mentre mio padre conduce lo sconosciuto nel piccolo magazzino
sul retro del negozio. Si siedono sulle cassette di birra vuote, e parlano. Per fortuna non si fanno
vedere né topi né scarafaggi. Mio padre è ovviamente a disagio. Avrebbe di gran lunga preferito
che fosse mia madre a gestire la conversazione, ma sarebbe sconveniente riconoscere
pubblicamente che era lei, e non lui, a portare i pantaloni in casa, a prendere tutte le decisioni
importanti riguardo la famiglia.
L’uomo in giacca e cravatta riferisce a mio padre alcune cose notevoli. «Gli insegnanti della
mia scuola affermano che suo figlio Irvin è uno studente straordinario e ha il potenziale per
offrire un contributo eccezionale alla nostra società. Ma la cosa sarà possibile se, e soltanto se
avrà la possibilità di ricevere una buona istruzione». Mio padre sembra raggelato, i suoi occhi
belli e penetranti sono fissi sullo sconosciuto, che continua: «Ora, il sistema scolastico qui a
Washington è ben organizzato e abbastanza soddisfacente per lo studente medio, ma non è il
luogo adatto a suo figlio, che è uno studente molto dotato». Apre la valigetta, porge a mio padre
un elenco di diverse scuole private del distretto e proclama: «La invito caldamente a mandarlo in
una di queste scuole per completare la sua istruzione». Tira fuori un biglietto da visita dal
portafoglio e lo porge a mio padre. «Se mi contatterà, farò tutto quanto è in mio potere per fargli
ottenere una borsa di studio».
Di fronte alla perplessità di mio padre chiarisce: «Cercherò di ottenere un aiuto per pagare la
retta: queste scuole non sono gratuite come quelle pubbliche. Per favore, per il bene di suo
figlio, consideri questa una delle sue massime priorità».

Stop! Il sogno a occhi aperti si conclude sempre a questo punto. La mia


immaginazione si rifiuta di completare la scena. Non vedo mai la risposta di
mio padre, o la successiva discussione con mia madre. Il sogno a occhi
aperti esprime il mio ardente desiderio di essere portato in salvo. Da
piccolo non amavo la mia vita, la zona in cui vivevo, la mia scuola, i miei
compagni di gioco; volevo essere salvato e in questa fantasia per la prima
volta mi viene riconosciuto un valore speciale da un emissario significativo
del mondo esterno, il mondo che stava al di là del ghetto culturale nel quale
ero cresciuto.
Mi volgo indietro a guardare e vedo questa fantasia di salvezza ed
elevazione che si snoda attraverso tutto quello che ho scritto. Nel terzo
capitolo del romanzo Il problema Spinoza, Spinoza, mentre passeggia per
raggiungere la casa del suo maestro, Franciscus van den Enden, si perde in
un sogno a occhi aperti relativo al loro primo incontro, pochi mesi prima.
Van den Enden, ex gesuita e insegnante di lettere classiche che gestiva
un’accademia privata, era entrato per caso nel negozio di Spinoza per
comprare vino e uva passa e, sbalordito dalla profondità e dalla portata
della mente di Spinoza, l’aveva sollecitato a entrare nella sua accademia
privata in modo da poter conoscere il mondo non ebraico della filosofia e
della letteratura. Anche se naturalmente il romanzo è una storia d’invenzione,
ho tentato il più possibile di rispettare l’accuratezza storica. Ma non in
questo punto: Baruch Spinoza non aveva mai lavorato nel negozio di
famiglia. Non esisteva un negozio di famiglia: la sua famiglia svolgeva
un’attività di import-export, ma non vendeva al dettaglio. Ero io quello che
lavorava nella drogheria della mia famiglia.
Questa fantasia di essere riconosciuto e messo in salvo si è conservata in
me in molte forme. Di recente ho assistito a una rappresentazione della
commedia Venere in pelliccia di David Ives. Il sipario si apre su una scena
che si svolge dietro le quinte, e ci mostra un regista esausto al termine di una
lunga giornata di audizioni per la scelta dell’attrice principale. Stremato e
profondamente insoddisfatto di tutte le attrici che ha esaminato, sta per
andarsene quando entra un’attrice, sfacciata e sconvolta, in ritardo di un’ora.
Lui le dice che per quella giornata ha chiuso, ma lei lo supplica e cerca di
ottenere l’audizione. Consapevole che si tratta di una ragazza poco
sofisticata, piuttosto volgare, priva d’istruzione e del tutto inadatta al ruolo,
il regista rifiuta. Ma lei sa essere convincente, è scaltra e tenace e alla fine,
per liberarsene, lui si dà per vinto e le concede una breve audizione, nel
corso della quale i due cominciano a leggere il copione insieme. Mentre
legge, lei si trasforma: il suo accento cambia, così come il modo di parlare.
Il regista è sbalordito, sopraffatto dall’emozione. È lei quella che stava
cercando. È più di quanto avrebbe mai potuto sognare. Possibile che questa
sia la donna sciatta e volgare che ha incontrato solo pochi minuti prima?
Continuano a leggere il copione. Non si fermano finché non hanno recitato
con successo l’intera commedia.
Mi era piaciuto tutto della rappresentazione, ma quei primi minuti, quando
lui apprezza le reali qualità di lei, avevano risuonato profondamente dentro
di me: il mio sogno a occhi aperti di essere riconosciuto era messo in scena
lì sul palcoscenico e non riuscii a fare a meno che le lacrime mi scorressero
sulle guance quando, per primo in tutto il teatro, mi alzai in piedi per
applaudire gli attori.
3.
Voglio che se ne vada
Ho una paziente, Rose, che negli ultimi tempi non aveva fatto che parlare
della relazione con la figlia adolescente, l’unica che aveva. Rose stava per
rinunciare completamente a lei, che mostrava interesse solo per l’alcol, il
sesso e la compagnia di adolescenti allo sbando.
In passato Rose aveva esplorato i propri errori di madre e di moglie, le
numerose infedeltà, l’aver abbandonato la famiglia molti anni prima per un
altro uomo ed essere tornata sui suoi passi un paio di anni dopo, quando la
storia si era conclusa. Fumatrice accanita, Rose aveva sviluppato un grave
enfisema polmonare in stato avanzato ma, nonostante ciò, negli ultimi anni
aveva cercato di rimediare al proprio comportamento e si era di nuovo
dedicata alla figlia. Tuttavia nulla sembrava funzionare. Avevo
raccomandato con vigore una terapia familiare, ma la figlia si era rifiutata, e
adesso Rose era giunta al punto di rottura: ogni accesso di tosse e ogni visita
al suo pneumologo le rammentavano che aveva i giorni contati. Voleva solo
provare sollievo: «Voglio che se ne vada» mi aveva detto. Contava i giorni
che mancavano al diploma della figlia all’ultimo anno della scuola superiore
e al suo allontanamento da casa per il college, per un lavoro, per qualsiasi
cosa. Non le importava più che direzione avrebbe deciso di intraprendere la
ragazza. Non faceva che sussurrare, a se stessa e a me: «Voglio che se ne
vada».
Nella mia pratica medica faccio tutto quello che posso per tenere insieme
le famiglie, per sanare gli screzi tra fratelli e tra figli e genitori. Ma nel mio
lavoro con Rose mi sentivo ormai sopraffatto e avevo perso qualsiasi
speranza per la sua famiglia. Avevo cercato di anticiparle il suo futuro se
avesse tagliato i ponti con la figlia. Non si sarebbe sentita sola, e in colpa?
Ma non era servito a nulla, e adesso il tempo s’andava esaurendo: sapevo
che Rose non aveva molto da vivere. Dopo aver affidato la figlia a un
eccellente terapeuta, adesso mi occupavo solo di Rose e mi sentivo
completamente dalla sua parte. Più di una volta mi aveva detto: «Ancora tre
mesi prima che si diplomi. E poi è fuori. Voglio che se ne vada. Voglio che
se ne vada». Cominciai a sperare che il suo desiderio si esaudisse.
Quel giorno, mentre sul tardi facevo il mio giro in bicicletta, mi ripetevo
mentalmente le parole di Rose: «Voglio che se ne vada, voglio che se ne
vada», e in breve mi ritrovai a pensare a mia madre, a vedere il mondo
attraverso i suoi occhi, forse per la prima volta in vita mia. La immaginai
pensare e dire parole simili al mio riguardo. E a pensarci bene, rammentai
che non c’erano state marce funebri quando avevo lasciato la mia casa in
modo definitivo e permanente per la facoltà di medicina di Boston.
Rammentai la scena dell’addio: mia madre sui gradini d’ingresso della casa,
che agitava la mano in segno di saluto mentre mi allontanavo al volante della
mia Chevrolet carica di bagagli, e poi, quand’ero uscito dal suo campo
visivo, che rientrava. La immagino mentre chiude la porta ed emette un
profondo sospiro. Poi, dopo due o tre minuti, si raddrizza, fa un ampio
sorriso e invita mio padre a unirsi a lei in una danza di giubilo sulle note di
Hava Nagila.
Sì, mia madre aveva buone ragioni di sentirsi sollevata quando, a ventun
anni, mi allontanai per sempre da casa. Ero un disturbatore della pace
domestica. Lei non aveva mai una parola d’apprezzamento per me, e io la
ricambiavo di cuore. Mentre con la bicicletta mi lascio andare lungo la
discesa della collina, la mente scivola alla notte in cui, quando avevo
quattordici anni, mio padre, che allora ne aveva quarantasei, si svegliò con
un forte dolore al petto. In quei giorni i dottori facevano visite a domicilio, e
mia madre chiamò subito il medico di famiglia, il dottor Manchester. Nella
quiete della notte, noi tre (io, mio padre e mia madre) attendemmo ansiosi il
suo arrivo. (Mia sorella Jean, di sette anni più grande, aveva già lasciato la
casa per andare al college.) Ogni volta che era sconvolta, mia madre
regrediva a una forma di pensiero primitivo: se accadeva qualcosa di brutto,
doveva esserci qualcuno con cui prendersela. E quel qualcuno ero io. Più di
una volta, quella sera, mentre mio padre si contorceva per il dolore, mi
aveva gridato: «Tu, l’hai ucciso tu!» Mi faceva sapere che la mia poca
docilità, la mia mancanza di rispetto, il mio infrangere le regole
domestiche… tutto questo l’aveva fatto fuori.
Anni dopo, mentre mi trovavo sul lettino per l’analisi, la descrizione di
quell’episodio aveva portato a un raro, momentaneo accesso di tenerezza da
parte di Olive Smith, la mia psicoanalista ultraortodossa. Dopo aver fatto
schioccare la lingua, tsk tsk, si era sporta verso di me e aveva detto: «Che
cosa tremenda. Che cosa terribile dev’essere stata per lei». Era una rigida
analista di un rigido istituto che considerava l’interpretazione come l’unica
azione effettiva dell’analisi. Non ricordo nemmeno una delle sue
interpretazioni meditate, dense ed espresse con parole scelte con estrema
cura. Ma quel suo sporgersi verso di me quella volta, in quel modo
affettuoso, è un ricordo che mi è caro ancora oggi, a quasi sessant’anni di
distanza.
«L’hai ucciso tu, l’hai ucciso tu». Posso ancora sentire la voce acuta di
mia madre. Ricordo come indietreggiavo davanti a lei, paralizzato dalla
paura e dalla furia. Avrei voluto risponderle gridando: «Non è morto! Sta’
zitta, stupida!» Lei continuava a strofinare la fronte di mio padre e a
baciargli la testa, mentre io me ne stavo seduto sul pavimento, raggomitolato
in un angolo, finché, finalmente, verso le tre del mattino, sentii la grossa
Buick del dottor Manchester che schiacciava le foglie secche della strada e
volai giù per le scale, tre gradini alla volta, per aprirgli la porta. Il dottor
Manchester mi piaceva molto, e la vista familiare della sua ampia faccia
tonda e sorridente dissolse il mio panico. Mi mise la mano sulla testa, mi
scompigliò i capelli, rassicurò mia madre, fece un’iniezione a mio padre
(probabilmente di morfina), gli mise lo stetoscopio sul petto e poi mi lasciò
ascoltare, mentre diceva: «Vedi, Sonny, sta battendo, forte e regolare come
un orologio. Non c’è da preoccuparsi. Starà bene».
Quella notte vidi come mio padre si stesse avvicinando alla morte, sentii,
come mai in precedenza, la rabbia vulcanica di mia madre, e presi una
decisione: per proteggermi l’avrei tenuta fuori dalla mia porta. Dovevo
uscire da quella famiglia. Per i successivi due-tre anni quasi non le rivolsi la
parola, vivevamo come estranei nella stessa casa. E, soprattutto, ricordo il
mio profondo, grandissimo sollievo all’ingresso del dottor Manchester in
casa nostra. Nessuno mi aveva mai fatto un dono del genere. Fu in quel
momento che decisi di essere come lui. Sarei diventato un dottore e avrei
passato ad altri il conforto che lui aveva offerto a me.
Mio padre gradualmente si riprese e visse altri ventitré anni, anche se da
quel momento ebbe dolori al petto al minimo sforzo, persino quando faceva
il giro di un solo isolato, e immediatamente afferrava la sua nitroglicerina e
ingoiava una pillola. Era un uomo gentile e generoso, il cui unico difetto
credo fosse la mancanza del coraggio di opporsi a mia madre. La relazione
con mia madre fu una piaga aperta per tutta la vita, e tuttavia,
paradossalmente, è la sua immagine a visitare la mia mente quasi ogni
giorno. Vedo il suo volto: non è mai in pace, non sorride mai, non è mai
felice. Era una donna intelligente e, anche se aveva lavorato sodo ogni
giorno della sua vita, era del tutto insoddisfatta e raramente formulava un
pensiero piacevole, positivo. Ma oggi, durante i miei giri in bicicletta, penso
a lei in un modo diverso: penso a quanto poco piacere devo averle dato
mentre vivevamo assieme. Sono contento d’essere diventato un figlio più
gentile con il passare degli anni.
4.
Andando a ritroso
Di quando in quando rileggo Charles Dickens, che ha sempre avuto un posto
di primo piano nel mio pantheon di scrittori. Di recente una frase
straordinaria tratta da Storia di due città ha attirato la mia attenzione:
«Poiché, quanto più m’avvicino alla fine, viaggio come in circolo e
m’avvicino sempre più al principio. Mi pare che la via si spiani e si faccia
più agevole. Il mio cuore è adesso commosso da molte memorie che a lungo
erano rimaste sopite…»
Questo passo mi commuove profondamente: dato che mi sto davvero
avvicinando alla fine, io pure mi ritrovo sempre più vicino al principio. I
ricordi dei miei pazienti innescano sempre più spesso i miei ricordi, il
lavoro sul loro futuro richiama e sconvolge il mio passato, e mi trovo a
riconsiderare la mia storia. Il mio ricordo della prima infanzia è sempre
stato frammentario, e avevo sempre pensato che le probabili cause fossero
una precoce infelicità e lo squallore nel quale mi ero ritrovato a vivere.
Adesso che sono entrato nella mia ottava decade, un numero sempre
crescente di immagini dalla prima fase della vita s’intrufola nei miei
pensieri. Gli ubriachi che dormivano nel nostro atrio, coperti di vomito. La
mia solitudine, e l’isolamento. Gli scarafaggi e i ratti. Il barbiere dalla
faccia paonazza che mi chiamava «ebreuccio». Le misteriose, tormentose e
insoddisfatte tensioni sessuali da adolescente. Fuori posto. Sempre fuori
posto: l’unico bambino bianco in un quartiere abitato da neri, l’unico ebreo
in un mondo di cristiani.
Sì, il passato mi attira a sé e so cosa significa “fare smoothing”, cioè
eliminare i rumori di fondo. Ora, più che in passato, immagino i miei
genitori defunti che assistono e traggono motivo d’orgoglio e di piacere dalle
mie conferenze in pubblico, davanti a un gran numero di persone. All’epoca
della morte di mio padre avevo scritto solo pochi articoli, testi tecnici
pubblicati su riviste mediche che lui non era in grado di comprendere. Mia
madre visse venticinque anni più di lui e, sebbene la sua scarsa conoscenza
dell’inglese e, in seguito, la perdita della vista non le avessero permesso di
leggere i miei libri, li teneva impilati accanto alla poltrona e li accarezzava
e ne ciarlava con chi l’andava a trovare in casa di riposo. Tante cose sono
rimaste incompiute tra me e i miei genitori. Ci sono così tanti aspetti di cui
non abbiamo mai discusso, relativi alla nostra vita insieme, alla tensione e
all’infelicità della nostra famiglia, al mio mondo e al loro mondo. Quando
penso alle loro vite, quando immagino il loro arrivo a Ellis Island, senza un
soldo, senza un’istruzione, senza sapere una parola d’inglese, i miei occhi si
riempiono di lacrime. Voglio dire loro: «So cos’avete passato. So quanto è
stata dura. So quello che avete fatto per me. Vi prego, perdonatemi se mi
vergogno a tal punto di voi».
Guardare indietro alla mia vita dall’alto degli ottant’anni trascorsi mi
suscita paura e a volte provoca un senso di solitudine. La mia memoria è
inaffidabile, e sono rimasti talmente pochi testimoni della prima fase della
mia vita. Mia sorella, sette anni più vecchia di me, è appena morta, e anche
molti dei miei vecchi amici e conoscenti se ne sono andati.
Quando ho compiuto ottant’anni alcune voci inaspettate del passato hanno
risvegliato in me qualche ricordo. La prima è stata quella di Ursula Tomkins,
che mi aveva trovato grazie alla mia pagina web. Non avevo più pensato a
lei da quando frequentavo la Gage Elementary School a Washington, DC. La
sua mail diceva: «Felice ottantesimo compleanno, Irvin. Ho letto e
apprezzato due dei tuoi libri e ho chiesto alla nostra biblioteca di Atlanta di
procurarne altri. Ricordo che eri nella quarta classe di Miss Fernald. Non so
se ti ricordi di me, ero una bambina graziosa e cicciottella con i capelli rossi
e crespi, e tu eri un bellissimo ragazzino dai capelli color carbone!»
Quindi Ursula, che ricordavo bene, pensava che fossi un bellissimo
ragazzino con i capelli color carbone! Io? Bellissimo? Se solo l’avessi
saputo! Mai, nemmeno per un momento, avevo pensato a me come a un
bellissimo ragazzino. Ero timido, sfigato, privo di fiducia in me stesso, e mai
avrei immaginato che qualcuno potesse trovarmi attraente. Oh, Ursula, che tu
sia benedetta per avermi detto che ero bellissimo. Ma perché, oh, perché non
me lo sei venuta a dire prima? Avrebbe potuto cambiare la mia intera
infanzia!
E poi, due anni fa, c’è stata una telefonata dal mio passato remoto che
cominciava così: «SONO JERRY, il tuo vecchio compagno di scacchi!» Anche
se non sentivo la sua voce da settant’anni, la riconobbi immediatamente. Si
trattava di Jerry Friedlander, il cui padre possedeva una drogheria in Seaton
Street e una in North Capitol Street, a un solo isolato di distanza da quella di
mio padre. Nel messaggio diceva che sua nipote, che seguiva un corso di
psicologia clinica, stava leggendo uno dei miei libri. Si ricordava che
avevamo giocato assieme regolarmente per due anni, quando io avevo dodici
anni e lui quattordici, un periodo di tempo che ricordo solo come una terra
desolata di precarietà e insicurezza. Siccome ricordavo molto poco di quegli
anni, colsi al volo l’occasione di ricevere un riscontro dal passato e cercai
di spremere da Jerry qualsiasi impressione avesse allora avuto di me (dopo
aver naturalmente condiviso le mie impressioni su di lui).
«Eri un ragazzo simpatico» mi disse. «Molto gentile. Ricordo che per
tutto il tempo in cui ci siamo frequentati non abbiamo mai avuto una
discussione».
«Dimmi qualcos’altro» gli dissi avidamente. «I miei ricordi di quel
periodo sono così nebulosi».
«Ti piaceva giocare, ma per lo più eri davvero serio e studioso. In effetti
direi molto studioso. Ogni volta che venivo a casa tua ti trovavo con la testa
immersa in un libro, oh, sì, questo me lo ricordo bene: Irv e i suoi libri. E
leggevi sempre roba tosta e buona letteratura, molto al di sopra del mio
livello. Niente fumetti per uno come te».
Questo era vero solo in parte; in effetti ero stato un grande appassionato
di Capitan Marvel, Batman e il Calabrone Verde. (Non di Superman,
tuttavia: la sua invulnerabilità eliminava qualsiasi tensione da quelle
avventure.) Le parole di Jerry mi ricordarono che durante quegli anni
compravo spesso libri usati in un negozio su Seventh Street, a un solo isolato
dalla biblioteca. Mentre mi abbandonavo ai ricordi, l’immagine di un grande
libro arcano sull’astronomia, color ruggine, scivolò nel mio campo visivo.
Inutile dire che non ero in grado di comprendere granché di quanto
conteneva, ma quel libro era funzionale a un mio progetto di tutt’altra specie:
lo lasciavo in giro in bella vista a beneficio delle graziose amichette di mia
sorella, nella speranza di stupirle con la mia precocità. Le loro pacche sulla
testa o gli abbracci e i baci occasionali erano per me una vera delizia. Non
avevo idea che anche Jerry avesse notato quel libro: era stato un bersaglio
involontario, colpito dal fuoco amico.
Jerry mi disse che di solito ero io a vincere le nostre partite a scacchi, ma
ero uno che non sapeva perdere: alla fine di una partita infinita, che lui
aveva vinto dopo un finale duramente combattuto, avevo messo il broncio e
insistito affinché giocasse con mio padre. E così fece. La domenica
successiva venne a casa mia e batté anche mio padre, anche se lui era sicuro
che mio padre lo avesse lasciato vincere.
Questo aneddoto mi lasciò sbalordito. Con mio padre avevo una relazione
buona, anche se distaccata, e non riesco a credere di aver pensato a lui per
vendicare la mia sconfitta. Il mio ricordo era che mi aveva insegnato a
giocare a scacchi, ma che dagli undici anni in poi lo avevo battuto
regolarmente e mi ero messo a cercare avversari più forti, specialmente suo
fratello, mio zio Abe.
Avevo sempre avuto una sorta di rimostranza inespressa nei confronti di
mio padre, cioè il fatto che mai, nemmeno una volta, si fosse opposto a mia
madre. Nel corso di tutti gli anni in cui mia madre mi aveva denigrato e
criticato, mio padre non si era mai mostrato in disaccordo con lei. Non
aveva mai preso le mie parti. Ero deluso dalla sua passività, dalla sua
mancanza di virilità. Perciò ero perplesso: come avevo potuto far appello a
mio padre per riscattare il fallimento con Jerry? Forse la mia memoria si
sbagliava. Forse ero stato più fiero di lui di quanto credessi.
Questa possibilità guadagnò terreno quando Jerry proseguì nella
descrizione dell’odissea della sua vita. Il padre non era stato un uomo
d’affari di successo e, in tre occasioni, i fallimenti commerciali avevano
costretto la famiglia a traslocare, ogni volta in quartieri sempre più
degradati, sempre meno confortevoli. Inoltre Jerry aveva dovuto lavorare
dopo la scuola e durante le estati. Mi resi conto che ero stato di gran lunga
più fortunato: anche se spesso avevo lavorato nel negozio di mio padre, non
era mai stato per obbligo, ma sempre per il mio piacere: mi sentivo adulto a
occuparmi dei clienti, a fare i conti, a prendere i soldi, a dare il resto. Jerry
aveva lavorato durante le estati, mentre i miei genitori mi avevano mandato
al campo estivo per due mesi. Avevo ritenuto che i miei privilegi fossero
scontati, ma la conversazione con Jerry mise in chiaro che mio padre aveva
fatto molte cose nel modo giusto. Ovviamente era stato un uomo d’affari
attento e intelligente. Era stato il suo duro lavoro (e quello di mia madre) e il
fiuto di entrambi per gli affari a rendere la mia vita più facile e la mia
istruzione possibile.
Dopo aver concluso la telefonata con Jerry, altri ricordi dimenticati di
mio padre mi filtrarono nella mente. Una sera di pioggia, quando il negozio
era pieno di clienti, un uomo enorme, dall’aria minacciosa, aveva afferrato
una cassa di liquori ed era corso fuori in strada. Senza alcuna esitazione mio
padre era partito all’inseguimento, lasciando me e mia madre soli nel
negozio stracolmo di clienti. Quindici minuti più tardi aveva fatto ritorno con
la cassetta di liquori tra le mani: dopo due o tre isolati il ladro si era
stancato, aveva mollato il bottino e se l’era filata. Mio padre aveva avuto
fegato a fare una cosa simile. Non sono sicuro che sarei stato in grado di fare
altrettanto. Devo per forza essere stato fiero di lui, come avrei potuto non
esserlo? Ma, stranamente, non mi ero permesso di ricordarlo. Mi ero mai
davvero impegnato a considerare, a considerare sul serio, come doveva
essere stata la sua vita?
So che lui cominciava a lavorare alle cinque del mattino, acquistando
prodotti agricoli al mercato nella zona sud-est di Washington, DC, e che
chiudeva il negozio alle dieci di sera nei giorni feriali, e a mezzanotte il
venerdì e il sabato. Il suo unico giorno libero era la domenica. Mi era
capitato di accompagnarlo al mercato ortofrutticolo, ed era un lavoro duro,
estenuante. Tuttavia non l’ho mai sentito lamentarsi. Ricordo di aver parlato
con un uomo che chiamavo “zio Sam”, il miglior amico di mio padre fin
dall’infanzia in Russia (mi rivolgevo a chiunque facesse parte del gruppo
che era emigrato insieme da Cielz, il loro shtetl in Russia, chiamandolo zio
o zia). Sam mi aveva raccontato che mio padre sedeva per ore a scrivere
poesie nella minuscola mansarda priva di riscaldamento di casa sua. Ma
tutto era finito quando lo avevano chiamato alle armi nell’esercito russo,
ancora adolescente, durante la prima guerra mondiale, per aiutare a costruire
i binari per la ferrovia. Dopo la guerra era venuto negli Stati Uniti con
l’aiuto del fratello maggiore, Meyer, che era emigrato prima di lui e aveva
aperto una piccola drogheria in Volta Street, a Georgetown. La sorella
Hannah e il fratello più piccolo, Abe, erano venuti in seguito. Abe era
arrivato nel 1937 e progettava di portarsi dietro anche la famiglia, ma ormai
era troppo tardi: i nazisti avevano ammazzato tutti quelli che erano rimasti
indietro, compresa la sorella maggiore di mio padre, con i suoi due bambini,
e la moglie di suo fratello Abe con i quattro figli. Ma riguardo a tutto ciò le
labbra di mio padre erano sigillate; nemmeno una volta mi aveva parlato
dell’Olocausto né, del resto, di qualsiasi altra cosa fosse collegata al suo
paese d’origine. Anche la poesia era una cosa del passato. Non lo vidi mai
scrivere. Non lo vidi mai leggere un libro. Non lo vidi mai leggere nulla di
diverso dal quotidiano ebraico, che afferrava avidamente e scorreva in
fretta. Mi rendo conto solo adesso che cercava qualsiasi informazione il
giornale potesse contenere sulla sua famiglia o sugli amici. Solo una volta
fece un’allusione all’Olocausto. Avevo all’incirca vent’anni e andammo a
pranzo fuori, noi due soltanto. Era una cosa rara: sebbene a quel punto
avesse già venduto il negozio, era ancora difficile staccarlo da mia madre.
Non dava mai inizio a una conversazione e non mi cercava mai. Forse era a
disagio con me, anche se non era affatto timido o inibito con il suo clan di
uomini: mi piaceva vederlo ridere con loro e fare battute mentre giocavano a
pinnacolo. Forse non eravamo mai riusciti a incontrarci davvero: lui non
aveva mai chiesto informazioni sulla mia vita e sul mio lavoro, e io non gli
avevo mai detto che gli volevo bene. La nostra conversazione durante quel
pranzo mi rimane chiaramente impressa nella mente. Parlammo da adulti per
un’ora, e fu bellissimo. Ricordo di avergli chiesto se credeva in Dio, e lui
aveva risposto: «Dopo la Shoah, com’è possibile che chiunque creda in
Dio?»
So che è giunto il momento, ed è giunto da un pezzo, di perdonarlo per il
suo silenzio, per essere stato un immigrato, per la sua mancanza d’istruzione
e la disattenzione nei confronti delle banali delusioni incontrate dal suo
unico figlio maschio. È giunto il momento di mettere fine al mio imbarazzo
per la sua ignoranza e ricordare invece la sua bella faccia, la gentilezza, i
rapporti cortesi con gli amici, la voce melodiosa con cui cantava le canzoni
in yiddish che aveva imparato da bambino nello shtetl, la sua risata mentre
giocava a pinnacolo con il fratello e gli amici, le bracciate eleganti quando
nuotava nella spiaggia di Bay Ridge, e l’affettuosa relazione con la sorella
Hannah, la zia alla quale ho voluto un bene dell’anima.
5.
La biblioteca, dalla A alla Z
Per moltissimi anni, fino a quando sono andato in pensione, ho percorso in
bicicletta, avanti e indietro, ogni giorno, il tragitto che da casa porta
all’Università di Stanford, fermandomi spesso ad ammirare le statue di
Rodin che raffigurano i borghesi di Calais, o i mosaici scintillanti della
cappella che domina il cortile interno, o a esaminare rapidamente i libri
esposti nelle vetrine della libreria del campus. Anche dopo il pensionamento
ho continuato ad andarmene in giro in bicicletta per Palo Alto, svolgendo
commissioni o andando a trovare amici. Ma ultimamente mi fido meno del
mio equilibrio, e per questo motivo evito di andare in bicicletta in mezzo al
traffico e limito i miei giri alle piste ciclabili, trenta o quaranta minuti ogni
giorno, al tramonto. Anche se i miei percorsi sono mutati, l’esperienza di
andare in bicicletta è sempre stata un momento di liberazione e
contemplazione, e negli ultimi tempi, mentre pedalo, l’esperienza del
movimento armonioso, rapido e la brezza sul volto invariabilmente mi
trasportano nel passato.
Con l’eccezione di un’intensa storia d’amore con una motocicletta, tra i
venticinque e i trent’anni, sono stato fedele alla bicicletta dall’età di dodici
anni quando, dopo una lunga e dura campagna a base di suppliche e lusinghe,
i miei genitori si arresero e mi comprarono un’American Flyer rosso fiamma
per il mio compleanno. Sapevo supplicare con insistenza e molto presto
avevo scoperto una tecnica eccezionalmente efficace, una tecnica che non
falliva mai: si trattava semplicemente di creare un collegamento diretto tra
l’oggetto del desiderio e la mia istruzione. I miei genitori non erano molto
disponibili a spendere denaro per un qualsiasi tipo di frivolezza, ma quando
si trattava di cose collegate alla mia istruzione (penne, carta, regoli
calcolatori, ve li ricordate? e libri, soprattutto libri) elargivano a piene
mani. Quindi, quando dissi loro che avrei usato la bicicletta per visitare più
spesso la grandiosa Biblioteca Centrale di Washington, all’incrocio tra
Seventh Street e la K, non poterono rifiutare la mia richiesta.
Tenni fede alla mia promessa: ogni sabato, invariabilmente, caricavo le
borse in finta pelle della mia bicicletta con i sei libri (il limite massimo
della biblioteca) che avevo digerito dal sabato precedente e intraprendevo il
viaggio di quaranta minuti per procurarmene altri sei.
La biblioteca divenne la mia seconda casa e ogni sabato vi trascorrevo
ore su ore. Quei lunghi pomeriggi svolgevano una duplice funzione: la
biblioteca mi metteva in contatto con il mondo più ampio che agognavo, un
mondo di storia e cultura e idee, e al tempo stesso alleviava l’ansia dei miei
genitori e dava loro la soddisfazione di sapere di aver generato uno studioso.
Inoltre, dal loro punto di vista, più tempo trascorrevo in casa a leggere,
meglio era: il nostro era un quartiere pericoloso. Il negozio di mio padre e il
nostro appartamento al primo piano erano situati in una zona di residenti a
basso reddito di una Washington dove vigeva la segregazione, a pochi isolati
dal confine con il quartiere dei bianchi. Le strade erano piene di violenza,
furti, scontri razziali e ubriachezza (in gran parte alimentata dal negozio di
mio padre). Durante le vacanze scolastiche estive i miei genitori erano
abbastanza saggi da tenermi lontano da quelle strade pericolose (nonché
fuori dai piedi) e con una spesa considerevole mi spedirono, dai sette anni in
su, a campi estivi nel Maryland, in Virginia, in Pennsylvania o nel New
Hampshire.
L’enorme salone al primo piano della biblioteca suscitava una tale
soggezione che, nell’attraversarlo, camminavo in punta di piedi. Proprio nel
centro del primo piano c’era una massiccia libreria che ospitava le
biografie, in ordine alfabetico per argomenti. Solo dopo averci girato attorno
molte volte trovavo il coraggio d’avvicinarmi alla presuntuosa bibliotecaria
per chiedere assistenza. Senza dire una parola, lei mi zittiva ponendosi
l’indice sulle labbra e mi indicava una grande scalinata circolare che
portava alla sezione dei libri per bambini, al secondo piano, dove sarei
dovuto essere. Mortificato, seguivo le sue istruzioni, ma ciò nonostante, ogni
volta che andavo in biblioteca, continuavo a ispezionare la libreria delle
biografie, e a un certo punto elaborai un progetto: avrei letto una biografia
alla settimana, cominciando dalle persone il cui cognome cominciava per A,
e procedendo poi lungo tutto l’alfabeto. Cominciai con Henry Armstrong, un
campione di pugilato dei pesi leggeri degli anni Trenta. Delle biografie della
B ricordo Juan Belmonte, un grande torero dell’inizio del diciannovesimo
secolo, e Francis Bacon, l’erudito rinascimentale. Per la C scelsi Ty Cobb,
per la E Thomas Edison, per la G Lou Gehrig e Hetty Green («la strega di
Wall Street»), e così via. Arrivato alla J scoprii Edward Jenner, che divenne
il mio eroe per aver debellato il vaiolo. Alla K incontrai Gengis Khan, e per
settimane mi chiesi se Jenner avesse salvato più vite di quante Gengis Khan
ne avesse distrutte. La K ospitava anche Paul de Kruif e il suo I cacciatori
di microbi, che mi spinsero a leggere molti libri sul mondo esaminato al
microscopio; l’anno successivo lavorai durante i week-end come ragazzo
addetto alla soda al People Drug Store, e risparmiai abbastanza denaro da
comprarmi un microscopio di ottone lucido, che posseggo ancora adesso. La
N mi fece conoscere Red Nichols, il trombettista, e mi presentò anche un
altro tipo strambo di nome Friedrich Nietzsche. La P mi condusse a san
Paolo e a Sam Patch, il primo a sopravvivere a un tuffo nelle cascate del
Niagara.
Ricordo di aver concluso il mio progetto alla lettera T, con la scoperta di
Albert Payson Terhune. Le settimane successive fui distratto dalla lettura
frenetica dei suoi numerosi libri su certi straordinari pastori scozzesi quali
Lad e Lassie. Oggi so di non essere stato danneggiato da un programma di
letture così casuale, di non aver subito danni dall’essere stato l’unico
bambino di dieci o undici anni a sapere così tanto di Hetty Green o Sam
Patch, e tuttavia… che spreco! Agognavo un adulto, un qualche tradizionale
mentore americano, qualcuno come l’uomo con l’abito di tessuto a strisce
increspate che entrasse nella drogheria di mio padre e annunciasse che ero
un giovanotto molto promettente. Guardando indietro, adesso provo
tenerezza per quel ragazzino solitario, spaventato, determinato, e mi stupisco
che in qualche modo si sia fatto strada con la sua istruzione da autodidatta,
casuale, senza incoraggiamento, modelli o guida.
6.
La guerra di religione
Sorella Miriam era una suora cattolica che mi era stata inviata dal suo
confessore, fratello Alfred, che era stato in terapia con me diversi anni
prima, dopo la morte di un padre tirannico. Fratello Alfred mi aveva scritto
un messaggio:
Caro dottor Yalom (mi dispiace, non riesco ancora a rivolgermi a lei chiamandola Irv, sarebbero
necessari ancora uno o due anni di terapia per questo), spero che lei possa ricevere sorella Miriam. È
un’anima piena d’amore e generosa, ma sta incontrando molti ostacoli nel suo cammino verso la
serenità.

Sorella Miriam era una donna di mezza età, attraente, interessante ma in


qualche modo scoraggiata, abbigliata senza alcun segno esteriore che
testimoniasse la sua vocazione. Aperta e franca, si mise a parlare dei propri
problemi subito e senza imbarazzo. In tutta la sua carriera nella chiesa aveva
ricevuto una notevole gratificazione dalle sue concrete attività di beneficenza
verso i poveri, ma grazie all’acuta intelligenza e alle capacità manageriali le
era stato chiesto di assumere posizioni via via sempre più elevate all’interno
dell’ordine cui apparteneva. Anche se in queste posizioni si era rivelata
molto efficiente, la qualità della sua vita era diminuita. Aveva poco tempo
per le preghiere e la meditazione e al momento, quasi quotidianamente,
affrontava conflitti con altri amministratori che brigavano per ottenere più
potere. E si sentiva sporcata dalla rabbia che provava nei loro confronti.
Sorella Miriam mi era piaciuta fin dall’inizio, e con il progredire dei
nostri incontri settimanali provai un rispetto ancora maggiore per quella
donna che, più di chiunque altro avessi mai conosciuto, aveva davvero
dedicato la propria vita al servizio degli altri. Ero deciso a fare qualsiasi
cosa per esserle d’aiuto. Era eccezionalmente intelligente e
straordinariamente devota. Non faceva domande sulle mie credenze religiose
e, dopo diversi mesi di terapia, era arrivata a fidarsi di me al punto di
portare a una seduta il suo diario privato, e di leggerne a voce alta diversi
passi. Rivelò la sua profonda solitudine, la consapevolezza della propria
goffaggine e l’invidia per altre sorelle benedette da grazia e bellezza.
Quando lesse della propria tristezza per quello a cui aveva rinunciato – il
matrimonio, una vita sessuale e la maternità –, scoppiò in lacrime. Provai
dolore per lei mentre pensavo ai preziosi legami con mia moglie e i miei
figli.
Sorella Miriam si riprese rapidamente e rese grazie per la presenza di
Gesù nella sua vita. Parlò con ardente trasporto delle quotidiane
conversazioni mattutine con lui, che le avevano procurato forza e
consolazione fin dagli anni dell’adolescenza in convento. Negli ultimi tempi
le numerose esigenze amministrative avevano reso queste meditazioni
mattutine fin troppo rare, e le mancavano moltissimo. Mi preoccupavo molto
per sorella Miriam ed ero deciso ad aiutarla a ripristinare questi suoi
incontri mattutini con Gesù.
Un giorno, dopo la nostra seduta, mentre stavo facendo il mio giro in
bicicletta mi resi conto di quanto avessi rigorosamente taciuto ogni
riferimento al mio scetticismo religioso ogni volta che mi trovavo con
sorella Miriam. Mai in precedenza avevo personalmente incontrato un simile
spirito di sacrificio e di dedizione. Sebbene anch’io pensassi al mio lavoro
di terapeuta come a una vita al servizio dei miei pazienti, sapevo che la mia
dedizione agli altri non poteva essere paragonato alla sua: io davo sulla base
del mio orario di lavoro e venivo pagato per i miei servizi. Lei com’era
arrivata a sviluppare un simile altruismo? Pensai alla prima fase della sua
vita, e a come era cresciuta. I genitori, precipitati nella povertà dopo un
incidente in miniera che aveva reso invalido il padre, all’età di quattordici
anni l’avevano inserita nel collegio di un convento, e in seguito erano andati
a trovarla di rado. Da allora la sua vita era stata totalmente regolata da
preghiere, intensi studi della Bibbia e catechismo, mattino, pomeriggio e
sera. C’era poco tempo, ed era prezioso, per i giochi, il divertimento o le
attività sociali, e naturalmente non esisteva alcun contatto con i maschi.
Dopo le nostre sedute spesso pensavo a ciò che era rimasto della mia
educazione religiosa. Ai miei tempi, i giovani maschi ebrei di Washington,
DC erano sottoposti a un approccio dottrinale tipico del vecchio continente
che, a posteriori, sembrava strutturato in modo apposito per allontanarci
dalla vita religiosa. Per quel che ne so, non uno dei miei coetanei ha
mantenuto un qualsiasi sentimento religioso. I miei genitori erano ebrei:
parlavano yiddish, rispettavano meticolosamente le leggi alimentari kosher,
con quattro diversi assortimenti di stoviglie in cucina (per la carne e per il
latte durante l’anno, e diversi per la Pasqua ebraica), osservavano le grandi
feste ed erano ardenti sionisti. Assieme a parenti e amici formavano un
gruppo coeso e non sviluppavano quasi mai amicizie con non ebrei, né
cercavano in alcun modo di entrare a far parte della cultura americana.
Tuttavia, nonostante la loro forte identità ebraica, attorno a me vedevo
poche dimostrazioni di un effettivo interesse religioso. A parte la
frequentazione de rigueur della sinagoga durante le grandi feste, il digiuno a
Yom Kippur e l’eliminazione del pane lievitato durante la Pasqua, nessuno
prendeva seriamente la religione. Nessuno di loro praticava le preghiere
rituali quotidiane, l’uso dei tefillin, la lettura della Bibbia o il rito
dell’accensione delle candele durante lo Shabbat.
La maggior parte delle famiglie gestiva piccoli commerci, per lo più
negozi di drogheria o liquori o gastronomie, che chiudevano soltanto la
domenica, a Natale, il primo giorno dell’anno e per le principali feste
ebraiche. La scena tipica delle grandi feste alla sinagoga è rimasta
vividamente impressa nella mia mente: gli amici e i parenti maschi di mio
padre tutti ammassati nella stessa fila, di sotto, mentre le donne, comprese
mia sorella e mia madre, sedevano in alto. Ricordo che me ne stavo seduto
accanto a mio padre, giocherellando con le frange del suo scialle da
preghiera bianco e blu, inalando l’odore di naftalina che emanava dal suo
abito per le grandi feste, indossato di rado, sporgendomi sopra la sua spalla
mentre lui indicava le parole ebraiche che venivano cantilenate dal cantore o
dal rabbino. Dato che per me erano tutte sillabe prive di senso, mi
concentravo più che potevo sulla traduzione in inglese della pagina accanto,
che brulicava di resoconti di battaglie violente e miracoli e infinite e
logoranti glorificazioni di Dio. Non una singola riga che avesse una qualsiasi
rilevanza per la mia vita. Dopo aver trascorso il tempo dovuto accanto a mio
padre, mi precipitavo nel cortiletto dove tutti i bambini si riunivano per
chiacchierare, giocare e scherzare.
Questa era stata la mia esposizione alla religione negli anni dell’infanzia.
Resta un mistero la ragione per cui i miei genitori non avessero mai,
nemmeno una volta, tentato di insegnarmi a leggere l’ebraico o spiegato i
fondamenti principali della religione ebraica. Ma con l’avvicinarsi dei
tredici anni e del mio bar mitzvah le cose cambiarono e venni mandato alle
lezioni religiose domenicali, dove mi mostravo insolitamente turbolento e
insistevo nel porre domande irrilevanti quali: «Se Adamo ed Eva sono stati i
primi esseri umani, con chi si sono sposati i loro figli?» Oppure: «Se la
pratica di non mangiare il latte assieme alla carne serviva a evitare la
possibilità di un abominio quale avere un vitello cotto nel latte della madre,
allora, rabbino, perché la regola deve estendersi anche ai polli? Dopotutto»
ricordavo con puntiglio e pignoleria a tutti i presenti, «i polli non danno
latte». Alla fine il rabbino si stufò di me e mi espulse dalla scuola.
Ma la cosa non finì lì. Non era possibile sottrarsi al bar mitzvah. I miei
genitori mi mandarono da un insegnante privato, il signor Darmstadt, un
uomo paziente, dignitoso e dalla schiena molto eretta. Il compito principale
del bar mitzvah che un tredicenne si trovava ad affrontare il giorno del suo
compleanno consisteva nel salmodiare a voce alta, in ebraico, l’Haftarah di
quella settimana (ovvero una selezione di testi dal Libro dei Profeti), al
cospetto dell’intera congregazione della sinagoga.
Nel mio lavoro con il signor Darmstadt si manifestò subito un problema
serio: non potevo (o non volevo) imparare l’ebraico! In tutte le altre materie
ero uno studente eccellente, sempre tra i migliori della classe, ma quando mi
applicavo a questa impresa all’improvviso diventavo un completo idiota:
non ero in grado di ricordare le lettere o i suoni o la melodia della lettura.
Alla fine il paziente e tormentato signor Darmstadt gettò la spugna e informò
mio padre che l’impresa era impossibile: non avrei mai imparato
l’Haftarah. Quindi, alla cerimonia del bar mitzvah, fu zio Abe, il fratello di
mio padre, a salmodiare il testo del bar mitzvah al posto mio. Il rabbino mi
chiese di leggere le poche righe di una benedizione in ebraico, ma durante le
prove fu evidente che non ero in grado di imparare nemmeno quelle e
durante la cerimonia il rabbino, rassegnato, mi mostrò dei cartelli con le
lettere ebraiche traslitterate in inglese, affinché potessi leggerle.
Dev’essere stato un giorno di grande vergogna per i miei genitori. Come
potrebbe essere stato altrimenti? Ma non ricordo nulla in relazione con la
vergogna, non un’immagine, non una singola parola scambiata con mio padre
o mia madre. Spero che la loro costernazione sia stata alleviata
dall’eccellente discorso (in inglese) che loro figlio tenne alla cena serale
della festa. Ultimamente, riesaminando la mia vita, mi sono chiesto spesso
come mai fosse stato mio zio, e non mio padre, a leggere al posto mio. Mio
padre era forse stato sopraffatto dalla vergogna? Come vorrei potergli
rivolgere questa domanda. E che dire del mio lavoro con il signor
Darmstadt, durato diversi mesi? Ho un’amnesia quasi completa riguardo alle
nostre lezioni. Quello che invece ricordo bene era il rituale di scendere dal
tram una fermata prima di casa sua per fare uno spuntino al chiosco di
hamburger Little Tavern, appartenente a una catena presente a Washington e
contraddistinto da un tetto di tegole verdi, che offriva tre hamburger per
venticinque centesimi. Il fatto che fossero proibiti li rendeva ancor più
deliziosi: era il primo cibo traif (cioè non kosher) che avessi mai mangiato!
Se un adolescente come il giovane Irvin, nel bel mezzo di una crisi
d’identità, oggi mi avesse chiesto una consulenza psichiatrica professionale
dicendo che non era stato in grado di imparare l’ebraico (pur essendo un
ottimo studente) e che era stato espulso dalla sua scuola religiosa (anche se
mai prima di allora aveva dimostrato alcun problema comportamentale
significativo), e inoltre che aveva mangiato il suo primo cibo non kosher
proprio mentre andava dal suo insegnante di ebraico, credo che io e lui
avremmo avuto una seduta più o meno simile a quella che riporto qui di
seguito:
DOTTOR YALOM: Irvin, tutte le cose che hai raccontato del tuo bar mitzvah mi portano a chiedermi
se forse non ti stai inconsciamente ribellando ai tuoi genitori e alla tua cultura. Mi dici che sei un ottimo
studente, sempre tra i migliori della classe, e tuttavia, in questo momento topico, il momento in cui sei sul
punto di assumere il tuo posto di ebreo adulto, all’improvviso sviluppi una pseudo-demenza idiopatica e
non sei in grado di imparare a leggere in un’altra lingua.
IRVIN: Con il dovuto rispetto, dottor Yalom, non sono d’accordo: la cosa è del tutto spiegabile. È un
fatto che non sono portato per le lingue. È un fatto che non sono mai stato in grado di imparare
nessun’altra lingua e dubito che mai lo sarò. È un fatto che ho tutti voti massimi a scuola, con
l’eccezione di un voto medio in latino e uno appena sufficiente in tedesco. Ed è anche un fatto che non
ho orecchio e non sono intonato. Durante le lezioni di canto gli insegnanti di musica mi chiedevano
apertamente di non cantare, ma di limitarmi a canticchiare piano. Tutti i miei amici lo sanno e sanno che
non c’è modo che io possa salmodiare una melodia a un bar mitzvah o imparare un’altra lingua.
DOTTOR YALOM: Ma, Irvin, lascia che ti ricordi che qui non si tratta di imparare una lingua:
probabilmente meno del cinque per cento dei ragazzi ebrei americani capisce il testo di quello che deve
leggere per il bar mitzvah. Il tuo compito non era di imparare a parlare in ebraico, né di capire
l’ebraico: il tuo unico compito era quello di imparare pochi suoni e leggere poche pagine a voce alta.
Quanto può essere difficile? È un compito che decine di migliaia di tredicenni svolgono ogni anno. E
lascia che sottolinei che molti di loro non sono ottimi studenti, e nemmeno studenti medi o mediocri. No,
ti ripeto, non si tratta di un caso di demenza focale acuta: sono convinto che ci sia una spiegazione
migliore. Dimmi qualcosa sui tuoi sentimenti riguardo all’essere ebreo e riguardo alla tua famiglia e alla
tua cultura.
IRVIN: Non so da dove cominciare.
DOTTOR YALOM: Limitati a dire ad alta voce quello che pensi riguardo all’essere ebreo a tredici
anni. Non censurare i pensieri, esprimili così come ti entrano nella mente. È quella che i terapeuti
chiamano libera associazione.
IRVIN: Libera associazione, uh! Solo pensare a voce alta? Wow! Okay, ci proverò. Essere ebreo…
il popolo eletto dal Signore… per me questa è una battuta: eletto? No, esattamente l’opposto… Essere
ebreo non mi ha portato un solo vantaggio… Continue osservazioni antisemite… Persino il signor Turner,
il barbiere biondo e con la faccia paonazza a soli tre isolati dal negozio di mio padre, mi chiama
«ebreuccio» quando mi taglia i capelli… E Unk, l’insegnante di ginnastica, mi grida: «Muoviti,
ebreuccio!», quando cerco senza successo di arrampicarmi sulla corda che penzola dal soffitto della
palestra. E la vergogna a Natale, quando gli altri bambini a scuola descrivono i loro regali: ero l’unico
bambino ebreo alle elementari, e mentivo regolarmente fingendo di aver ricevuto dei regali anch’io. So
che le mie cugine Bea e Irene raccontavano ai compagni che i regali per Hanukkah erano regali per
Natale, ma i miei erano troppo occupati con il negozio e non facevano regali per Hanukkah. E si
accigliavano vedendo che avevo solo amici non ebrei, e specialmente neri, e non mi permettevano di
invitarli a casa nostra, anche se io andavo regolarmente a casa loro.
DOTTOR YALOM: Quindi mi sembra ovvio che tu non desideri che tirarti fuori da questa cultura e
che il rifiuto di imparare l’ebraico per il tuo bar mitzvah e il mangiare cibo traif mentre vai alle lezioni di
ebraico dicano tutti la stessa cosa, e la dicano a gran voce: «Per favore, per favore, qualcuno mi tiri
fuori da qui!»
IRVIN: È difficile sostenere il contrario. E i miei devono sentirsi nel bel mezzo di un terribile
dilemma. Per me vogliono qualcosa di diverso e migliore. Vogliono che abbia successo nel mondo
esterno ma, al tempo stesso, devono temere la fine del loro mondo.
DOTTOR YALOM: Te l’hanno mai detto esplicitamente?
IRVIN: Non direttamente, ma ci sono dei segnali. Per esempio parlano in yiddish tra loro, ma non con
me o con mia sorella. Con noi parlano una sorta di inglese-yiddish semplificato (lo chiamiamo yinglish),
ma non vogliono assolutamente che impariamo l’yiddish. Sono anche molto riservati riguardo alla loro
vita nel paese d’origine. Non so quasi nulla delle loro vite in Russia. Quando cerco di scoprire l’esatta
ubicazione del loro shtetl nel vecchio continente, mio padre, che ha un magnifico senso dell’umorismo,
dice scherzando che vivevano in Russia ma a volte, quando non potevano sopportare il pensiero di un
altro rigido inverno russo, la chiamavano Polonia. E riguardo alla seconda guerra mondiali, ai nazisti e
all’Olocausto? Nemmeno una parola! Le loro labbra sono sigillate per sempre. E questo stesso silenzio
regna sovrano nelle case di tutti i miei conoscenti ebrei.
DOTTOR YALOM: Come te lo spieghi?
IRVIN: Probabilmente ci vogliono risparmiare l’orrore. Ricordo i cinegiornali al cinema, dopo il
Giorno della Vittoria, che mostravano i campi di concentramento e le montagne di cadaveri che venivano
spostati da un bulldozer. Ero sotto shock, del tutto impreparato a tutto ciò, e temo che non riuscirò mai a
cancellare quelle scene dalla mia mente.
DOTTOR YALOM: Sai cosa vogliono per te i tuoi genitori?
IRVIN: Sì, che riceva un’istruzione e che sia americano. Sanno poco di questo nuovo mondo.
Quando sono arrivati negli Stati Uniti non avevano ricevuto alcun tipo di istruzione laica, intendo dire…
zero assoluto… con l’eccezione del corso per diventare cittadini americani. Come la maggior parte degli
ebrei che conosco sono «gente del libro» e credo, anzi no, so che provano piacere ogni volta che mi
vedono leggere un libro. Non mi interrompono mai, quando sto leggendo un libro. Tuttavia non danno il
minimo segno di desiderare un’istruzione per loro stessi. Credo che sappiano che la loro occasione è
passata, sono così stremati dalle dure ore di lavoro. Ogni sera sono esausti. Dev’essere una sensazione
dolce e allo stesso tempo amara per loro: lavorano sodo, così io posso avere il lusso di un’istruzione, ma
devono anche sapere che ogni libro, ogni pagina che leggo mi trascina sempre più lontano da loro.
DOTTOR YALOM: Sto ancora pensando a te che mangi gli hamburger alla Little Tavern: quello è
stato il primo passo. È stato come uno squillo di tromba che annuncia l’inizio di una lunga campagna
militare.
IRVIN: Sì, ho dichiarato una lunga guerra d’indipendenza, e le prime schermaglie sono tutte legate al
cibo. Anche prima della ribellione del bar mitzvah mettevo in ridicolo le regole ortodosse sul cibo.
Queste regole sono una barzelletta; non hanno senso e, quel che è peggio, m’impediscono di essere
americano. Quando vado a una partita di baseball dei Washington Senators (il Griffith Stadium è a solo
pochi isolati dal negozio di mio padre), a differenza dei miei amici non posso mangiare un hot dog.
Persino un panino con uova o formaggio grigliato preso al negozio in fondo alla strada è una cosa
proibita perché, mi spiega mio padre, il coltello che ha tagliato il panino potrebbe essere stato usato poco
prima per tagliare del prosciutto. Io protesto: «Chiederò che non venga tagliato».
«No. Pensa al piatto che potrebbe essere stato usato per il prosciutto» dice mio padre o mia madre.
«Traif, è tutto traif». Riesce a immaginare, dottor Yalom, di sentire queste cose quando si hanno tredici
anni? È una follia! Questo vasto universo, trilioni di stelle che nascono e muoiono, disastri naturali che
ogni minuto si verificano sulla Terra, e i miei genitori insistono nell’affermare che Dio non ha niente di
meglio da fare che controllare i coltelli delle drogherie alla ricerca di molecole di prosciutto?
DOTTOR YALOM: Davvero? È questo ciò che pensi a una così giovane età?
IRVIN: Sempre. M’interesso di astronomia e mi sono fatto un telescopio, e ogni volta che guardo il
cielo stellato sono travolto dal pensiero di quanto minuscoli e insignificanti siamo noi tutti nel grande
ordine delle cose. Mi sembra ovvio che gli antichi cercassero di venire a patti con questo senso
d’irrilevanza inventandosi un qualche dio che considerasse noi umani così importanti da rivolgere la sua
attenzione alla sorveglianza di ogni nostro singolo atto. E mi sembra anche ovvio che cerchiamo di
mitigare la realtà di dover morire con l’invenzione del paradiso e altre fantasie e favole che hanno tutte
un tema comune: «Non moriamo, continuiamo a esistere in un altro regno».
DOTTOR YALOM: Davvero hai di questi pensieri alla tua età?
IRVIN: Li ho sin da quando sono in grado di ricordare qualcosa. Li tengo per me. Ma per essere
onesto con lei, penso che le religioni e le idee di una vita nell’aldilà siano la truffa più longeva della
storia. Hanno un loro scopo: procurano ai leader religiosi una vita confortevole e attenuano la paura della
morte dell’umanità. Ma a che prezzo! Ci fanno rimanere bambini, bloccano la nostra visione dell’ordine
naturale.
DOTTOR YALOM: Truffa? Piuttosto forte! Perché sei così deciso a offendere diversi miliardi di
persone?
IRVIN: Ehi, ehi, lei mi aveva chiesto di fare delle libere associazioni, ricorda? Di solito questo, tutto
questo, me lo tengo per me.
DOTTOR YALOM: Giustissimo. Sono stato io a chiederti di farlo. Tu mi hai assecondato, e adesso ti
critico perché l’hai fatto. Ti presento le mie scuse. E permettimi di chiederti un’altra cosa. Parli di paura
della morte e di vita nell’aldilà. Stavo pensando alle tue esperienze personali con la morte.
IRVIN: Il primo ricordo è la morte del mio gatto. Avevo all’incirca dieci anni. Avevamo sempre un
paio di gatti in negozio, per prendere i topi e i ratti, e ci giocavo molto. Un giorno uno di loro, il mio
prediletto, una gatta (ne ho dimenticato il nome), fu investita da una macchina e la trovai vicino al
cordolo del marciapiede, ancora viva. Corsi in negozio, tirai fuori del fegato dal contenitore della carne
(mio padre era anche macellaio), ne tagliai un pezzetto e lo misi proprio accanto alla bocca della gatta. Il
fegato era il suo cibo preferito. Ma lei non lo mangiò, e poco dopo chiuse gli occhi per sempre. Sa, sto
male all’idea di aver dimenticato il suo nome e chiamarla semplicemente «gatto», avevamo trascorso un
sacco di bellissime ore insieme, piene d’affetto, con lei seduta in grembo che faceva rumorosamente le
fusa mentre l’accarezzavo e leggevo un libro.
Quanto alla morte di un essere umano, c’è stato un ragazzo della mia classe, in terza. Non ne ricordo
il nome, ma credo che lo chiamassimo «L.E.». Aveva i capelli bianchi, forse era albino, e sua madre gli
metteva dei panini strani nel cestino per il pranzo, per esempio con formaggio e sottaceti: non avevo mai
sentito parlare di sottaceti in un panino prima di allora. È strano come certe cose bizzarre restino
impresse nella memoria. Un giorno non venne a scuola, e il giorno successivo la maestra ci disse che si
era ammalato ed era morto. Tutto qui. Non rammento una particolare reazione, mia o di qualcun altro
nella classe. Ma c’è un fatto straordinario al riguardo: la faccia di L.E. è rimasta impressa in modo così
chiaro nella mia mente! Posso ancora visualizzarlo, con uno sguardo stupefatto e i capelli di un biondo
chiarissimo dritti sulla testa, tagliati a spazzola.
DOTTOR YALOM: E questo è straordinario perché…?
IRVIN: È straordinario che la sua immagine sia così chiara. È bizzarro, perché non lo conoscevo
molto bene. Penso che sia stato nella mia classe soltanto quell’anno. Per di più aveva una qualche
malattia, e la madre lo portava a scuola e lo veniva a prendere in macchina, e quindi non tornavamo mai
a casa insieme, e neanche giocavamo. In quella classe c’erano tanti altri bambini che conoscevo molto,
molto meglio, e tuttavia non sono in grado di ricordare nessun’altra faccia.
DOTTOR YALOM: E ciò significa che…?
IRVIN: Deve significare che la morte aveva ovviamente catturato la mia attenzione, ma che avevo
scelto di non pensarci in modo diretto.
DOTTOR YALOM: Ci sono stati momenti in cui ci hai davvero pensato in modo diretto?
IRVIN: La mia mente è confusa, ma rammento che stavo passeggiando per il mio quartiere dopo
aver giocato a flipper in un negozietto da due soldi, e l’idea mi piombò semplicemente addosso, l’idea
che sarei morto come chiunque altro, come chiunque viva o mai vivrà. Questo è tutto quello che ricordo,
eccetto che io so che fu la prima consapevolezza della mia morte, e anche che non potei tenerla in testa
a lungo e, naturalmente, che non ne parlai mai con nessuno. Fino a questo momento.
DOTTOR YALOM: Perché “naturalmente”?
IRVIN: La mia vita è molto solitaria, non c’è nessuno con cui possa condividere simili pensieri.
DOTTOR YALOM: Solitaria significa isolata?
IRVIN: Oh, sì.
DOTTOR YALOM: Cosa ti viene in mente se pensi alla parola «isolata»?
IRVIN: Penso a me che vado in bicicletta nel grande parco a circa dieci isolati dal negozio di mio
padre, la vecchia «Casa del Veterano»…
DOTTOR YALOM: Dici sempre “il negozio di mio padre” invece di “casa mia”.
IRVIN: Sì, ha colto nel segno, dottor Yalom. Anch’io l’ho appena notato. La vergogna verso casa
mia ha radici profonde. Quello che mi viene in mente… sto ancora facendo libere associazioni, giusto?
DOTTOR YALOM: Esatto. Continua.
IRVIN: Quello che mi viene in mente è una festa di compleanno, un sabato sera, quando avevo
all’incirca undici o dodici anni, in una casa molto elegante, una di quelle case che fino ad allora avevo
visto solo nei film di Hollywood. Ci viveva una ragazza di nome Judy Steinberg, che avevo incontrato e
corteggiato a un campo estivo, credo ci fossimo persino baciati. Mia madre mi aveva accompagnato in
macchina alla festa ma non poteva venirmi a prendere, perché il sabato sera c’era grande affollamento
in negozio. Così, quando la festa si concluse, Judy e sua madre mi riportarono a casa in macchina.
Provavo una tale umiliazione al pensiero che vedessero il tugurio che era casa mia che chiesi loro di
farmi scendere a qualche porta di distanza, davanti a una casa modesta ma più presentabile, e finsi di
vivere lì. Rimasi fermo sui gradini d’ingresso a salutare fino a quando la macchina non si fu allontanata.
Ma dubito di essere riuscito a imbrogliarle. Provo imbarazzo ancora oggi, se ci penso.
DOTTOR YALOM: Torniamo a quello che stavi dicendo poco fa. Dimmi qualcos’altro dei tuoi giri
solitari in bicicletta nel parco della «Casa del Soldato».
IRVIN: Era un parco meraviglioso, diverse centinaia di acri e praticamente deserto, a eccezione dei
pochi edifici per i veterani vecchi e malati. Credo che quelle corse in bicicletta costituiscano i ricordi
migliori della mia infanzia… lasciarsi andare per inerzia lungo le colline, il vento sulla faccia, sentirmi
libero e recitare poesie a voce alta. Mia sorella aveva seguito un corso sulla poesia vittoriana al college.
Quando l’aveva terminato, avevo preso il suo libro di testo e l’avevo letto attentamente più e più volte,
mandando a memoria poesie semplici dal ritmo marcato come La ballata di Reading Gaol di Oscar
Wilde, o alcune poesie del Ragazzo dello Shropshire di Housman, quali Il più bello degli alberi, il
ciliegio ora e Quando avevo ventun anni, alcuni versi dalla traduzione di FitzGerald del Rubaiyat di
Omar Khayyam, Il prigioniero di Chillon di Byron e qualche poesia di Tennyson. Il poema Gunga
Din di Kipling era uno dei miei favoriti, e possiedo ancora una registrazione fonografica che avevo fatto
in un negozietto di registrazioni vicino allo stadio del baseball quando avevo tredici anni. Su un lato c’era
il mio discorso al bar mitzvah (naturalmente in inglese), e sull’altro la mia lettura di Gunga Din e della
Carica della brigata leggera di Tennyson. Sì, più ci penso, più direi che quei momenti in cui mi
lasciavo andare per inerzia lungo la discesa, salmodiando versi di poesia, sono stati i miei momenti più
felici.
DOTTOR YALOM: Il nostro tempo si è quasi esaurito, ma prima di fermarci lasciami dire che
apprezzo la portata della lotta che stai affrontando. Sei imprigionato tra due mondi: non conosci e non
rispetti il vecchio mondo, ma ancora non discerni il passaggio che porta a quello nuovo. Questo genera
molta ansia, e avrai bisogno di molte ore di terapia per ricevere un aiuto. Sono lieto che tu abbia deciso
di venire da me; sei pieno di risorse e ho la netta sensazione che alla fine per te andrà tutto per il meglio.
7.
Un ragazzo che amava l’azzardo
Sono le otto di mercoledì mattina. Ho fatto colazione e percorro il sentierino
di ghiaia che porta al mio studio, fermandomi solo un attimo a salutare i miei
bonsai e a strappare un paio di erbacce. So bene che anche quelle piccole
erbacce hanno diritto di esistere, ma non posso permettere che succhino
l’acqua che serve ai miei bonsai. Sono molto contento perché mi attendono
quattro ore ininterrotte da dedicare alla scrittura. Non vedo l’ora di
cominciare ma, come sempre, non resisto e controllo le email,
ripromettendomi di non impiegare più di trenta minuti a rispondere. Il primo
messaggio mi accoglie così:
Promemoria: STASERA PARTITA a casa mia. Le porte si aprono alle 6.15. Ci sarà cibo delizioso e
prezioso. Si mangia in fretta – la partita comincia alle 6.45. Portate sacchi di grano! Kevan

La prima reazione è quella di cancellare il messaggio, ma mi fermo e cerco


di analizzare il sentimento di malinconia che sta passando dentro di me. Ho
cominciato a giocare a poker più di quarant’anni fa, ma non posso più
giocare perché la mia vista scarsa (problema non correggibile) ha reso il
gioco troppo costoso: gli errori nel leggere le carte facevano sì che perdessi
almeno uno o due grossi piatti a ogni partita. Ho resistito a lungo prima di
rinunciare. Diventare vecchi significa rinunciare a una dannata cosa dopo
l’altra. Adesso, anche se non gioco più da circa quattro anni, i ragazzi
continuano a mandarmi l’invito, come segno di cortesia.
Ho rinunciato al tennis e al jogging e alle immersioni subacquee, ma
rinunciare al poker è stato diverso. Le altre attività sono più solitarie, mentre
il poker era un’occasione sociale: quei cari ragazzi erano i miei compagni di
gioco e mi mancano moltissimo. Oh, una volta ogni tanto ci riuniamo per un
pranzo (tirando la moneta o giocando una rapida mano di poker al ristorante
per vedere chi pagherà il conto), ma non è la stessa cosa: mi mancano
l’azione e il senso di essere parte di qualcosa di rischioso. Ho sempre amato
il brivido della scommessa e adesso tutto quello che mi rimane è cercare di
spingere mia moglie a scommettere con me, su cose assolutamente idiote: lei
vuole che indossi la cravatta per una cena e le dico: «Scommetto venti
dollari che stasera alla cena non ci sarà un solo uomo con la cravatta». In
passato m’ignorava, ma da quando ho smesso di giocare a poker mi
asseconda, accettando di tanto in tanto una delle mie scommesse.
Questo genere di gioco fa parte della mia vita da moltissimo tempo. Da
quando? Una telefonata ricevuta alcuni anni fa mi ha fornito delle
informazioni al riguardo. Era da parte di Shelly Fisher, con il quale non
parlavo dalla quinta elementare. Aveva una pronipote che studiava
psicologia, e durante una recente visita l’aveva vista leggere uno dei miei
libri, Il dono della terapia. «Ehi, conosco quel tipo» aveva detto. Sulla
guida telefonica di Washington aveva trovato il numero di mia sorella e
l’aveva chiamata per avere il mio. Io e Shelly facemmo una lunga
chiacchierata, ricordando le passeggiate per andare a scuola insieme ogni
giorno, le partite di bowling, a carte e a palla, e le figurine del baseball. Il
giorno successivo mi chiamò di nuovo: «Irv, ieri mi hai detto che volevi un
feedback da me. Be’, mi sono appena ricordato un’altra cosa a tuo riguardo:
avevi un problema con il gioco d’azzardo. Continuavi a insistere che
giocassi a gin rummy, puntando le figurine del baseball. Volevi scommettere
su qualsiasi cosa: ricordo che un giorno volevi scommettere sul colore della
prima macchina che sarebbe passata per strada. E ricordo che ti piaceva da
impazzire giocare i numeri».
“Giocare i numeri”: non ci avevo pensato per anni. Le parole di Shelly
risvegliarono antichi ricordi. Quando avevo circa undici o dodici anni, mio
padre trasformò la sua drogheria in un negozio di liquori, e la vita divenne
un po’ più facile per i miei genitori: non più merci avariate, non più viaggi
alle cinque del mattino al mercato all’ingrosso dei prodotti freschi, non più
quarti di manzo da tagliare. Ma le cose divennero anche più pericolose: le
rapine non erano rare, e il sabato sera una guardia armata si acquattava nel
retro del negozio. Durante il giorno il negozio era spesso pieno di
personaggi fuori dall’ordinario: tra i nostri clienti abituali c’erano papponi,
prostitute, alcolizzati di ogni genere, allibratori e i cosiddetti «trafficanti di
numeri».
Una volta aiutai mio padre a portare un ordine di alcune casse di scotch e
bourbon alla macchina di Duke. Duke era uno dei nostri migliori clienti ed
ero affascinato dal suo stile: bastone con il pomo d’avorio, cappotto di
cashmere blu a doppio petto con cappello a larga tesa blu abbinato, e una
Cadillac bianca luccicante e lunga un chilometro. Quando raggiungemmo la
macchina, parcheggiata in una via laterale, chiesi se dovevo mettere la
cassetta di scotch nel bagagliaio, e mio padre e Duke ridacchiarono
entrambi. «Duke, perché non gli fai vedere il bagagliaio?» disse mio padre.
Con un gesto teatrale Duke aprì il bagagliaio della Cadillac e disse: «Qui
dentro non c’è molto posto, Sonny». Diedi un’occhiata e gli occhi mi
schizzarono dalle orbite. Settant’anni dopo vedo ancora la scena con
impressionante chiarezza: il bagagliaio era pieno zeppo di pile di banconote
di ogni taglio, legate con grossi elastici, con diversi sacchi di iuta pieni fino
all’orlo di monetine che strabordavano.
Duke faceva parte del racket dei numeri, un’attività endemica nel mio
quartiere di Washington. Ecco come funzionava: ogni giorno gli
scommettitori del quartiere facevano le loro puntate (spesso non più di dieci
centesimi), con i loro “trafficanti”, su un numero di tre cifre. Se
indovinavano, «centravano il numero, e sia resa grazia a Dio», e venivano
pagati sessanta dollari per una scommessa di dieci centesimi, ovvero 600 a
1. Ma, naturalmente, le vere probabilità erano di 1000 a 1, perciò gli
allibratori ne traevano un enorme profitto. Il numero giornaliero non poteva
essere manipolato, dato che era il risultato di una formula nota a tutti e
basata sulla somma totale puntata su tre corse di cavalli della pista locale.
Anche se era ovvio che le probabilità erano contro di loro, gli scommettitori
avevano due aspetti a loro favore: le puntate erano molto piccole, e la
continua speranza di quel «sia resa grazia a Dio», di avere un improvviso
colpo di fortuna, alleviava in qualche misura la disperazione indotta dalla
povertà che si portavano dentro da una vita.
Avevo un’esperienza diretta di quella quotidiana eccitazione anticipatoria
legata alle scommesse sui numeri perché di quando in quando, e in segreto,
facevo io stesso delle piccole scommesse (nonostante i rimproveri dei miei
genitori), spesso di un nichelino o di dieci centesimi che rubacchiavo dal
registratore di cassa del negozio. (Il ricordo dei miei meschini furtarelli mi
fa vergognare ancora oggi.) Mio padre aveva ripetutamente sottolineato che
solo gli sciocchi avrebbero scommesso con possibilità di vincita così
esigue. Sapevo che aveva ragione ma, finché non divenni più grande, quello
era l’unico gioco in città. Scommettevo tramite William, uno dei due uomini
di colore che lavoravano in negozio. Gli promettevo sempre il venticinque
per cento delle mie vincite. William era un alcolizzato, un uomo vivace e
attraente anche se non certo un esempio di integrità, e non ho mai saputo se
piazzasse davvero le mie scommesse o semplicemente si mettesse i miei
centesimi in tasca, o scommettesse per sé. Non centrai mai il numero, e
sospetto che, se l’avessi fatto, William si sarebbe probabilmente inventato
che il trafficante di numeri quel giorno non si era fatto vivo, o avrebbe
escogitato qualche scusa simile. Alla fine abbandonai l’impresa quando ebbi
la grande fortuna di scoprire le scommesse sul baseball, i dadi, il pinnacolo
e, soprattutto, il poker.
8.
Una breve storia sulla rabbia
Quest’oggi la mia paziente Brenda si è presentata alla seduta con un ordine
del giorno preciso. Senza nemmeno rivolgermi un’occhiata, è entrata nel mio
studio, ha preso posto, ha aperto la borsa, ha tirato fuori gli appunti e ha
cominciato a leggere a voce alta una sorta di dichiarazione nella quale
elencava le lamentele a proposito del mio comportamento durante il nostro
ultimo incontro.
«Ha detto che nelle nostre sedute stavo facendo un lavoro scadente e che
altri suoi pazienti arrivavano meglio preparati a parlare delle loro questioni.
E ciò stava a significare che preferiva di gran lunga lavorare con questi altri
pazienti. E mi ha rimproverata perché non racconto mai sogni o fantasie a
occhi aperti. E si è schierato con il mio terapeuta precedente, dicendo che il
mio rifiuto di aprirmi era responsabile del fallimento di tutte le terapie da
me affrontate in passato».
Durante la seduta in questione Brenda se n’era rimasta seduta in silenzio,
come spesso faceva, e non aveva tirato fuori nulla, costringendomi a un
lavoro fin troppo duro: avevo avuto la sensazione di cercare di far leva per
aprire un’ostrica. Ora, mentre leggeva l’elenco delle sue accuse, mi ero
messo subito sulla difensiva. Trattare la rabbia non è il mio forte. La mia
reazione immediata sarebbe stata quella di mostrarle il modo in cui aveva
distorto le mie parole, ma per tutta una serie di ragioni ero riuscito a tenere a
freno la lingua. Innanzitutto quello era un inizio propizio per una seduta,
infinitamente migliore di quello della settimana precedente! Si stava
aprendo, liberava quel genere di pensieri e sentimenti che l’avevano tenuta
così legata in passato. Inoltre, anche se aveva distorto le mie parole, sapevo
che in effetti avevo pensato alcune delle cose che lei mi accusava di aver
detto, ed era molto probabile che quei pensieri avessero influenzato le mie
parole in modi che non ero stato in grado di riconoscere. «Brenda, capisco
molto bene il fastidio che prova: penso che mi stia citando in modo un po’
distorto, ma ha ragione: la settimana scorsa mi sentivo davvero frustrato e in
qualche modo frastornato». Poi ho chiesto: «Se le capiterà un’altra seduta
del genere in futuro, che cosa consiglia di fare? Qual è la domanda migliore
che potrei porre?»
«Perché non mi chiede semplicemente cosa sia successo durante la
settimana da farmi sentire così male?»
Ho seguito il suo suggerimento e le ho posto la domanda: «Che cosa è
successo che l’ha fatta sentire male durante la settimana?» Ciò ha portato a
una discussione produttiva su delusioni e sgarbi che aveva subito nei giorni
immediatamente precedenti. Verso la fine dell’ora sono tornato indietro
all’inizio della seduta e ho cercato di sapere come la facesse sentire il fatto
di essersi tanto arrabbiata con me. Si è messa a piangere mentre esprimeva
la propria gratitudine perché l’avevo presa sul serio, perché mi ero assunto
la responsabilità del mio ruolo e tenevo duro assieme a lei. Penso che
entrambi abbiamo sentito di essere entrati in una nuova fase della terapia.
La seduta mi ha portato a pensare alla rabbia durante il solito giro in
bicicletta lungo l’insenatura, tornando a casa. Anche se sono soddisfatto del
modo in cui me la sono cavata in quest’occasione, so che ho ancora del
lavoro personale da fare in quest’area, e che le cose sarebbero state molto
più sgradevoli se Brenda non mi fosse così simpatica, e se non avessi saputo
quanto le era costato criticarmi. Non ho dubbi, inoltre, che mi sarei sentito
molto più minacciato se il paziente arrabbiato fosse stato un maschio. Sono
sempre stato a disagio negli scontri diretti, personali e professionali, e ho
sempre accuratamente evitato qualsiasi carica amministrativa che in qualche
modo li implicasse, per esempio essere a capo di un comitato di presidenza
o di altro genere, o fare il decano. Solo una volta, qualche anno dopo aver
concluso il mio internato, accettai di essere preso in considerazione per una
carica di presidente, alla mia università di provenienza, la Johns Hopkins.
Per fortuna, mia e loro, il posto fu assegnato a un altro candidato. Mi sono
sempre detto che evitare posizioni amministrative era una mossa saggia
perché la mia vera forza stava nella ricerca critica, nella pratica medica e
nella scrittura, ma devo ammettere che il mio timore dei conflitti, e in
generale la mia timidezza, hanno avuto un ruolo significativo in questa scelta.
Mia moglie, che sa quanto anche nella vita sociale io preferisca gli
incontri tra quattro o al massimo sei persone, trova spassoso che sia
diventato un esperto nella terapia di gruppo. In effetti, però, l’esperienza nel
condurre gruppi di terapia si è rivelata terapeutica non soltanto per i
pazienti, ma anche per me, contribuendo ad aumentare parecchio la mia
disinvoltura in situazioni di gruppo. E da molto tempo, ormai, non provo
troppa ansia quando mi rivolgo a un pubblico numeroso. Ma queste
esibizioni si svolgono sempre alle mie condizioni: non voglio prendere parte
a un dibattito spontaneo con il pubblico. Non riesco a pensare rapidamente
in situazioni del genere. Uno dei vantaggi della vecchiaia è che adesso il
pubblico mi tratta con grande deferenza: sono passati anni, decenni ormai, da
quando un collega o una persona del pubblico mi ha sfidato apertamente a
parole.
Fermo la bicicletta per dieci minuti per guardare la squadra di tennis
della Gunn High School che si allena, ripensando ai miei tempi, quando
giocavo nella squadra di tennis della Roosevelt High School. Nella squadra
a sei ero il numero sei, ma ero molto meglio di Nelson, che occupava il
posto numero cinque. Ogni volta che giocavamo assieme, tuttavia, lui
m’intimidiva con la sua aggressività e le sue imprecazioni, e ancor più con
l’abitudine di interrompere il gioco nei momenti cruciali per restare
immobile, immerso per alcuni istanti in una preghiera silenziosa.
L’allenatore, mostrandosi poco solidale, mi diceva di «crescere e imparare a
cavarmela».
Riprendo a pedalare e penso ai numerosi avvocati e amministratori
delegati che ho avuto in trattamento, che vivono immersi nei conflitti, e mi
meraviglio della loro brama di battaglia. Non ho mai capito come siano
diventati così né, naturalmente, come io invece possa essere tanto estraneo al
conflitto. Penso ai bulletti delle elementari, che minacciavano di pestarmi
dopo la scuola. Ricordo di aver letto storie di bambini con padri che
insegnavano loro a fare a pugni, e come avrei voluto un padre del genere.
Sono vissuto in un’epoca in cui gli ebrei non combattevano, erano quelli che
le prendevano. Eccetto Billy Conn, il pugile ebreo: persi un sacco di soldi
scommettendo su di lui quando combatté con Joe Louis. E poi saltò fuori,
anni dopo, che non era affatto ebreo.
L’autodifesa non era stata una questione da poco durante i miei primi
quattordici anni. Il mio quartiere non era sicuro, e persino allontanarsi di
poco da casa poteva essere pericoloso. Tre volte alla settimana andavo al
cinema Sylvan, appena girato l’angolo rispetto al negozio. Dato che ogni
spettacolo prevedeva due proiezioni, vedevo sei film alla settimana, di
solito western o film sulla seconda guerra mondiale. I miei genitori mi
permettevano senza alcuna esitazione di andare, perché ritenevano che
all’interno del teatro fossi al sicuro. Immagino che fino a quando me ne stavo
in biblioteca, al cinema o a leggere in camera mia dovevano sentirsi
sollevati: per lo meno per quelle quindici o venti ore alla settimana ero
lontano dai pericoli.
Che invece erano dappertutto. Avevo all’incirca undici anni e lavoravo in
negozio un sabato sera quando mia madre mi chiese di andarle a prendere un
cono gelato al caffè nella drogheria a quattro porte di distanza lungo la
nostra stessa strada. Accanto al nostro negozio c’erano una lavanderia
cinese, un barbiere con immagini ingiallite di vari tipi di tagli esposte in
vetrina, un minuscolo e caotico negozio di ferramenta e, finalmente, la
drogheria che, oltre a una piccola farmacia, aveva un banco per il pranzo con
otto sgabelli, dove si servivano panini e gelati. Presi il cono gelato al caffè,
pagai i miei dieci centesimi (il cono semplice costava un nichelino, ma mia
madre lo voleva sempre “a due piani”), uscii e mi ritrovai circondato da
quattro ragazzotti bianchi di uno o due anni più vecchi di me. Era insolito e
rischioso per gruppi di bianchi gironzolare nel nostro quartiere nero, e in
genere la loro presenza significava guai.
«Oh, per chi è quel cono?» ringhiò uno di loro, un ragazzo dagli occhi
piccoli e ottusi, la faccia stretta, i capelli a spazzola e un fazzoletto rosso
legato al collo.
«Per mia madre» borbottai, guardandomi attorno furtivo in cerca di una
via di fuga.
«Per la mammina? E perché non lo assaggi pure tu?» disse lui, mentre mi
afferrava la mano e mi spingeva il cono sulla faccia.
Proprio in quel momento un gruppo di ragazzi neri miei amici girò
l’angolo e s’avviò lungo la strada. Videro quello che stava succedendo e ci
circondarono. Uno di loro, Leon, si sporse verso di me e mi disse: «Ehi, Irv,
perché non fai sputare un po’ di merda a quell’idiota? Puoi farcela». Quindi
mi sussurrò: «Usa l’uppercut che ti ho mostrato».
Proprio in quel momento sentii dei passi pesanti risuonare alle mie spalle
e vidi mio padre e William, il suo fattorino, che correvano su per la strada.
Mio padre mi afferrò il braccio e mi strattonò via, riportandomi al porto
sicuro del Bloomingdale Market.
Naturalmente fece la cosa giusta. Avrei fatto la stessa cosa anch’io per
mio figlio. L’ultima cosa che voleva, come ogni padre, era che suo figlio
fosse al centro di una qualche rissa interrazziale per strada. E tuttavia spesso
ripenso a quel suo salvataggio con rammarico. Vorrei aver combattuto con
quel tipo, e avergli mostrato il mio patetico uppercut. Non avevo mai
affrontato degli aggressori prima di allora, e lì, circondato da amici che mi
avrebbero protetto, c’era l’opportunità perfetta. Il ragazzo aveva più o meno
la mia taglia, anche se era un poco più grande, e mi sarei sentito molto
meglio con me stesso se avessi fatto a pugni con lui. Qual era la cosa
peggiore che mi poteva accadere? Un naso sanguinante, un occhio nero: un
piccolo prezzo da pagare per aver tenuto duro una volta e non aver ceduto il
passo.
So che i modelli di comportamento degli adulti sono complessi e non
sono mai originati da un unico avvenimento, tuttavia persisto a credere che il
mio disagio nel trattare la rabbia manifesta, la volontà di evitare lo scontro,
persino i dibattiti accesi, la riluttanza ad accettare posizioni amministrative
che implicassero confronti e dispute, tutto sarebbe stato diverso se mio
padre e William non mi avessero impedito di battermi, una notte di tanti anni
fa. Ma capisco anche che sono cresciuto in un ambiente permeato dalla
paura: sbarre di ferro alle vetrine dei negozi, pericolo ovunque e, a
incombere su tutti noi, la storia degli ebrei in Europa, stanati dai loro rifugi e
ammazzati. La fuga era stata l’unica strategia che mio padre mi aveva
insegnato.

Mentre descrivo questo episodio, un’altra scena s’insinua nella mia


coscienza: io e mia madre stavamo andando al cinema, ed entravamo nel
Sylvan proprio mentre il film stava per cominciare. Era raro che lei venisse
al cinema con me, specialmente nel bel mezzo di un sabato pomeriggio, ma
adorava Fred Astaire e andava spesso a vedere i suoi film. A me non
piaceva andare al cinema con lei perché non sapeva comportarsi, era spesso
scortese e non sapevo mai quello che avrebbe potuto succedere. Mi sentivo
in imbarazzo quando uno qualsiasi dei miei amici la incontrava. Una volta
dentro il cinema, mia madre adocchiò due posti in una fila centrale e ci si
sprofondò. Un ragazzo che sedeva accanto a uno dei posti vuoti disse: «Ehi,
signora, sto tenendo il posto per un amico».
«Oh, il pezzo grosso sta tenendo il posto!» replicò lei a voce alta, a
beneficio di tutti quelli che sedevano vicino, mentre io cercavo di
nascondermi tirando la camicia sulla testa e coprendomi la faccia. Proprio in
quel momento arrivò l’amico del ragazzo, e i due, guardandoci storto e
borbottando, si trasferirono in una fila laterale. Poco dopo l’inizio del film
rivolsi loro un’occhiata intimidita e incrociai lo sguardo del ragazzo, che mi
mostrò il pugno e muovendo le labbra sillabò: «Prima o poi ti becco».
E quello era il ragazzo che poi mi avrebbe spiaccicato sulla faccia il
cono gelato per mia madre. Dato che non poteva rivalersi su di lei, doveva
essersi ricordato l’accaduto ed essere rimasto in agguato per molto tempo,
finché mi aveva beccato da solo. Che piacere doppio doveva essere stato
per lui sapere che il cono era per mia madre: aveva preso due piccioni con
una fava!
Tutto questo sembra plausibile e il risultato è un racconto nel complesso
soddisfacente. Quanto è potente la nostra spinta a completare le parti
mancanti di una storia e a dare forma a qualcosa di perfettamente strutturato!
Ma era vero? Settant’anni dopo non ho speranze di risalire ai fatti “reali”,
ma forse l’intensità dei miei sentimenti in quei momenti, il desiderio di
combattere e la paralisi li hanno in qualche modo collegati. Era vero?
Ahimè, adesso non sono certo che si trattasse davvero dello stesso ragazzo, e
se la sequenza temporale fosse corretta: per quel che ne so, la scena del cono
potrebbe essere avvenuta prima dell’incidente al cinema.
Invecchiando per me diventa sempre più difficile verificare le risposte a
queste domande. Cerco di catturare parti della mia giovinezza, ma quando
faccio un controllo con mia sorella o con cugini e amici, sono sconvolto da
come ciascuno ricordi le cose in modo differente. E nella mia attività
quotidiana, mentre aiuto i pazienti a ricostruire le fasi iniziali delle loro
esistenze, mi convinco sempre più della natura fragile e sempre mutevole
della realtà. I ricordi, e senza dubbio anche questo, sono molto più
romanzeschi di quanto ci piaccia pensare.
9.
Il tavolo rosso
Il mio studio è situato in un piccolo edificio a una cinquantina di metri da
casa, ma le due strutture sono a tal punto circondate da piante e fogliame che
da casa si fatica a vedere lo studio, e viceversa. Trascorro la maggior parte
della giornata nello studio, scrivendo tutta la mattina e accogliendo i pazienti
nel pomeriggio. Quando mi sento irrequieto, vado fuori e mi distraggo con i
miei bonsai, li poto, li innaffio e ne ammiro la forma aggraziata, e intanto
penso alle domande che dovrei rivolgere a Christine, la mia maestra di
bonsai e amica intima di mia figlia, che abita a un solo isolato di distanza.
Dopo il giro serale in bicicletta, o una passeggiata con Marilyn,
trascorriamo il resto della serata nella biblioteca, leggendo, chiacchierando
o guardando un film. La stanza ha ampie finestre d’angolo e si apre su un
patio rustico in sequoia con arredi da giardino e una grande vasca con
idromassaggio anch’essa in sequoia, circondata da querce della California.
Le pareti sono coperte da centinaia di libri e l’arredo è quello tipico
californiano, cioè informale, con una comoda poltrona in cuoio e un divano
con una comoda fodera bianca e rossa. In un angolo, in netto contrasto con
tutto il resto, c’è il vistoso tavolo rosso di mia madre in stile falso barocco,
con le quattro gambe incurvate nere e oro e quattro sedie abbinate. Lì sopra
gioco a scacchi o ad altri giochi da tavolo con i miei figli, proprio come
settant’anni fa giocavo a scacchi con mio padre, la domenica mattina.
A Marilyn quel tavolo non piace, non si abbina a nulla in casa nostra, e
avrebbe una grande voglia di liberarsene, ma ha rinunciato da tempo
all’impresa. Sa che significa moltissimo per me, e ha accettato di tenere il
tavolo nella stanza, ma in esilio permanente, nell’angolo più remoto. Quel
tavolo è collegato a uno degli eventi più significativi della mia esistenza, e
ogni volta che lo guardo sono sopraffatto da sentimenti di nostalgia, orrore
ed emancipazione.

La prima fase della mia vita si divide in due parti: prima e dopo il mio
quattordicesimo compleanno. Fino ai quattordici anni ho vissuto con mio
padre, mia madre e mia sorella nel nostro piccolo e modesto appartamento
sopra la drogheria. L’appartamento era esattamente sopra il negozio, ma
l’ingresso era all’esterno, proprio dietro l’angolo. C’era un atrio dove
veniva lasciato il carbone, quindi la porta non veniva chiusa a chiave.
Quando faceva freddo, capitava di trovare uno o due ubriachi addormentati
sul pavimento.
Al piano di sopra c’erano le porte di due appartamenti: il nostro era
quello che dava su First Street. Avevamo due camere da letto, una per i
genitori e l’altra per mia sorella. Io dormivo nella piccola sala da pranzo, su
un divano che poteva essere trasformato in letto. Quando compii dieci anni
mia sorella andò al college e io presi possesso della sua camera. C’era una
piccola cucina con un tavolino sul quale consumavo tutti i miei pasti.
Durante l’intera infanzia mai, nemmeno una volta, ho pranzato con mio padre
o mia madre (eccetto la domenica, quando si riuniva l’intera comunità
familiare, dalle dodici alle venti persone). Mia madre cucinava e lasciava il
cibo sui fornelli, e io e mia sorella mangiavamo seduti al tavolino della
cucina.
I miei amici vivevano in luoghi simili, quindi mai mi era venuto il
desiderio di un appartamento più carino, ma il nostro aveva un unico e
persistente orrore: gli scarafaggi. Erano dappertutto, nonostante gli sforzi per
sterminarli: io ne ero (e ne sono tuttora) terrorizzato. Ogni notte mia madre
infilava le zampe del mio letto in ciotole piene d’acqua o di cherosene, per
impedire che s’arrampicassero fin dentro il letto. Tuttavia spesso mi
cadevano sopra dal soffitto. La notte, quando le luci erano spente, la casa era
loro, e potevo sentirli strisciare veloci sul pavimento di linoleum della
nostra minuscola cucina. Non osavo andare in bagno a fare pipì di notte, e
usavo invece un vaso che tenevo accanto al letto. Ricordo che una volta,
quando avevo all’incirca dieci o undici anni, stavo leggendo un libro in
salotto quando uno scarafaggio gigante volò attraverso la stanza e mi atterrò
in grembo (sì, gli scarafaggi possono volare; non lo fanno spesso, ma
possono!). Mi misi a urlare e mio padre accorse, lo buttò per terra e lo
schiacciò. La vista dello scarafaggio spappolato fu la cosa peggiore, e corsi
in bagno a vomitare. Mio padre cercò di calmarmi, ma non riusciva davvero
a comprendere come potessi essere così sconvolto da un insetto morto. (La
mia fobia degli scarafaggi è ancora qui, in stato d’ibernazione, ma da tempo
ormai non ha ragione di attivarsi: Palo Alto è un posto troppo secco per gli
scarafaggi e non ne vedo più uno da mezzo secolo: uno dei grandi vantaggi
della vita in California.)
Poi, un giorno, quando avevo quattordici anni, mia madre mi disse, quasi
per caso, che aveva comprato una casa e che molto presto ci saremmo
trasferiti. La cosa che ricordo, subito dopo, fu il mio ingresso nella nostra
nuova casa, in una strada graziosa e tranquilla a un solo isolato da Rock
Creek Park. Era una casa a due piani, ampia e bella, con tre camere da letto
e una sala giochi foderata di legno di pino nel seminterrato, un porticato
laterale coperto e un piccolo prato circondato da una siepe. Il trasferimento
era stato quasi completamente opera di mia madre: era stata lei ad acquistare
la casa, senza che mio padre si assentasse mai dal negozio per vederla.
Quando traslocammo? Vidi gli addetti ai traslochi? Quale fu la mia prima
impressione della casa? Come andò la mia prima notte lì dentro? E che dire
dell’enorme piacere di dire addio per sempre a quell’appartamento infestato
dagli scarafaggi, alla vergogna, alla sporcizia e alla povertà, e agli ubriachi
che dormivano nel nostro atrio? Devo aver sperimentato tutte queste cose,
ma rammento molto poco. Forse ero troppo preoccupato e ansioso all’idea
di passare a una nuova scuola, e di farmi nuovi amici. Ricordi ed emozioni
hanno una relazione curvilinea: un’emozione eccessiva o troppo ridotta
spesso provoca una carenza nel ricordo. Rammento bene di aver vagato per
la nuova casa e per il cortile pulito in preda allo stupore. Devo essere stato
orgoglioso di invitare gli amici nella nuova casa, devo essermi sentito più
tranquillo, meno spaventato, mi dev’essere stato più facile dormire lì dentro,
ma tutte queste sono solo supposizioni. Quello che davvero ricordo nel modo
più nitido di tutto quel periodo è la storia che mia madre raccontava con
orgoglio a proposito dell’acquisto del tavolo rosso.
Aveva deciso di comprare tutto nuovo e di non tenere nulla del vecchio
appartamento: nessun mobile, niente biancheria, nulla, con l’eccezione delle
pentole da cucina (quelle che uso ancora oggi). Anche lei doveva essere
stufa del modo in cui vivevamo, anche se non mi parlava mai dei suoi
desideri e sentimenti intimi. Tuttavia, più di una volta, mi raccontò la storia
del tavolo. Dopo aver comprato la casa era andata al Grande Magazzino
Mazor, un negozio di mobili molto popolare all’epoca, frequentato da tutte le
sue amiche, e in un unico pomeriggio aveva ordinato tutto il necessario per
una casa con tre camere da letto, inclusi i tappeti, gli arredi per la casa e il
porticato, e le sedie da giardino. Doveva trattarsi di un ordine enorme e,
proprio mentre il venditore stava facendo la somma, un vistoso tavolo da
gioco in stile neo-barocco con il ripiano in cuoio d’un rosso brillante e
quattro sedie in cuoio rosso abbinate attirò la sua attenzione. Mia madre
disse al venditore di aggiungere all’ordine il tavolo e le sedie. Lui le rispose
che quel particolare articolo era già stato venduto e che, purtroppo, per
colmo di sfortuna, non ce n’erano altri disponibili: quel modello non era più
in produzione. A quel punto mia madre gli disse di cancellare l’intero ordine
e prese in mano la borsa, pronta ad andarsene.
Forse faceva sul serio. Forse no. In ogni caso, la mossa funzionò. Il
venditore capitolò e il tavolo fu suo. Tanto di cappello, madre, per un bluff
così audace: ho giocato molto a poker, ma questo è il miglior bluff di cui
abbia sentito parlare. A volte sono stato tentato dall’idea di scrivere una
storia dal punto di vista della famiglia che non ha avuto il tavolo. C’è della
forza in quest’idea, si potrebbe raccontare la storia da entrambe le
prospettive, quella del grande bluff di mia madre e quella della delusione
dell’altra famiglia.
Possiedo ancora quel tavolo, nonostante mia moglie si lamenti che non
s’abbina a nulla nella nostra casa. Sebbene i suoi limiti estetici siano
evidenti anche a me, quel tavolo racchiude in sé i ricordi delle partite a
scacchi domenicali con mio padre e con gli zii, e in seguito con i miei figli e
nipoti. Quando ero alla scuola superiore giocavo nella squadra di scacchi e
indossavo con fierezza una felpa sportiva con sopra disegnato un grosso
pezzo del gioco. La squadra, composta da cinque membri, affrontava tutte le
scuole superiori di Washington. Io giocavo per primo e, dopo essere uscito
imbattuto dal mio ultimo anno a scuola, mi consideravo il campione
giovanile della città. Ma non migliorai mai abbastanza da poter giocare a un
livello superiore, in parte per colpa di mio zio Abe, che sbeffeggiava l’idea
di seguire le regole tradizionali, soprattutto nelle mosse d’apertura. Ricordo
come indicava la mia testa, diceva klug (intelligente) e m’incitava a usare la
mia buona kopf (testa) di Yalom e a giocare in modo poco ortodosso, per
confondere gli avversari. Questo in seguito si rivelò un pessimo consiglio.
Smisi di giocare a scacchi durante gli anni del college, prima della facoltà di
medicina, ma il giorno dopo esservi stato ammesso provai a entrare nella
squadra dell’università. Giocai come secondo membro per il resto del
semestre e poi, quando cominciai davvero a studiare, smisi di nuovo fino a
quando non mi decisi a insegnare a giocare ai miei figli, Victor e Reid, che
divennero giocatori eccellenti. Solo negli ultimi anni ho ripreso a
impegnarmi seriamente negli scacchi. Ho cominciato a prendere lezioni da
un maestro russo e ho visto lievitare il mio punteggio su Internet. Ma ormai è
troppo tardi, temo: l’inevitabile declino della memoria è un avversario
invincibile.
Se fosse dipeso da mio padre avremmo continuato a vivere sopra al
negozio a tempo indeterminato. Sembrava quasi indifferente a quello che lo
circondava. Mia madre gli comprava tutti i vestiti e gli diceva cosa
indossare, persino la cravatta, quando uscivamo la domenica.
Mio padre aveva una bella voce e amavo sentirlo cantare canzoni yiddish
assieme a zia Luba alle riunioni di famiglia. A mia madre invece non
importava nulla di nessun tipo di musica, e non l’ho mai sentita cantare una
sola nota: quel gene dev’essere passato da lei a me. La domenica mattina io
e mio padre giocavamo quasi sempre a scacchi sul tavolo barocco rosso, e
lui metteva delle canzoni yiddish sul fonografo e cantava, accompagnandole,
finché mia madre strillava: «Genug, Barel, genug!, basta così, Ben, basta
così!» e lui obbediva sempre. Erano le occasioni in cui mi deludeva di più:
avrei tanto voluto che invece le tenesse testa e l’affrontasse. Ma non accadde
mai.

Mia madre era un’ottima cuoca e spesso penso ai piatti che cucinava.
Spesso, ancora oggi, cerco di rifarli utilizzando le sue pentole massicce di
alluminio. Sono molto legato a quelle pentole. Il cibo ha un gusto migliore
quando le uso. I miei figli spesso le concupiscono, ma io ci sono ancora
troppo affezionato.
Quando traslocammo nella nostra nuova casa, mia madre cucinava ogni
giorno e poi guidava per venti minuti per raggiungere il negozio, dove
trascorreva il resto della giornata e della serata. Io riscaldavo il cibo e
mangiavo da solo, leggendo un libro. (Mia sorella Jean aveva cominciato a
frequentare l’Università del Maryland.) Mio padre veniva a casa a mangiare
e a schiacciare un pisolino, ma i nostri orari raramente coincidevano.
Blagden Terrace, la nostra nuova strada, era fiancheggiata da alti alberi di
sicomoro piantati davanti a case grandi e belle, tutte piene di ragazzini della
mia età. Ricordo come venni accolto il primo giorno. I bambini della via,
che stavano giocando a calcio, mi chiamarono subito a gesti: avevano
bisogno di altri giocatori, e io mi tuffai in mezzo a loro. Più tardi, quello
stesso giorno, direttamente sull’altro lato della strada, sul prato davanti a
casa sua, vidi il tredicenne Billy Nolan che lanciava la palla con il vecchio
nonno che, come seppi in seguito, un tempo era stato un lanciatore dei Boston
Red Sox. Io e Billy un giorno avremmo giocato a baseball insieme. Ricordo
anche la mia prima passeggiata per l’isolato. Adocchiai nel giardino di una
casa uno stagno con diverse foglie di ninfea, e la cosa mi eccitò moltissimo
perché sapevo che in quell’acqua avrei raccolto eccellenti campioni per il
mio microscopio: sciami di larve di zanzare che galleggiavano in superficie
e orde di amebe che avrei potuto grattar via dal fondo delle foglie di ninfea.
Ma come raccogliere quei campioni? Nel mio vecchio quartiere mi sarei
intrufolato nel giardino di notte e avrei rubato alcune creature sacrificabili
dallo stagno. Ma non avevo idea di come ci si dovesse comportare lì.
Blagden Terrace e dintorni offrivano un ambiente idilliaco. Niente
sporcizia, niente pericolo, niente crimine e mai un commento antisemita. Mio
cugino Jay, che è mio amico intimo da una vita, si era trasferito anche lui a
soli quattro isolati di distanza, e ci incontravamo spesso. Rock Creek Park
era a soli due isolati da casa, con il suo ruscello, le piste ciclabili, i campi
da baseball e da tennis. Nel vicinato si giocavano partite di baseball quasi
ogni giorno, dopo la scuola e fino a sera.
Tanti saluti ai ratti! Tanti saluti agli scarafaggi, al crimine, al pericolo e
alle minacce antisemite. Adesso la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Di
quando in quando tornavo al negozio per dare una mano, quando c’era
carenza di lavoranti, ma per lo più mi ero lasciato alle spalle quei luoghi
sordidi. E non avrei mai più dovuto mentire su dove abitavo. Se solo Judy
Steinberg, la mia ragazzina del campo estivo, avesse potuto vedere la mia
nuova casa!
10.
L’incontro con Marilyn
Incoraggio sempre gli studenti che aspirano a diventare terapeuti a sottoporsi
a una terapia personale. «Il vostro “io” è lo strumento più importante che
avete a disposizione. Imparate tutto quello che potete al riguardo. Non
lasciate che i vostri punti ciechi intralcino la comprensione dei pazienti o la
possibilità di entrare in empatia con loro». E tuttavia dall’età di quindici
anni sono stato così strettamente legato a un’unica donna e in seguito così
circondato dalla mia grande famiglia, che spesso mi domando se sono
davvero in grado di capire il mondo di una persona che viaggia attraverso la
vita da sola.
Penso spesso ai miei anni prima di Marilyn come a un periodo in bianco e
nero: il colore si è manifestato dopo che lei ha fatto il suo ingresso nella mia
vita. Ricordo il nostro primo incontro con una chiarezza sovrannaturale. Ero
al decimo anno della Roosevelt High School e vivevo in quella zona da
circa sei mesi. Un sabato, all’inizio della serata, dopo aver trascorso un paio
d’ore a giocare a bowling, Louie Rosenthal, uno dei miei compagni di gioco,
mi disse che c’era una festa lì vicino, in casa di Marilyn Koenick, e propose
di andarci. Ero timido, non amavo molto le feste e non conoscevo Marilyn,
che era al nono anno, mezzo semestre più indietro rispetto a me, ma siccome
non avevo altro da fare, accettai.
La casa era una modesta casetta a schiera in mattoni, identica a tutte le
altre case di Fourth Street, tra la Farragut e la Gallatin, con pochi gradini che
portavano al piccolo porticato d’ingresso. Nell’avvicinarci, vedemmo un
gruppo di ragazzini della nostra età che s’affollava sulla scala e nel
porticato, cercando di entrare dalla porta d’ingresso. Io, con la mia scarsa
socialità, girai immediatamente i tacchi e feci per tornarmene a casa, ma
Louie, l’amico pieno di risorse, mi afferrò per un braccio, indicò la finestra
che dava sul portico e propose di aprirla e infilarci dentro. Lo seguii
attraverso la finestra e ci facemmo strada tra la gente fino all’atrio dove,
esattamente al centro della folla che le girava attorno, una ragazza vivace,
molto piccola, molto graziosa, con i capelli castani, teneva banco. «È lei,
quella piccola, lei è Marilyn Koenick» disse Louie mentre s’avviava verso
la stanza attigua alla ricerca di qualcosa da bere. Ora, come ho detto, in
genere ero molto timido, ma quella notte stupii me stesso e, invece di fare
dietro front e battere in ritirata attraverso la finestra, avanzai tra la folla e mi
feci strada fino alla padrona di casa. Quando la raggiunsi non avevo idea di
cosa dirle e mi limitai a blaterare: «Salve, sono Irv Yalom e mi sono appena
intrufolato attraverso la tua finestra». Non ricordo le parole che
scambiammo prima che l’attenzione di lei venisse distratta da qualcun altro,
ma so che a quel punto ero spacciato: ero attratto da lei come un chiodo da
una calamita, ed ebbi la sensazione immediata, no, più che la sensazione la
convinzione, che quella ragazza avrebbe svolto un ruolo cruciale nella mia
vita.
Le telefonai il giorno dopo, in preda al nervosismo, la mia prima
telefonata a una ragazza, e la invitai al cinema. Era il mio primo
appuntamento. Di cosa parlammo? Ricordo che mi disse che di recente era
stata sveglia tutta la notte a leggere Via col vento, e si era dovuta assentare
da scuola il giorno successivo. Trovai la cosa così adorabile che quasi persi
la testa. Eravamo tutti e due amanti della lettura e immediatamente ci
ritrovammo immersi in interminabili discussioni sui libri. Per qualche
ragione sembrava provare un grande interesse per la mia dedizione alle
biografie della biblioteca centrale. Chi mai avrebbe potuto anche solo
immaginare che la mia avventura con le biografie dalla A alla Z si sarebbe
rivelata così utile? Ci suggerivamo i libri a vicenda: in quel periodo io
divoravo John Steinbeck e lei stava leggendo libri che non avevo mai preso
in considerazione, come Jane Eyre e Cime tempestose. A me piaceva James
Farrell, a lei Jane Austen, ed entrambi amavamo Thomas Wolfe – a volte ci
leggevamo a voce alta i brani più melodiosi di Angelo, guarda il passato.
Dopo solo qualche appuntamento scommisi trenta dollari con mio cugino Jay
che l’avrei sposata. Me li diede il giorno del mio matrimonio!
Che cosa c’era di speciale in lei? Mentre scrivo le mie memorie e torno a
familiarizzare con il mio “io” più giovane e mi rendo conto di quanto fossi
incasinato e quanto mi sia lamentato tutta la vita di non aver avuto un
mentore, all’improvviso mi viene in mente che io un mentore l’ho avuto! È
stata Marilyn. Il mio inconscio aveva afferrato che lei era l’unica persona in
grado di civilizzarmi ed elevarmi. La storia della sua famiglia era
abbastanza simile alla mia da farmi sentire a casa con lei, ma ne differiva
solo nei punti giusti. Anche i suoi genitori erano immigrati dall’Europa
orientale, ma erano giunti un quarto o mezza generazione prima dei miei e
avevano ricevuto una qualche istruzione laica. Il padre era arrivato da
adolescente, ma non nelle ristrettezze economiche del mio. Aveva avuto
un’istruzione, era un romantico, amava l’opera, e aveva viaggiato per il
paese come il suo eroe, Walt Whitman, svolgendo una varietà di lavori poco
qualificati per mantenersi. Dopo aver sposato Celia, la madre di Marilyn,
una donna dolce e bellissima che era cresciuta a Cracovia e non possedeva
traccia della grossolanità e della rabbia di mia madre, aveva aperto una
drogheria che, anni dopo il nostro incontro, scoprimmo che si trovava a un
solo isolato dal negozio di mio padre! A piedi o in bicicletta, devo essere
passato centinaia di volte davanti a quel negozio. Ma suo padre aveva avuto
la lungimiranza di non costringere la famiglia a vivere in quel quartiere
turbolento, insicuro, impoverito, così Marilyn era cresciuta in un quartiere
piccolo-borghese, modesto ma sicuro, e non aveva quasi mai messo piede
nel negozio del padre.
I nostri genitori s’incontrarono molte volte dopo che cominciammo a
uscire insieme e, paradossalmente, i suoi svilupparono un grande rispetto nei
confronti dei miei. Suo padre era consapevole che il mio era un uomo
d’affari di successo, e percepiva correttamente che mia madre possedeva
una mente acuta e penetrante, e che era lei la vera forza motrice alle spalle
del successo di mio padre. Sfortunatamente il padre di Marilyn morì quando
avevo ventidue anni e non ho mai avuto l’opportunità di conoscerlo bene,
anche se fu lui a portarmi per la mia prima volta all’opera (Il pipistrello).
A scuola Marilyn era indietro di sei mesi rispetto a me, e a quell’epoca
c’erano cerimonie per i diplomi a febbraio e a giugno. Pochi mesi dopo
averla incontrata assistetti al suo diploma, in febbraio, alla McFarland
Junior High (che era accanto alla mia scuola superiore) e l’ascoltai con
venerazione quando, con notevole compostezza, fece il suo discorso di
commiato. Oh, come ammiravo e amavo quella ragazza!
Fummo inseparabili per tutta la durata della scuola superiore: ogni giorno
pranzavamo assieme e, invariabilmente, ci vedevamo ogni fine settimana.
Provavamo una tale dedizione forte e condivisa per la letteratura che
qualsiasi altro interesse sembrava del tutto insignificante. Molto presto lei si
era innamorata della lingua, delle letteratura e della cultura francesi, mentre
io preferivo le scienze. Ero in grado di compiere l’impresa piuttosto
straordinaria di sbagliare la pronuncia di qualsiasi parola francese
incontrassi, mentre, per parte sua, quando utilizzava il mio microscopio lei
riusciva a vedere solo le proprie ciglia. Amavamo entrambi le lezioni di
letteratura inglese e, a differenza di altri studenti della scuola, eravamo
estasiati dalle letture che ci venivano assegnate: La lettera scarlatta, Silas
Marner, Il ritorno del nativo.
Un giorno, alle superiori, tutte le lezioni del pomeriggio vennero sospese
per permettere all’intera scuola di assistere alla proiezioni del film
britannico del 1946 Grandi speranze. Eravamo seduti vicini e ci tenevamo
per mano. Il film rimane uno dei nostri preferiti di sempre; con il passare dei
decenni, probabilmente abbiamo accennato a questo film centinaia di volte.
Mi spalancò il mondo di Dickens e nel giro di breve tempo divorai ogni
singolo libro da lui scritto. Li ho riletti molte volte da allora. Anni dopo,
quando tenevo conferenze e viaggiavo molto per gli Stati Uniti e la Gran
Bretagna, presi l’abitudine di visitare i negozi di libri usati e di comprare le
prime edizioni di Dickens. Rimangono l’unica cosa che abbia mai
collezionato.
Marilyn, anche allora, era così adorabile, intelligente e abile nelle
relazioni sociali da avere la meglio su tutti i suoi insegnanti. In quegli anni io
ero molte cose, ma nessuno, nemmeno nei sogni più sfrenati, avrebbe pensato
a me come a una persona adorabile. Ero un bravo studente ed eccellevo nelle
scienze e anche in inglese, con la signorina Davis che regolarmente
aumentava la mia impopolarità lodando i miei temi e inserendoli nella
bacheca della scuola. Sfortunatamente l’ultimo anno fui assegnato alla classe
della signorina McCauley, l’altra insegnante di inglese, che era anche
l’insegnante di Marilyn e la stimava moltissimo. Un giorno, nell’atrio, mi
vide mentre mi sporgevo sopra l’armadietto di Marilyn, chiacchierando con
lei, e da allora si rivolse sempre a me apostrofandomi come «il cowboy
dell’armadietto». Non mi perdonò mai per la corte che facevo a Marilyn e in
classe con lei non avevo speranze. Aveva l’abitudine di fare commenti aspri
e carichi di derisione sui miei temi scritti. Mi prendeva in giro per aver
interpretato goffamente la parte del messaggero in una lettura in classe di Re
Lear. Di recente due dei miei figli, sfogliando vecchie carte trovate in un
cassetto, si sono imbattuti in un testo entusiasta che avevo scritto sul
baseball, che la signorina McCauley aveva valutato “Appena sufficiente”, e
si sono sentiti profondamente offesi da commenti tipo: «Assurdo!» o «Un
simile entusiasmo per simili banalità», con i quali aveva impietosamente
costellato le mie pagine. E, badate bene, stavo scrivendo di giganti quali
Jolting Joe DiMaggio, Phil Rizzuto, King Kong Keller, Smokey Joe Page e il
“buon vecchio” Tommy Henrich.
Non ho mai dimenticato la grande fortuna di aver avuto Marilyn nella mia
vita da quando avevo quindici anni. Ha elevato i miei pensieri, stimolato la
mia ambizione e mi ha offerto un modello di grazia, generosità e dedizione a
una vita intellettuale. Quindi grazie, Louie, ovunque tu sia. Grazie per avermi
aiutato a strisciare attraverso quella finestra.
11.
I giorni del college
Due anni fa me ne stavo seduto in un caffè di Sausalito con il mio amico
Larry Zaroff, ammirando la baia di San Francisco. Il vento faceva
ondeggiare nell’aria i gabbiani e noi guardavamo il vaporetto di Sausalito
che avanzava a fatica verso la città, fino a sparire dalla nostra visuale. Io e
Larry ci stavamo abbandonando ai ricordi degli anni del college: eravamo
stati compagni di classe alla George Washington University e avevamo
seguito la maggior parte delle lezioni assieme: corsi estenuanti come chimica
organica, analisi qualitativa e anatomia comparata, nel corso della quale
sezionavamo ogni singolo organo e muscolo di un gatto. Eravamo persi nei
ricordi di giorni che, per me, erano stati i più stressanti della mia vita,
quando Larry si era lanciato nel racconto della festa scatenata di una
confraternita, a base di bevute turbolente e valanghe di studentesse
disponibili.
Avevo rizzato le orecchie. «Confraternita? Quale confraternita?»
«Ma la TEP , ovviamente».
«Di cosa stai parlando?»
«Della Tau Epsilon Pi. Che ti prende oggi, Irv?»
«Che mi prende? Sono davvero turbato. Ti vedevo ogni giorno al college
e non ho mai sentito parlare di una confraternita alla GW. Perché non mi è
stato proposto di farne parte? Perché non mi hai invitato?»
«Irv, come puoi aspettarti che me lo ricordi? Siamo nel 2014, e noi
abbiamo cominciato la GW nel 1949».
Appena tornato a casa, avevo telefonato al mio caro amico Herb Kotz, a
Washington. Io, Herb e Larry eravamo sempre insieme al college. Eravamo i
tre migliori studenti di tutte le lezioni a cui partecipavamo, e andavamo a
scuola in macchina e pranzavamo insieme quasi ogni giorno.
«Herb, poco fa ho parlato con Larry, e mi ha detto che alla GW
apparteneva a una confraternita, la TEP . Lo sapevi?»
«Be’, certo. Ne facevo parte anch’io».
«COSA? Anche tu? Non ci posso credere. Perché non mi avete chiesto di
farne parte?»
«Chi si può ricordare una cosa successa tanto tempo fa? Probabilmente te
l’ho chiesto, ma tutto quello che si faceva era partecipare a bevute di birra il
venerdì sera, e tu odi la birra, e a quell’epoca non uscivi con nessuna
ragazza, ti limitavi a essere fedele a Marilyn».
Per un po’ di tempo avevo covato in me quel rancore, fino a quando,
qualche mese fa, durante le grandi pulizie di casa, Marilyn aveva trovato una
lettera del 1949 nella quale mi si accettava come membro della Tau Epsilon
Pi, assieme a un certificato di iscrizione. A quanto pareva ero stato membro
della confraternita, ma non avevo mai frequentato alcun incontro e ne avevo
cancellato dalla memoria qualsiasi ricordo!

Quest’episodio delinea in modo limpido quanto fossi teso e ansioso


quand’ero uno studente universitario della George Washington, situata a
quindici minuti di auto da casa mia. Ancora oggi provo invidia nei confronti
di chi ricorda una gioiosa esperienza universitaria: lo spirito di classe, i
compagni di stanza destinati a diventare amici per la vita, il cameratismo che
nasceva attorno agli eventi sportivi, le burle delle confraternite, una stretta
relazione con un mentore, di solito un professore, e le società segrete simili
a quella descritta nel film L’attimo fuggente. È stata una parte di vita che mi
è sfuggita completamente, e tuttavia so anche che ero così ansioso e a disagio
con me stesso che è stato un bene che io non abbia frequentato un college
della Ivy League: dubito che mi sarei divertito, o persino che sarei
sopravvissuto, a un’esperienza universitaria del genere.
Nella mia attività di terapeuta sono sempre stato colpito dalla frequenza
con cui i miei pazienti recuperano ricordi di varie fasi della propria vita
quando i loro figli attraversano quelle stesse esperienze. È capitato anche a
me, anni fa, quando i miei figli erano all’ultimo anno di scuola superiore e
stavano considerando l’idea del college, e mi è capitato di nuovo quando
mio nipote, Desmond, ha cominciato a frequentarlo. Ero sbalordito e
invidioso delle numerose risorse messe a disposizione sua e dei suoi
compagni per aiutarli nella scelta della scuola. Desmond aveva consulenti
per il college, guide su carta alle cento migliori università per le materie
umanistiche, incontri con le squadre di reclutamento dei vari college. Non
ricordo di aver avuto alcuna guida ai miei tempi: nessun consulente per il
college e, naturalmente, i miei genitori e i parenti non sapevano nulla
dell’intero processo. Inoltre, e questo era stato fondamentale, non conoscevo
nessuno nella mia scuola o nel quartiere che avesse deciso di frequentare un
college lontano da casa: tutti quelli che conoscevo avevano scelto uno dei
due college locali, l’Università del Maryland o la George Washington
(entrambe, all’epoca, istituzioni enormi, mediocri e impersonali). Il marito
di mia sorella, Morton Rose, ebbe un’influenza importante. Avevo un grande
rispetto nei suoi confronti: era un ottimo medico, aveva frequentato la
George Washington sia per l’università che per la specializzazione in
medicina, ed ero convinto che se la George Washington era stata abbastanza
buona per lui, lo sarebbe stata anche per me.
Alla fine, quando la mia scuola superiore mi assegnò la borsa di studio
Emma K. Karr, che prevedeva il completo pagamento della retta alla GW, la
questione fu risolta: non aveva importanza che la retta annuale fosse di soli
trecento dollari.
All’epoca sentivo che tutta la mia vita, il mio intero futuro erano messi in
gioco. Sapevo fin dall’incontro con il dottor Manchester all’età di
quattordici anni che volevo iscrivermi alla facoltà di medicina, ma era
risaputo che tali facoltà avevano una quota limitata al cinque per cento di
studenti ebrei: la facoltà di medicina della George Washington aveva classi
di cento studenti, ma accettava soltanto cinque ebrei ogni anno. La
confraternita ebraica della scuola superiore a cui appartenevo (Upsilon
Lambda Phi) aveva ben più di cinque studenti brillanti all’ultimo anno che
progettavano di scegliere un curriculum preparatorio alla facoltà di medicina
per poi fare domanda e frequentarla, e si trattava solo di una delle numerose
confraternite di Washington. La concorrenza sembrava schiacciante e quindi,
fin dal primo giorno di college, puntai a una strategia precisa: avrei messo
da parte qualsiasi altra cosa, lavorato più duramente di chiunque altro e
ottenuto valutazioni così elevate che una facoltà di medicina sarebbe stata
costretta ad accettarmi.
Risultò che non ero l’unico a seguire quell’approccio. Sembrava che tutti
i giovani che conoscevo, tutti i figli degli immigrati ebrei provenienti
dall’Europa e arrivati dopo la prima guerra mondiale, pensassero alla
medicina come alla professione ideale. Se uno non riusciva a entrare alla
facoltà di medicina, allora c’era la scuola per dentisti, quella di
giurisprudenza, quella veterinaria o anche, opportunità estrema e meno
desiderabile per gli idealisti che erano tra noi, si poteva entrare in affari con
il padre. Una battuta popolare a quei tempi era: un maschio ebreo ha due
opzioni, diventare un dottore o un fallito.
I miei genitori non furono coinvolti nella mia decisione di frequentare la
GW. In quei giorni non comunicavamo molto: il negozio era a mezz’ora di
macchina da casa e li vedevo poco, eccetto la domenica. Anche allora,
tuttavia, parlavamo di rado di qualunque cosa minimamente importante.
Erano anni che rivolgevo a stento la parola a mia madre, da quando mi aveva
accusato di essere la causa dell’attacco di cuore di mio padre. Avevo preso
la decisione di proteggermi mantenendo le distanze. Avrei desiderato una
maggiore vicinanza con mio padre, ma lui e mia madre erano troppo
profondamente legati l’uno all’altra.
Ricordo che una volta avevo accompagnato mia madre al negozio in
macchina, durante l’ultimo anno della scuola superiore. Mentre stavamo
raggiungendo la zona del parco della Casa del Soldato, a soli cinque minuti
dal negozio, mi aveva chiesto dei miei progetti futuri. Avevo risposto che
intendevo cominciare il college l’anno successivo e che avevo intenzione di
cercare di entrare alla facoltà di medicina. Lei aveva annuito ed era
sembrata estremamente contenta, ma era finita lì. Non parlammo più dei miei
progetti futuri. Quando ci penso adesso, mi chiedo se lei e mio padre
potessero essere in qualche modo intimiditi da me, se sentissero che non
potevano più relazionarsi con me, e se già mi avessero perduto in quella
cultura che non potevano capire.
Ciò nonostante diedi per scontato che avrebbero pagato la retta e tutte le
altre spese durante gli anni del college e della facoltà di medicina. A
prescindere dallo stato delle nostre relazioni, per la cultura dei miei genitori
sarebbe stato impensabile agire altrimenti, e io ho seguito il loro esempio
con i miei figli.
Così, per me e per i miei amici più cari, l’università non fu il luogo che
avevamo sognato, ma un ostacolo da superare il più rapidamente possibile.
Di solito gli studenti entrano nella facoltà di medicina dopo quattro anni di
università e una laurea di primo livello, ma capitava che le scuole di
medicina accettassero richiedenti d’eccezione dopo soli tre anni di studio
universitario, a condizione che avessero seguito tutte le lezioni richieste. Io,
come i miei compagni, optai per quel programma e di conseguenza seguii
quasi esclusivamente i corsi propedeutici alla medicina (chimica, fisiologia,
biologia, fisica, anatomia dei vertebrati e tedesco).
Cosa ricordo dei miei giorni all’università? Durante i tre anni di college
scelsi solo tre materie facoltative, tutti corsi di letteratura. Vivevo in casa e
mi sottoponevo a una routine brutale: lavoro duro, memorizzazione,
esperimenti di laboratorio, nottate in piedi a preparare gli esami, studio sette
giorni alla settimana.
Perché una simile frenesia? Perché tutta questa fretta? Sarebbe stato
assolutamente impensabile per me o, se è per questo, per uno qualsiasi dei
miei amici intimi, decidere di prendersi un “anno sabbatico”, entrare a far
parte di un’organizzazione come i Peace Corps (che ancora non esistevano),
offrirsi volontari per svolgere lavori umanitari in altri paesi, oppure optare
per un’altra delle molte possibilità così diffuse nel mondo dei miei figli e
dei loro coetanei. Su tutti noi incombeva l’onnipresente pressione di essere
ammessi alla facoltà di medicina. E a nessuno di noi capitò di impiegare
anche solo un po’ di più del tempo necessario per entrarci. Ma io provavo
una pressione aggiuntiva: dovevo consolidare la mia relazione con Marilyn.
Dovevo avere successo, dimostrarle che avrei fatto una solida carriera e
sarei diventato una persona di tale rilievo da convincerla a sposarmi. Era
indietro di mezzo anno rispetto a me, e la sua insegnante di francese insistette
affinché facesse domanda al Wellesley College, che la accettò
immediatamente. Durante l’ultimo anno delle superiori la sua mentore le
disse che era troppo giovane per essere “accoppiata” in modo permanente e
le consigliò, di quando in quando, di provare a uscire con altri ragazzi. La
cosa non mi andava certo a genio, e ricordo ancora oggi i nomi dei due
ragazzi con cui aveva avuto degli appuntamenti. Appena partì per il
Wellesley, fui assalito dalla grande ansia di perderla: sentivo di non poter
competere con i tipi della Ivy League che avrebbe incontrato. Le scrivevo
continuamente, esprimendole la preoccupazione di non essere abbastanza
interessante per lei, che lei uscisse con altri e io potessi perderla. All’epoca
tutta la mia vita era totalmente immersa nelle scienze propedeutiche alla
medicina, per le quali Marilyn non provava il minimo interesse. Ho
conservato le lettere di Marilyn, e qualche anno fa Wellesley, la rivista del
college, ne ha pubblicate alcune.
Nel corso di quegli anni ero così oppresso dall’ansia e avevo tali
problemi d’insonnia che avrei dovuto vedere un terapeuta, ma allora questa
non sembrava un’opzione praticabile. Tuttavia, se allora avessi incontrato un
terapeuta come me, immagino che il dialogo si sarebbe svolto più o meno
così:
DOTTOR YALOM: Al telefono mi ha detto che la sua ansia era quasi insopportabile. Mi racconti altro
a questo proposito.
IRVIN: Guardi le mie unghie, mangiate quasi fino alla carne viva. Me ne vergogno e cerco di
nasconderle quando sono con altre persone: le guardi. Una sorta di morsa mi comprime il petto. Il sonno
completamente stravolto. Uso la Dexedrina e il caffè per stare sveglio di notte e studiare per gli esami e
adesso non riesco più a dormire senza le pillole per il sonno.
DOTTOR YALOM: Che cosa prende?
IRVIN: Seconal, ogni notte.
DOTTOR YALOM: Chi glielo prescrive?
IRVIN: Lo sgraffigno ai miei vecchi. Per quel che posso ricordare hanno preso una pillola di Seconal
ogni singola notte. Mi chiedo se l’insonnia non sia per caso genetica.
DOTTOR YALOM: Ha parlato di una forte pressione accademica quest’anno. Come dormiva gli
anni precedenti, per esempio quando andava alla scuola secondaria?
IRVIN: A volte avevo un’eccessiva pressione sessuale e mi dovevo masturbare per addormentarmi.
Ma in generale ho dormito bene fino a quest’anno.
DOTTOR YALOM: Questo risponde alla sua domanda a proposito dell’origine genetica
dell’insonnia. Pensa che i suoi compagni di studi stiano tutti sperimentando lo stesso grado di ansia e i
suoi stessi problemi con il sonno?
IRVIN: Ne dubito, di certo non gli studenti non ebrei che vogliono entrare alla facoltà di medicina.
Sembrano più rilassati. Uno di loro fa il lanciatore per la squadra di baseball della GW, altri hanno un
sacco di appuntamenti con le ragazze, o sono impegnati con le attività della confraternita.
DOTTOR YALOM: Quindi questo sembra suggerire che non ci sia nulla di genetico o legato
all’ambiente, ma piuttosto dipenda dal modo particolare, o magari dovremmo dire unico, in cui lei
reagisce al suo ambiente.
IRVIN: Lo so, lo so, sono un fanatico. Ho studiato più del necessario per ogni corso che ho seguito,
per ogni esame che ho dato. Ogni volta che viene esposto in bacheca un grafico delle valutazioni della
classe, per un qualsiasi esame, sono fuori dalla media, sono molto, molto al di sopra del punteggio che mi
serviva per ricevere una A. Ma ho bisogno di certezza: sono agitatissimo.
DOTTOR YALOM: Perché è così agitato? Cosa pensa ci sia dietro a questo?
IRVIN: Be’, innanzitutto c’è una quota del cinque per cento per gli ebrei che vogliono entrare nella
facoltà di medicina: ed è già una bella pressione!
DOTTOR YALOM: Ma dice di aver studiato più del necessario. Quindi una A non era sufficiente,
doveva essere una “Super A”. Gli amici ebrei che sono nella sua stessa situazione sono frenetici come
lei?
IRVIN: Anche loro lavorano come dannati. Spesso studiamo assieme. Ma non raggiungono il mio
livello di frenesia. Forse hanno una vita domestica più piacevole. Hanno altre cose nelle loro vite, escono
con le ragazze, giocano a pallacanestro: penso che siano più equilibrati.
DOTTOR YALOM: E il suo equilibrio com’è?
IRVIN: All’incirca un ottantacinque per cento di studio e un quindici per cento di preoccupazione.
DOTTOR YALOM: Il quindici per cento di preoccupazione è per l’ammissione alla facoltà di
medicina?
IRVIN: In parte, ma c’è anche qualcos’altro: la mia relazione con Marilyn. Voglio assolutamente,
disperatamente vivere la mia vita con lei. Abbiamo fatto coppia fissa per tutte le scuole superiori.
DOTTOR YALOM: Adesso la vede?
IRVIN: È al Wellesley, nel Massachusetts, per i prossimi quattro anni, ma ci scriviamo quasi un
giorno sì e uno no. A volte le telefono, ma le interurbane sono troppo costose, e mia madre me lo fa
pesare davvero molto. Marilyn ama il Wellesley e sta facendo una normale e sana vita universitaria, che
include anche la frequentazione di altri ragazzi, e ogni volta che accenna a un qualche tipo di Harvard
con cui è uscita mi sembra di dar fuori di matto.
DOTTOR YALOM: Ha paura di…?
IRVIN: Ovvio, che incontri un ragazzo che ha molto di più da offrirle: più bello, di classe sociale
superiore, con una famiglia sofisticata, un futuro migliore davanti a sé… tutta quella roba.
DOTTOR YALOM: E lei può offrire…?
IRVIN: È per questo che l’ammissione alla facoltà di medicina significa tanto per me: non sento di
avere molto altro in serbo.
DOTTOR YALOM: Sta uscendo con altre donne?
IRVIN: No, non ho tempo.
DOTTOR YALOM: Quindi sta conducendo una vita monastica? Dev’essere dura, soprattutto se la
sua ragazza non lo sta facendo.
IRVIN: Esatto! In altre parole, io faccio coppia fissa e lei no.
DOTTOR YALOM: Solitamente questi sono anni di forti impulsi sessuali.
IRVIN: Già, mi sento mezzo rimbambito, a volte anche di più, per via del sesso per la maggior parte
del tempo. Ma che posso fare? Non posso incontrare una ragazza e dire: «Sono innamorato di un’altra
che è molto lontana e tutto quello che voglio da te è il sesso». Dovrei forse mentire? Non sono bravo a
farlo. Non sono quello che lei definirebbe un tipo semplice e, per il futuro più prossimo, sono condannato
alla frustrazione. Fantastico spesso di incontrare una vicina di casa bella e arrapata, che brama fare
sesso quando il marito è fuori città. Quello sarebbe perfetto. Specialmente il fatto della vicina di casa:
niente tempi di spostamento.
DOTTOR YALOM: Irvin, sono persuaso che lei sia molto più agitato di quanto debba esserlo in
realtà. Penso che trarrebbe vantaggio da una qualche forma di terapia. Si porta in giro una tonnellata di
ansia e ha un sacco di lavoro da fare: capire perché la sua vita è così priva di equilibrio, perché ha
bisogno di studiare più del necessario, perché è convinto di avere così poco da offrire, perché riesce a
essere così soffocante con questa donna, con il rischio di farla scappare via. Credo di poterla aiutare e
le suggerisco di incontrarci due volte la settimana.
IRVIN: Due volte la settimana! Mi ci vuole quasi mezz’ora per arrivare qui, e mezz’ora per tornare
indietro. Il che fa quattro ore alla settimana. E ho un esame quasi ogni sette giorni.
DOTTOR YALOM: Avevo il sospetto che avrebbe potuto rispondermi così, quindi vorrei fare
un’altra considerazione. Lei non l’ha detto, ma ho il forte presentimento che, con il progredire dei suoi
studi medici, lei possa provare un interesse particolare per la psichiatria; se così fosse, le ore che
passeremmo assieme svolgerebbero una duplice funzione: non solo le sarebbero d’aiuto, ma
accrescerebbero la sua comprensione di questo ambito.
IRVIN: Capisco il valore di quello che dice, ma quel futuro sembra così… così… futuristico. In
questo momento l’ansia è il nemico incombente e temo che togliere quattro ore alla mia settimana di
studio potrebbe solo generare più ansia di quella che potremmo mitigare con le nostre conversazioni. Mi
ci faccia pensare!

Volgendomi a guardare indietro, vorrei aver davvero cominciato la terapia


all’università, ma negli anni Cinquanta non conoscevo nessuno che si fosse
sottoposto a una psicoterapia. In qualche modo superai quei tre orribili anni.
Mi aiutò enormemente il fatto che io e Marilyn trascorrevamo assieme le
vacanze estive, lavorando come consulenti. Quelle giornate ai campi estivi
erano prive di stress accademico: mi cullavo nel mio amore per lei e mi
occupavo dei nostri giovani campeggiatori e giocavo e insegnavo a giocare a
tennis e facevo amicizia con persone che s’interessavano d’altro, non solo di
medicina. Un anno il mio compagno di consulenze fu Paul Horn, che divenne
un celebre flautista, e siamo rimasti amici fino alla sua morte.
Con l’eccezione di queste parentesi estive, i miei anni universitari furono
inesorabilmente cupi, trascorsi in classi enormi e con minimi contatti con i
professori. Tuttavia, nonostante la tensione e le lezioni prive di fantasia,
trovavo affascinante il contenuto di tutti i miei corsi di scienze. Questo era
vero in particolare per la chimica organica: mi affascinava l’anello
benzenico, con la sua bellezza e semplicità abbinate a un’infinita
complessità, e per due estati mi guadagnai qualcosa assistendo altri studenti
su quest’argomento. I miei corsi preferiti, tuttavia, erano quelli facoltativi,
tutti sulla letteratura: Poesia americana moderna, Il teatro mondiale e La
nascita del romanzo. In questi corsi mi sentivo vivo e godevo a leggere i
libri e a stilare le relazioni, le uniche che scrissi negli anni del college.
Il corso sul teatro mondiale spicca in particolare nella mia mente. La
classe era formata soltanto da quaranta studenti, la classe più piccola che
avessi mai frequentato al college, e il contenuto era ammaliante. In quella
classe ebbi il mio unico memorabile contatto personale con un professore,
un’attraente signora di mezza età che portava i capelli biondi raccolti in uno
chignon e una volta mi chiese di recarmi nel suo ufficio. Si espresse nel
modo più positivo possibile a proposito del mio scritto sul Prometeo
incatenato di Eschilo, comunicandomi che lo scritto era superbo e il
pensiero originale, e mi chiese se avessi considerato una carriera in ambito
umanistico. Ancora oggi ricordo il suo volto luminoso: fu l’unico docente ad
aver conosciuto il mio nome.
Tranne un B+ in tedesco, ebbi un record costante di A+ per tutto il college
ma, anche così, la richiesta di entrare in una facoltà di medicina fu un
processo sfibrante. Inviai la mia richiesta a diciannove facoltà di medicina e
ricevetti diciotto rifiuti e un’unica risposta positiva (dalla facoltà di
medicina della GW, che non poteva respingere un laureato della stessa GW
con una media di quasi 4.0). In qualche modo l’antisemitismo delle scuole di
medicina non mi offendeva: era onnipresente, non avevo mai conosciuto
altro e, seguendo l’esempio dei miei genitori, lo davo semplicemente per
scontato. Non assunsi mai un atteggiamento da attivista e nemmeno fremetti
di rabbia dinanzi alla palese ingiustizia del sistema. Considerando adesso le
cose, credo che il non sentirmi offeso fosse dovuto alla mancanza di
autostima: avevo accettato la visione del mondo dei miei oppressori.
Posso ancora sentire i brividi di euforia che provai quando ricevetti la
lettera di ammissione della GW: fu l’esperienza più elettrizzante della mia
vita. Mi precipitai a telefonare a Marilyn. Lei cercò di essere entusiasta, ma
non aveva mai realmente dubitato della mia ammissione. Da quel momento la
mia vita cambiò, avevo del tempo libero. Presi in mano un romanzo di
Dostoevskij e cominciai a rileggerlo. Partecipai a una selezione per la
squadra di tennis del college e riuscii a giocare nel doppio, ed entrai a far
parte della squadra di scacchi dell’università, dove fui il secondo giocatore
nei diversi incontri con altre università.

Considero il primo anno alla facoltà di medicina come il peggiore della mia
vita, non solo per colpa delle pretese accademiche, ma perché Marilyn era in
Francia, dove stava trascorrendo il suo terzo anno di università. Ci davo
dentro e memorizzavo quello che mi veniva chiesto di studiare, lavorando
forse persino più duramente di quanto avessi fatto quando aspiravo alla
facoltà di medicina. Il mio unico piacere era costituito dalla relazione con
Herb Kotz e Larry Zaroff, i miei amici di una vita. Erano loro i miei
compagni nel laboratorio di anatomia quando dissezionavamo il nostro
cadavere, che avevamo battezzato Agamennone.
Riluttante all’idea di sopportare un’ulteriore separazione da Marilyn,
verso la fine del primo anno decisi di spostarmi a Boston e, mirabile dictu,
venni accettato dalla facoltà di medicina dell’Università di Boston in qualità
di studente trasferito e, quando Marilyn fece ritorno dal suo anno in Francia,
ci fidanzammo. A Boston affittai una stanza in una grande pensione a quattro
piani sulla Back Bay, in Marlborough Street. Era il mio primo anno lontano
da casa e la vita cominciò a cambiare in meglio, tanto interiormente che
esteriormente. Altri studenti della facoltà di medicina vivevano nella stessa
pensione, e in breve mi feci degli amici. Uno di loro, Bob Berger, sarebbe
rimasto un mio grande amico per tutta la vita. Ma parlerò di Bob più avanti.
Tuttavia il pièce de résistance del mio soggiorno a Boston per il secondo
anno di facoltà di medicina era costituito dai fine settimana con Marilyn. Il
Wellesley College aveva regole molto rigide per le studentesse che
trascorrevano la notte fuori dal college, così ogni settimana Marilyn doveva
inventarsi una qualche scusa plausibile per stare fuori e ottenere un invito da
parte di una qualche amica di larghe vedute. Studiavamo parte del fine
settimana, giravamo in macchina lungo la costa del New England, visitavamo
i musei di Boston e cenavamo al Durgin-Park.
Anche la mia vita interiore stava cambiando. Non ero più così agitato,
solo un po’ ansioso, e finalmente dormivo bene. Fin dal mio primo anno alla
facoltà di medicina sapevo che mi sarei specializzato in psichiatria, anche se
avevo seguito solo poche lezioni sull’argomento, e non avevo mai parlato
con uno psichiatra. Penso di aver deciso di fare psichiatria addirittura prima
di entrare alla facoltà di medicina: veniva dalla passione per la letteratura e
dalla convinzione che la psichiatria mi permettesse di avvicinarmi a tutti i
grandi scrittori che amavo. Il mio piacere più grande consisteva nel
perdermi nel mondo di un romanzo, e non facevo che ripetermi che la cosa
migliore che una persona potesse fare nella vita era scriverne uno di valore.
Ho sempre avuto brama di storie, e da quando lessi per la prima volta
L’isola del tesoro nella prima adolescenza mi sono tuffato profondamente
nella narrativa che i grandi scrittori ci offrono. Persino mentre scrivo queste
parole all’età di ottantacinque non vedo l’ora di tornare, questa sera, alla
Marcia di Radetzky di Joseph Roth. Centellino questo libro e combatto la
spinta a divorarlo tutto d’un colpo. Quando, come in questo caso, la storia è
più della narrazione di una vita, ed è anche un’esplorazione del desiderio,
della paura e della ricerca di significato da parte dell’uomo, allora sono
ammaliato: ammaliato dal fatto che quel dramma sia doppiamente carico di
significato, appartenga non solo a un’esistenza particolare, ma anche a un
processo parallelo che si sta svolgendo in un’intera cultura, nella fattispecie
nell’impero austro-ungarico negli anni precedenti alla prima guerra
mondiale.
Nonostante il mio amore per la letteratura, la medicina non fu mai una
decisione forzata, perché sono sempre stato affascinato anche dalla scienza,
specialmente dalla biologia, dall’embriologia e dalla biochimica. E c’era
sempre anche il forte desiderio di essere d’aiuto, e di passare ad altri quello
che il dottor Manchester mi aveva offerto all’epoca della mia crisi.
12.
Il matrimonio con Marilyn
Quando ci sposammo, nel 1954, Marilyn era già del tutto francofila. Dopo
aver trascorso il terzo anno di studi in Francia, sognava una luna di miele in
Europa, laddove io, ragazzo di provincia che non s’era mai allontanato dal
nordest degli Stati Uniti, non avevo il minimo interesse ad andare all’estero.
Ma lei fu astuta: «Che ne dici di una luna di miele in Francia in
motocicletta?» Sapeva che ero affascinato da moto e motociclette, e sapeva
anche che negli Stati Uniti non era possibile affittarle. «Ecco, guarda qui»
disse, e mi porse un annuncio in cui si affittava una Vespa a Parigi.
E così partimmo alla volta di Parigi, dove tutto eccitato scelsi una grossa
Vespa presso un noleggiatore a un isolato dall’Arco di Trionfo. Anche se non
avevo mai sfiorato e tanto meno guidato una Vespa, dovevo rassicurare il
sospettoso gestore e dimostrare di essere un guidatore esperto. Montai sulla
Vespa e, con la massima scioltezza possibile, gli chiesi dove fossero
l’avviamento e il pedale del gas. Lui assunse un’aria seriamente preoccupata
mentre mi mostrava il piccolo pulsante per l’avviamento e mi diceva di
girare le manopole del manubrio per controllare il flusso del gas. «Oh»
dissi. «Negli Stati Uniti è diverso». E senza altre parole partii per un giro di
prova, mentre Marilyn saggiamente mi attendeva in un caffè lì accanto.
Ahimè, mi trovavo in una via a senso unico che s’immetteva direttamente
nella strada principale, caotica e a dieci corsie, che girava attorno all’Arco
di Trionfo. Quel giro di novanta minuti fu una delle esperienze più
tormentose della mia vita: automobili e taxi sfrecciavano a destra e a
sinistra, i clacson strombazzavano, i finestrini venivano abbassati, contro di
me venivano lanciati urli e agitati i pugni. Non capivo una parola di
francese, ma avevo la netta sensazione che le frasi che mi venivano gridate
non fossero parole di benvenuto. Mi si spense il motore almeno trenta volte
nel corso della mia eroica circumnavigazione dell’Arco di Trionfo, ma
un’ora e mezzo più tardi, quando riuscii a tornare al caffè accanto al
noleggiatore a prendere mia moglie, sapevo guidare una Vespa.

Tre settimane prima nel Maryland, il 27 giugno 1954, ci eravamo sposati, e


il nostro pranzo di nozze aveva avuto luogo all’Indian Spring Country Club,
di proprietà di Samuel Eig, facoltoso zio di Marilyn. Subito dopo cominciai
a darmi da fare per mettere assieme i soldi per la nostra vacanza in Europa: i
miei genitori mi mantenevano e pagavano la retta della facoltà di medicina, e
non era assolutamente possibile che chiedessi loro di pagare anche il
viaggio. Negli ultimi due anni io e mio cugino Jay avevamo venduto fuochi
d’artificio per il 4 luglio in una bancarella che ci eravamo costruiti (Jay era
quello che aveva scommesso trenta dollari che non avrei sposato Marilyn).
L’anno precedente era stato disastroso per il commercio dei fuochi artificiali
a causa della violenta pioggia caduta il 3 e 4 luglio, e noi avevamo avuto la
brillante idea di comprare l’intera merce rimasta invenduta nelle altre
bancarelle a un prezzo molto basso, mettendola da parte per l’anno
successivo in grossi barili d’acciaio. Avevamo fatto delle prove e i vecchi
fuochi d’artificio avevano funzionato alla perfezione. La fortuna ci arrise,
all’inizio del luglio 1954 il tempo fu splendido e guadagnai denaro più che a
sufficienza per una luna di miele in Europa con la mia sposa.
Subito dopo aver noleggiato la Vespa, io e Marilyn partimmo con gli zaini
in spalla, alla volta della campagna francese. Per tre settimane
scorrazzammo in moto attraverso la valle della Loira, la Normandia e la
Bretagna, esplorando magnifici castelli e chiese, incantati dai blu miracolosi
delle vetrate di Chartres. A Tours visitammo la famiglia adorabile che aveva
ospitato Marilyn per i primi due mesi del suo precedente anno all’estero.
Ogni giorno, lungo la strada, pranzavamo in bellissimi pascoli, mangiando il
celestiale pane francese con formaggio e vino. Marilyn mangiava anche il
prosciutto. I suoi genitori erano più laici e non rispettavano le leggi
alimentari religiose, mentre io appartengo a quel vasto esercito di ebrei
irrazionali che hanno completamente gettato a mare qualsiasi credenza
religiosa e tuttavia non mangiano il maiale (con l’eccezione, s’intende, dei
ravioli con carne di maiale dei ristoranti cinesi). Dopo tre settimane
tornammo a Parigi, prendemmo un treno per Nizza, quindi noleggiammo una
minuscola Fiat Topolino per girare l’Italia in macchina per un mese. Un
ricordo vivido che mi rimane della nostra escursione in Italia fu, la prima
notte, il soggiorno in una piccola locanda affacciata sul Mediterraneo. Come
dessert per il menu a prezzo fisso venne posta sul tavolo una grossa ciotola
piena di frutta assortita. Ne fummo estasiati: i soldi stavano finendo e ci
riempimmo le tasche per il pranzo del giorno dopo. Quando pagammo il
conto, la mattina successiva, ci sentimmo degli idioti quando scoprimmo che
la frutta era stata contata con cura e ogni pezzo sgraffignato ci era stato
addebitato a caro prezzo.
Anche se fu un viaggio divino, ricordo di essere stato spesso impaziente e
nervoso, forse per colpa dello shock culturale, forse perché non sapevo
vivere senza sgobbare e studiare. Questa sensazione di non essere a mio agio
con me stesso mi afflisse per tutta la prima fase della mia età adulta.
All’esterno davo l’impressione di cavarmela splendidamente: avevo sposato
la donna che amavo, mi ero conquistato l’ammissione alla facoltà di
medicina e stavo ottenendo buoni risultati in tutti i sensi; ma nel profondo
non ero mai rilassato, mai sicuro di me, e non riuscivo mai a capire davvero
quale fosse la fonte della mia ansia. Avevo la sensazione confusa di essere
stato profondamente ferito durante la mia primissima infanzia e sentivo che
non ero mai davvero a casa, che non valevo o meritavo quanto gli altri.
Come vorrei poter ripetere adesso quel viaggio, con la mia serenità attuale!

Oggi, oltre sessant’anni più tardi, i ricordi della nostra luna di miele mi
fanno sempre sorridere. Tuttavia i ricordi del giorno delle nozze sono
sbiaditi, con l’eccezione di una scena: verso la fine del grande pranzo
nuziale lo zio di Marilyn, Sam Eig, il severo e inaccessibile patriarca della
famiglia, che aveva costruito una parte considerevole di Silver Spring, nel
Maryland ed era in rapporti confidenziali con il governatore, che dava alle
vie i nomi dei suoi figli e mai prima d’allora s’era degnato di rivolgermi la
parola, mi si avvicinò, mi mise un braccio attorno alle spalle e, mentre con
l’altro faceva un gesto in direzione dell’intera congrega, mi bisbigliò in un
orecchio: «Congratulazioni, ragazzo mio. Ti sei preso la migliore di tutte».
Le parole di sostegno di zio Sam sono ancora piene di verità per me: è
raro che passi un giorno senza che io mi senta grato di aver potuto
trascorrere la mia vita con Marilyn.
13.
La mia prima paziente psichiatrica
Il mio primo corso pratico in psichiatria, nella primavera del 1955, durante
il terzo anno alla facoltà di medicina, si svolse nel reparto ambulatoriale del
Boston City Hospital. A ogni studente di medicina veniva richiesto di
incontrare un paziente ogni settimana per dodici settimane, e ciascuno
doveva presentare il paziente a un incontro comune alla presenza degli altri
studenti in praticantato e di una dozzina di membri della facoltà, molti dei
quali erano membri dell’Associazione Psicoanalitica di Boston e incutevano
grande soggezione. Avevo assistito alle presentazioni di altri studenti e mi
ero sentito morire di fronte alle reazioni brutali dei membri della facoltà in
competizione per dimostrare la propria competenza ed erudizione, senza
mostrare un briciolo di gentilezza o empatia.
Il mio turno venne dopo che avevo incontrato la mia paziente per più o
meno otto sedute, e quando cominciai mi tremava la voce. Avevo deciso di
non seguire l’esempio di quelli che avevano presentato i casi prima di me,
cioè facendo ricorso a una formale struttura tradizionale, presentando il
problema principale del paziente, l’anamnesi, la storia della famiglia,
l’istruzione e un esame psichiatrico. Ricorsi invece a un espediente che per
me era naturale: raccontai una storia. Con un linguaggio diretto descrissi gli
otto incontri con Muriel, una giovane donna attraente, snella e con i capelli
d’un rosso acceso, la voce tremula e gli occhi bassi. Descrissi il nostro
primo incontro, che aprii dicendo che ero uno studente di medicina proprio
all’inizio della sua formazione e che l’avrei incontrata per le successive
dodici settimane. Le chiesi perché avesse cercato aiuto presso la nostra
clinica e lei rispose, a voce bassa: «Sono lesbica».
In quel momento esitai, deglutii e risposi: «Non so cosa significhi. Le
spiacerebbe istruirmi?»
E lei lo fece, dicendomi cosa significasse il termine “lesbica” e come
fosse la sua vita. Le feci delle domande per aiutarla a esprimersi e le dissi
che ammiravo il suo coraggio nel parlare in modo così aperto. Le dissi che
avrei fatto tutto quello che potevo per esserle d’aiuto nel corso dei
successivi tre mesi.
All’inizio della seduta successiva con Muriel ammisi quant’era stato
imbarazzante per me riconoscere la mia ignoranza. Lei mi disse che la nostra
conversazione era stata una vera novità per lei: ero il primo maschio al
quale aveva rivelato la sua vera storia, ed era stata proprio la mia onestà a
consentirle di continuare a essere aperta.
Dissi ai presenti che io e Muriel eravamo entrati in confidenza, che
attendevo con ansia i nostri incontri, che parlavamo dei problemi con la sua
amante nello stesso modo in cui avremmo discusso una qualsiasi altra
relazione umana, che adesso lei incrociava spesso il mio sguardo, che stava
ritornando alla vita e si rammaricava che fossero rimaste soltanto quattro
sedute. Alla fine del mio discorso mi sedetti, abbassai la testa e mi preparai
a essere attaccato.
Ma non accadde nulla. Nessuno parlò. Dopo un lungo silenzio il dottor
Malamud, presidente del dipartimento, e il dottor Bandler, un eminente
analista, convennero entrambi che la mia presentazione non aveva bisogno di
spiegazioni e che non avevano ulteriori commenti da aggiungere. Uno dopo
l’altro, tutti i membri della facoltà seduti al tavolo fecero commenti simili.
Uscii stordito dall’incontro: tutto quello che avevo fatto era stato raccontare
una storia che mi sembrava molto semplice e naturale. Durante il college e la
mia istruzione medica mi ero sempre sentito invisibile, ma in quel momento
ogni cosa cambiò. Uscii da quella stanza pensando che potevo avere
qualcosa di speciale da offrire in quel campo.

La vita matrimoniale fu al tempo stesso magnifica e stressante nel corso dei


miei ultimi due anni alla facoltà di medicina. I soldi scarseggiavano e, per lo
più, erano i miei genitori a mantenerci. Marilyn guadagnava qualcosa
lavorando part-time nello studio di un dentista, mentre studiava per una
laurea magistrale a Harvard, e io continuavo a guadagnare qualcosa
vendendo il mio sangue all’ospedale. Avevo fatto domanda per essere un
donatore di sperma, ma l’urologo mi aveva detto che il numero dei miei
spermatozoi era troppo basso, e mi aveva consigliato di non rimandare
troppo il tentativo di avere dei bambini.
Come si sbagliava! Marilyn concepì all’istante durante la luna di miele. Il
secondo nome di nostra figlia Eve è Frances, a indicare “fatta in Francia”, e
un anno e mezzo più tardi, durante il mio quarto anno alla facoltà di
medicina, Marilyn si ritrovò di nuovo incinta.
I miei praticantati durante gli ultimi due anni richiedevano lunghe ore di
lavoro, ma in qualche modo la mia ansia si era calmata, sostituita forse da
un’onesta stanchezza e dalla gratificazione di sapere che ero utile ai miei
pazienti. Cominciai a dedicarmi sempre di più alla psichiatria e mi misi a
leggere tutto il possibile in questo campo. Alcune scene orribili del mio
praticantato mi sono rimaste nella memoria: una stanza piena di statue umane
al Boston State Hospital, un intero reparto di pazienti catatonici che
trascorrevano la loro vita in assoluta immobilità. I pazienti erano muti e
stavano per ore in piedi nella stessa posizione, alcuni accanto ai loro letti,
altri vicino a una finestra, altri ancora seduti, a volte borbottando qualcosa,
ma per lo più in silenzio. Il personale poteva solo dar loro da mangiare,
tenerli in vita e trattarli con gentilezza.
Scene del genere erano comuni in tutti i grandi ospedali alla metà degli
anni Cinquanta, prima dell’avvento della Torazina, il primo tranquillante, e,
poco dopo, della Stelazina, seguite da un flusso ininterrotto di nuovi
tranquillanti sempre più efficaci.
Mi è rimasta nella mente un’altra scena del Boston State Hospital. A un
certo punto del mio praticantato ebbi l’occasione di osservare il dottor Max
Day, uno psichiatra di Harvard che guidava un gruppo di dodici medici
interni di psichiatria ai quali era stato chiesto di studiare il processo del loro
stesso gruppo. In quanto studente di medicina mi era permesso assistere a un
unico incontro, ma non a parteciparvi, nemmeno con una parola. Anche se è
passato più di mezzo secolo da allora, posso ancora vedere quella stanza
con gli occhi della mente. Gli interni e il dottor Day sedevano in cerchio al
centro di un’ampia stanza. Io ero seduto in un angolo fuori dal cerchio, e
ricordo che ero affascinato dall’idea di un gruppo di persone intente a
discutere dei sentimenti reciproci. Che idea straordinaria! Ma fu un vero
fiasco. C’erano lunghi silenzi e tutti sembravano a disagio, mentre il leader,
il dottor Day, si limitava a stare seduto al suo posto. Perché? Non riuscivo a
capirlo. Perché non rompeva il ghiaccio o in qualche maniera aiutava i
membri ad aprirsi? In seguito assistetti a una conferenza clinica del dottor
Day e restai molto colpito dal suo acume e dalla sua capacità di articolare il
discorso. Ma ciò non fece che rendere la cosa ancor più sconcertante.
Perché mai non aveva cercato di aiutare il gruppo che annaspava? Non
potevo immaginare che avrei avuto a che fare con questa domanda per molti
anni nel corso della mia vita professionale.
14.
L’internato e il misterioso dottor Blackwood
Dopo la laurea noi ex studenti di medicina, ora Dottori in Medicina,
affrontavamo un internato di un anno nel corso del quale eravamo impegnati
in esperienze sul campo nella diagnosi e nelle cure di pazienti ospedalieri.
Durante il primo mese del mio internato al Mount Sinai Hospital di New
York fui assegnato al reparto di ostetricia e fui colpito dalla frequenza con
cui un certo medico, il dottor Blackwood, era richiesto attraverso gli
altoparlanti dell’ospedale. Mentre stavo assistendo a un parto chiesi al
medico interno a capo del reparto: «Chi è questo dottor Blackwood? Sento
continuamente il suo nome, ma non lo vedo mai».
Il dottor Gold sorrise, e gli altri membri del personale presenti
ridacchiarono. «Te lo presenterò più tardi» disse il dottor Gold, «appena
avremo finito qui dentro». Più tardi, quella sera, il dottor Gold mi scortò
nello stanzino riservato ai medici che dovevano essere reperibili, dov’era in
corso un’animata partita di poker. Non potevo credere ai miei occhi: mi
sentivo come un bambino in un negozio di dolci.
«Qual è il dottor Blackwood?» domandai. «E perché viene sempre
convocato?»
Un’altra risata fragorosa da parte di tutti. Sembrava che stessi
sollazzando l’intero personale di ostetricia. Alla fine il capo del reparto mi
ragguagliò.
«Giochi a bridge?» mi chiese.
Annuii.
«Conosci la convenzione Blackwood per le dichiarazioni nel bridge?»
Tornai ad annuire.
«Be’, è tutto qui. È questo il tuo dottor Blackwood. Esiste solo come
figura simbolica del poker al Mount Sinai: ogni volta che c’è carenza di
giocatori per una partita a poker, si convoca il dottor Blackwood».
I giocatori erano per lo più ostetrici che lavoravano privatamente, le cui
pazienti erano in travaglio. Il personale dell’ospedale e gli interni erano
ammessi al gioco solo in caso di carenza di giocatori. Quindi per il resto
dell’anno, quando finivo i miei turni, ero reperibile a chiamata e dovevo
trascorrere la notte in ospedale, restavo in attesa della convocazione del
“dottor Blackwood”, e ogni volta che ero libero mi facevo assegnare al
reparto di ostetricia. Le puntate erano alte, e gli interni erano pagati soltanto
venticinque dollari al mese (più una cena a consumo illimitato, grazie alla
quale ci facevamo i panini per il pranzo del giorno dopo: risolvevamo il
problema della prima colazione ordinando colazioni abbondanti per i nostri
pazienti).
Nei tre o quattro mesi successivi persi il mio intero salario a poker prima
di cominciare a capire il gioco. Dopodiché portai Marilyn a vedere un buon
numero di spettacoli a Broadway, omaggio del dottor Blackwood.
Nel corso dell’anno al Mount Sinai svolsi una serie di mansioni diverse,
in reparti differenti: medicina interna, ostetricia, chirurgia, chirurgia
ortopedica, pronto soccorso, urologia e pediatria. Imparai a far nascere i
bambini, a sistemare caviglie slogate, a trattare insufficienze cardiache
congestizie, a estrarre il sangue dall’arteria femorale di un bambino, a
diagnosticare le condizioni neurologiche osservando l’andatura di un
paziente. Nei turni a chirurgia fui autorizzato solamente a reggere i retrattori
per il chirurgo. In un paio di occasioni mi fu permesso di suturare la pelle
alla fine della procedura, e un chirurgo dall’occhio di falco mi colpì le
nocche con uno dei suoi strumenti, gridandomi contro che stavo facendo
«nodi da droghiere». Naturalmente d’impulso avrei voluto rispondergli:
«Ovvio che stia facendo nodi da droghiere, sono cresciuto in una drogheria!»
ma non osai mai: i chirurghi anziani erano temibili e mettevano davvero
soggezione.
Per puro caso anche tre dei miei migliori amici della facoltà di medicina
della George Washington vennero accettati al Mount Sinai, e noi quattro ce
ne stavamo in due stanze contigue: dovevamo essere reperibili e dormire in
ospedale, una notte sì e una no, per l’intero anno.
Mentre ero di turno a ostetricia alla fine del mio primo mese di internato,
Marilyn entrò in travaglio e il dottor Gutmacher, il capo del dipartimento,
fece nascere il nostro secondo figlio, Reid Samuel Yalom, con un parto
cesareo. Avrei dovuto assisterlo io in sala parto, ma il dottor Gutmacher mi
consigliò di fare invece da spettatore. Fermo a pochi passi da Marilyn, ebbi
così la grande gioia e l’emozione di assistere al primo respiro di Reid.
I mezzi pubblici tra il nostro appartamento e il Mount Sinai erano scarsi,
e i taxi troppo costosi. Per i primi due mesi andai a lavorare in macchina, ma
dopo aver accumulato un buon numero di multe mi venne l’idea dello
scooter. Per caso venni a sapere di un professore di arte della Yale che
aveva comprato una magnifica Lambretta nuova, ma a causa di un’ulcera
gastrica voleva venderla, su consiglio del suo medico. Gli telefonai, una
domenica presi il treno per New Haven, m’innamorai della Lambretta e il
giorno stesso me ne tornai a New York in sella alla moto. Il problema del
parcheggio era così risolto: andavo a lavorare in Lambretta, la portavo su in
ascensore e la parcheggiavo nella mia stanza. Spesso io e Marilyn andavamo
in moto a Broadway, parcheggiavamo la Lambretta senza difficoltà e ci
recavamo a teatro.

Il mio internato non prevedeva turni in psichiatria, ma io bazzicavo


comunque quel dipartimento e assistevo alle presentazioni cliniche e di
ricerca. Un progetto che m’interessava moltissimo riguardava un nuovo
composto, il dietilamide dell’acido lisergico (LSD), che si diceva avesse
effetti psichedelici. Due giovani ricercatori del dipartimento stavano
verificando se l’LSD interessasse la percezione subliminale (ovvero la
percezione che si verifica al di fuori della consapevolezza), e avevano
bisogno di volontari per un piccolo esperimento. Mi feci avanti. L’LSD era
stato sintetizzato così di recente che l’unico modo conosciuto per mettere
alla prova i suoi effetti era stato il metodo del feroce pesce da
combattimento siamese. Quando si mettevano in guardia per combattere,
questi pesci assumevano una formazione precisa, e pochissime gocce di LSD
versate nell’acquario ne alteravano profondamente il comportamento. Il
numero di gocce necessarie a interferire con la formazione del pesce da
combattimento era diventato l’unità di misura della potenza dell’LSD.
A noi quattro volontari venne somministrata dell’aranciata corretta con
l’LSD e un’ora più tardi ci ritrovammo seduti davanti a un grande schermo,
sul quale un tachistoscopio proiettava immagini a una velocità tale da non
permetterci di vederle in maniera cosciente. La mattina successiva ci fu
chiesto di rammentare tutte le immagini oniriche che avevamo avuto quella
notte e di farne degli schizzi. Disegnai due tipi di immagini: diverse facce
con nasi molto lunghi, e un uomo privo di gambe. Il giorno successivo i
ricercatori proiettarono quelle stesse immagini a velocità normale, per
mostrarcele. Una era una popolare pubblicità delle caramelle Life Saver,
dove un funambolo teneva in precario equilibrio sul naso un pacchetto di
caramelle, e l’altra era la fotografia di una guardia di Buckingham Palace
con la giacca rossa e i pantaloni neri, che però si confondevano con lo
sfondo nero della garitta. Restai stupefatto dai risultati. Avevo imparato di
prima mano che cosa fosse la percezione subliminale: avevo “visto”
immagini senza sapere di averlo fatto.
Alla fine del mio internato erano avanzate molte fiale di LSD, e i
ricercatori me le diedero per sperimentazione personale. Io, Marilyn (una
volta soltanto) e alcuni dei medici interni le provammo, e rimasi affascinato
dai cambiamenti sensoriali durante quei viaggi con l’LSD: i suoni e la visione
mutavano radicalmente. Trascorsi un’ora a guardare i cambiamenti di colore
della mia carta da parati e ascoltai la musica in maniera completamente
nuova. Avevo la strana sensazione di essere più vicino alla realtà o alla
natura, come se stessi sperimentando dati sensoriali a uno stato puro e
diretto, senza ovatta o filtri tra me e ciò che mi circondava. Sentivo con forza
che gli effetti della droga erano notevoli e che non si trattava di un
passatempo ricreativo. In un paio di occasioni mi spaventai rendendomi
conto che non potevo volontariamente annullarne gli effetti, e mi allarmai al
pensiero che tali effetti potessero essere irreversibili. Quando presi la mia
ultima dose, una notte di novembre, uscii a fare una lunga passeggiata e mi
sentii minacciato dai rami spogli degli alberi autunnali, che ricordavano
certi alberi sinistri di Biancaneve, il film della Disney. Da allora non l’ho
più usato, ma negli anni successivi diverse pubblicazioni sembrarono
suggerire che gli effetti dell’LSD fossero molto simili ai sintomi della
schizofrenia. Dopo aver cominciato a incontrare pazienti schizofrenici
all’inizio della mia attività di medico interno, scrissi un saggio sulle
considerevoli differenze tra l’esperienza dell’LSD e l’esperienza psicotica.
Questo testo, apparso sul Maryland State Medical Journal, fu il primo
articolo che pubblicai.
L’anno d’internato operò una trasformazione in me: al termine dei dodici
mesi avevo assunto l’identità di un medico e acquisito un certo grado di
disinvoltura nel trattare le principali patologie. Ma fu anche un anno
durissimo, con orari massacranti, poco sonno e molte notti in bianco.
Tuttavia, per quanto il mio anno di internato tra il 1956 e il 1957 possa
essere stato estenuante, l’anno di Marilyn fu persino peggiore. Anche se
all’epoca era insolito che una donna cercasse di ottenere un dottorato di
ricerca, noi due avevamo sempre dato per scontato che lei sarebbe diventata
una docente universitaria. Non conoscevo altre donne sposate con progetti
del genere, ma avevo sempre saputo che aveva una mente eccezionale, e la
sua decisione di ottenere il dottorato mi sembrò del tutto naturale. Mentre
completavo gli ultimi due anni alla facoltà di medicina di Boston, lei aveva
ottenuto la sua laurea magistrale a Harvard, specializzandosi in Francese e
Tedesco. Appena venni accettato al Mount Sinai per il mio internato,
Marilyn fece domanda per il dottorato di ricerca presso il dipartimento di
francese della Columbia University.
Il colloquio di Marilyn con Norman Torrey, il formidabile rettore del
dipartimento di francese della Columbia, fa parte del folklore della nostra
famiglia. Il professor Torrey diede un’occhiata stupita alla pancia di
Marilyn, incinta di otto mesi: probabilmente non aveva mai visto prima di
allora una candidata incinta. Il suo stupore aumentò quando seppe che aveva
anche una bambina di un anno. In tono dispiaciuto, il professor Torrey
sottolineò che il sostegno finanziario concesso dall’università implicava che
lo studente insegnasse in due corsi e ne seguisse quattro, suggerendo in tal
modo che il colloquio si era concluso. Ma Marilyn rispose senza esitare:
«Posso farcela».
Un paio di settimane più tardi arrivò la lettera che annunciava che era
stata accettata: «Materfamilias, abbiamo un posto per lei». Marilyn trovò un
aiuto per i bambini e si tuffò nell’anno più duro della sua vita. Io godevo
della fortuna compensatoria del cameratismo con gli altri tirocinanti, mentre
lei era completamente sola: si occupava dei nostri due bambini, con un po’
di aiuto da parte di una domestica e il contributo quasi nullo del marito, che
era fuori casa una notte su due e i fine settimana alterni. In seguito Marilyn
avrebbe considerato quell’anno come il più faticoso della sua vita.
15.
Gli anni del Johns Hopkins
Sono sulla mia Lambretta, Marilyn è seduta dietro di me, e mi cinge con le braccia. Sento il vento
sulla faccia mentre guardo il tachimetro. Sessantacinque, sessantotto, settantuno. Ho intenzione
di arrivare a ottanta. Posso farcela. Otto zero. So che posso farcela. È la sola cosa che conta. Il
manubrio vibra leggermente, poi sempre di più, e comincio a perdere il controllo. Marilyn grida:
«Fermati, fermati, Irv, rallenta, ho paura. Per favore, fermati, per favore, per favore». Urla e mi
batte forte sulla schiena.

Mi sveglio. Il cuore batte all’impazzata. Mi siedo sul letto e misuro le


pulsazioni: più di cento battiti. Quel maledetto sogno! Lo conosco fin troppo
bene, l’ho sognato molte volte. E so esattamente che cosa lo ha sollecitato.
La notte prima, a letto, stavo leggendo un passo di In movimento, un libro di
ricordi di Oliver Sacks, nel quale descriveva di essere stato membro del
“club delle cento miglia”, un gruppo di giovani centauri che con le loro
motociclette avevano superato le cento miglia all’ora.
Questo sogno non è soltanto un sogno: è il ricordo di un episodio reale
che ho rivisto nella mia mente innumerevoli volte, sia come fantasia a occhi
aperti che come sogno notturno. Conosco quel sogno, e lo detesto!
L’episodio reale si verificò dopo la fine del mio internato, quando mi venne
concessa una settimana di vacanza prima di cominciare i tre anni da interno
in psichiatria al Johns Hopkins Hospital di Baltimora. La madre di Marilyn
aveva accettato di occuparsi dei nostri due bambini per un intero fine
settimana, e noi eravamo partiti in Lambretta diretti alle rive orientali del
Maryland; fu durante questo viaggio che si verificò l’episodio accuratamente
descritto nel sogno. All’epoca non ci pensai troppo, forse ero davvero
divertito dal panico di Marilyn. La strada era deserta e volevo solo spingere
un po’ sull’acceleratore. Come un adolescente, mi eccitava la velocità e mi
sentivo assolutamente invulnerabile. Fu solo molto più tardi che divenni
consapevole della portata della mia avventatezza e stupidità. Come avevo
potuto rischiare una caduta con mia moglie, con due bambini piccoli a casa?
Voler raggiungere le ottanta miglia all’ora, senza protezioni, a testa nuda: a
quei tempi non si portava il casco! Detesto pensarci e anche adesso detesto
scriverne. Ho sussultato, di recente, quando mia figlia Eve, che è medico, mi
ha descritto la visita a un reparto pieno di giovani uomini paralizzati, tutti
con il collo rotto a seguito di incidenti in moto o con la tavola da surf. Anche
loro una volta dovevano essersi sentiti invulnerabili.
Non ci schiantammo. Alla fine tornai in me e rallentai, e per il resto del
tempo viaggiammo con prudenza attraversi i piccoli e graziosi insediamenti
della riva orientale del Maryland. Sulla via del ritorno, quando andai a fare
un giro da solo mentre Marilyn schiacciava un pisolino dopo pranzo,
scivolai su una macchia d’olio e feci una brutta caduta, sbucciandomi per
bene un ginocchio. Ci fermammo a un pronto soccorso: il medico ripulì la
ferita e mi fece un’iniezione antitetanica, e ce ne tornammo a Baltimora senza
ulteriori disavventure. Due giorni dopo, proprio quando mi stavo preparando
per presentarmi al mio primo giorno come medico interno, mi venne uno
sfogo che in breve si trasformò in una vera e propria orticaria. Avevo avuto
una reazione allergica al siero di cavallo contenuto nell’iniezione
antitetanica, e venni immediatamente ricoverato in ospedale all’Hopkins per
timore che il mio apparato respiratorio subisse dei danni e fosse necessaria
una tracheotomia. Mi curarono con gli steroidi, che subito si rivelarono
efficaci, e siccome già il giorno dopo mi sentivo bene, il trattamento venne
sospeso e fui dimesso. Cominciai la mia attività da interno la mattina
successiva. Erano i primi tempi in cui venivano usati gli steroidi, e i medici
non sentivano la necessità di diminuirli gradualmente: fui dunque vittima di
una sindrome acuta da recesso, con tanto di depressione, accompagnata da
tali ansia e insonnia che per i due giorni successivi mi dovetti imbottire di
Torazina e barbiturici per addormentarmi. Per fortuna quello sarebbe stato il
mio unico incontro personale con la depressione.
Al terzo giorno all’Hopkins noi interni al primo anno incontrammo per la
prima volta John Whitehorn, il preside di psichiatria, un uomo davvero
formidabile che sarebbe diventato una figura di massimo rilievo nella mia
vita. Uomo austero e dignitoso che sorrideva di rado, John Whitehorn aveva
la testa pelata, circondata da una chierica di capelli grigi. Portava occhiali
dalla montatura in acciaio e metteva in soggezione praticamente chiunque. In
seguito venni a sapere che anche i responsabili degli altri dipartimenti lo
trattavano con deferenza e non si rivolgevano mai a lui chiamandolo per
nome. Feci del mio meglio per ascoltare le sue parole, ma ero talmente
esausto per la mancanza di sonno e per i sonniferi che quella mattina quasi
non riuscivo a muovermi, e durante il saluto del dottor Whitehorn mi
addormentai, seduto com’ero. (Molti decenni dopo io e Saul Spiro, un
medico interno allora mio compagno, ci abbandonammo ai ricordi relativi al
tempo trascorso assieme all’Hopkins, e lui mi disse di avermi rispettato
enormemente per la sfrontatezza di essermi addormentato al nostro primo
incontro con il capo!)
A parte un po’ di ansia e una lieve depressione, mi ripresi dalla mia
reazione allergica nel giro di due settimane, ma ero a tal punto innervosito
dall’esperienza che decisi di ricorrere a una terapia. Chiesi consiglio al
responsabile dei medici interni, Stanley Greben. All’epoca era pratica
comune, quasi de rigueur, che gli interni di psichiatria facessero un’analisi
personale, e il dottor Greben mi esortò a incontrare la sua analista, Olive
Smith, un’anziana dottoressa responsabile della formazione all’Istituto
Psicoanalitico di Washington-Baltimora, con un lignaggio a dir poco regale:
era stata in analisi con Frieda Fromm-Reichman, che a sua volta era stata
analizzata da Sigmund Freud. Avevo un grande rispetto del responsabile di
noi interni ma, prima di prendere una decisione di quella portata, decisi di
chiedere l’opinione del dottor Whitehorn sui miei sintomi dovuti a un
recesso da steroidi e sull’idea di intraprendere un’analisi. Mi parve che mi
ascoltasse con scarso interesse; poi, quando menzionai l’idea di cominciare
un’analisi, scosse lentamente il capo e si limitò a commentare: «Credo che
troverà che un po’ di fenobarbital può rivelarsi più efficace». Non si
dimentichi che eravamo ancora nell’era pre-Valium, anche se una nuova
droga calmante chiamata Equanil (meprobamato) sarebbe stata introdotta di
lì a poco.
In seguito venni a sapere che gli altri membri della facoltà erano molto
divertiti dal fatto che avessi avuto l’audacia (o la stupidità) di porre quella
domanda al dottor Whitehorn, noto per l’estremo scetticismo nei confronti
della psicoanalisi. Aveva assunto una posizione eclettica, seguendo
l’approccio psicobiologico di Adolf Meyer, a lungo preside del dipartimento
di psichiatria del Johns Hopkins prima di lui, un empirista che si
concentrava sulla formazione psicologica, sociale e biologica del paziente.
In seguito non parlai mai della mia esperienza psicoanalitica con il dottor
Whitehorn, e lui non mi fece mai domande al riguardo.
Il dipartimento di psichiatria dell’Hopkins aveva una sorta di duplice
personalità: il punto di vista di Whitehorn prevaleva nei quattro piani
dell’ospedale psichiatrico e nel dipartimento ambulatoriale, mentre una
fazione psicoanalitica fortemente ortodossa gestiva il servizio di consulenza.
In genere mi trovavo per lo più a soggiornare nel territorio di Whitehorn, ma
frequentavo anche le riunioni analitiche nel dipartimento di consulenza,
specialmente quelle guidate da Lewis Hill e Otto Will, entrambi abili
analisti nonché narratori di prima categoria. Ascoltavo incantato le
presentazioni dei loro casi. Erano saggi, flessibili e profondamente coinvolti
dai loro pazienti. Mi stupivo ascoltando il modo in cui descrivevano
l’interazione con loro: erano così premurosi, così preoccupati, così generosi.
Furono tra i miei primi modelli per la pratica (e la narrazione) della
psicoterapia.
Ma la maggior parte degli analisti lavorava in modo diverso. Olive
Smith, che incontravo quattro volte alla settimana per la mia analisi, seguiva
un metodo strettamente freudiano: era uno schermo vuoto, non rivelava nulla
di sé attraverso le parole o le espressioni facciali. Dall’ospedale
raggiungevo in Lambretta il suo studio nel centro di Baltimora in soli dieci
minuti, ogni mattina alle undici. Spesso non potevo fare a meno di dare una
rapida occhiata alla posta un attimo prima di uscire dall’ospedale, di
conseguenza arrivavo con un minuto o due di ritardo: una prova di resistenza
all’analisi che discutemmo spesso, e senza alcun profitto.
Lo studio di Olive Smith era in un appartamento che condivideva con altri
quattro analisti, tutti in precedenza analizzati da lei. All’epoca la
consideravo una donna anziana. Aveva almeno settant’anni, capelli bianchi,
sembrava in qualche modo piegata dalla sofferenza, ed era una zitella. Una o
due volte la vidi in ospedale mentre si recava a un consulto o a un incontro
analitico, e in quelle occasioni mi apparve più giovane e vivace. Me ne
stavo sdraiato sul divano, con la sedia di lei posizionata a un’estremità,
vicino alla mia testa, e dovevo allungare il collo e guardare indietro per
vederla, a volte per controllare che fosse ancora sveglia. Mi veniva chiesto
di fare libere associazioni e le sue risposte si limitavano esclusivamente alle
interpretazioni, solo poche delle quali mi furono d’aiuto. Le sue occasionali
deviazioni rispetto a questa neutralità costituirono la parte più importante del
trattamento. Ovviamente molti la trovavano utile, inclusi tutti gli analizzati
che lavoravano nel suo studio e il responsabile di noi medici interni. Non ho
mai capito perché abbia funzionato per loro e non per me. A posteriori,
penso che fosse il terapeuta sbagliato, avevo semplicemente bisogno di
qualcuno che interagisse maggiormente. Molte volte ho avuto il pensiero
poco gentile che la cosa principale che ho imparato dalla mia analisi è stato
come non fare psicoterapia.
La tariffa era di venticinque dollari a seduta. Cento a settimana.
Cinquemila l’anno. Due volte il mio stipendio annuale di medico interno. Mi
pagavo l’analisi facendo esami medici, a dieci dollari l’uno, per la
compagnia canadese di assicurazioni Sun Life, ogni sabato, sfrecciando per
le stradine laterali di Baltimora sulla mia Lambretta, con indosso la divisa
bianca dell’ospedale.

Appena avevo deciso di effettuare il mio periodo di formazione da interno


all’ospedale Johns Hopkins, Marilyn aveva fatto domanda per il programma
di dottorato in letteratura comparata all’università Johns Hopkins. Venne
accettata e lavorò sotto la guida di René Girard, uno dei più eminenti
accademici francesi del tempo. Scelse di scrivere la tesi di dottorato sul
mito del processo nelle opere di Franz Kafka e Albert Camus e, dietro suo
incoraggiamento, cominciai anch’io a leggere Kafka e Camus, prima di
passare a Jean-Paul Sartre, Maurice Merleau-Ponty e altri scrittori
esistenzialisti. Per la prima volta il mio lavoro cominciò a convergere con
quello di Marilyn. M’innamorai di Kafka, la sua Metamorfosi mi colpì come
nessun’altra opera letteraria avesse mai fatto. E fui anche scosso da Lo
straniero di Camus e da La nausea di Sartre. Attraverso la narrativa questi
scrittori avevano scandagliato le profondità dell’esistenza con una potenza
che gli scritti di psicoanalisi non sembravano aver mai raggiunto.
La nostra famiglia si sviluppò al meglio nel corso dei tre anni
all’Hopkins. La figlia più grande, Eve, frequentava la scuola materna nel
cortile interno del complesso di edifici dove abitavamo assieme agli altri
dipendenti dell’ospedale. Reid, bambino vivace e spensierato, non aveva
problemi ad adattarsi alle cure della domestica quando Marilyn era
impegnata nei suoi studi di dottorato al campus della Hopkins, a quindici
minuti di distanza da casa. Nel corso del nostro ultimo anno a Baltimora
nacque Victor, il nostro terzo figlio, all’ospedale Johns Hopkins, a un isolato
di distanza sulla collina vicino a casa nostra. Eravamo fortunati ad avere
bambini sani, adorabili, e non vedevo l’ora di tornare a casa e giocare con
loro ogni sera e durante i fine settimana. Non ebbi mai l’impressione che la
vita famigliare fosse un impedimento per la mia vita professionale, anche se
sono sicuro che non fu così per Marilyn.
Ho amato molto i miei tre anni da medico interno. Fin dall’inizio ciascuno
di noi aveva la responsabilità clinica della gestione di un reparto di pazienti
degenti, come pure degli incontri con un elenco di pazienti ambulatoriali. Gli
ambienti e il personale dell’Hopkins avevano un che di elegante, tipico del
Sud, che adesso sembra appartenere al passato. L’edificio di psichiatria, la
clinica Phipps, che ospitava sei reparti di degenti e un dipartimento per i
pazienti ambulatoriali, era stato inaugurato nel 1912 da Adolf Meyer, al
quale nel 1940 era succeduto John Whitehorn. L’edificio a quattro piani in
mattoni rossi era solido e dignitoso; l’addetto all’ascensore, un’istituzione
per quattro decenni, era cortese e cordiale. Tutto il personale infermieristico,
giovani e anziani, scattava sull’attenti quando un medico entrava nella
postazione degli infermieri: ah, quelli erano giorni!
Anche se centinaia di pazienti sono svaniti dalla mia memoria, ricordo
con strana chiarezza molti dei miei primi pazienti all’Hopkins. C’era Sarah
B., la moglie di un petroliere texano, che era in ospedale da diversi mesi,
affetta da schizofrenia catatonica. Non parlava e spesso s’immobilizzava
nella stessa posizione per ore. Il mio lavoro con lei era stato completamente
intuitivo: i supervisori erano di scarso aiuto, dato che nessuno sapeva come
trattare questi pazienti, considerati al di là di qualsiasi possibile intervento.
Mi premurai di incontrarla ogni giorno, per non meno di quindici minuti,
nel mio studiolo nel lungo corridoio appena fuori dal reparto. Era rimasta
assolutamente muta per mesi, e siccome non rispondeva mai né a parole né a
gesti ad alcun tipo di domanda, ero io a fare conversazione. Le raccontavo la
mia giornata, i titoli dei giornali, i miei pensieri sugli incontri di gruppo nel
reparto, le questioni che stavo esplorando nella mia analisi e i libri che
stavo leggendo. A volte le sue labbra si muovevano, ma non venivano
pronunciate parole; la sua espressione facciale non mutava mai, e i suoi
grandi e dolenti occhi azzurri rimanevano fissi sul mio volto. E poi, un
giorno, mentre stavo blaterando qualcosa a proposito del tempo,
all’improvviso si alzò, mi si avvicinò e mi baciò sulle labbra. Un vero
bacio. Ne fui esterrefatto, non sapevo cosa dire, ma mantenni il controllo e,
dopo aver ragionato a voce alta sulle possibili reazioni a quel bacio, la
scortai nel reparto e mi precipitai nello studio del mio supervisore per
discutere l’episodio. La parte che non confessai al supervisore fu che il
bacio mi era piuttosto piaciuto: Sarah era una donna attraente e il suo bacio
mi aveva eccitato, ma mai, nemmeno per un istante, avevo dimenticato che il
mio compito era quello di curarla. Dopo quell’episodio, le cose
continuarono come in precedenza per altre settimane, finché non decisi di
provare un trattamento a base di Pacatal, un nuovo tranquillante (ora da
tempo in disuso) che era appena stato lanciato sul mercato. Con grande
sorpresa di tutti, Sarah nel giro di una settimana era una persona nuova,
parlava spesso e in genere in modo abbastanza coerente. Nel mio studio
intavolavamo lunghe discussioni sulle tensioni della sua vita prima della
malattia, e a un certo punto feci un commento sui miei sentimenti in relazione
all’averla incontrata per così tanto tempo mentre lei manteneva il silenzio, e
sui miei molti dubbi d’averle offerto qualche aiuto in quelle sedute. Rispose
immediatamente: «Oh, no, dottor Yalom. Si sbaglia. Non pensi queste cose.
Per tutto quel tempo lei è stato il mio pane quotidiano».
Ero stato il suo pane quotidiano. Non ho mai dimenticato
quest’affermazione, e quel momento. Mi torna alla mente spesso quando sono
con un paziente, non ho idea di cosa stia succedendo e mi sento incapace di
fare osservazioni utili o almeno coerenti. È allora che penso alla cara Sarah
B. e ricordo a me stesso che la presenza, le domande, l’attenzione di un
terapeuta posso offrire nutrimento in modi che non possiamo nemmeno
immaginare.
Cominciai a frequentare ogni settimana i seminari di Jerome Frank,
dottore in medicina e in ricerca, l’altro professore dell’Hopkins che, come il
dottor Whitehorn, era un empirista e si lasciava persuadere soltanto dalla
logica e dalle prove concrete. Mi insegnò due cose importanti: i fondamenti
della metodologia della ricerca e le basi della terapia di gruppo. A
quell’epoca la terapia di gruppo era agli inizi, e il dottor Frank aveva scritto
uno dei pochi libri validi sull’argomento. Ogni settimana noi medici interni
(le nostre otto teste stipate l’una accanto all’altra) osservavamo la sua
terapia di gruppo per pazienti ambulatoriali attraverso uno dei primi specchi
riflettenti utilizzati in tale contesto, un buco nel muro non più largo di trenta
centimetri quadrati. Dopo l’incontro di gruppo aveva luogo una lunga seduta
di discussione con il dottor Frank. Trovai l’osservazione del gruppo un
modello didattico talmente utile che, anni dopo, l’avrei usato per i miei corsi
di terapia di gruppo.
Continuai a osservare il gruppo ogni settimana anche dopo che gli altri
medici interni avevano finito il corso. Verso la fine dell’anno il dottor Frank
mi chiese di condurre il gruppo durante una sua assenza. Fin dall’inizio mi
piacque moltissimo condurre i gruppi: mi sembrava ovvio che quel tipo di
terapia offrisse ai membri l’importante opportunità di dare e ricevere
feedback collegati al loro io sociale. Mi sembrava un luogo unico, prezioso
per la crescita, che permetteva ai membri di esplorare ed esprimere parti dei
loro io interpersonali, e di vedere il proprio comportamento riproposto da
propri pari. In quale altro luogo gli individui potevano offrire e ottenere un
feedback così onesto e costruttivo da parte di un gruppo di gente fidata e
uguale a loro? Il gruppo di terapia di pazienti ambulatoriali aveva solo
poche regole fondamentali: oltre alla totale riservatezza, i membri erano
tenuti a presentarsi all’incontro successivo, a comunicare apertamente e a
non incontrarsi tra loro al di fuori del gruppo. Ricordo di aver invidiato quei
pazienti, e desiderato di poter partecipare come membro a un gruppo del
genere.
A differenza del dottor Whitehorn, il dottor Frank era cordiale e
disponibile: alla fine del mio primo anno mi propose di chiamarlo Jerry. Era
un grande insegnante e una bella persona, che coniugava in sé integrità,
competenza clinica e la necessità di un’attività di ricerca. Restammo in
contatto a lungo dopo che ebbi lasciato l’Hopkins, e ci incontravamo ogni
volta che veniva in California. In un’occasione memorabile, le nostre
famiglie trascorsero una settimana insieme in Giamaica. Divenuto vecchio,
fu affetto da seri problemi di memoria, e ogni volta che potei lo andai a
trovare nella casa di riposo dove viveva, sulla costa est. L’ultima volta che
lo vidi mi disse che trascorreva le giornate guardando cose interessanti fuori
dalla finestra, e che ogni mattina si svegliava con la mente completamente
vuota. Si strofinò la mano sulla fronte e disse: «Nulla: tutti i ricordi del
giorno precedente cancellati. Completamente andati». Poi sorrise, alzò lo
sguardo su di me e fece al suo allievo un ultimo dono. «Sai, Irv» mi disse,
rassicurante, «non è poi così male. Non è così male». Che uomo dolce e
caro. Sorrido ogni volta che penso a lui. A decenni di distanza, mi sono
sentito profondamente onorato di essere stato invitato a tenere la prima delle
Conferenze di Psicoterapia dedicate a Jerome Frank al Johns Hopkins.
Il metodo per la terapia di gruppo di Jerry Frank rientrava perfettamente
nell’approccio interpersonale allora au courant nella teoria psicodinamica
americana. L’approccio interpersonale (o “neo-freudiano”) era una variante
della vecchia posizione freudiana ortodossa: metteva l’accento
sull’importanza delle relazioni interpersonali nello sviluppo dell’individuo
nel corso dell’intero ciclo vitale, laddove l’approccio precedente poneva
maggior enfasi sui primissimi anni di vita. Questo approccio aveva avuto
origine in America e si basava in sostanza sul lavoro dello psichiatra Harry
Stack Sullivan, nonché su teorici europei emigrati negli Stati Uniti, in
particolare Karen Horney ed Erich Fromm. Lessi moltissima letteratura sulla
teoria interpersonale e la trovai decisamente sensata. Il libro La nevrosi e la
crescita umana di Karen Horney fu il testo di gran lunga più sottolineato
negli anni del mio lavoro da medico interno. Sebbene Sullivan avesse
moltissimo da insegnare, era purtroppo uno scrittore così tremendo che le
sue idee non ebbero mai l’impatto che avrebbero meritato. In generale,
tuttavia, il suo lavoro mi aiutò a capire che la maggior parte dei nostri
pazienti cade in preda alla disperazione per l’incapacità di stabilire e
mantenere relazioni interpersonali in grado di offrire un sostegno reale. E,
per me, ne conseguiva che la terapia di gruppo offriva l’arena ideale nella
quale esplorare e cambiare modi poco flessibili di relazione con gli altri.
Ero affascinato dal processo del gruppo e, nel corso della mia attività di
medico interno, guidai molti gruppi con pazienti sia degenti che
ambulatoriali.
Con il progredire del mio primo anno, cominciai a sentirmi sopraffatto da
tutti i dati, da tutte le svariate condizioni cliniche che incontravo e dagli
approcci idiosincratici dei miei supervisori, e mi ritrovai a desiderare
ardentemente un qualche sistema esplicativo completo. La teoria
psicoanalitica sembrava l’opzione più probabile, e in quel periodo negli
Stati Uniti la maggior parte dei programmi di formazione psichiatrica era
orientata in senso analitico. Anche se i presidi di psichiatria oggigiorno sono
di solito neuroscienziati, negli anni Cinquanta la maggior parte di loro aveva
una formazione psicoanalitica. Il Johns Hopkins, a parte il servizio
consultazioni, era la principale eccezione.
Così continuavo a incontrarmi con Olive Smith quattro volte alla
settimana, leggevo gli scritti di Freud e frequentavo convegni a orientamento
analitico nell’ala consultazioni del dipartimento, ma con il passare del tempo
diventai sempre più scettico rispetto a quel tipo di approccio. I commenti
della mia analista personale mi sembravano irrilevanti e fuori bersaglio, e
arrivai a pensare che, pur volendo essermi d’aiuto, era troppo trattenuta
dalla fedeltà all’editto della neutralità per rivelarmi un qualsiasi aspetto del
suo vero io. Inoltre stavo cominciando a credere che l’enfasi posta sui primi
anni di vita e sugli impulsi sessuali primari e aggressivi fosse molto
limitante.
L’approccio biopsicologico all’epoca aveva poco da offrire, a parte
terapie somatiche quali il coma insulinico e la terapia elettroconvulsivante
(TEC). Anche se personalmente mi ritrovai a prescriverli diverse volte e mi
capitò di assistere a guarigioni straordinarie, questi trattamenti erano
approcci eterogenei scoperti per caso. Per esempio, i clinici avevano
osservato per secoli come le convulsioni causate dalle più varie condizioni,
quali la febbre o la malaria, avevano un effetto salutare su psicosi o
depressioni. Così cercarono metodi per indurre coma ipoglicemici e crisi
epilettiche con mezzi chimici (Metrazol) ed elettrici (TEC).
Verso la fine del mio primo anno un libro di recente pubblicazione dello
psicologo Rollo May, intitolato L’esistenza, attirò la mia attenzione.
Conteneva due lunghi ed eccellenti saggi di May e un certo numero di
traduzioni di testi di terapeuti e filosofi europei, quali Ludwig Binswanger,
Erwin Straus ed Eugène Minkowski. Quel libro mi cambiò la vita. Anche se
molti capitoli erano scritti in una lingua magniloquente che sembrava essere
deputata a offuscarne invece che a illuminarne il senso, i saggi di May erano
eccezionalmente lucidi. Esponeva i principi di base del pensiero
esistenzialista e mi presentava le rilevanti intuizioni di Søren Kierkegaard,
Friedrich Nietzsche e altri pensatori esistenzialisti. Quando esamino la copia
del 1958 de L’esistenza di Rollo May, trovo annotazioni di approvazione o
disaccordo su quasi ogni pagina. Il libro mi suggeriva che c’era una terza
via, un’alternativa al pensiero psicoanalitico e al modello biologico, una via
che si rifaceva alla saggezza dei filosofi e degli scrittori degli ultimi
duemilacinquecento anni. Mentre sfogliavo la mia vecchia copia del libro
per scrivere queste memorie, ho notato con grande sorpresa che Rollo,
all’incirca quarant’anni più tardi, l’aveva firmata e aveva scritto: «A Irv, un
collega dal quale sono stato io a imparare la psicoterapia esistenziale».
Questa scoperta mi ha fatto venire le lacrime agli occhi.
Frequentai una serie di conferenze sulla storia della psichiatria, che
andavano da Philippe Pinel (il medico del Settecento che introdusse un
trattamento umano per i malati di mente) fino a Freud. Le conferenze erano
interessanti ma, secondo me, si basavano sul presupposto errato che il nostro
campo avesse avuto inizio con Pinel nel diciottesimo secolo. Mentre
ascoltavo, continuavo a riflettere su tutti i pensatori che ben prima del
Settecento avevano scritto sul comportamento e sull’angoscia dell’uomo;
filosofi, per esempio, quali Epicuro, Marco Aurelio, Montaigne e John
Locke. Questi pensieri, e il libro di Rollo May, mi persuasero che era giunto
il momento di cominciare a studiare filosofia e così, durante il secondo anno
come medico interno, mi iscrissi a un corso annuale di storia della filosofia
occidentale al campus Homewood dell’università Johns Hopkins, dove
studiava Marilyn. Il nostro libro di testo era la popolare Storia della
filosofia occidentale di Bertrand Russell e, dopo tanti anni di testi di
fisiologia, medicina, chirurgia e ostetricia, quelle pagine furono vera e
propria ambrosia per me.
A partire da quel corso introduttivo sono stato un autodidatta in filosofia,
leggendo ampiamente per conto mio e seguendo corsi sia alla Hopkins che,
in seguito, alla Stanford. All’epoca non avevo idea di come avrei applicato
quella saggezza al settore di cui mi occupavo, ma da qualche parte, nel
profondo, sapevo di aver trovato il mestiere della mia vita.
In seguito, nel corso dell’internato, svolsi un praticantato di tre mesi nel
vicino Istituto Patuxent, una prigione che ospitava i criminali malati di
mente. Incontravo i pazienti in terapie individuali e giornalmente conducevo
una terapia di gruppo per persone che avevano commesso reati sessuali, uno
dei gruppi più difficili che abbia mai coordinato. I membri passavano molto
più tempo a cercare di convincermi che erano in grado di controllarsi che a
lavorare sui loro problemi. Dato che la loro sentenza non aveva un termine
prefissato, ovvero sarebbero rimasti in carcere fino a quando gli psichiatri
non li avessero dichiarati guariti, la loro riluttanza nel rivelare molte cose
era del tutto comprensibile. Trovai affascinante la mia esperienza al Patuxent
e alla fine dell’anno decisi che avevo materiale sufficiente per scrivere due
articoli, uno sulla terapia di gruppo per i devianti sessuali e l’altro sul
voyeurismo.
L’articolo sul voyeurismo fu una delle prime pubblicazioni psichiatriche
sull’argomento. Sostenni che il voyeur non voleva semplicemente vedere
donne nude: per provare un grande piacere, era necessario che vederle fosse
proibito e surrettizio. Nessuno dei voyeur che avevo studiato aveva
frequentato club di strip-tease, prostitute o la pornografia. Inoltre, sebbene il
voyeurismo fosse sempre stato considerato un crimine fastidioso, bizzarro
ma sostanzialmente innocuo, ritenevo che la cosa non fosse vera. Molti
detenuti con i quali avevo lavorato avevano cominciato con il voyeurismo ed
erano poi passati a crimini più seri, fino ad arrivare all’aggressione
sessuale.
Mentre scrivevo quell’articolo, mi venne in mente la mia presentazione
del caso di Muriel alla facoltà di medicina, e appena ebbi rammentato
l’interesse suscitato nel pubblico avendo cominciato la presentazione con
una storia, misi all’inizio dell’articolo sul voyeurismo il racconto di Tom il
Guardone. Mia moglie, mentre lavorava al suo dottorato, mi aiutò a
recuperare i primi resoconti della leggenda di Lady Godiva, la nobildonna
dell’undicesimo secolo che si era offerta di cavalcare nuda per le strade per
salvare i propri concittadini dalle tasse eccessive imposte dal marito. Tutti i
concittadini, tranne Tom, avevano mostrato la loro gratitudine rifiutandosi di
guardare le sue nudità. Ma il povero Tom non aveva potuto resistere
all’impulso di sbirciare sua signoria nuda e, per la sua trasgressione, era
diventato cieco all’istante. L’articolo venne immediatamente accettato e
pubblicato sugli Archives of General Psichiatry.
Poco dopo, l’articolo sulle tecniche della gestione della terapia di gruppo
per criminali sessuali fu pubblicato sul Journal of Nervous and Mental
Disease. Senza alcun collegamento con il mio lavoro al Patuxent, pubblicai
inoltre un articolo sulla diagnosi della demenza senile. Siccome era insolito
che i medici in internato pubblicassero con il loro nome, la reazione della
facoltà alla Hopkins fu decisamente positiva. Il plauso fu molto gratificante
ma mi lasciò anche un po’ perplesso, dato che scrivevo con relativa facilità.

John Whitehorn indossava sempre camicia bianca, cravatta e completo


marrone. Noi medici interni supponevamo che avesse due o tre completi
identici, dato che non lo vedemmo mai indossare altro. Ci si aspettava che
l’intera classe degli interni partecipasse al suo cocktail annuale all’inizio di
ogni anno accademico, e tutti noi ne eravamo terrorizzati: dovevamo stare in
piedi per ore con indosso i nostri completi con tanto di cravatta, e ci veniva
servito solo un bicchierino di sherry, senza altro cibo o bevanda.
Durante il nostro terzo anno io e gli altri cinque interni trascorrevamo
l’intero venerdì, ogni settimana, con il dottor Whitehorn, seduti nell’ampia
sala conferenze adiacente al suo studio mentre lui incontrava ciascuno dei
suoi pazienti ospedalizzati. Il dottor Whitehorn e il paziente di turno
sedevano su sedie imbottite, mentre per noi interni, a pochi metri di distanza,
erano riservate sedie di legno. Alcuni colloqui duravano soltanto dieci o
quindici minuti, altri un’ora, e a volte anche due o tre.
All’epoca Una guida per lo svolgimento dei colloqui e lo studio clinico
della personalità, da lui pubblicata, veniva utilizzata nella maggior parte dei
programmi di formazione psichiatrica degli Stati Uniti e offriva al neofita un
approccio sistematico al colloquio clinico; tuttavia il suo stile nel condurre
un colloquio era tutt’altro che sistematico. Raramente faceva domande
relative ai sintomi o alle aree di sofferenza, adottando piuttosto il motto:
«Lasciate che sia il paziente a insegnare a voi». Ora, più di mezzo secolo
dopo, alcuni esempi mi rimangono ancora nella memoria: un paziente stava
scrivendo una tesi di dottorato sull’Invincibile Armata spagnola, un altro era
un esperto di Giovanna d’Arco, un altro ancora era un ricco coltivatore di
caffè brasiliano. In ciascuno di questi casi il dottor Whitehorn intrattenne con
il paziente colloqui molto prolungati, di almeno novanta minuti,
focalizzandosi sui suoi interessi. Imparammo moltissimo sul contesto storico
dell’Invincibile Armata, sulla cospirazione contro Giovanna d’Arco, sulla
precisione degli arcieri persiani, sul piano di studi di una scuola
professionale per saldatori, e su quanto avessimo mai voluto sapere (e anche
di più) della relazione tra la qualità dei chicchi di caffè e l’altitudine alla
quale crescevano. A volte mi annoiavo e staccavo la spina, solo per scoprire
che dieci o quindici minuti più tardi il paziente ostile, prevenuto e paranoide
stava parlando in maniera più franca e personale della propria vita interiore.
«Voi e il vostro paziente siete entrambi vincitori» diceva John Whitehorn.
«L’autostima del paziente viene aumentata dal vostro interesse e dalla vostra
disponibilità a essere istruito da lui, e voi venite istruito e alla fine saprete
tutto quello che vi occorre sulla sua malattia».
Dopo i colloqui mattutini ci veniva servito un pranzo che durava due ore
nel grande studio confortevole, su ottimi piatti di porcellana, secondo lo stile
rilassato tipico degli Stati del Sud: un’abbondante insalata, panini, tortini di
merluzzo e a base di granchi di Chesapeake Bay, a tutt’oggi il mio piatto
favorito. La conversazione accompagnava l’insalata e i panini fino al dessert
e al caffè, e abbracciava svariati argomenti. A meno che non lo
indirizzassimo verso un ambito particolare, Whitehorn propendeva a parlare
delle sue nuove idee sulla tavola periodica. Andava alla lavagna e tirava giù
la carta della tavola periodica che era sempre appesa nel suo studio. Anche
se a Harvard aveva seguito una formazione psichiatrica ed era stato il
preside di psichiatria alla Washington University di St. Louis prima di venire
alla Hopkins, originariamente era un biochimico e aveva fatto ricerche
importanti sulla chimica del cervello. Ricordo di avergli posto domande
sull’origine del pensiero paranoico, sulle quali si era dilungato a rispondere.
Una volta, mentre attraversavo una fase prevalentemente deterministica
riguardo al comportamento umano, gli suggerii che la conoscenza totale di
tutti gli stimoli imposti all’individuo ci avrebbe permesso di prevedere con
precisione la sua reazione, riguardo sia i pensieri che le azioni. Paragonai la
cosa all’atto di colpire una palla da biliardo: se conoscessimo la forza,
l’angolazione e la rotazione, conosceremmo anche la reazione della palla
colpita. La mia posizione lo spinse ad assumere la visione opposta, una
prospettiva umanistica a lui estranea e disagevole. Dopo una vivace
discussione il dottor Whitehorn disse, rivolto agli altri: «Non è da escludere
che il dottor Yalom si stia un po’ divertendo alle mie spalle». Ripensandoci,
probabilmente aveva ragione: rammento la sensazione di divertimento
all’idea di essere riuscito a fargli sostenere il punto di vista umanistico, che
di solito ero io ad abbracciare.
La mia unica delusione con lui si verificò quando gli prestai una copia de
Il processo di Kafka, che avevo amato in parte anche per la presentazione
metaforica dell’instabilità emotiva e del senso di colpa fluttuante. Il dottor
Whitehorn mi aveva restituito il libro un paio di giorni dopo, scuotendo il
capo e dicendo che proprio non lo capiva e che preferiva parlare con
persone reali. A quell’epoca mi occupavo di psichiatria da tre anni e dovevo
ancora incontrare un qualsiasi clinico che fosse interessato alle intuizioni dei
filosofi o dei romanzieri.
Finito il pranzo tornavamo ad assistere ai colloqui del dottor Whitehorn.
Verso le quattro o le cinque cominciavo a entrare in ansia, impaziente di
uscire e andare a giocare a tennis con il mio compagno abituale, uno studente
di medicina. Il campo da tennis per il personale era a poco più di cinquanta
metri, in una nicchia tra il dipartimento di psichiatria e quello di pediatria, e
molti venerdì sera mantenni viva in me la speranza fino a quando gli ultimi
raggi del sole non svanivano completamente, dopodiché con un sospiro
tornavo a rivolgere la mia attenzione al colloquio in corso.
Durante la fase di formazione il mio ultimo contatto con John Whitehorn
ebbe luogo nel corso dell’ultimo mese d’internato. Mi convocò nel suo
studio un pomeriggio, e quando ebbi chiuso la porta dietro di me e mi fui
accomodato davanti a lui, notai che la sua faccia sembrava mostrare
un’espressione meno severa del solito. Mi stavo sbagliando o discernevo
davvero della cordialità, persino un’ombra di sorriso? Dopo una tipica
pausa alla Whitehorn, si sporse verso di me e chiese: «Che programmi ha
per il futuro?» Quando gli dissi che il passo successivo per me consisteva
negli imminenti due anni di servizio obbligatorio nell’esercito, fece una
smorfia e disse: «È fortunato che siamo in tempo di pace. Mio figlio è stato
ucciso durante la seconda guerra mondiale, nella battaglia delle Ardenne…
una dannata carneficina». Balbettai il mio dispiacere, ma lui chiuse gli occhi
e scosse la testa, a indicare che non desiderava parlare ulteriormente
dell’argomento. Mi chiese dei miei progetti dopo l’esercito. Gli dissi che
ero incerto riguardo al futuro e che avevo la responsabilità di una moglie e
di tre bambini. Forse, gli dissi, avrei potuto praticare la professione a
Washington o a Baltimora.
Scosse la testa, indicò le mie pubblicazioni che erano appoggiate in una
pila ordinata sulla sua scrivania e disse: «Pubblicazioni come queste dicono
qualcos’altro. Rappresentano i gradini della scala accademica che ciascuno
deve ascendere. L’istinto mi dice che, se continuerà a pensare e a scrivere in
questo modo, potrebbe esserci un brillante futuro per lei nella facoltà di una
qualche università, per esempio la Johns Hopkins». Le sue ultime parole mi
risuonarono per molti anni nelle orecchie: «Sarebbe come sputare in faccia
alla fortuna se non perseguisse una carriera accademica». Concluse la seduta
consegnandomi una sua fotografia incorniciata, con la dedica «Al dottor
Irvin Yalom, con affetto e ammirazione». Ancora oggi è appesa nel mio
studio. Mentre scrivo, la posso vedere accanto a una fotografia di Jolting Joe
DiMaggio. «Con affetto e ammirazione»: adesso, mentre penso a queste
parole, sono stupefatto, all’epoca non avevo mai percepito simili sentimenti
in lui. Soltanto ora, mentre scrivo, mi rendo conto che John Whitehorn, e con
lui Jerome Frank, mi sono davvero serviti da mentori, e che mentori! Forse
per me è arrivato il momento di abbandonare la convinzione di essermi
creato completamente da solo.
Mentre portavo a termine i miei tre anni di internato, il dottor Whitehorn
stava a sua volta terminando la sua lunga carriera alla Johns Hopkins e io,
assieme agli altri medici interni e all’intera facoltà di medicina, presi parte
alla sua festa di pensionamento. Ricordo bene come cominciò il suo discorso
d’addio. Dopo una vivace introduzione del professor Leon Eisenberg, il mio
supervisore in psichiatria infantile che presto avrebbe ottenuto la presidenza
del dipartimento di psichiatria di Harvard, il dottor Whitehorn si alzò,
raggiunse il microfono e, con la sua voce misurata e formale, esordì dicendo:
«Si dice che il carattere di un uomo può essere giudicato dal carattere dei
suoi amici. Se questo è vero…» fece una pausa e con uno sguardo lento e
ostentato perlustrò il vasto pubblico presente, da sinistra a destra, «allora
devo essere davvero una gran bella persona».
Da allora ebbi solo un paio di contatti con John Whitehorn. Diversi anni
più tardi, mentre insegnavo alla Stanford, un suo parente stretto mi contattò
dicendomi che Whitehorn l’aveva inviato da me per una psicoterapia, e fui
lieto di essere in grado di offrirgli il mio aiuto per qualche mese. E poi, nel
1974, quindici anni dopo il mio ultimo incontro diretto con lui, ricevetti una
telefonata dalla figlia, che non avevo mai incontrato. Mi disse che suo padre
aveva avuto un gravissimo ictus, era in punto di morte e aveva chiesto
specificamente che io lo andassi a trovare. Ne fui sbalordito. Perché io? Che
cosa potevo mai offrirgli? Ma naturalmente non esitai e la mattina successiva
volai attraverso il paese fino a Washington dove, come sempre, fui ospitato
da mia sorella Jean e da suo marito Morton. Presi in prestito la loro auto,
passai a prendere mia madre, che amava sempre fare giri in macchina, e
raggiunsi un convalescenziario appena fuori Baltimora. Feci sedere
comodamente mia madre nell’atrio e presi l’ascensore per salire nella
camera del dottor Whitehorn.
Lui mi sembrò molto più piccolo di quanto ricordavo. Aveva una parte
del corpo paralizzata ed era affetto da afasia espressiva, che ostacolava in
modo notevole la sua capacità di esprimersi verbalmente. Quale shock fu per
me vedere la persona dall’eloquio più raffinato che avessi mai conosciuto
che adesso sgocciolava saliva e cercava con fatica le parole per comunicare.
Dopo alcuni tentativi falliti, finalmente riuscì a mormorare: «Ho… ho… ho
paura, una paura dannata». E anch’io avevo paura, nel vedere una grande
statua abbattuta e ridotta in frantumi.
Il dottor Whitehorn aveva formato due generazioni di psichiatri, gran
parte dei quali erano adesso presidi delle principali università. Mi chiesi:
«Perché io? Che cosa posso mai fare per lui?»
Finii per non fare molto. Mi comportai come un qualsiasi visitatore
nervoso, alla ricerca disperata di parole di conforto. Gli ricordai i tempi che
avevo trascorso con lui all’Hopkins e gli dissi quanto fossero stati preziosi
per me i venerdì trascorsi insieme, quanto mi avesse insegnato sui colloqui
con i pazienti, come avessi seguito il suo consiglio e fossi diventato
professore universitario, come avessi cercato di emularlo nel mio lavoro
trattando i pazienti con dignità e interesse, e come, seguendo il suo consiglio,
avessi lasciato che i pazienti mi istruissero. Lui emise dei suoni ma non
riusciva a formulare parole, e alla fine, dopo trenta minuti, cadde in un sonno
profondo. Me ne andai, scosso e ancora perplesso sul perché avesse chiesto
di me. In seguito venni a sapere dalla figlia che era morto due giorni dopo la
mia visita.
La domanda «Perché io?» mi rimase nella mente per anni. Perché
chiamare il figlio problematico e insicuro di un droghiere immigrato? Forse
ero un sostituto per il figlio che aveva perso nella seconda guerra mondiale.
Il dottor Whitehorn ebbe una morte così solitaria! Vorrei avergli potuto dare
di più. Molte volte ho sognato di poter avere una seconda occasione. Avrei
dovuto parlare di più di quanto avevo caro il tempo trascorso assieme a lui,
e dirgli quanto spesso avessi pensato a lui quando incontravo i miei pazienti.
Avrei dovuto cercare di esprimere il terrore che doveva provare. O avrei
dovuto toccarlo, o tenergli la mano, o baciarlo su una guancia, e invece
avevo desistito: per troppo tempo l’avevo conosciuto come un uomo formale
e distante, e inoltre era così indifeso che avrebbe potuto vivere il mio gesto
di tenerezza come una sorta di aggressione.
Una ventina d’anni dopo, durante un’occasionale conversazione a pranzo,
David Hamburg, il preside di psichiatria che mi aveva portato alla Stanford
dopo il mio servizio nell’esercito, mi disse che mentre faceva le pulizie in
casa propria aveva trovato una lettera di raccomandazione per la mia
nomina, da parte di John Whitehorn. Mi mostrò la lettera e restai sbalordito
dalla frase conclusiva: «Credo che il dottor Yalom diventerà un personaggio
di spicco della psichiatria americana». Adesso, ripensando alla mia
relazione con lui, credo di capire perché venni convocato al suo capezzale.
Deve avermi considerato uno che avrebbe portato avanti il suo lavoro. Mi
sono appena voltato a guardare la sua fotografia appesa sopra la mia
scrivania, per coglierne lo sguardo. Spero gli sia stato di conforto il
pensiero che, attraverso me, avrebbe continuato a esistere e a manifestarsi
nel futuro.
16.
Destinazione Paradiso
Nell’agosto del 1960, un mese dopo aver concluso l’internato al Johns
Hopkins, venni iniziato alla vita militare. In quegli anni era in vigore la leva
obbligatoria, ma gli studenti di medicina avevano la possibilità di richiedere
una proroga, chiamata Piano Berry, che permetteva loro di terminare la
facoltà di medicina e l’internato prima di prendere servizio. Trascorsi le mie
prime settimane nell’esercito svolgendo un addestramento di base al forte
Sam Houston di San Antonio e, mentre ero lì, mi fu notificato che avrei
trascorso i due anni successivi in una base in Germania. Pochi giorni dopo
un’altra notifica m’informò che invece sarei stato inviato in Francia. E due
settimane più tardi, mirabile dictu, mi fu ordinato di presentarmi al Tripler
Hospital di Honolulu, alle Hawaii. E quella fu la sede definitiva.
Ricordo con grande chiarezza il primo impatto con le Hawaii. Appena
scesi dall’aereo, Jim Nicholas, uno psichiatra dell’esercito destinato a
essere un mio carissimo amico per i successivi due anni, mi mise una collana
di plumeria attorno al collo. L’aroma mi salì su per il naso, una fragranza
dolce, pesante, e in quel preciso istante sentii che qualcosa stava scivolando
dentro di me. I miei sensi si risvegliarono e in breve fui intossicato
dall’aroma della plumeria, che era dappertutto: all’aeroporto, nelle strade e
nel piccolo appartamento nel quartiere di Waikiki che Jim aveva scelto per
noi e rifornito di generi alimentari e fiori. Nel 1960 le Hawaii erano un
luogo di grande bellezza naturale: la vegetazione rigogliosa, le palme,
l’ibisco, il costus spicatus rosso, i gigli ragno bianchi, gli uccelli del
paradiso e, naturalmente, l’oceano con le sue onde verdi-azzurre che
scivolavano dolcemente sulla sabbia scintillante. Tutti indossavano abiti
strani e meravigliosi: Jim mi accolse in camicia a fiori, pantaloni corti e un
paio di sandali detti zoris, e mi portò in un negozio di Waikiki dove, almeno
per un giorno, mi tolsi la divisa dell’esercito e ne uscii con indosso un paio
di zoris, una camicia aloha viola e calzoni corti di un blu brillante.

Marilyn e i nostri tre bambini arrivarono due giorni dopo, e insieme


raggiungemmo in macchina la cima dove sorgeva l’osservatorio Pali, con
una veduta mozzafiato della parte orientale dell’isola. Mentre guardavamo le
montagne verde scuro che ci circondavano, le cascate e gli arcobaleni,
l’oceano verde-blu, le spiagge infinite, Marilyn indicò Kailua e Lanikai,
sotto di noi, e disse: «Questo è un paradiso: voglio vivere laggiù».
Ero felice della sua felicità. Gli ultimi tempi erano stati orribili per mia
moglie. Durante il mio addestramento di base a San Antonio, durato sei
settimane, la vita era stata dura per entrambi, ma particolarmente pesante per
lei. A San Antonio non conoscevamo nessuno, e ogni giorno la temperatura
raggiungeva i trentotto gradi. Il mio programma giornaliero alla scuola
dell’esercito era molto impegnativo ed ero fuori casa tutto il giorno per
cinque o sei giorni alla settimana, lasciando così Marilyn da sola con tre
bambini piccoli. Le cose peggiorarono ancor di più quando fui costretto a
sottopormi a una settimana di addestramento in una base ad alcune ore da
San Antonio. Laggiù imparai cose preziosissime quali maneggiare armi
(vinsi una medaglia da tiratore scelto per la precisione con il fucile) e
strisciare sotto il filo spinato mentre i proiettili veri di una mitragliatrice ci
sibilavano sopra la testa (per lo meno ci dissero che si trattava di proiettili
veri: nessuno ha voluto verificare l’informazione). In quell’epoca precedente
all’i-Phone, io e Marilyn non potemmo avere alcun contatto in quei giorni.
Quando tornai, venni a sapere che aveva avuto un violento attacco di
appendicite il giorno dopo la mia partenza. Era stata portata all’ospedale
militare per un’appendicectomia d’urgenza, mentre il personale militare si
prendeva cura dei nostri figli. Quattro giorni dopo l’operazione, il
responsabile di chirurgia andò a trovarla a casa, la sera, e le disse che
l’esame patologico indicava la presenza di un cancro intestinale che avrebbe
richiesto una resezione importante dell’intestino crasso; fece persino dei
disegni che Marilyn avrebbe dovuto mostrarmi, indicando le parti d’intestino
che dovevano essere rimosse. Quando, il giorno dopo, ritornai a casa, fui
scioccato dalla notizia e dai disegni del chirurgo. Mi precipitai all’ospedale
dell’esercito e ottenni i vetrini del patologo, che mandai immediatamente con
un pacco speciale ad amici medici nell’est del paese. Tutti concordarono sul
fatto che Marilyn aveva un tumore carcinoide benigno che non necessitava di
un qualsiasi altro trattamento. Ancora oggi, a cinquant’anni di distanza,
mentre ne scrivo, provo una grande rabbia nei confronti dell’esercito per non
avermi informato e per aver suggerito un intervento chirurgico importante e
irreversibile per un tumore assolutamente benigno.
Tutto questo adesso era alle nostre spalle mentre guardavamo le montagne
e l’acqua azzurra in quel nuovo ambiente, e mi sentivo eccitato e sollevato di
vedere di nuovo accanto a me la Marilyn vivace e vitale di sempre. Tornai a
guardare Kailua e Lanikai. Non ci sarebbe stato possibile vivere laggiù: non
avevamo molti soldi e l’esercito offriva alloggi poco costosi nella caserma
Schofield. Ma ero incantato da quei luoghi quanto Marilyn e, nel giro di
pochi giorni, affittammo una casetta a Lanikai, a un isolato di distanza da una
delle più belle spiagge del mondo. La spiaggia di Lanikai si è conquistata un
posto permanente nella mente di entrambi: rimane la più bella che abbiamo
mai visto e da allora, ogni volta che camminiamo su una spiaggia di sabbia
sottile ma compatta, ci scambiamo uno sguardo e diciamo: «La sabbia di
Lanikai».
Per molto tempo, dopo aver lasciato le Hawaii, tornammo regolarmente a
quella spiaggia che adesso, ahimè, è stata in gran parte erosa. Vivemmo
laggiù per un anno, finché non venimmo a sapere che un ammiraglio era stato
inaspettatamente reinviato nel Sud del Pacifico, e la sua casa nella vicina
Kailua si era liberata. L’affittammo immediatamente. Eravamo così vicini
all’acqua che potevo fare surf o nuotare con il respiratore anche quando
dovevo essere reperibile: Marilyn mi segnalava che avevo una chiamata
agitando un grosso asciugamano bianco dalla veranda.
Poco dopo il nostro arrivo ricevemmo lettere di saluto da parte di tre
generali con base alle Hawaii, in Germania e in Francia, e tutti e tre mi
davano il benvenuto per il nuovo incarico. La confusione iniziale riguardo la
mia destinazione fece sì che molti dei nostri beni andassero perduti chissà
dove, durante il trasloco, e quindi per noi fu davvero un nuovo inizio:
comprammo tutti i mobili e la biancheria per la casa in un solo giorno, a una
vendita di oggetti usati.
I miei compiti nell’esercito erano poco impegnativi. Trascorrevo la
maggior parte del tempo in un’unità per degenti provenienti da varie basi del
Pacifico. Nel 1960 la guerra del Vietnam doveva ancora cominciare, ma
molti dei nostri pazienti avevano partecipato ad azioni militari non ufficiali
nel Laos. La maggior parte di quelli con malattie mentali serie era già stata
selezionata e mandata direttamente negli ospedali degli Stati Uniti. Quindi
molti dei nostri pazienti erano giovani uomini che, nel tentativo di ottenere il
congedo, fingevano di essere psicotici, pur non essendolo.
Uno dei miei primi pazienti, un sergente con diciannove anni di servizio e
ormai prossimo alla pensione, era stato arrestato per essersi ubriacato in
servizio – un’accusa grave, che poteva compromettere le condizioni del suo
pensionamento. Venne da me per essere esaminato e rispose in modo errato a
tutte le domande che gli rivolsi. Ma ciascuna delle sue risposte era così
prossima alla verità da dare l’impressione che alcune parti della sua mente
conoscessero la risposta esatta: sei per sette faceva quarantuno, il giorno di
Natale era il 26 dicembre, un tavolo aveva cinque gambe. Non avevo mai
visto un caso del genere in precedenza e, parlando con i colleghi e
consultando la letteratura al riguardo, finii per scoprire che si trattava di un
classico caso di sindrome di Ganser (o, come spesso è conosciuta, sindrome
delle risposte approssimative), un tipo di disordine artefatto nel corso del
quale il paziente simula una malattia quando non è davvero malato, ma sta
cercando di sottrarsi alla responsabilità per un qualche atto illecito.
Trascorsi parecchio tempo con lui durante il suo soggiorno di quattro giorni
(i pazienti che necessitavano un’ospedalizzazione più lunga venivano
rispediti negli Stati Uniti), ma non riuscii mai ad avere un contatto con il suo
io non ingannevole. La parte davvero strana, come appresi dai miei studi
della letteratura sulle conseguenze a lungo termine, era che un’alta
percentuale di pazienti con la Ganser in effetti sviluppava disordini psicotici
negli anni successivi!
Ogni giorno dovevamo decidere se un soldato fosse davvero malato di
mente o stesse solo simulando per ottenere un congedo medico. Quasi tutti i
pazienti che venivano da noi volevano uscire dall’esercito o dalla marina o
dai marines (trattavamo tutti gli ambiti militari), e io e i miei colleghi
eravamo preoccupati dall’arbitrarietà del nostro processo decisionale: le
linee guida erano poco chiare, e c’erano occasioni in cui le nostre
raccomandazioni risultavano in contraddizione tra loro.
I miei compiti erano fin troppo leggeri in confronto a quello che avevo
dovuto fare durante il tirocinio e l’internato: dopo quattro anni in cui ero
tenuto a essere a disposizione ogni sera e ogni fine settimana, mi sembrava
di trascorrere due anni di vacanza. C’erano tre psichiatri, e ciascuno doveva
essere a disposizione ogni tre notti e ogni tre fine settimana: mi toccò andare
all’ospedale di notte solo poche volte nel corso dell’intera durata del mio
incarico. Noi tre psichiatri eravamo in ottimi rapporti tra noi e con il nostro
ufficiale comandante, il colonnello Paul Yessler, un collega cordiale e ben
preparato che ci permetteva di svolgere il nostro lavoro in piena autonomia.
Anche se la nostra unità psichiatrica, Little Tripler, era a soli cento metri dal
grande Tripler Hospital, vi regnava un’atmosfera rilassata, poco militare.
Consumavo il pasto al grande Tripler e di quando in quando vi effettuavo dei
consulti per altri servizi medici, ma per il resto ci mettevo piede di rado, e
spesso stavo settimane senza dover dare o ricevere saluti militari.
Visto la libertà di cui godevo, scelsi di sviluppare il mio interesse per il
lavoro di gruppo e formai una varietà di gruppi di terapia: ogni giorno
c’erano gruppi per pazienti degenti, gruppi per pazienti ambulatoriali quali
le mogli di militari e, nel tempo libero, un gruppo di analisi del processo per
medici psichiatri interni non militari all’Hawaii State Hospital di Kaneohe.
Mi sentivo davvero utile nel gruppo per le mogli dei militari. Molte di
loro dovevano affrontare il problema di essere lontane dai loro ambienti
abituali, ma alcune scelsero di impegnarsi in un lavoro profondo, esplorando
la loro solitudine e l’incapacità di creare connessioni con gli altri membri
della comunità. Il gruppo dei medici interni era di gran lunga più difficile. I
medici volevano un’esperienza terapeutica che fosse utile tanto a livello
personale che per lo sviluppo delle loro capacità di condurre un gruppo.
Avevano sentito dire che ero un esperto nella terapia di gruppo e mi chiesero
di guidarli. Mi sentivo a disagio: non avevo mai guidato gruppi del genere e,
inoltre, avevo solo uno o due anni di esperienza in più rispetto a loro, ma
dato che i medici interni erano stati abbastanza motivati da rivolgermi quella
richiesta, accettai di farlo. Non ci misi molto a capire che m’ero andato a
ficcare in una situazione difficile. Un gruppo non funzionerà, a meno che i
membri siano disposti a prendersi dei rischi e a rivelare pensieri e
sentimenti intimi, e quel gruppo era estremamente riluttante all’idea di
affrontare questo passo. Lentamente cominciai a comprendere che, dato che
il principale strumento professionale di un terapeuta è costituito dalla sua
persona, l’autorivelazione di difetti personali poteva rivelarsi doppiamente
rischiosa: non solo poteva essere giudicato il suo carattere, ma anche la sua
competenza professionale. Pur essendo pienamente consapevole di un simile
dilemma non fui in grado di risolvere lo stallo, e il gruppo ebbe quindi
successo solo in parte. Giunsi a rendermi conto, per il futuro, che per essere
una guida efficace in circostanze simili si dev’essere disposti
all’autorivelazione, prendendosi dei rischi personali all’interno del gruppo.
Non ho dubbi che i due anni alle Hawaii abbiano cambiato la mia vita.
Prima di allora i miei piani a lungo termine erano di tornare sulla costa est,
forse per cercare, come mi aveva suggerito il dottor Whitehorn, una
posizione accademica, o per riunirmi agli amici e alla famiglia a
Washington, e dedicarmi alla pratica privata. Ma dopo alcuni mesi al sole
delle Hawaii la costa est, fredda, grigia e formale, divenne sempre meno
invitante. Da anni Marilyn avrebbe voluto trasferirsi lontano da Washington,
e in breve ci ritrovammo perfettamente d’accordo sul fatto che entrambi
volevamo rimanere alle Hawaii, o nelle più immediate vicinanze. Prima
delle Hawaii la mia intera vita si era concentrata sul lavoro, lasciandomi
decisamente poco tempo per mia moglie e per i bambini. Le Hawaii mi
avevano fatto spalancare gli occhi sulla bellezza di quello che mi
circondava. Erano in particolare le spiagge ad attirarci, dove io e Marilyn
passeggiavamo per ore tenendoci per mano come ai tempi della scuola.
Trascorrevo molto più tempo con i miei figli, spesso nelle acque calde
dell’oceano, insegnando loro a nuotare, ad andare sott’acqua o a fare surf
senza la tavola. (Non sono mai stato bravo a usare la tavola da surf, non ho
mai avuto un buon equilibrio.) Portavo i bambini al cinema vicino a casa, il
venerdì sera, a vedere film sui samurai, e loro indossavano i loro abiti
hawaiiani come i bambini del luogo.
L’esercito non avrebbe mai inviato via nave la mia Lambretta alle
Hawaii, ma era disposto a spedire un telescopio, perciò, quando eravamo
ancora a Baltimora, avevo barattato la Lambretta con un telescopio
meccanizzato riflettente da otto pollici, una cosa che avevo bramato fin dalle
mie incursioni infantili nel mondo della fabbricazione dei telescopi.
Tuttavia, a parte un paio di volte in cui riuscii a trascinarlo sulla cima di una
montagna, potei usarlo pochissimo alle Hawaii a causa della persistente
caligine del cielo notturno.
Uno dei miei pazienti era un controllore di volo alla base militare
dell’aeronautica, e grazie a lui potei godere di rapidi voli nel fine settimana
nelle Filippine e in Giappone. Feci un po’ di nuoto con il respiratore nelle
magnifiche acque attorno a un’isoletta delle Filippine, e a Manila vidi dei
tramonti che mi sono rimasti per sempre impressi nella mente. Visitai il club
degli ufficiali a Tokyo ed esplorai la città. Ogni volta che mi perdevo,
fermavo un taxi e mostravo il biglietto da visita del club, con l’indirizzo
scritto in giapponese. Ero stato avvertito dal direttore del club di guardare
bene l’autista, quando gli mostravo il biglietto: se inspirava bruscamente
dovevo saltare subito giù dal taxi, dato che un tassista di Tokyo non avrebbe
mai perso la faccia ammettendo di non conoscere un indirizzo.
Poco dopo il nostro arrivo, Marilyn ottenne un posto al dipartimento di
francese della University of Hawaii. Era particolarmente contenta di
occuparsi di un corso di letteratura francese contemporanea con tanti studenti
vietnamiti che parlavano un ottimo francese, anche se avevano grosse
difficoltà ad afferrare le idee di Sartre sull’alienazione mentre
programmavano di farsi una nuotata nelle calde acque blu dell’oceano dopo
la lezione. Marilyn aveva bisogno della macchina per andare all’università,
così mi comprai una briosa motocicletta Yamaha e ogni mattina affrontavo
con entusiasmo il viaggio di trenta minuti per raggiungere il Tripler Hospital,
passando in cima al Pali. Mentre eravamo lì venne aperto il tunnel Wilson,
attraverso le montagne, e a quel punto presi la via più breve per andare al
lavoro e provai l’esperienza quotidiana di entrare nel tunnel con un sole
splendente ed emergerne quasi sempre sotto un delizioso e caldo acquazzone
hawaiiano. Vicino a casa mia, a Kailua, c’era un piccolo club di tennis con i
campi in erba dove, durante i fine settimana, giocavamo contro altri club.
Uno dei miei amici dell’esercito mi fece conoscere il nuoto con il
respiratore e l’immersione subacquea e, nei successivi quarant’anni, avrei
tratto grande piacere dallo scivolare lungo i fondali dell’oceano, ammirando
la fauna e la vita delle creature marine, alle Hawaii, ai Caraibi e in molte
altre parti del mondo. Qualche volta ho fatto anche delle immersioni
notturne, un’emozione speciale con tutte le creature della notte che si mettono
in movimento, specialmente i grossi crostacei.

Jack Ross, un collega dell’esercito che si era formato presso la clinica


Menninger, mi presentò un suo compagno di studi, K.Y. Lum, uno psichiatra
che svolgeva attività privata a Honolulu. Io e Lum organizzammo insieme un
gruppo per la presentazione di casi con parecchi psichiatri delle Hawaii, con
incontri a base mensile. Demmo vita anche a un gruppo di poker, che
s’incontrava ogni due settimane. Io e K.Y. diventammo grandi amici, e quel
gruppo di gioco andò avanti per tre decenni.
Un giorno, durante le mie prime settimane alle Hawaii, André Tao Kim
Hai, un anziano vietnamita che viveva subito dietro l’angolo, si fermò nei
pressi di casa mia con una scacchiera in mano e domandò: «Lei gioca a
scacchi?» Una vera manna dal cielo! Io e André eravamo una coppia perfetta
e giocammo dozzine e dozzine di partite. Si era ritirato alle Hawaii dopo
aver prestato servizio per molti anni come rappresentante vietnamita alle
Nazioni Unite, ma pochi anni dopo, quando scoppiò la guerra del Vietnam,
lasciò gli Stati Uniti in segno di protesta e si trasferì a Parigi, e poi sull’isola
di Madeira. Continuammo la nostra amicizia e la nostra rivalità scacchistica
negli anni successivi, quando andai a trovarlo in entrambe le sue nuove
dimore.
I miei genitori ci vennero a trovare alle Hawaii, e pure la madre di
Marilyn e mia sorella Jean, con la famiglia. Marilyn intrecciò delle amicizie
all’università e per la prima volta sviluppammo una vita sociale, formando
un salotto di otto persone, tra le quali il sociologo Reuel Denney, coautore di
La folla solitaria, e sua moglie Ruth; il filosofo e poeta indonesiano Takdir
Alisjahbana e la moglie tedesca; e George Barati, direttore dell’orchestra
sinfonica hawaiiana, e l’adorabile moglie, anch’essa di nome Ruth e
appassionata di yoga. Trascorremmo molte serate piacevoli in loro
compagnia leggendo le traduzioni delle poesie di Takdir, discutendo dei libri
di Reuel, ascoltando musica o, una notte, ascoltando la registrazione della
Terra desolata di T.S. Eliot letta dall’autore, che ci lasciò tutti intristiti e
depressi. Ancora oggi ricordo il nostro piccolo gruppo che faceva una luau
sulla spiaggia, deliziandosi con bevande e guava hawaiiana, litchi, manghi,
ananas e papaye, le mie favorite. Posso ancora rammentare il sapore degli
spiedini di manzo di Takdir, immersi nella salsa indonesiana alle arachidi.
Con il poker, le immersioni, le passeggiate sulla spiaggia, la moto, i
giochi con i miei figli e gli scacchi, avevo adesso una vita molto più
piacevole di quanto mi fosse mai capitato in precedenza. Amavo
l’informalità, i sandali, il semplice atto di sedere sulla spiaggia e scrutare il
mare. Stavo cambiando: il lavoro non era tutto. La grigia costa orientale, con
i suoi rigidi inverni e le estati oppressivamente afose, non era più un
richiamo per me. Mi sentivo a casa alle Hawaii, e cominciai a fantasticare di
fermarmi laggiù per il resto della vita.

Con l’approssimarsi della conclusione dei nostri due anni alle Hawaii, ci
trovammo di fronte alla decisione di scegliere dove vivere. Avevo
pubblicato altri due articoli professionali e mi stavo orientando verso la
carriera accademica. Ma, ahimè, fermarsi alle Hawaii non era un’opzione
praticabile: la facoltà di medicina si fermava ai primi due anni precedenti la
formazione clinica e non c’era una facoltà di psichiatria a tempo pieno. Mi
sentivo molto solo e avvertivo la mancanza di un mentore, qualcuno che
potesse fornirmi una guida su come procedere. Nemmeno per un istante mi
passò per la mente l’idea di contattare i miei insegnanti della Hopkins, John
Whitehorn e Jerry Frank. Adesso, ripensando a quel periodo, sono
disorientato: perché non ho pensato di chiedere loro consiglio, o una
referenza? Devo aver pensato che mi avessero completamente dimenticato al
termine del mio periodo di internato.
Intrapresi invece il percorso meno fantasioso possibile: gli annunci sui
giornali! Controllai le inserzioni del bollettino dell’American Psychiatric
Association e individuai tre posti di un certo interesse: uno nella facoltà di
medicina della Stanford University, uno in quella della University of
California a San Francisco (UCSF), e un posto di membro del personale al
Mendota State Hospital nel Wisconsin (interessante solo perché l’eminente
psicologo Carl Rogers lavorava in quello stesso ospedale). Presentai
domanda per tutti e tre i posti: tutti e tre accettarono di concedermi un
colloquio, quindi presi un aereo militare alla volta di San Francisco.
Il primo colloquio, alla UCSF, fu con un membro anziano della facoltà,
Jacob Epstein, che al termine di una conversazione di un’ora mi offrì un
posto nella facoltà in qualità di clinico con uno stipendio annuo di
diciottomila dollari. Dato che il mio stipendio al terzo anno di internato era
stato di tremila dollari e quello militare di dodicimila ero tentato di
accettare, anche se sapevo che avrei dovuto dedicare al lavoro moltissimo
tempo: non avrei dovuto solo fare lezione agli studenti di medicina e agli
psichiatri interni, ma anche gestire un reparto grande e affollato di pazienti
ricoverati.
Il giorno successivo David Hamburg, il nuovo preside del dipartimento di
psichiatria della Stanford, mi ricevette per il colloquio. La facoltà di
medicina della Stanford e il suo ospedale si erano appena trasferiti da San
Francisco a una nuova struttura di recente costruzione situata nel campus
della Stanford a Palo Alto, e al dottor Hamburg era stato dato l’incarico di
formare un dipartimento completamente nuovo. Fui colpito dalla sua visione
elevata, dalla preoccupazione per il nostro settore e dalla sua saggezza. E le
sue frasi! Sentir uscire dalla sua bocca una frase solenne e complessa dopo
l’altra era come ascoltare un bel concerto. Inoltre avevo la netta sensazione
che, oltre ad averlo come mentore, avrei anche avuto tutte le risorse e la
libertà accademica di cui avevo bisogno.
Dico questo a posteriori: all’epoca non credo di aver avuto alcuna idea di
ciò che il mio futuro avrebbe potuto essere o di cosa sarei stato capace di
fare. Sapevo cos’era la pratica privata, sapevo che comunque ne sarebbe
valsa la pena e sapevo anche che la pratica privata mi avrebbe
probabilmente fruttato il triplo rispetto a quello che il dottor Hamburg mi
avrebbe offerto alla Stanford.
Il dottor Hamburg mi offrì un posto da lettore e uno stipendio di soli
undicimila dollari annui, mille in meno del mio stipendio nell’esercito. Mise
anche in chiaro la politica della Stanford: i membri a tempo pieno della
facoltà dovevano anche essere studiosi e ricercatori e non potevano integrare
i loro stipendi con la pratica privata.
La notevole discrepanza tra gli stipendi della Stanford e della UCSF in un
primo momento mi lasciò perplesso, ma mentre soppesavo le due offerte
cessò di essere il fattore determinante. Anche se non avevamo risparmi di
sorta e vivevamo da una busta paga all’altra, il denaro non era la
preoccupazione principale. L’incontro con David Hamburg mi aveva colpito,
e volevo far parte del dipartimento universitario che stava costruendo. Mi
resi conto che quello che davvero volevo era una vita di insegnamento e di
ricerca. Inoltre, se si fosse presentata un’emergenza, ero certo di poter
contare sul supporto finanziario dei miei genitori, come pure sul reddito
della potenziale carriera di Marilyn. Dopo essermi consultato con lei al
telefono, accettai il posto alla Stanford e cancellai il volo per il Mendota
State Hospital.
17.
Giungendo a riva
Nel 1964, tre anni dopo l’inizio della mia carriera alla Stanford, decisi di
frequentare un seminario di formazione di livello nazionale, della durata di
otto giorni, a Lake Arrowhead, nel sud della California. Il programma di
quella settimana di lavoro offriva diverse attività d’ordine psicologico, ma il
punto principale, e la ragione per cui volevo andarci, era costituito dalle tre
ore giornaliere destinate a incontri di gruppo con un numero ridotto di
persone. La mattina del primo incontro arrivai qualche minuto prima
dell’inizio, presi posto su una delle tredici sedie disposte in cerchio e mi
guardai attorno, per osservare chi l’avrebbe guidato e le altre persone
arrivate in anticipo. Anche se avevo parecchia esperienza nella conduzione
di gruppi di terapia ed ero molto impegnato nella ricerca e
nell’insegnamento relativi alla terapia di gruppo, non ero mai stato un
membro di un gruppo. Era giunto il momento di rimediare.
Nessuno parlava mentre gli altri arrivavano in fila indiana e prendevano
posto. Alle otto e trenta il responsabile del gruppo, Dorothy Garwood, una
terapeuta con due dottorati (in biochimica e psicologia) che praticava
privatamente, si alzò in piedi e si presentò: «Benvenuti all’istituto NTL di
Lake Arrowhead del 1964» disse. «Questo gruppo si incontrerà a questa
stessa ora tutte le mattine, per tre ore, nei prossimi otto giorni e gradirei che
tutti noi mantenessimo quello che diciamo, tutti i nostri commenti, ancorati
nel “qui e ora”».
Seguì un lungo silenzio. «Tutto qui?» pensai e mi guardai attorno,
vedendo undici facce che irradiavano perplessità e undici teste che si
scuotevano, disorientate. Dopo un minuto i presenti cominciarono a reagire.
«Un orientamento piuttosto sintetico».
«È una specie di scherzo?»
«Non conosciamo nemmeno i nostri nomi».
Nessuna risposta dalla guida. Gradualmente l’incertezza collettiva
cominciò a generare una propria energia.
«Questo è patetico. Sarebbe questa la conduzione che avremo?»
«Non essere maleducato. Sta facendo il suo lavoro. Non capisci che si
tratta di un processo di gruppo? Dobbiamo prendere in esame il nostro
processo».
«Giusto, ho la sensazione, direi più di una sensazione, che lei sappia
esattamente quello che fa».
«Questo significa fidarsi ciecamente: non mi è mai piaciuto dovermi
fidare ciecamente. La verità è che stiamo annaspando, e lei dov’è? Di certo
non ci sta dando una mano».
Ci furono poche pause tra un commento e l’altro, mentre i membri
aspettavano che la guida rispondesse. Ma lei si limitava a sorridere e a
restare in silenzio.
Altri membri intervennero.
«E comunque come si può pensare di riuscire a stare nel “qui-e-ora”
quando non abbiamo una storia in comune? Ci siamo incontrati oggi per la
prima volta».
«Sono sempre a disagio con questo tipo di silenzio».
«Già, anch’io. Paghiamo un bel po’ di soldi e ce ne stiamo qui seduti
senza fare niente, buttando via il nostro tempo».
«Personalmente, il silenzio mi piace. Stare seduto qui dentro con tutti voi
mi manda in brodo di giuggiole».
«Anche a me. Scivolo in uno stato meditativo. Mi sento concentrato,
pronto a tutto».

Mentre m’impegnavo in questo scambio e ci riflettevo su, ebbi un’epifania:


imparai qualcosa che avrei in seguito incorporato nell’essenza stessa del
mio approccio alla terapia di gruppo. Ero appena stato testimone di un
fenomeno semplice ma straordinario: tutti i membri del gruppo erano stati
esposti a un unico stimolo (in questo caso, un leader che chiedeva che tutti i
commenti si mantenessero nel “quie-ora”), e avevano risposto in maniere
differenti. Un unico stimolo condiviso e dodici risposte diverse! Perché?
C’era un’unica soluzione possibile a questo rompicapo: Ci sono dodici
mondi interiori diversi! E queste dodici risposte diverse possono costituire
la strada maestra a questi mondi diversi.
Senza l’assistenza del leader, a quel punto ci presentammo e dicemmo
qualcosa sulla nostra attività professionale e sul perché eravamo lì. Notai
che ero l’unico psichiatra: c’era uno psicologo, e il resto era formato da
educatori o sociologi.
Mi voltai e interpellai direttamente il leader. «Sono incuriosito dal suo
silenzio. Potrebbe dirci qualcosa sul suo ruolo qui dentro?»
Questa volta rispose (brevemente): «Il mio ruolo è di essere il leader e di
raccogliere tutti i sentimenti e le fantasie che i membri possono avere
riguardo ai leader».
Continuammo a incontrarci per i successivi sette giorni e cominciammo a
esaminare le relazioni reciproche. Lo psicologo del gruppo era un individuo
facile alla rabbia e spesso mi attaccava accusandomi di essere presuntuoso e
prepotente. Dopo alcuni giorni raccontò un sogno che aveva avuto, nel quale
era inseguito da un gigante che mi assomigliava. Alla fin fine svolgemmo un
bel po’ di lavoro assieme, io sul mio malessere di fronte alla sua rabbia e lui
sui sentimenti competitivi che gli suscitavo, ed esaminammo almeno parte
della diffidenza che intercorreva tra le nostre rispettive professioni.
Siccome ero l’unico medico presente alla riunione, venni chiamato per
esaminare ed eventualmente far ricoverare un membro di un altro gruppo che
aveva manifestato una reazione psicotica allo stress generato dal gruppo
stesso. Questo episodio mi rese ancor più consapevole del potere di un
piccolo gruppo: il potere non solo di curare, ma anche di causare danni.
Finii per conoscere bene Dorothy Garwood, e anni dopo lei e suo marito
trascorsero con me e Marilyn una deliziosa vacanza a Maui. Non era affatto
una persona impacciata, ma era stata addestrata secondo la tradizione della
clinica Tavistock, un grande centro di formazione e trattamento psicoterapico
di Londra, secondo la quale il leader rimaneva al di fuori del gruppo e
limitava tutte le proprie osservazioni ai fenomeni di massa del gruppo. Tre
anni più tardi, durante un anno sabbatico alla clinica Tavistock, avrei
compreso in modo più chiaro il fondamento logico del suo atteggiamento
nella direzione di quel gruppo.

Quando, nel 1962, la nostra famiglia di cinque persone era arrivata per la
prima volta a Palo Alto, dopo che tre anni prima ero stato congedato
dall’esercito, io e Marilyn ci eravamo dati da fare per trovare un luogo in
cui vivere. Avremmo potuto acquistare una casa nell’area residenziale
riservata ai membri della Stanford ma, come alle Hawaii, scegliemmo un
ambiente differente. Comprammo una casa vecchia di trent’anni (quasi
antica, secondo gli standard della California) a quindici minuti dal campus. I
criteri economici erano molto diversi allora: con un reddito modesto non
avevamo avuto difficoltà ad acquistare una casa, con un acro di terreno, per
trentaduemila dollari. Il prezzo era tre volte il mio reddito annuale alla
Stanford: oggi le condizioni economiche di Palo Alto sono così cambiate che
una casa equivalente costerebbe trenta o quaranta volte lo stipendio annuo di
un giovane professore. I miei genitori ci diedero i settemila dollari per la
caparra, e quella fu l’ultima volta che accettai dei soldi da loro. Tuttavia,
anche dopo aver completato la mia formazione e aver dato vita a una
famiglia di sei persone, mio padre insisteva sempre per pagare il conto al
ristorante. Mi piaceva questo suo modo di occuparsi di me e mi limitavo a
opporre solo una blanda resistenza. E ho trasmesso la sua generosità facendo
esattamente la stessa cosa con i miei figli adulti (che, a loro volta,
oppongono solo una blanda resistenza). È un modo per essere ricordati: il
volto di mio padre mi viene spesso in mente mentre pago il conto per i miei
figli. (E anche noi abbiamo potuto dare ai nostri figli la caparra per le loro
prime case.)
Quando mi presentai per la prima volta al mio dipartimento seppi che ero
stato assegnato al ruolo di direttore medico di un grande reparto al Veterans
Administration Hospital, a dieci minuti dalla facoltà di medicina,
interamente gestito dalla Stanford. Anche se supervisionavo i medici interni,
organizzavo un gruppo d’analisi del processo per gli studenti di medicina
(ovvero un gruppo nel quale studiavamo i modi in cui ci relazionavamo gli
uni agli altri) e avevo del tempo libero per frequentare le conferenze
dipartimentali e i simposi di ricerca, non ero contento del mio lavoro al
Veterans Administration. Sentivo che troppi pazienti, per lo più reduci della
seconda guerra mondiale, non erano ricettivi al mio approccio alla terapia.
Era del tutto possibile che i vantaggi secondari garantiti loro dal mantenere
la condizione di malati fossero troppo elevati: cure mediche gratuite, vitto e
alloggio gratuito e una residenza confortevole. Verso la fine del mio primo
anno dissi a David Hamburg che prevedevo poche occasioni di ricerca al VA
per i miei interessi specifici. Quando mi chiese dove avrei voluto lavorare,
suggerii il reparto ambulatoriale dello Stanford, il centro del programma di
formazione dei medici interni e un luogo dove avrei potuto organizzare un
programma di terapia di gruppo per la formazione e la ricerca. Avendo
osservato il mio lavoro e preso parte a un paio delle mie presentazioni di
casi ai colleghi, ebbe sufficiente fiducia in me per acconsentire a questa
richiesta. Non mi fece mai mancare la sua collaborazione e il suo sostegno, e
da quel momento, per moltissimi anni, non ebbi alcuna responsabilità
amministrativa e godetti della quasi completa libertà di seguire i miei
interessi clinici, didattici e di ricerca.
Nel 1963 Marilyn completò il suo dottorato (con una dissertazione
intitolata Il motivo del processo nelle opere di Franz Kafka e Albert
Camus) nel programma di letteratura comparata della Johns Hopkins. Volò a
Baltimora per gli esami orali, li superò e ricevette il dottorato e la lode.
Tornò a casa sperando di ottenere un posto alla Stanford, e fu crudelmente
disillusa quando il capo del dipartimento di francese, John Lapp, le disse:
«Non assumiamo le mogli di membri della facoltà».
Una generazione dopo, con l’aumento della mia consapevolezza delle
questioni femminili, avrei potuto cercare un posto in un’altra università più
tollerante e in grado di valutarla unicamente sulla base dei suoi meriti, ma
nel 1962 quel pensiero non mi passò nemmeno per la mente, e nemmeno a
Marilyn. Mi dispiacque per lei. Sapevo che meritava un posto alla Stanford,
ma accettammo entrambi la situazione e ci mettemmo semplicemente alla
ricerca di un’alternativa. Poco tempo dopo fu il rettore delle materie
umanistiche del nuovissimo California State College a Hayward a contattare
Marilyn. Avendo sentito parlare di lei da un collega della Stanford, ci venne
a trovare e le offrì un posto di assistente di lingue straniere. Insegnare a
Hayward implicava un viaggio di un’ora per l’andata e una per il ritorno per
quattro giorni alla settimana, con il quale Marilyn dovette fare i conti per i
successivi tredici anni. Il suo stipendio iniziale fu di ottomila dollari, tremila
dollari in meno rispetto al mio stipendio iniziale alla Stanford. Ma i nostri
due stipendi ci permisero di vivere senza problemi a Palo Alto, di pagare
una domestica a tempo pieno e persino di fare diversi viaggi memorabili.
Marilyn ebbe una carriera appagante alla California State e in breve fu
promossa al ruolo di professore associato, fino a conseguire la cattedra.

Nei successivi quindici anni trascorsi alla Stanford fui notevolmente


coinvolto nella terapia di gruppo in qualità di clinico, insegnante, ricercatore
e autore di libri di testo. Cominciai una terapia di gruppo nella clinica per
pazienti ambulatoriali che i miei studenti, i dodici medici di psichiatria
interni al loro primo anno, osservavano attraverso un falso specchio, proprio
come io avevo osservato i gruppi di Jerry Frank quando ero studente.
All’inizio guidavo il gruppo assieme a un altro membro della facoltà, ma già
l’anno successivo introdussi la pratica di condurlo con un interno di
psichiatria, che svolgeva la mansione per un anno per essere poi rimpiazzato
da un altro interno.
Il mio approccio si era andato costantemente evolvendo verso una forma
di conduzione più personale e trasparente, allontanandosi man mano dal
distaccato stile professionale. Dato che i membri del gruppo, tutti
californiani informali, si rivolgevano l’uno all’altro chiamandosi per nome,
mi sentii sempre più a disagio nell’usare nei loro confronti il cognome, o
chiamandoli per nome ma aspettandomi che si rivolgessero a me come al
“dottor Yalom”; così presi la sconvolgente iniziativa di chiedere al gruppo
di chiamarmi “Irv”. Per molti anni, tuttavia, continuai ad aggrapparmi alla
mia identità professionale indossando il camice bianco, come tutto il
personale medico dell’ospedale Stanford. Alla fine rinunciai anche a quello,
essendo giunto a credere che a importare, nella terapia, fossero l’onestà
personale e la trasparenza, non l’autorità professionale. (Non ho mai buttato
via quel camice bianco, è ancora appeso in fondo a un armadio, a casa, un
souvenir della mia identità di medico.) Tuttavia, pur essendomi sbarazzato
dei segni distintivi del mio ordine, tengo ancora saldamente fede al rispetto
per la medicina e per il giuramento di Ippocrate, con tutte le sue numerose
clausole quali: «Praticherò la professione con coscienza e dignità» e: «La
salute del mio paziente sarà la mia prima preoccupazione».
Dopo ogni seduta di terapia di gruppo dettavo ampi riassunti a beneficio
della mia comprensione dell’accaduto e del mio insegnamento (la Stanford
generosamente mi forniva una segretaria). A un certo punto, non ricordo di
preciso quale fu lo stimolo che mi diede l’idea, pensai che avrebbe potuto
essere utile per i pazienti leggere i miei riassunti della seduta e le mie
riflessioni successive all’incontro. Questo portò a un esperimento audace,
del tutto insolito, in termini di terapia della trasparenza: il giorno successivo
a ogni incontro, inviavo una copia del riassunto a tutti i membri del gruppo.
In ogni riassunto venivano descritte le questioni principali della seduta
(generalmente due o tre temi) e il contributo e il comportamento di ciascun
membro. Aggiungevo le ragioni che stavano alla base di ogni mio intervento
nel gruppo e spesso inserivo dei commenti riguardo a cose che avrei
desiderato aver o non aver detto.
Spesso il gruppo dava inizio a una seduta criticando il mio riassunto
dell’incontro precedente. A volte i membri non erano d’accordo, a volte
mettevano in rilievo le omissioni, ma quasi sempre l’incontro cominciava
con maggior energia e interazione di quanto accadesse in precedenza. Trovai
questa pratica talmente utile che continuai a fare questi riassunti per tutto il
tempo in cui condussi gruppi. Quando mi coadiuvava nella conduzione, il
medico interno scriveva un riassunto ogni due settimane. Tuttavia tali
riassunti esigevano così tanto tempo e un tale livello di autoesposizione che,
per quanto ne so, pochi terapeuti di gruppo del paese seguirono il mio
esempio, se mai ce ne furono. Anche se alcuni terapeuti erano critici verso la
mia autoesposizione, non riesco a rammentare un singolo caso in cui l’aver
condiviso i miei pensieri e i miei sentimenti personali non sia stato d’aiuto
al paziente. Perché questa autoesposizione mi riusciva così facile? Da un
lato avevo scelto di non iscrivermi ad alcuna specializzazione post-laurea,
di non far parte di nessun istituto di indirizzo freudiano, junghiano o
lacaniano. Ero totalmente libero da regole generali, ed ero guidato soltanto
dai miei risultati, che monitoravo con attenzione. Potevano essere in gioco
diverse questioni: la mia inveterata iconoclastia (evidente già nelle mie
prime reazioni al credo religioso e ai rituali), la mia esperienza negativa con
un’analisi condotta da un’analista inespressiva e impersonale, e l’atmosfera
sperimentale del giovane dipartimento in cui lavoravo, supervisionato da un
preside di ampie vedute.
Gli incontri settimanali del dipartimento non erano certo la mia passione:
ci andavo sempre, ma non intervenivo quasi mai. Nessuno degli argomenti in
questione (finanziamenti, assegnazione di borse di studio, stanziamenti e
battibecchi vari per gli spazi, le relazioni con gli altri dipartimenti, le
comunicazioni dei decani) aveva il minimo interesse per me. Quello che
invece mi interessava era ascoltare Dave Hamburg quando interveniva.
Ammiravo le sue riflessioni meditate, i metodi per risolvere i conflitti e,
soprattutto, la sua sorprendente abilità retorica. Amo il mondo della
comunicazione orale come altri amano un’esecuzione musicale, e vado in
estasi davanti alle parole di un oratore veramente dotato.
Era ovvio che non avevo abilità amministrative e non mi sono mai offerto
né mai sono stato incaricato di responsabilità in questo ambito. In tutta
franchezza, volevo solo essere lasciato in pace per perseguire le mie
ricerche, scrivere, fare terapia e insegnare. E quasi immediatamente
cominciai a pubblicare articoli su riviste professionali. Questo mi dava
piacere ed era qui che sentivo di avere qualcosa da offrire. A volte mi
chiedo se non simulassi la mia inettitudine amministrativa. È anche possibile
che possa essermi sentito incapace di competere con gli altri giovani
impegnati del dipartimento, tutti a brigare per ottenere poteri e
riconoscimento.

Scelsi di partecipare al convegno di Lake Arrowhead non solo per vivere


l’esperienza di essere membro di un gruppo, ma anche per imparare il più
possibile sul “gruppo T”, un importante fenomeno di carattere non medico
collegato al lavoro di gruppo emerso negli anni Sessanta e che stava
dilagando nel paese. (La T stava per training, formazione, ovvero per lo
sviluppo di abilità tanto in ambito interpersonale che nelle dinamiche di
gruppo.) I fondatori di questo approccio, che erano anche i principali
esponenti dell’Associazione per l’istruzione nazionale, non erano medici ma
studiosi delle dinamiche di gruppo che avevano l’intento di alterare gli
atteggiamenti e i comportamenti all’interno delle organizzazioni e,
successivamente, di aiutare gli individui a essere più sensibili nei confronti
degli altri. La loro associazione, i Laboratori di formazione nazionali (NTL),
teneva seminari o laboratori sociali della durata di diversi giorni a Bethel e
Plymouth nel Maine, e in seguito anche a Lake Arrowhead, in California, a
uno dei quali partecipai anch’io.
Il laboratorio della NTL consisteva in molte attività: piccoli gruppi per lo
sviluppo delle abilità, gruppi di discussione, sulla soluzione dei problemi,
con l’obiettivo di formare una squadra, gruppi più vasti. Ma fu subito chiaro
che i piccoli gruppi T, nei quali i membri si scambiavano feedback
istantanei, costituivano di gran lunga l’esercizio più dinamico e convincente.
Gradualmente, con il passare degli anni, mentre i gruppi della NTL si
spostavano verso ovest e Carl Rogers si interessava a questo campo, il
gruppo T orientò la propria enfasi sul cambiamento personale
dell’individuo. “Cambiamento personale”! Assomiglia molto alla terapia,
vero? I membri erano incoraggiati a dare e ricevere feedback, a essere
osservatori partecipanti, a essere autentici, a prendersi dei rischi. Alla fine
l’ethos si spostò sempre più verso una sorta di psicoterapia. I gruppi
cercavano di mutare atteggiamenti e comportamenti e di migliorare le
relazioni interpersonali, e in breve uno slogan che si sentiva spesso fu: «La
terapia è troppo efficace per essere riservata solo ai malati». I gruppi T
s’indirizzarono verso qualcosa di nuovo: la “terapia di gruppo per le
persone normali”.
Non c’è da stupirsi che questo successivo sviluppo abbia rappresentato
una grossa minaccia per gli psichiatri, che si ritenevano i depositari della
psicoterapia e consideravano gli incontri di gruppo solo una forma selvaggia
e illecita di terapia che sconfinava nel loro territorio. Io la pensavo in modo
piuttosto diverso. Da un lato ero colpito dall’approccio alla ricerca dei
fondatori di questo metodo. Uno dei primi pionieri era stato il sociologo
Kurt Lewin, il cui motto: «Nessuna ricerca senza azione, nessuna azione
senza ricerca» aveva generato un ampio e sofisticato volume di dati che
trovavo molto più interessanti della ricerca sulla terapia di gruppo basata su
esperienze puramente mediche.
Una delle cose più importanti che trassi dall’esperienza di gruppo di Lake
Arrowhead fu il singolare focalizzarsi sul “qui-e-ora”, che cominciai ad
applicare con energia nel mio lavoro. Come avevo imparato a Lake
Arrowhead, non è sufficiente dire ai membri del gruppo di concentrarsi sul
“quie-ora”: dobbiamo procurare loro sia un fondamento logico che un piano
d’azione. Con il tempo elaborai un breve discorso preparatorio nel quale
enfatizzavo che gran parte dei problemi interpersonali di ciascuno si sarebbe
ricreata all’interno del gruppo, offrendo in tal modo a tutti la splendida
opportunità di imparare di più riguardo a se stessi e di effettuare il
cambiamento. Ne derivava (e questo lo ripetevo più di una volta) che il
compito dei vari membri all’interno del gruppo era capire quanto più
potevano sulle proprie relazioni con ciascun altro paziente del gruppo,
oltre che con chi lo guidava. Molti membri nuovi in genere trovavano
sconcertanti alcuni aspetti della preparazione, e spesso avanzavano
l’obiezione che il loro problema era con un superiore, con il coniuge, con gli
amici o con la loro rabbia; pertanto non aveva senso concentrarsi sulle
relazioni con i membri del gruppo perché non li avrebbero mai più rivisti in
futuro.
In risposta a queste domande frequenti spiegavo che il gruppo è un
microcosmo sociale, e che le questioni che venivano sollevate nella terapia
di gruppo avrebbero replicato o ricordato le tipologie di questioni
interpersonali che avevano portato ciascuno a intraprendere la terapia.
Questo passaggio, l’avevo capito bene, era cruciale. In seguito condussi e
pubblicai delle ricerche che dimostravano che i pazienti che erano stati
efficacemente preparati alla terapia di gruppo se la cavavano molto meglio
nella terapia rispetto a quelli che non lo erano stati.
Continuai a restare legato al movimento dei gruppi T per diversi anni e
feci parte della facoltà dei laboratori della NTL a Lincoln, nel New
Hampshire, come pure di un laboratorio di una settimana per amministratori
delegati a Sandusky, in Ohio. Ancora oggi sono grato ai pionieri dei gruppi T
per avermi mostrato come condurre e come studiare i gruppi basati sulle
relazioni interpersonali.

A poco a poco, nel corso degli anni, diedi forma a un programma di


formazione intensivo per la terapia di gruppo riservato ai medici interni di
psichiatria, costituito da varie componenti: una conferenza settimanale,
l’osservazione e la discussione successiva all’incontro settimanale del mio
gruppo di terapia, l’obbligo per gli interni di guidare una terapia di gruppo
con supervisione ogni settimana e, per concludere, la partecipazione a un
gruppo di analisi del processo che conducevo con un collega.
Quale fu la risposta dei medici interni al primo anno, già sovraccarichi di
lavoro, all’idea di trascorrere così tanto tempo a imparare qualcosa sulla
terapia di gruppo? Un bel po’ di mugugni! Alcuni degli interni più gravati di
impegni opposero particolare resistenza alle due ore da passare ogni
settimana a osservare il mio gruppo, e spesso arrivavano in ritardo o non si
presentavano affatto. Ma con il passare delle settimane si verificò un
fenomeno inaspettato: via via che i membri del gruppo si coinvolgevano a
vicenda e assumevano più rischi, gli studenti presero a interessarsi sempre
di più allo spettacolo che si andava svolgendo sotto i loro occhi, e il tasso di
presenze aumentò bruscamente. In breve si cominciò a parlare del gruppo
come del “Peyton Place di Yalom” (una parodia del titolo di una soap opera
televisiva degli anni Sessanta). Penso che l’effetto fosse simile al trovarsi
assorbiti da una storia o da un romanzo ben costruiti, e lo considero un buon
segno se i terapeuti sono ansiosi di sapere cosa succederà in seguito. Persino
ora, dopo mezzo secolo di attività, in genere non vedo l’ora di arrivare alla
seduta successiva, di gruppo o individuale, e m’interrogo su quali nuovi
sviluppi prenderà. Se manca questo sentimento, se affronto una seduta senza
anticipazione, immagino che il paziente possa sperimentare un sentimento
simile e allora faccio uno sforzo per affrontare il problema e modificare la
situazione.
Che effetti aveva sui pazienti l’osservazione da parte degli studenti? Fu
un problema che mi preoccupò molto quando notai che i membri del gruppo
diventavano irritabili se al di là del finto specchio c’erano gli studenti.
Cercavo di rassicurare i pazienti dicendo che gli studenti di psichiatria
operavano seguendo le stesse regole di discrezione dei terapeuti
professionisti, ma la cosa non era di grande aiuto. Poi provai a fare un
esperimento: avrei tentato di trasformare la presenza fastidiosa degli
osservatori in qualcosa di positivo. Chiesi ai membri del gruppo e agli
studenti di scambiarsi i posti per venti minuti alla fine dell’incontro. In tal
modo i membri del gruppo, nella stanza dietro lo specchio, potevano
osservare la discussione che avevo con i miei studenti al termine
dell’incontro. Questo passaggio immediatamente vivacizzò tanto il processo
della terapia che quello dell’insegnamento! I membri del gruppo di terapia
ascoltavano con estremo interesse le osservazioni degli studenti su di loro, e
gli studenti sentivano di essere sottoposti a un esame costante e rivolgevano
un’attenzione molto più intensa alla loro osservazione. Alla fine aggiunsi un
ulteriore passaggio: i membri del gruppo avevano così tanti sentimenti
riguardo ai commenti degli osservatori e agli osservatori stessi (che spesso
giudicavano più in preda all’ansia dei partecipanti al gruppo) da richiedere
un tempo aggiuntivo per discutere le proprie osservazioni sugli osservatori.
Così aggiunsi ulteriori venti minuti, nel corso dei quali gli studenti se ne
tornavano nella stanza dietro lo specchio, e io e i pazienti, nella stanza del
gruppo, discutevamo i commenti degli osservatori. Mi rendo conto che
questo sistema richiede troppo tempo per una pratica giornaliera, ma credo
che la sua struttura abbia incrementato l’efficacia tanto del gruppo di terapia
che della didattica.
Si trattava di cose del tutto nuove ed era una di quelle occasioni in cui ero
contento di non far parte di una qualche scuola tradizionale di terapia. Mi
permettevo di creare liberamente nuovi approcci e avevo imparato a
sufficienza sulla valutazione dei risultati da poter verificare le mie ipotesi. A
posteriori, sono sorpreso da me stesso. Molti terapeuti esperti si
sentirebbero inquieti se qualcun altro osservasse la loro terapia, invece io
mi sentivo perfettamente a mio agio. Questa sicurezza non corrisponde alla
visione interiore che ho di me: da qualche parte, dentro di me, ci sono
ancora l’adolescente e il giovanotto ansioso, imbarazzato, insicuro che ero.
Ma nelle faccende relative alla psicoterapia, e specialmente alla terapia di
gruppo, ero arrivato a sentirmi perfettamente a mio agio assumendo rischi e
riconoscendo gli errori. Provavo un po’ d’ansia riguardo a queste
innovazioni, ma l’ansia per me era storia vecchia, e avevo imparato a
gestirla.
Per il mio ottantesimo compleanno feci una festa a casa mia alla quale
invitai tutti i medici interni di quei primi anni alla Stanford. Molti di loro
parlarono della loro esperienza di formazione per la terapia di gruppo
dicendo che, nell’intero corso della loro formazione, quella di guardare il
mio gruppo era stata l’unica occasione in cui avevano osservato di prima
mano un medico esperto fare terapia. Naturalmente questo mi riportò alla
mente la mia formazione alla Hopkins e la minuscola finestrella nascosta da
uno specchio attraverso la quale guardavamo un gruppo di terapia. Quindi
grazie a te, Jerry Frank.

I membri delle facoltà universitarie non vengono incoraggiati a insegnare. Il


vecchio detto, pubblica o muori, non è una battuta, ma una questione vitale
nel mondo accademico. I venti gruppi del programma per i pazienti
ambulatoriali offrivano un’eccellente opportunità per la ricerca e la
pubblicazione. Mi dedicai a studiare come i terapeuti possano preparare al
meglio i pazienti per la terapia di gruppo, come comporre i gruppi, perché
alcuni partecipanti abbandonassero in anticipo un gruppo e quali fossero i
fattori terapeutici più efficaci.
Mentre continuavo a insegnare la terapia di gruppo mi resi conto che
c’era l’estrema necessità di un libro di testo che includesse vari approcci, e
tutte le mie esperienze (conferenze, ricerca e innovazioni terapeutiche)
avrebbero potuto essere raccolte in un testo di questo tipo. Pochi anni dopo
aver iniziato il mio lavoro alla Stanford cominciai ad abbozzare questo
libro.
Durante questo periodo ebbi rapporti molto stretti con l’Istituto di
Ricerca Mentale (MRI), un collettivo di clinici e ricercatori innovativi quali
Gregory Bateson, Don Jackson, Paul Watzlawick, Jay Haley e Virginia Satir.
Per un intero anno mi recai ogni venerdì a un corso di terapia famigliare
congiunta che durava l’intera giornata, tenuto da Virginia Satir, e finii per
considerare con rispetto l’efficacia di questa terapia, dove i membri di una
famiglia si incontrano tutti insieme con il terapeuta. All’epoca la terapia
famigliare congiunta era molto più frequente di quanto non lo sia oggigiorno,
e conoscevo almeno una dozzina di terapeuti a Palo Alto che si occupavano
solo di questo tipo di terapia.
Stavo trattando pazienti con coliti ulcerose e chiesi a Don Jackson di
essere il mio co-terapeuta in diverse sedute famigliari. Insieme pubblicammo
una relazione sulle nostre scoperte. L’anno successivo incontrai diverse
famiglie per una terapia, ma in definitiva trovavo molto più intrigante la
terapia individuale e quella di gruppo. Da allora non ho più fatto terapia
famigliare, anche se spesso la suggerisco ai miei pazienti. Un altro membro
dell’MRI era Gregory Bateson, famoso antropologo e uno dei teorici che sta
dietro la teoria del “doppio legame” connessa alla schizofrenia. Bateson era
un narratore memorabile e teneva delle serate aperte a tutti a casa sua, ogni
martedì. Io ci andavo spesso, e le avevo molto care.
Un altro settore che m’interessò durante il primo anno alla Stanford fu
quello dei “disordini sessuali”, al quale ero stato introdotto durante
l’internato, quando lavoravo con i criminali sessuali rinchiusi nell’Istituto
Patuxent. A Stanford, nei fine settimana incontravo regolarmente i criminali
sessuali incarcerati nell’Atascadero State Hospital, e per diversi anni, in
seguito, nella mia pratica medica incontrai diversi voyeur, esibizionisti o
pazienti afflitti da altre forme di compulsioni o ossessioni sessuali
perturbanti. Ho spesso trattato anche uomini gay che, in retrospettiva,
soffrivano principalmente della visione che la società aveva di loro. Feci
una presentazione alla Stanford di parte del mio lavoro con questi pazienti, e
subito dopo un chirurgo plastico, Don Laub, del dipartimento di chirurgia
della Stanford, mi chiese se volessi fare da consulente per un nuovo
programma che stava preparando con una serie di pazienti transessuali che
avevano richiesto un cambiamento di genere per via chirurgica. (Il termine
“transgender” ancora non esisteva.) A quell’epoca questo genere di chirurgia
non veniva eseguito negli Stati Uniti, e questi pazienti si facevano operare a
Tijuana o a Casablanca.
Nel corso delle settimane successive il dipartimento di chirurgia m’inviò
una decina di pazienti per una valutazione pre-chirurgica. Nessuno di loro
aveva disturbi mentali seri e fui colpito dalla potenza e dalla profondità
delle motivazioni per il cambio di sesso. La maggior parte di loro era
povera e aveva lavorato per anni per mettere da parte i soldi per
l’operazione. Dal punto di vista anatomico erano tutti maschi che volevano
diventare femmine: i chirurghi ancora non offrivano l’operazione ben più
impegnativa del passaggio da donna a uomo. Il dipartimento di chirurgia
aveva assunto degli operatori sociali per condurre un gruppo prechirurgico
che si occupava di insegnare loro i modi di fare tipicamente femminili.
Partecipai a un esercizio di classe nel quale i pazienti sedevano al bar:
l’istruttore faceva loro rotolare delle monete in grembo e insegnava ad
allargare le ginocchia per prenderle con la gonna, invece di seguire il
riflesso di unire le ginocchia come tendono a fare i maschi.
Il progetto era molto più avanti dei suoi tempi, ma dopo pochi mesi
incorse in una serie di problemi: uno dei pazienti operati divenne una
ballerina senza veli di night-club e si fece ampia pubblicità definendosi una
creazione dello Stanford Hospital, mentre un altro cercò di fare causa
all’ospedale per lesioni avute dopo la rimozione dei genitali maschili. Il
progetto venne chiuso e passarono molti anni prima che lo Stanford tornasse
a occuparsi di questo genere di chirurgia.

I primi cinque anni della mia famiglia a Palo Alto, dal 1962 al 1967,
coincisero con l’inizio dei movimenti per i diritti civili, antimilitaristi,
hippie e beatnik, tutti irradiatisi dall’area della baia di San Francisco. A
Berkeley gli studenti inaugurarono il Movimento per la Libertà di parola e
gli adolescenti scappati di casa sciamarono tutti a Haight-Ashbury, a San
Francisco. Ma alla Stanford, a meno di cinquanta chilometri di distanza, le
cose rimasero relativamente tranquille. Joan Baez viveva nella zona, e una
volta Marilyn partecipò a una marcia contro la guerra assieme a lei. Il mio
ricordo più vivido del periodo è la partecipazione a un enorme concerto di
Bob Dylan a San Jose, dove all’improvviso, in modo del tutto inaspettato,
Joan Baez salì sul palco per eseguire alcune canzoni. Divenni un fan di Joan
Baez per tutta la vita e, anni dopo, fui eccitatissimo quando ebbi l’occasione
di ballare con lei dopo una sua esibizione in un locale.
Come tutti, fummo devastati dalla notizia dell’assassinio di John F.
Kennedy nel 1963, evento che mandò in frantumi l’idea che le nostre vite
pacifiche a Palo Alto non sarebbero state sfiorate dai mali del mondo
esterno, e comprammo la nostra prima televisione per assistere agli
avvenimenti legati alla morte di Kennedy e i servizi commemorativi.
Personalmente rifuggivo qualsiasi credo e pratica religiosi, ma in
quell’occasione Marilyn, sentendo il bisogno del rito e del contatto con la
comunità, portò i nostri due figli più grandi (Eve, di otto anni, e Reid di
sette) a un servizio religioso nella chiesa dello Stanford Memorial. Non
essendo riusciti a sottrarci completamente al richiamo del cerimoniale,
organizzavamo sempre un seder pasquale a casa nostra, con amici e parenti.
Dato che non avevo mai imparato l’ebraico, chiedevo sempre a un amico di
leggere le preghiere cerimoniali.
Nonostante i ricordi sgradevoli dell’infanzia, continuai a preferire il cibo
con il quale ero stato cresciuto: cucina ebraica dell’Est Europa, e niente
maiale. Marilyn invece no. Ogni volta che ero fuori città i bambini sapevano
che avrebbe preparato le braciole di maiale. Io restavo comunque attaccato
ad alcuni riti cerimoniali. Feci circoncidere i miei tre figli maschi, con tanto
di rinfresco cerimoniale per familiari e amici. Reid, il maggiore, scelse di
avere il suo bar mitzvah. Oltre a queste poche tradizioni ebraiche, facevamo
l’albero di Natale, preparavamo le calze piene di doni per i bambini e
organizzavamo una grande festa il 25 dicembre.
Mi è stato chiesto spesso se la mancanza di un credo religioso fosse mai
stata un problema nel corso della mia vita o della mia pratica psichiatrica.
La mia risposta è sempre stata negativa. In primo luogo ci tengo a
sottolineare che sono “areligioso”, e non “antireligioso”. La mia posizione
era tutt’altro che insolita: per la stragrande maggioranza della mia comunità
alla Stanford e per i miei colleghi medici e psichiatri la religione aveva un
ruolo minimo, se non nullo, nella loro vita. Quando trascorro del tempo con i
miei amici devoti (per esempio Dagfinn Føllesdal, un amico norvegese
nonché filosofo cattolico), provo sempre un enorme rispetto per la
profondità della loro fede, e sono portato ad affermare che le mie posizioni
laiche non hanno quasi mai influenzato la mia pratica di terapeuta. Devo
tuttavia ammettere che in tutti i miei anni di pratica è venuto da me solo un
numero relativo di individui impegnati dal punto di vista religioso. Il mio
contatto più frequente con individui devoti nel mio lavoro si è verificato con
pazienti in punto di morte, e in tutti i casi accolgo sempre con gioia e
sostengo qualsiasi conforto religioso riescano a trovare.

Anche se negli anni Sessanta ero profondamente immerso nel mio lavoro e
perlopiù apolitico, non potei fare a meno di notare i cambiamenti culturali in
corso. I miei studenti di medicina e gli interni di psichiatria cominciarono a
indossare i sandali invece di scarpe “adeguate” al loro ruolo, e anno dopo
anno i loro capelli divennero sempre più lunghi e arruffati. Un paio di
studenti mi portarono in regalo del pane che avevano cotto in casa. La
marijuana faceva capolino in tutte le feste di facoltà, e i costumi sessuali
stavano radicalmente mutando.
Quando questi cambiamenti si verificarono mi sentivo già parte della
vecchia guardia e fui turbato quando, per la prima volta, vidi un interno che
indossava pantaloni scozzesi rossi o qualche altro indumento “oltraggioso”.
Ma quella era la California, e il cambiamento non poteva essere fermato.
Gradualmente mi lasciai un po’ andare, smisi di portare la cravatta e ad
alcune feste di facoltà, dove anch’io indossavo pantaloni scampanati, provai
con piacere la marijuana.
Negli anni Sessanta i nostri tre figli (il quarto, Benjamin, non sarebbe
nato prima del 1969) erano concentrati sui loro piccoli drammi quotidiani:
frequentavano le scuole pubbliche locali senza doversi allontanare troppo da
casa, avevano amici, prendevano lezioni di piano e di chitarra, giocavano a
tennis e a baseball, imparavano ad andare a cavallo, facevano parte delle
organizzazioni giovanili dei Blue Birds e dei 4-H e avevano costruito un
recinto per due caprette nel nostro cortile sul retro. Gli amici che vivevano
in case più piccole venivano spesso a giocare a casa nostra, una casa a
stucco secondo lo stile spagnolo antico, con la porta d’ingresso circondata
da una buganvillea d’un viola brillante e un patio che conteneva un piccolo
stagno e una fontana. Il vialetto che portava alla strada era dominato da una
maestosa magnolia, attorno alla quale i bambini giravano con i loro tricicli.
A mezzo isolato di distanza c’era un campo da tennis, dove due volte alla
settimana giocavo con i miei vicini o, quando questi divennero troppo
vecchi, con i miei figli.

Nel giugno del 1964 andammo a trovare la mia famiglia a Washington.


Eravamo ospiti a casa di mia sorella con i nostri tre bambini quando
arrivarono in macchina mio padre e mia madre. Mi sedetti sul divano con
mia figlia Eve e mio figlio Reid in grembo. L’altro mio figlio, Victor, e suo
cugino Harvey giocavano sul pavimento lì accanto. Mio padre, seduto su una
poltrona vicina al divano, mi disse di avere mal di testa e due minuti dopo,
all’improvviso e senza dire una parola, perse conoscenza e crollò in avanti.
Non riuscivo a sentirgli il polso. Mio cognato, cardiologo, aveva una siringa
di adrenalina nella borsa da medico e io la iniettai nel cuore di mio padre,
ma senza alcun risultato. Solo in seguito ricordai che, prima che morisse,
avevo visto i suoi occhi guardar fisso verso sinistra, il che lasciava intuire
un ictus nel lato sinistro del cervello, e non un arresto cardiaco. Mia madre
si precipitò nella stanza e si aggrappò a lui. Posso ancora sentirla piangere e
ripetere all’infinito: «Myneh Tierehle, Barel» (Mio caro Ben»). Le lacrime
mi sgorgarono dagli occhi. Ero stupefatto e profondamente commosso: era la
prima volta che assistevo a una simile tenerezza da parte di mia madre, la
prima volta che mi rendevo conto di quanto si volessero bene. Quando
arrivò l’ambulanza, ricordo che mia madre piangeva ancora, ma disse a me e
a mia sorella: «Prendete il suo portafoglio». Io e mia sorella ignorammo la
sua richiesta e fummo entrambi molto critici nei suoi confronti per aver
rivolto la propria attenzione ai soldi in un momento del genere. Ma aveva
ragione, naturalmente: portafoglio, carte di credito e soldi scomparvero
sull’ambulanza, e non furono mai più ritrovati.
Avevo già visto morti in precedenza (il cadavere al primo anno della
facoltà di medicina, i corpi al corso di patologia all’obitorio), ma quello era
il mio primo cadavere di qualcuno a cui avevo voluto bene. Non sarebbe più
successo per molti anni, fino alla morte di Rollo May. Il funerale di mio
padre si svolse al cimitero di Anacostia, nel Maryland, e dopo il servizio
funebre ciascuno dei membri della famiglia gettò cerimoniosamente una
palata di terra sulla bara. Quando giunse il mio turno ebbi un capogiro e mio
cognato mi afferrò per un braccio e mi tenne saldo, altrimenti sarei caduto
nella tomba. Mio padre morì così com’era vissuto, in modo tranquillo e
discreto. Ancora oggi rimpiango di non averlo conosciuto meglio. Quando
ritorno al cimitero e cammino avanti e indietro per le file di tombe dove
sono sepolti mio padre, mia madre e l’intera comunità del loro piccolo shtetl
di Cielz, il mio cuore si stringe con dolore al pensiero dell’abisso che ha
separato me e i miei genitori, e per le tante cose non dette.
A volte, quando Marilyn descrive i teneri ricordi delle passeggiate nel
parco con il padre che la teneva per mano, mi sento defraudato e ingannato.
Dov’erano le mie passeggiate e l’attenzione di mio padre? Mio padre aveva
lavorato sodo tutta la vita. Il suo negozio era aperto fino alle dieci di sera
per cinque giorni alla settimana, e il sabato fino a mezzanotte: era libero solo
la domenica. Il mio unico ricordo tenero del tempo trascorso con mio padre
ruota attorno alle nostre partite a scacchi domenicali. Ricordo che era
sempre soddisfatto del mio gioco, anche quando cominciai a batterlo, all’età
di dieci o undici anni. Diversamente da me, mai, nemmeno una volta si
mostrò seccato per aver perso una partita. Forse questa è la ragione per cui
ho giocato a scacchi tutta la vita. Forse il gioco mi offre brandelli di contatto
con mio padre, un uomo gentile, grande lavoratore, che non riuscì a vedermi
diventare un adulto maturo.

Quando mio padre morì ero proprio agli inizi della mia vita alla Stanford.
All’epoca non penso di aver apprezzato appieno la mia straordinaria buona
sorte. Avevo un posto in una grande università, lavoravo con totale
indipendenza e vivevo in un’enclave benedetta da un clima che forse era il
migliore al mondo. Non rividi mai più la neve (eccetto che nei luoghi di
vacanza sciistici). I miei amici, per lo più colleghi della Stanford, erano alla
mano e di mente aperta. E nemmeno una volta mi capitò di sentire
affermazioni antisemite. Anche se non eravamo ricchi, io e Marilyn avevamo
la sensazione di poter fare qualsiasi cosa avessimo desiderato. La nostra
vacanza favorita era nella Baja California, in un luogo pittoresco, anche se
modesto, chiamato Mulegé. Ci portammo i nostri figli un anno a Natale, e
amarono moltissimo l’atmosfera messicana a base di tortillas e piñatas. Io e
i miei figli ci divertimmo a pescare con boccaglio e fiocina, procurandoci in
tal modo diversi pasti deliziosi.
Marilyn tornò in Francia per un convegno nel 1964 ed espresse il
desiderio di portare l’intera famiglia in Europa per un viaggio. Quello che ne
risultò fu persino meglio: un intero anno a Londra.
18.
Un anno a Londra
Nel 1967 ricevetti un premio alla carriera come insegnante dal National
Institute of Mental Health che mi permise di trascorrere un anno alla clinica
Tavistock di Londra. Avevo programmato di studiare l’approccio della
Tavistock alla terapia di gruppo e di cominciare a lavorare sul serio al libro
di testo su tale argomento. Trovammo una casa in Reddington Road, a
Hampstead, vicino alla clinica, e la nostra famiglia formata ancora da cinque
persone (Ben, il figlio più piccolo, non era ancora nato) cominciò a vivere
un magnifico e memorabile anno all’estero.
Avevo scambiato il mio studio con quello di John Bowlby, un eminente
psichiatra britannico della clinica Tavistock che stava trascorrendo un anno
alla Stanford. Il suo studio londinese era nella parte centrale della clinica,
cosa che mi permetteva di avere molti contatti con la facoltà. Nel corso di
quell’anno ogni mattina andavo a piedi da casa alla clinica, a dieci isolati di
distanza, passando accanto a una bella chiesa del diciottesimo secolo. Il
piccolo camposanto all’interno del giardino conteneva una ventina di pietre
tombali, molte delle quali sbilenche e così rovinate da essere illeggibili. Il
cimitero più grande, dall’altra parte della strada, era il luogo dell’eterno
riposo di alcune figure di rilievo del diciannovesimo e ventesimo secolo,
come la scrittrice Daphne du Maurier. Poco oltre passavo accanto a
un’imponente magione provvista di colonne, nella quale aveva vissuto il
generale Charles De Gaulle durante l’occupazione tedesca della Francia. Era
in vendita per centomila sterline, e spesso io e Marilyn desiderammo e
fantasticammo di avere i fondi per acquistarla. Un isolato più avanti c’era
l’enorme palazzo che era stato usato nel film Mary Poppins per le scene del
ballo sul tetto di Julie Andrews e Dick Van Dyke. Poi proseguivo lungo
Finchley Road fino a Belsize Lane, ed entravo nel banale edificio a quattro
piani che ospitava la clinica Tavistock.
John Sutherland, l’uomo a capo della Tavistock, era uno scozzese gentile
e molto cordiale. Il mio primo giorno mi accolse con grande cortesia e mi
presentò ai suoi collaboratori, mi invitò a partecipare a tutti i seminari
clinici e a osservare i gruppi di terapia condotti dal suo staff. Venni
presentato agli psichiatri coinvolti nel lavoro di gruppo, e per tutto l’anno
ebbi contatti costanti con Pierre Turquet, Robert Gosling e Henry Ezriel.
Anche se li trovai perspicaci e pronti ad accogliermi, il loro approccio alla
conduzione dei gruppi mi colpì perché bizzarramente distante e
disimpegnata. I leader dei gruppi della Tavistock non parlavano mai
direttamente a nessun membro in particolare, ma rivolgevano il cento per
cento dei loro commenti al soffitto, limitandosi a osservazioni che
riguardavano il “gruppo”. Rammento un incontro, una sera, in cui uno di
loro, Pierre Turquet, disse: «Se tutti i membri di questo gruppo sono venuti
sotto questa pioggia battente dai punti più remoti di Londra e hanno scelto di
parlare di cricket, be’, per me va bene». I leader di gruppi della Tavistock
seguivano le idee di Wilfred Bion, che si concentravano sui processi
inconsci in atto nei gruppi nel loro complesso, e avevano poco interesse per
l’ambito interpersonale, a meno che non fosse collegato alla conduzione e
all’autorità. Era per questo che i commenti riguardavano sempre il gruppo
nel suo complesso e il terapeuta non si rivolgeva mai a un singolo paziente.
Anche se, come persone, alcuni degli psichiatri della Tavistock mi
piacevano, in particolare Bob Gosling, che ci invitò a casa sua tanto a
Londra che nella casa di campagna, dopo pochi mesi giunsi alla conclusione
che questo approccio alla terapia di gruppo era profondamente inefficace, e i
pazienti lo dimostravano in modo chiaro: la frequenza era eccezionalmente
bassa. C’era la regola che, se si presentavano meno di quattro membri, la
seduta veniva cancellata e, in effetti, la cosa capitava un po’ troppo spesso.
Più tardi, quell’anno, partecipai al congresso di una settimana organizzato
dalla Tavistock a Leeds, con altre cento persone provenienti da ambiti
diversi quali l’istruzione, la psicologia e il mondo degli affari. Ricordo
chiaramente come ebbe inizio: ai partecipanti fu chiesto di dividersi in
cinque gruppi utilizzando le cinque stanze destinate allo scopo. Al suono
della campana, i partecipanti dovevano raggiungere rapidamente le stanze.
Alcuni membri cominciarono a rivaleggiare per ottenere la guida del gruppo,
altri chiesero che le porte venissero chiuse affinché il gruppo non diventasse
troppo numeroso, altri ancora insistettero sulle regole relative alle
procedure. Il seminario continuò con incontri in piccoli gruppi, ciascuno
affidato a un consulente della facoltà che rifletteva sui processi del gruppo, e
con grandi incontri di gruppo, frequentati dall’intera facoltà e dagli altri
partecipanti, in modo che si potesse fare uno studio delle dinamiche dei
gruppi di massa.
Anche se i gruppi Tavistock continuano a essere usati come mezzo di
formazione per aiutare gli individui a orientarsi nelle dinamiche di gruppo e
nel comportamento organizzativo, per quel che ne so l’approccio della
Tavistock è fortunatamente scomparso dalla psicoterapia di gruppo.
In genere seguivo uno o due incontri di piccoli gruppi alla settimana e
assistevo a conferenze e convegni, ma per la maggior parte del tempo
quell’anno me ne restai completamente per conto mio, impegnato quasi a
tempo pieno nella scrittura del mio libro di testo per la terapia di gruppo. La
facoltà Tavistock non amava il mio approccio ai gruppi così come io non
amavo il loro. Quando presentai il mio lavoro di ricerca sui “fattori
terapeutici” basati sui colloqui avuti con un gran numero di pazienti che
avevano partecipato con successo a una terapia di gruppo, il personale
britannico derise la tipica fissazione americana del “cliente soddisfatto”.
Essendo l’unico americano, mi sentivo isolato e senza sostegno. Un anno più
tardi, quando incontrai John Bowlby a tu per tu, mi disse di avere avuto
un’esperienza simile con il personale della Tavistock, e che a volte aveva
fantasticato di lanciarci contro una bomba. Mi sentivo così isolato,
sottovalutato e a disagio con me stesso che decisi di trovarmi un terapeuta,
come ho fatto in vari momenti difficili nel corso della mia esistenza.
C’erano moltissime scuole di terapia nel Regno Unito all’epoca. Mi
venne subito in mente il celebre psichiatra britannico R.D. Laing, che a
giudicare dai suoi scritti sembrava un pensatore sorprendente e originale. Di
recente aveva fondato Kingsley Hall, un luogo dove i pazienti psicotici e i
loro terapeuti vivevano assieme in comunità. Inoltre trattava i pazienti in
maniera egalitaria, del tutto diversa dall’approccio della Tavistock. Quando
partecipai a una conferenza che tenne alla Tavistock, fui colpito dalla sua
intelligenza e mi piacque parecchio il modo in cui le sue vedute iconoclaste
fecero saltare la mosca al naso della dirigenza. Ma lo trovai anche un po’
disorganizzato, e non faticai a capire perché così tante persone tra il
pubblico ipotizzassero che fosse sotto l’effetto dell’LSD, la droga che
all’epoca prediligeva. Ciò nonostante scelsi di incontrarlo individualmente
per discutere se entrare o meno in terapia con lui. Ricordo di avergli chiesto
della sua esperienza all’istituto Esalen, nel Big Sur, in California, e dei
commenti che aveva fatto durante la conferenza sui gruppi di nudisti
impegnati in sedute-maratona che si svolgevano laggiù. Rispose in modo
enigmatico. «Io pagaiavo la mia canoa e altri pagaiavano la loro». Alla fine
conclusi che, per le mie esigenze, era troppo poco focalizzato su un obiettivo
specifico. (Mai avrei pensato che, di lì a qualche anno, avrei partecipato a
una di quelle maratone di nudisti.)
Mi consultai quindi con il responsabile della scuola psicoanalitica
kleiniana di Londra. Ricordo di essermi interrogato sul suo pressante
tentativo di ottenere informazioni sui miei primi due anni di vita e di essermi
anche chiesto come mai l’analisi kleiniana durasse in genere dai sette ai
dieci anni. Al termine della nostra consultazione di due ore lui concluse (e io
concordai) che il mio scetticismo nei confronti del suo approccio era troppo
grande. Come si espresse lui: «il volume della nostra musica di fondo
[ovvero la mia resistenza] oscurerà gli accordi autentici dell’analisi».
Bisogna proprio ammirare i britannici per la loro eloquenza!
Alla fine scelsi di lavorare con Charles Rycroft, che era stato l’analista di
Laing. Era uno dei principali psichiatri londinesi della “scuola di mezzo”,
influenzata dagli analisti britannici Fairbairn e Winnicott. Per i dieci mesi
successivi incontrai Rycroft due volte alla settimana. Aveva circa
cinquantacinque anni ed era piuttosto riflessivo e cortese, anche se un po’
distaccato. Ogni volta che entravo nel suo studio di Harley Street, che aveva
un’aria dickensiana ed era arredato con un folto tappeto persiano, un divano
e due comode poltrone dallo schienale alto, lui si affrettava a spegnere la
sigaretta che fumava tra una seduta e l’altra, mi salutava con una stretta di
mano e m’invitava cortesemente a prendere posto sulla poltrona (non sul
divano!) collocata davanti alla sua. Mi trattava da collega. Lo ricordo in
particolare mentre raccontava del ruolo avuto quando Masud Khan era stato
cacciato dalla società psicoanalitica, un resoconto che in seguito avrei
rielaborato nel mio romanzo Sul lettino di Freud.
Trassi beneficio dalle nostre sedute, ma avrei voluto che lui fosse più
attivo e interattivo. Le sue complesse interpretazioni non mi davano quasi
mai l’impressione di essere davvero utili, tuttavia dopo qualche settimana la
mia ansia migliorò e mi sentii in grado di scrivere in modo più efficace.
Perché? Forse grazie alla sua accettazione benevola e alla sua empatia. Era
estremamente importante per me sapere di avere qualcuno dalla mia parte.
Anni dopo, quando mi recavo a Londra, andavo a fargli visita e insieme
riesaminavamo spesso la nostra terapia. Quando disse di rammaricarsi per
aver aderito alla regola di offrire soltanto interpretazioni, apprezzai molto la
sua onestà.
A Londra dedicai tutto il mio tempo alla stesura del libro sulla terapia di
gruppo. Trattandosi del mio primo libro, dovevo inventarmi un metodo e
finii per trarre ispirazione da tre fonti principali: gli appunti per le
conferenze ai corsi che avevo tenuto per i medici interni gli anni precedenti;
le centinaia di riassunti delle sedute di gruppo che avevo scritto e inviato ai
membri dei gruppi; e la letteratura sulla ricerca nella terapia di gruppo, in
gran parte accessibile grazie all’eccellente biblioteca della clinica
Tavistock. Non sapevo scrivere a macchina (la maggior parte dei
professionisti all’epoca non lo sapeva fare). Ogni giorno scrivevo a mano tre
o quattro pagine e le davo a una dattilografa della Tavistock, che avevo
assunto privatamente e che ogni sera mi batteva a macchina il lavoro della
giornata, in modo che fosse pronto per la revisione la mattina successiva.
Da dove cominciare? Cominciai proprio con le prime questioni che un
terapeuta di gruppo si trova ad affrontare: come selezionare i pazienti e
comporre un gruppo.
La selezione consiste nel determinare se un particolare paziente è adatto a
un particolare tipo di terapia di gruppo. Comporre il gruppo si riferisce
invece a un altro aspetto: se il paziente è adatto e c’è un certo numero di
gruppi in grado di accogliere un nuovo membro, quale gruppo sarà il
migliore per quel paziente? O si consideri ancora un altro scenario
(estremamente improbabile): si immagini una lista di un centinaio di
pazienti, sufficiente a formare dodici gruppi. Quale criterio dovrebbero
seguire i terapeuti per formare questi dodici gruppi in modo che siano
efficaci al massimo grado? Sulla base di queste domande, esaminai la
letteratura a disposizione e scrissi due capitoli eruditi, densi, pieni di
dettagli ed eccessivamente noiosi.
Subito dopo aver completato i due capitoli sulla selezione dei pazienti e
sulla composizione del gruppo, il mio preside, David Hamburg, venne a
trovarci a Londra e mi diede la notizia sorprendente e inaspettata che la
commissione per l’assegnazione degli incarichi di ruolo della Stanford si era
riunita e mi aveva concesso l’incarico in anticipo. Non era previsto che
venissi preso in considerazione per il ruolo prima dell’anno successivo e,
naturalmente, fui felicissimo che mi fosse stata risparmiata l’ansia dell’attesa
della decisione. Negli anni successivi, quando vidi colleghi e pazienti
passare attraverso quelle tormentose traversie, avrei apprezzato ancora di
più la fortuna che mi era capitata.
La notizia del passaggio in ruolo ebbe un effetto notevole sul progetto del
libro. Non stavo più scrivendo per i professori severi, dall’orientamento
empirico e la faccia emaciata che immaginavo riuniti nella commissione per
il ruolo. Mi sentivo gioiosamente emancipato e cominciai quindi a scrivere
il libro per un pubblico del tutto diverso, ovvero per medici principianti che
si sforzavano di imparare a essere utili ai loro pazienti. Quindi tutti i capitoli
successivi del libro sono di gran lunga più vivaci e sono pieni di esempi di
casi clinici, alcuni solo di poche righe, altri lunghi tre o quattro pagine. Ma
quei primi due capitoli erano come fatti di cemento: mi erano rimasti sul
gozzo e non riuscii mai a trovare il modo di renderli più vivi. Venticinque
anni dopo pubblicai la quinta edizione di La teoria e la pratica della
psicoterapia di gruppo, e persino dopo quattro profonde revisioni, ciascuna
delle quali aveva richiesto due anni di correzioni e di intensa revisione
letteraria, quei due capitoli scritti a Londra prima del passaggio in ruolo
(che erano diventati i capitoli otto e nove) sembrano inserirsi male nel testo,
scritti da un’altra persona con una prosa morta, innaturale. Quando scriverò
la sesta edizione ho intenzione di rinnovarli completamente.
I miei tre figli, di nove, dodici e tredici anni, erano stati naturalmente
riluttanti all’idea di lasciare i compagni di scuola di Palo Alto, ma finirono
per trovare piacevole il loro anno a Londra. Nostra figlia Eve fu molto
demoralizzata quando venne rifiutata dalla Parliament Hill School per le sue
carenze calligrafiche, ma seppe poi apprezzare la scuola che frequentò, la
Hampstead Heath School per ragazze, dove si fece diverse ottime amiche e
concluse l’anno con una calligrafia eccellente, anche se non destinata a
restare a lungo tale. Nostro figlio Reid andò nella vicina University College
School, e ne indossò con fierezza la giacca e il berretto a strisce rosse e
nere. La sua modesta calligrafia, persino peggiore di quella di Eve, era stata
doverosamente notata ma subito dimenticata perché, come il direttore della
scuola ebbe a dirmi in diverse occasioni, era «un ottimo giocatore di rugby».
Victor, con i suoi otto anni, frequentò con gioia la scuola locale. Non gli
andava l’idea di dover fare un pisolino ogni giorno a scuola, ma era
felicissimo di fare una sosta al negozietto di dolci quando tornava a casa.
Anche se in Europa avevamo comprato una macchina, la usavamo di rado
a Londra e andavamo dappertutto in metropolitana: al Royal National
Theatre, alle letture di poesie locali, al British Museum e alla Royal Albert
Hall. Grazie ai contatti di Marilyn presso la rivista letteraria franco-
americana Adam incontrammo Alex Comfort, con il quale rimanemmo amici
fino alla sua morte, nel 2000. Alex è stato uno dei due geni con i quali ho
avuto un rapporto molto intimo; l’altro è stato Josh Lederberg, un biologo
molecolare della Stanford che aveva vinto il premio Nobel. A quell’epoca
Alex divideva il suo tempo tra la moglie e l’amante, e aveva un guardaroba
completo in casa di entrambe. Dotato di una mente enciclopedica, era in
grado di discutere all’infinito di qualsivoglia argomento: letteratura inglese e
francese, arte e mitologia indiana, pratiche sessuali di tutto il mondo, il suo
campo professionale, la gerontologia, l’opera del diciassettesimo secolo.
Una volta ci disse di aver chiesto alla moglie che cosa volesse per Natale e
che lei aveva risposto: «Qualsiasi cosa, basta che non sia un’informazione».
Mi è sempre piaciuto molto parlare con Alex, una mente così rara, fertile
e affascinante. Sapevo che era molto attratto da Marilyn, ma io e lui
mantenemmo la nostra amicizia non soltanto a Londra ma anche in seguito,
quando venne a trovarci a casa nostra, a Palo Alto.
Alla fine Alex divorziò dalla moglie, sposò l’amante e scrisse La gioia
del sesso, uno dei best seller d’ogni tempo. Poi, principalmente per sfuggire
alle tasse britanniche, si trasferì in un centro di studiosi a Santa Barbara, il
Centro per lo studio delle istituzioni democratiche, a solo poche ore da Palo
Alto. Anche se La gioia del sesso è la sua opera più conosciuta, Alex
scrisse altri cinquanta libri, che spaziavano dalla gerontologia alla poesia e
ai romanzi. Scriveva in fretta e con grande facilità. Ero stupefatto e persino
infastidito dalla fluidità della sua scrittura: la prima stesura era spesso anche
l’ultima, laddove io ho sempre oscillato tra le dieci e le venti stesure per
ogni libro che ho pubblicato. I miei figli lo conoscevano di fama prima
ancora di incontrarlo, perché molte delle poesie di Alex erano inserite in
un’antologia di poesia moderna che avevano usato come libro di testo alla
scuola di Palo Alto. Passeggiare con lui per le strade del nostro quartiere era
un piacere, in quanto Alex immediatamente riconosceva il richiamo degli
uccelli, ne diceva il nome e senza alcuno sforzo ne riproduceva il suono.
Anche se Londra ci aveva affascinato, eravamo ormai californiani e ci
mancava moltissimo il sole. Un intraprendente agente di viaggio ci mandò
per una settimana di vacanza a Djerba, una grande isola a poca distanza dalla
costa della Tunisia che, secondo la leggenda, era l’isola dei mangiatori di
loto dove Ulisse ebbe a fermarsi. Visitammo i bazar, le rovine romane e una
sinagoga vecchia di duemila anni. Mentre entravo un custode con indosso
una veste araba mi chiese se fossi uno della tribù e, quando annuii, mi prese
per un braccio e ci avviammo a braccetto verso il Bimah, l’altare al centro
della sinagoga. Lì mi mise in mano un’antica Bibbia ma, grazie al cielo, non
verificò il mio ebraico.
19.
La vita breve e turbolenta dei gruppi d’incontro
Durante la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in California e in
altre parti del paese esplose il movimento dei gruppi d’incontro. Questi
gruppi erano dappertutto, e molti ricordavano a tal punto i gruppi di terapia
da suscitare il mio più vivo interesse. La Free University a Menlo Park, una
comunità annessa alla Stanford University, pubblicava annunci per dozzine di
gruppi di crescita personale. Le sale comuni dei pensionati studenteschi
della Stanford ospitavano una varietà di gruppi d’incontro: gruppi-maratona
della durata di ventiquattr’ore, gruppi di psicodramma, gruppi T, gruppi
sullo sviluppo del proprio potenziale. Inoltre, molti studenti della Stanford
cercavano esperienze di gruppo nei vicini centri di sviluppo quali Esalen o,
come centinaia di migliaia di persone in tutto il paese, entravano a far parte
dell’EST o di Lifespring, che organizzavano entrambi grandi incontri che poi
spesso si suddividevano in gruppi più piccoli, simili a quelli d’incontro.
Ero perplesso, come tutti. Questi gruppi erano, come molti temevano, una
minaccia, un segnale di disintegrazione sociale? O erano esattamente
l’opposto? Era possibile che contribuissero efficacemente alla crescita
personale? Più stravaganti erano le richieste, più i fanatici si sgolavano e la
risposta conservatrice si faceva più piccata. Seguii dei gruppi T guidati da
leader ben preparati, e mi sembrò che molti membri ne traessero beneficio.
Frequentai anche dei gruppi di psicodramma con accesso libero, che mi
preoccuparono e mi portarono a chiedermi se i partecipanti non rischiassero
di subire dei danni psicologici. Frequentai un gruppo-maratona di
ventiquattr’ore nel quale i membri erano nudi, a Esalen, ma non ebbi
riscontri successivi sugli effetti dell’esperienza sul gruppo. Mi sembrò che
alcuni dei quindici membri del gruppo ne avessero beneficiato, ma non ebbi
modo di conoscere gli effetti sui membri meno comunicativi. Molti
coprivano di lodi questi nuovi gruppi sperimentali, altri li condannavano. La
situazione aveva decisamente bisogno di una valutazione empirica.
Ascoltai un intervento di Mort Lieberman, un professore dell’università
di Chicago, a un convegno sulla terapia di gruppo tenuto in quella città, e
rimasi molto colpito dal suo lavoro. Parlammo per ore, fino a notte fonda, e
ci accordammo per intraprendere un’inchiesta ambiziosa sugli effetti dei
gruppi d’incontro. I nostri interessi si sovrapponevano: non solo era uno
stimato ricercatore di sociologia, ma si era anche formato come leader di
gruppi T e come terapeuta di gruppo. Programmava di trascorrere un intero
anno alla Stanford, e in breve reclutammo Matt Miles, un professore di
formazione e psicologia della Columbia University, nonché ricercatore ed
esperto statistico, che si unì alla nostra squadra. Tutti e tre insieme
delineammo uno studio ambizioso sull’efficacia dei gruppi d’incontro. Tali
gruppi erano molto di moda nel campus della Stanford, e molti membri della
facoltà erano preoccupati che gli studenti potessero essere danneggiati dai
confronti forzati, dai feedback privi di censura e dalla posizione anti-
establishment dei gruppi. In effetti, l’amministrazione dell’università era così
preoccupata da questi gruppi presenti nel campus da concederci
immediatamente il permesso di condurre delle ricerche su di essi. Per
assicurarci un vasto campione, l’università ci permise persino di offrire dei
crediti agli studenti per la partecipazione ai gruppi d’incontro.
Il nostro progetto di ricerca finale richiedeva un campione di
duecentodieci studenti, che vennero assegnati a caso a un’analisi a campione
o a uno dei venti gruppi; ciascun gruppo doveva riunirsi per un totale di
trenta ore. Gli studenti avrebbero ricevuto tre crediti per aver seguito il
corso. Selezionammo dieci metodologie popolari e diffuse e offrimmo due
gruppi per ciascuna metodologia:

Gruppi T tradizionali NTL


Gruppi d’incontro (o di crescita personale)
Gruppi di terapia Gestalt
Esalen (gruppi di consapevolezza sensoriale)
Gruppi TA (analitici transazionali)
Gruppi di psicodramma
Gruppi Synanon (basati sul confronto diretto e sulla tecnica della
“poltrona che scotta”)
Gruppi orientati in senso psicoanalitico
Gruppi-maratona
Gruppi senza leader, guidati da un registratore

Quindi reclutammo due noti leader esperti di gruppi per ciascuna di queste
modalità. Mort Lieberman elaborò un’ampia batteria di strumenti per
misurare i cambiamenti dei membri e valutare il comportamento del leader, e
reclutammo e addestrammo una squadra di osservatori per studiare i membri
e i leader durante ciascun incontro. Quando il comitato per la ricerca
dell’università ebbe approvato il nostro piano di ricerca, intraprendemmo
questo progetto memorabile: sarebbe stato lo studio più vasto e rigoroso mai
condotto su questi gruppi.
Alla fine dello studio scrivemmo una monografia di cinquecento pagine
pubblicata dalla Basic Books, I gruppi d’incontro: primi dati. Le
conclusioni complessive furono notevoli: all’incirca il quaranta per cento
degli studenti che intraprendevano un corso trimestrale al college
subivano un significativo e positivo cambiamento personale, che
perdurava per almeno sei mesi. Naturalmente c’erano state anche sedici
“vittime”, ovvero studenti che avevano evidenziato un peggioramento sei
mesi dopo la loro esperienza nel gruppo.
Io scrissi i capitoli che descrivevano lo sviluppo clinico e l’evoluzione
di ciascun gruppo, il comportamento dei leader e gli effetti sugli “studenti di
successo” e sulle “vittime”. Il capitolo sulle “vittime” fu accolto con enorme
attenzione da chi si opponeva al movimento dei gruppi d’incontro e venne
citato in centinaia di giornali in tutto il paese, poiché procurava alla destra
conservatrice gli argomenti di cui aveva bisogno. D’altro canto, il capitolo
sugli “studenti di successo”, ovvero l’ampio numero di chi aveva ottenuto un
sostanziale cambiamento personale come risultato di dodici incontri di
gruppo, non ricevette alcuna attenzione. Questo fu davvero spiacevole per
me, in quanto ero sempre stato incline a ritenere che questi gruppi, se guidati
in modo adeguato, avessero molto da offrire.
Dieci anni più tardi il movimento dei gruppi d’incontro aveva perso
importanza, sostituito in molti pensionati della Stanford dai gruppi sulla
Bibbia. E, con la scomparsa dei gruppi d’incontro, il nostro libro I gruppi
d’incontro: primi dati perse il suo pubblico di lettori, con l’eccezione degli
studiosi, che trovavano utili molti degli strumenti di ricerca utilizzati. Tra
tutti i miei libri, è l’unico a non essere stato più pubblicato. Mia moglie non
era mai stata favorevole a questo progetto perché richiedeva una enorme
quantità del mio tempo, e perché un incontro fondamentale con i vari
partecipanti al progetto mi impedì di riportarla a casa in auto dallo Stanford
Hospital, dove aveva dato alla luce il nostro quarto figlio, Benjamin Blake.
Lei ricorda che uno dei recensori del libro aveva commentato: «Questi
autori devono aver lavorato veramente sodo, perché la loro prosa era molto
affaticata».

Continuai a lavorare al mio libro di testo sui gruppi (La teoria e la pratica
della psicoterapia di gruppo) per altri due anni, e una volta terminata la
stesura finale volai a New York per incontrare gli editori che David
Hamburg aveva contattato per mio conto. Pranzai con Arthur Rosenthal, il
fondatore della Basic Books, che mi colpì molto e mi convinse a pubblicare
con la sua casa editrice, nonostante avessi avuto offerte da altri editori.
Rivedere la mia vita in queste pagine mi ricorda quanto David Hamburg
abbia non solo sostenuto la mia ricerca, ma anche facilitato la mia carriera
editoriale.
La teoria e la pratica della psicoterapia di gruppo fu un immediato
successo, e nel giro di un anno o due venne adottato come libro di testo nella
maggior parte dei programmi di formazione psicoterapeutica del paese; in
seguito venne adottato anche in molti altri paesi. Strumento per la formazione
dei terapeuti di gruppo, il libro è passato attraverso cinque edizioni rivedute
e ha venduto oltre un milione di copie che, nel tempo, hanno garantito a me e
a Marilyn un nuovo grado di sicurezza finanziaria. Come molti collaboratori
della giovane facoltà di psichiatria, avevo arrotondato il mio reddito
facendo consulenze durante i fine settimana in vari ospedali psichiatrici, ma
dopo la pubblicazione del libro interruppi questa attività e accettai invece
gli inviti a tenere conferenze sulla terapia di gruppo.
Il mio approccio globale alla remunerazione fu radicalmente modificato
un giorno, all’incirca cinque anni dopo la pubblicazione del libro di testo,
quando mi rivolsi a un ampio pubblico alla Fordham University di New
York. Come al solito mi ero portato dietro la videocassetta di un incontro di
terapia di gruppo che avevo tenuto la settimana precedente, che intendevo
usare nella mia lezione. Il videoregistratore della Fordham però funzionava
male e alla fine il tecnico si arrese, lasciandomi con il compito faticoso e
stressante di dover improvvisare per l’intera mattinata. Nel pomeriggio feci
le mie due conferenze preparate, seguite da una lunga seduta basata su
domande e risposte con il pubblico, e alla fine della giornata ero
completamente esausto. Mentre il pubblico usciva, mi capitò di dare
un’occhiata al programma prestampato e notai che la quota per il laboratorio
era di 40 dollari (era il 1980). Mi guardai attorno nell’auditorium e calcolai
che dovessero esserci stati almeno seicento partecipanti. Un rapido calcolo
indicò che lo sponsor della conferenza aveva guadagnato oltre ventimila
dollari, mentre a me ne spettavano quattrocento! Da quel momento mi
accordai sempre su una buona percentuale di quanto veniva incassato a ogni
incontro, e il reddito derivato dalle conferenze in breve superò di gran lunga
il mio stipendio universitario.
20.
Soggiorno a Vienna
Vienna ha sempre occupato un posto di primo piano nella mia coscienza, in
quanto luogo di nascita di Freud e culla della psicoterapia. Avendo letto
molte biografie di Freud, avvertivo un senso di familiarità con la città che
aveva ospitato tanti dei miei scrittori preferiti, inclusi Stefan Zweig, Franz
Werfel, Arthur Schnitzler, Robert Musil e Joseph Roth. Così, nel 1970,
accettai senza esitare l’offerta della Stanford di insegnare agli studenti
universitari dei primi anni durante il trimestre estivo al campus che la
Stanford aveva a Vienna. Il trasferimento non fu privo di complicazioni:
avevo quattro figli, all’epoca di quindici, quattordici, undici e un anno. Ci
portammo dietro una vicina di vent’anni, amica di mia figlia, che avrebbe
vissuto con noi nel pensionato studentesco e avrebbe dato una mano a badare
al piccolo Ben. Accolsi con gioia l’opportunità di lavorare con gli studenti
più giovani della Stanford, e Marilyn fu come sempre felice della possibilità
di un soggiorno in Europa.
Era fantastico abitare nel centro di Vienna, dove aveva vissuto Freud. Mi
tuffai nel suo mondo, passeggiando per le strade lungo le quali aveva
passeggiato lui, visitando i suoi caffè, e contemplando il grande condominio
anonimo di cinque piani al numero 19 di Berggasse, che aveva ospitato la
dimora di Freud per quarantanove anni. Anni dopo, la Fondazione Sigmund
Freud comprò l’edificio, lo trasformò nel Museo Freud, ben segnalato da un
ampio striscione rosso, e lo aprì ai visitatori, ma all’epoca della mia visita
non c’era alcuna indicazione che Freud avesse mai vissuto e lavorato lì. La
città aveva piazzato dozzine di targhe d’ottone per indicare le dimore di
viennesi più o meno illustri, incluse diverse residenze di Mozart, ma non
c’era nulla che segnalasse il luogo dove Sigmund Freud aveva trascorso la
vita.
Vedere la casa di Freud e passeggiare per le strade della sua Vienna mi
risultò utile trent’anni più tardi, quando scrissi il romanzo Le lacrime di
Nietzsche. Attinsi a quei ricordi e alle foto che avevo scattato quell’anno per
creare un ambiente visivo credibile per gli incontri immaginari tra Nietzsche
e il famoso medico viennese Josef Breuer, che era stato il mentore di Freud.
A Vienna il mio incarico principale come insegnante prevedeva un corso
agli studenti della Stanford sulla vita e sull’opera di Sigmund Freud. Le
quaranta lezioni che preparai divennero la base di un corso “per la piena
comprensione di Freud” che avrei tenuto agli interni di psichiatria nei
successivi quindici anni. Con enfasi facevo notare sempre ai miei studenti
che Freud non era stato solo il creatore della psicoanalisi (che conta per
meno dell’uno per cento di tutta la terapia che viene offerta oggigiorno), ma
aveva inventato l’intero campo della psicoterapia: non esisteva nulla, in
forma alcuna, prima di Freud. Per quanto sia critico nei confronti dell’analisi
freudiana ortodossa contemporanea, ho sempre provato un grande rispetto
per la creatività e il coraggio di Freud. Mi viene spesso in mente quando
faccio terapia. Di recente, per esempio, ho incontrato un nuovo paziente che
era assillato da ossessioni oscene verso membri della propria famiglia, e ho
immediatamente pensato all’osservazione di Freud che, dietro simili
ossessioni persistenti, spesso c’è la rabbia. Mi rammarico che Freud oggi
sia così fuori moda. Come dichiara il titolo di un capitolo del mio Il dono
della terapia, «Freud non aveva sempre torto».
Poco prima di lasciare la Stanford per Vienna mi accaddero due eventi
traumatici significativi. Per prima cosa fui colpito dalla morte per cancro
alle surrenali di un caro amico, Al Weiss, che avevo incontrato quando era
interno alla Stanford. Tra le altre cose, io e Al eravamo compagni di pesca
con la fiocina, e avevamo fatto dei viaggi insieme a Baja.
Poi, durante una visita il giorno prima della partenza, il mio dentista trovò
una lesione sospetta su una gengiva. Fece una biopsia e mi disse che avrei
ricevuto il referto del patologo dopo il mio arrivo a Vienna. All’epoca stavo
leggendo del fatale cancro alla bocca di Freud, probabilmente causato
dall’abitudine di fumare il sigaro, e mi allarmai a causa delle mie abitudini
di fumatore: fumavo la pipa per gran parte della giornata, scegliendo ogni
giorno una pipa diversa dalla mia collezione e godendo dell’aroma del
tabacco Balkan Sobranie. A Vienna, mentre aspettavo il referto, divenni
estremamente ansioso al pensiero che avrei potuto presto sapere di avere lo
stesso cancro che aveva ucciso Freud.
Quella prima settimana a Vienna smisi di punto in bianco di fumare: di
conseguenza ebbi problemi a dormire e succhiai un sacchetto dopo l’altro di
caramelle al caffè per alleviare i miei bisogni orali. Finalmente ricevetti un
telegramma dal mio dentista che m’informava che la biopsia dava esito
negativo. Dovevo comunque superare il lutto per l’amico, mentre aspettavo
l’arrivo della mia famiglia. Cercai di obbligarmi a lavorare (ero arrivato a
Vienna una settimana prima per preparare le mie quaranta lezioni), ma ero
talmente in ansia che decisi di cercare aiuto. Tentai di avere un consulto con
un eminente terapeuta viennese, Viktor Frankl, autore di Uno psicologo nei
lager, un libro molto conosciuto, ma la sua segreteria telefonica m’informò
che si trovava all’estero per una serie di conferenze.
Quando arrivarono mia moglie e i miei figli recuperai un certo equilibrio
e mi sentii più a mio agio, e il nostro soggiorno di tre mesi a Vienna con gli
studenti della Stanford finì per diventare un’esperienza positiva e
indimenticabile per tutti noi. I due ragazzi più grandi erano particolarmente
eccitati dai contatti quotidiani con gli studenti della Stanford. Tutti i nostri
pasti erano in comune, compresa la cena del primo compleanno di nostro
figlio Ben. Sul nostro tavolo apparve una grande torta e l’intero corpo
studentesco cantò Happy birthday to you, mentre mia figlia Eve sollevava
Ben per mostrarlo ai presenti. Marilyn portò tutti i bambini, uno alla volta, al
Sacher Hotel per gustare la giustamente famosa Sachertorte, la migliore
torta che abbia mai assaggiato.
Accompagnammo gli studenti in due gite di classe. La prima fu un giro in
barca lungo il Danubio, costeggiato da milioni di girasoli, luminosi e vigili,
che giravano la corolla verso il sole man mano che si muoveva in cielo. La
giornata si concluse con una visita a Budapest, grigia e austera sotto
l’occupazione russa, ma comunque affascinante. Poi, proprio alla fine del
trimestre, accompagnammo la classe in una gita in treno a Zagabria, dove
salutammo gli studenti per l’ultima volta. Io e Marilyn, che avevamo lasciato
i bambini al pensionato di Vienna con la loro tata, affittammo una macchina e
per qualche giorno girammo per l’indimenticabile e bellissima costa dalmata
fino a Dubrovnik, e da lì attraverso la pacifica campagna serba.
Anche se il tempo che avevo trascorso a Vienna si era concentrato
massicciamente sul corso e sugli studenti, era impossibile resistere ai tesori
culturali. Marilyn mi aveva guidato attraverso il museo del Belvedere e fatto
conoscere le opere di Gustav Klimt ed Egon Schiele, che da allora sono
diventati, assieme a van Gogh, i miei pittori preferiti. Anche se non avevo
mai parlato di Klimt ai miei editori tedeschi, anni dopo loro scelsero di
utilizzare le sue opere per le copertine di quasi tutte le traduzioni tedesche
dei miei libri.
I bambini facevano passeggiate nei parchi lussureggianti, stando bene
attenti a non camminare sull’erba (altrimenti una qualche anziana signora
viennese li avrebbe rimproverati) e facevano escursioni nei boschi attorno
alla città, dove le persone si salutavano l’un l’altra con un amichevole:
«Grüss Gott». E, naturalmente, andammo all’opera per un’esecuzione
indimenticabile dei Racconti di Hoffmann. Vienna ci offriva una visione
opulenta di un mondo leggendario che si era solo di recente ripreso dal suo
passato nazista. Nemmeno nei miei sogni più audaci avrei potuto immaginare
che, quarant’anni più tardi, la città avrebbe assegnato un premio a uno dei
miei libri, ne avrebbe distribuito centomila copie gratis e mi avrebbe reso
onore con una settimana di festeggiamenti.
Verso la fine del nostro soggiorno riuscii finalmente a raggiungere
telefonicamente Viktor Frankl e a presentarmi come un professore di
psichiatria della Stanford affetto da alcuni problemi personali e bisognoso di
aiuto. Mi rispose che era molto occupato, ma accettò di incontrarmi quello
stesso giorno, nel tardo pomeriggio.
Frankl, un uomo dai capelli bianchi, piccolo e attraente, mi salutò con
cordialità e s’interessò immediatamente ai miei occhiali, chiedendomi subito
informazioni su chi li producesse. Non ne avevo idea, ma me li tolsi e glieli
porsi. La montatura da due soldi l’avevo acquistata in una catena
californiana chiamata “Quattr’occhi” e lui, dopo un breve esame, li giudicò
privi d’interesse. La sua montatura spessa in acciaio era piuttosto bella, e
glielo dissi. Sorrise e mi condusse nel salotto, indicando con un gesto della
mano un’enorme libreria che conteneva le traduzioni del suo libro Uno
psicologo nei lager.
Sedemmo in un angolo ben illuminato dal sole e Frankl esordì dicendo
che non avrebbe potuto dedicarmi molto tempo, dato che era tornato a casa il
giorno prima da un viaggio nel Regno Unito e aveva risposto alle lettere dei
suoi ammiratori fino alle quattro del mattino. Lo trovai strano, era come se
mi volesse impressionare. Inoltre non chiese le ragioni per cui lo avevo
contattato, ma espresse invece grande interesse per la comunità psichiatrica
della Stanford. Pose numerose domande e poi passò direttamente alla
descrizione della rigidezza della comunità psichiatrica viennese, che aveva
rifiutato di riconoscere i suoi contributi. Cominciai ad avere la sensazione di
trovarmi a un tè con il Cappellaio Matto: l’avevo cercato per una
consultazione terapeutica, e invece era lui a cercare conforto in me per il
trattamento irrispettoso ricevuto dalla comunità professionale di Vienna. Le
sue lamentele continuarono per il resto della nostra seduta, durante la quale
non mi chiese assolutamente nulla delle ragioni che mi avevano spinto ad
andare da lui. Durante il nostro incontro successivo, il giorno seguente,
alluse alla possibilità di essere invitato a tenere conferenze al personale e
agli studenti di psichiatria della Stanford in California. Promisi che avrei
cercato di organizzare la cosa.
Uno psicologo nei lager, un libro commovente e stimolante scritto nel
1946, è stato letto da milioni di persone in tutto il mondo e ancora oggi è uno
dei best seller della psicologia. Frankl vi racconta la storia della propria
esperienza durante l’Olocausto e come la determinazione di condividere la
propria storia con il mondo intero fosse stata decisiva per la sua
sopravvivenza. Ho ascoltato diverse volte la sua conferenza fondamentale
sul significato della vita: era un eccellente oratore e non mancava mai di
comunicare idee stimolanti.
Tuttavia la sua visita alla Stanford, qualche mese più tardi, si rivelò
piuttosto problematica. Quando venne a trovare me e mia moglie a casa
nostra fu subito chiaro che non era a suo agio con la cultura informale della
California. Una volta la nostra ragazza au pair, una svizzera che viveva con
noi e ci aiutava a badare ai nostri figli, venne da noi in lacrime perché
Frankl l’aveva rimproverata: le aveva chiesto del tè, e lei lo aveva servito in
una tazza di ceramica, non di porcellana.
Una dimostrazione clinica che offrì agli interni della Stanford prese una
piega catastrofica. Il suo approccio terapeutico (la logoterapia) consisteva
per lo più nel determinare, grazie a un’indagine di dieci-quindici minuti,
quale dovesse essere il significato della vita del paziente, e nel prescriverlo
a quello stesso paziente in modo autoritario. A un certo punto, durante un
colloquio dimostrativo, uno degli interni di psichiatria tra i più turbolenti,
con tanto di capelli lunghi e sandali ai piedi, si alzò in segno di protesta e
uscì a testa alta dalla stanza, borbottando: «Tutto questo è inumano!» Fu un
momento terribile per tutti, e nessuna scusa servì a rabbonire Viktor, che
chiese ripetutamente che l’interno venisse cacciato dal programma.
In alcune occasioni cercai di offrirgli un feedback, ma quasi sempre lo
interpretò come una critica offensiva. Dopo che ebbe lasciato la California
ci scrivemmo per parecchio tempo, e un anno dopo mi mandò un manoscritto,
chiedendomi un parere critico. In un punto descriveva, con dovizia di
dettagli, una conferenza che aveva tenuto a Harvard, durante la quale il
pubblico si era alzato in piedi e aveva applaudito cinque volte. Mi trovai di
fronte a un dilemma: tuttavia lui aveva chiesto un mio commento e così, dopo
essermi tormentato per trovare una risposta, decisi di essere franco. Risposi
nel modo più gentile possibile che porre un’attenzione così netta
sull’applauso toglieva forza alla sua presentazione e avrebbe potuto indurre
alcuni lettori a concludere che quell’applauso lo interessava troppo. Mi
rispose immediatamente con queste parole: «Irv, tu non vuoi capire, non eri
presente: si sono DAVVERO alzati in piedi e hanno applaudito cinque volte».
Persino i migliori di noi a volte sono accecati dalle loro ferite e dal loro
bisogno di lodi.
Di recente ho letto un resoconto autobiografico dei tempi in cui era
studente all’università di medicina di Vienna negli anni Sessanta scritto dal
professor Hans Steiner, un collega della Stanford e un amico, che offriva una
prospettiva differente. Da studente, a Vienna, Hans aveva avuto
un’esperienza estremamente positiva con Viktor Frankl: lo descriveva come
un insegnante eccellente, il cui approccio creativo sembrava un soffio d’aria
pura in contrasto con i metodi rigidi della facoltà di psichiatria di Vienna.
Alcuni anni dopo io e Viktor Frankl parlammo entrambi a un grande
congresso di psicoterapia e partecipai alla sua conferenza su Uno psicologo
nei lager. Come sempre affascinò il pubblico e ricevette un’ovazione
fragorosa. In seguito ci incontrammo, e lui e sua moglie Eleanor mi
abbracciarono con grande affetto. In seguito, mentre stavo scrivendo La
psicoterapia esistenziale, riesaminai attentamente il suo lavoro e mi resi
conto più che mai dell’importanza dei suoi contributi innovativi e
fondamentali per il nostro settore. Più di recente ho visitato un istituto di
psicoterapia a Mosca che aveva nel suo programma un dottorato in
logoterapia, e fui colpito da una fotografia a grandezza naturale di Viktor.
Mentre la guardavo, all’improvviso divenni consapevole della grandezza del
suo coraggio, come pure della profondità del suo dolore. Dal suo libro
sapevo come gli orrori di Auschwitz lo avessero traumatizzato, ma durante
quei primi incontri a Vienna e alla Stanford non ero pronto a entrare in piena
empatia con lui o a offrirgli il sostegno che avrei potuto dargli. In seguito,
nelle mie relazioni con altre figure di primo piano nel mio campo, quali
Rollo May, non avrei ripetuto quell’errore.
21.
Ogni giorno s’avvicina
Scrivere queste memorie mi ha portato a guardare indietro e a contemplare
l’intero arco della mia attività di scrittore. A un certo punto ero passato dal
produrre articoli orientati verso la ricerca e libri pensati per altri
accademici a scrivere di terapia per un pubblico meno specializzato, e
rintraccio i primi segni di questa metamorfosi in uno strano libro dal titolo
bizzarro Ogni giorno s’avvicina, pubblicato nel 1974. In questo testo mi
allontanavo dal linguaggio della ricerca quantitativa e cercavo di emulare i
narratori che avevo letto per tutta la vita. A quel tempo non avevo idea che
avrei continuato a insegnare psicoterapia attraverso quattro romanzi e tre
raccolte di racconti.
La mia metamorfosi cominciò quando, alla fine degli anni Sessanta,
inserii nel mio gruppo di terapia Ginny Elkins (è uno pseudonimo), che
aveva ottenuto una borsa di studio in scrittura creativa alla Stanford. La sua
terapia era problematica a causa dell’estrema timidezza e della riluttanza a
richiedere o accettare attenzione da parte del gruppo. Dopo alcuni mesi
concluse la borsa di studio e accettò un lavoro come insegnante in una scuola
serale che entrò in conflitto con gli orari degli incontri del gruppo.
Anche se avrebbe voluto continuare una terapia individuale con me,
Ginny non poteva permettersi le tariffe della Stanford, così le proposi un
insolito accordo. Accettai di rinunciare alla parcella se lei avesse scritto un
riassunto alla fine di ogni seduta, descrivendo tutti i sentimenti e i pensieri
che non aveva espresso durante il tempo passato insieme. Io, per parte mia,
avrei fatto esattamente lo stesso, ed entrambi avremmo consegnato i riassunti
in una busta sigillata alla mia segretaria. Poi, dopo diverse settimane di
terapia, ciascuno avrebbe letto i riassunti dell’altro.
Perché questa proposta strana e insolita? Da un lato, Ginny mi vedeva in
modo non realistico – nel gergo della psicoterapia, aveva un forte transfert
positivo –, cioè mi idealizzava, aveva un atteggiamento deferente e in mia
presenza regrediva a uno stadio infantile. Mi sembrava che potesse essere
utile per lei un confronto con la realtà, leggendo i miei pensieri sinceri, non
censurati, dopo ciascuna delle nostre sedute e, in particolare, venire a
conoscenza dei dubbi e delle incertezze che avevo su come aiutarla. Così
intendevo essere più autorivelatorio nella terapia, nella speranza di
incoraggiarla a fare altrettanto.
Ma c’era un’altra ragione, più personale: desideravo essere uno scrittore,
uno scrittore vero. Mi ero sentito soffocato dalla fatica di scrivere un libro
di testo erudito di cinquecento pagine, seguito dalla collaborazione a una
monografia di ricerca di altre cinquecento pagine sui gruppi d’incontro, e
immaginavo che questo progetto con Ginny potesse permettermi un esercizio
insolito, l’opportunità di spezzare i ceppi professionali, di trovare la mia
voce esprimendo qualsiasi cosa mi venisse in mente subito dopo ogni seduta.
Inoltre Ginny era una scrittrice magistrale, e pensavo che potesse sentirsi più
a suo agio comunicando attraverso la parola scritta invece che a livello
verbale.
Il nostro scambio di appunti ogni pochi mesi fu oltremodo istruttivo. Ogni
volta che chi partecipa a un’attività studia la propria relazione con essa, si
ritrova immerso più profondamente nell’incontro stesso. Ogni volta che
leggevamo i riassunti dell’altro, la nostra terapia ne veniva arricchita. Inoltre
gli appunti fornivano una sorta di esperienza alla Rashomon: anche se
avevamo condiviso la stessa ora, l’avevamo sperimentata in modo molto
diverso, dando valore a parti diverse della seduta. Le mie interpretazioni
eleganti e brillanti? Ahimè, non le aveva nemmeno sentite! Invece aveva dato
valore a piccoli atti personali che quasi non avevo notato: i complimenti per
il suo abbigliamento o il suo aspetto, le goffe scuse per essere arrivato con
un paio di minuti di ritardo, aver ridacchiato a una sua battuta, averle
insegnato a rilassarsi.
Per anni, in seguito, utilizzai i nostri riassunti nelle mie lezioni di
psicoterapia con gli interni di psichiatria, e fui colpito dall’intenso interesse
degli studenti per le nostre diverse voci e i diversi punti di vista. Quando
mostrai i riassunti a Marilyn, trovò che andassero letti come un romanzo
epistolare e suggerì di pubblicarli in un libro, offrendosi immediatamente di
revisionarli. Poco dopo lei e nostro figlio Victor fecero una vacanza sulla
neve e la mattina, mentre Victor prendeva lezioni di sci, lei sfrondò e rese
più chiari i nostri riassunti.
Ginny fu entusiasta del progetto editoriale: sarebbe stato il suo primo
libro e concordammo di dividere i diritti d’autore in parti uguali, mentre
Marilyn avrebbe ricevuto il venti per cento. Nel 1974 la Basic Books
pubblicò il libro con il titolo Ogni giorno s’avvicina. A posteriori il
sottotitolo suggerito da Marilyn, Una terapia raccontata due volte (un
adattamento da Hawthorne), sarebbe stato di gran lunga migliore, ma Ginny
amava la canzone Ogni giorno del vecchio Buddy Holly e aveva sempre
voluto farne la canzone del giorno del suo matrimonio. Qualche anno dopo,
quando uscì il film su Buddy Holly, ascoltai con grande attenzione il testo e
restai esterrefatto quando scoprii che Ginny aveva capito male il verso. In
effetti le parole erano: «Ogni giorno è un avvicinarsi».
Io e Ginny scrivemmo entrambi una prefazione e una postfazione, e ho un
ricordo indelebile di come scrissi le mie. Anche se avevo scritto parecchio a
livello professionale nel mio studio nel dipartimento per pazienti
ambulatoriali psichiatrici, lo trovavo troppo rumoroso e pieno d’attività per
ispirarmi a scrivere. All’epoca psichiatria occupava l’ala sud dello Stanford
Hospital, con studi per il preside e i membri della facoltà, e molti locali
riservati alla terapia. Lì accanto c’era l’ala occupata da Carl Pribram, un
membro della facoltà che portava avanti delle ricerche sulle scimmie, una
delle quali di tanto in tanto scappava e si metteva a correre per la clinica e
la sala d’aspetto, scatenando il caos. Appena oltre il laboratorio di Pribram
c’era l’archivio, dove venivano conservate le cartelle dei pazienti. Era un
angolo buio e senza finestre, ma tranquillo e completamente privato,
abbastanza ampio perché potessi camminare avanti e indietro, costruire frasi
complesse e leggermele ad alta voce. Quell’orrenda stanza mi piaceva: mi
faceva pensare al mio studio nel seminterrato dove, da adolescente, avevo
passato ore a scrivere poesie composte solo per le mie orecchie (anche se
mi era capitato di leggerne qualcuna a Marilyn).
Mi sono goduto le ore trascorse in quella stanza buia, alla ricerca del
tono giusto. Era un punto di svolta critico – nessun dato, nessun fatto, nessuna
statistica o insegnamento –, dovevo solo lasciar scorrere i miei pensieri.
Non so cantare, ma in quei momenti cantavo per me. Sono anche convinto
che le montagne di carte che mi circondavano, le migliaia di storie di
pazienti, si infiltrarono nella mia coscienza quando cominciai la prefazione:
Mi sconvolge sempre trovare le vecchie agende piene di nomi semidimenticati di pazienti con i
quali ho avuto le esperienze più tenere. Tante persone, tanti bei momenti. Che cosa gli è
successo? I miei schedari a più ripiani, gli ammassi di cassette registrate spesso mi ricordano un
vasto cimitero: vite compresse in cartelle cliniche, voci intrappolate su bande elettromagnetiche
che senza sonoro mettono eternamente in scena il loro dramma. Vivere con questi monumenti mi
riempie di un acuto senso della nostra caducità. Anche quando mi sento immerso nel presente,
percepisco lo spettro del declino che guarda e attende, un declino che alla fine sgominerà
l’esperienza vissuta e tuttavia, con la sua stessa inesorabilità, le conferisce significato e bellezza.
Il desiderio di narrare la mia esperienza con Ginny è molto incalzante: sono affascinato
dall’opportunità di prevenire il declino, di prolungare l’ampiezza della nostra breve vita insieme.
È molto meglio sapere che esisterà nella mente del lettore invece che nel magazzino abbandonato
dove si ammucchiano note cliniche non lette e nastri elettromagnetici non ascoltati.

La stesura di quella prefazione fu un momento vitale di transizione. Ero alla


ricerca di una voce più lirica e al tempo stesso volevo volgere l’attenzione
sul fenomeno della caducità, il mio punto d’ingresso in una visione del
mondo esistenziale.

Più o meno nello stesso periodo in cui vedevo Ginny in terapia, ebbi un altro
incontro letterario. Un collega di Marilyn ci offrì una visione dietro le quinte
di Ernest Hemingway, che si era suicidato nel 1961. In una biblioteca
universitaria questo collega aveva potuto esaminare un deposito di lettere
inedite che Hemingway aveva scritto all’amico Buck Lanham, il generale al
comando di una delle armate impegnate nell’invasione della Normandia.
Anche se non gli era stato permesso copiarle, il collega di Marilyn di
nascosto aveva letto ad alta voce le lettere registrandole su un piccolo
registratore, le aveva trascritte e ci aveva prestato la sua copia per alcuni
giorni, permettendoci di parafrasarle ma non di usarle come citazioni.
Le lettere gettavano una luce considerevole sulla psiche di Hemingway.
Raccolsi ulteriori informazioni andando a Washington a trovare Buck
Lanham, che allora era uno dei dirigenti della Xerox e che fu abbastanza
gentile da parlare con me della sua amicizia con Hemingway. Dopo aver
riletto molte opere di Hemingway, io e Marilyn arruolammo una serie di
baby-sitter e partimmo per un lungo e appartato fine settimana al Villa
Montalvo Arts Center di Saratoga, in California, per scrivere insieme un
articolo.
Il nostro lavoro, intitolato Hemingway: una visione psichiatrica, fu
pubblicato nel 1971 sul Journal of the American Psychiatric Association e
venne immediatamente ripreso da centinai di giornali in tutto il mondo. Nulla
di quanto ciascuno di noi due, prima o in seguito, ha scritto ha mai più
attirato una simile attenzione.
Nell’articolo esaminavamo il senso d’inadeguatezza sotteso
all’esteriorità spaccona di Hemingway. Sebbene si fosse temprato e
impegnato accanitamente in difficili occupazioni mascoline quali la boxe, la
pesca d’alto mare e la caccia grossa, nelle sue lettere al generale Lanham
appariva vulnerabile e infantile. Venerava l’autentico e reale comandante
militare, forte e coraggioso, e parlava di sé come di uno «scrittore
insignificante». Anche se come scrittore lo apprezzo moltissimo, non ho mai
ammirato la sua immagine pubblica: era troppo caustico, troppo ipermacho,
troppo privo di empatia, troppo dipendente dall’alcol. La lettura delle sue
lettere rivelava un bambino più debole, più autocritico, abbagliato dagli
adulti davvero tosti, davvero coraggiosi sparsi per il mondo.
Esponemmo subito le nostre intenzioni all’inizio dell’articolo:
Mentre apprezziamo le considerazioni esistenziali generate dagli incontri di Hemingway con il
pericolo e con la morte, non vi troviamo la stessa misura di universalità e atemporalità di un
Tolstoj, di un Conrad o di un Camus. Perché, ci chiediamo? Perché la visione del mondo di
Hemingway è così limitata? Sospettiamo che le limitazioni delle visioni di Hemingway siano
collegate alle sue restrizioni psicologiche personali… Come non c’è alcun dubbio che fosse uno
scrittore estremamente dotato, così non esiste nemmeno il dubbio che fosse un uomo estremamente
problematico, con pulsioni accanite, che in preda a una psicosi depressiva paranoide si è ucciso
all’età di sessantadue anni.

Anche se io e Marilyn abbiamo sempre lavorato fianco a fianco (leggendoci


a vicenda le stesure degli scritti reciproci), questo è l’unico pezzo che
abbiamo scritto insieme. Ricordiamo ancora quell’esperienza con piacere e
sentiamo che forse, anche alla nostra età avanzata, troveremo un altro
progetto comune.
22.
Oxford e le monete incantate del signor Sfica
I molti anni da me trascorsi alla Stanford spesso si confondono nella
memoria, ma quelli sabbatici si stagliano nettamente nella mia mente.
Durante i primi anni Settanta continuai a insegnare agli studenti di medicina e
ai medici interni, e arruolai molti di loro come collaboratori per la ricerca
psicoterapeutica. Pubblicavo articoli su riviste sulla terapia di gruppo per
alcolisti e per coniugi che avevano subito un lutto. A un certo punto il mio
editore mi chiese di occuparmi di una seconda edizione del libro di testo
sulla terapia di gruppo. Sapendo che il progetto avrebbe richiesto la mia
completa attenzione, feci richiesta per sei mesi sabbatici e, nel 1974, io,
Marilyn e nostro figlio di cinque anni, Ben, partimmo per Oxford, dove avrei
avuto a disposizione uno studio nel dipartimento di psichiatria del Warneford
Hospital. Nostra figlia Eve aveva cominciato il Wesleyan e gli altri due figli
rimasero a casa per portare a termine l’anno scolastico a Palo Alto, con la
supervisione di amici di vecchia data che avrebbero alloggiato in casa
nostra.
Avevamo affittato una casa nel centro di Oxford, ma poco prima del
nostro arrivo un aereo di linea britannico si era schiantato e tutti i passeggeri
erano morti, incluso il padre della famiglia che ci avrebbe affittato
l’alloggio. Così all’ultimo minuto dovemmo darci da fare per trovare
un’altra sistemazione. Quando ci rendemmo conto che a Oxford non c’era
niente di disponibile, affittammo un grazioso cottage con il tetto di paglia
pressata nel minuscolo villaggio di Black Bourton, che aveva un solo pub ed
era situato a circa trenta minuti da Oxford.
Black Bourton era un villaggio piccolo, molto britannico e molto
appartato: le condizioni ideali per scrivere! Revisionare un libro di testo è
un lavoro impegnativo e poco stimolante, ma necessario se si vuole che il
libro continui a suscitare interesse. Analizzai alcune ricerche che avevo
appena completato, cercando di capire di più su quanto è davvero d’aiuto ai
pazienti durante la terapia. Avevo consegnato a un ampio campione di
pazienti che avevano partecipato a terapie di gruppo ben riuscite un
questionario con cinquantacinque affermazioni (collegate a catarsi,
comprensione, sostegno, guida, universalità, coesione del gruppo ecc.), e
proprio all’ultimo momento, quasi per capriccio, avevo aggiunto un
gruppetto di cinque affermazioni non ortodosse che avevo etichettato come
“fattori esistenziali” – affermazioni quali «riconoscere che, per quanto riesca
ad avvicinarmi agli altri, comunque devo fronteggiare la vita da solo», o
«riconoscere che non esiste possibilità di sottrarsi a determinati dolori
dell’esistenza e alla morte». Avevo chiesto ai pazienti di suddividerle in
gruppi, dal meno utile al più utile, e fui sbalordito di verificare che l’intera
categoria delle affermazioni inserite all’ultimo momento e legate ai fattori
esistenziali era posizionata molto più in alto di quanto mi fossi aspettato. Era
chiaro che in una terapia di gruppo efficace i fattori esistenziali stavano
avendo un ruolo più importante di quanto avessimo immaginato, e mi
impegnai a esplicitare questo dato in un nuovo capitolo.
Mentre stavo cominciando ad affrontare quest’idea ricevetti una
telefonata dagli Stati Uniti che m’informava che mi era appena stato
assegnato il prestigioso premio Strecker per la psichiatria. Ne fui assai
felice, naturalmente, ma non per molto. Due giorni più tardi arrivò una lettera
ufficiale con tutti i dettagli: mi veniva richiesto di tenere un discorso di
fronte a un vasto pubblico in Pennsylvania di lì a un anno. Questo non era un
problema. Ma poi scoprii che avrei dovuto presentare una monografia su un
argomento a mia scelta nel giro di quattro mesi perché fosse pubblicata
dall’Università della Pennsylvania in edizione limitata. Scrivere quella
monografia era l’ultima cosa al mondo che avrei voluto fare: quando
intraprendo un progetto di scrittura divento molto determinato e metto da
parte qualsiasi altra cosa. Presi in considerazione l’idea di rifiutare il
premio, ma diversi colleghi mi dissuasero dal farlo e alla fine giunsi a un
compromesso: avrei scritto la mia monografia sui fattori esistenziali nella
terapia di gruppo, e in tal modo avrei risolto due problemi: quel testo
sarebbe stato sia la monografia per lo Strecker che il capitolo per la
revisione del libro di testo. Ripensando a quel momento, credo che quello fu
l’inizio del lavoro che sarebbe culminato nel libro La psicoterapia
esistenziale.
Black Bourton è situato nelle Cotswolds, una regione bucolica nel sud
dell’Inghilterra rinomata per i campi di un verde brillante, coperti di
boccioli in primavera e in estate. La scuola preparatoria dove inserimmo
Ben era eccellente e in generale la vita era splendida, con un’unica
eccezione: il tempo. Eravamo ormai viziati dalla soleggiata California e, a
metà giugno, Marilyn dovette comprare un cappotto pesante di pelle di
pecora. A fine luglio eravamo così inumiditi e affamati di sole che, una
mattina piovosa, ci ritrovammo in un’agenzia di viaggi di Oxford alla ricerca
di un volo per il luogo soleggiato ed economico più vicino. L’agente di
viaggi sorrise con l’aria di chi la sa lunga (aveva già avuto a che fare in
precedenza con lamentosi turisti californiani) e ci prenotò un viaggio in
Grecia. «Voi e la Grecia» ci assicurò «diventerete ottimi amici».
Iscrivemmo Ben a un campo estivo a Winchester che rispondeva alle
nostre necessità, e nostro figlio Victor, che in giugno ci aveva raggiunto al
termine del semestre scolastico, andò in Irlanda a fare un tour in bicicletta
con altri ragazzi. Quindi io e Marilyn salimmo su un aereo per Atene. Da lì,
il giorno successivo, avremmo cominciato un giro in pullman di cinque
giorni dell’eternamente assolato Peloponneso che ci era stato promesso.
Atterrammo ad Atene allegri e pronti a partire in esplorazione, ma il
nostro bagaglio invece non arrivò. Avendo con noi soltanto il bagaglio a
mano, che per lo più consisteva in libri, trovammo un piccolo emporio
ancora aperto la sera tardi vicino al nostro albergo ad Atene, dove
acquistammo le cose essenziali per viaggiare: rasoio, crema da barba,
spazzolini da denti, dentifricio, biancheria intima e un prendisole a righe
rosse e nere per Marilyn. I cinque giorni successivi indossammo gli stessi
indumenti e, quando volle nuotare, Marilyn si mise l’unica maglietta e un
paio di mutande mie. La costernazione per il bagaglio smarrito svanì
rapidamente e ci abituammo a viaggiare leggeri. In effetti, con il passare dei
giorni, ci ritrovammo a sogghignare osservando i nostri compagni di viaggio
che brontolavano caricando le loro grosse valigie sul pullman, mentre noi
saltavamo su liberi come uccelli. Sgravati dei nostri pesi, ci sentivamo più
profondamente connessi con i luoghi visitati: il monte Olimpo, dove avevano
avuto luogo i primi giochi olimpici più di duemilacinquecento anni fa;
l’antico teatro di Epidauro; il sito montano dell’oracolo di Delfi, che
Marilyn amò più di ogni altra cosa, paragonandolo a Vézelay, in Francia, per
la bellezza e la grandezza spirituale. Alla fine del tour tornammo in
aeroporto e lì, con estremo stupore, vedemmo le nostre due valigie che
giravano in tondo sul nastro portabagagli vuoto. Con un sentimento
ambivalente le prendemmo e ci imbarcammo per la tappa successiva, Creta.
All’aeroporto di Creta affittammo una piccola vettura e trascorremmo la
settimana successiva girando l’isola senza alcuna fretta. Dopo quarant’anni
permangono solo brandelli di ricordi, ma sia io che Marilyn rammentiamo la
prima notte a Creta, seduti in una taverna, guardando la luce della luna che si
rifletteva nell’acqua di un canale che passava a pochi metri dal nostro
tavolo, meravigliandoci di antipasti che non avevamo mai visto prima: piatti
di baba ganoush, tzatziki, taramosalata, dolmades, spanakopita, tiropita,
keftedes. Mi piacquero al punto che a Creta non ordinai mai una portata
principale.
«Non voglio nulla. Non temo nulla. Sono libero». Le parole di Nikos
Kazantzakis mi fecero venire i brividi mentre le leggevo, il giorno
successivo, sulla sua pietra tombale poco fuori dalle antiche mura veneziane
che circondavano la città di Heraklion, la capitale di Creta. Essendo stato
scomunicato dalla chiesa greco-ortodossa per aver scritto proprio il libro
che avevo letto durante il volo per la Grecia, L’ultima tentazione di Cristo,
Kazantzakis non aveva potuto essere sepolto all’interno della città.
M’inginocchiai sulla sua tomba per rendere omaggio a quel grande spirito e
trascorsi gran parte del tempo che restava del nostro viaggio leggendo il suo
Seguito moderno dell’Odissea.

Nell’immenso palazzo di Knosso fummo affascinati dagli affreschi di


possenti donne dal petto scoperto che portavano offerte ai sacrifici
presieduti da sacerdotesse. Com’era sempre accaduto da quando la
conoscevo, Marilyn mi organizzò una visita ricca d’informazioni e rivolse
un’attenzione particolare alla predominanza di queste figure femminili. Ne
avrebbe parlato vent’anni più tardi in un libro del 1997, La storia del seno.
Raggiungemmo in macchina le montagne e ci facemmo strada fino a un
monastero dall’aria austera. Anche se ci invitarono a pranzo, ci fu permesso
di visitare solo una piccolissima parte della costruzione, per non disturbare
la meditazione dei monaci. Inoltre nessuna femmina era autorizzata a varcare
la soglia del nucleo principale, nemmeno le femmine di animali, incluse le
galline!
Mentre eravamo a Heraklion cominciammo a cercare antiche monete
greche come regalo di diploma per nostro figlio Reid. Nel primo negozio in
cui entrammo ci venne detto che era illegale vendere monete antiche ai
turisti, ma ogni mercante di fatto ignorava la cosa e prontamente, anche se in
modo furtivo, ci mostrava la propria scorta privata. Tra tutti i negozi di
monete fummo molto colpiti da quello di Sfica, esattamente di fronte al
Museo Nazionale, con il grande dipinto dorato di un bombo esposto in
vetrina. Dopo un’interminabile discussione con lo scaltro e cortese signor
Sfica, comprammo una moneta greca d’argento per Reid e altre due che io e
Marilyn avremmo portato come ciondoli. L’uomo ci assicurò che avremmo
potuto restituirle in qualsiasi momento, se non ne fossimo stati soddisfatti. Il
giorno successivo visitammo un negozietto in un seminterrato, di proprietà di
un rugoso antiquario ebreo. Lì comprammo delle monete romane a basso
prezzo e, nel corso della transazione, mostrai al proprietario le monete che
avevo acquistato da Sfica. Lui le esaminò rapidamente e sentenziò con
grande autorità: «False. Buone copie. Ma comunque false».
Tornammo da Sfica e chiedemmo di essere rimborsati. Come se ci stesse
aspettando, lui raggiunse a grandi passi la sua cassa e con grande dignità
estrasse una busta che conteneva i nostri soldi. Ce li porse dicendo: «Vi
restituisco i vostri soldi come avevo promesso, ma a una condizione: non
sarete più i benvenuti in questo negozio».
Mentre continuavamo il nostro viaggio per l’isola, ci fermammo in altri
negozi di monete e più di una volta descrivemmo il nostro incontro con
Sfica. «Cosa?» dicevano tutti. «Avete insultato Sfica? Sfica, il valutatore
ufficiale del Museo Nazionale?» Poi si portavano le mani alle tempie e si
mettevano a ondeggiare a destra e a sinistra, concludendo: «Gli dovete delle
scuse».
Non trovammo un regalo sostitutivo adeguato e cominciammo a mettere in
dubbio la nostra decisione di restituire le monete. L’ultima sera del nostro
soggiorno a Creta decidemmo di utilizzare un piccolo dono che un collega di
Oxford ci aveva fatto per il viaggio: un sottile spinello di marijuana. Poco
abituati al fumo, lo accendemmo e andammo a cena in uno dei ristoranti
all’aperto nella zona del mercato, dove per ore godemmo del cibo magico,
della musica e delle danze. Dopo cena vagammo per le strade di Heraklion e
perdemmo l’orientamento, poi ci prese una sorta di paranoia che ci convinse
di essere seguiti dalla polizia. Non riuscendo a trovare un taxi, ci
affrettammo attraverso un dedalo di strade cercando di trovare il nostro
albergo, e in qualche modo, a notte tarda, finimmo in una via deserta davanti
a un negozio con un grosso bombo dipinto esposto in vetrina: il negozio di
monete di Sfica! Mentre ce ne stavamo lì inebetiti, miracolosamente apparve
un taxi vuoto. Lo fermammo e in breve ci ritrovammo al sicuro nel nostro
albergo.
Il nostro volo per Londra sarebbe partito nel primo pomeriggio e, mentre
indugiavamo facendo colazione con cheesecake cretese, parlammo della
notte precedente. Per quanto di norma sia scettico, non potevo fare a meno di
chiedermi se non ci fosse stato mandato un qualche tipo di misterioso
messaggio facendoci finire proprio davanti al negozio di Sfica. Più ne
parlavamo, più ci convincevamo di aver fatto un terribile errore, un errore al
quale si poteva porre rimedio solo scusandoci umilmente con il signor Sfica
e ricomprando quelle monete. Tornammo al negozio e, sfidando il divieto di
Sfica, entrammo. Quando incontrammo il signor Sfica, cominciammo a
mormorare parole di scusa, ma lui tagliò corto mettendosi un dito sulle
labbra e, senza una parola, recuperò le tre monete. Pagammo lo stesso prezzo
della volta precedente. Qualche ora dopo, sull’aereo che ci riportava a
Londra, dissi a Marilyn: «Se lui e tutti i commercianti di Creta sono in
combutta, e ha avuto le palle di vendermi le stesse monete fasulle due volte,
allora dico: “Tanto di cappello, signor Sfica!”»
Tornati a Oxford, portammo le monete al museo Ashmolean per una
valutazione ufficiale. Una settimana più tardi ricevemmo il verdetto: tutte le
monete erano false, eccetto le piccole monete romane che avevamo comprato
dal vecchio commerciante ebreo con il negozietto nel seminterrato! In questo
modo ebbe inizio una lunga serie di avventure in Grecia.
23.
La terapia esistenziale
Fin da quando avevo letto L’esistenza di Rollo May all’inizio del mio
internato di psichiatria e avevo frequentato i primi corsi di filosofia alla
Hopkins, mi ero chiesto come avrei potuto cominciare a incorporare la
saggezza del passato nel campo della psicoterapia. Più leggevo di filosofia,
più mi rendevo conto di quante idee profonde fossero state ignorate dalla
psichiatria. Mi rammaricavo molto di avere solo una formazione superficiale
in filosofia, e in genere nelle materie umanistiche, ed ero determinato a
cominciare a colmare queste lacune della mia istruzione.
Iniziai con il frequentare una serie di corsi universitari della Stanford
sulla fenomenologia e sull’esistenzialismo, molti dei quali tenuti da un
pensatore e docente particolarmente lucido, il professor Dagfinn Føllesdal.
Trovavo la materia affascinante, anche se densa e difficile, e mi ritrovai a
combattere in particolare con Edmund Husserl e Martin Heidegger. Giudicai
L’essere e il tempo di Heidegger un testo opaco e tuttavia affascinante, al
punto che seguii il corso di Dagfinn due volte. In seguito io e Dagfinn
diventammo grandi amici. L’altro professore della Stanford a tenere dei
corsi in questo campo era Van Harvey il quale, nonostante il convinto
agnosticismo, fu a lungo preside del dipartimento di studi religiosi della
Stanford. Seduto in prima fila nella sua classe, ascoltavo ipnotizzato le
lezioni su Kierkegaard e Nietzsche, due dei corsi più indimenticabili che
abbia mai seguito. Anche Van Harvey diventò un caro amico e tutt’oggi ci
incontriamo regolarmente a pranzo per parlare di filosofia.
La mia intera vita professionale stava cambiando: cercavo sempre meno
la collaborazione con progetti scientifici condotti da membri del mio
dipartimento. Quando il professore di psicologia David Rosenhan si prese
un anno sabbatico, lo sostituii nell’insegnamento alle sue affollate classi di
psicologia patologica, ma quello sarebbe stato il mio gran finale, l’ultimo
corso del genere che avrei insegnato.
Gradualmente mi allontanai dall’affiliazione originaria alla scienza
medica e cominciai a radicarmi in quella umanistica. Fu un periodo
eccitante, ma anche di profonda insicurezza: spesso mi sentivo un outsider
che perdeva il contatto con i nuovi sviluppi della psichiatria e, al tempo
stesso, si stava trasformando in un dilettante in filosofia e letteratura. A poco
a poco mi ritrovai a fare una scelta tra i pensatori che mi sembravano più
rilevanti per il mio ambito d’interesse. Mi accostai a Nietzsche, Sartre,
Camus, Schopenhauer ed Epicuro/Lucrezio, ed evitai invece Kant, Leibniz,
Husserl e Kierkegaard, perché l’applicazione clinica delle loro idee mi
risultava meno chiara.
Ebbi anche la fortuna di frequentare le lezioni del professore di
letteratura inglese Albert Guerard, critico letterario e romanziere di valore, e
in seguito ebbi l’onore d’insegnare assieme a lui, diventando inoltre amico
suo e di sua moglie Maclin (anche lei una scrittrice). All’inizio degli anni
Settanta il professor Guerard aveva dato inizio a un nuovo programma per il
dottorato in Pensiero e letteratura moderni, e io e Marilyn presiedemmo
entrambi il suo comitato. Cominciai a insegnare più nell’area umanistica che
nella facoltà di medicina. Una delle prime proposte offerte dal nuovo
dottorato includeva “Psichiatria e biografia”, che insegnai assieme a Tom
Moser, il preside del dipartimento di inglese della Stanford, che divenne
anch’egli un buon amico. Io e Marilyn tenemmo insieme il corso “Morte e
narrativa” e con Dagfinn Føllesdal insegnai “Filosofia e psichiatria”.
Le mie letture adesso si erano orientate decisamente verso i pensatori
esistenziali, tanto in letteratura che in filosofia: autori come Dostoevskij,
Tolstoj, Beckett, Kundera, Hesse, Mutis e Hamsun non si occupavano in
primo luogo di questioni legate alla classe sociale, al corteggiamento, al
sesso, al mistero o alla vendetta: i loro soggetti erano molto più profondi,
toccavano i parametri fondamentali dell’esistenza. Lottavano per trovare un
significato in un mondo che ne era privo, affrontando apertamente la morte
inevitabile e un isolamento incolmabile. Io mi relazionavo a questi dilemmi
mortali. Sentivo che stavano raccontando la mia storia: e non solo la mia, di
storia, ma anche quella di ogni paziente che mi aveva consultato. Capivo
sempre più chiaramente che molte delle questioni in cui si dibattevano i miei
pazienti (l’invecchiamento, la perdita, la morte, le scelte fondamentali
dell’esistenza quali la professione da svolgere o chi sposare) erano spesso
affrontate in modo molto più convincente dai romanzieri che dagli esperti del
mio ambito professionale.
Cominciai a credere di poter scrivere un libro che riuscisse a introdurre
alcune idee della letteratura esistenzialista nella psicoterapia, ma al tempo
stesso temevo di mostrarmi tracotante a voler intraprendere un simile passo.
I veri filosofi non avrebbero forse percepito quanto era fragile e superficiale
la mia conoscenza? Decisi però di spingere da parte questi scrupoli e di
mettermi al lavoro, ma non riuscii mai a eliminare il rumore di fondo
generato dall’ansia di chi simula di essere ciò che non è. Sapevo anche che
questo sarebbe stato un formidabile progetto a lungo termine. Mi organizzai
in modo da poter trascorrere quattro ore ogni mattina a leggere e prendere
appunti nel mio studiolo sopra il garage; poi, a mezzogiorno, percorrevo in
bicicletta i venti minuti di strada fino alla Stanford per trascorrere il resto
della giornata con studenti e pazienti.
Oltre a riprendere in esame la letteratura accademica, affrontai le
montagne di fogli di appunti clinici sui pazienti. Cercavo sempre e comunque
di liberare la mente dalle preoccupazioni quotidiane e di meditare
sull’irriducibile esperienza di vivere. Pensieri legati alla morte fluttuavano
spesso nella mia mente cosciente e m’incalzavano nei sogni. Durante la fase
iniziale del lavoro per il libro ebbi un sogno potente che conservo fresco
nella mente, come se l’avessi sognato la notte scorsa.
Mia madre, le sue amiche e i parenti, ormai tutti morti, sono seduti tranquilli su una rampa di
scale. Sento la voce di mia madre che chiama – stridula – il mio nome. Noto in particolare zia
Minnie, seduta in cima alla rampa, immobile. Poi comincia a muoversi, dapprima lentamente, poi
sempre più rapida, finché si ritrova a vibrare più velocemente di un bombo. A quel punto tutti
quelli che sono sulla scala, tutti gli adulti della mia infanzia, tutti morti, cominciano a vibrare
sempre più veloci. Zio Abe si sporge per darmi un pizzicotto sulla guancia, ridacchiando mentre
dice: «Caro Sonny», com’era solito fare. Poi anche gli altri si sporgono in avanti, verso le mie
guance. Dapprima affettuosi, i pizzicotti diventano via via sempre più bruschi e dolorosi. Mi
sveglio in preda al terrore, con le guance che pulsano, alle tre del mattino.

Il sogno rappresentava un incontro con la morte. Dapprima la mia defunta


madre mi chiama, e vedo tutti i morti della mia famiglia seduti in
un’inquietante immobilità sulle scale. Poi tutti cominciano a muoversi. Noto
in particolare zia Minnie, morta dopo essere sopravvissuta per un anno in
preda alla “sindrome del lock-in”. Un ictus gravissimo l’aveva lasciata
paralizzata per diversi mesi, incapace di muovere un solo muscolo del
corpo, esclusi gli occhi. Per me era stato orribile immaginarla in quello
stato. Nel sogno Minnie comincia a muoversi, ma in breve il movimento si fa
frenetico. Cerco di alleviare il mio terrore immaginando i morti che mi
danno un pizzicotto affettuoso sulle guance. Ma il pizzicotto diventa brusco,
e poi malevolo: si sta cercando di indurmi a unirmi a loro, la morte arriverà
anche per me. L’immagine di mia zia che vibra come un bombo mi assillò
per giorni. Non riuscivo a scrollarmela di dosso. La sua totale paralisi,
quell’essere morta e viva al tempo stesso, era troppo orribile da sopportare,
e così nel sogno cercavo di cancellarla, facendola vibrare. Spesso sono
visitato da incubi scatenati da film sulla morte o sulla violenza, in
particolare sull’Olocausto. Il mio metodo principale per gestire il terrore
della morte? Senza dubbio, cercare di evitare determinate situazioni.
Ero sempre stato convinto che sarei morto all’età di sessantanove anni,
come mio padre. Fin dalla prima infanzia ricordo che la mia famiglia estesa
sosteneva due cose a proposito dei maschi Yalom: che erano sempre gentili e
che morivano sempre giovani. I due fratelli di mio padre erano morti per
infarto alle coronarie prima dei sessant’anni, e le coronarie di mio padre lo
avevano quasi ucciso quando ne aveva quarantasette. Quando, alla facoltà di
medicina, avevo imparato qualcosa di più sulla fisiologia e sull’impatto
della dieta sulle placche delle arterie coronarie, avevo mutato bruscamente e
in modo definitivo le mie abitudini alimentari, riducendo radicalmente
l’assunzione di grassi animali. Evitavo la carne rossa e gradualmente sono
passato a una dieta fondamentalmente vegetariana. Ho assunto statine per
decenni, controllato con attenzione il peso e fatto esercizio fisico regolare, e
mi sono sorpreso di vivere ben oltre i sessantanove anni.

Dopo mesi di studio e riflessione giunsi alla conclusione che il confronto


con la morte avrebbe dovuto essere il punto principale di un approccio
esistenziale alla terapia. Mi ero convinto di questo per l’intensità e
l’universalità del nostro terrore della morte, ma adesso, con una visione
retrospettiva, non posso scartare la possibilità che il mio punto di vista
possa essere stato poco equilibrato per colpa della mia personale angoscia
nei confronti della morte. Per mesi lessi tutto quello che riuscivo a trovare
sulla morte, a cominciare da Platone per finire con La morte di Ivan Il’ič di
Tolstoj, La morte e il pensiero occidentale di Jacques Choron e La
negazione della morte di Ernest Becker.
La letteratura erudita sulla morte era così vasta, così estesa a macchia
d’olio e spesso così esoterica e lontana dalla psichiatria che mi resi conto
che il mio unico contributo poteva venire dal lavoro con i pazienti.
All’epoca era stato scritto molto poco sulla morte nella letteratura clinica, e
sapevo che avrei dovuto trovare una strada mia. Tuttavia, per quanto
cercassi in ogni modo di discutere delle preoccupazioni relative alla morte
con i miei pazienti di psicoterapia, non riuscivo a impegnarli in una
discussione approfondita. Affrontavamo l’argomento per alcuni minuti, e poi
rapidamente andavamo a finire da qualche altra parte. Riconsiderando quel
periodo, adesso penso di aver inconsciamente comunicato ai miei pazienti
che non ero pronto a parlarne.
Quindi presi una decisione importante che avrebbe influenzato i
successivi dieci anni della mia pratica clinica: avrei lavorato con pazienti
che dovevano parlare della morte perché erano prossimi a trovarsela di
fronte. Cominciai a fornire consulenze ai pazienti del servizio oncologico
dello Stanford ai quali era stato diagnosticato un cancro incurabile. A quei
tempi partecipai a una conferenza di Elisabeth Kübler-Ross, una pioniera nel
lavoro con i pazienti terminali, e fui colpito dalla sua prima domanda a un
paziente seriamente ammalato: «Quanto è malato?» Mi parve una domanda
di grande valore: comunica davvero molto, e precisamente che sono aperto e
desideroso di andare ovunque il paziente desideri, persino nei luoghi più
oscuri.
Fui particolarmente colpito dall’estremo isolamento in cui ci si trova
quando si è colpiti da una malattia terminale. L’isolamento è bidirezionale:
innanzitutto i malati si astengono dal discutere i loro pensieri morbosi e
spaventosi, per paura di deprimere la famiglia e gli amici e, in secondo
luogo, chi sta vicino al malato evita di parlare dell’argomento per non
turbarlo ancora di più. Più pazienti malati di cancro incontravo, più mi
persuadevo che un gruppo di terapia avrebbe potuto contribuire ad alleviare
questa solitudine. Gli oncologi con i quali avevo parlato dei miei progetti in
un primo momento erano stati sospettosi e poco collaborativi. Si era ancora
all’inizio degli anni Settanta e un gruppo del genere sembrava avventato e
potenzialmente nocivo. Inoltre non esistevano precedenti: nella letteratura
scientifica non esisteva una singola relazione su un gruppo per pazienti
malati di cancro.
Con l’esperienza, però, mi convinsi sempre più che un gruppo del genere
avrebbe potuto offrire moltissimo, e cominciai a diffondere l’idea nella
comunità medica della Stanford. Poco dopo Paula West, una paziente con un
cancro al seno con metastasi, si presentò nel mio studio. Sarebbe diventata
importante per me e per il mio lavoro con i pazienti malati di cancro. Anche
se aveva a che fare con dolorose metastasi alla spina dorsale, Paula
affrontava la propria situazione con eleganza straordinaria. In seguito
descrissi la mia relazione con lei nel racconto “Viaggi con Paula”,
pubblicato nella raccolta Il senso della vita. La storia comincia in questo
modo:
Quando entrò per la prima volta nel mio studio fui colpito sull’istante dal suo aspetto: dalla
dignità del portamento; dal sorriso radioso, che mi conquistò; dai capelli corti e giovanili, di un
bianco lucente; e da qualcosa che posso solo definire luminosità, e che sembrava emanare dai
suoi occhi saggi d’un blu intenso.
«Mi chiamo Paula West» disse. «Ho un cancro in fase terminale, ma non sono una paziente
con il cancro». E in effetti, nei miei viaggi con lei nel corso di molti anni, non l’ho mai
considerata una paziente. Continuò descrivendo in modo conciso e dettagliato la storia della sua
malattia: cancro al seno diagnosticato cinque anni prima; rimozione chirurgica di una mammella,
quindi cancro all’altra, asportata anche quella. Poi era arrivata la chemioterapia con il suo
tremendo e familiare entourage: nausea, vomito, totale perdita dei capelli. Quindi la
radioterapia, il massimo consentito. Ma nulla rallentava il diffondersi del suo cancro – al cranio,
al midollo, fino alle orbite. Il cancro di Paula chiedeva di essere alimentato e, sebbene i
chirurghi gli avessero concesso offerte sacrificali (le mammelle, i linfonodi, le ovaie, le ghiandole
surrenali), restava insaziabile.
Quando immaginavo il corpo nudo di Paula, vedevo un petto segnato da cicatrici, senza
mammelle, carne o muscoli, come le assi portanti di un galeone naufragato, e sotto il petto un
addome con una cicatrice chirurgica, il tutto sostenuto dalle anche spesse, sgraziate, ingrossate
dagli steroidi. In breve, una donna di cinquantacinque anni senza mammelle, ghiandole
surrenali, ovaie, utero e, ne sono certo, senza più libido.
Ho sempre apprezzato le donne dal corpo sodo e aggraziato, con seni floridi e una sensualità
subito evidente. Tuttavia la prima volta che incontrai Paula mi capitò una cosa curiosa: la trovai
bellissima e m’innamorai di lei.

Paula accettò di unirsi a un piccolo gruppo formato da altri tre pazienti


terminali. Noi cinque ci incontravamo per novanta minuti in un locale
confortevole riservato alla terapia di gruppo nell’edificio di psichiatria.
Cominciai con il dire semplicemente che tutti i membri avevano il cancro e
credevo che potessimo aiutarci a vicenda condividendo pensieri e
sentimenti.
Uno dei membri era Sal, un uomo di trent’anni in sedia a rotelle che,
come Paula, era un tipo fuori dall’ordinario. Anche se aveva un mieloma
multiplo in stato avanzato (un doloroso cancro alle ossa invasivo che ne
provocava la frattura) e fosse imprigionato nel gesso dal collo alle cosce, il
suo spirito era indomito. L’imminenza della morte aveva inondato la sua vita
di un nuovo significato e l’aveva trasformato a tal punto che adesso
considerava la sua malattia come una sorta di ministero. Aveva accettato di
unirsi al gruppo sperando di aiutare gli altri a trovare una forma di
liberazione simile alla sua.
Anche se era entrato nel gruppo sei mesi prima del dovuto (cioè quando il
gruppo era ancora troppo piccolo per fornirgli il pubblico che cercava), Sal
trovò altre piattaforme comunicative, essenzialmente le scuole superiori,
dove si rivolgeva agli adolescenti problematici. Lo sentii tener loro un
discorso con voce tonante.
Volete corrompere il vostro corpo con le droghe? Volete ucciderlo con l’alcol, con l’erba, con la
cocaina? Volete schiantare i vostri corpi nelle vostre macchine? Ucciderlo? Buttarlo giù dal
Golden Gate? Non lo volete? Bene, allora, il vostro corpo datelo a me! Lasciate che lo abbia io.
Ne ho bisogno. Lo prenderò io – io voglio vivere!

Tremai, quando lo sentii parlare. La forza della sua capacità oratoria era
aumentata dal potere particolare che diamo sempre alle parole di chi sta per
morire. Gli studenti delle scuole superiori ascoltavano in silenzio,
percependo, proprio come me, che parlava sinceramente, che non aveva
tempo per giochetti o messe in scena.
Un’altra paziente, Evelyn, gravemente malata di leucemia, procurò a Sal
un’ulteriore opportunità per il suo ministero. Portata nel gruppo su una sedia
a rotelle e con una trasfusione di sangue in corso, Evelyn disse: «Lo so che
sto morendo. Posso accettarlo, non è più una cosa importante. Ma quello che
davvero importa è mia figlia, che sta avvelenando i miei ultimi giorni!»
Descrisse poi la figlia come «una donna vendicativa, incapace d’amore».
Qualche mese prima avevano avuto un litigio amaro e assurdo dopo che la
figlia, che badava al gatto di Evelyn, gli aveva somministrato il cibo
sbagliato. Da allora non si erano più parlate.
Dopo averla ascoltata, Sal le disse, in modo semplice e appassionato:
«Ascolta quello che ho da dirti, Evelyn. Anch’io sto morendo. Lascia che ti
chieda: che cosa importa quello che mangia il tuo gatto? Che importa chi
cederà per prima? Lo sai che non hai molto tempo. Smettiamola di fingere.
L’amore di tua figlia per te è la cosa più importante del mondo. Non morire,
ti prego, non morire senza dirglielo. Le avvelenerà la vita, non si riprenderà
più, e a sua volta passerà quel veleno a sua figlia! Spezza il cerchio! Spezza
il cerchio, Evelyn!»
L’appello di Sal funzionò. Anche se Evelyn morì qualche giorno più tardi,
l’infermiera del reparto ci disse che, sotto l’influsso delle parole di Sal, lei
e la figlia si erano riconciliate tra le lacrime. Ero molto fiero di Sal. Era il
primo trionfo del nostro gruppo!
Dopo diversi mesi sentii di aver imparato abbastanza da poter cominciare
a lavorare con un numero maggiore di pazienti. Pensai anche che un gruppo
omogeneo avrebbe potuto essere più efficace. La maggior parte delle
pazienti che avevo visto durante le consultazioni avevano un cancro al seno
con metastasi, così decisi di formare un gruppo composto interamente da
donne con quella malattia. Paula cominciò a reclutarle con impegno.
Facemmo alcuni colloqui, accettammo sette nuove donne e aprimmo
ufficialmente la nostra attività.
Paula mi sorprese dando inizio alla prima seduta con la lettura ad alta
voce di un antico racconto chassidico:
Un rabbino ebbe una conversazione con il Signore a proposito del Paradiso e dell’Inferno. «Ti
mostrerò l’Inferno» disse il Signore, e condusse il rabbino in una stanza che conteneva un ampio
tavolo rotondo. Le persone sedute attorno al tavolo erano affamate e disperate. In mezzo al
tavolo c’era un’enorme pentola di stufato dal profumo così delizioso che al rabbino venne
l’acquolina in bocca. Tutte le persone attorno al tavolo avevano in mano un cucchiaio con un
manico molto lungo. Anche se quei lunghi cucchiai servivano a raggiungere la pentola, i manici
erano più lunghi delle braccia delle persone, così nessuno riusciva a mangiare, perché non era
in grado di portare il cucchiaio alle labbra. Il rabbino vide che la loro sofferenza era davvero
terribile.
«Adesso ti farò vedere il Paradiso» disse il Signore, ed entrarono in un’altra stanza,
esattamente uguale alla prima. C’erano lo stesso ampio tavolo rotondo, la stessa pentola di
stufato. Le persone, come in precedenza, erano equipaggiate con gli stessi cucchiai dal lungo
manico – ma qui tutti erano ben nutriti e in carne, ridevano e chiacchieravano. Il rabbino non
riusciva a capire. «È semplice, ma richiede una certa abilità» disse il Signore. «In questa stanza
hanno imparato a imboccarsi l’un l’altro».

Anche se ho condotto gruppi per molti decenni, non ho mai sperimentato un


esordio più ispirato. Il gruppo divenne rapidamente coeso e, quando i
membri morivano, ne inserivo di nuovi; continuai a condurre quel gruppo per
dieci anni. In seguito invitai gli interni di psichiatria a guidare con me il
gruppo per dodici mesi, e poi un nuovo membro della facoltà di psichiatria,
David Spiegel, si unì a me per alcuni anni.
Il gruppo non solo procurava molto conforto a un gran numero di pazienti,
ma mi offriva un profondo ammaestramento. Per prendere solo uno della
miriade di esempi penso a una donna che, una settimana dopo l’altra,
arrivava con un’espressione così stremata, gli occhi così abbattuti che tutti
noi avevamo cercato, invano, di darle un po’ di sollievo. Poi,
all’improvviso, un giorno si presentò con una scintilla negli occhi e con
indosso un abito dai colori vivaci. «Cos’è successo?» domandammo. Ci
ringraziò e ci disse che la discussione del gruppo della settimana precedente
l’aveva aiutata a prendere una decisione cruciale: aveva deciso che poteva
essere un modello per i suoi figli su come affrontare la morte con grazia e
coraggio. Non ho mai incontrato un esempio migliore di come avere un
significato nella vita generi una sensazione di benessere. È anche un esempio
straordinario del concetto dei “cerchi nell’acqua”, che aiuta molti ad
attenuare il terrore della morte. I cerchi nell’acqua si riferiscono al
passaggio di parti del nostro io ad altri, persino a persone che non
conosciamo, proprio come i cerchi provocati da un ciottolo lanciato in uno
stagno continuano ad allargarsi finché non sono più visibili e tuttavia
proseguono, sia pur a un microlivello.
Fin dall’inizio invitai i medici interni dello Stanford, gli studenti di
medicina e occasionalmente gli studenti universitari interessati ad assistere
alle sedute del gruppo attraverso il finto specchio. In contrasto con i gruppi
di terapia tradizionali dello Stanford, che tolleravano con disagio
l’osservazione, i pazienti malati di cancro rispondevano in una maniera
nettamente differente: volevano e accoglievano con piacere gli studenti. Il
fatto di essere di fronte alla morte aveva loro insegnato molto sul vivere, e
desideravano passare questa consapevolezza ad altri.
Paula era molto critica nei confronti degli stadi del dolore teorizzati dalla
Kübler-Ross. Poneva invece grande enfasi sulle possibilità di imparare e
crescere che venivano dal trovarsi davanti alla morte e spesso parlava del
«periodo d’oro» nel quale era vissuta nei tre anni precedenti. Diversi altri
membri del gruppo condividevano quell’esperienza. Secondo le parole di
una paziente: «Che peccato aver dovuto aspettare fino a ora, ora che il mio
corpo è crivellato dal cancro, per imparare a vivere». Quella frase si è
insediata in permanenza nella mia mente e mi ha aiutato a dare forma alla
mia pratica della terapia esistenziale. Spesso la metto in questo modo: anche
se la realtà della morte ci può distruggere, l’idea della morte ci può
salvare. Mi sembra renda bene l’idea che, siccome abbiamo solo una
possibilità di vivere, dovremmo sfruttarla pienamente e concludere la vita
con il minor numero possibile di rimpianti.
Il lavoro con i malati terminali a poco a poco mi portò a mettere i pazienti
sani di fronte alla propria mortalità, allo scopo di aiutarli a mutare il modo
in cui vivevano. Spesso questo implica semplicemente ascoltare e rinforzare
la consapevolezza del paziente che l’arco di tempo della sua vita ha una
durata finita. In molte occasioni ho utilizzato un esercizio esplicito: chiedo al
paziente di disegnare una linea su un foglio di carta e poi gli dico: «Ora
facciamo che un capo rappresenti la sua nascita, e l’altro la sua morte. La
prego di segnare sulla linea un punto che indichi dove si trova adesso, e di
meditare sul diagramma». È raro che questo esercizio non metta in moto una
più profonda consapevolezza della preziosa caducità dell’esistenza.
24.
Affrontare la morte con Rollo May
Le cinquanta persone, tra uomini e donne, che parteciparono al nostro gruppo
di malati di cancro morirono tutte, tranne una: Paula. Lei sopravvisse al
cancro, solo per morire, in seguito, di lupus. Sapevo fin dal principio che, se
volevo scrivere in modo onesto e utile del ruolo che la morte ha nella vita,
dovevo ricevere insegnamenti da coloro che stavano fronteggiando una morte
imminente, ma per questo avrei pagato un prezzo elevato. Dopo le sedute di
gruppo mi capitava di essere profondamente in ansia: rimuginavo sulla mia
morte, avevo difficoltà a dormire e spesso ero assillato da incubi.
Anche gli studenti che fungevano da osservatori erano turbati, e capitava
abbastanza spesso che qualcuno se ne fuggisse singhiozzando dalla stanza di
osservazione prima della fine della seduta. Ancora oggi rimpiango di non
averli adeguatamente preparati, o di non aver fornito loro una terapia di
sostegno.
Con l’aumentare della mia angoscia della morte, cominciai a pensare a
tutta la psicoterapia che avevo fatto in passato: la lunga analisi durante
l’internato, l’anno di terapia a Londra, l’anno di terapia della Gestalt con Pat
Baumgartner, come pure le numerose sedute di terapia comportamentale e un
breve corso di bioenergetica. Mentre ripensavo a tutte queste ore di terapia,
non riuscii a rievocare una singola discussione sull’angoscia della morte.
Era mai possibile? Davvero la morte, la fonte primaria di angoscia, non
era mai stata menzionata in nessuna delle mie terapie?
Se intendevo continuare a lavorare con i pazienti che si trovavano a
fronteggiare la morte, decisi che dovevo tornare in terapia, questa volta con
qualcuno pronto ad accompagnarmi in quell’oscurità. Poco tempo prima
avevo sentito dire che Rollo May, l’autore di L’esistenza, si era trasferito da
New York in California e incontrava i pazienti a Tiburon, a circa ottanta
minuti dalla Stanford. Gli telefonai per un appuntamento, e una settimana più
tardi ci incontrammo nella sua bellissima casa di Sugarloaf Road, affacciata
sulla baia di San Francisco.
Rollo era un uomo alto, bello, imponente di quasi settant’anni. In genere
indossava un maglione dolcevita beige o bianco e una giacca leggera di
pelle. Riceveva nel suo studio, accanto al salotto. Era un ottimo pittore, e
alle pareti erano appesi diversi dipinti da lui fatti da giovane. Ammirai in
particolare quello della chiesa dalle alte guglie di Mont Saint-Michel, in
Francia. (Dopo la sua morte Georgia, la vedova, me lo diede, e oggi è
appeso nel mio studio.) Nel giro di poche sedute mi resi conto che potevo
fare buon uso degli ottanta minuti di viaggio ascoltando la registrazione della
seduta precedente. Glielo suggerii: lui accettò piuttosto prontamente e
sembrò del tutto a suo agio all’idea che registrassi i nostri incontri.
Cominciare ogni seduta dopo aver appena ascoltato la precedente mentre
guidavo aumentò moltissimo la mia concentrazione, e credo abbia accelerato
il nostro lavoro. Da allora, se ho dei pazienti che devono percorrere molta
strada per raggiungere il mio studio, suggerisco loro di fare la stessa cosa.
Come vorrei poter ascoltare quei nastri, adesso che sto scrivendo queste
pagine, ma, ahimè, non è possibile. Li avevo raccolti tutti nel cassetto di una
vecchia scrivania che si trovava nel mio studiolo tra gli alberi, che a un
certo punto aveva avuto bisogno di urgenti riparazioni. Quando nel 1974 io e
la mia famiglia eravamo partiti per Oxford, mi ero accordato per far
ristrutturare lo studio con un vecchio e affabile factotum del Midwest di
nome Cecil, che si era presentato alla nostra porta anni prima, in cerca di
lavoro. Avevamo un sacco di cose da fargli fare, dato che io non ho alcuna
inclinazione per i lavori manuali. In breve tempo Cecil e la sua paffuta e
affabile consorte, Martha, che sembrava appena uscita dal film Mary
Poppins ed era maestra nel fare le torte di mele, trasferirono la loro roulotte
in un angolo nascosto della nostra proprietà, dove per diversi anni vissero e
si occuparono di tutte le questioni relative alla gestione della nostra casa.
Quando tornai dal mio anno sabbatico trovai che Cecil aveva fatto un grosso
lavoro restaurando il mio studio, ma tutti i vecchi mobili traballanti, inclusa
la stagionata scrivania e i suoi cassetti zeppi delle cassette delle mie sedute
con Rollo, erano scomparsi. Non ritrovai più quei nastri e ogni tanto sono
assillato da allarmanti fantasie che il loro contenuto possa fare la sua
comparsa da qualche parte su Internet.
Adesso, quarant’anni dopo, trovo molto difficile rievocare i dettagli delle
nostre sedute, ma so che mi concentravo moltissimo sui miei pensieri sulla
morte e che Rollo, anche se a disagio, non si sottrasse mai alla discussione
dei pensieri più morbosi. A quell’epoca il mio lavoro con i pazienti
terminali aveva innescato incubi portentosi, che svanivano immediatamente
dopo il risveglio. A un certo punto suggerii a Rollo l’idea che io trascorressi
la notte in un motel nelle vicinanze di casa sua, in modo da poterlo
incontrare appena sveglio la mattina successiva. Lui accettò e quelle sedute,
tenutesi quando i miei sogni erano più freschi, furono particolarmente
cariche di energia. Gli parlai delle mie paure di morire a sessantanove anni,
come mio padre. Disse che, considerata la mia fiducia nella razionalità, era
bizzarro che restassi attaccato a una simile superstizione. Quando parlai del
mio lavoro con i pazienti terminali e di come evocassero la mia angoscia
della morte, mi disse che ero coraggioso a intraprendere un lavoro del
genere e che non c’era da sorprendersi se provavo una simile angoscia.
Ricordo di aver detto a Rollo quanto fossi rimasto colpito dal passo di
Macbeth in cui il protagonista dice: «La vita non è che un’ombra che
cammina, un povero attore che s’agita e pavoneggia per un’ora su un palco, e
poi non se ne sa più nulla»; e di come, da adolescente, l’avessi applicato a
qualsiasi persona di rilievo che avesse popolato la mia vita (Franklin
Roosevelt, Harry Truman, Richard Nixon, Thomas Wolfe, Mickey Vernon,
Charles de Gaulle, Winston Churchill, Adolf Hitler, George Patton, Mickey
Mantle, Joe DiMaggio, Marilyn Monroe, Laurence Olivier, Bernard
Malamud), tutti personaggi che s’erano agitati e pavoneggiati e avevano fatto
la storia del mio mondo, e che adesso se n’erano andati, erano diventati
polvere. Nulla era rimasto di loro. Tutto, davvero tutto, passa. Tutti noi
abbiamo solo un istante prezioso e benedetto alla luce del sole. Ho indugiato
molte, molte volte su questo pensiero, e ancora non manca mai di scuotermi.
Non indagai mai, ma sono certo che molte di quelle sedute suscitarono un
disagio personale a Rollo, dato che aveva ventidue anni più di me ed era
quindi più prossimo alla morte. Ma non si tirò mai indietro né rifiutò
d’accompagnarmi nelle ricerche più oscure sulla mortalità. Non ricordo
particolari momenti rivelatori, ma a poco a poco cominciai a cambiare e a
sentirmi più a mio agio a lavorare con i pazienti terminali. Rollo aveva letto
una buona parte del mio lavoro, inclusa la stesura finale de La psicoterapia
esistenziale, e fu sempre generoso nel suo atteggiamento nei miei confronti.
E io gli sono ancora oggi profondamente grato.
Ricordo la prima volta che Rollo vide Marilyn. Accadde anni dopo che la
mia terapia con lui si era conclusa, e noi eravamo appena arrivati a una cena
che lui aveva organizzato per lo psichiatra britannico R.D. Laing (che avevo
consultato mentre mi trovavo a Londra). Rollo aprì la porta di casa, mi
salutò e poi porse entrambe le mani a Marilyn. Lei disse: «Non pensavo che
lei fosse così cordiale». E Rollo, senza esitare, rispose: «E io non pensavo
che lei fosse così graziosa».
Non è comune e spesso è molto problematico che pazienti e terapeuti
intreccino una relazione sociale al termine di una terapia, ma in questo caso
funzionò per tutte le parti implicate. Diventammo ottimi amici, e l’amicizia
continuò fino alla sua morte. Di quando in quando pranzavamo assieme al
Capri, il suo ristorante preferito a Tiburon, e in diverse occasioni riesaminai
con lui la mia terapia. Sapevamo entrambi che mi era stato d’aiuto, ma il
meccanismo di quell’aiuto restava un mistero per entrambi. Mi disse, più di
una volta: «Sapevo che volevi qualcosa da me nella terapia, ma non sapevo
che cosa fosse o come dartelo». Mentre adesso mi guardo indietro, credo che
Rollo mi abbia offerto la sua presenza: senza esitazione mi aveva
accompagnato in un territorio oscuro e mi aveva offerto un’ottima presenza
paterna, della quale avevo grande necessità. Era un uomo più grande di me
che mi capiva e mi accettava. Quando aveva letto il manoscritto de La
psicoterapia esistenziale, mi aveva detto che era un buon libro e aveva
scritto una frase significativa da mettere sulla copertina. La frase che mi
diede per la copertina di un libro successivo, Il carnefice dell’amore
(«Yalom scrive come un angelo dei demoni che ci tormentano») rappresenta
la massima lode che io abbia mai ricevuto.

Più o meno in quel periodo io e Marilyn cominciammo ad avere grossi


problemi nel nostro matrimonio. Lei aveva rinunciato al posto di professore
di ruolo presso la California State University a Hayward per accettare il
posto alla Stanford di direttrice del nuovo Centro di ricerca sulle donne
(CROW), dove si stava costruendo una nuova carriera nel nascente ambito
degli studi sulle donne. Formava giovani studentesse e intrecciava relazioni
strette con le principali studiose della Stanford. Il lavoro aveva
un’importanza centrale nella sua mente e sentivo che stava seriamente
trascurando il nostro matrimonio. Aveva un circolo sociale interamente
nuovo: la vedevo sempre meno e sentivo che ci stavamo davvero
allontanando l’uno dall’altra. Rammento con estrema chiarezza una serata
infausta a San Francisco quando, durante la cena al Little City Antipasto, le
dissi: «La tua nuova vita, il tuo nuovo lavoro e il tuo coinvolgimento nelle
questioni femminili sono una grande cosa per te, ma non per me. Sei così
presa da tutto questo che non riesco più a ricevere molto dalla nostra
relazione e forse dovremmo pensare di separ…» Non portai mai a termine la
frase perché Marilyn scoppiò in un pianto dirotto, così plateale che tre
camerieri si precipitarono al nostro tavolo e tutte le facce della gente seduta
nel ristorante si rivolsero verso di noi.
Quello fu il momento peggiore della nostra relazione e si verificò in un
periodo in cui io e Marilyn incontravamo spesso Rollo e Georgia. Una sera
Rollo, sempre desideroso di nuove esperienze, ci invitò a provare
dell’ecstasy allo stato puro che gli era stata regalata. Georgia non la prese e
s’impegnò a tenere sotto controllo l’intera serata. Né io né Marilyn avevamo
mai provato l’ecstasy, ma entrambi ci sentivamo al sicuro con Rollo e
Georgia, e alla fine quella serata si rivelò straordinariamente dolce e
risanatrice. Dopo aver preso l’ecstasy chiacchierammo, cenammo,
ascoltammo musica e tutt’oggi siamo entrambi convinti che in qualche
maniera i nostri problemi coniugali semplicemente si dissolsero.
Cambiammo, abbandonando i sentimenti negativi, e tornammo ad amarci più
profondamente che mai. Inoltre il cambiamento si rivelò permanente!
Nessuno di noi due ne capisce bene la ragione; comunque, inesplicabilmente,
non provammo mai più quella droga.
All’inizio degli anni Novanta, quando stava per compiere ottant’anni,
Rollo soffrì di attacchi ischemici transitori (TIA) e a volte, anche per due o
tre giorni di seguito, si sentiva confuso e angosciato. Capitava che Georgia
mi telefonasse quando gli episodi erano più gravi: allora passavo a trovarli
e trascorrevo del tempo con Rollo, parlando e passeggiando sulle colline
dietro la loro casa. Solo adesso, all’età di ottantacinque anni, capisco
appieno la sua angoscia. Ho passeggeri momenti di confusione e mi capita di
dimenticare per un attimo dove sono o cosa sto facendo. Era questo che
Rollo provava, e non per pochi istanti, ma per ore e giorni. Tuttavia in
qualche modo continuò a lavorare quasi fino alla fine. Verso la fine della sua
vita assistetti a una sua conferenza. La comunicazione era potente come
sempre, la voce sonora e rassicurante, ma verso la conclusione
dell’intervento ripeté la stessa storia che aveva raccontato pochi minuti
prima. Mi sentii gelare quando me ne accorsi, mi sentii gelare per lui, e
spesso ricordo ai miei amici di essere onesti con me e di avvertirmi quando
arriverà il momento che io mi fermi.
Una sera Georgia telefonò per dire che Rollo forse era prossimo alla
morte e ci chiese di andare da loro immediatamente. Noi tre trascorremmo la
notte sedendo a turno al capezzale di Rollo, che aveva perso conoscenza e
aveva un edema polmonare avanzato che lo costringeva a respirare con
fatica, a volte con respiri lunghi e profondi seguiti da altri più brevi e
superficiali. Alla fine, durante il mio turno, mentre gli sedevo accanto e gli
toccavo una spalla, esalò un ultimo respiro convulso e spirò. Georgia mi
chiese di aiutarla a lavare il corpo per prepararlo per l’addetto alle pompe
funebri, che la mattina successiva lo avrebbe portato al crematorio.
Quella notte, scosso dalla morte di Rollo e dalla sua imminente
cremazione, feci un sogno potente e indimenticabile:
Sto camminando con i miei genitori e mia sorella in un centro commerciale e poi decidiamo di
salire al piano di sopra. Mi ritrovo su un ascensore, ma sono solo, la mia famiglia è scomparsa.
Si tratta di una salita molto, molto lunga. Quando scendo dall’ascensore sono su una spiaggia
tropicale. Ma non riesco a trovare la mia famiglia, nonostante la cerchi e continui a cercarla.
Anche se il luogo è magnifico (per me le spiagge tropicali sono un autentico paradiso), comincio
a provare un profondo terrore.
Poi indosso una camicia da notte con sopra la faccia graziosa e sorridente dell’orso Smoky,
la mascotte dei Rangers forestali. La faccia sulla camicia da notte diventa luminosa, poi
brillante. In breve la faccia diventa il vero e proprio centro del sogno, come se tutta l’energia del
sogno stesso si fosse concentrata nella faccina graziosa e sorridente dell’orso Smoky.

Il sogno mi svegliò, non tanto per il terrore, quanto per la brillantezza


dell’emblema rilucente sulla camicia da notte. Era come se dei riflettori si
fossero improvvisamente accesi nella mia camera da letto.
Cosa c’era dietro l’immagine abbagliante dell’orso Smoky? Sono certo
che fosse collegata alla cremazione di Rollo. La sua morte mi aveva messo
al cospetto della mia, che il sogno esprimeva attraverso l’isolamento dalla
mia famiglia e l’infinita salita in ascensore. Sono sconvolto dalla semplicità
del mio inconscio. È imbarazzante che una parte di me abbia tirato in ballo
una versione hollywoodiana dell’immortalità come di un paradiso celeste,
con tanto di spiaggia tropicale.
Quella notte ero andato a dormire scosso dall’orrore della morte di Rollo
e della sua imminente cremazione, e il mio sogno aveva tentato di
disinnescare quell’esperienza, di addolcirla, di renderla sopportabile. La
morte è benignamente travestita da lungo viaggio in ascensore fino a una
spiaggia tropicale. La fiammeggiante cremazione è trasformata in qualcosa di
più amichevole e fa la sua comparsa sotto forma di camicia da notte, che
prepara al sonno della morte, con sopra l’adorabile immagine di un
delizioso orsacchiotto. Ma il terrore non può essere contenuto e l’immagine
dell’orso Smoky mi sveglia con il suo bagliore.
25.
Morte, libertà, isolamento e significato
Negli anni Settanta il libro di testo sulla psicoterapia esistenziale era sempre
presente nella mia mente, ma tale presenza era così diffusa e opprimente che
non fui in grado di cominciare a scriverlo fino al giorno in cui Alex Comfort
ci venne a trovare. Ricordo che eravamo seduti nel mio studio tra gli alberi
appena ristrutturato, e parlavamo. Lui mi ascoltava con attenzione mentre gli
raccontavo le mie letture e le idee per il libro. Dopo circa un’ora e mezzo,
Alex m’interruppe e proclamò solennemente: «Irv, ho ascoltato, ho sentito
quello che avevi da dire e, in tutta confidenza, dichiaro che è venuto il
momento che tu smetta di leggere e cominci a scrivere».
Era esattamente quello di cui avevo bisogno! Avrei potuto continuare a
star lì a tormentarmi ancora per molti anni. Alex ne sapeva di libri, ne aveva
pubblicati più di cinquanta, e in qualche modo il suo tono convincente e la
sua fiducia in me mi consentirono di sgombrare il campo dai dubbi e dare
inizio al lavoro. La tempistica era perfetta, dato che ero appena stato invitato
a trascorrere un anno al Centro studi avanzati in scienze comportamentali
della Stanford. Anche se continuai a incontrare qualche paziente, scrissi
quasi a tempo pieno per l’intero anno accademico 1977-78. Sfortunatamente
non approfittai del tutto dell’occasione di conoscere alcuni degli altri trenta
eminenti studiosi, incluso il futuro giudice della Corte Suprema Ruth Bader
Ginsburg. Ma instaurai un’amicizia con la sociologa Cynthia Epstein, che
ancora oggi fa parte della nostra vita.
Feci tali progressi da completare il libro l’anno successivo. Lo cominciai
con un episodio tratto da una lezione di cucina armena di Efronia
Katchadourian, la madre di Herant, un buon amico e collega. Efronia era una
grande cuoca, ma parlava male l’inglese e insegnava basandosi
completamente sulla dimostrazione pratica. Mentre preparava i piatti, io
annotavo tutti gli ingredienti e i vari passaggi ma, per quanto mi impegnassi,
i miei piatti non erano mai buoni come i suoi. Di sicuro, pensavo, non poteva
essere un problema insolubile: decisi di osservarla ancora più attentamente,
e alla lezione successiva osservai ogni passaggio mentre preparava il piatto
e poi lo porgeva alla sua fedele assistente Lucy perché lo mettesse nel forno.
Questa volta tenni d’occhio anche Lucy e vidi qualcosa di straordinario:
mentre raggiungeva il forno, Lucy gettava nel piatto a caso manciate di varie
spezie che di volta in volta la ispiravano! Sono assolutamente convinto che
quelle aggiunte casuali facessero tutta la differenza.
Utilizzai questo aneddoto introduttivo per rassicurare i lettori che la
psicoterapia esistenziale non era un nuovo approccio esoterico ma era
sempre stata presente sotto forma di integrazioni preziose, ma non dichiarate,
offerte dalla maggior parte dei terapeuti esperti.
In ciascuna delle quattro sezioni del libro (morte, libertà, isolamento e
significato) descrivevo le mie fonti, le mie osservazioni cliniche e i filosofi
e gli scrittori alle cui opere attingevo.
Delle quattro sezioni del testo, quella sulla morte è la più lunga. Altrove,
in articoli professionali avevo scritto parecchio sui pazienti terminali, ma in
questo testo la mia attenzione era focalizzata sul ruolo che la consapevolezza
della morte poteva avere nella terapia di un paziente fisicamente sano.
Anche se penso alla morte come al tuono lontano che s’accompagna al picnic
della nostra vita, credo anche che un autentico confronto con la nostra
mortalità possa cambiare il modo in cui viviamo: ci aiuta a considerare
banale ciò che è banale e c’incoraggia a vivere senza accumulare rimpianti.
Tanti filosofi, in un modo o nell’altro, ripetono il lamento del mio paziente
condannato dal cancro: «Che peccato aver dovuto aspettare fino a ora, ora
che il mio corpo è crivellato dal cancro, per imparare a vivere».
La libertà è la preoccupazione ultima per molti pensatori esistenziali. Per
come la capisco io, si riferisce all’idea che, siccome tutti viviamo in un
universo privo di un piano intrinseco, dobbiamo essere gli autori delle
nostre vite, scelte e azioni. Questa libertà genera una tale angoscia che molti
di noi si aggrappano a divinità o dittatori per rimuoverne il peso. Se
ciascuno è, secondo l’espressione di Sartre, «l’autore indiscusso» di ogni
cosa che abbiamo sperimentato, allora le nostre idee più care, le nostre più
nobili verità, il vero e proprio fondamento delle nostre convinzioni sono tutti
minati dalla consapevolezza che ogni cosa, nell’universo, è contingente.
Il terzo argomento, l’isolamento, non si riferisce all’isolamento
interpersonale (ovvero alla solitudine), ma a un isolamento più
fondamentale: l’idea che ciascuno di noi viene gettato da solo nel mondo e
da solo deve lasciarlo. Nell’antico racconto Everyman un uomo è visitato
dall’angelo della morte, che lo informa che il suo tempo è giunto al termine e
che deve intraprendere il viaggio per affrontare il giudizio finale. L’uomo
supplica che gli sia concesso di portarsi dietro qualcuno in questo viaggio, e
l’angelo della morte risponde: «Certo, se troverai qualcuno che abbia voglia
di farlo». Il resto della storia descrive vari tentativi falliti: il cugino, per
esempio, gli dice di non poter andare con lui perché ha un crampo alle dita
dei piedi. Alla fine trova qualcuno che lo accompagna ma, in questo racconto
sulla morale cristiana, non si tratta di un altro essere umano, ma delle sue
buone azioni: l’unico conforto che ci può accompagnare al momento della
morte è la consapevolezza di aver vissuto bene.
La mia disamina dell’isolamento si concentra soprattutto sulla relazione
tra paziente e terapeuta, sui nostri desideri di fonderci con l’altro, sulla
nostra paura dell’individuazione. Con l’avvicinarsi della morte, molti sono
consapevoli che, quando periranno, perirà anche il loro intero mondo, unico
e separato da quelli altrui, quel mondo di sospiri e suoni ed esperienze ignoti
a tutti gli altri, persino ai compagni di una vita. Mentre mi sto approssimando
agli ottantacinque anni, sperimento in modo sempre più acuto questa forma
d’isolamento. Penso al mondo della mia infanzia – le riunioni la domenica
sera a casa di zia Luba, i profumi che si diffondevano dalla cucina, l’arrosto,
gli tsimmes, i cholent, le partite a Monopoli, quelle a scacchi con mio padre,
l’odore del cappotto di agnellino persiano di mia madre –, e poi sussulto
quando mi rendo conto che tutto questo adesso esiste soltanto nella mia
memoria.
L’esame della quarta massima preoccupazione, l’assenza di significato,
va a toccare questioni quali: «Perché siamo stati messi a vivere quaggiù? Se
nulla permane, che significato ha la vita? Qual è il senso della vita?» Sono
sempre stato commosso dalle parole di Allen Wheelis su quando getta un
bastoncino perché il suo cane, Monty, lo vada a prendere.
Se poi mi piego e raccolgo un bastoncino, è istantaneamente davanti a me. La grande cosa
adesso è successa. Ha una missione… Non gli capita mai di giudicare la sua missione. La sua
dedizione è unicamente rivolta al suo adempimento. Corre o nuota percorrendo qualsiasi
distanza, passando sopra o attraverso gli ostacoli, per prendere quel bastoncino.
E, quando lo ha preso, lo riporta indietro: perché la sua missione non consiste semplicemente
nel prenderlo, ma anche nel riportarlo. Tuttavia, mentre mi si avvicina, si muove più lentamente.
Vuole darmelo e portare a compimento la sua missione, però detesta averla conclusa e trovarsi di
nuovo nella condizione di attesa…
È fortunato ad avere me che gli lancio il bastoncino. Sto aspettando che Dio lanci il mio.
Aspetto da molto tempo. Chissà quando, se mai accadrà, lui rivolgerà ancora a me la sua
attenzione e mi concederà, come io concedo a Monty, di compiere la mia missione?

È rassicurante credere che Dio abbia uno scopo per noi. I laici trovano
frustrante la consapevolezza di dover lanciare i loro bastoncini da soli.
Come sarebbe rassicurante sapere che da qualche parte, là fuori, esiste un
autentico e tangibile scopo nella vita, invece del solo senso di uno scopo
nella vita! Viene alla mente il commento di Ovidio: «Conviene che esistano
gli dei, quindi, se conviene, crediamo che esistano».
Anche se ho spesso pensato a La psicoterapia esistenziale come a un
libro di testo per un corso che non esisteva, non ho mai avuto intenzione di
creare un nuovo ambito di terapia. Il mio intento era aumentare la
consapevolezza di tutti i terapeuti riguardo all’importanza delle questioni
esistenziali nelle vite dei loro pazienti. In anni recenti sono sorte
organizzazioni professionali di terapeuti esistenziali e, nel 2015, sono
intervenuto in videoconferenza al primo grande congresso internazionale di
terapeuti esistenziali a Londra. Anche se sono lieto dell’aumento
dell’interesse alle questioni esistenziali in terapia, ho qualche problema a
concepire la psicoterapia esistenziale come una scuola a sé. Gli
organizzatori del congresso internazionale hanno incontrato enormi difficoltà
a trovare una definizione esaustiva di questa scuola. Dopotutto esisteranno
sempre pazienti il cui lavoro terapeutico coinvolgerà in primo luogo
questioni interpersonali, o l’autostima, o la sessualità, o la dipendenza, e per
tali pazienti le questioni esistenziali potrebbero non essere immediatamente
pertinenti. Questo fatto ha implicazioni riguardo la formazione. È raro che
passi una settimana senza che uno studente mi chieda dove può essere
formato per diventare uno psicoterapeuta esistenziale. Suggerisco sempre
che prima si formi come terapeuta, che conosca una varietà di approcci
terapeutici, e poi, nei programmi successivi alla laurea o nella supervisione,
familiarizzi con l’aspetto più specialistico della psicoterapia esistenziale.
26.
I gruppi di pazienti ospedalizzati e Parigi
Nel 1979 mi venne chiesto di prestare servizio, su base temporanea, come
direttore medico dell’unità per pazienti psichiatrici ospedalizzati dello
Stanford. A quell’epoca l’ospedalizzazione psichiatrica era in subbuglio
nell’intera nazione: le compagnie d’assicurazioni ne avevano tagliato la
copertura, insistendo affinché i pazienti venissero trasferiti il più in fretta
possibile in istituti di ricovero meno costosi. Dato che i pazienti non
rimanevano in ospedale più di una settimana, spesso anche meno, la
composizione di ciascun gruppo era di rado la stessa per due sedute
consecutive, e gli incontri erano diventati caotici e inefficaci. In gran parte a
causa di tale subbuglio, il morale del personale era sempre più basso.
Non avevo in programma di intraprendere un nuovo progetto di terapia di
gruppo, ma ero inquieto e in cerca di una sfida. La mia scrivania era
sgombra, il libro sulla terapia esistenziale concluso, ed ero pronto per un
nuovo progetto. Date la mia fede profonda nell’efficacia dell’approccio di
gruppo e la sfida allettante di creare un nuovo modo di condurre gruppi di
pazienti ospedalizzati, accettai di assumere quella carica per due anni.
Reclutai uno psichiatra che si era laureato alla Stanford per gestire i
trattamenti medicinali nel reparto (la psicofarmacologia non è mai stata uno
dei miei punti di forza o dei miei interessi), quindi mi concentrai in primo
luogo sull’organizzazione di un nuovo approccio alla terapia di gruppo per i
reparti di degenti che cambiavano in continuazione. Cominciai con il visitare
gli incontri di gruppo nei reparti psichiatrici dei principali ospedali del
paese. Ovunque trovai un’estrema confusione: nemmeno i più rinomati
ospedali accademici avevano un programma efficace per i gruppi di degenti.
In presenza di una rotazione così rapida, i leader dei gruppi si sentivano
costretti a presentare il nuovo o i nuovi membri all’inizio di ogni seduta e a
invitarli a illustrare perché fossero ricoverati in ospedale. Quasi
invariabilmente questi resoconti, seguiti dal tentativo dei terapeuti di
ottenere risposte da altri membri del gruppo, assorbivano tutto il tempo
dell’incontro. Nessuno sembrava ricevere un gran beneficio da questi gruppi,
e gli attriti erano frequenti. Era necessaria una strategia completamente
diversa.
L’unità di pronto soccorso psichiatrico dello Stanford aveva venti
pazienti: li suddivisi in due gruppi ad alto e a basso livello di
funzionamento, ciascuno formato da sei a otto membri (gli altri pazienti, per
lo più le nuove ammissioni al reparto, erano troppo disorganizzati per
frequentare un qualsiasi gruppo nei primi due giorni di permanenza). Dopo
alcune sperimentazioni sviluppai una struttura praticabile. A causa della
rapida rotazione, rinunciai completamente all’idea della continuità tra un
incontro e l’altro e adottai un nuovo paradigma: la vita di ciascun gruppo
sarebbe durata una sola seduta, e il compito del leader sarebbe stato quello
di rendere quell’unico incontro il più efficiente ed efficace possibile.
Sviluppai uno schema per i pazienti ad alto livello di funzionamento che
consisteva in quattro fasi:
1. Ogni paziente, a turno, avrebbe formulato un ordine del giorno collegato a una questione
interpersonale sulla quale lavorare nell’incontro (questo compito impegnava almeno un terzo
dell’incontro).
2. Il resto dell’incontro del gruppo veniva trascorso seguendo l’ordine del giorno di ciascun paziente.
3. Alla fine dell’incontro, gli osservatori (studenti di medicina, psicologia o counseling, medici interni e
infermiere che avevano assistito all’incontro attraverso un falso specchio) entravano nella stanza e
discutevano dell’incontro, mentre i pazienti assistevano, seduti in cerchio attorno a loro.
4. Alla fine, negli ultimi dieci minuti, i membri del gruppo rispondevano a quanto emerso nella
discussione successiva al gruppo da parte degli osservatori.

Il primo passo, la formulazione di un ordine del giorno, era il più difficile


per pazienti e terapeuti. Secondo la mia impostazione, l’ordine del giorno
non riguardava la ragione per cui i pazienti erano entrati in ospedale – per
esempio per le voci spaventose che potevano sentire, o per gli effetti
collaterali di medicine antipsicotiche, o per alcuni eventi traumatici della
loro vita –, bensì un qualche problema della loro relazione con gli altri, per
esempio: «Sono solo. Ho bisogno di amici ma nessuno vuole stare con me»,
o: «Ogni volta che mi apro, gli altri mi prendono in giro», oppure: «Sento
che la gente prova repulsione per me e mi considera un fastidio, e ho bisogno
di scoprire se questo è vero».
Il passo successivo del terapeuta consisteva nel trasferire l’ordine del
giorno nel “qui-e-ora”. Quando un membro diceva: «Sono solo…» il
terapeuta avrebbe potuto dire: «Può descrivere il modo in cui si sente solo in
questo gruppo?» o: «A chi vorrebbe essere vicino in questo gruppo?» o
ancora: «Mentre procediamo, cerchiamo di esplorare il ruolo che lei svolge
nell’essere solo quest’oggi in questo gruppo».
Il terapeuta doveva essere molto attivo, ma quando la cosa funzionava, i
membri del gruppo si aiutavano a vicenda a migliorare il proprio
comportamento interpersonale, e i risultati erano significativamente migliori
di quando ci si focalizzava sul perché i pazienti fossero stati ricoverati.
Tenevo molto a dare agli osservatori (infermiere, psichiatri interni e
studenti di medicina) un ruolo attivo nel gruppo, e ne conseguì che gli
osservatori cominciarono a offrire un contributo significativo a ogni seduta
di terapia di gruppo. In un sondaggio, i pazienti valutarono gli ultimi venti
minuti dell’incontro (la discussione con gli osservatori) la parte più valida
dell’intera seduta! In effetti alcuni pazienti abitualmente sbirciavano nella
stanza dell’osservazione prima dell’inizio del gruppo e, se quel giorno non
c’era nessuno, erano meno inclini a partecipare. Tali reazioni erano simili a
quelle dei miei pazienti ambulatoriali. Se i membri possono mettere gli occhi
sugli osservatori e avere da loro una reazione nei propri confronti, il lavoro
terapeutico è facilitato.
Per il gruppo quotidiano di pazienti a basso livello di funzionamento
formulai un modello che includeva una serie di esercizi sicuri e strutturati
per sviluppare l’autorivelazione, l’empatia, la formazione di capacità sociali
e l’identificazione dei cambiamenti personali auspicati.
Per finire, al fine di affrontare il morale basso del personale, misi in
piedi un gruppo settimanale di analisi del processo, ovvero un gruppo nel
quale i membri del personale (inclusi il direttore medico e la caposala)
discutevano delle rispettive relazioni. Non è facile condurre un gruppo del
genere, ma in ultima analisi si rivela estremamente prezioso per alleggerire
le tensioni interne allo staff.
Dopo aver condotto quotidianamente i gruppi di degenti per due anni,
decisi di prendermi un anno sabbatico (i membri di facoltà della Stanford
hanno diritto a sei mesi sabbatici ogni sei anni, a stipendio pieno, o a dodici
mesi a metà stipendio) per scrivere un libro sul mio approccio alla terapia di
gruppo con i degenti. Il mio progetto iniziale era di tornare a Londra, ma
Marilyn insistette per Parigi. Così, nell’estate del 1981, partimmo per la
Francia portando con noi nostro figlio Ben, che aveva dodici anni.
(All’epoca Eve frequentava la facoltà di medicina, Reid aveva completato il
college alla Stanford e Victor era all’Oberlin College.)

Cominciammo il viaggio visitando i cari amici Stina e Herant Katchadourian


nella loro casa su un’isola lungo la costa della Finlandia. Herant era stato
membro del dipartimento di psichiatria della Stanford per alcuni anni, ma
aveva tali capacità esecutive che era stato nominato conciliatore e preside di
facoltà. Era un conferenziere apprezzato e il suo corso sulla sessualità umana
era diventato leggendario, di gran lunga il corso più frequentato nella storia
della Stanford University. Sua moglie Stina, giornalista, traduttrice e autrice,
condivideva gli stessi interessi di Marilyn e la loro figlia Nina divenne
un’amica carissima di nostro figlio Ben.
L’isola era un rifugio da favola coperto di pini e mirtilli e circondato da
un oceano minaccioso, e durante la nostra visita Herant mi convinse a
tuffarmi dalla sauna nel gelido Mare del Nord, cosa che feci, ma una volta
soltanto. Dalla Finlandia prendemmo il vaporetto notturno per la Danimarca.
Di solito comincio ad avere mal di mare anche solo guardando l’immagine
di una barca, ma con l’aiuto di una piccola dose di marijuana viaggiai in tutta
serenità fino a Copenaghen, dove tenni un seminario della durata di un giorno
per i terapeuti danesi. Facemmo anche dei giri turistici, visitando le tombe di
Søren Kierkegaard e di Hans Christian Andersen, sepolti vicini nel cimitero
di Assistens.
Una volta arrivati a Parigi, ci sistemammo in un appartamento al quinto
piano senza ascensore in rue Saint-André-des-Arts, a tre isolati dalla Senna,
nel quinto arrondissement. Con l’aiuto di Marilyn ebbi uno studio a un
isolato da rue Mouffetard, riservato dal governo francese agli studiosi
stranieri.
Fu un soggiorno magnifico. Ben si scapicollava su e giù per i cinque piani
di scale per comprare i nostri croissant mattutini e l’International Herald
Tribune, prima di prendere la metropolitana e raggiungere l’École
Internationale Bilingue. Marilyn lavorava al suo nuovo libro, Maternità,
mortalità e la letteratura sulla pazzia, un’opera di critica letteraria in
chiave psicologica. Incontrai molti dei suoi amici francesi e fummo invitati a
numerose cene, ma la comunicazione era difficile: pochi di loro parlavano
inglese e, sebbene prendessi lezioni da un insegnante di francese, io facevo
pochi progressi. Alle riunioni di società in genere mi sentivo un po’ lo
scemo del villaggio.
Alle scuole superiori e al college avevo studiato tedesco e, forse per la
somiglianza del tedesco con l’yiddish parlato dai miei genitori, me la cavavo
abbastanza bene. Ma c’era qualcosa nel ritmo e nella cadenza del francese
che mi confondeva. Forse ciò va collegato alla mia incapacità di mandare a
memoria una melodia, o di riprodurla. Il gene della scarsa propensione per
le lingue doveva essermi stato trasmesso da mia madre, che aveva avuto
problemi considerevoli con l’inglese. Ma il cibo francese! Attendevo con
ansia particolare i nostri croissant mattutini e gli spuntini pomeridiani. La
nostra via era una vivace isola pedonale con bancarelle all’aperto dov’erano
esposte fragole di una straordinaria dolcezza, e rosticcerie dove si
vendevano fette di pâté di fegato di pollo e terrine di pâté di coniglio. In
panetteria e in pasticceria io e Marilyn propendevamo per la tarte aux
fraises des bois e Ben per il pain au chocolat.
Anche se non capivo abbastanza il francese per andare a teatro con
Marilyn, l’accompagnai ad alcuni concerti (un memorabile controtenore alla
Sainte-Chapelle e uno stimolante Offenbach allo Châtelet), ma trassi piacere
soprattutto dai musei. Come non apprezzare le ninfee di Claude Monet, in
special modo dopo che con Ben e Marilyn eravamo andati in treno alla sua
casa di campagna di Giverny e avevamo visto lo storico ponticello in stile
giapponese che si incurvava sopra il giardino galleggiante di ninfee? Vagai
per il Louvre, indugiando in particolare nelle sale che contenevano manufatti
dell’antico Egitto e della Persia, nonché il maestoso Fregio dei leoni
smaltato del palazzo di Susa.
Durante questo magnifico soggiorno parigino scrissi in sei mesi La
psicoterapia dei gruppi di pazienti ospedalizzati, molto più rapidamente di
qualsiasi altro libro abbia mai prodotto. È anche l’unico che abbia mai
dettato. La Stanford era stata così generosa da spedire a Parigi assieme a noi
la mia segretaria, Bea Mitchell, e ogni mattina dettavo la prima versione di
due o tre pagine, che lei trascriveva; il pomeriggio le esaminavo, le
correggevo e le preparavo per la stesura del giorno successivo. Io e Bea
Mitchell eravamo buoni amici, e ogni giorno facevamo una passeggiata di
due isolati fino a rue Mouffetard, dove pranzavamo in uno dei numerosi
ristoranti greci.
La psicoterapia dei gruppi di degenti fu pubblicato dalla Basic Books
nel 1983 e in seguito avrebbe influenzato la pratica della terapia di gruppo
di molti reparti. Inoltre un certo numero di studi empirici ha in seguito
sostenuto l’efficacia di quest’approccio. Ma non tornai più a lavorare con i
degenti; ripresi invece ad ampliare le mie conoscenze del pensiero
esistenzialista.
Decisi di continuare la mia istruzione filosofica imparando qualcosa di
più sul pensiero orientale, un’area in cui ero terribilmente ignorante e che
avevo lasciato completamente al di fuori de La psicoterapia esistenziale.
Negli ultimi mesi prima di lasciare gli Stati Uniti per Parigi avevo
cominciato a leggere testi relativi a quell’area e a parlare con gli studiosi
della Stanford, incluso uno dei miei medici interni, James Tenzel, che aveva
partecipato ai ritiri in India con un rinomato insegnante buddhista, S.S.
Goenka, nel suo ashram, Dhamma Giri, a Igatpuri. Tutti gli esperti che
consultavo cercavano di convincermi che la lettura era insufficiente e che
per me sarebbe stato importante impegnarmi in una pratica meditativa
personale. Così in dicembre, verso la fine del soggiorno parigino, salutai
Parigi, Marilyn e Ben, che si fermarono per un altro mese, e da solo partii
per l’India, per far visita a Goenka.
27.
Passaggio in India
Quel viaggio fu straordinariamente ricco di eventi e persino ora, a
trentacinque anni di distanza, ne rammento moltissimi dettagli. In effetti, dato
che ultimamente provo un accresciuto interesse e rispetto per le pratiche
della meditazione, gli avvenimenti di quel viaggio hanno assunto un’intensità
fuori del comune.
Atterro a Bombay, oggi Mumbai, nel periodo della festa annuale di
Ganesh Chaturthi, quando enormi folle festeggiano le gigantesche statue del
dio dalla testa d’elefante. È molto che non viaggio da solo e sono eccitato da
questo nuovo mondo e da questa nuova avventura. Il giorno seguente
intraprendo un viaggio di due ore da Mumbai a Igatpuri, seduto nello
scompartimento di un treno con tre deliziose sorelle indiane che indossano
indumenti d’uno zafferano brillante e magenta.
La più bella delle tre mi si siede accanto e ne respiro la fragranza
intossicante di cannella e cardamomo. Le altre due si siedono di fronte. Di
tanto in tanto lancio uno sguardo di soppiatto alle mie compagne di viaggio
(la loro bellezza toglie il fiato), ma per lo più mi concentro sulle vedute
sorprendenti che scorrono fuori dal finestrino. Il treno procede lungo la riva
di un fiume gremito di persone che lo guadano cantilenando, mentre
immergono piccole statue di Ganesh nell’acqua: molte di loro tengono anche
in mano dei globi gialli di cartapesta. Indico il finestrino e chiedo alla donna
seduta accanto a me: «Mi perdoni, ma potrebbe dirmi che cosa sta
succedendo? Cosa stanno cantilenando?»
Lei si volta, mi guarda dritto negli occhi e mi risponde in un inglese
delizioso dall’intonazione indiana: «Dicono “Amatissimo Canapati, torna
ancora l’anno prossimo”».
«Canapati?» chiedo.
Le altre due donne cinguettano.
La mia compagna di viaggio risponde: «La nostra lingua e i nostri costumi
possono suscitare confusione, lo so. Ma forse lei conosce il nome più
comune di questo dio, Ganesh».
«Grazie. E posso chiederle perché lo immergono nel fiume?»
«Il rituale ci insegna la legge cosmica: il ciclo della forma che tende
all’informe è eterno. Le statue di Ganesh sono fatte d’argilla, e nell’acqua si
dissolvono fino a diventare informi. Il corpo perisce, ma il dio che vi risiede
rimane costante».
«Molto interessante, grazie. Un’ultima domanda: Perché la gente tiene in
mano quei globi di carta gialla?»
Tutt’e tre le donne di nuovo si mettono a cinguettare. «Quei globi
rappresentano la luna. C’è un’antica leggenda su Ganesh che mangia troppi
ladoo…»
«Ladoo?»
«Un ladoo è uno dei nostri dolci, una palla di farina fritta con sciroppo di
cardamomo. A Ganesh piacevano molto e una notte ne mangiò così tanti che
cadde, e il ventre gli scoppiò. La luna, unico testimone dell’accaduto, trovò
la cosa molto divertente, e si mise a ridere. Furioso, Ganesh bandì la luna
dall’universo. Ma molto presto la luna cominciò a mancare a tal punto a tutti
quanti, persino agli dei, che un’assemblea di questi ultimi chiese al dio
Shiva, il padre di Ganesh, di convincere il figlio a perdonarla. Persino la
luna si unì alla petizione e chiese scusa a Ganesh, che cedette e alleggerì la
sua punizione: la luna sarebbe stata invisibile soltanto un giorno al mese, e
parzialmente visibile per il resto del tempo».
«Grazie» dico. «Che storia affascinante. E che dio divertente, con la sua
testa da elefante!»
La mia compagna riflette un attimo e aggiunge: «La prego, non lasci che i
miei commenti la portino a sottovalutare la serietà della religione. È
interessante considerare i lineamenti di Ganesh, ciascuno di essi ha un
significato». Slaccia un pendente a forma di Ganesh che porta al collo sotto
la veste e me lo porge, perché io possa vedere. «Guardi Ganesh con
attenzione» dice. «Ogni suo lineamento ha un messaggio importante. La testa
grossa ci dice di pensare in grande, le orecchie grandi di ascoltare con cura,
gli occhi piccoli di concentrarci su quello che facciamo. Oh, e un’altra cosa,
la bocca piccola ci dice di parlare di meno, e questo all’improvviso fa sì
che mi chieda se io non stia parlando troppo».
«Oh, no. Tutt’altro!» È così bella che a volte ho difficoltà a concentrarmi
sulle sue parole, ma naturalmente non glielo dico. «La prego di continuare.
Mi dica, perché ha soltanto una zanna?»
«Per ricordarci di attenerci al bene e gettare via il male».
«E cosa tiene in mano? Sembrerebbe un’ascia».
«Sì, significa che dovremmo recidere gli attaccamenti».
«Questo sembra molto buddhista» osservo.
«Non dobbiamo dimenticare che il Buddha è emerso dal grande oceano di
Shiva».
«Un’ultima domanda. E il topo sotto il piede? L’ho visto in tutte le statue
di Ganesh».
«Oh, quello è l’attributo più interessante» spiega. I suoi occhi mi
affascinano, ho l’impressione di sciogliermi nel suo sguardo. «Il topo
rappresenta il “desiderio”, e Ganesh ci insegna che dobbiamo tenere il
desiderio sotto controllo».
All’improvviso sentiamo stridere i freni, mentre il treno rallenta. La mia
compagna, della quale non conosco il nome, dice: «Ah, ci stiamo
avvicinando a Igatpuri e devo raccogliere le mie cose prima di scendere. Io
e le mie sorelle frequenteremo un ritiro di meditazione Vipassana».
«Oh, anch’io frequenterò questo ritiro. La nostra conversazione è stata un
grande piacere per me. Magari potremo continuare a parlare al ritiro, al
momento del tè oppure a pranzo?»
Lei annuì dicendo: «Ahimè, non ci saranno altre parole…»
«Sono confuso. Dice di no, e intanto annuisce con la testa».
«Sì, sì, la nostra abitudine di annuire è sempre un problema per gli
americani. Quando annuiamo dall’alto in basso intendiamo dire no, mentre
scuotiamo la testa da una parte all’altra se intendiamo dire sì. So che è il
contrario di com’è abituato».
«Quindi intende dire no. Ma perché? Perché non ci saranno più parole?»
«Al ritiro non si può parlare. Il nobile silenzio è la regola, è legge a un
ritiro Vipassana – neanche una parola per i prossimi undici giorni. E anche
quello è proibito» indica il libro che ho sulle ginocchia. «Non ci devono
essere distrazioni dal compito che dobbiamo svolgere».
«Be’, arrivederci allora» dico, e aggiungo speranzoso: «Forse potremo
parlare ancora sul treno una volta terminato il ritiro».
«No, amico mio, a questo non dobbiamo pensare. Goenka insegna che
dobbiamo vivere soltanto il presente. I ricordi passati e i desideri futuri
provocano solo turbamento».
Ho spesso pensato a queste sue parole di commiato: «I ricordi passati e i
desideri futuri provocano solo turbamento». C’è una tale verità in queste
parole, ma a un costo molto alto. Non penso di essere in grado o di essere
disposto a pagare così tanto.

A Igatpuri percorsi in taxi la breve distanza per raggiungere il centro di


meditazione, dove mi registrai e mi fu chiesto di lasciare un obolo per il
ritiro. Quando chiesi quale fosse la tariffa media pagata dai partecipanti, mi
fu detto che la maggior parte di loro era gente povera e non pagava nulla.
Donai duecento dollari, considerandola una tariffa modesta per un ritiro di
undici giorni che includeva vitto e alloggio. Tuttavia il personale addetto
all’accoglienza sembrò esterrefatto dalla mia generosità e tutti scossero la
testa in segno di approvazione quando alzai lo sguardo su di loro. Mi guardai
attorno e notai, con una certa preoccupazione, che tra gli oltre duecento
partecipanti che si stavano registrando al ritiro ero l’unico occidentale!
Un membro del personale sistemò tutti i miei libri in un armadietto
nell’ufficio centrale e poi mi condusse nell’area riservata al riposo notturno.
Forse perché avevo fatto una donazione considerevole, venni sistemato in
una stanza con soli quattro compagni. Ci salutammo in silenzio. Uno di loro
era cieco, e in tre o quattro occasioni si confuse e cercò di stendersi sul mio
tappetino, e mi toccò riaccompagnarlo al suo. Non ci fu uno scambio di
parole per dieci interi giorni. Solo Goenka o il suo aiutante, di quando in
quando, parlavano.
Fu solo quando diedi un’occhiata al programma che cominciai a capire
l’impegno richiesto dall’attività a cui mi ero iscritto. La giornata cominciava
alle cinque del mattino con una colazione leggera, seguita dalle istruzioni per
la meditazione, i canti e le lezioni dell’intera giornata. L’unico vero pasto
della giornata era un pranzo vegetariano a mezzogiorno, ma in breve persi
l’appetito e cominciai a dare scarsa importanza al cibo, cosa che al ritiro
capitava spesso.
Dopo colazione ci riunivamo nella sala grande, dove c’era un podio
leggermente rialzato riservato a Goenka. La sala aveva il pavimento fatto di
stuoie e, naturalmente, nessun mobilio. I duecento partecipanti sedevano tutti
nella posizione del loto e aspettavano in silenzio che Goenka facesse la sua
comparsa. Dopo qualche minuto di silenzio, quattro assistenti lo scortavano
fino al podio. Si trattava di un uomo formidabile, bello e dalla pelle color
bronzo, con indosso indumenti candidi, e dava inizio all’insegnamento con i
canti di un antico testo buddhista in pali, una lingua indoeuropea estinta che è
la lingua liturgica del buddhismo Theravada. Goenka lo avrebbe fatto tutte le
mattine del ritiro, cantando con una straordinaria voce profonda da baritono
che m’incantava. Qualsiasi cosa fosse successo in seguito, sapevo che il
piacere di ascoltare Goenka cantare ogni mattina sarebbe comunque valso le
difficoltà di quel viaggio. Alla fine del ritiro mi premunii di acquistare
alcuni dei suoi dischi, e per anni li ho ascoltati ogni sera mentre me ne stavo
immerso nella vasca piena di acqua calda.
Il primo pensiero che si presenta alla mia mente quando mi chiedo perché
il canto abbia un tale effetto su di me è la voce di mio padre mentre
accompagna i dischi di cantanti yiddish. E poi penso anche quanto i canti di
Goenka mi rammentino i cantori salmodianti nelle sinagoghe. Durante la mia
adolescenza tutto quello che volevo fare era filarmela dalla sinagoga il più
in fretta possibile, ma adesso, guardandomi indietro, rammento un certo
piacere ad ascoltare la bella voce del cantore. Posso solo intuire che esiste,
sepolta nel profondo, una qualche parte di me che brama l’incanto e il
lenimento del dolore di essere separati dal tutto attraverso il rituale e
l’autorità. Credo che poche persone siano prive di questa brama. Ho visto
l’imperatore privo delle sue vesti, ho sentito i segreti di troppi uomini
potenti e so che nessuno è immune dalla disperazione e dal desiderio di
ritrovarsi nel grembo del divino.

I primi due giorni Goenka ci tenne lezione e ci insegnò a concentrarci sul


respiro, a sentire l’aria fredda durante l’inalazione e il calore dell’aria
esalata che era stata trattenuta dai polmoni. Tuttavia, dopo solo qualche ora,
già il primo giorno manifestai qualche difficoltà a stare seduto nella
posizione del loto. Non sono mai stato a mio agio seduto sul pavimento, e
ginocchia e schiena cominciarono a farmi male. Durante la pausa del pranzo
parlai del mio problema a uno degli assistenti di Goenka (anche se
dovevamo mantenere il silenzio tra noi, ci era permesso, se la cosa era
davvero urgente, parlare con un assistente). Lui mi guardò strano e si chiese
a voce alta che cosa dovessi aver fatto nella mia vita precedente per
meritarmi una schiena così poco cooperativa. Tuttavia mi offrì una semplice
sedia di legno, e per il resto del ritiro me ne rimasi sulla sedia in mezzo a
duecento accoliti tutti serenamente seduti nella posizione del loto. Il
commento dell’assistente sulle vite passate fu, a proposito, l’unico
riferimento al soprannaturale che udii nel corso dell’intero ritiro. Il senso di
disciplina era presente ma invisibile, fino alla sera in cui qualcuno emise un
rumoroso peto. Un paio di partecipanti risero apertamente, e in breve tra le
otto e le dieci persone furono in preda a un attacco di risate per alcuni
minuti. Goenka ridusse notevolmente la durata dell’insegnamento della
giornata e la mattina successiva notai che l’uditorio si era ridotto: i
partecipanti che avevano riso non c’erano più, e senza alcun dubbio erano
stati espulsi.
Il terzo giorno Goenka cominciò l’insegnamento formale della
meditazione Vipassana, istruendoci a concentrarci sul nostro cuoio capelluto
fino a quando non avessimo sentito una qualche sensazione, magari un prurito
o uno spasimo, e poi a spostare la nostra attenzione lungo la faccia, in attesa
di una qualche sensazione che ci permettesse di passare al segmento
successivo del nostro corpo, il collo, le spalle, fino a raggiungere la pianta
dei piedi, restando comunque sempre consapevoli del nostro respiro e
dell’impermanenza. Tutte le istruzioni successive si focalizzarono solo
sull’apprendimento di questa tecnica Vipassana che, ci ricordò ripetutamente
Goenka, era la modalità di meditazione personale del Buddha.
Oltre alle istruzioni e ai canti, Goenka teneva diverse lezioni
motivazionali, che trovai quasi tutte deludenti. Ci assicurava che adesso
eravamo ricchi, che adesso avevamo una tecnica che ci permetteva di
utilizzare il nostro tempo in modo più significativo. Per esempio, mentre
aspettavamo alla fermata dell’autobus, potevamo meditare secondo la
modalità Vipassana e purificare le nostre menti, così come un giardiniere
può estirpare le erbacce dal suo giardino. Così, enfatizzava, avremmo avuto
un vantaggio sugli altri che aspettavano alla fermata dell’autobus buttando
semplicemente via il loro tempo. Quest’ultima idea, che la Vipassana
permettesse di conquistare un vantaggio sugli altri, mi sembrava indegna, e
sentivo che era in conflitto con l’appello di Goenka allo spirito.
Dopo alcuni giorni di incessanti istruzioni di Goenka ebbi un’epifania che
mutò completamente la natura del mio esercizio Vipassana. Iniziai a
“estendere” la mia percezione. Cominciai ad avere l’impressione che mi
venisse versato del miele sulla testa e che lentamente colasse giù fino ad
avvolgere tutto il corpo. Era una cosa deliziosa, come se il mio corpo
ronzasse e vibrasse; all’improvviso ebbi un lampo di introspezione e
compresi pienamente come mai tanti accoliti potessero scegliere di rimanere
in quello stato per settimane, persino per anni. Nessuna preoccupazione,
nessuna ansia, nessun senso del proprio io o di separazione dal tutto, solo il
beato ronzio e il calore che si diffondevano verso il basso e attraverso il
corpo.
Ahimè, questa deliziosa condizione ultraterrena durò soltanto un giorno e
mezzo e non fui più in grado di ritrovarla. Temo che, nel complesso, mi darei
un voto negativo in meditazione Vipassana. Non fu certo d’aiuto il fatto che il
mio sonno fosse del tutto irregolare: raramente durante il ritiro riuscii a
dormire più di quattro o cinque ore. Ciò era in parte dovuto all’impatto di
così tanta meditazione, in parte alla confusione del mio compagno cieco e ai
suoi tentativi di entrare nel mio letto, e in parte al fatto che i guardiani
giravano tutta la notte per il centro del ritiro soffiando forte nei loro fischietti
da poliziotto, per tenere lontani i ladri. Il tempo passava troppo lentamente e
mi sentivo sempre più annoiato. Oltre a lavare i miei indumenti non riuscivo
a trovare molto altro da fare, così li lavavo spesso, ne avessero bisogno o
meno, e li controllavo di frequente per vedere a che velocità si stessero
asciugando.
Ogni tanto vedevo da lontano la mia bellissima compagna di treno, ma
naturalmente non potevamo parlare, anche se spesso fui certo che mi stesse
guardando profondamente negli occhi. Nonostante i suoi avvertimenti
riguardo i pensieri sul futuro che disturbavano la tranquillità, immaginavo
spesso un nostro nuovo incontro sul treno, senza le sue sorelle, dopo il ritiro.
Facevo del mio meglio per scacciare quella seducente fantasia: di sicuro
simili fantasie ostacolavano il cammino verso l’equanimità.
E, la cosa peggiore, niente libri! È raro che trascorra un giorno senza
leggere un capitolo o due di un romanzo, ma mi era stato richiesto di
separarmi da tutto il materiale di lettura al momento della registrazione. Mi
sentivo strano, come un drogato in crisi di astinenza. Adocchiato un foglio
accartocciato di carta bianca nel mio zaino, mi ci lanciai sopra e con un
mozzicone di matita mi divertii a buttar giù una storia. Riconsiderai le parole
della mia compagna di treno: «I ricordi passati e i desideri futuri provocano
solo turbamento». Ora, con la matita in mano, esaminai le conseguenze
catastrofiche di quel pensiero. Immaginai Shakespeare che faceva sua quella
frase e decideva di non scrivere Re Lear. Non solo Lear, ma tutti i grandi
personaggi della letteratura sarebbero rimasti lettera morta. Sì, la
deificazione della tranquillità genera una calma meravigliosa, ma a che
prezzo, a che prezzo!
Dopo il ritiro ripresi il treno per tornare a Mumbai e non rividi mai più le
sorelle indiane. Prima di lasciare l’India volli visitare Varanasi, la capitale
spirituale del paese, ma per raggiungerla dovetti passare per Calcutta, che
come mai in precedenza mi mise di fronte agli abissi della miseria umana. Il
taxi che mi portò in città dall’aeroporto passò accanto a file infinite di
miserabili baracche di povera gente, ciascuna con una stufa a carbone che
eruttava nell’aria un fumo scuro e soffocante, che oscurava il sole alle due
del pomeriggio. Mendicanti scarni, lebbrosi, ciechi e bambini emaciati dallo
sguardo fisso mi aspettavano ogni volta che uscivo dall’albergo. I lebbrosi
mi inseguivano per interi isolati, minacciando di toccarmi con le loro piaghe
se non avessi fatto loro la carità. Uscivo sempre con le tasche piene di
monete, ma la povertà e il bisogno erano inesauribili. Facevo del mio meglio
per usare le tecniche Vipassana che avevo appena imparato, ma non riuscivo
a raggiungere la tranquillità. La mia pratica meditativa da novizio era
impotente al cospetto di quel reale stato d’agitazione.
Dopo tre giorni a Calcutta salii su un treno e arrivai alla città santa di
Varanasi, a notte tarda, l’unico turista in una stazione ferroviaria deserta.
Dopo un’ora arrivò in stazione un risciò e, dopo una vivace contrattazione, il
conducente accettò di portarmi a Varanasi e aiutarmi a trovare un alloggio.
Ma la città era così piena di pellegrini buddhisti che i letti liberi
scarseggiavano. Alla fine, dopo due ore di ricerche, trovai una stanzetta in un
monastero tibetano che era adeguata ai miei bisogni, però rumorosa. Dormii
pochissimo a causa del canto tantrico gioioso e forte che si levò per tutta la
notte. Nei giorni successivi frequentai seminari, lezioni di yoga ed esercizi
di meditazione nei vari monasteri. Anche se ero un meditatore fallito, trovai i
seminari e le lezioni di grande interesse, e nemmeno per un istante dubitai
della grande saggezza contenuta nella tradizione buddhista. Tuttavia non
considerai l’idea di impegnarmi in un ulteriore approfondimento nella
meditazione. A quell’epoca mi sembrava un’attività solipsistica, e avevo una
vita intera altrove: una moglie e una famiglia che amavo profondamente, il
mio lavoro e il mio proprio metodo per prendermi cura degli altri.
Feci dei giri in barca sul Gange, vidi le cremazioni quotidiane lungo le
sue rive, le orde di scimmie sugli alberi e sui tetti, e in motocicletta esplorai
l’area circostante con una guida, uno studente di college. Poi andai a Sarnath,
la città santa buddhista dove c’erano molti luoghi di culto, per esempio il
parco di cervi dove il Buddha per la prima volta aveva insegnato il Dharma
ai suoi accoliti, come pure l’albero della Bodhi cresciuto da un germoglio
dell’albero originario sotto il quale il Buddha aveva raggiunto
l’illuminazione.
Quando andai alla stazione a comprare il biglietto per tornare a Calcutta,
dove avrei dovuto prendere l’aereo per gli Stati Uniti dopo una fermata in
Thailandia, l’addetto ai biglietti mi comunicò che non ci sarebbero stati posti
disponibili per diversi giorni. La cosa mi lasciò perplesso, dato che la
stazione sembrava relativamente deserta. Tornato in albergo, chiesi aiuto al
direttore e questi m’informò con un sorriso che la soluzione dell’enigma era
piuttosto semplice e che dovevo ancora imparare le usanze dell’India. Mi
accompagnò alla stazione, mi chiese una banconota da cinque dollari e la
passò all’addetto, che all’istante e con cortesia fece apparire il biglietto.
Inoltre, quando montai sul treno, notai che ero l’unico passeggero in tutto il
vagone di seconda classe.
Da Calcutta volai in Thailandia, dove visitai i mercati sull’acqua e i
santuari buddhisti, ed ebbi un’interessante conversazione durante il tè con
uno studioso buddhista che avevo avuto modo di contattare da casa tramite
un amico. La sera un amico di mio cugino Jay mi portò a fare un giro laico
della città. In un grande ristorante di pesce dove andammo a mangiare il
cameriere non ci portò il menu ma ci condusse allo stagno che circondava il
locale e ci chiese di scegliere il nostro pesce. Lo catturò con un retino dal
lungo manico e ci portò a un grande contenitore di verdura fresca, dove
scegliemmo il contorno. Feci del mio meglio per dare istruzioni al cameriere
con l’unica frase in thai che conoscevo, Phrik rxn, niente peperoncino
piccante, ma probabilmente rimescolai le parole, perché la frase suscitò un
tale scoppio di risate che gli altri camerieri vennero a unirsi al divertimento.
Dopo cena la mia guida mi portò al mio primo e unico massaggio thai “a
tutto il corpo”. Venni condotto in una stanza da un’assistente, che mi chiese
di spogliarmi e di fare un bagno, dopodiché mi coprì dalla testa ai piedi di
olio: a quel punto la massaggiatrice, una donna nuda di straordinaria
bellezza, entrò e cominciò a massaggiarmi. Dopo pochi minuti mi resi conto
di aver frainteso la definizione “a tutto il corpo”: non significava che il mio
intero corpo sarebbe stato massaggiato, ma che lei mi avrebbe massaggiato
con il suo. Alla fine del massaggio la donna sorrise, s’inchinò e con la
massima delicatezza s’informò: «C’è qualcos’altro che potrebbe
desiderare?»
Da Bangkok raggiunsi in pullman Chiang Mai, dove vidi gli elefanti
disboscare le foreste. Incontrai un altro viaggiatore, un turista australiano, e
insieme ingaggiammo una guida per essere portati in canoa lungo il fiume
Mae Kok. Ci fermammo in un villaggio per unirci agli uomini seduti in
cerchio a godersi la loro fumata d’oppio quotidiana, mentre le donne,
naturalmente, svolgevano tutto il lavoro della tribù. La mia unica esperienza
con l’oppio non fu nulla di particolare: un semplice stato rilassato della
mente che durò diverse ore. Continuammo fino a Chiang Rei, costeggiando
lungo la strada un gruppo di templi dentellati da favola, che sembravano
pronti a prendere il volo da un momento all’altro. A Chiang Rei con altri
turisti percorsi un ponte che collegava la Thailandia alla Birmania, ma a
metà strada fummo fermati dalle severe guardie birmane, che ci permisero di
toccare la barriera solo per pochi istanti, in modo da poter dire che eravamo
stati in Birmania. Poi volai fino all’isola di Phuket per qualche giorno di
passeggiate sulla spiaggia e immersioni, e infine me ne tornai a casa in
California.
Anche se il viaggio mi era piaciuto molto, alla fine dovetti pagarne il fio.
Poco dopo il ritorno manifestai i sintomi di una strana malattia che mi
afflisse per diverse settimane, con affaticamento, mal di testa, stordimento e
perdita dell’appetito. Tutti allo Stanford Hospital concordavano che avessi
contratto una malattia tropicale, ma nessuno fu mai in grado di dire di cosa si
trattasse. Qualche mese più tardi, quando mi ero completamente ripreso,
festeggiammo la mia guarigione con un breve viaggio in un’isola dei Caraibi,
dove avevamo affittato un capanno per due settimane. Uno dei primi giorni
feci un sonnellino sul divano e mi svegliai coperto di punture d’insetto. Il
giorno successivo mi sentii peggio di quando ero tornato dall’India. Tornati
a casa, il dipartimento di medicina della Stanford mi curò per settimane per
la febbre dengue e altre malattie tropicali. Anche se usarono tutti i test
diagnostici disponibili alla moderna medicina, l’enigma della mia malattia
non fu mai risolto.
La malattia durò circa sedici mesi: riuscivo a stento a raggiungere lo
Stanford ogni giorno, e avevo bisogno di lunghi riposi quotidiani. Un’amica
intima di Marilyn le disse che molti pensavano che avessi avuto un ictus.
Alla fine mi decisi a rimettere in sesto il mio corpo: mi iscrissi a una
palestra e mi costrinsi ad allenarmi quotidianamente. Per quanto mi sentissi
male, ignoravo con decisione qualsiasi supplica o scusa provenisse dal mio
corpo e mantenevo il regime di allenamento in palestra, e alla fine recuperai
la salute. Ripensando a quel periodo, rammento come spesso mio figlio
dodicenne, Ben, entrasse nella mia camera da letto e sedesse in silenzio
accanto a me. In quei due anni non giocai mai a tennis con lui, non gli
insegnai a giocare a scacchi, non lo portai a fare giri in bicicletta (anche se
lui ricorda che giocavamo a backgammon e che gli leggevo a voce alta Le
cronache di Thomas Covenant di Stephen Donaldson).
Da quel momento ho sempre provato una fortissima empatia per quei
pazienti che soffrivano di malattie misteriose e non diagnosticabili, quali la
sindrome da affaticamento cronico o la fibromialgia. Si trattò di un capitolo
oscuro della mia esistenza, e quasi tutti i ricordi di quei giorni sono svaniti:
ma so che si era trattato della mia ultima prova di resistenza.

Anche se per molti anni non mi dedicai alla meditazione, sono giunto a
provare maggiore rispetto per questa pratica, in parte perché ho conosciuto
molte persone per le quali è stata un grande sollievo nella sofferenza e ha
offerto una via verso una vita più compassionevole. Negli ultimi tre anni ho
letto di più sulla meditazione, ho parlato con colleghi che la praticano e ho
sperimentato approcci differenti. Spesso la sera, se mi sento agitato, ascolto
una delle innumerevoli meditazioni disponibili su Internet, e in genere mi
addormento prima della fine.
L’India è stata la mia prima introduzione approfondita alla cultura
asiatica. E non sarebbe stata l’ultima.
28.
Il Giappone, la Cina, Bali e Il carnefice dell’amore
Mentre mi stavo registrando in un albergo di Tokyo nell’autunno del 1987,
incontrai lo psicologo che parlava inglese che i miei ospiti giapponesi
avevano fatto venire da New York per farmi da traduttore. Alloggiava nella
stanza adiacente e sarebbe stato a disposizione in qualsiasi momento per
l’intera settimana.
«Può dirmi esattamente che cosa dovrò fare?» chiesi.
«Il direttore del programma dell’ospedale Hasegawa non mi ha detto
nulla di specifico sul programma per la settimana».
«Mi chiedo come mai. Ho cercato di saperne qualcosa, ma non ho
ricevuto risposte: sembra vogliano essere deliberatamente riservati».
Si limitò a guardarmi, alzando le spalle.
La mattina successiva, quando arrivammo all’ospedale Hasegawa fui
accolto cortesemente con un enorme mazzo di fiori da un numeroso
contingente di psichiatri e responsabili amministrativi, tutti in attesa
all’ingresso dell’ospedale. Mi dissero che la mia prima mattinata era
un’occasione speciale: l’intero personale ospedaliero avrebbe partecipato a
un incontro di terapia di gruppo di pazienti degenti che io avrei commentato.
Poi mi accompagnarono in un auditorium che poteva accogliere all’incirca
quattrocento persone. Avevo commentato incontri di gruppo innumerevoli
volte, ero rilassato e mi accomodai immaginando la descrizione verbale o il
video di un incontro di gruppo. Restai invece sbalordito quando mi resi
conto che il personale aveva preparato un’elaborata drammatizzazione di un
incontro di gruppo. Dopo aver registrato una seduta di gruppo tenutasi in uno
dei reparti dell’ospedale il mese precedente, l’avevano trascritta, avevano
assegnato le parti a vari membri del personale e avevano ovviamente
passato molte ore a mettere in scena la rappresentazione. Fu un’esibizione
raffinata ma, ahimè, si trattava di uno degli incontri di gruppo più terrificanti
che avessi mai visto. I leader giravano attorno al gruppo, offrendo consigli e
prescrivendo vari esercizi a turno a ciascuno dei membri. Nemmeno una
volta un membro del gruppo si rivolse a un altro: a parer mio, quello era un
chiaro esempio di come non si deve fare una terapia di gruppo. Si fosse
trattato della registrazione di un’autentica seduta di gruppo, non avrei avuto
problemi a fermarla e a proporre approcci alternativi. Ma come potevo
fermare una produzione accuratamente preparata, che doveva aver richiesto
innumerevoli ore di prove? Sarebbe stato un terribile insulto. Così me ne
rimasi seduto e seguii l’intero spettacolo (con il traduttore che mi sussurrava
la traduzione all’orecchio). Poi, durante il mio intervento, con gentilezza,
estrema gentilezza, suggerii alcune tecniche basate sulle relazioni
interpersonali.
Feci del mio meglio per essere un insegnante valido nel corso della mia
settimana a Tokyo, ma non ebbi mai la sensazione di essere davvero
efficace. Mi resi conto che qualcosa di profondamente integrato nella cultura
giapponese si opponeva alla psicoterapia occidentale, in particolare alla
psicoterapia di gruppo: si trattava principalmente della ritrosia a rivelare se
stessi o a condividere i segreti di famiglia. Mi offrii di condurre un gruppo
di analisi del processo per terapeuti, ma l’idea fu respinta e, a essere onesto,
ne fui sollevato. Credo che ci sarebbe stata una resistenza silenziosa così
potente che avremmo fatto ben pochi progressi. Quella settimana in tutte le
mie presentazioni il pubblico fu rispettosamente attento, ma nessuno fece mai
un commento o mi rivolse una sola domanda.
In quello stesso viaggio Marilyn visse un’esperienza simile. Tenne una
conferenza sulla letteratura femminile americana del ventesimo secolo a un
Istituto delle donne giapponesi, davanti a una vasta folla e in un auditorium
magnificamente arredato. L’evento era ben orchestrato, con un bellissimo
recital di danza prima della conferenza e un pubblico attento e rispettoso. Ma
quando lei chiese se ci fossero domande o commenti, ci fu solo silenzio. Due
settimane più tardi tenne la stessa conferenza all’Università degli studi
stranieri di Pechino, e alla fine fu bombardata di domande dagli studenti
cinesi.
A Tokyo mi fu riservata ogni possibile cortesia. Mi piacquero moltissimo
i pasti nel contenitore bento tradizionale, con sette strati di portate delicate e
splendidamente disposte. In mio onore vennero organizzate feste sontuose e
il mio ospite generosamente mi invitò a usare ogni volta che l’avessi
desiderato il suo appartamento alle Hawaii provvisto di una vista
mozzafiato.
Dopo le consultazioni, ovunque andassimo in Giappone fummo sempre
trattati con generosità da ospiti e sconosciuti. A Tokyo una sera, mentre
eravamo diretti al teatro Kabuki ma avevamo smarrito la strada, mostrammo
i biglietti a una donna che stava lavando la scala di un edificio e le
chiedemmo indicazioni. Subito lei lasciò perdere quello che stava facendo e
ci scortò per quattro isolati fino alla porta del teatro. Un’altra volta, a Kyoto,
eravamo scesi da un autobus e stavamo passeggiando per la città quando
sentimmo dietro di noi dei passi affrettati. Un’anziana signora che respirava
a fatica per l’affanno ci raggiunse per porgerci l’ombrello che avevamo
lasciato sull’autobus. Poco tempo dopo, in un tempio buddhista,
cominciammo a parlare con uno sconosciuto, un professore che
immediatamente ci invitò a cena a casa sua. Tuttavia la cultura di quel paese
non ha accolto con favore il mio approccio alla terapia e pochissimi dei miei
libri sono stati tradotti in giapponese.

Il Giappone fu la prima tappa del mio anno sabbatico. Avevo appena


concluso un periodo difficile revisionando per l’ennesima volta il libro di
testo sulla terapia di gruppo. I principianti che, come me, scrivono un libro
di testo, in genere non sono consapevoli del fatto che, se il libro avrà
successo, si prendono un impegno a vita. Ai libri di testo vanno apportate
frequenti revisioni, in particolare se nel settore di cui trattano ci sono nuove
ricerche e cambiamenti, com’era il caso per la terapia di gruppo. Se ciò non
avviene, i professori cercheranno un testo più aggiornato da utilizzare nelle
loro classi.
Nell’autunno del 1987 il nostro nido si era svuotato: anche il figlio più
giovane, Ben, aveva lasciato la nostra casa per andare al college alla
Stanford. Dopo aver inviato la revisione del libro di testo all’editore, io e
Marilyn festeggiammo la nostra libertà con un intero anno di viaggi
all’estero, con lunghe soste per scrivere a Bali e a Parigi.
Da molto tempo stavo considerando l’idea di un libro di un genere molto
diverso. Per tutta la vita ho amato la narrativa, e spesso ho contrabbandato
storie di terapia, più o meno lunghe, nei miei scritti professionali. Nel corso
degli anni molti lettori del mio testo sulla terapia di gruppo mi avevano fatto
sapere che erano disposti ad affrontare molte pagine di arida teoria perché
sapevano che da un momento all’altro sarebbe apparsa un’altra storia
didattica. Così, all’età di cinquantasei anni, mi decisi a realizzare un
cambiamento fondamentale nella mia vita. Avrei continuato a insegnare ai
giovani psicoterapeuti attraverso i miei scritti, ma avrei dato alla storia una
posizione privilegiata: l’avrei messa in primo piano, le avrei permesso di
essere il principale veicolo del mio insegnamento. Sentivo che era arrivato
il momento di liberare il narratore che era in me.
Prima di partire per il Giappone dovevo assolutamente impratichirmi
nell’uso del mio nuovo dispositivo per la scrittura: un computer portatile.
Così affittammo un cottage ad Ashland, nell’Oregon, per tre settimane, in una
città che avevamo visitato molte volte per il suo straordinario festival di
teatro. La sera assistevamo alle rappresentazioni, ma durante il giorno mi
impegnavo assiduamente a impratichirmi con il computer. E quando mi sentii
sicuro di saperlo usare, partimmo per la nostra prima meta: Tokyo.
Allora, però, battevo a macchina con un solo dito. Tutti i miei libri e
articoli precedenti erano stati scritti a mano (o in un caso dettati). Ma per
usare questo nuovo computer dovevo imparare a battere a macchina per
davvero, e ci riuscii grazie a un metodo insolito: trascorsi il lungo volo
verso il Giappone giocando con uno dei primi videogame, nel quale una
navicella spaziale era attaccata da vascelli alieni che sparavano missili a
forma di lettere dell’alfabeto, che potevano essere respinti solo premendo il
tasto corrispondente sulla tastiera. Fu un artificio pedagogico
straordinariamente efficace e all’arrivo dell’aereo in Giappone avevo
imparato a battere a macchina.

Dopo la visita a Tokyo volammo a Pechino, dove incontrammo quattro amici


americani e, con una guida, che in quegli anni era obbligatoria, partimmo per
un giro di due settimane per la Cina. Visitammo la Grande Muraglia, la Città
Proibita e, con un viaggio sul fiume, raggiungemmo Guilin, dove restammo
incantati dalle montagne sullo sfondo, dalla forma allungata come matite.
Durante tutti questi viaggi continuai a meditare su come scrivere una raccolta
di storie sulla terapia.
Un giorno, a Shanghai, non mi sentivo troppo bene e decisi quindi di non
andare in giro con gli altri, ma di passare la mattinata a riposare. Dalla
valigetta zeppa di annotazioni di sedute scelsi a caso una cartelletta (tra le
venticinque presenti) e rilessi i riassunti di settantacinque sedute di terapia
che avevo fatto con Saul, un ricercatore biochimico di sessant’anni.
Quel pomeriggio, mentre vagabondavo per le stradine secondarie di
Shanghai, m’imbattei in una chiesa cattolica grande, bella e da lungo tempo
abbandonata. La porta non era chiusa, così entrai e vagai per le navate finché
il mio sguardo fu attratto da un confessionale. Dopo essermi assicurato di
essere solo, feci una cosa che desideravo da sempre: scivolai dentro e
sedetti dove di solito si siede il prete. Pensai alle generazioni di preti che
avevano ascoltato confessioni lì dentro e immaginai tutto quello che
dovevano aver sentito: tanto rimorso, tanta vergogna, tante colpe. Invidiai
quegli uomini di Dio; invidiai la loro capacità di dire ai sofferenti: «Sei
perdonato». Che potere terapeutico! Le mie capacità ne venivano
schiacciate.
Dopo essere rimasto seduto a meditare per circa un’ora su quell’antico
scranno di autorità, capitò una cosa sorprendente: scivolai in una sorta di
sogno a occhi aperti nel corso del quale mi si rivelò l’intera trama di una
storia, “Tre lettere sigillate”. All’improvviso sapevo tutto di quella storia: i
personaggi, l’evoluzione e i momenti di suspense. Volevo assolutamente
annotarla prima che evaporasse, ma non avevo né carta né penna (eravamo in
un’epoca preiPhone) e non c’era modo di prender nota dei miei pensieri.
Perlustrando la chiesa, scovai un mozzicone di matita di tre centimetri su uno
scaffale vuoto, ma non c’era un solo brandello di carta, così utilizzai l’unica
che avevo a disposizione, le pagine vuote del mio passaporto, sulle quali
scarabocchiai le parti salienti della storia. Questo fu il primo di una raccolta
di racconti che alla fine avrei intitolato Il carnefice dell’amore.
Qualche giorno più tardi salutammo i nostri amici e la Cina e volammo a
Bali per un soggiorno di due mesi in una casa esotica che avevamo affittato.
Lì cominciai a scrivere sul serio. Anche Marilyn aveva un progetto di
scrittura (che sfociò nel libro Sorelle di sangue: la rivoluzione francese nei
ricordi delle donne). Anche se amavamo con tutto il cuore i nostri quattro
figli, eravamo esaltati dalla nostra libertà: quello era il primo lungo
soggiorno che trascorrevamo insieme senza i figli dalla nostra luna di miele
in Francia, trentatré anni prima.
La casa balinese era diversa da qualsiasi casa avessimo visto fino ad
allora. Dall’esterno potevamo vedere soltanto l’alto muro che circondava
l’ampia proprietà, che era colma di lussureggiante flora tropicale. La casa
non aveva pareti, solo tende che separavano e delimitavano le stanze. La
zona letto era al piano superiore, e il bagno era in una struttura separata. La
nostra prima notte in quella casa fu indimenticabile: attorno alla mezzanotte,
uno sciame di insetti calò in volo su di noi, a milioni, così travolgenti che ci
dovemmo tirare le lenzuola sulla testa. Subito adocchiai la valigia,
programmando di allontanarmi il più in fretta possibile da quel luogo allo
spuntare del giorno. Ma, al sorgere del sole, tutto era di nuovo tranquillo,
non si vedeva un solo insetto e i domestici ci giurarono che quello sciame di
termiti in accoppiamento si manifestava una sola notte all’anno. Uccelli dai
colori iridescenti s’appollaiavano audaci sui rami fittamente intricati degli
alberi del giardino e intonavano strane melodie. Il profumo di infiorescenze
sconosciute era una sorta di droga e trovammo la cucina rifornita di diversi
tipi di frutta dall’aspetto strano. Un gruppo di sei persone che viveva nelle
capanne della proprietà trascorreva le giornate pulendo, cucinando,
occupandosi del giardino, suonando musica e creando ornamenti di fiori e
frutta per le frequenti feste religiose. Con una passeggiata di tre o quattro
minuti, uscendo dal cancello sul retro e scendendo lungo un sentiero
sabbioso, si raggiungeva la magnifica spiaggia di Kuta, all’epoca ancora
incontaminata e deserta. E tutto questo per un prezzo di gran lunga inferiore
all’affitto che ricevevamo per la nostra casa di Palo Alto.

Dopo aver scritto “Tre lettere sigillate”, la storia di Saul, utilizzando gli
appunti che avevo buttato giù in fretta sul passaporto, trascorrevo le
mattinate sulla panca in giardino, setacciando la cassetta dei miei appunti per
dar vita alla seconda storia. Nel pomeriggio io e Marilyn giravamo per ore
lungo la spiaggia e, quasi impercettibilmente, una storia si radicava e si
sviluppava con tale vigore da impormi di mettere da parte tutti gli altri
appunti e dedicarmici totalmente. Quando cominciavo a scrivere, non avevo
idea di dove la storia mi avrebbe condotto o che forma avrebbe preso. Mi
sentivo quasi uno spettatore mentre la guardavo formarsi e far crescere
virgulti che in breve si sarebbero intrecciati.
Ho spesso sentito scrittori sostenere che una storia si scrive da sé, ma non
avevo capito cosa intendessero fino a quel momento. Dopo due mesi avevo
sviluppato un apprezzamento del tutto nuovo e più profondo nei confronti di
un vecchio aneddoto che Marilyn mi aveva raccontato anni prima, a
proposito del romanziere inglese del diciannovesimo secolo William
Thackeray. Una sera, mentre stava uscendo dal suo studio, la moglie gli
aveva chiesto come fosse andata la sua giornata di scrittura. E lui aveva
risposto: «Oh, una giornata terribile! Pendennis [uno dei suoi personaggi] si
è reso ridicolo e io non sono riuscito a impedirglielo».
In breve mi abituai a sentire i miei personaggi parlare tra di loro. Ero
sempre lì a origliare, anche dopo aver concluso la scrittura giornaliera,
mentre passeggiavo a braccetto con Marilyn su una delle infinite spiagge
lisce come il burro. In breve tempo ebbi un’altra esperienza di scrittura, una
delle esperienze culminanti della mia esistenza. A un certo punto, mentre ero
profondamente immerso in una storia, osservai la mia mente volubile che
flirtava con un’altra storia, che stava prendendo forma al di là della mia
percezione immediata. Presi la cosa come un segnale, un segnale strano, da
me stesso a me stesso, che la storia che stavo scrivendo era vicina alla
conclusione e una nuova storia era pronta a nascere.
Adesso che tutte le mie parole esistevano soltanto su quel computer così
poco familiare, mi sentivo sempre più a disagio a non avere copie cartacee
del mio lavoro – cose come Dropbox, Time Machine e le chiavette USB non
erano ancora state inventate. Sfortunatamente la mia stampante portatile
Kodak non amava viaggiare e, dopo un solo mese a Bali, aveva esalato il
suo ultimo respiro. Allarmato dalla prospettiva di veder svanire in modo
permanente il mio lavoro nel profondo delle viscere del computer, cercai
aiuto. Risultò che in tutta Bali esisteva un’unica stampante, presso una scuola
d’informatica della città di Denpasar, la capitale. Un giorno portai il mio
computer alla scuola, attesi la fine delle lezioni e supplicai o allungai una
mancia (non ricordo quale delle due cose feci, forse entrambe)
all’insegnante per avere una preziosa copia cartacea del mio lavoro.
A Bali l’ispirazione giungeva rapidamente. Senza posta, telefono o altre
distrazioni, scrivevo meglio e più rapidamente di quanto avessi mai fatto
prima. Nei due mesi che trascorsi laggiù composi quattro dei dieci racconti
del libro. In ciascuna storia perdevo moltissimo tempo a occultare l’identità
dei pazienti. Ne alteravo aspetto fisico, occupazione, età, nazionalità, stato
civile, e spesso persino il sesso. Volevo essere assolutamente sicuro che
nessuno potesse riconoscerli e, naturalmente, avrei mandato a ciascun
paziente la storia, una volta ultimata, e chiesto loro il permesso scritto di
pubblicarla.
Nel tempo libero io e Marilyn esploravamo l’isola. Adoravamo gli
aggraziati balinesi e ammiravamo la loro arte, la danza, gli spettacoli di
burattini, le incisioni e i dipinti, e assistevamo pieni di meraviglia alle loro
sfilate religiose. Le passeggiate sulla spiaggia e le nuotate con il respiratore
erano un vero paradiso. Un giorno il nostro autista ci portò, assieme alle
biciclette, su uno dei punti più elevati di Bali, e ci lasciammo andare per
inerzia in discesa per diverse miglia attraverso i villaggi, dove le bancarelle
vendevano fette di giaco e di durian. Con sorpresa scoprii che gli scacchi
erano molto popolari a Bali, e trovavo dappertutto gente che giocava. Spesso
andavo in anticipo al ristorante vicino a casa nostra per giocare a scacchi
con il cameriere.
L’accordo che io e Marilyn avevamo stipulato prevedeva di trascorrere la
seconda metà dell’anno sabbatico in Europa. Io amo le isole tropicali e
Marilyn ama la Francia, e nel corso del nostro matrimonio abbiamo sempre
raggiunto un compromesso. Lei aveva appena lasciato ufficialmente il suo
incarico amministrativo alla Stanford (anche se in realtà lo mantiene ancora
oggi in qualità di membro anziano), e aveva ancora alcuni impegni
professionali che la riportarono a Palo Alto mentre ci dirigevamo in Europa.
Mi fermai alle Hawaii per un ritiro di scrittura a Oahu, nel delizioso
appartamento del nostro ospite giapponese, e lì scrissi altre due storie. Alla
fine, dopo cinque settimane, Marilyn si fece viva per informarmi che era
giunto il momento di riprendere il nostro viaggio.
La tappa successiva fu Bellagio, in Italia. Un anno prima avevamo
entrambi fatto richiesta ed eravamo stati entrambi accettati per un soggiorno
al Rockefeller Foundation Center di Bellagio, Marilyn per lavorare ai
ricordi delle donne della rivoluzione francese, e io al mio libro di racconti
sulla psicoterapia.
Ottenere un soggiorno a Bellagio dev’essere uno dei massimi benefici per
un membro del mondo accademico. A solo pochi passi dal lago di Como, il
Rockefeller aveva magnifici giardini, un cuoco superbo che faceva la pasta a
mano e ne serviva una varietà diversa ogni sera, e una bella villa centrale
che poteva ospitare trenta studiosi e fornire uno studio a ciascuno di loro.
Gli studiosi si incontravano all’ora dei pasti e per i seminari serali, dove
ciascuno presentava il proprio lavoro. Io e Marilyn scrivevamo ogni mattina
e nel pomeriggio prendevamo spesso il vaporetto per raggiungere uno dei
deliziosi villaggi sul lago di Como. Trascorsi molto tempo con uno degli
altri studiosi, Stanley Elkins, un magnifico scrittore di storie comiche.
Stanley era stato reso invalido dalla poliomielite e doveva usare la sedia a
rotelle. Ogni sera, immancabilmente, passava in rassegna le trasmissioni alla
radio, alla ricerca di trame e personaggi.
Dopo Bellagio trascorremmo i restanti quattro mesi dell’anno sabbatico a
Parigi, dove affittammo un appartamento sul Boulevard Port Royal. Marilyn
scriveva a casa, e io in un caffè all’aperto vicino al Panthéon, dove portai a
termine le ultime quattro storie. Ancora una volta ricominciai le mie lezioni
quotidiane di francese – ahimè, sempre senza alcun profitto –, e nel tardo
pomeriggio e la sera passeggiavamo per la città e cenavamo con gli amici
parigini di Marilyn.
Lavorare in un caffè all’aperto mi si confaceva e scrivevo con insolita
efficienza. In seguito, quando tornai a casa, trovai un caffè all’aperto a San
Francisco, a North Beach (il Caffè Malvino), con una buona atmosfera adatta
alla scrittura, dove continuai questa pratica. Dato che volevo che il libro
fosse una raccolta di storie didattiche per giovani terapeuti, decisi di
aggiungere qualche paragrafo al termine di ogni storia che elaborasse i punti
teorici illustrati nel testo. L’idea si rivelò troppo complessa, perciò trascorsi
diverse settimane a scrivere un epilogo didattico di una sessantina di pagine
da inserire al termine del libro. Quindi, con un senso di grande
soddisfazione, inviai il manoscritto all’editore.
Due o tre settimane più tardi Phoebe Hoss, editor della Basic Books
assegnata al libro, mi contattò. Phoebe era una editor infernale (ma anche
celestiale) ed eravamo destinati a una battaglia epica. Da quel che ricordo
fece solo interventi minimi sulle storie, con l’eccezione dell’inserimento, in
un punto, della frase «una valanga di carne» all’interno della storia di una
signora grassa. Quella frase mi è rimasta impressa perché è l’unica frase
gratuita che un mio qualsiasi editor abbia mai inserito (anche se spesso
vorrei che ne avessero inserite di più). Infine però, quando lesse il mio lungo
epilogo, Phoebe perse completamente la testa e insistette affinché lo
eliminassi. Era assolutamente sicura che non fosse necessaria alcuna
spiegazione teorica conclusiva e che le storie avrebbero parlato da sole. Io e
Phoebe iniziammo una lunga guerra che andò avanti per mesi. Le
sottoponevo una versione dell’epilogo dopo l’altra, e ogni volta mi veniva
restituita crudelmente mutilata fino a quando, dopo diversi mesi, Phoebe
aveva ridotto le mie sessanta pagine a dieci e insisteva che venissero
inserite all’inizio. Oggi, rileggendo il libro, che inizia con il breve prologo,
sono mortificato dai ricordi della mia fiera resistenza: Phoebe, editor
magnifica (non ne avrei più incontrate come lei), aveva assolutamente
ragione.
Quando il libro fu pubblicato io e Marilyn volammo a New York per una
festa organizzata dall’editore: simili avvenimenti, oggi rari, erano comuni
all’epoca. La festa era programmata per un lunedì sera, ma una recensione
negativa sul New York Times aveva smorzato il nostro entusiasmo. La
struttura del libro aveva pochissimi precedenti, e qualcosa in comune solo
con alcuni dei casi di Freud e con L’ora di cinquanta minuti di Robert
Lindner, su pazienti in ipnoterapia. Il recensore del New York Times, una
psicoanalista dell’infanzia, era oltraggiata dalla struttura e concludeva la sua
acida recensione dicendo che preferiva leggere le storie dei casi sulle riviste
professionali.
Pochi minuti dopo la mezzanotte di domenica, tuttavia, fui svegliato da
una telefonata dell’editore che, felicissimo, mi disse che l’edizione di
mercoledì del New York Times avrebbe pubblicato un articolo entusiasta di
Eva Hoffman, una nota scrittrice nonché autrice di recensioni. Ho avuto il
piacere di incontrarla anni dopo, e ancora oggi le sono grato. Tenni letture
del libro a New York e nelle librerie di una dozzina di città. Questi tour di
letture attraverso il paese appartengono in gran parte al passato, assieme alla
professione di chi fungeva da guida in tali occasioni, ovvero gli addetti che
incontravano l’autore all’aeroporto e lo accompagnavano ai luoghi in cui
doveva parlare. Quasi in ogni libreria Oliver Sacks mi aveva appena
preceduto, per promuovere il suo libro di recente pubblicazione L’uomo che
scambiò un cappello per sua moglie. I nostri cammini si incrociavano
talmente spesso che mi sembrava di conoscerlo, ma sfortunatamente questo
non avvenne mai. Ammiravo molto il suo lavoro e, dopo aver letto il
commovente finale di In movimento, gli scrissi una lettera di apprezzamento
poco prima che morisse.
Nel giro di poche settimane dopo la pubblicazione, con mio totale stupore
Il carnefice dell’amore si ritrovò nell’elenco del New York Times dei libri
più venduti, e ci rimase per parecchie settimane. Fui in breve travolto dalle
interviste e dalle richieste di conferenze, e ricordo che mi lamentai della
fatica e dello stress durante una conversazione a pranzo con Phillip Lopate,
un eccellente saggista che era stato uno dei miei istruttori a un laboratorio di
scrittura al Bennington College. Il suo consiglio fu: «Rilassati e goditi
l’attenzione: i best seller sono rari, e chissà se ne avrai mai più un altro!»
Quanto aveva ragione.
Ventitré anni dopo l’editore decise di ripubblicare Il carnefice
dell’amore con una nuova copertina e mi chiese di scrivere una nuova
postfazione. Rilessi il libro, per la prima volta in così tanti anni, ed ebbi
delle reazioni violente: orgoglio mischiato all’umiliazione per il mio
invecchiamento e all’invidia per me stesso da giovane. Non potei fare a
meno di pensare questo tizio scrive molto meglio di quanto scriva io. Fu un
piacere rivisitare tutti i miei cari vecchi pazienti, molti dei quali non erano
più in vita. Ma ci fu un’eccezione: la storia della “signora grassa”. Ricordo
di aver scritto quella storia in un caffè parigino e di aver passato ore a
costruire il paragrafo iniziale, che introduce il concetto di controtransfert, la
spontanea reazione emotiva del terapeuta a un paziente.
Il giorno in cui Betty entrò nel mio studio e la vidi dirigere i suoi centotredici chili per un metro e
sessanta verso la mia esile poltroncina high-tech, sapevo che la grande prova del controtransfert
mi stava aspettando.

La storia intende essere un racconto didattico per terapeuti e io, ancor più
del paziente, sono il vero protagonista. È una storia su quei sentimenti
irrazionali, a volte ripugnanti, che un terapeuta può provare nei confronti di
un paziente e che possono costituire un ostacolo formidabile nella terapia.
Un terapeuta può provare sentimenti di attrazione estremamente forti verso
un paziente, o può avere una potente reazione negativa che deriva da fonti
inconsce, forse da incontri con figure negative nel proprio passato. Anche se
non ero in contatto con tutte le ragioni dei miei sentimenti negativi nei
confronti delle donne obese, ero certo che la relazione con mia madre avesse
una parte importante, e sapevo che avrei dovuto combattere duramente per
avere la meglio su quel sentimento ribelle e per relazionarmi alla paziente in
modo umano e positivo. Era quella la storia che intendevo raccontare e, per
farlo, esagerai la portata del mio controtransfert: così il conflitto tra il
controtransfert negativo e il desiderio di aiutarla aveva fornito il punto
centrale del racconto.
Un episodio in particolare aveva suscitato in me una forte empatia. Betty
aveva fissato un appuntamento con l’aiuto di un’inserzione su un giornale
locale (era questa la pratica corrente, in quell’epoca che precedeva i siti
Match.com) e si era messa una rosa tra i capelli per essere identificata.
L’uomo non si era fatto vivo. Non era la prima volta che lei sperimentava
una cosa del genere, e ne aveva dedotto che l’uomo le avesse dato
un’occhiata da lontano e si fosse dileguato. Betty ebbe tutta la mia
comprensione e dovetti trattenere le lacrime alla descrizione di lei che
tentava di mantenere un contegno e beveva tutta sola in un bar affollato.
Mi inorgoglii per l’epilogo del racconto, espresso nelle parole
conclusive dopo che Betty aveva chiesto un abbraccio d’addio: «Quando ci
abbracciammo, fui sorpreso di scoprire che potevo circondarla tutta con le
mie braccia».
Avevo scelto di scrivere la storia rivelando brutalmente i miei pensieri
vergognosi sull’obesità. Ma ero andato molto più in là: per amore della
letteratura, avevo notevolmente esagerato la mia ripugnanza e strutturato la
storia come un duello tra il mio ruolo di guaritore e l’attacco di pensieri
assillanti sullo sfondo.
Avevo avuto una certa trepidazione mentre consegnavo la storia a Betty,
perché la leggesse e concedesse il permesso a pubblicarla. Naturalmente
avevo alterato tutti i dettagli che potevano portare a un’identificazione e le
chiesi se ci fossero altri cambiamenti che desiderava apportare. Le dissi che
avevo esagerato i miei sentimenti a beneficio di un più efficace risultato
didattico. Betty disse che capiva e mi diede il permesso scritto di pubblicare
la storia.
La risposta a questo racconto in particolare fu forte e vigorosa. “La
signora grassa” suscitò una marea di reazioni negative da parte di donne che
si erano sentite ferite o oltraggiate. Ma portò anche a una serie ancor
maggiore di lettere d’apprezzamento da parte di giovani terapeuti che si
sentivano sollevati, mentre cercavano di capire i propri sentimenti negativi
nei confronti di alcuni dei loro pazienti. La mia onestà, dicevano, rendeva
più facile per loro convivere con tali sentimenti negativi e permetteva loro
di parlarne apertamente con un supervisore o con un collega.
Quando Terry Gross mi intervistò a Fresh Air, un popolare programma
radio della PBS, mi interrogò, o meglio mi “stroncò”, proprio riguardo a
questa storia. Alla fine, a mia discolpa, esclamai: «Non ha letto il finale
della storia? Non ha capito che la storia riguardava il mio viaggio nella
terapia con qualcuno nei confronti del quale avevo dei pregiudizi negativi, e
che alla fine io ero cambiato e maturato come terapeuta? Sono io il
protagonista della storia, non il paziente». Non fui più invitato a partecipare
a quel programma.
Anche se forse non era stata in grado di dirmelo, immagino che la storia
abbia causato del dolore a Betty. Avevo indossato dei paraocchi. Ero troppo
ambizioso, troppo sconsiderato, troppo impegnato a dare sfogo al mio
impulso di scrivere. Lo rimpiango ancora oggi. Se scrivessi quella storia
oggi, cercherei di trasformare l’obesità in una condizione completamente
diversa e cercherei di romanzare in modo più radicale gli eventi della
terapia.
Terminai la postfazione alla nuova edizione de Il carnefice dell’amore con
un’osservazione che il mio io più giovane avrebbe trovato sorprendente,
ossia che lo spettacolo di cui si gode a ottant’anni è migliore di quanto ci si
possa aspettare. Sì, non posso negare che la vita in questi ultimi anni sia solo
una dannata perdita dopo l’altra; e tuttavia ho trovato una tranquillità e una
felicità molto maggiori nella settima e ottava decade della mia vita di quanto
avrei mai potuto credere possibile. E c’è un ulteriore vantaggio aggiuntivo:
leggere il proprio lavoro può essere più eccitante! La perdita della
memoria ha alcuni vantaggi inaspettati. Mentre sfogliavo le pagine di “Tre
lettere sigillate”, “È morto quello sbagliato” e la storia che dà il titolo al
libro, “Il carnefice dell’amore”, mi sono trovato ad ardere di curiosità.
Avevo dimenticato come andavano a finire!
29.
Le lacrime di Nietzsche
Nel 1988 ritornai all’insegnamento e all’attività clinica e collaborai con
Sophia Vinogradov, già medico psichiatra interno allo Stanford, per la
stesura di Una breve guida alla psicoterapia di gruppo per la American
Psychiatric Press. Nel volgere di breve tempo mi ritrovai preda di un
malessere che conoscevo bene: mi mancava non avere un progetto letterario
su cui lavorare e mi sentivo andare alla deriva. Mi scoprii di nuovo attratto
da alcune opere di Nietzsche. Ho sempre amato leggere Nietzsche e in breve
fui così inebriato dal suo linguaggio potente da non riuscire a levarmi dalla
mente questo strano filosofo del diciannovesimo secolo, un uomo così
brillante ma anche isolato e disperato, e con un enorme bisogno di aiuto.
Dopo aver trascorso alcuni mesi immerso nelle sue opere giovanili, mi
apparve chiaro che il mio inconscio aveva già scelto il nuovo progetto.
Adesso mi sentivo lacerato tra due desideri: continuare la vita di ricerca
e insegnamento allo Stanford o lanciarmi nell’impresa e cercare di scrivere
un romanzo. Rammento poco di questa lotta interiore. So solo che la sua
soluzione conciliò queste parti eterogenee: avrei scritto un romanzo a fini
didattici e tentato di trasportare i miei studenti indietro nel tempo, nella
Vienna della fine del diciannovesimo secolo, dove avrebbero potuto
assistere alla nascita della psicoterapia.
Perché Nietzsche? Anche se era vissuto nel periodo in cui Freud metteva
le basi della psicoterapia, non è mai stato considerato rilevante per la
psichiatria. Tuttavia molti dei pensieri di Nietzsche, sparsi in tutto il suo
lavoro e scritti prima della nascita della psicoterapia, sono profondamente
attinenti all’istruzione dei terapeuti. Considerate quanto segue:
Medico, aiuta te stesso; così aiuterai anche i tuoi malati. Questo sia il suo aiuto migliore: che lui, il
paziente, possa vedere con i propri occhi un uomo che risana se stesso.

Tu devi edificare sopra e oltre te stesso. Ma prima devi aver finito di edificare te stesso, essere retto di
corpo e d’anima. Non produrrai solo te stesso, ma produrrai qualcosa di più alto.

Tale, infatti, son io dal mio profondo e fui da principio, tirando, traendo a me, portando in alto, facendo
crescere: uno che tira su, un allevatore, un maestro severo, che non invano disse una volta a se stesso:
«Diventa chi sei!»

Colui che ha un “perché” per vivere può sopportare tutti i “come”.

Spesso siamo più innamorati del desiderio che della persona desiderata.

Alcuni non possono allentare le proprie catene e possono ciò nonostante redimere i loro amici.

Immaginai una storia romanzata alternativa, nella quale Nietzsche assumeva


un ruolo importante nell’evoluzione della psicoterapia. Lo immaginai
interagire con il gruppo di ben noti personaggi associati alla nascita della
psicoterapia: Sigmund Freud, Josef Breuer (il mentore di Freud), e la
paziente di Breuer, Anna O. (la prima a essere trattata con il metodo
psicoanalitico). Come avrebbe potuto essere diverso l’aspetto della terapia,
mi chiedevo, se Nietzsche, un filosofo, avesse davvero avuto un ruolo chiave
nella nascita del nostro settore?
Durante questo periodo di gestazione mi capitò di leggere il romanzo di
André Gide I sotterranei del Vaticano, e l’occhio mi cadde su questa frase
azzeccata: «La storia è una narrativa che è realmente accaduta, mentre la
narrativa è la storia che avrebbe potuto accadere». Quelle parole mi diedero
una scossa: descrivevano precisamente quello che intendevo fare, ovvero
scrivere un’opera di narrativa che avrebbe potuto accadere. Volevo scrivere
una genesi della psicoterapia che avrebbe potuto essere estremamente
possibile se la storia avesse ruotato solo di poco sul suo asse. Volevo che gli
avvenimenti del mio romanzo potessero avere una loro esistenza possibile.
Appena cominciai a scrivere, sentii che i personaggi si mettevano a
vibrare, quasi si sforzassero di tornare di nuovo vivi. Avevano bisogno della
mia totale attenzione, ma i miei impegni allo Stanford erano pressanti:
insegnavo ai medici interni e agli studenti di medicina, frequentavo gli
incontri dipartimentali e incontravo i pazienti in terapie individuali e di
gruppo. Per scrivere quel romanzo sapevo di dover essere libero da ogni
distrazione, così nel 1990 presi accordi per un periodo sabbatico di quattro
mesi. Come al solito, Marilyn scelse il luogo dove avremmo trascorso metà
del tempo, e io quello dell’altra metà. Optai per l’arcipelago più tranquillo e
più isolato del mondo, le Seychelles, e lei, come sempre, scelse Parigi.
Trascorremmo il primo mese a Mahé, l’isola principale delle Seychelles,
e il secondo su un’isola più piccola, Praslin. Entrambe erano intatte,
circondate da spiagge spettacolari, e vi si respirava una tranquillità quasi
irreale: niente giornali, Internet o telefoni, il luogo più propizio per la
scrittura che abbia mai sperimentato. Scrivevamo la prima metà della
giornata, io il mio romanzo e Marilyn le sue Sorelle di sangue, una versione
inglese ampliata del libro in francese sulle donne che erano state testimoni
della rivoluzione francese. Nel pomeriggio esploravamo l’isola,
passeggiavamo sulle spiagge e ci immergevamo, e per tutto il tempo i miei
personaggi prendevano lentamente vita nella mia mente. La sera leggevamo,
giocavamo a Scarabeo e cenavamo nell’unico ristorante vicino a casa, e
intanto rimuginavo sugli sviluppi della trama per il giorno successivo.
Iniziai con cautela, attenendomi ai fatti storici ogni volta che mi era
possibile. La prima decisione riguardò il periodo temporale. Volevo che un
Nietzsche malato avesse un incontro con la terapia, e molte considerazioni
convergevano sul 1882, l’anno in cui aveva considerato il suicidio e in cui
aveva avuto maggiormente bisogno di aiuto. Le lettere di quel periodo
descrivono una grande sofferenza durata più di trecento giorni in un solo
anno, con emicranie lancinanti, debolezza, gravi problemi alla vista e
disturbi gastrici. A seguito della salute malferma, nel 1879 aveva rinunciato
al posto di insegnante all’università di Basilea ed era rimasto come
sradicato per tutto il resto della sua vita, viaggiando da una pensione
all’altra attraverso l’Europa in cerca di condizioni atmosferiche che
potessero mitigare la sua angoscia.
La sua corrispondenza rivela una profonda depressione. Una tipica lettera
del 1882 all’unico buon amico, Franz Overbach, recita: «…proprio alla
base, un’inamovibile malinconia nera… non trovo più alcun senso nel vivere
anche solo un altro mezzo anno, tutto è colmo, doloroso, dégoutant. Rinuncio
a tutto e soffro troppo… Non farò mai più niente di buono, quindi perché
fare una qualsiasi cosa!»
Nel 1882 a Nietzsche era capitato un evento catastrofico: la relazione
passionale (anche se non consumata) con Lou Salomé, una graziosa giovane
donna russa destinata a far infatuare di sé altri grandi uomini, quali Freud e
Rainer Maria Rilke, si era conclusa. Nietzsche e l’amico Paul Rée erano
entrambi innamorati di Lou, e i tre stavano progettando di andare a vivere
insieme a Parigi. Ma il progetto era saltato nel 1882, quando Paul e Lou
avevano dato inizio a una relazione sessuale. Nietzsche ne era stato
devastato ed era caduto preda di una profonda disperazione. Quindi, per il
mio libro, tutto sembrava indicare il 1882: quell’anno era il nadir della vita
di Nietzsche, il momento in cui aveva avuto un maggior bisogno di aiuto. Ed
era anche un anno abbondantemente documentato per tutti i miei personaggi
principali: Nietzsche, Breuer, Freud (allora studente di medicina) e Lou
Salomé.
Come lettore avevo vissuto all’interno dei romanzi per tutta la vita, ma
ero un assoluto dilettante quanto a scriverne uno. Meditai come collocare la
mia trama immaginaria nel 1882 senza mutare gli eventi storici. Riuscivo a
pensare a un’unica soluzione: ambientare l’intero romanzo in un immaginario
tredicesimo mese di quell’anno. Forse ero eccessivamente prudente: avevo
il coraggio di fare un balzo nella narrativa ma giocavo sul sicuro tenendo un
piede nella realtà, usando personaggi e avvenimenti storici invece di
inventarne altri immaginari, arrivando al punto di prendere alcuni dialoghi di
Nietzsche dalle sue lettere. Mi sentivo come se stessi imparando ad andare
in bicicletta con le rotelle.
Alla fine concepii un esperimento mentale che servì da chiave di volta
per la scrittura successiva: immaginare che cosa sarebbe successo nella
vita di Friedrich Nietzsche se questi fosse vissuto in un momento della
storia in cui avrebbe potuto inventare una psicoterapia derivata dai suoi
stessi scritti pubblicati, che avrebbero potuto essere usati per curarlo.
Che peccato, pensavo spesso, non poter situare la storia dieci anni dopo e
immaginare un incontro terapeutico tra due geni come Nietzsche, il filosofo,
e Freud, lo psicoanalista. Ma la storia non poteva essermi d’aiuto. Nel 1882
Freud era ancora un giovane studente di medicina e non sarebbe diventato un
celebre medico per un’altra decina d’anni. E a quell’epoca Nietzsche era
ormai affetto da una disastrosa malattia al cervello (molto probabilmente una
sifilide terziaria) sfociata in una severa demenza che l’avrebbe
accompagnato per il resto della vita.
Se non poteva trattarsi di Freud, chi altri avrebbe potuto essere consultato
da Nietzsche nel 1882? La mia ricerca storica non mi aveva fornito nomi di
terapeuti praticanti a Vienna né, del resto, in nessun’altra parte del mondo: la
psicoterapia doveva ancora venire al mondo. Come ho già avuto modo di
dire, spesso consideriamo Freud il padre della psicoanalisi, ma lui fu molto
più di questo: fu il padre della psicoterapia in sé e per sé.
Alla fine decisi di far sì che Nietzsche consultasse il dottor Josef Breuer,
insegnante e mentore di Freud. Medico di assoluto rispetto, Breuer veniva
spesso chiamato a consulto per trattare personaggi eminenti, incluso il re,
che soffriva di una misteriosa patologia medica. Inoltre nel 1880 Breuer
aveva sviluppato una terapia psicologica singolare, che precorreva la
psicoanalisi, allo scopo di aiutare una paziente nota come Anna O., affetta da
isteria. Breuer non aveva parlato con nessuno del proprio trattamento
innovativo di Anna O., a eccezione dello studente di medicina Sigmund
Freud, che era anche un amico di famiglia, e forse di qualche altro studente,
e non aveva pubblicato il proprio resoconto su Anna fino a dodici anni dopo,
negli Studi sull’isteria che scrisse assieme a Freud.
Ma come collegare Breuer e Nietzsche? Mi imbattei in un evento storico
adatto allo scopo: nel 1882 il fratello di Lou Salomé era uno studente di
medicina al primo anno nella scuola dove insegnava Breuer. Immaginai il
seguente scenario: Lou Salomé, tormentata dal senso di colpa per il dolore
che ha inflitto a Nietzsche, parla della propria angoscia con il fratello il
quale, avendo frequentato una lezione in cui il suo insegnante, Breuer, ha
discusso il trattamento di Anna O., esorta la sorella a consultarlo. Un
romanziere più esperto non avrebbe avuto difficoltà a romanzare tutti questi
avvenimenti, ma io cercai di restare legato al mio mantra: La narrativa è la
storia che avrebbe potuto accadere.
Alla fine la prima parte della trama trovò una soluzione. Tramite Lou
Salomé, Nietzsche va a consultare Breuer per trovare sollievo ai suoi
malesseri fisici. Breuer cerca di escogitare un modo per affrontare il
disturbo psicologico di Nietzsche, che però è troppo orgoglioso e rifiuta di
essere aiutato. Breuer si sforza di utilizzare tutte le tattiche che conosce, ma
invano, e il trattamento raggiunge uno stato di completo stallo. A questo
punto, nel tentativo di essere fedele ai personaggi di Nietzsche e Breuer, mi
ero messo all’angolo da solo, e trascorsi un paio di giorni tormentandomi su
come procedere. So che molti scrittori delineano per prima cosa una traccia
dettagliata dell’opera, ma io relego il lavoro al mio inconscio e permetto ai
personaggi e agli eventi di evolversi organicamente sul palcoscenico della
mia mente, e poi mi limito a registrare e affinare il tutto. In questo caso
quell’evoluzione era giunta a un vicolo cieco.
Io e Marilyn avevamo sentito parlare di Silhouette, un’isola deliziosa
vicina a Mahé che veniva visitata di rado, e la raggiungemmo in vaporetto
per trascorrervi un fine settimana. Poco dopo il nostro arrivo ci fu una
tempesta tropicale, con venti violenti e piogge torrenziali, così non ebbi altra
scelta che starmene al coperto a scrivere. Fu allora che venni folgorato
dall’ispirazione e risolsi il problema Nietzsche-Breuer.
Ero così eccitato per quella soluzione che corsi fuori sotto la pioggia
battente per cercare Marilyn. Alla fine la avvistai nel salottino dell’albergo
e lì, sul posto, le lessi a voce alta le ultime righe del capitolo in cui Breuer
sta tornando a casa dopo che Nietzsche ancora una volta ha respinto
seccamente i suoi tentativi di curarlo.
Ascoltò il vento, i propri passi, il frantumarsi della fragile crosta di neve ghiacciata sotto i piedi. E
all’improvviso seppe qual era il modo, l’unico modo! Per tutta la strada verso casa fece scricchiolare la
neve e, a ogni passo, salmodiava tra sé: «So cosa fare! So cosa fare!»

La curiosità eccitata di Marilyn per quello che sarebbe successo in seguito fu


un ottimo segnale, e continuai a esporle lo scioglimento della scena. L’idea
innovativa di Breuer era di trattare quel paziente che resisteva con tale forza
provando a cambiare le carte in tavola, e chiedendo cioè a Nietzsche di
diventare il suo terapeuta. Questo rovesciamento è l’idea centrale attorno
alla quale si svolge tutta l’azione successiva.
Anni dopo, mentre scrivevo un saggio sul romanzo per la raccolta
intitolata The Yalom Reader, mi chiesi quale fosse stata la fonte di quell’idea
centrale. Forse era venuta dal romanzo di Herman Hesse Il giuoco delle
perle di vetro, la storia di due guaritori, uno giovane e uno vecchio, che
vivono ai capi opposti di un continente. Il giovane guaritore si ammala,
sprofonda nella disperazione e parte per un lungo viaggio per cercare aiuto
dal suo rivale, Dion.
Durante il viaggio, una sera, in un’oasi il giovane intavola una
conversazione con un altro viaggiatore, un uomo più anziano che risulta
essere Dion in persona, proprio l’uomo che lui stava cercando! Dion invita il
giovane ad andare a casa sua, dove vivono e lavorano assieme per molti
anni, prima come allievo e maestro, poi come colleghi. Anni dopo, quando si
ammala, Dion chiama il collega più giovane e gli dice: «Ho un grande
segreto da rivelarti. Ricordi quella notte in cui ci incontrammo e tu mi
dicesti che eri in viaggio per venire da me?»
«Sì, sì. Non dimenticherò mai quella notte e il mio primo incontro con
te».
«Be’» dice Dion, «anch’io ero in preda alla disperazione ed ero in
viaggio per cercare aiuto da te!»
Un analogo cambiamento di ruoli si trova in Emergenza, un frammento
poco noto di una commedia dello psichiatra Helmut Kaiser, pubblicata su
una rivista di psichiatria nel 1962. Nella commedia una donna visita un
terapeuta e lo supplica di aiutare suo marito, a sua volta un terapeuta, che è
così depresso da pensare al suicidio.
Il terapeuta accetta. «Certo, lo incontrerò. Gli chieda di prendere un
appuntamento».
La donna risponde: «È questo il problema. Mio marito nega di essere
depresso e si rifiuta di cercare aiuto in una terapia».
«Allora» dice il terapeuta, «mi dispiace, ma non vedo come posso
essergli utile».
La donna risponde: «Potrebbe avvicinarlo fingendo di essere un paziente
e poi trovare il modo di essergli d’aiuto».
Purtroppo non sapremo mai se la strategia abbia funzionato, in quanto il
resto della commedia non venne mai scritto.
In seguito mi capitò di essere testimone di qualcosa di analogo nella mia
stessa vita. Una volta vidi Don Jackson, uno psichiatra ricco d’inventiva, che
cercava di comunicare con un paziente affetto da schizofrenia delirante
cronica che indossava pantaloni color porpora e una vaporosa vestaglia
color magenta. L’uomo trascorreva le sue giornate appollaiato con aria
imperiosa su una sedia rialzata, osservando in silenzio il personale e i
pazienti come se fossero dei postulanti. Il dottor Jackson osservò
l’atteggiamento regale del paziente per diversi minuti, quindi si lasciò
cadere in ginocchio, chinando il capo a terra, e con le braccia protese offrì
all’uomo le chiavi del reparto dicendo: «Vostra Maestà, siete voi, non io,
che dovreste averle».
Il paziente, sbalordito, fissò le chiavi e lo psichiatra genuflesso e
borbottò le sue prime parole dopo molti giorni: «Signore, uno di noi due
dev’essere davvero, davvero matto».

Verso la fine del nostro soggiorno alle Seychelles cominciai ad avere un calo
della vista, accompagnato da una reazione molto dolorosa alla luce
mattutina. Un medico locale mi diede una pomata che attenuò il dolore, ma la
fotofobia persistette e in breve mi toccò rimanere al buio fino a mezzogiorno,
quando la luce diventava sopportabile. L’unica stanza priva di finestre era il
bagno, così ogni mattina fino a mezzogiorno scrivevo lì dentro, utilizzando
solo la luce del computer. Quelli erano i primi sintomi della distrofia di
Fuchs, un problema alla cornea che per decenni mi avrebbe causato disagi e
problemi visivi. Questo disturbo determina una diminuzione del numero
delle cellule epiteliali della cornea, che presiedono all’elaborazione del
fluido che si accumula durante la notte quando le palpebre sono chiuse. La
cornea diventa più spessa e gonfia, e la visione viene compromessa. Al
mattino, quando si aprono gli occhi, il fluido nella cornea evapora
lentamente e la visione migliora per gradi nel corso della giornata.
Il romanzo fluiva così bene che me ne sarei rimasto alle Seychelles più a
lungo lasciando che Marilyn andasse a Parigi, ma era essenziale che mi
facessi vedere da un oftalmologo. A Parigi venni a sapere che l’unico
rimedio consisteva in una sostituzione della cornea, un intervento che
rimandai fino al nostro ritorno allo Stanford.
Affittammo un appartamento vicino ai giardini del Lussemburgo provvisto
di robuste imposte che mi permisero di scrivere al buio per i due mesi
successivi, finché il libro fu concluso. Inviai il manoscritto al mio agente,
Knox Burger, che mi aveva rappresentato per Il carnefice dell’amore. Lo
respinse immediatamente, affermando: «Non c’è modo che io riesca a
vendere questo romanzo: non succede niente». Poi mi suggerì di imparare a
scrivere una trama leggendo il manoscritto di Red Square, il nuovo romanzo
di Martin Cruz Smith, un altro dei suoi scrittori. Mi misi dunque alla ricerca
di un nuovo agente e mandai il manoscritto a Owen Laster, alla William
Morris Literary Agency, che lo accettò immediatamente e lo vendette alla
Basic Books, una casa editrice di opere non narrative che solo una volta
nella sua storia aveva pubblicato un romanzo (Il dottore del desiderio di
Allen Wheelis).
Subito dopo la pubblicazione, una recensione sprezzante sul New York
Times descrisse Le lacrime di Nietzsche come un «romanzetto soporifero».
Quello fu il punto più basso, seguito da una serie di recensioni molto
positive su altri giornali e riviste; pochi mesi dopo, Le lacrime di Nietzsche
ricevette la medaglia d’oro come miglior opera narrativa dell’anno dal
Commonwealth Club della California. Il secondo premio? Red Square di
Martin Cruz Smith! Marilyn non esitò a comunicare la notizia del premio
tanto al New York Times che al mio ex agente, Knox Burger.
Negli Stati Uniti le vendite delle Lacrime di Nietzsche furono buone, ma
ridicole in confronto alla sua popolarità in altri paesi. Alla fine fu tradotto in
ventisette lingue, con il pubblico più vasto in Germania e la percentuale di
lettori più alta in Grecia. Nel 2009 il sindaco di Vienna lo selezionò come
libro dell’anno. Ogni anno il sindaco di quella città sceglie un libro, ne fa
stampare centomila copie e le distribuisce gratuitamente ai cittadini,
lasciando pile di libri in farmacie, panetterie, scuole e all’annuale fiera del
libro. Io e Marilyn volammo a Vienna per numerose presentazioni pubbliche,
una delle quali al museo Freud. Lì, in quello che era stato il salotto di Freud,
si tenne un dibattito pubblico sul romanzo tra me e un filosofo austriaco.
La settimana culminò con un galà serale per diverse centinaia di persone
al municipio, presieduto dal sindaco. Dopo il mio saluto al pubblico venne
servita la cena, e la serata si concluse con un vivace valzer viennese.
Essendo io un modesto danzatore, Marilyn ballò il valzer con il nostro buon
amico Hans Steiner, uno psichiatra della Stanford di origine viennese, che
per l’occasione era venuto a Vienna con la moglie Judith. Fu un’esperienza
eccezionale per tutti noi.
Due anni dopo la pubblicazione del libro, mentre stavo facendo un giro di
conferenze a Monaco e a Berlino, un regista tedesco mi contattò per
propormi un documentario basato sulle mie visite di varie località della
Germania dove Nietzsche aveva vissuto. Visitammo insieme il luogo di
nascita di Nietzsche e la casa della sua infanzia a Röcken, nonché la chiesa
dove il padre aveva predicato. Vicino alla chiesa c’è il luogo di sepoltura di
Nietzsche, assieme a quelli della sorella e dei genitori. Girano voci che la
sorella di Nietzsche, Elisabeth, ne avesse fatto spostare il corpo in modo da
poter essere messa tra la madre e il padre. Alla scuola di Nietzsche a Pforta
un vecchio maestro mi informò che, anche se Nietzsche eccelleva nelle
materie classiche, non era il primo della classe. In casa di Elisabeth, a
Weimar, che è stata trasformata in un museo, vidi il documento ufficiale di
ammissione per il ricovero di Nietzsche a Jena, poco prima della sua morte;
la diagnosi parlava chiaramente di «sifilide paretica». Appesa a una parete
del museo c’era una fotografia di Hitler che offriva a Elisabeth un mazzo di
rose bianche. Pochi giorni dopo, negli archivi di Nietzsche a Weimar, ebbi il
grande piacere di poter tenere in mano una delle prime stesure di Così parlò
Zarathustra, scritta di proprio pugno da Nietzsche.
Anni dopo il regista Pinchas Perry trasse un film da Le lacrime di
Nietzsche. Anche se si trattò di un film a budget ridotto, contiene un notevole
ritratto di Nietzsche a opera di Armand Assante, un attore cinematografico
piuttosto noto. In una conversazione con lui venni a sapere che, dei suoi
sessanta film, andava particolarmente fiero della sua interpretazione nei
panni di Nietzsche.
Una delle grandi sorprese della mia vita si verificò undici anni dopo la
pubblicazione, quando ricevetti una lettera da una ricercatrice degli archivi
di Weimar che avevo incontrato in un precedente viaggio in Germania.
M’informava di avere appena scoperto una lettera del 1880 inviata a
Nietzsche da un amico che lo invitava a consultare il dottor Josef Breuer per
i suoi problemi medici! La sorella di Nietzsche impedì che la cosa si
concretizzasse, verosimilmente perché lui aveva già consultato diversi altri
medici famosi. Nietzsche definiva la sorella «un’oca antisemita» ed è
possibile che lei si sia opposta al progetto perché Breuer era ebreo. La
lettera a Nietzsche e due lettere successive possono essere ascoltate nella
versione inglese dell’audiolibro del romanzo. Questa sorprendente conferma
mi rassicurò sul mio essere rimasto fedele all’aforisma di Gide: la narrativa
è la storia che avrebbe potuto accadere.
30.
Sul lettino di Freud
Dopo essere vissuto tra le nuvole con Le lacrime di Nietzsche, fui riportato
bruscamente a terra dal libro di testo La teoria e la pratica della
psicoterapia di gruppo, che supplicava la mia attenzione. A quel punto
aveva ormai dieci anni e aveva bisogno di essere aggiornato e di fare un
lifting, se voleva continuare a competere con gli altri libri di testo. Per il
successivo anno e mezzo mi sentii il giogo sul collo, mentre trascorrevo un
giorno dopo l’altro nella biblioteca della facoltà di medicina della Stanford
a revisionare le ricerche sui gruppi dei dieci anni precedenti, aggiungendo
tutte le nuove ricerche più rilevanti e – la parte più dolorosa – eliminando il
materiale divenuto obsoleto.
Per tutto il tempo, nel profondo della mia mente, s’andava insinuando un
altro romanzo. Durante i giri in bicicletta e i momenti di quiete prima di
addormentarmi facevo esperimenti con trame e personaggi, e in breve
cominciai a lavorare a una storia che avrei intitolato Sul lettino di Freud1.
Ero divertito dal doppio senso: il mio libro avrebbe trattato del mentire e
dello stare distesi sul lettino di uno psicoanalista.
Avendo ormai completato il mio apprendistato di romanziere, tolsi le
rotelle alla bicicletta e non mi preoccupai più di tanto di adattare personaggi
e avvenimenti in un tempo e in un luogo storico precisi. In questo nuovo
progetto avrei avuto il piacere di comporre una trama completamente
narrativa, popolata soltanto da personaggi inventati, e a meno che il mondo
non fosse più pazzo di quanto immaginassi, questa narrativa non si sarebbe
mai realizzata nella realtà. Tuttavia, nel concentrarmi sugli avvenimenti
surreali di un romanzo comico, intendevo esplorare questioni serie e
sostanziali. Dovremmo, come insistevano i primi psicoanalisti, tenere a
freno il nostro vero io e offrire ai pazienti soltanto interpretazioni e uno
schermo vuoto? O dovremmo invece essere aperti e franchi e rivelare i
nostri sentimenti e le nostre esperienze? E in questo caso, quali insidie
potrebbero attenderci?
Ho scritto molto per la letteratura psichiatrica professionale
sull’importanza complessiva della relazione terapeutica. In terapia la forza
del cambiamento non è un’intuizione intellettuale, non è un’interpretazione,
non è una catarsi, ma è, invece, un incontro profondo e autentico tra due
persone. Il pensiero psicoanalitico contemporaneo è anche gradualmente
arrivato alla conclusione che l’interpretazione non sia sufficiente. Mentre
scrivo queste parole, uno degli articoli psicoanalitici più ampiamente citati
in questi anni s’intitola I meccanismi non interpretativi nella terapia
psicoanalitica: quel “qualcosa in più” dell’interpretazione. Questo
“qualcosa in più”, al quale ci si riferisce come a “quei dati momenti” o ai
“momenti d’incontro”, non è molto diverso da quello che è presentato
nell’articolo che il mio personaggio letterario, Ernest, sta tentando di
scrivere in Sul lettino di Freud, intitolato A proposito di quello che sta in
mezzo: il caso dell’autenticità in psicoterapia.
Nel corso della mia pratica professionale mi sforzo sempre di avere un
incontro autentico con il mio paziente, tanto nella terapia individuale che in
quella di gruppo. Tendo a essere attivo, personalmente coinvolto, e spesso
mi concentro sul “qui-e-ora”: è raro che una seduta trascorra senza che io
m’informi sulla nostra relazione. Ma quanto del proprio io reale dovrebbe
essere rivelato dal terapeuta? La questione vitale della sua trasparenza,
dibattuta accanitamente nel nostro settore di studio, viene analizzata,
esaminata e portata al limite estremo in questo romanzo comico.
Ho appena riletto Sul lettino di Freud per la prima volta dopo anni e
sono colpito da molte cose che avevo da tempo dimenticato. In primo luogo,
anche se la trama è del tutto immaginaria, contiene moltissimi episodi reali
tratti dalla mia vita. Questo non è raro: una volta ho sentito Saul Bellow
dire: «Quando nasce un romanziere, la famiglia è condannata». È risaputo
che i personaggi dell’infanzia di Bellow popolano le pagine della sua
narrativa. Ho seguito il suo esempio. All’incirca un anno prima di scrivere il
romanzo, un amico di un amico aveva cercato di truffarmi vendendomi azioni
di una compagnia che, come avrei saputo in seguito, non esisteva. Io e mia
moglie gli avevamo dato cinquantamila dollari da investire. Anche se
avevamo ricevuto quasi subito dei certificati di deposito dall’aria molto
ufficiale da parte di una banca svizzera, tuttavia c’era qualcosa in lui che
suscitava i miei sospetti. Portati i certificati alla filiale americana della
banca svizzera, venni a sapere che le firme erano false. Allora chiamai l’FBI
e informai il truffatore di averlo fatto. Poco prima del mio incontro con l’FBI
lui si presentò alla mia porta con cinquantamila dollari in contanti.
Quest’episodio con il truffatore fu l’ispirazione per Peter Macondo nel mio
romanzo, un imbroglione che depreda i terapeuti.
Ma non si trattò soltanto del truffatore: moltissimi altri conoscenti,
avvenimenti e parti di me trovarono modo di entrare nel romanzo. Ci sono
dettagli delle mie partite a poker (incluse caricature di me stesso e di altri
giocatori). Ho smesso di giocare a poker a causa dei problemi alla vista, ma
ancora oggi, quando pranzo con i miei vecchi compagni di gioco, si
chiamano l’un l’altro con i nomi che ho dato loro nel romanzo. Inoltre c’è
una paziente (debitamente occultata) che nella vita reale era stata
particolarmente seduttiva nei miei confronti, come pure uno psichiatra
sofisticato ma arrogante che una volta mi aveva fatto da supervisore. Ho
anche inserito un amico dei giorni della Hopkins, Saul, che nel romanzo è
Paul. Molti degli arredi e degli oggetti d’arte descritti sono reali, compresa
una scultura di vetro che Saul aveva fatto e mi aveva dedicato, raffigurante
un uomo che guarda sopra il bordo di una ciotola, intitolata Sisifo si gode la
vista. L’elenco è molto lungo: abitudini sgradevoli, libri, indumenti, gesti, i
primi ricordi, la storia da immigrati dei miei, le partite a scacchi e a
pinnacolo con mio padre e gli zii – tutto è disseminato nel romanzo,
compresi i miei tentativi di scrollarmi la segatura del negozio di drogheria
dalle scarpe. Racconto la storia del padre di un personaggio chiamato
Marshal Streider, che è proprietario di una piccola drogheria all’angolo tra
la Fifth ed R Street a Washington. Quando un cliente entra nel suo negozio
chiedendo un paio di guanti da lavoro, l’uomo gli dice che sono nel
retrobottega, e invece corre alla porta sul retro e galoppa lungo l’isolato fino
al mercato, per comprare un paio di guanti a dieci centesimi e rivenderlo al
cliente per tredici. Questa è una storia vera raccontatami da mio padre, che
aveva avuto un negozio a quello stesso indirizzo prima della mia nascita.
Il resoconto dettagliato di un analista bandito dal suo istituto
psicoanalitico è liberamente tratto dall’espulsione di Masud Khan dalla
Società psicoanalitica britannica nel 1988. Charles Rycroft, il mio analista
inglese, era stato testimone dell’evento e me lo aveva descritto nei minimi
particolari. Persino il sogno dell’“orso Smoky” è mio, fatto la notte della
morte di Rollo May. Molti nomi dei personaggi hanno un significato
particolare per me, per esempio quello del protagonista, Ernest Lash. Mentre
scrivevo di Ernest, che era effettivamente earnest, onesto, e della sua
paziente seduttiva, pensavo spesso a Ulisse, che si era fatto legare (lash)
all’albero della nave per sfuggire al richiamo lascivo delle sirene, ed ecco
“Ernest Lash”. Un altro personaggio, una figura del mio immaginario istituto
psicoanalitico, è Terry Fuller, un nome che ho tratto da un mio ex studente,
Fuller Torrey, che è diventato un personaggio di rilievo della psichiatria.
Marshal Streider, modellato su uno dei miei supervisori alla Johns Hopkins,
avanza a lunghi passi sicuri (strides) e sostiene strenuamente la legge come
un marshal (con l’eccezione di un notevole errore di valutazione).
Anche se personalmente ho sempre perorato l’idea dell’autenticità del
terapeuta, avevo deciso di mettere Ernest Lash davanti a una sfida enorme.
Per le ragioni spiegate nel romanzo, Ernest intraprende con baldanza un
esperimento: sarà completamente trasparente con il primo nuovo paziente
che varcherà la soglia del suo studio. Ahimè, per pura coincidenza
romanzesca, la paziente di Ernest, un avvocato, ha un suo proposito segreto:
all’insaputa di Ernest, è stata la moglie di uno dei suoi pazienti ed è in cerca
di vendetta, convinta com’è che sia stato lui a convincere il marito a
divorziare. Per rivalersi progetta di sedurlo e, quindi, di rovinarlo. Non mi
sono mai divertito tanto a scrivere come quando ho intrapreso questo
racconto su un terapeuta votato alla sincerità che incontra una paziente votata
all’inganno. E scrivere una delle trame secondarie è stato anche più
divertente, in particolare quando ho descritto la versione romanzata della
Società psicoanalitica britannica che caccia via un analista colpevole di
interpretazioni eretiche e decide di pubblicare un avviso, simile a quelli
delle case automobilistiche, per contattare tutti i pazienti trattati in base alle
sue interpretazioni dannose.
Diversi registi avrebbero voluto trarre un film da Sul lettino di Freud.
Harold Ramis, in seguito attore e regista di Ricomincio da capo,
Ghostbusters e Terapia e pallottole, comprò l’opzione per il film, e tra noi
ci furono parecchi contatti mentre stava girando Indiavolato, che si svolge
nelle strade di San Francisco. Ahimè, Indiavolato fu un fiasco al botteghino
e il produttore si rifiutò di finanziare Sul lettino di Freud fino a quando
Ramis non avesse fatto un altro film a colpo sicuro che garantisse forti
incassi, come doveva esserlo Un boss sotto stress, il seguito del grande
successo Terapia e pallottole. Sfortunatamente anche questo film fu un
fiasco. Ramis mantenne l’opzione sul libro per diversi anni, ma non riuscì
mai a ottenere un sostegno finanziario sufficiente a realizzare il progetto. Lui
mi piaceva molto come persona e sono stato molto rattristato dalla notizia
della sua morte, nel 2014.
Un’altra esperienza di quasi-film l’ho avuta con Wayne Wang, regista di
film quali Il circolo della fortuna e della felicità, Smoke e Un amore a 5
stelle. Anche lui comprò l’opzione, e anche lui non riuscì a trovare un
finanziamento. In seguito fece un film intitolato L’ultima vacanza, su una
donna (Queen Latifah) affetta da una malattia mortale, e mi chiese di tenere
un gruppo T di due giorni con tutto il cast a New Orleans, per sensibilizzarlo
alle questioni collegate a quel genere di malattia. Fu uno spasso lavorare con
Queen Latifah, LL Cool J e Timothy Hutton, che trovai tutti estremamente
disponibili, ben informati, seri nel proprio lavoro e interessati alle mie
osservazioni.
Infine Ted Griffin, uno sceneggiatore di talento (Ocean’s Eleven, Il genio
della truffa), si fece avanti e negli ultimi anni è lui che possiede i diritti del
film. Dopo aver scritto una sceneggiatura la propose ad Anthony Hopkins –
uno dei miei idoli dello schermo, con il quale ho avuto il piacere di
conversare al telefono. Ahimè, nulla ancora si è concretizzato. Inoltre c’è
una parte di me che ha il terrore della versione cinematografica, che
potrebbe ignorare i messaggi più seri del romanzo e concentrarsi
eccessivamente, forse esclusivamente, sulle parti legate al sesso e alla truffa.
Adesso mi sento un po’ imbarazzato dall’esuberanza erotica del mio
protagonista. Mia moglie, che è sempre la mia prima lettrice, aveva scritto a
lettere maiuscole sull’ultima pagina del manoscritto: «C’È QUALCOS’ALTRO
CHE VUOI FAR SAPERE ALL’AMERICA SULLE TUE FANTASIE SESSUALI?»

1. Il titolo originale è Lying on the Couch (lying ha il significato di “stare seduti o stesi”, ma anche
quello di “mentire”) (N.d.T.).
31.
Il senso della vita
Ogni anno, alle lauree del dipartimento, gli interni di psichiatria organizzano
un piccolo spettacolo prendendo in giro alcuni aspetti della loro esperienza
alla Stanford. Un anno toccò a me essere il soggetto dello spettacolo, e il
medico interno che mi prendeva in giro compariva sempre in scena
accarezzando pile di libri con la scritta “Yalom” sul dorso. Non mi offesi:
mi sentii invece piuttosto soddisfatto nel vedere tutti i libri che avevo scritto.
All’epoca stavo lavorando a un libro ideato dal mio editore, The Yalom
Reader, magnificamente redatto da mio figlio Ben, che contiene stralci da
miei lavori precedenti e alcuni saggi nuovi. Dopo aver portato a termine il
saggio conclusivo, feci un sogno poderoso, indimenticabile, su mia madre,
che ho descritto nella storia che dà il titolo al mio libro successivo, Il senso
della vita.
Crepuscolo. Forse sto morendo. Ombre sinistre circondano il mio letto: monitor cardiaci, bombole
d’ossigeno, bottiglie gocciolanti per flebo, spirali di tubi di plastica – le viscere della morte.
Chiudendo le palpebre, scivolo nell’oscurità.
Ma poi, balzando fuori dal letto, esco come una freccia dalla stanza dell’ospedale e mi
precipito a Glen Echo, il parco dei divertimenti pieno di luce e di sole, dove, decenni fa,
trascorrevo tante delle mie domeniche estive. Sento la musica delle giostre. Inalo la fragranza
umida e caramellata dei popcorn e delle mele appiccicose. Proseguo dritto, senza esitare davanti
alla bancarella del Polar Bear con i suoi coni gelati, o alle montagne russe con i loro tuffi nel
vuoto, o alla ruota panoramica, per prendere posto nella fila per i biglietti della Casa degli
Orrori. Una volta pagato il biglietto, aspetto che il vagoncino successivo giri l’angolo e venga a
fermarsi sferragliando davanti a me. Ci salgo sopra, abbasso la sbarra di sicurezza e mi
incateno saldamente all’interno, do un’ultima occhiata attorno, e là, in mezzo a un piccolo
gruppo di spettatori, la vedo.
Mi metto ad agitare tutt’e due le braccia, e la chiamo a voce abbastanza alta da poter essere
udita da tutti: «Mamma! Mamma!» Proprio in quel momento il vagoncino si muove sbandando in
avanti e colpisce la porta a due ante, che si apre bruscamente per rivelare le sue nere fauci
spalancate. Mi appoggio all’indietro il più possibile e, prima di essere inghiottito dalle tenebre,
grido di nuovo: «Mamma! Come me la sono cavata, mamma? Come me la sono cavata?»

Possibile che il messaggio del sogno (e questa possibilità mi fa rabbrividire)


sia che ho vissuto la mia intera esistenza avendo quella donna lamentosa
come mio pubblico principale? Per tutta la vita ho cercato di scappare, di
allontanarmi dal mio passato, dal ghetto, dal negozio di drogheria, e tuttavia
è possibile che io non sia sfuggito né al mio passato né a mia madre?
Lei aveva avuto una relazione conflittuale con sua madre, la quale aveva
trascorso gli ultimi anni di vita in una casa di riposo a New York. Da
giovane, oltre a pulire, cucinare e lavorare nel negozio, mia madre faceva
regolarmente dei viaggi di quattro ore in treno per portare alla sua dei dolci
fatti in casa, e quella, invece di ringraziarla, si estasiava parlando di Simon,
l’altro suo figlio, che non le aveva mai portato nient’altro che una bottiglia di
7-UP.
Mia madre mi aveva raccontato quella storia così tante volte che avevo
smesso di ascoltarla, stufo dei suoi sproloqui. Ma adesso percepisco la cosa
in modo diverso. Ovviamente mia madre si sentiva del tutto sottovalutata dal
suo unico figlio. Spesso mi chiedo: Perché non le ho mostrato
comprensione? Perché non le ho detto semplicemente: «Che ingiustizia! Tu
fai tutto il lavoro, prepari i dolci e fai il viaggio per vedere tua madre e
tutto quello che lei fa è lodare Simon per la sua 7-UP. Come dev’essere
stato irritante!» Davvero, che cosa mi sarebbe costato dirle questo? Oh,
come avrei voluto essere abbastanza gentile da mormorare queste parole.
Quel semplice atto di apprezzamento avrebbe avuto un tale significato per
lei. E forse, se lo avessi fatto, lei non sarebbe ancora qui a incombere nei
miei sogni.
Naturalmente il sogno mi colpisce per l’idea che, mentre mi muovo verso
la morte, quell’oscura casa degli orrori, sono ancora in cerca di conferme.
Ma non da parte di mia moglie, dei miei figli, di amici, colleghi, studenti o
pazienti, ma di mia madre! Quella madre che non mi piaceva affatto e della
quale provavo tanta vergogna. Sì, nel mio sogno è a lei che mi rivolgo. Era a
lei che ponevo la domanda finale: «Come me la sono cavata?» Quale prova
migliore del potere durevole degli affetti della prima fase della vita?
Tale rimpianto ha avuto un ruolo significativo nella terapia di una giovane
donna che sto incontrando in questo periodo. Aveva chiesto alcune sedute su
Skype, e durante il nostro secondo incontro le chiesi della sua relazione con
i genitori. «Mia madre è una santa, e ho sempre avuto una relazione
bellissima e affettuosa con lei. Ma mio padre… be’, quella è un’altra
storia».
«Mi parli della sua relazione con lui».
«La miglior descrizione che posso dare è che è molto simile alla
relazione che lei ha con sua madre ne Il senso della vita. Mio padre
lavorava sodo e manteneva la famiglia, ma era un tiranno. Non ho mai sentito
uscire dalla sua bocca un complimento o una parola gentile per nessuno della
famiglia, né per le persone che lavoravano nella sua azienda. Poi, all’incirca
otto anni fa, suo fratello maggiore nonché socio in affari si suicidò; gli affari
andarono a rotoli e mio padre fece bancarotta. Perse tutto. Adesso è
rabbioso e depresso e non fa altro che guardare fuori dalla finestra tutto il
giorno. Dopo la bancarotta lo sostengo finanziariamente, ma da lui nemmeno
una parola di ringraziamento. Ieri a colazione abbiamo avuto un grosso
litigio, e lui ha buttato il piatto per terra e se n’è andato».
Io e la mia paziente ci eravamo incontrati solo due volte, ma siccome
aveva letto la mia storia decisi di condividere con lei il rimpianto di non
essere mai entrato in empatia con mia madre. «Mi domando» le dissi «se un
giorno potrà avere rimpianti simili riguardo suo padre».
Lei annuì lentamente e disse: «Forse sì».
«Sto solo facendo delle supposizioni, ma immagino che suo padre, che
era così totalmente investito nel ruolo di sostegno della famiglia, che gestiva
una grossa compagnia ed esercitava un tale potere nel mondo e in casa
propria, possa sentirsi umiliato di essere mantenuto dalla figlia».
Annuì. «Non ne abbiamo mai parlato».
«Ha intenzione di farlo?»
«Non ne sono sicura. È qualcosa su cui devo riflettere».
La settimana successiva mi descrisse un incontro con il padre. «Sono
proprietaria di un grande negozio di abbigliamento, ed era in corso un evento
speciale per presentare la nostra nuova collezione. Avevo dei biglietti
d’ingresso in più e ho pensato che a mio padre sarebbe potuto interessare. È
venuto, ma poi, senza parlarne prima con me, è andato nell’area riservata al
personale e ha messo tutti in subbuglio dicendo che era mio padre. Quando
me l’hanno raccontato, ho perso le staffe e gli ho detto: “Come hai potuto?
Non mi va giù che prima tu non mi abbia chiesto se potevi farlo. Voglio
tenere separati gli affari e la vita privata”. Lui ha cominciato a gridarmi
contro, mi sono messa a gridare anch’io e alla fine se n’è andato nella sua
stanza sbattendo la porta».
«E poi?»
«Stavo per andarmene, ma poi ho cominciato a pensare a che serata
deprimente sarebbe stata quella per mia madre… e, sì, anche per mio padre,
e ho pensato a quello che lei mi aveva detto riguardo alla sua, di madre.
Così ho ripreso fiato e ho bussato alla sua porta, e gli ho parlato. “Senti,
papà, mi dispiace, ma il punto è questo: ti ho invitato ad assistere a uno dei
miei eventi, ma non volevo che tu cercassi di entrare in confidenza con i miei
dipendenti. Quello che volevo era condividere l’evento con te. Quando mai
lo facciamo?”»
«Una cosa bellissima da dire. E poi?»
«Per una volta è rimasto zitto. Sembrava esterrefatto. E poi mi è venuto
vicino, mi ha abbracciato e ha pianto. Non l’avevo mai, mai visto piangere.
E ho pianto anch’io. Abbiamo pianto insieme».
Sì, questa è una storia vera, quasi parola per parola.

Il senso della vita contiene il racconto didattico più efficace che abbia mai
scritto, Sette lezioni avanzate sulla terapia del lutto, che doveva essere una
sorta di manuale per i terapeuti che utilizzano l’approccio esistenziale.
Irene, uno stimato chirurgo, era venuta da me in cerca d’aiuto. Suo marito
stava morendo di cancro, pur essendo ancora giovane, e il dolore di Irene
era comprensibilmente profondo. Diversi anni prima avevo trascorso due
anni conducendo un gruppo di persone che avevano da poco perso il
coniuge, e grazie a questo progetto mi consideravo un esperto nel curare i
pazienti in lutto: per questo motivo avevo accettato di lavorare con Irene.
Straordinariamente intelligente, ma gelida e severa con se stessa e con gli
altri, Irene fu mia paziente per due anni e il nostro lavoro insieme mi mostrò
quanto ancora avessi da imparare sulla perdita: da qui il titolo del racconto,
Sette lezioni avanzate sulla terapia del lutto.
La prima lezione la ricevetti nel corso della nostra primissima seduta,
quando Irene mi descrisse il sogno che aveva fatto la notte precedente.
Sono un chirurgo, ma sono anche uno studente che si sta specializzando in letteratura inglese.
La mia preparazione per un esame include lo studio di due testi diversi, uno antico e uno
moderno, entrambi con lo stesso titolo. Non sono preparata per il seminario perché non ho letto
né l’uno né l’altro. In particolare non ho letto il testo antico, il primo, che mi avrebbe preparata
ad affrontare il secondo.
Le chiesi se ricordasse qualcosa riguardo al titolo dei testi. «Oh, sì, lo
ricordo chiaramente. Ciascun libro, tanto il vecchio che il nuovo, s’intitolava
La morte dell’innocenza». Per un terapeuta con i miei interessi e i miei
precedenti questo era un grande dono: due testi (uno antico e uno nuovo), e il
testo antico (ovvero i propri primi anni di vita) che era necessario per capire
quello nuovo.
Il sogno di Irene non si limitava a promettere una caccia al tesoro
intellettuale di primissimo grado, era anche un primo sogno. Come spiego
nelle Sette lezioni avanzate, una sorta di mistica ha circondato il sogno
iniziale che un paziente porta in terapia fin dal 1911, quando Freud ne parlò
per la prima volta. Freud credeva che il primo sogno fosse genuino e
profondamente rivelatore, perché i pazienti all’inizio tengono ancora la
guardia abbassata. Più avanti nella terapia, dopo aver analizzato diversi
sogni con il terapeuta, il tessitore di sogni che risiede nel loro inconscio
diventa cauto, e da quel momento fa in modo di elaborare sogni più
complessi e oscuri.
Sulle orme di Freud, immaginavo spesso il tessitore di sogni sotto forma
di un omuncolo grassoccio e gioviale che se la spassava in una foresta di
dendriti e neuriti. Di giorno dorme, ma di notte, adagiato su un guanciale di
sinapsi ronzanti, beve nettare dolcissimo e pigramente tesse sequenze
oniriche per il suo ospite. La notte che precede la prima seduta, il paziente si
addormenta pieno di pensieri conflittuali riguardo alla terapia imminente, e
come al solito l’omuncolo si occupa del suo lavoro notturno, intrecciando
tutte quelle speranze e paure in un sogno. Quindi, dopo la seduta di terapia,
l’omuncolo viene a sapere che il terapeuta ha abilmente interpretato il suo
sogno e da quel momento avrà cura di seppellire il significato del sogno
sempre più nel profondo, nel suo travestimento notturno. Naturalmente questa
sarebbe solo un’assurda favoletta, se solo non ci avessi creduto!
Rammento con inquietante chiarezza il mio sogno la notte precedente la
prima seduta della mia analisi personale, oltre cinquant’anni fa. Anche
questo sogno è descritto nelle Sette lezioni avanzate.
Sono disteso sul lettino di un medico. Il lenzuolo è troppo piccolo per coprirmi in modo
adeguato. Posso vedere un’infermiera che mi infila un ago in una gamba, nello stinco.
All’improvviso c’è un sibilo esplosivo, un suono gorgogliante – WHOOOSH.

Il fulcro del sogno – quel sonoro whooosh – mi era apparso immediatamente


chiaro. Da bambino ero affetto da una sinusite cronica, e ogni inverno mia
madre mi portava dal dottor Davis per un drenaggio e risciacquo delle cavità
nasali. Detestavo i suoi denti ingialliti e gli occhi da pesce che mi
scrutavano attraverso il centro dello specchietto circolare, attaccato alla
fascia che era solito portare intorno alla testa. Mentre l’otorinolaringoiatra
inseriva una cannula nell’orifizio sinusale avvertivo un dolore acuto, poi
sentivo un assordante whooosh (lo stesso whooosh che avevo sentito nel
sogno) mentre iniettava il risciacquo salino attraverso la mia cavità nasale.
Osservando la sostanza tremolante e disgustosa nel recipiente cromato
semicircolare usato per il drenaggio, pensavo che una parte del mio cervello
fosse stata trascinata fuori dal liquido. Nel mio primo sogno in analisi
quell’orrore reale s’era mescolato con il timore che pensieri vergognosi e
disgustosi potessero sgorgare da me sul lettino dell’analista.

Io e Irene lavorammo con impegno sul suo primo sogno. «Quindi non aveva
letto nessuno dei due testi» esordii, «in particolare quello vecchio».
«Sì, sì, mi aspettavo che mi avrebbe fatto questa domanda. Non avevo
letto nessuno dei due testi, ma in particolare non avevo letto quello antico».
«Qualche idea riguardo al significato di questi due testi nella sua vita?»
«Altro che idea» ribatté Irene. «So esattamente che cosa significano».
Attesi che continuasse, ma lei si limitò a restare seduta in silenzio,
guardando fuori dalla finestra. Non avevo ancora fatto l’abitudine a questo
tratto irritante di Irene, di non voler offrire volontariamente una riflessione a
meno di un’esplicita richiesta.
Seccato, lasciai che il silenzio si protraesse per un minuto o due. Alla
fine l’assecondai: «E il significato dei due testi, Irene, è…»
«La morte di mio fratello, quando avevo vent’anni, è il testo antico. La
morte ormai prossima di mio marito è il testo moderno».
«Quindi il sogno ci sta dicendo che lei potrebbe non essere in grado di
gestire la morte di suo marito se prima non si sarà occupata di quella di suo
fratello».
«Esatto. Proprio così».
Il contenuto con il quale avevamo a che fare era illuminante, ma il
processo (ovvero la natura della relazione tra noi due) era conflittuale e
profondamente teso e, in ultima analisi, il lavoro sulla nostra relazione
sarebbe stato la vera fonte di risanamento. In una seduta successiva la
disamina di un sogno su un muro di corpi che ci separava ci condusse a
un’esplosione di angoscia.
«Intendo dire, come può capirmi? La sua vita è irreale: calda,
accogliente, innocente. Come questo studio». Indicò gli scaffali carichi di
libri alle sue spalle e l’acero rosso del Giappone che fiammeggiava fuori
dalla finestra. «Mancano solo i cuscini di chintz e un caminetto con un fuoco
di legna scoppiettante. Lei è circondato dalla sua famiglia, vivete tutti nella
stessa città. Un circolo familiare che non si è mai spezzato. Che cosa può
saperne lei realmente della perdita? Pensa che saprebbe gestirla meglio?
Immagini che sua moglie o uno dei suoi figli stia per morire in questo
preciso istante. Cosa farebbe? Persino quella sua compiaciuta camicia a
righe… la detesto. Ogni volta che la indossa ho un sussulto. Detesto quello
che dice».
«Che cosa dice?»
«Dice: “Tutti i miei problemi sono risolti. Mi parli dei suoi”».

Spesso i commenti di Irene coglievano il segno. Si racconta una storia a


proposito dello scultore svizzero Alberto Giacometti, che si era rotto una
gamba in un incidente d’auto. Mentre giaceva sulla strada, in attesa
dell’ambulanza, sembra che abbia detto: «Finalmente, finalmente mi è
successo qualcosa». So esattamente che cosa intendeva. Irene aveva ragione.
Docente alla Stanford da oltre trent’anni, avevo abitato sempre nella stessa
casa, avevo accompagnato i miei figli alla stessa scuola, e non mi ero mai
trovato a fronteggiare qualche tragedia oscura. Nessuna morte difficile o
precoce, mio padre e mia madre erano morti vecchi, lui a sessantanove anni
e lei a oltre novanta. Mia sorella, più grande di me di sette anni, all’epoca
era ancora viva. Non avevo perso nessun amico intimo, e i miei quattro figli
erano tutti in buona salute.
Per un terapeuta che ha deciso di occuparsi di questioni esistenziali, una
vita così benigna rappresenta un ostacolo. Più volte avevo provato il forte
desiderio di uscire dalla mia torre d’avorio e affrontare i travagli del mondo
reale. Per anni avevo sognato di trascorrere un anno sabbatico svolgendo un
lavoro manuale, magari come autista di ambulanze a Detroit, o cuoco in un
fast-food sulla Bowery, o a fare panini in una rosticceria. Ma non l’avevo
mai fatto: il richiamo delle sirene rappresentato dai ritiri dedicati alla
scrittura a Bali, dall’appartamento a Venezia di un collega o da una borsa di
studio a Bellagio, sul lago di Como, era sempre stato irresistibile. In molti
sensi ero come vissuto in un’isola, protetto dalle difficoltà. Non avevo mai
nemmeno avuto l’esperienza di crescita dovuta a una separazione coniugale e
al dover affrontare la solitudine in età adulta. La mia relazione con Marilyn
non era sempre stata tranquilla – e ringrazio Dio per quel po’ di Sturm und
Drang, dato che entrambi abbiamo imparato molto da quelle esperienze.
Dissi a Irene che aveva ragione e ammisi che a volte avevo invidiato le
persone che vivevano sul filo del rasoio. Le dissi che a volte mi ero
preoccupato d’aver segretamente incoraggiato i miei pazienti a tuffarsi
eroicamente in qualche impresa al posto mio.
«Però si sbaglia quando dice che non ho nessuna esperienza della
tragedia. Non posso evitare di pensare alla morte. Spesso, quando sono qui
con lei, immagino come sarebbe la mia vita se mia moglie fosse malata senza
più speranza, e ogni volta mi ritrovo colmo di una tristezza indescrivibile.
Sono consapevole, pienamente consapevole di essere in marcia verso la
morte e di essere passato a un altro stadio dell’esistenza. Tutti i segnali
dell’età – la cartilagine strappata del ginocchio, l’abbassamento della vista,
i mal di schiena, le placche senili, i capelli e la barba che diventano grigi, i
sogni sulla mia morte – mi dicono che mi sto avvicinando alla fine della mia
vita».
Lei ascoltava senza dire nulla.
«E un’altra cosa» aggiunsi. «Ho scelto di lavorare con i pazienti
terminali, sperando che mi avrebbero portato più vicino all’essenza tragica
della mia stessa esistenza. In effetti è davvero accaduto, e come conseguenza
sono tornato in terapia per tre anni».
Dopo la mia risposta, Irene annuì. Conoscevo quel gesto. Una
caratteristica sequenza di movimenti, uno brusco del mento seguito da due o
tre, affermativi, con il capo, appena accennati, il suo alfabeto Morse
somatico a indicare che avevo fornito una risposta soddisfacente. Avevo
afferrato la prima lezione, che per trattare il dolore il terapeuta non può
essere distante, ma deve incontrarsi faccia a faccia con la mortalità. E ci
furono molte altre lezioni, attorno alle quali scelsi di strutturare la storia. In
questo racconto la paziente era la vera insegnante, io ero solo un
intermediario che diffondeva le sue lezioni.

Il pezzo che mi piacque di più scrivere fu senza dubbio “La maledizione del
gatto ungherese”. In questa storia Ernest Lash (in libera uscita da Sul lettino
di Freud) tenta di analizzare Merges, un gatto vizioso che parla tedesco e sta
vivendo la sua nona e ultima vita. Merges aveva visto il mondo e, in una vita
precedente, aveva frequentato Santippe, la gatta che abitava in casa di
Heidegger: adesso stava spietatamente perseguitando Artemide, l’amante di
Ernest.
Su un piano la storia è una farsa, ma su un altro la ritengo il mio discorso
più profondo sulla morte e su come attenuarne il terrore. Scrissi la maggior
parte della storia durante una visita a Bob Berger, un caro amico dall’epoca
della facoltà di medicina che è scomparso di recente. Ambientai la storia a
Budapest e Bob, che era cresciuto in Ungheria, mi fornì nomi ungheresi per i
personaggi, le strade, i ponti e i fiumi.
Ricordo con affetto una lettura pubblica de Il senso della vita al Book
Depot di Mill Valley, dove io e mio figlio Ben, regista teatrale, leggemmo a
voce alta la conversazione tra Ernest e Merges. Non amo i discorsi
commemorativi ai funerali, ma se la mia famiglia dovesse decidere di
tenerne uno dopo la mia morte, mi piacerebbe che venisse letto quel dialogo:
rallegrerebbe l’intero evento. Quindi, per favore, Ben, recita la parte del
gatto e scegli uno dei tuoi fratelli, o uno dei tuoi attori preferiti, per recitare
la parte di Ernest.
32.
A proposito di diventare greco
Tra tutti i paesi stranieri nei quali sono state tradotte le mie opere, la Grecia,
uno dei più piccoli, ha una posizione di tutto rilievo nella mia mente. Nel
1997 Stavros Petsopoulos, il proprietario della Agra Publications, acquistò i
diritti su tutti i miei libri per la traduzione in lingua greca e ingaggiò una
coppia di coniugi, Yannis Zervas ed Evangelia Andritsanous, come
traduttori. Così ebbe inizio per la nostra famiglia una relazione lunga e
significativa. Yannis è uno psichiatra formatosi in America e un poeta
famoso in Grecia, mentre Evangelia è una psicologa clinica, oltre che una
traduttrice. Anche se la Grecia non ha mai avuto un ruolo di primo piano
nell’ambito della psicoterapia e ha una popolazione di potenziali lettori di
circa 5 milioni di persone, quello divenne immediatamente il paese dove
avevo il pubblico più vasto al mondo in rapporto alla popolazione, e in
Grecia sono noto come scrittore più che in qualsiasi altro luogo. Non sono
mai riuscito a capire il perché.
Dal primo incontro con la Grecia, quando il nostro bagaglio andò
smarrito e io e Marilyn facemmo per cinque giorni i turisti senza valigie,
abbiamo fatto altre due straordinarie visite insieme. La prima fu preceduta
da un viaggio in Turchia. Nel 1993 tenni un seminario per psichiatri
all’ospedale Bakirkoy di Istanbul, e poi condussi un gruppo di crescita
personale di due giorni con diciotto psichiatri turchi a Bodrum, un’antica
città sul Mar Egeo che è descritta da Omero come «la terra dell’eterno
azzurro». Il gruppo aveva lavorato sodo per due interi giorni e io ero molto
colpito dalla preparazione e dall’apertura mentale di molti dei suoi membri.
Dopo il laboratorio uno degli psichiatri, Ayça Cermak, con il quale sono
ancora in contatto, ci fece da guida e condusse me e Marilyn attraverso
alcune zone della Turchia occidentale, per poi riportarci a Istanbul. Da lì
prendemmo un aereo fino ad Atene e montammo su un vaporetto diretto
all’isola di Lesbo. Da tempo Marilyn si interessava a Saffo, la poetessa che
aveva vissuto lì nel settimo secolo avanti Cristo, circondata dalle sue
discepole.
Appena sceso dal vaporetto ebbi il grande piacere di adocchiare un
negozietto dove si affittavano motociclette, e così partimmo subito alla
scoperta di Lesbo su una moto dall’aria antica, ma apparentemente
funzionante. Sul finire della giornata, mentre il sole stava sprofondando nel
mare, la moto emise un ultimo rantolo e spirò proprio alle porte di un
piccolo villaggio. Non avemmo altra scelta che trascorrere la notte nelle
rovine di un alberghetto abbandonato, dove Marilyn quasi non chiuse occhio
dopo aver individuato un grosso roditore che attraversava di corsa il bagno.
A mezzogiorno del giorno successivo il negozio di moto ci fece avere con un
camion un mezzo sostitutivo, e continuammo il nostro giro attraversando
villaggi accoglienti, oziando nelle taverne, chiacchierando con gli altri ospiti
e osservando vecchi dalla barba bianca e l’aria soddisfatta che bevevano
retsina e giocavano a tavli (una sorta di backgammon).
Avevo incontrato Yannis nel 2002 a una conferenza dell’American
Psychiatric Association a New Orleans, dove avevo ricevuto il premio
Oskar Pfister per Religione e Psichiatria. Stupefatto da questo premio, avevo
chiesto al comitato come mai avessero scelto proprio me, uno scettico
convinto in ambito religioso, e mi avevano risposto che io, più della
maggioranza degli altri psichiatri, mi ero occupato di “questioni religiose”.
Dopo il mio intervento, che in seguito fu pubblicato come una monografia dal
titolo Religione e psichiatria e apparve in traduzioni greche e turche (ma
non in altre lingue), avevo pranzato con Yannis, che mi aveva presentato un
invito da parte di Stavros Petsopoulos a tenere delle conferenze ad Atene.
Un anno più tardi arrivammo ad Atene e prendemmo immediatamente un
piccolo aeroplano che in quarantacinque minuti ci portò a Syros, un’isoletta
greca nella quale Yannis ed Evangelia avevano una casa per le vacanze.
Soffrendo il jet lag, ho sempre bisogno di almeno un paio di giorni per
acclimatarmi prima di poter fare degli interventi in pubblico. Riposammo
sull’isola alloggiando in una piccola locanda nella cittadina di Hermoupolis,
e facendo colazione la mattina con croissant fatti in casa e marmellata di
fichi ottenuta dai frutti che crescevano su una pianta frondosa, sul prato
davanti alla casa. Due giorni più tardi avremmo dovuto lasciare l’isola per
partecipare a una conferenza stampa ad Atene ma, la notte prima della
partenza, il personale del vaporetto entrò in sciopero, e Stavros dovette
noleggiare un piccolo aereo a quattro posti.
Durante il breve volo fino ad Atene il pilota, che aveva letto Le lacrime
di Nietzsche, discusse animatamente con me del libro. Poi l’autista del taxi
all’aeroporto mi riconobbe e, durante la corsa, mi parlò delle parti che
preferiva di Sul lettino di Freud. All’Hilton mi ritrovai a partecipare a una
conferenza stampa con una ventina di giornalisti. Mai in precedenza, negli
Stati Uniti o in un qualsiasi altro paese, avevo tenuto una conferenza stampa.
Quello fu il momento della mia vita in cui mi ritrovai al punto più vicino alla
celebrità.
Il giorno successivo duemilacinquecento persone vennero a sentire il mio
intervento nella sala da ballo dell’albergo. L’atrio era così affollato che
riuscii a raggiungere la sala solo grazie a un tortuoso passaggio attraverso la
cucina sotterranea. Erano state ordinate soltanto novecento cuffie, e
all’ultimo momento si dovette ricorrere alla traduzione simultanea. Così
ridussi il mio intervento della metà, per favorirne la traduzione. La
traduttrice, che si era preparata su una copia scritta del mio intervento,
dapprima entrò nel panico, ma lo superò e fece un ottimo lavoro. Il pubblico
interrompeva il mio intervento con domande e commenti e alcuni
protestarono in modo così insistente e rumoroso, per quelle che giudicarono
risposte incomplete, da dover essere allontanati dalla polizia.
Dopo il discorso, mentre firmavo i libri, molti mi portarono dei doni:
miele dei loro alveari, bottiglie di vino greco fatto in casa, quadri che
avevano dipinto per l’occasione. Una cara vecchia signora insistette affinché
accettassi una moneta d’oro che i suoi genitori le avevano cucito nel
cappotto quando, da bambina, era scappata dalla Turchia.
Quella sera mi sentii esausto, gratificato e amato, e tuttavia perplesso
dalle dimensioni del consenso. C’era poco altro che potessi fare, se non
lasciarmi trascinare dalla corrente e cercare di mantenere il mio equilibrio.
Carichi di doni, facemmo ritorno alla nostra camera d’albergo, dove
trovammo un ulteriore regalo: una barca lunga più di mezzo metro, con le
vele spiegate, fatta completamente di cioccolato. Io e Marilyn la
sgranocchiammo di gusto.
Il giorno successivo dovevo firmare i libri alla libreria Hestia, un
negozietto nel centro di Atene. Prima e dopo quel giorno ho partecipato a
dozzine di incontri del genere, ma quello fu davvero un’apoteosi. La coda
fuoriusciva dal negozio e continuava per otto isolati, causando notevoli
problemi al traffico. La gente non solo comprava nuovi libri, ma si portava
dietro quelli che aveva comprato preventivamente per farmeli firmare.
Scrivere i nomi era complicato, in quanto la maggior parte mi risultava
straniera – per esempio Docia, Ianthe, Nereida, Tatiana – e difficile da
compitare. Ai clienti venne quindi chiesto di scrivere in stampatello i loro
nomi su strisce di carta gialla, che mi avrebbero consegnato assieme al libro.
Molti scattavano fotografie, ma questo rallentava la coda e quindi si pregò di
non farlo. Dopo un’ora ai clienti della libreria venne comunicato che, oltre
alle copie nuove, avrei potuto firmare un massimo di quattro libri per
ciascuno, tra quelli comprati in precedenza; un’ora più tardi diventarono tre
e quindi, un’ora dopo ancora, si ridussero a uno. Anche così l’incontro si
protrasse per quasi quattro ore, durante le quali firmai più di ottocento libri
nuovi e una quantità di gran lunga superiore di libri vecchi. Recentemente mi
è dispiaciuto molto sapere che la venerabile libreria Hestia ha dovuto
chiudere i battenti, vittima della crisi monetaria greca.
In quella coda, la maggior parte dei clienti della libreria era costituita da
donne, come sempre accade quando firmo i libri, e vissi la singolare
esperienza di almeno cinquanta deliziose donne greche che mi sussurrarono
all’orecchio: «Ti amo». Perché la cosa non mi desse alla testa, Stavros mi
prese da parte e mi disse che le donne greche usano quell’espressione di
frequente, e con un significato molto meno impegnativo delle donne
americane.

L’esperienza alla libreria Hestia mi tornò in mente dieci anni più tardi,
quando un anziano medico britannico mi chiese una consultazione.
Insoddisfatto della sua vita da scapolo e del proprio potenziale non
realizzato, aveva un atteggiamento assai ambivalente nei confronti della
richiesta di vedermi: da un lato voleva il mio aiuto, dall’altro era anche
profondamente invidioso del mio successo di scrittore, convinto com’era di
essere anch’egli dotato di un notevole talento per la scrittura. Verso la fine
della seduta raccontò una storia fondamentale che l’aveva assillato per
cinquant’anni, da quando aveva trascorso due anni in Grecia insegnando
inglese in una scuola femminile. Alla fine della cerimonia di commiato,
proprio mentre stava per andarsene, una bellissima studentessa greca gli
aveva dato un abbraccio d’addio e gli aveva sussurrato in un orecchio: «Ti
amo». Da allora lui aveva sempre pensato a quella studentessa, l’aveva
ascoltata mentre gli sussurrava quelle parole nella mente, e s’era torturato
per non aver avuto il coraggio di abbracciare la vita che gli si presentava.
Gli offrii tutto quello che ero in grado di dargli, ma sapevo bene che l’unica
cosa che non potevo dire era: «Quando le donne greche dicono “Ti amo”,
non vogliono dire quello che intendono le americane, e forse anche le
inglesi. Infatti, in un solo pomeriggio, cinquanta donne greche mi hanno
sussurrato quelle stesse parole».
Il giorno dopo l’incontro alla libreria Hestia, l’Università Panteion mi
attribuì la mia unica laurea ad honorem. Con un certo timore reverenziale mi
ritrovai davanti a un ampio pubblico in una grande sala le cui pareti erano
coperte da dipinti raffiguranti Aristotele, Platone, Epicuro ed Eschilo. La
sera successiva Marilyn parlò di questioni femminili all’Università di Atene.
La famiglia Yalom aveva di che essere soddisfatta!
La nostra visita successiva in Grecia ebbe luogo quattro anni più tardi,
nel 2009. Marilyn era stata invitata dall’Università di Ioannina per parlare
del suo libro La storia del seno. Sapendo che andavamo in Grecia, la
Fondazione Onassis mi chiese di tenere una conferenza sul mio nuovo libro,
La cura Schopenhauer, al Megaron, la più grande sala da concerto di Atene.
Quando arrivammo ad Atene ci venne offerto un giro privato del nuovo
Museo dell’Acropoli, che avrebbe aperto di lì a due settimane. All’entrata
restammo sbalorditi dai pavimenti di vetro che ci permettevano di vedere,
sotto i nostri piedi, strati su strati delle rovine di civiltà che risalivano a
migliaia di anni prima. In un altro punto del museo c’erano i marmi di Elgin,
dal nome dell’inglese che ne aveva portato all’incirca la metà dall’Acropoli
al British Museum. Le sezioni mancanti (qualcuno direbbe trafugate) erano
presentate sotto forma di calchi di gesso di un colore diverso dagli originali.
Al giorno d’oggi la restituzione delle opere d’arte ai paesi d’origine è un
problema tormentoso per tutti i musei. Tuttavia, mentre eravamo in Grecia,
non potevamo non simpatizzare per i greci.
Da Atene volammo a Ioannina, dove Marilyn era stata invitata dalla
professoressa Marina Vrelli-Zachou a tenere una conferenza all’università,
un’istituzione imponente con oltre ventimila studenti. Come sempre, quando
sentivo Marilyn parlare in pubblico, mi accomodai al mio posto tutto
contento, trattenendo l’impulso di mettermi a gridare: «Ehi, ehi, quella è mia
moglie!» Il giorno successivo i nostri ospiti ci portarono a fare un giro in
campagna fino a Dodona, un antico sito menzionato da Omero. Sedemmo a
lungo in un anfiteatro greco, in posti costruiti duemila anni prima, e poi
passeggiammo fino a un boschetto dove gli oracoli un tempo avevano
interpretato il linguaggio degli uccelli. Qualcosa di quel luogo – la sua
imponenza, la sua dignità e la sua storia – era profondamente commovente e,
a dispetto del mio scetticismo, provai il sentore, sia pur vago, del sacro.
Passeggiammo per la città di Ioannina, che sorgeva lungo la costa di un
magnifico lago, e ci ritrovammo in una sinagoga che risaliva all’epoca
romana ed era ancora in funzione come luogo di culto per la piccola
comunità ebraica della città. Durante la seconda guerra mondiale quasi tutti
gli ebrei di Ioannina erano stati uccisi, e pochi dei sopravvissuti vi avevano
fatto ritorno. Il gruppo rimasto è così esiguo che adesso la sinagoga permette
alle donne di far parte del minyan, i dieci ebrei maschi che secondo la legge
ebraica possono occuparsi dei servizi religiosi. Mentre attraversavamo il
mercato osservando i vecchi che giocavano a tavli e sorseggiavano ouzo,
inalammo gli odori meravigliosi associati a questo paese, ma un aroma
irresistibile, quello del baklava, mi attrasse in modo particolare; seguii il
mio naso fino a una panetteria, dove ne trovai due dozzine di varietà
differenti. Ancora oggi fantastico di fare un ritiro di scrittura a Ioannina,
preferibilmente nelle immediate vicinanze di quella panetteria.
Nella libreria dell’Università di Ioannina, mentre io e Marilyn firmavamo
i nostri libri, mia moglie chiese informazioni al proprietario sulla mia
popolarità presso i lettori greci. «Yalom è lo scrittore americano più
conosciuto» rispose lui. Marilyn chiese: «E Philip Roth?» «Ci piace anche
lui» fu la risposta, «ma consideriamo Yalom un greco come noi».
Negli anni i giornalisti mi hanno spesso interrogato a proposito di questa
mia popolarità in Grecia, e non sono mai stato in grado di dare loro una
risposta. So che, nonostante non parli una parola di greco, ciò nondimeno là
mi sento a casa, e persino negli Stati Uniti provo una forma di affettuosa
predisposizione nei confronti delle persone di origine greca. Sono
affascinato dalla tragedia e dalla filosofia greche, e da Omero, ma questa
non è certo una spiegazione. Potrebbe essere più un fenomeno relativo al
Medio Oriente, dato che il mio numero di lettori è elevato in modo
sproporzionato anche in Turchia, in Israele e in Iran.
Sorprendentemente ricevo con regolarità email da studenti, terapeuti e
pazienti iraniani. Non ho idea di quante copie dei miei libri siano state
vendute in lingua farsi: l’Iran è l’unico paese che pubblichi il mio lavoro
senza autorizzazione e senza pagare i diritti d’autore. I miei contatti
professionali in Iran mi dicono di conoscere bene le opere di Freud, Carl
Gustav Jung, Mortimer Adler, Carl Rogers e Abraham Maslow e che
vorrebbero avere maggiori contatti con gli psicoterapeuti occidentali.
Purtroppo, dato che non viaggio più all’estero, ho dovuto rifiutare i loro
inviti a tenere conferenze in Iran.
Nel mondo di oggi, dove i telegiornali sono pieni di notizie catastrofiche,
ci sentiamo tutti impotenti e attoniti: tuttavia, ogni volta che un conduttore
televisivo menziona la Grecia, io e Marilyn ci facciamo sempre attenti.
Proverò sempre un senso di stupore nei confronti dei greci e sarò sempre
grato di essere considerato un greco onorario.
33.
Il dono della terapia
Il libro di Rilke Lettere a un giovane poeta ha sempre occupato un posto
particolare nella mia mente: per anni avevo immaginato di scrivere un’opera
simile per i giovani terapeuti, ma non ero mai riuscito a trovare una forma e
una struttura per questo progetto. La situazione mutò nel 1999, quando io e
Marilyn visitammo i giardini Huntington a San Marino, nel sud della
California. Ci recammo laggiù per visitare quei luoghi straordinari, in
particolare il giardino giapponese con i suoi bonsai. Verso la fine della
nostra visita feci un giro per la Biblioteca Huntington e diedi un’occhiata a
una nuova esposizione, “I libri più venduti del Rinascimento inglese”. I libri
più venduti? Il titolo della mostra attirò la mia attenzione. Fui colpito dal
fatto che sei dei dieci libri più venduti del sedicesimo secolo fossero libri di
“consigli”. Per esempio Cento suggerimenti per l’agricoltura di Thomas
Tusser, del 1570, offriva per l’appunto cento consigli relativi a raccolti,
allevamento del bestiame e buona gestione della casa ai contadini e alle loro
mogli. Era stato ristampato undici volte prima della fine del secolo.
Quasi sempre i miei libri sono germogliati con calma nella mia mente,
senza che fosse possibile individuare il momento preciso del loro
concepimento. Il dono della terapia è l’unica eccezione. Prima di uscire
dalla mostra sapevo esattamente come sarebbe stato il mio prossimo libro.
Avrei scritto un libro di suggerimenti per giovani terapeuti. Mi venne in
mente il volto di una mia paziente, una scrittrice che avevo incontrato alcuni
anni prima. Dopo aver lasciato due romanzi incompiuti mi aveva annunciato
che non ne avrebbe cominciato un altro se l’idea del romanzo non fosse
andata da sola a morderle il culo. Be’, quel giorno all’Huntington il libro mi
morse il culo, così misi da parte tutto il resto e il giorno successivo
cominciai a scrivere.
Il processo fu estremamente lineare. Fin dai primi anni di lavoro alla
Stanford avevo aperto un file intitolato “Pensieri per l’insegnamento”, nel
quale inserivo idee e brevi storie tratte dalla mia attività clinica. Non feci
altro che saccheggiare quel file. Leggevo e rileggevo gli appunti finché uno
non stuzzicava la mia fantasia: allora gli davo corpo, sviluppandolo in
diversi paragrafi. I suggerimenti non erano scritti secondo un ordine
particolare, ma alla fine li esaminai con attenzione e li suddivisi in cinque
gruppi:
1. Natura della relazione terapeuta-paziente
2. Metodi per esplorare le preoccupazioni esistenziali
3. Problemi che si presentano nella conduzione quotidiana della terapia
4. Uso dei sogni
5. Rischi e privilegi di essere un terapeuta

Originariamente contavo di raccogliere un centinaio di consigli, come nei


Cento suggerimenti per l’agricoltura, ma arrivato a ottantaquattro avevo
sviscerato completamente il file. (Cominciai a ricostituirlo mentre
continuavo a incontrare pazienti, e nove anni più tardi, per una seconda
edizione, aggiunsi altri undici consigli.)
Fin dall’inizio avevo un titolo in mente per il mio libro: avrei modificato
il titolo di Rilke e l’avrei intitolato Lettere a un giovane terapeuta. Ma
mentre mi stavo avvicinando alla conclusione si verificò una coincidenza
sorprendente: la Basic Books mi invitò a partecipare a una collana didattica
intitolata Lettere a un giovane… (terapeuta, matematico, oppositore,
cattolico, conservatore, chef, e così via). Per quanto fossi legato alla Basic
Books, preferii non far parte della collana. Tuttavia, siccome si erano
appropriati del titolo di Rilke, dovevo trovarne uno nuovo. Cento
suggerimenti per i terapeuti non poteva essere utilizzato, e tutti si dissero
contrari a Ottantaquattro consigli per i terapeuti. Alla fine il mio agente,
Sandy Dijkstra, suggerì Il dono della terapia. Non ero entusiasta del titolo,
ma non me ne venne mai in mente uno migliore, e con il passare degli anni ha
cominciato a piacermi.
Scrissi il libro contrapponendomi all’approccio comportamentale
cognitivo alla psicoterapia, che proponeva testi brevi da manuale e
utilizzava il problem-solving, un approccio derivato dalle condizioni
economiche generali. Contestavo anche l’eccessiva dipendenza della
psichiatria dai farmaci. Questa battaglia continua ancora oggi, nonostante
esistano prove schiaccianti che i buoni risultati dipendono dall’intensità, dal
calore, dalla genuinità e dall’empatia della relazione terapeutica. Speravo
che Il dono della terapia potesse contribuire a preservare un approccio
umano e solidale alla sofferenza psicologica.
A questo scopo, ho fatto ricorso intenzionalmente a un linguaggio
provocatorio, con digressioni in cui dico agli studenti esattamente l’opposto
di quanto molti di loro si sono sentiti raccontare nei programmi
d’addestramento di orientamento comportamentale. «Evitate le diagnosi»,
«Create una nuova terapia per ciascun paziente», «Lasciate che il paziente
sia importante per voi», «Uno schermo vuoto? Scordatevelo. Siate reali»,
«Controllate il “qui-e-ora” nel corso di ogni seduta».
Diverse sezioni de Il dono della terapia sottolineano l’importanza
dell’empatia e trasmettono l’antico sentimento del commediografo romano
Terenzio, secondo il quale: «Sono umano, e nulla che sia umano mi è
estraneo». Una sezione, intitolata “Empatia: guardate dal finestrino del
paziente”, racconta una delle mie storie cliniche predilette. Nel corso
dell’adolescenza una delle mie pazienti era rimasta intrappolata in una lotta
lunga e amara con un padre che era sempre in disaccordo su tutto.
Desiderosa di una riconciliazione e di un nuovo inizio della loro relazione,
aveva atteso con ansia il momento in cui il padre l’avrebbe accompagnata in
macchina al college, una rara occasione in cui loro due soli avrebbero
viaggiato assieme per diverse ore. Ma il viaggio tanto atteso si era rivelato
un disastro: il padre s’era comportato secondo il suo solito, continuando a
brontolare contro il torrente sporco e pieno d’immondizia che costeggiava la
strada. Lei, d’altro canto, non vedeva alcuna spazzatura nel magnifico corso
d’acqua che scorreva alla sua destra, rustico e incontaminato. Aveva quindi
lasciato perdere il padre e si era chiusa nel silenzio, e i due avevano
trascorso il resto del viaggio (e delle loro vite) distogliendo lo sguardo
l’uno dall’altra. Molti anni dopo le capitò di percorrere lo stesso tratto di
strada, e rimase stupefatta notando che c’erano due torrenti, uno lungo
ciascun lato della strada. «Questa volta ero io a guidare» disse tristemente,
«e il torrente che vedevo attraverso il finestrino sul lato del guidatore era
sporco e inquinato proprio come mio padre l’aveva descritto». Ma quando
aveva guardato fuori dal finestrino del padre, era ormai troppo tardi, perché
lui era morto e sepolto. «Quindi, guardate fuori dal finestrino del vostro
paziente» intimo ai terapeuti. «Cercate di vedere il mondo come lo vede
lui».
Rileggere ora Il dono della terapia mi fa sentire piuttosto esposto: tutte le
mie strategie preferite e le mie reazioni sono lì, e chiunque le può vedere. Di
recente una paziente si è messa a piangere nel mio studio e le ho detto: «Se
quelle lacrime potessero parlare, che cosa direbbero?» Quando ho riletto il
libro e ho visto quelle stesse parole in uno dei miei consigli, mi sono sentito
come se mi fossi plagiato da solo (e ho sperato che lei non l’avesse letto).
Alcuni consigli incoraggiano i terapeuti a essere onesti e ad ammettere i
propri errori. Non è il fatto di commettere errori a essere importante, è
l’uso che se ne fa. Diversi consigli incoraggiano gli studenti terapeuti a
usare il “qui-e-ora”, ovvero a restare focalizzati su quello che sta avvenendo
all’interno della relazione terapeuta-paziente.
L’ultimo consiglio de Il dono della terapia, “Abbiate cura delle
prerogative professionali”, mi tocca in modo particolare: mi viene chiesto
spesso perché, all’età di ottantacinque anni, io continui a lavorare. Il
consiglio numero ottantacinque (ed è una pura coincidenza che io abbia
ottantacinque anni) comincia con una semplice dichiarazione: il lavoro con i
miei pazienti arricchisce la mia vita in quanto le dà un significato. È raro
che senta dei terapeuti lamentarsi di una mancanza di senso nella vita.
Viviamo vite di servizio nelle quali fissiamo i nostri sguardi sui bisogni
altrui. Ci dà piacere non solo aiutare i nostri pazienti a cambiare, ma anche
sperare che i loro cambiamenti continuino a estendersi agli altri, andando
oltre le singole persone.
Siamo anche privilegiati dal nostro ruolo di “custodi” di segreti, dei quali
ogni giorno i pazienti ci onorano e che spesso non hanno mai condiviso in
precedenza. I segreti offrono una visione particolare della condizione umana,
priva di fronzoli sociali, giochi di ruolo, spavalderie o atteggiamenti
istrionici. Divenire i custodi di simili segreti è un privilegio riservato a
pochi. A volte i segreti mi colpiscono profondamente e, quando me ne torno
a casa, abbraccio mia moglie e faccio l’elenco delle fortune che ho avuto.
Inoltre il nostro lavoro ci dà l’opportunità di trascendere noi stessi e
affrontare la conoscenza vera e tragica della condizione umana. Ma ci viene
offerto persino di più. Diventiamo esploratori immersi nella più grandiosa
delle ricerche: lo sviluppo e la manutenzione della mente umana. Mano nella
mano con i nostri pazienti, assaporiamo il piacere della scoperta,
quell’esperienza stupefacente in cui frammenti disparati di idee
all’improvviso si compongono senza difficoltà in un tutto coerente. A volte
mi sento come una guida che stia scortando gli altri attraverso le stanze della
loro casa. Che piacere osservarli aprire le porte di stanze nelle quali non
erano mai entrati e scoprire zone mai aperte, piene di pezzi magnifici e
creativi della loro identità.
Recentemente ho partecipato a una messa di Natale nella cappella della
Stanford e ascoltato un sermone del reverendo Jane Shaw, che sottolineava
l’importanza vitale dell’amore e della compassione. Sono rimasto commosso
dal suo invito a mettere in pratica tali sentimenti ogni volta che ci è
possibile. Gli atti di attenzione e di generosità nei confronti degli altri
possono arricchire qualsiasi ambiente nel quale ci ritroviamo a vivere.
Le sue parole mi hanno motivato a riconsiderare il ruolo dell’amore nella
mia professione. Mi sono reso conto di non aver mai, nemmeno una volta,
usato le parole amore o compassione nei miei discorsi sulla pratica della
psicoterapia. È un’omissione enorme, che adesso desidero emendare, perché
so di sperimentare regolarmente amore e compassione nel mio lavoro di
terapeuta e di fare tutto quello che posso per aiutare i pazienti a liberare il
loro amore e la loro generosità nei confronti degli altri. Se non sperimento
tali sentimenti nei confronti di un dato paziente, allora è improbabile che
possa essergli di qualche aiuto. Quindi cerco di stare all’erta nei confronti
dei miei sentimenti d’amore o di assenza d’amore verso chi si rivolge a me.

In tempi recenti ho cominciato a lavorare con Joyce, una giovane donna


depressa e piena di rabbia che si sta riprendendo da una serie di operazioni
per un gravissimo cancro. Appena aveva messo piede nel mio studio avevo
percepito il suo terrore, e il mio cuore si era sentito solidale. Tuttavia, nel
corso delle prime sedute, non mi ero percepito molto vicino a lei perché,
anche se era ovviamente tormentata, comunicava tuttavia il messaggio di
avere tutto sotto controllo. E mi sentivo confuso dalle sue lamentele in
qualche modo contraddittorie: una settimana parlava con amarezza delle
abitudini irritanti di vicini e amici, e la settimana successiva deplorava il
proprio isolamento. Mancava qualcosa, e ogni settimana, quando pensavo
alla nostra seduta successiva, provavo un sussulto. A volte consideravo
l’idea di inviarla da un altro terapeuta, ma la bocciavo perché Joyce aveva
letto molti dei miei libri e fin dall’inizio aveva messo in chiaro di essere già
stata da molti terapeuti, e che io costituivo la sua ultima risorsa.
Durante la terza seduta accadde qualcosa: all’improvviso mi venne in
mente che aveva una notevole somiglianza fisica con Aline, la moglie di un
mio buon amico, e in diverse occasioni ebbi la fuggevole, curiosa sensazione
di pensare di star parlando con Aline, non con Joyce. Ogni volta che
accadeva, dovevo bruscamente riportarmi alla realtà. Anche se attualmente
andavo abbastanza d’accordo con Aline, in un primo tempo l’avevo trovata
scostante e sgradevole. Non fosse stata la moglie di un amico, l’avrei
evitata. Possibile, cominciai a chiedermi, che in qualche strana maniera il
mio inconscio avesse trasposto parte della mia irritazione nei confronti di
Aline su Joyce?
Joyce diede inizio alla quarta seduta in modo insolito. Dopo un breve
silenzio disse: «Non so da dove cominciare». Sapendo che per noi era
imperativo focalizzarci sulla nostra relazione problematica risposi: «Mi dica
come si è sentita alla fine del nostro incontro precedente».
In passato aveva evitato queste mie richieste, ma quel giorno mi stupì:
«Esattamente come mi sono sentita dopo ciascuna delle nostre sedute: mi
sono sentita malissimo. Completamente confusa. Ne ho sofferto per ore».
«Mi spiace sentire una cosa simile, ma provi a dire di più, Joyce.
Sofferto in che modo?»
«Lei sa così tante cose. Scrive tutti quei libri. È per questo che l’ho
contattata. Lei è saggio. E io mi sento così inferiore. So che pensa che sono
una nullità. Sono sicura che sappia tutto del mio problema e che non mi dica
di cosa si tratta».
«Vedo quanto questo sia doloroso per lei, Joyce, ma al tempo stesso sono
lieto che mi stia parlando onestamente: è esattamente quello che dobbiamo
fare».
«Allora perché non mi dice cos’è che non va? Qual è il mio problema?
Come posso risolverlo?»
«Lei mi concede troppo credito. Non so quale sia il suo problema. Ma
quello che so è che possiamo scoprirlo insieme. E so pure che ha paura ed è
arrabbiata. E, considerando ciò attraverso cui è passata, posso capirlo: mi
sentirei così anch’io. Posso aiutarla, se continuiamo a lavorare come oggi».
«Ma perché mi sento in questo modo? Perché mi sembra di non valere il
suo tempo? Perché sto peggiorando?»
Sapevo cosa dovevo fare, e mi lanciai. «Lasci che le dica una cosa che
per lei potrebbe essere importante». Esitai; si trattava di un’autorivelazione
pesante, e mi sentivo molto insicuro di me. «Lei assomiglia notevolmente
alla moglie di uno dei miei amici più cari, e durante la nostra ultima seduta
ci sono state un paio di volte in cui, per qualche istante, ho avuto lo strano
pensiero che fosse quella donna, e non lei, a essere seduta qui davanti a me.
Anche se adesso sono in rapporti amichevoli con questa persona, nei primi
tempi non andavo molto d’accordo con lei. La trovavo tagliente e
sgradevole, e non mi faceva piacere stare in sua compagnia. Le sto dicendo
queste cose perché – e so che questo può suonare strano, e ne provo
imbarazzo – potrei aver inconsciamente comunicato a lei questi sentimenti
che appartengono in realtà a un’altra persona. E credo che lei possa averlo
percepito».
Rimanemmo in silenzio per alcuni momenti, quindi aggiunsi: «Tuttavia,
Joyce, voglio essere chiaro, questo non è quello che provo nei suoi
confronti. Sono completamente dalla sua parte. Provo solo compassione e mi
sento impegnato ad aiutarla».
Joyce sembrava esterrefatta, e le lacrime cominciarono a scorrerle lungo
le guance. «La ringrazio per questo dono. Ho incontrato molti strizzacervelli,
ma questa è la prima volta che uno di loro abbia condiviso qualcosa di
personale con me. Non voglio andarmene dal suo studio quest’oggi, voglio
parlare con lei per le prossime dodici ore. Mi sento bene».
La paziente aveva accolto la mia rivelazione nello spirito con cui
gliel’avevo offerta, e da quella volta ogni cosa cambiò. Lavorammo bene e
duramente, e aspettavo con ansia ciascuno dei nostri incontri. Come definire
il mio intervento? Credo si sia trattato di un atto di compassione, un atto
d’amore. Non riesco a trovare altre parole per descriverlo.
34.
Due anni con Schopenhauer
Le mie letture filosofiche sono sempre state concentrate sulla
Lebensphilosohie, la scuola dei pensatori interessati al significato e ai
valori della vita. Tra loro sono inclusi molti antichi greci, Kierkegaard,
Sartre e, naturalmente, Nietzsche. Solo in seguito scoprii Arthur
Schopenhauer, le cui idee sull’influsso inconscio della pulsione sessuale
anticiparono in parte le teorie di Freud. Secondo me Schopenhauer preparò
il terreno per la nascita della psicoterapia. Come dice Philip, un personaggio
del mio romanzo La cura Schopenhauer: «Senza Schopenhauer non avrebbe
potuto esserci Freud».
Schopenhauer era una persona intrattabile, impavida ed eccessivamente
isolata; un Don Chisciotte del diciannovesimo secolo, che attaccava
qualsiasi forma di autorità, compresa la religione. Era anche un uomo
tormentato, e la sua infelicità, il pessimismo e la misantropia indomabile gli
procurarono molta dell’energia che sta alla base della sua opera. Si
consideri la sua concezione delle relazioni umane nella famosa parabola dei
porcospini: l’aria fredda spinge i porcospini a raggrupparsi per trovare
calore, ma stando vicini si pungono a vicenda con i loro aculei. Alla fine
scoprono che la cosa migliore è rimanere a una certa distanza l’uno
dall’altro. Così il miglior consiglio per un uomo che (come Schopenhauer)
abbonda di calore interiore è quello di mantenersi a una buona distanza dagli
altri.
La prima volta che incontrai Schopenhauer fui mandato al tappeto dal suo
profondo pessimismo. Mi chiedevo come, data una simile disperazione,
avesse potuto continuare a pensare e a lavorare. Con il tempo arrivai a
capire che credeva che la comprensione potesse alleggerire il peso persino
dell’individuo più disgraziato. Anche se siamo esseri effimeri, traiamo
piacere dalla comprensione, persino quando la conoscenza rivela i nostri
impulsi più meschini e ci mette di fronte alla brevità della vita. In Sulla
vanità dell’esistenza ebbe a scrivere:
Un uomo non è mai felice, ma trascorre la sua intera esistenza cercando di conquistare qualcosa che
pensa lo possa rendere tale; raramente ottiene il suo scopo e, quando lo fa, è solo per essere deluso; alla
fine è per lo più costretto al naufragio, e giunge in porto con l’albero e le vele distrutte. E poi è lo stesso
se è stato felice o miserabile; perché la sua vita non era mai stata nulla più di un momento presente che
sempre svanisce, e adesso è finita.

In aggiunta a un pessimismo così estremo, Schopenhauer era tormentato da


un’intensa pulsione sessuale, e la sua incapacità di relazionarsi agli altri con
modalità che non fossero sessuali lo condannò a un cronico cattivo umore.
Solo durante l’infanzia, prima che la sessualità si risvegliasse, e negli anni
avanzati, quando i suoi appetiti si attenuarono, sperimentò la felicità. Per
esempio, nella sua opera principale, Il mondo come volontà e
rappresentazione, scrisse:
Solo perché la terribile attività del sistema genitale ancora sonnecchia, mentre quella del cervello ha già
raggiunto la sua piena attività, l’infanzia è l’epoca dell’innocenza e della felicità, il paradiso della vita,
l’Eden perduto al quale volgeremo lo sguardo con desiderio per tutta la durata dell’esistenza che ci resta
da vivere.

Ma in Schopenhauer non si troverà alcuna asserzione positiva: il suo


pessimismo rimane inesorabile.
Alla fine della vita nessun uomo, se è sincero e in possesso delle proprie facoltà, potrà mai desiderare di
riviverla. Piuttosto preferirà scegliere una forma di completa non esistenza.

Più cose imparavo su Arthur Schopenhauer, più trovavo tragica la sua vita:
che cosa triste che uno dei nostri grandi geni fosse stato così inesorabilmente
tormentato. Mi sembrava un uomo che avesse il disperato bisogno di una
terapia. La sua relazione con i genitori ricorda un desolato dramma edipico.
Dapprima aveva fatto infuriare il padre rifiutandosi di entrare nelle attività
commerciali della famiglia. Adorava la madre, una scrittrice popolare, e
quando il padre si suicidò il sedicenne Arthur fu così insistente nei suoi
tentativi di possederla e controllarla che lei, alla fine, arrivò a interrompere
i loro rapporti, rifiutandosi di vederlo per gli ultimi quindici anni della sua
vita. Lui era a tal punto terrorizzato dall’idea di essere sepolto prima di
essere completamente morto che nel testamento ordinò di non essere messo
sotto terra prima di diversi giorni, fino a quando il fetore del corpo non
avesse appestato la campagna circostante.
Mentre meditavo sulla sua triste esistenza, cominciai a chiedermi se
Schopenhauer avrebbe potuto essere aiutato dalla psicoterapia. Se mi avesse
consultato, sarei stato in grado di procurargli un qualche conforto?
Cominciai a immaginare scene della nostra terapia, e a poco a poco prese a
delinearsi il contorno di un romanzo su Schopenhauer.
Schopenhauer in analisi: provate a immaginare una cosa simile! Oh, sì, sì,
che pensiero delizioso e stimolante! Ma chi avrebbe potuto fargli da
terapeuta? Schopenhauer era nato nel 1788, più di un secolo prima dei vagiti
iniziali della psicoterapia. Per settimane presi in considerazione l’idea di un
ex gesuita caritatevole e colto, con una preparazione filosofica, che avrebbe
potuto offrirgli dei ritiri di meditazione intensiva che Schopenhauer avrebbe
potuto accettare di frequentare. L’idea non era del tutto da buttar via. A
quell’epoca c’erano centinaia di gesuiti disoccupati: il papa aveva sciolto
l’ordine nel 1773 e non l’avrebbe ripristinato che dopo quarantun anni. Ma
quella trama non arrivò mai a concretizzarsi, e abbandonai l’idea.
Decisi invece di creare un clone di Schopenhauer, un filosofo
contemporaneo dotato della stessa intelligenza, interessi e caratteristiche
(inclusi la misantropia, la compulsione sessuale e il pessimismo). E così
venne concepito il personaggio di Philip. Avrei collocato Philip nel
ventesimo secolo, quando la psicoterapia era facilmente accessibile. Ma che
genere di terapia poteva essere la più efficace per lui? Problemi
interpersonali così acuti reclamavano a gran voce una terapia di gruppo. E il
terapeuta di gruppo? Avevo bisogno di una persona esperta e abile, così
creai Julius, un medico saggio, anziano, con un approccio alla terapia di
gruppo simile al mio.
Poi creai gli altri personaggi (i membri della terapia di gruppo), inserii
Philip nel gruppo e lasciai che tutti fossero liberi di interagire tra loro. Non
seguivo formule prestabilite: mi limitavo a registrare l’azione mentre si
sviluppava nella mia immaginazione.
Provate a pensarci! Un clone di Schopenhauer entra in un gruppo di
terapia, mette tutti in subbuglio, sfida il leader e fa infuriare gli altri membri,
ma in ultimo passa attraverso un cambiamento radicale. Pensate al messaggio
che avrei mandato alle persone del mio ambiente: se la terapia di gruppo
poteva aiutare Arthur Schopenhauer, un arci-pessimista e il misantropo più
accanito di qualsiasi epoca, allora la terapia di gruppo era in grado di
aiutare chiunque!
In seguito, quando il romanzo fu finito, mi resi conto che avrebbe potuto
essere un utile strumento didattico per addestrare i terapeuti di gruppo, e in
molte sezioni della quinta edizione del libro di testo sulla terapia di gruppo
rimando gli studenti a varie pagine del romanzo, dove è possibile trovare la
drammatizzazione di alcuni principi terapeutici.
Scrissi il romanzo in maniera insolita, alternando capitoli in cui venivano
descritti gli incontri di terapia di gruppo a capitoli che delineavano una
biografia psicologica di Schopenhauer. Ho il sospetto che molti lettori siano
rimasti perplessi da questa struttura particolare, e persino durante la stesura
dell’opera sapevo di aver scelto un amalgama complicato. Ciò nonostante
credevo che un riassunto della vita di Schopenhauer avrebbe aiutato il
lettore a capire Philip, il suo doppio. Ma questa è solo una parte della
spiegazione: confesso di essere rimasto a tal punto affascinato dall’opera,
dalla vita e dalla psiche di Schopenhauer da non potermi lasciar sfuggire
l’occasione di speculare sulla formazione del suo carattere. Né potevo
resistere all’idea di esplorare le modalità con le quali Schopenhauer aveva
anticipato Freud e preparato la scena per la psicoterapia.
Credo che questo libro sia la migliore dimostrazione dell’efficacia della
terapia di gruppo che io abbia mai scritto. Julius era il terapeuta che avevo
sempre cercato di essere. Nel libro, tuttavia, viene colpito da un melanoma
maligno non operabile. Nonostante la malattia, continua a trovare un
significato alla sua vita, persino in prossimità della morte, nel tentativo di
migliorare le vite di tutti i membri del gruppo. È aperto, generoso,
concentrato sul “qui-e-ora”, e mette a disposizione tutta l’energia che gli
rimane per aiutare i membri a esplorare le loro relazioni reciproche e ad
apprendere cose su loro stessi.
Scegliere il titolo del romanzo fu insolitamente indolore: appena La cura
Schopenhauer si presentò alla mia mente, subito l’adottai. Mi piacque il suo
doppio senso: all’uomo Schopenhauer viene offerta una cura, e il pensatore
Schopenhauer offre una cura a tutti noi.
Vent’anni dopo la pubblicazione il romanzo è ancora piuttosto vivo. Una
casa di produzione ceca ne sta preparando una versione cinematografica. La
cura Schopenhauer ha anche anticipato l’ambito della filosofia clinica,
come sono venuto a sapere da persone eminenti impegnate in questa
disciplina.
Diversi anni fa, al convegno annuale dell’American Group Psycotherapy
Association a San Francisco, un vasto pubblico di terapeuti di gruppo
assistette per mezza giornata allo spettacolo di attori che recitavano le parti
dei membri del gruppo del romanzo, guidati da Molyn Leszcz, un mio ex
allievo e coautore della quinta edizione del libro di testo sulla terapia di
gruppo. Mio figlio Ben aveva selezionato gli attori, diretto la produzione e
recitato la parte di uno dei personaggi. Gli attori non avevano un copione,
ma erano stati preparati a immaginarsi in un gruppo di terapia, a rimanere
all’interno del loro personaggio e a interagire spontaneamente con gli altri
membri. Io partecipavo alle discussioni dedicate a vari segmenti di
quest’interazione. Un altro dei miei figli, Victor, preparò un film dell’evento
e ne ha tratto un video disponibile sul suo sito web. Per me fu un grande
piacere potermi sedere comodamente e guardare i personaggi che avevo
immaginato interagire in carne e ossa.
35.
Fissando il sole
Mia sorella Jean morì mentre stavo scrivendo quel libro. Maggiore di me di
sette anni, Jean era un’anima gentile e le volevo molto bene. Da adulti lei
aveva vissuto sulla costa est, io su quella ovest, ma ci eravamo sempre
telefonati ogni settimana, e ogni volta che andavo a Washington alloggiavo
da lei e Morton, suo marito, un cardiologo sempre generoso e accogliente.
Jean aveva sviluppato una demenza con episodi di aggressività e durante
la mia ultima visita a Washington, poche settimane prima che morisse, non mi
aveva riconosciuto. Sentendo di averla già persa, non fui scosso dalla notizia
della sua morte, per lo meno non a livello conscio. L’accolsi invece come
una liberazione per lei e per la sua famiglia, e il giorno successivo io e
Marilyn volammo a Washington per partecipare al funerale.
Avevo avuto l’intenzione di cominciare il mio discorso funebre
raccontando la storia del funerale di nostra madre a Washington, quindici
anni prima. In quell’occasione avevo cercato di renderle onore cuocendo il
kichel, un dolce del vecchio continente che avrebbe dovuto essere servito
alla famiglia riunita dopo il funerale. Il mio kichel aveva un bell’aspetto e un
profumo meraviglioso ma, ahimè, era completamente insapore. Avevo
seguito la ricetta di mia madre, ma mi ero dimenticato di metterci lo
zucchero! Jean era sempre stata gentile e generosa e il motivo per cui volevo
raccontare quella storia era per sottolineare la dolcezza di lei, dicendo che,
se avessi preparato il kichel per lei, non avrei mai potuto dimenticare lo
zucchero. Ma, anche se ero arrivato al funerale del tutto composto e
inconsapevole del dolore profondo che provavo, non ressi durante il
discorso e me ne tornai al mio posto senza portarlo a termine.
Il mio posto era nella prima fila, abbastanza vicino da poter toccare la
semplice bara di legno di mia sorella. Quando forti raffiche di vento si
levarono e infuriarono sul cimitero, la bara cominciò a muoversi. Nonostante
tutta la mia razionalità non potei togliermi dalla mente il pensiero bizzarro
che mia sorella stesse cercando di uscire dalla bara, e dovetti lottare contro
l’istinto di scappare via dal cimitero. Tutta l’esperienza che avevo avuto con
la morte, tutti i pazienti che avevo accompagnato fino alla fine, tutto il mio
supremo distacco e la razionalità espressa sull’argomento della morte: tutto
evaporò davanti al mio terrore.
Questo episodio mi sconvolse. Avevo cercato per decenni di
comprendere e migliorare la mia personale angoscia nei confronti della
morte. Avevo messo in scena queste paure nei miei romanzi e nelle mie
storie e le avevo proiettate in personaggi letterari. Ne La cura
Schopenhauer Julius, il leader del gruppo, annuncia di aver ricevuto una
diagnosi infausta, e i membri del gruppo tentano di consolarlo. Una di loro,
Pam, cerca di offrirgli conforto citando un passo dalle memorie di Vladimir
Nabokov, Parla, ricordo, in cui si descrive la vita come una scintilla tra due
identiche pozze di oscurità, una prima della nascita e l’altra dopo la morte.
Immediatamente Philip, il clone e accolito di Schopenhauer, risponde nel
suo solito modo condiscendente, dicendo: «Nabokov ha indubitabilmente
preso l’idea da Schopenhauer, il quale sosteneva che dopo la morte saremo
quello che eravamo prima della nascita e da qui procedeva per dimostrare
l’impossibilità che ci fosse più di una qualità di non essere».
Pam, furiosa con Philip, ribatte: «Tu pensi che Schopenhauer una volta
abbia detto qualcosa di vagamente simile. Cazzo, davvero interessante!»
Philip chiude gli occhi e comincia a declamare: «D’un tratto si esiste, con
nostra meraviglia, dopo non essere stati per innumerevoli millenni, e dopo
breve tempo si deve non essere per un periodo altrettanto lungo». Cito dal
saggio di Schopenhauer Aggiunte alla dottrina della nullità dell’esistenza.
È abbastanza vago per te, Pam?»

Parlo di questo episodio per ciò che non vi è incluso: e precisamente che le
affermazioni di Schopenhauer e Nabokov si rifanno entrambe a Epicuro, un
antico filosofo greco che sosteneva che la fonte primaria della miseria
umana fosse la nostra onnipresente paura della morte. Per alleviare questa
paura, Epicuro sviluppò una serie di potenti argomentazioni secolari per i
discepoli della sua scuola ad Atene e stabilì che le imparassero così come si
memorizza il catechismo. Una di queste è la famosa “argomentazione della
simmetria”, che sostiene che la nostra condizione di non essere dopo la
morte è identica alla nostra condizione prima della nascita, e tuttavia il
pensiero del nostro stato “prima di essere” non è mai associato all’angoscia.
Nel corso delle varie epoche i filosofi hanno attaccato
quest’argomentazione, e tuttavia per me è magnifica nella sua semplicità e
racchiude ancora un valore considerevole. Ha offerto conforto a molti miei
pazienti, e anche a me.
Mentre leggevo vari testi sulle argomentazioni di Epicuro per disperdere
il terrore della morte, un’idea formidabile per un nuovo libro mi esplose
nella testa e mi affascinò per parecchi mesi. Ecco l’idea. Un incubo
raccapricciante terrorizza un uomo: in una foresta, al calare della notte, è
inseguito da una bestia terrificante. L’uomo corre fino a quando non ne può
più; inciampa, sente che la creatura gli piomba addosso e si rende conto che
si tratta della sua morte. Si sveglia urlando, con il cuore che batte
all’impazzata, fradicio di sudore. Salta fuori dal letto, si veste in fretta,
abbandona di corsa la camera e la casa dove abita e parte alla ricerca di
qualcuno – un anziano, un pensatore, un guaritore, un prete, un medico –,
chiunque lo possa aiutare per questo suo terrore della morte.
Immaginai un libro formato da otto o nove capitoli, ciascuno che iniziava
con l’identico primo paragrafo: l’incubo, il risveglio e la partenza alla
ricerca di aiuto per il terrore della morte. Tuttavia ciascun capitolo sarebbe
stato ambientato in un secolo diverso! Il primo l’avrei ambientato nel III
secolo avanti Cristo, ad Atene, e il sognatore si sarebbe precipitato
all’agorà, la zona di Atene dov’era situata la maggior parte delle grandi
scuole filosofiche. Sarebbe passato accanto all’Accademia, fondata da
Platone e ora diretta da suo nipote Speusippo; accanto al Liceo, la scuola di
Aristotele; accanto alle scuole degli stoici e dei cinici, e alla fine avrebbe
raggiunto la sua destinazione, il giardino di Epicuro, dove, al levar del sole,
gli sarebbe stato permesso di entrare.
Un altro capitolo avrebbe potuto essere ambientato all’epoca di
Sant’Agostino, un terzo durante la Riforma, un quarto alla fine del
diciottesimo secolo, all’epoca di Schopenhauer; uno ai giorni di Freud, un
altro forse ai tempi di Sartre o di Camus, e altri ancora magari in un paese
musulmano e in un paese buddhista.
Una cosa alla volta. Decisi di scrivere l’intero episodio della Grecia di
Epicuro nel 300 a.C. e poi di rivolgermi a ciascuno dei periodi di tempo
successivi. Per mesi feci ricerche sui dettagli della vita quotidiana nella
Grecia di quell’epoca, relativi all’abbigliamento, alla colazione, alle
abitudini di tutti i giorni. Studiai testi storici e filosofici antichi e moderni,
lessi romanzi ambientati nell’antica Grecia (di Mary Renault e di altri
scrittori), e alla fine giunsi alla triste consapevolezza che per le ricerche
necessarie a scrivere questo e i capitoli successivi avrei impiegato il resto
della vita. Con grande rammarico abbandonai l’idea. È stato l’unico progetto
di libro che ho cominciato senza riuscire a portarlo a termine.

Decisi invece di discutere dell’opera di Epicuro in un’opera non di narrativa


sull’angoscia della morte e quel libro gradualmente si trasformò in Fissando
il sole, pubblicato nel 2008. Lì delineo i miei pensieri riguardo alla morte,
come sono emersi dalla pratica clinica con pazienti sani e malati terminali. Il
titolo del libro viene da una massima del diciassettesimo secolo di François
de La Rochefoucauld: «Né il sole né la morte si possono guardare fisso».
Anche se utilizzo la massima nel titolo, ne sfido la verità nel testo, ribadendo
che molte cose positive possono derivare dal guardare fisso la morte.
Illustro quest’idea non solo con racconti clinici, ma anche letterari. Per
esempio, Ebenezer Scrooge nel Canto di Natale di Dickens all’inizio della
storia è una creatura miserabile e isolata, ma al momento della conclusione è
un uomo gentile, generoso e amato. Da dove gli viene questa trasformazione?
Dickens ha fornito a Scrooge una bella dose di shock esistenziale quando il
Fantasma del Natale a Venire gli permette di contemplare la propria tomba e
di leggere il proprio nome sulla lapide.
Attraverso Fissando il sole il confronto con la morte serve da esperienza
di risveglio, un’esperienza che ci insegna a vivere in modo più pieno. I
terapeuti sensibilizzati su questo processo la incontrano spesso. Come ho
avuto modo di dire in precedenza, nella mia pratica clinica consiglio spesso
ai pazienti di tracciare una linea su un foglio di carta e immaginare che un
capo della linea rappresenti la loro nascita, e l’altro capo la morte. Chiedo
poi di indicare dove si trovano al momento su quella linea, e di meditare per
qualche istante al riguardo. Il film La cura di Yalom comincia con la mia
voce che consiglia questo esercizio.
Durante il tirocinio come psichiatra non ho mai sentito discutere della
morte nei seminari di terapia o nell’esame dei casi. Era come se il campo
seguisse ancora il consiglio di Adolf Meyer, il venerabile decano degli
psichiatri americani: «Non andate a grattare dove non c’è prurito»; in altre
parole, non sollevate argomenti problematici a meno che non lo faccia il
paziente, specialmente in aree che possono essere al di là della nostra
capacità di mitigarne l’angoscia. Io ho assunto la posizione contraria:
siccome il prurito della morte è continuo, si ottengono molti vantaggi
aiutando i pazienti a esplorare il proprio atteggiamento nei suoi confronti.
Concordo totalmente con il romanziere esistenzialista ceco Milan
Kundera, che scrisse che l’atto del dimenticare ci offre un assaggio della
morte. In altre parole, quello che ci terrorizza della morte non è solo la
perdita del futuro, ma anche quella del passato. Mentre rileggo i miei libri,
spesso mi capita di dimenticare i volti e i nomi dei pazienti di cui ho scritto:
li ho mascherati così bene che non sono in grado di riconoscerli. A volte
provo pena se penso a tutte le ore colme di strazio e intimità che ho trascorso
con individui che adesso sono perduti per la mia memoria.
Credo che l’angoscia della morte sia alla base dei tormenti di cui si
lamentano molti pazienti. Pensate, per esempio, allo sconforto che
s’accompagna ai compleanni importanti (trenta, quaranta, cinquant’anni), che
ci rammentano l’inesorabile scorrere del tempo. Di recente ho incontrato una
paziente che mi ha descritto diverse notti di terribili incubi. In uno di questi
un intruso minacciava la sua vita; in un altro si era sentita cadere nel vuoto.
Di sfuggita menzionò il fatto che stava per compiere cinquant’anni, e che
aveva il terrore della festa che la famiglia le avrebbe organizzato. Le intimai
di esplorare tutto quello che significava per lei avere cinquant’anni. Disse
che sentiva che i cinquant’anni rappresentavano davvero la vecchiaia, e
rammentò come sua madre sembrasse vecchia a quell’età. Entrambi i genitori
erano morti a sessant’anni inoltrati, così lei sapeva che adesso i due terzi
della sua vita erano passati. Prima d’incontrarmi non aveva mai parlato
apertamente di come avrebbe potuto morire, dei suoi funerali o della sua
fede religiosa, e anche se le nostre sedute erano dolorose, credo che
demistificare il processo in ultima analisi le abbia offerto un sollievo.
L’angoscia della morte si nasconde in molte pietre miliari della nostra vita –
nella sindrome del nido vuoto, nella pensione, nella crisi della mezza età,
nelle riunioni con gli ex compagni di scuola –, come pure nel nostro dolore
per la morte degli altri. Credo che la maggior parte degli incubi sia
governata dall’angoscia della morte che è riuscita a fuggire dal suo recinto.
Adesso, mentre scrivo queste righe, dieci anni dopo aver terminato
Fissando il sole, dieci anni più vicino alla mia morte, non credo che potrei
trattare l’argomento in modo altrettanto spassionato. Nel corso dell’ultimo
anno non ho perso solo mia sorella, ma anche tre dei miei più vecchi e cari
amici: Herb Kotz, Larry Zaroff e Bob Berger.
Larry e Herb erano miei compagni di classe al college e alla facoltà di
medicina. Eravamo compagni alle lezioni di anatomia, quando dovevamo
dissezionare un cadavere, e durante il tirocinio abitavamo assieme. Noi tre
con le nostre mogli eravamo andati in vacanza insieme in molti luoghi: sui
monti Pocono, sulla costa orientale del Maryland, nella Hudson Valley, a
Capo May e nella Napa Valley. Amavamo i giorni e le notti trascorse
assieme parlando, andando in bicicletta, giocando e condividendo i pasti.
Larry aveva fatto una lunga carriera come chirurgo cardiologo a
Rochester, New York; poi, dopo trent’anni di pratica, aveva cambiato
settore, prendendo un dottorato di ricerca in storia della medicina alla
Stanford. Negli ultimi anni aveva insegnato letteratura agli studenti laureandi
e a quelli della facoltà di medicina, prima di morire improvvisamente per la
rottura di un aneurisma aortico. Nel mio breve discorso funebre al funerale
cercai di aggiungere una nota più lieve descrivendo una vacanza che noi sei
avevamo fatto sui monti Pocono, in un periodo in cui Larry si divertiva a
vestirsi male e si era presentato con una maglietta frusta e non stirata in un
ristorante di lusso. Lo avevamo rimproverato tutti per il suo aspetto, finché
non si era alzato e s’era allontanato dal tavolo. Dieci minuti dopo aveva fatto
ritorno tutto in tiro: aveva appena comprato la camicia del nostro cameriere!
(Il cameriere per fortuna, ne aveva una di scorta nel suo armadietto.) Anche
se con questo racconto avrei voluto alleggerire l’atmosfera al funerale, mi si
formò un nodo alla gola e faticai a trovare le parole.
Herb, che aveva fatto studi da ginecologo e in seguito da oncologo, aveva
invece sviluppato una demenza graduale, vivendo i suoi ultimi anni in uno
stato di tale confusione e dolore fisico che sentivo, come per mia sorella, di
averlo perso molto prima della sua morte. Al funerale ero afflitto da
un’influenza troppo grave per poter raggiungere Washington, ma mandai un
messaggio tramite un amico, perché venisse letto al cimitero.
Provai sollievo per lui e per la sua famiglia e tuttavia, nel momento in cui
si sarebbe svolto il funerale, cominciai ad agitarmi, feci una breve
passeggiata per San Francisco e inaspettatamente scoppiai in lacrime,
rammentando una scena alla quale non pensavo da molti anni. Quando
eravamo al college, io e Herb giocavamo spesso a pinnacolo la domenica
con suo zio Louie, uno scapolo che viveva con la famiglia di Herb. Louie, un
uomo gentile con la tendenza all’ipocondria, cominciava sempre la serata
annunciando che non era sicuro di poter giocare al meglio quella sera perché
c’era «qualcosa che non andava al piano superiore», e nel dirlo indicava la
propria testa. Quella era la battuta che aspettavamo per poter sfoderare i
nostri stetoscopi nuovi di zecca e i misuratori di pressione e, per cinque
dollari, gli misuravamo la pressione del sangue, ascoltavamo il battito
cardiaco e lo dichiaravamo in buona salute. Louie era un giocatore talmente
bravo che non ci tenevamo in tasca a lungo i nostri cinque dollari: quasi
sempre, alla fine della serata, aveva recuperato il suo denaro, e con qualche
aggiunta.
Amavo quelle serate. Ma zio Louie era morto da tempo, e adesso anche
Herb se n’era andato, e io sperimentai una solitudine sconvolgente nel
rendermi conto che non c’erano più testimoni di quella scena di un passato
così lontano. Adesso esisteva soltanto nella mia mente, in qualche angolo
misterioso dei miei circuiti neuronali scricchiolanti, e alla mia morte
sarebbe svanita del tutto. Naturalmente ho sempre saputo queste cose in
astratto per decenni, e le ho enfatizzate nei libri, nelle conferenze e nelle
molte ore di terapia, ma adesso le sto provando, sto provando che quando
periamo, ciascuno dei nostri ricordi gioiosi, preziosi, unici svanisce assieme
a noi.
Rimpiango molto anche Bob Berger, mio caro amico per oltre
sessant’anni, morto poche settimane dopo Herb. Dopo un arresto cardiaco,
Bob era rimasto in stato d’incoscienza per diverse ore prima di essere
riportato temporaneamente in vita e, durante un breve intervallo di lucidità,
mi aveva telefonato. Spiritoso come sempre, con voce stridula aveva detto:
«Ti porto un messaggio dall’aldilà». Fu tutto quello che disse: la sua
condizione peggiorò rapidamente, ripiombò in stato di coma e morì due
settimane più tardi.
Io e Bob ci eravamo incontrati la prima volta a Boston, durante il mio
secondo anno alla facoltà di medicina. Anche se in seguito avevamo vissuto
sulle due coste opposte del paese, eravamo rimasti amici per tutta la vita e ci
telefonavamo e vedevamo spesso. Cinquant’anni dopo il nostro primo
incontro mi chiese di aiutarlo a scrivere della sua vita durante l’adolescenza,
quando i tedeschi avevano invaso l’Ungheria, suo paese natale. Mi disse di
essersi fatto passare per cristiano e di aver partecipato alla Resistenza
durante l’occupazione nazista di Budapest. Una dopo l’altra, mi raccontò
storie da far rizzare i capelli. Per esempio, all’età di sedici anni, lui e un
compagno combattente della Resistenza avevano seguito in motocicletta le
file di ebrei legati gli uni agli altri, che venivano costretti a camminare nei
boschi verso il Danubio, dove sarebbero stati affogati. Non c’era alcuna
speranza di salvare quei prigionieri, ma Bob e il suo amico erano passati lì
accanto e avevano gettato delle granate per uccidere le guardie naziste. In
seguito, mentre Bob s’era allontanato per alcuni giorni alla ricerca
infruttuosa della madre, il padrone di casa aveva consegnato il suo
compagno di stanza, un altro caro amico, ai nazisti, che lo avevano trascinato
in strada e gli avevano tirato giù i pantaloni. Vedendo che era circonciso, gli
avevano sparato nell’addome e l’avevano lasciato lì a morire, avvertendo
gli astanti di non offrirgli alcun aiuto, nemmeno un sorso d’acqua. Ascoltai
questi racconti terribili, uno dopo l’altro, per la prima volta, e alla fine della
serata gli dissi: «Bob, siamo stati molto amici, ci conosciamo da
cinquant’anni. Perché non mi hai mai raccontato queste cose?» La sua
risposta mi lasciò esterrefatto: «Irv, non eri pronto ad ascoltarle».
Non protestai. Sapevo che aveva ragione: non ero davvero pronto ad
ascoltarle, e dovevo averglielo comunicato in varie maniere diverse. Per
molto tempo avevo evitato qualsiasi contatto con l’Olocausto. Da
adolescente ero rimasto sconvolto quando, dopo la liberazione dei campi di
concentramento da parte degli Alleati, i cinegiornali avevano mostrato i
pochi sopravvissuti, simili a scheletri, e le montagne di cadaveri dappertutto,
che venivano spostate con i bulldozer. Decenni più tardi, quando io e
Marilyn andammo a vedere Schindler’s List, ci recammo al cinema con due
macchine, dato che era molto probabile che io mi precipitassi fuori prima
della conclusione del film. Cosa che feci. Da parte mia era un
comportamento prevedibile. Se vedevo o leggevo un qualsiasi tipo di notizia
sugli orrori dell’Olocausto, ero travolto da una tempesta di sentimenti: una
terribile tristezza, una rabbia insopportabile, una sofferenza opprimente al
pensiero di quello che le vittime dovevano aver provato, e al pensiero di
trovarmi al loro posto. (Era stata una pura fortuna che mi fossi trovato sano e
salvo in America invece che in Europa, dove la sorella di mio padre e la sua
intera famiglia, nonché la moglie di mio zio Abe e i suoi quattro bambini
erano stati assassinati.) Non avevo mai espresso esplicitamente i miei
sentimenti a Bob, ma lui li aveva colti in molti modi: mi disse che, anche se
avevo ascoltato alcune delle sue storie dei tempi di guerra, non gli avevo
mai fatto una domanda al riguardo, nemmeno una volta.
Mezzo secolo più tardi Bob aveva vissuto un’esperienza terribile in un
aeroporto del Nicaragua, dove aveva subito un tentativo di rapimento. Ne
era rimasto profondamente traumatizzato ed era stato poco tempo più tardi
che mi aveva contattato per scrivere delle proprie esperienze durante
l’adolescenza nella Budapest occupata dai nazisti. Trascorremmo diverse
ore assieme discutendo del rapimento e di tutti i ricordi degli anni della
guerra che l’episodio aveva riportato alla memoria.
Per parte mia, intrecciai le esperienze della sua adolescenza con un
resoconto della nostra amicizia in un racconto intitolato Chiamerò la
polizia, pubblicato negli Stati Uniti in forma di ebook. In Europa invece è
uscito in versione cartacea in otto paesi. Il titolo è preso da un episodio
particolarmente raccapricciante contenuto nel testo. Anche se erano passati
più di sessant’anni dalla fine della guerra, quando il libro fu pubblicato Bob
aveva una tale paura dei nazisti che si rifiutò di mettere il suo vero nome
sulla copertina. Gli rammentai che qualsiasi nazista ancora in vita avrebbe
avuto più o meno novant’anni e sarebbe stato del tutto innocuo, ma Bob
insistette per utilizzare uno pseudonimo, Robert Brent, per le versioni
inglese e ungherese. Solo dopo una prolungata opera di persuasione da parte
mia cedette e accettò di mettere il suo vero nome su sette traduzioni, inclusa
quella tedesca.
Mi sono spesso meravigliato del coraggio e della tenacia di Bob. In
quanto orfano, raggiunse gli Stati Uniti da uno dei campi dove erano stati
raccolti i reduci dai lager nazisti dopo la seconda guerra mondiale, senza
conoscere una sola parola d’inglese. Dopo aver frequentato per meno di due
anni la Boston Latin High School era stato ammesso a Harvard, dove non
solo era stato abbastanza in gamba da entrare nella facoltà di medicina, ma
aveva anche giocato nella squadra di calcio dell’università – e tutto questo
essendo completamente solo al mondo. In seguito aveva sposato Pat Downs,
medico e figlia di due medici, il cui nonno era Harry Emerson Fosdick,
eminente pastore della chiesa interconfessionale di Riverside, a Manhattan.
Bob le chiese di convertirsi all’ebraismo prima del matrimonio, e Pat
accettò. Pat mi raccontò che durante il processo di conversione le cose
procedettero bene, fino a quando il rabbino aveva annunciato che le leggi
ebraiche proibiscono di mangiare crostacei, inclusa l’aragosta. Avendo
vissuto la maggior parte della prima infanzia nel Maine, Pat era rimasta
senza parole. Aveva mangiato aragosta per tutta la vita e sentiva che questa
richiesta era eccessiva, e rischiava di mandare a monte tutto. Il rabbino,
forse grazie all’eminente nonno di Pat, aveva un tale desiderio di portarla
nella sua comunità che, dopo aver consultato un gruppo di rabbini, aveva
fatto una rara eccezione: lei sola, tra tutti gli ebrei, avrebbe avuto il
permesso di mangiare l’aragosta.
Bob scelse di specializzarsi in chirurgia cardiaca: mi disse che l’unico
momento in cui si sentiva completamente vivo era quando teneva tra le mani
un cuore pulsante. Fece una carriera straordinaria come chirurgo, divenne
professore di chirurgia alla Boston University, scrisse più di cinquecento
ricerche e studi clinici per riviste professionali e fu sul punto di realizzare il
primo trapianto di cuore al mondo, ma venne battuto sul filo di lana da un
altro chirurgo, Christiaan Barnard.

Alla fine del 2015, dopo aver subito la perdita di mia sorella e di tre
carissimi amici, m’ammalai d’influenza per diverse settimane, con
conseguenti mancanza di appetito e perdita di peso, e poi ebbi un attacco
violento di gastroenterite, molto simile a un avvelenamento da cibo, con
vomito e diarrea che mi lasciarono disidratato. La pressione sanguigna era
così pericolosamente bassa che mio figlio Reid mi portò da San Francisco al
pronto soccorso dello Stanford, dove rimasi per una giornata e mezzo. Lì
ricevetti sette litri di flebo per via intravenosa, e lentamente la pressione del
sangue tornò alla normalità. Mentre attendevo i risultati di una tomografia
computerizzata all’addome, ebbi per la prima volta la netta sensazione che
avrei potuto morire. Mia figlia Eve, che è medico, e mia moglie rimasero
con me, offrendomi conforto, e per parte mia cercai di trovare sollievo
facendo ricorso a un pensiero che avevo spesso suggerito ai miei pazienti:
più grande è il senso di vita non vissuta, più grande è il terrore della morte.
Quest’equazione mi calmò, dopo che considerai quanti pochi rimpianti
avessi riguardo alla vita che avevo vissuto.
Dopo le dimissioni dall’ospedale pesavo soltanto sessantatré chili,
all’incirca nove in meno rispetto al mio peso abituale. A volte i vaghi
ricordi della mia formazione medica si risvegliano per crearmi dei
problemi. In quell’occasione fui assillato da una massima medica: se il
paziente subisce una significativa perdita di peso per una causa
sconosciuta, occorre pensare a un cancro occulto. Immaginai il mio
addome segnato da lesioni metastatiche. Durante quel periodo trovai
conforto in un esperimento di pensiero suggerito da Richard Dawkins, che
chiede di immaginare un faretto laser che si muove inesorabilmente lungo
l’immensa linea del tempo. Tutto quello che il raggio supera sprofonda
nell’oscurità del passato; tutto quello che precede il faretto è occultato
nell’oscurità di ciò che ha ancora da venire. Solo ciò che è illuminato
dall’esile raggio di luce del faretto è vivo e consapevole. Questo pensiero
mi dà sempre sollievo, mi fa sentire quanto sia fortunato a essere vivo in
questo momento.
A volte penso che l’atto stesso della scrittura sia il mio tentativo di
cancellare lo scorrere del tempo e la morte inevitabile. Faulkner lo dice nel
migliore dei modi: «Lo scopo di ogni artista è di arrestare il movimento e di
tenerlo fissato in modo tale che, a un certo punto, uno sconosciuto lo leggerà
e quello tornerà alla vita». Credo che questo pensiero spieghi l’intensità
della mia passione per la scrittura, per non smettere mai di scrivere.
Considero molto seriamente l’idea che, se si vive bene e non si hanno
profondi rimpianti, si affronterà la morte con maggiore serenità. Ho sentito
questo messaggio non solo da molti pazienti in punto di morte, ma anche da
scrittori e grandi spiriti quali Tolstoj, il cui personaggio Ivan Il’ič si rende
conto che sta morendo male perché ha vissuto male. Tutte le letture e le
esperienze della mia vita mi hanno insegnato l’importanza di vivere in modo
tale da morire con pochi rimpianti. In questi miei ultimi anni ho fatto lo
sforzo consapevole di essere generoso e gentile con tutti quelli che ho
incontrato, e sono entrato nel mio ottavo decennio di vita con un ragionevole
grado di appagamento.
Un altro elemento che mi ricorda la mia mortalità è costituito dalle email.
Da più di vent’anni ricevo ogni giorno una notevole quantità di email da
parte dei miei fan. Cerco di rispondere a ciascuno di loro, lo considero parte
della mia amorevole meditazione buddhista quotidiana. Mi dà gioia pensare
che il mio lavoro offre qualcosa a coloro che mi scrivono. Ma sono anche
consapevole, con il passare degli anni, del numero sempre crescente di
email, un flusso alimentato dalla consapevolezza che non vivrò molto a
lungo. E il messaggio è spesso del tutto esplicito, come in questa lettera
arrivata solo pochi giorni fa:
…volevo scriverle molto tempo fa, ma ho pensato che fosse sopraffatto dalle email e non avesse il
tempo di leggerle tutte; tuttavia ho pensato che le avrei scritto comunque. Come dice lei stesso, la sua
età è avanzata e potrebbe non essere in giro ancora per molto, e allora sarebbe troppo tardi.

O in quest’altra, arrivata il giorno successivo:


…Per dirla senza tanti giri di parole, e credo che lei lo apprezzerà, mi rendo conto che a un certo punto
lei non ci sarà più. Non voglio considerare la sua esistenza come qualcosa di scontato e rammaricarmi di
non averla contattata quando sarà troppo tardi… Significherebbe molto per me avere uno scambio
epistolare con lei perché la maggior parte delle persone che conosco non è interessata a discutere della
morte, e non ha sviluppato una personale connessione con il fatto che morirà.
A volte, negli ultimi anni, ho cominciato le mie conferenze valutando il
pubblico presente e dicendo: «Sono consapevole che, man mano che
invecchio, il pubblico si fa sempre più numeroso. E naturalmente questa è
una cosa bellissima. Ma se metto gli occhiali esistenziali, ne colgo il lato
oscuro e mi chiedo come mai tutti abbiano una tale fretta di venirmi a
vedere».
36.
Le ultime opere
Ero un adolescente quando udii per la prima volta la risposta di Einstein alla
teoria dei quanti: «Dio non gioca a dadi con l’universo». Come la maggior
parte dei ragazzi con una predisposizione per la scienza, veneravo Einstein e
restai sbalordito nel sentire che credeva in Dio. L’episodio chiamò in causa
il mio scetticismo religioso, e cercai una spiegazione dall’insegnante di
scienze delle scuole medie. La sua risposta fu: «Il Dio di Einstein è il Dio di
Spinoza».
«Che cosa significa?» domandai. «Chi è Spinoza?» Scoprii che Spinoza
era un filosofo del diciassettesimo secolo e un pioniere della rivoluzione
scientifica. Sebbene si riferisse spesso a Dio nei suoi scritti, la sua comunità
ebraica l’aveva scomunicato per eresia all’età di ventiquattro anni e molti,
se non la maggior parte, degli studiosi lo considera un ateo. Sarebbe stato
pericoloso, mi disse il mio insegnante, se Spinoza avesse espresso
scetticismo nei confronti dell’esistenza di Dio nel diciassettesimo secolo,
così lui si era protetto utilizzando spesso il vocabolo “Dio”. Tuttavia, ogni
volta che Spinoza parla di “Dio”, la maggior parte degli studiosi ritiene
intenda le leggi ordinate della natura. Presi in prestito una vita di Spinoza
dalla sezione biografie della biblioteca e, sebbene non ci avessi capito
molto, stabilii che un giorno avrei imparato qualcosa in più sull’eroe di
Einstein.
All’incirca settant’anni più tardi m’imbattei in un libro che riaccese il
mio interesse. Venni a sapere come, dopo la scomunica dall’ebraismo,
Spinoza avesse rifiutato di aderire a qualsiasi altra comunità religiosa.
Aveva invece lavorato come smerigliatore facendo lenti per occhiali e
telescopi, vivendo in modo frugale e isolato, e aveva composto trattati
filosofici e politici che avevano cambiato il corso della storia. Il libro era
Tradire Spinoza di Rebecca Goldstein, scrittrice e filosofa. Avevo divorato
uno dopo l’altro i suoi romanzi straordinari, ma fu Tradire Spinoza – in parte
filosofia, in parte narrativa e in parte biografia – che mi diede la scossa. Il
pensiero di scrivere un romanzo su Spinoza si propagò nella mia mente, ma
mi sentivo del tutto bloccato. Come potevo scrivere un romanzo su un uomo
che era vissuto per lo più nei suoi pensieri, la cui vita era stata solitaria e
senza intrighi o storie d’amore, che aveva trascorso la vita adulta in camere
in affitto smerigliando lenti e scribacchiando con la penna d’oca e
l’inchiostro?
In modo del tutto fortuito fui invitato ad Amsterdam per tenere un discorso
a un’associazione di psicoterapeuti olandesi. Anche se, a causa dell’età,
raramente gradisco i viaggi oltreoceano, accolsi con gioia quest’opportunità
e accettai di tenere un seminario a condizione che venisse organizzata una
“giornata Spinoza”, nel corso della quale una guida esperta avrebbe
accompagnato me e mia moglie nei siti legati al filosofo in Olanda: il luogo
dov’era nato, le sue varie residenze, la tomba e, cosa più importante di tutte,
il piccolo museo a lui dedicato, lo Spinozahuis, nella cittadina di Rijnsburg.
Così, dopo aver tenuto la mia lezione ad Amsterdam, io e Marilyn e le nostre
guide – il presidente della Società olandese su Spinoza e un ben preparato
filosofo olandese – partimmo per la nostra missione.
Visitammo i dintorni di Amsterdam dove Spinoza aveva trascorso i primi
anni della sua vita, vedemmo le case nelle quali aveva in seguito abitato e
prendemmo le stesse chiatte che aveva preso per risalire il canale. Adesso
ero in possesso di diversi dettagli visivi dell’Olanda di Spinoza, ma non
avevo fatto alcun progresso su come strutturare la narrativa necessaria per un
romanzo. Tutto cambiò quando visitai lo Spinozahuis. Dapprima fui deluso
che il museo non contenesse nessuno degli effetti personali di Spinoza. Vidi
invece una riproduzione degli attrezzi per la smerigliatura di lenti che
doveva aver usato, e un ritratto dipinto dopo la sua morte. Inoltre la guida
m’informò che il ritratto poteva non essere molto veritiero, perché non ne
erano mai stati fatti mentre era in vita. Tutte le raffigurazioni di Spinoza
erano basate su descrizioni scritte.
Quindi mi rivolsi all’attrazione principale del museo: la biblioteca
personale di Spinoza, composta da centocinquantuno volumi del sedicesimo
e diciassettesimo secolo. Avevo atteso con ansia di poter tenere in mano i
libri toccati dalle dita di Spinoza, nella speranza che il suo spirito
m’ispirasse. Anche se al pubblico non era permesso toccarli, mi concessero
di farlo. Mentre con reverenza ne reggevo uno tra le mani, la mia guida mi
scivolò accanto e disse gentilmente: «Mi perdoni, dottor Yalom, forse ne è
già a conoscenza… ma le mani di Spinoza non hanno mai toccato questo
libro né, in effetti, nessuno dei volumi raccolti nella biblioteca; questi libri
non sono i veri libri posseduti da Spinoza».
Ne fui sbalordito. «Che cosa intende dire? Non capisco».
«Dopo la morte di Spinoza, nel 1677, le sue modeste proprietà non
potevano coprire il costo del funerale e della sepoltura, e l’unica cosa di
valore che possedeva, la biblioteca, dovette essere messa all’asta».
«Ma allora questi libri, questi libri antichi?»
«Il banditore dell’asta fu eccezionalmente puntiglioso e scrisse una
descrizione estremamente dettagliata di ciascun libro: data, editore, città,
tipo di rilegatura, colore della copertina eccetera. Duecento anni dopo la sua
morte, un ricco mecenate ha fornito i fondi per ricostituire l’intera biblioteca
di Spinoza, e chi ha proceduto agli acquisti ha fedelmente seguito le
descrizioni dei libri fatte dal banditore».
Anche se tutto quello che vedevo e sentivo m’interessava molto, non c’era
nulla che potesse tornarmi utile per un romanzo. Scoraggiato feci per
andarmene, ma proprio in quel momento colsi la parola «nazisti» nella
conversazione tra le nostre guide e il guardiano del museo. «Cosa c’entrano i
nazisti? Che ci facevano in questo museo?» Mi raccontarono una storia
sorprendente. Poco dopo l’occupazione nazista dell’Olanda, un reparto di
soldati delle ERR aveva fatto la sua comparsa nel museo, l’aveva chiuso e vi
aveva apposto i sigilli, confiscando l’intera biblioteca.
«Così la biblioteca ha dovuto essere ricostituita un’altra volta?»
domandai. «E questo significa che questi libri sono due volte lontani dal
tocco delle dita di Spinoza?»
«Nient’affatto» mi rassicurò la guida. «Con grande stupore di tutti,
l’intera collezione rubata dai nazisti, tranne solo pochi volumi, fu ritrovata
dopo la guerra, nascosta in una miniera di sale sigillata».
Ero sbalordito e pieno di domande pressanti. «ERR: che cosa significa
questa sigla?»
«Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg – le forze speciali del capo nazista
Alfred Rosenberg, l’uomo incaricato di saccheggiare le proprietà degli ebrei
in tutta Europa».
Il mio cuore cominciò a battere all’impazzata. «Ma perché? Perché?
L’Europa era in fiamme. Perché prendersi la briga di confiscare la piccola
biblioteca di questo villaggio quando avrebbero potuto portarsi via tutti quei
Rembrandt e Vermeer?»
«Nessuno è in grado di rispondere a questa domanda» ribatté la mia
guida. «L’unico indizio di cui siamo in possesso è una frase del rapporto
scritto dall’ufficiale incaricato della razzia, presentata come prova al
processo di Norimberga. Adesso è di dominio pubblico e la si può trovare
facilmente in Internet. In pratica dice che la biblioteca di Spinoza contiene
opere di grande importanza per l’esplorazione del problema Spinoza».
«Il problema Spinoza?» domandai, sempre più affascinato. «Che
significano queste parole? Che tipo di problema avevano i nazisti con
Spinoza? E perché avrebbero conservato tutti i libri di questa biblioteca
invece di bruciarli come tutto quello che era legato agli ebrei in tutta
l’Europa?»
Come un duo di mimi, i miei ospiti alzarono le spalle e rivolsero i palmi
delle mani verso di me: non sapevano cosa rispondere.
Uscii dal museo con un enigma intrigante e irrisolto! Manna dal cielo per
un romanziere affamato! Avevo ottenuto quello per cui ero venuto. «Adesso
ho il mio libro» dissi a Marilyn. «Ho una trama e un titolo!» Appena tornato
a casa, cominciai a scrivere Il problema Spinoza.

In breve tempo elaborai una spiegazione del tutto plausibile per il “problema
Spinoza” dei nazisti. Dalle mie letture venni a sapere che Goethe, l’idolo
letterario di tutti i tedeschi, inclusi i nazisti, era affascinato dall’opera di
Spinoza. Infatti in una lettera sosteneva di essersi portato in tasca l’Etica di
Spinoza per un anno intero! Di sicuro questo doveva aver rappresentato un
problema enorme per l’ideologia nazista: com’era possibile che il più
grande scrittore della Germania fosse così devoto a Spinoza, un ebreo di
origine portoghese-olandese?
Decisi di intrecciare la narrazione di due vite: quella di Baruch Spinoza,
il filosofo ebreo del diciassettesimo secolo, e quella di Alfred Rosenberg,
pseudo-filosofo e uomo della propaganda nazista. In quanto membro
ferocemente antisemita della cerchia più intima di Hitler, Rosenberg aveva
ordinato la confisca della biblioteca di Spinoza, ed era stato sempre lui a
ordinare che i libri venissero salvati, invece che bruciati. Nel 1945, al
processo di Norimberga, Rosenberg fu condannato a morte per impiccagione
assieme ad altri undici nazisti di grado elevato.
Cominciai a scrivere capitoli alternati (la vita di Spinoza era ambientata
nel diciassettesimo secolo e quella di Rosenberg nel ventesimo) e sviluppai
una connessione narrativa tra i due personaggi. In breve, tuttavia, divenne
troppo macchinoso continuare a spostarsi avanti e indietro tra le due epoche,
così decisi di scrivere prima l’intera storia di Spinoza, poi quella di
Rosenberg, e alla fine intrecciare le due storie con le necessarie limature e
rifiniture per garantire una perfetta adesione.
Scrivere storie situate in due secoli diversi aumentò notevolmente la mole
di ricerche necessarie, e Il problema Spinoza richiese più tempo di qualsiasi
altro libro io abbia mai pubblicato (con l’eccezione della Psicoterapia
esistenziale). Ma non lo considerai mai un lavoro: al contrario, ero
stimolato e desideroso di continuare a leggere e a scrivere ogni mattina.
Lessi, non senza difficoltà, le opere maggiori di Spinoza, i commentari a
queste opere e numerose biografie; infine, per sbrogliare i misteri rimanenti,
chiesi consiglio a due studiosi di Spinoza, Rebecca Goldstein e Steven
Nadler.
Mi occorse ancora più tempo per cercare informazioni sulla nascita e
sullo sviluppo del partito nazista, e sul ruolo in esso avuto da Alfred
Rosenberg. Anche se rispettava le capacità di Rosenberg e gli aveva
assegnato posizioni di rilievo, Hitler preferiva di gran lunga la compagnia di
Joseph Goebbels e Hermann Göring. Giravano voci che una volta Hitler
avesse scagliato attraverso la stanza l’opera principale di Rosenberg, Il mito
del ventesimo secolo, gridando: «Chi può capire questa roba!» Rosenberg
soffriva talmente di non essere amato da Hitler quanto gli altri gerarchi che
arrivò a cercare in più di un’occasione un aiuto psicologico; nel mio
romanzo avrei utilizzato una perizia psichiatrica vera.
A differenza degli altri miei romanzi, Il problema Spinoza non è un’opera
didattica, ma la psicoterapia vi ha comunque un ruolo importante: il mondo
interiore di ciascuno dei miei due protagonisti è messo a nudo in continue
discussioni con un uomo di fiducia. Spinoza si confida con Franco, un amico
che a tratti assume il ruolo di terapeuta, mentre Rosenberg si reca a diverse
sedute di psicoterapia con uno psichiatra inventato, Friedrich Pfister. In
effetti, Franco e Pfister sono gli unici due personaggi importanti che abbia
creato per il romanzo: tutti gli altri sono figure storiche.
Sfortunatamente Il problema Spinoza ha avuto una scarsa attrattiva per i
lettori americani, ma ha invece incontrato il favore del pubblico all’estero:
in Francia venne premiato nel 2014 con il Prix des Lecteurs. Nel 2016
ricevetti una email da Hans van Wijngaarden, un collega olandese, che mi
informava che un ritratto di Spinoza dipinto durante la sua vita era appena
stato scoperto in un quadro del 1666 di Berend Graat. Scrutando gli occhi
espressivi di Spinoza mi rammaricai moltissimo di non aver potuto vedere il
ritratto prima di scrivere il romanzo. Forse mi sarei sentito personalmente
più vicino a lui, come mi era capitato in precedenza dopo aver visto i ritratti
di Nietzsche, Breuer, Freud, Lou Salomé e Schopenhauer.
Più di recente Manfred Walther mi ha inviato un suo articolo accademico
del 2015 intitolato La presenza di Spinoza in Germania durante l’era
nazista, che descrive l’enorme influenza avuta da Spinoza non solo su
Goethe, ma anche su eminenti filosofi tedeschi quali Fichte, Hölderin,
Herder, Schelling e Hegel. Se l’avessi letto mentre stavo scrivendo il
romanzo, avrebbe rinsaldato la mia argomentazione che Spinoza avesse
costituito davvero un grosso problema per la campagna antisemita dei
nazisti.

Il mio progetto successivo, Creature di un giorno, non richiese ricerche


laboriose. Dovetti solo saccheggiare, un’ultima volta, il mio file “idee per la
scrittura”. La procedura era consolidata: leggevo e rileggevo gli episodi
clinici del file fino a quando uno di essi cominciava a vibrare d’energia,
quindi procedevo costruendoci attorno una storia. Molte di queste
raccontano di un’unica consultazione, e molte altre descrivono pazienti
anziani, impegnati in questioni legate a quella parte della vita, ovvero la
pensione, l’invecchiamento e il confronto con la morte. Come per tutto
quello che ho scritto (con l’eccezione de Il problema Spinoza), il pubblico
al quale mi rivolgo è sempre formato da giovani terapeuti in cerca di una
guida per imparare l’arte della psicoterapia. Come sempre mandai ai miei
pazienti la bozza finale e ottenni un’autorizzazione scritta, con l’eccezione di
due pazienti deceduti che comunque sapevo che avrebbero dato il permesso;
in entrambi i casi mi preoccupai di mascherare ancora meglio le loro
identità.
Il titolo Creature di un giorno viene da un pensiero di Marco Aurelio:
«Siamo tutti creature di un giorno: colui che ricorda e colui che è ricordato».
Nella storia che dà il titolo al libro descrivo una seduta di terapia nel corso
della quale vengo a sapere che un paziente ha evitato di fornirmi
informazioni importanti, per timore di danneggiare l’immagine favorevole
che ho di lui. Mentre esploravo il suo desiderio di persistenza nella mia
mente, un desiderio così intenso da mettere a rischio la sua stessa terapia,
avevo pensato a Marco Aurelio, del quale in quel periodo stavo leggendo i
Pensieri. Mi ero alzato, avevo raggiunto la scrivania e avevo mostrato al
paziente la mia copia dei Pensieri, suggerendogli che avrebbe potuto
trovarla utile, dato che uno dei pensieri sottolineava la natura transitoria
dell’esistenza e l’idea che ciascuno di noi non sia altro che una creatura di
un giorno. La storia contiene una trama secondaria collegata a un secondo
paziente, al quale pure avevo suggerito di leggere Marco Aurelio.
Non di rado mi capita, quando sono immerso nella lettura delle opere di
un qualche pensatore straordinario, e ne sono affascinato, che accada
qualcosa in una seduta di terapia che mi porta a raccomandare quel
particolare autore al mio paziente. Succede spesso che questo suggerimento
si riveli un fiasco totale, ma in questa storia vera (in Creature di un giorno
non ci sono eventi fittizi) entrambi i pazienti trassero profitto dal libro.
Ironicamente, nessuno dei due prese in esame il messaggio particolare che
avevo in mente, ma in Marco Aurelio trovarono altri saggi consigli.
Nemmeno questo accade di rado. Paziente e terapeuta sono compagni di
viaggio, e non è insolito che il paziente percepisca e tragga nutrimento,
durante il viaggio, da vedute che sfuggono completamente al terapeuta.
37.
Accidenti! La terapia e gli SMS
Per più di quindici anni ho condotto un gruppo di supervisione di terapeuti
attivi nell’area di San Francisco. Durante il terzo anno accettammo un nuovo
membro, un’analista che si era trasferita a San Francisco dopo una lunga
carriera sulla costa orientale. Il primo caso che presentò al gruppo fu quello
di una paziente che viveva a New York e che lei continuava a seguire con
sedute al telefono. Sedute via telefono! Ne fui sconcertato. Com’è possibile
offrire un trattamento decente senza nemmeno vedere in faccia il paziente? Il
terapeuta non rischiava di perdere tutte le sfumature – l’incrociarsi degli
sguardi, le espressioni del volto, i sorrisi, i cenni del capo, le strette di mano
al momento del commiato –, così assolutamente essenziali per un’intima
relazione terapeutica?
Le dissi: «Non può fare una terapia a distanza! Non può trattare qualcuno
che non si trova nel suo studio». Dio, quant’ero bacchettone! Lei tenne duro e
ribadì che la terapia stava procedendo abbastanza bene, grazie. Ne dubitai e
continuai a tenerla d’occhio con sospetto per diversi mesi, finché non dovetti
ammettere che sapeva esattamente quello che faceva.
La mia opinione sulla terapia a distanza mutò ulteriormente all’incirca sei
anni fa, quando ricevetti una email da una paziente che mi supplicava di
aiutarla e chiedeva una terapia via Skype. Abitava in una parte estremamente
isolata del mondo, dove nel raggio di ottocento chilometri non esisteva un
solo terapeuta. In realtà, a causa della rottura particolarmente dolorosa di
una relazione, aveva deliberatamente scelto di trasferirsi in un luogo così
remoto. Si sentiva così a pezzi che, se fosse vissuta nelle vicinanze, sono
certo che non avrebbe avuto voglia di incontrare me, o un qualsiasi altro
terapeuta, a tu per tu in uno studio. Non avevo mai fatto terapia via Skype in
precedenza e, dati i miei dubbi riguardo al metodo, esitavo. Ma visto che per
lei non esistevano altre possibilità, alla fine decisi di accettare questa
videoterapia (ma senza farne parola con nessuno dei miei colleghi). Per oltre
un anno io e lei ci incontrammo via Skype ogni settimana. A furia di vedere
la sua faccia che occupava l’intero schermo del computer cominciai a
sentirmi vicino a lei, e nel giro di pochissimo tempo le migliaia di chilometri
che ci separavano sembrarono svanire. Alla fine del nostro anno assieme
aveva fatto molti progressi nella terapia, e da allora ho avuto un gran numero
di pazienti da paesi lontani quali il Sudafrica, la Turchia, l’Australia, la
Francia, la Germania, l’Italia e la Gran Bretagna. Adesso credo che ci sia
poca differenza nel risultato di una terapia dal vivo e di una videoterapia.
Tuttavia sto bene attento a selezionare con cura i pazienti. Non utilizzo
questo mezzo per pazienti seriamente malati, che necessitano l’uso di
farmaci e un possibile ricovero in ospedale.

Tre anni fa, quando sentii parlare per la prima volta di terapia via SMS, nella
quale terapeuta e paziente comunicano unicamente mandandosi messaggi,
ancora una volta la respinsi con disgusto. UNA TERAPIA VIA SMS! ACCIDENTI!
Sembrava una distorsione, una disumanizzazione, una parodia del processo
della terapia. Era un passo eccessivo! Non volevo aver niente a che fare con
una cosa del genere e mi rintanai nel mio atteggiamento da bacchettone. Poi
Oren Frank, il fondatore di Talkspace, il più grande programma di terapia
via SMS online, mi telefonò e mi disse che la sua compagnia stava al
momento offrendo terapie di gruppo via SMS, e mi chiese di incontrare i suoi
terapeuti per un consulto. TERAPIA DI GRUPPO VIA SMS! Ancora una volta ne
fui sconvolto. Un gruppo d’individui che non si vedevano mai (per
mantenere l’anonimato le loro facce non venivano mai mostrate sui monitor,
erano rappresentati da simboli) e comunicavano unicamente per iscritto –
questo era troppo! Non riuscivo a immaginare un gruppo di terapia che
funzionasse via SMS, ma accettai di partecipare, quasi esclusivamente per
curiosità.
Osservai alcuni dei gruppi, e questa volta avevo ragione. La terapia di
gruppo di cui fui testimone si rivelò troppo complicata e il progetto venne
presto abbandonato. La compagnia si concentrò allora completamente
sull’uso dei messaggi per una terapia individuale. In breve negli Stati Uniti e
in diversi altri paesi vennero create altre compagnie che si occupavano di
terapia via SMS, e tre anni fa accettai di supervisionare i terapeuti
responsabili dell’addestramento del personale di Talkspace.
Ora che ho superato gli ottant’anni leggo raramente le riviste e di rado mi
sposto per partecipare a convegni professionali del mio settore, e mi sento
sempre più distante da questi nuovi sviluppi. Anche se l’uso dei messaggi mi
sembrava il paradigma stesso dell’impersonalità e l’autentico opposto del
mio approccio profondamente intimo alla terapia, mi rendevo conto che
avrebbe potuto avere un ruolo significativo nel futuro della terapia stessa.
Per combattere l’obsolescenza, scelsi di tenermi aggiornato su questo
metodo sempre più diffuso di offrire psicoterapia.
La struttura della piattaforma offre ai clienti l’opportunità di inviare e
ricevere messaggi (quotidianamente, se lo desiderano) a e da un terapeuta,
per una modesta tariffa mensile. L’uso di questo genere di terapia si va
diffondendo in modo esponenziale e, mentre scrivo, la Talkspace, la
compagnia più grande degli Stati Uniti, impiega oltre mille terapeuti. Molte
di queste piattaforme vengono aperte in altre nazioni: tre compagnie cinesi
mi hanno contattato, ciascuna affermando di essere la più grande compagnia
di terapia via Internet del suo paese.
L’innovazione si sviluppò rapidamente. In breve Talkspace fu in grado di
offrire non solo terapia via SMS, ma anche la possibilità che clienti e
terapeuti potessero scambiarsi a vicenda messaggi vocali. Poco tempo dopo,
al cliente venne poi proposta l’opzione di incontri in videoconferenza. In
breve solo il cinquanta per cento delle sedute si svolgeva via SMS, il
venticinque attraverso messaggi telefonici e l’altro venticinque per cento con
videoconferenze. Mi aspettavo che si consolidasse un’inevitabile sequenza,
cioè che i clienti usassero i messaggi solo nella fase iniziale della terapia e
gradualmente passassero alla fase audio, e infine a quella video, quella più
seria. Come mi sbagliavo! Non fu affatto ciò che accadde! Molti clienti
preferirono i messaggi e rinunciarono al contatto telefonico e video. La cosa
mi sembrava illogica, ma in breve fui informato che molti clienti si sentivano
più sicuri nella condizione di anonimato garantita dal messaggio e, inoltre,
che molti clienti giovani erano particolarmente a loro agio con questo
sistema: erano cresciuti mandando messaggi e spesso preferiscono inviare un
SMS piuttosto che telefonare ai loro amici. Da quel che sembra attualmente,
questa terapia scritta continuerà ad avere un ruolo di primo piano nel futuro
del nostro ambito di specializzazione.
Per un certo tempo continuai a provare disprezzo per la terapia basata sui
messaggi, che mi sembrava una pallida copia dell’esperienza reale. Mentre
esaminavo il lavoro dei miei supervisionati, ero certo che questa modalità
non garantisse il tipo di terapia che io offrivo ai miei pazienti. Tuttavia a
poco a poco sono arrivato a capire che, anche se non si tratta della stessa
terapia offerta dagli incontri a tu per tu, comunque offre qualcosa di
importante ai clienti. Senza dubbio molti di loro considerano la terapia via
SMS importante e operano un cambiamento. Ho insistito affinché Talkspace
sviluppasse delle ricerche accurate sui risultati ottenuti, e i riscontri iniziali
sembrano rilevare la presenza di un cambiamento significativo. Ho letto
commenti di pazienti che nei loro messaggi esprimono quanto ritengano
valido il processo. Una paziente ha scritto di aver stampato alcune parole
del suo terapeuta e di averle appiccicate sullo sportello del frigorifero, per
poterle rileggere regolarmente. Se i clienti hanno un attacco di panico nel bel
mezzo della notte, possono mandare immediatamente un messaggio al loro
terapeuta. Anche se il terapeuta non leggerà quel messaggio prima di ore,
comunque si avrà la sensazione di un contatto immediato. Inoltre i clienti
possono facilmente riesaminare la loro intera terapia, ogni parola detta al
loro terapeuta, e questo darà la misura dei progressi che hanno fatto.
La supervisione dei terapeuti che utilizzano la terapia dei messaggi è
diversa dalla supervisione dei terapeuti tradizionali. Innanzitutto, quando
supervisiono il lavoro di un terapeuta che usa i messaggi, non devo fare
affidamento sulla ricostruzione del terapeuta di quanto accaduto durante
l’ora, che non sempre è affidabile; ho invece a disposizione l’intera
trascrizione, parola per parola, di tutto quanto è stato detto tra terapeuta e
paziente – nulla rimane nascosto agli occhi del supervisore.
Infine ho a tal punto insistito con i terapeuti sotto la mia supervisione di
prestare attenzione alla natura umana, empatica e genuina della relazione
cliente-terapeuta, che si è verificato un curioso paradosso: nelle mani giuste
di terapeuti ben addestrati l’approccio dei messaggi può offrire un incontro
più personale degli incontri faccia a faccia con terapeuti che seguono in
modo rigido i manuali di comportamento standardizzati.
38.
La mia vita nei gruppi
Ho condotto una gran quantità di gruppi di terapia nel corso di decenni:
gruppi di pazienti psichiatrici, degenti e ambulatoriali; pazienti malati di
cancro, coniugi in lutto, alcolizzati e coppie sposate; studenti di medicina,
interni di psichiatria e terapeuti in attività; ma sono anche stato membro di
molti gruppi, e lo sono anche adesso, a ottantacinque anni passati.
Il gruppo che ha assunto per me l’importanza maggiore è quello formato
da alcuni terapeuti senza leader che, negli ultimi ventiquattro anni, si è
incontrato una volta ogni due settimane, per novanta minuti, nello studio dei
vari membri. Una delle nostre regole di fondo è la totale riservatezza: ciò
che trapela nel gruppo deve rimanere all’interno del gruppo. Quindi in questi
paragrafi rivelerò per la prima volta qualcosa su questo gruppo, e lo faccio
non solo con l’autorizzazione dei membri, ma anche con il loro
incoraggiamento: nessuno di noi vuole che questo gruppo muoia. Non che
aspiriamo all’immortalità, ma tutti noi vogliamo incoraggiare altri a vivere
l’esperienza vitale e arricchente che abbiamo avuto.
Un paradosso della vita dei terapeuti è che non siamo mai soli quando
lavoriamo, e tuttavia molti di noi sperimentano un profondo isolamento.
Lavoriamo senza una squadra – niente infermiere, supervisori, colleghi o
assistenti. Molti di noi cercano di rendere meno pesante questa solitudine
organizzando pranzi o caffè con colleghi, o frequentando discussioni di casi,
o cercando una supervisione o una terapia personale, ma per i più questi
rimedi non giungono abbastanza nel profondo. Io ho scoperto che incontrarsi
regolarmente con un piccolo gruppo di altri terapeuti è rigenerante; il gruppo
offre cameratismo, supervisione, perfezionamento post universitario, crescita
personale e, di quando in quando, intervento in momenti di crisi. Pertanto
incoraggio con energia altri terapeuti a formare gruppi simili al nostro.
Il nostro particolare assembramento nacque un giorno, più di vent’anni fa,
quando Ivan G., uno psichiatra in attività che avevo incontrato quando ero
interno allo Stanford, mi telefonò per invitarmi a partecipare a un gruppo di
sostegno che si sarebbe incontrato regolarmente in un edificio che ospitava
gli studi dei medici, vicino allo Stanford Hospital. Elencò i nomi degli altri
psichiatri che fino a quel momento avevano aderito all’iniziativa: li
conoscevo quasi tutti, e alcuni molto bene, dato che ero stato il loro
insegnante quando erano interni di psichiatria.
Aderire a un gruppo del genere si presentava come un grosso impegno:
non solo richiedeva novanta minuti ogni due settimane, ma non prevedeva
una conclusione prefissata. Quindi, quando accettai, sapevo che poteva
essere un impegno a lungo termine, ma nessuno di noi avrebbe potuto
prevedere che ci saremmo ancora incontrati ventidue anni più tardi. In tutto
questo periodo, salvo rari conflitti con le feste più importanti, non abbiamo
mai cancellato un incontro, e nessuno si è mai assentato per ragioni banali.
Per parte mia, non avevo mai fatto parte di gruppi che non prevedevano
una conclusione, anche se spesso avevo invidiato i miei pazienti in terapia di
gruppo. Anch’io desideravo essere membro di un gruppo di terapia, avere
una cerchia di gente fidata con cui confidarmi. Sapevo da esperienze
precedenti come leader di gruppi quanto il gruppo potesse rivelarsi utile per
i suoi membri.
Una volta avevo condotto per sei anni un gruppo per terapeuti e avevo
osservato, una settimana dopo l’altra, i benefici che offriva ai partecipanti.
Molyn Leszcz, coautore della quinta edizione del mio libro di testo sulla
terapia di gruppo, era un membro dello Stanford nel 1980. Era venuto lì per
approfondire le proprie conoscenze sulla terapia di gruppo, e nel corso della
sua formazione gli avevo chiesto di condurre il gruppo assieme a me per un
anno. Da allora, anche a decine di anni di distanza, entrambi ricordiamo
quello che vedemmo e provammo durante quegli incontri. Mi allontanai dal
gruppo con grande rammarico quando partii per il mio anno sabbatico a
Londra. Innanzitutto, fu il solo gruppo da me condotto che si concluse con un
matrimonio: due dei membri intrecciarono una relazione e si sposarono poco
dopo la fine degli incontri del gruppo. Trentacinque anni dopo li incontrai a
una conferenza, ed erano ancora felicemente sposati.
Così, nonostante l’imbarazzo di unirmi a un gruppo che comprendeva miei
ex studenti, mi iscrissi, non senza una buona dose d’ansia: come molti altri
membri, mi sentivo a disagio nel rivelare la mia vulnerabilità, la mia
vergogna e i dubbi su me stesso a colleghi ed ex studenti. Mi ripetei che ero
un uomo adulto, e che sarei probabilmente sopravvissuto all’imbarazzo.
I mesi iniziali furono utilizzati per decidere il tipo di gruppo che
intendevamo essere. Non volevamo discutere casi, anche se tutti
desideravano mantenere viva quell’opzione. In ultima analisi decidemmo di
diventare un gruppo di supporto polivalente: in altre parole, un gruppo di
terapia senza leader. Una cosa fu chiara fin dall’inizio: nonostante la mia
maggiore esperienza con i gruppi, non sarei stato il leader, e nessuno mi ha
mai considerato tale. Per evitare di ritrovarmi in qualsiasi modo in questa
posizione, mi sforzai di essere particolarmente aperto nel rivelarmi fin dai
primi incontri. Nel corso della mia attività ho imparato che, se si vuole
trarre profitto da esperienze del genere, ci si devono prendere dei rischi. (In
effetti in anni recenti ho generalmente sottolineato questo punto con i miei
pazienti nel corso della seduta individuale iniziale, e l’ho ribadito spesso,
ogni volta che manifestavano qualche resistenza.)
Cominciammo a incontrarci in undici, tutti maschi, tutti psicoterapeuti
(dieci psichiatri e uno psicologo clinico). Nella fase iniziale due membri si
ritirarono, e un terzo dovette allontanarsi per motivi di salute. Negli ultimi
ventidue anni il gruppo si è mostrato notevolmente coeso: non un solo
membro si è ritirato di sua volontà, e la frequenza è stata strabiliante.
Personalmente, quando ero in città, non sono mai mancato a un incontro, e
anche gli altri membri danno al gruppo la priorità su ogni altra attività.
Quando sono turbato da una qualche interazione problematica con mia
moglie, con i figli o i colleghi, o sono bloccato nel mio lavoro, o
preoccupato da qualche sentimento intenso, positivo o negativo, nei confronti
di un paziente o di un conoscente, o irritato da un incubo, attendo sempre con
ansia di discuterne al prossimo incontro. E, naturalmente, tutti i sentimenti
spiacevoli esistenti tra i membri del gruppo sono sempre stati trattati in
profondità.
Forse esistono altri gruppi di terapia senza un leader, dedicati all’esame
del processo come delle esistenze e della psiche dei membri, ma nessuno è
mai stato sottoposto alla mia attenzione, sicuramente non uno che sia
sopravvissuto così a lungo. Durante questi due decenni abbiamo vissuto la
morte di quattro dei nostri membri e la demenza di altri due, che li ha
costretti al ritiro. Abbiamo discusso della morte dei coniugi, dei nuovi
matrimoni, della pensione, delle malattie in famiglia, dei problemi con i figli
e del trasferimento in case di riposo. In ogni caso siamo rimasti fedeli a
un’analisi onesta di noi stessi e degli altri.
Per me la cosa più notevole è stata la persistenza dell’elemento novità nei
nostri incontri. Nonostante siano ormai oltre cinquecento, ogni singola volta
continuo a scoprire qualcosa di nuovo e diverso nei miei compagni e in me
stesso. Forse l’esperienza più difficile per tutti noi è stata assistere
all’insorgere e allo svilupparsi della demenza in due amatissimi membri. Ci
siamo trovati di fronte a molti dilemmi. Quanto avremmo dovuto rivelare di
quello che vedevamo? Come avremmo dovuto rispondere al senso di
superiorità assoluta che s’accompagna alla demenza, o alla sua ostinata
negazione? E, cosa ancor più pressante, che fare se ci fossimo resi conto che
un membro non doveva più incontrare i suoi pazienti? Ogni volta che è
capitato, abbiamo reagito invitando con forza il membro in questione a
consultare uno psicologo e a sottoporsi a un controllo neuropsicologico, e in
ciascuna situazione il medico consultato ha esercitato la propria autorità
ordinando al membro di smettere di incontrare pazienti. Come molte persone
che hanno superato gli ottant’anni mi preoccupo io stesso della demenza, e in
tre o quattro occasioni sono stato informato dal gruppo che avevo già riferito
in precedenza l’episodio appena raccontato. Per quanto la cosa sia
mortificante, sono stato grato al gruppo per la sua onestà. Da qualche parte,
nel profondo della mia mente, è in agguato il terrore che un giorno un
membro del gruppo insista affinché mi sottoponga a un controllo
neuropsicologico.
Quando uno dei nostri membri più giovani ci lasciò esterrefatti
annunciandoci che gli era appena stato diagnosticato un tumore incurabile al
pancreas, gli rimanemmo tutti accanto mentre discuteva apertamente e con
coraggio le sue paure e le sue preoccupazioni. All’approssimarsi della fine,
quando era troppo malato per spostarsi, tenemmo un incontro a casa sua, e
l’intero gruppo partecipò alla sua commemorazione.
Ogni volta che un membro moriva ne aggiungevamo uno nuovo, per
mantenere le nostre dimensioni relativamente costanti. Partecipammo tutti al
matrimonio di uno di noi, che si svolse a casa di un altro membro, mentre un
terzo si prendeva carico della cerimonia nuziale. Il gruppo partecipò anche
ad altri due matrimoni e al bar mitzvah del figlio di uno di noi. In un’altra
occasione l’intero gruppo visitò la casa di riposo dov’era confinato uno dei
membri, ora affetto da una grave forma di demenza. Più volte discutemmo la
possibilità di aggiungere membri di sesso femminile, ma siccome inserivamo
un unico membro per volta, la maggior parte di noi pensava che una donna si
sarebbe sentita in sgradevole minoranza. Ripensandoci adesso, credo che
quella sia stata una decisione sbagliata. La mia sensazione è che il gruppo
sarebbe stato ancora più proficuo se fin dall’inizio fosse stato formato da
uomini e donne.
Sono sempre stato attivo nel gruppo, e nella sua fase iniziale ero io quello
che, quando il gruppo sembrava poco impegnato e riluttante ad affrontare
questioni più profonde, spesso proponevo un’analisi del processo, ovvero
sottolineavo l’eccessiva preoccupazione del gruppo per argomenti sicuri e
superficiali; dopo i primi anni, tuttavia, anche altri si sono cimentati in
questo ruolo e con la mia stessa frequenza. Ci siamo offerti aiuto a vicenda a
diversi livelli. A volte lavoriamo su questioni profonde della personalità, o
sulle tendenze dei membri a lasciarsi andare al sarcasmo, a osservazioni
denigratorie, al senso di colpa per prendersi troppo tempo, alla paura di
esporsi o alla vergogna, e a volte il nostro obiettivo è semplicemente offrire
un sostegno e far sapere a uno di noi che gli siamo vicini. Di recente mi sono
presentato a un incontro piuttosto scosso per un incidente d’auto in cui ero
stato coinvolto la settimana prima. Dopo quell’incidente guidare mi causava
ansia e stavo cominciando a chiedermi se, alla mia età, dovessi ancora
mettermi al volante. Uno dei presenti mi raccontò di aver avuto un incidente
piuttosto grave pochi anni prima, e di esserne rimasto scosso per mesi.
Pensava che si trattasse di una piccola sindrome da stress post-traumatico.
Considerare la cosa in quella prospettiva mi fu molto utile e percorsi il
tragitto in auto fino a casa sentendomi più calmo, anche se guidai sempre con
prudenza.

Sono anche un membro di Pegasus, un gruppo di scrittura per medici fondato


nel 2010 da un mio buon amico, Hans Steiner, già a capo del dipartimento di
psichiatria infantile dello Stanford. Il nostro gruppo di dieci medici-scrittori
si incontra mensilmente per due ore, la sera, durante le quali discutiamo gli
scritti reciproci. Le serate terminano con una cena offerta da chi ha letto i
testi che sono stati analizzati. Questo gruppo ha letto molte delle pagine di
questo libro, ha preferito di gran lunga il primo terzo ai due terzi rimanenti e
ha insistito affinché mettessi più dettagli della mia vita personale nel testo.
Sono stati pubblicati diversi libri e testi più brevi scritti da membri del
gruppo, incluso La guerra di un chirurgo di Henry Ward Trueblood, un
memoriale sorprendente nel quale è descritta la vita di un chirurgo in prima
linea durante la guerra del Vietnam. Teniamo con regolarità letture pubbliche
delle nostre opere alla Stanford, e io stesso vi ho preso parte diverse volte.
Pegasus si è ingrandito e al momento esistono quattro gruppi Pegasus
formati da medici e da numerosi studenti di medicina. In alcune occasioni i
poeti del nostro gruppo hanno tenuto delle letture pubbliche, leggendo le loro
poesie ispirate da opere d’arte (per esempio i quadri della Stanford
Anderson Collection, aperta di recente), o da esibizioni musicali del
quartetto d’archi St. Lawrence, il gruppo musicale stabile della Stanford.
Ogni anno offriamo anche dei seminari su casi clinici, una gara di scrittura
per studenti con premi in denaro, e sponsorizziamo una cattedra annuale per
un professore esterno per integrare le scienze mediche con le materie
umanistiche.

Frequento anche un ulteriore evento mensile, gli incontri del gruppo


Lindemann, che porta il nome di uno dei suoi membri fondatori, Erich
Lindemann, un influente psichiatra che fu a lungo docente di psichiatria a
Harvard e, negli ultimi anni della sua vita, alla Stanford. Mi unii la prima
volta al gruppo al momento della fondazione, negli anni Settanta, e per anni
ne frequentai gli incontri mensili. A ciascuno degli incontri serali di due ore
erano presenti dagli otto ai dieci terapeuti, uno dei quali presentava un caso
problematico al quale stava lavorando. Per anni mi piacque il senso di
cameratismo del gruppo, fino a quando Bruno Bettelheim si trasferì alla
Stanford e si unì a noi. Grazie alla sua anzianità di servizio era convinto che,
durante gli incontri, i vari membri presentassero i loro casi a lui. Né io né
nessun altro riuscì a fargli cambiare idea e, quando arrivammo a un’impasse,
diversi di noi abbandonarono il gruppo. Molti anni dopo la morte di Bruno
fui invitato a rientrare, e da allora questo gruppo è molto prezioso per me.
Ogni membro, donna o uomo, presenta un caso secondo il proprio stile. A
un incontro recente un membro scelse di usare lo psicodramma e assegnò ai
membri del gruppo le parti da recitare (il paziente, la moglie, il terapeuta, gli
altri membri della famiglia, un commentatore esterno ecc.). In un primo
momento la cosa sembrò sciocca e priva di senso, ma alla fine dell’incontro
ci sentivamo tutti bloccati e incapaci di offrire un aiuto al paziente, ovvero
esattamente come si era sentito il terapeuta che stava presentando il caso nel
lavoro con il suo paziente. Il suo fu un metodo insolitamente potente e
realistico di comunicare il proprio dilemma terapeutico.
Il gruppo al quale mi sento più intimamente connesso è quello della mia
famiglia. Sono sposato con Marilyn da sessantatré anni ed è raro che passi
una giornata senza che io ringrazi la mia buona sorte per avere avuto una
compagna di vita così straordinaria. Tuttavia, come ho detto spesso agli altri,
le relazioni non si trovano bell’e fatte, le relazioni si creano. Nel corso dei
decenni entrambi abbiamo lavorato sodo per creare il matrimonio che
abbiamo oggi. Qualsiasi lamentela abbia avanzato in passato è oggi svanita.
Ho imparato ad accettare le sue poche mancanze (l’indifferenza per la
cucina, per gli eventi sportivi, per la bicicletta, per la fantascienza e la
scienza in genere), delle quali mi lamento sempre meno. Sento di essere stato
fortunato a vivere con un’enciclopedia vivente della cultura occidentale, che
è in grado di rispondere immediatamente alla maggior parte delle domande
storiche o letterarie che le pongo.
Anche Marilyn ha imparato a chiudere un occhio sulle mie mancanze (il
mio incurabile disordine domestico, il rifiuto di mettere la cravatta,
l’infatuazione adolescenziale per le motociclette e le macchine
decappottabili, la pretesa ignoranza su come far funzionare la lavastoviglie o
la lavatrice). Siamo giunti a una comprensione reciproca che non avrei
potuto immaginare quando ero un amante giovane, impetuoso e spesso
insensibile. Le nostre preoccupazioni principali adesso sono concentrate sul
benessere dell’altro e sulla paura di quello che accadrà quando uno dei due
morirà per primo.
Marilyn è una studiosa con una mente indagatrice ed è particolarmente
legata alla letteratura e all’arte europee. Come me, è un’eterna studentessa e
un’instancabile lettrice. A differenza di me è estroversa, socievole e abile
nei rapporti sociali, com’è dimostrato dalle sue numerose amicizie. Anche se
siamo entrambi appassionati di lettura e scrittura, i nostri interessi non
sempre coincidono, e credo che questo sia davvero un bene. Io sono attirato
dalla filosofia e dalla scienza, in particolare la psicologia, la biologia e la
cosmologia. Tranne un corso di botanica alla Wellesley, Marilyn non ha
avuto alcuna formazione scientifica e non sa assolutamente nulla del mondo
tecnologico moderno. Mi riesce davvero difficile convincerla ad
accompagnarmi al planetario e all’acquario dell’Accademia delle Scienze
della California e, una volta lì, non vede l’ora di filarsela al museo d’arte de
Young dall’altra parte del parco, dove dedicherà dieci minuti all’esame di un
unico quadro. Marilyn mi spalanca le porte del mondo dell’arte e della
storia, ma a volte sono irrecuperabile. Pur essendo irrimediabilmente
stonato, lei continua a cercare di risvegliare la mia sensibilità musicale, ma
quando guido da solo e non ci sono partite di baseball, spesso sintonizzo la
radio su un canale di musica bluegrass.
Marilyn ama il buon vino e per anni ho finto che piacesse pure a me. Ma
di recente ho rinunciato a qualsiasi finzione e ho ammesso apertamente di
non amare il gusto dell’alcol in qualsiasi forma. Forse si tratta di una
componente genetica: anche i miei genitori non amavano le bevande
alcoliche, eccetto un occasionale boccale di birra e panna acida, una mistura
russa che bevevano spesso d’estate.
Fortunatamente, grazie a Dio io e Marilyn non siamo credenti, anche se
lei possiede un segreto desiderio verso il sacro, mentre io sono uno scettico
zelante e mi schiero con Lucrezio, Christopher Hitchens, Sam Harris e
Richard Dawkins. Entrambi amiamo i film, ma la scelta è spesso una sfida:
lei mette il veto a qualsiasi forma di violenza o al benché minimo accenno di
delinquenza. Per lo più sono d’accordo con lei, ma quando non c’è mi godo
un bel film su un truffatore o un western con Clint Eastwood. E quando a
essere sola è lei, la TV rimane fissa sul canale francese via cavo.
La sua memoria è buona, fin troppo a volte: ricorda i film con tale
precisione che, anche a decenni di distanza, è riluttante a rivederli, mentre io
li guardo con piacere e mi sembrano nuovi di zecca, dato che ho scordato
quasi completamente la trama. Il suo autore preferito, senza il minimo
dubbio, è Proust. Per me è troppo ricercato: tendo piuttosto a Dickens,
Tolstoj, Dostoevskij e Trollope. Tra gli scrittori contemporanei leggo David
Mitchell, Philip Roth, Ian McEwan, Paul Auster e Haruki Murakami, mentre
lei si schiererebbe per Elena Ferrante, Colm Tóibín e Maxine Hong
Kingston. Entrambi amiamo J.M. Coetzee.
Pur avendo avuto quattro figli, Marilyn non ha perso un solo anno di
insegnamento. Dipendevamo da giovani ragazze au pair provenienti
dall’Europa, e da aiuti domestici quotidiani. Come molte persone cresciute
in California, i nostri figli hanno scelto di vivere qui, e ci sentiamo fortunati
ad averli tutti vicini a noi. Facciamo spesso riunioni di famiglia e in genere
passiamo le vacanze estive assieme, per lo più a Hanalei, sull’isola di
Kauai. Una delle fotografie dell’inserto ci mostra con i nostri figli e nipoti.
Rimase pubblicata su Facebook solo pochi giorni, prima di essere rimossa
per oscenità (se guardate attentamente, noterete che mia nuora sta allattando
con discrezione il nostro nipotino più piccolo).
I giochi sono una parte fondamentale della vita della nostra famiglia. Ho
giocato a tennis per anni con ciascuno dei miei figli maschi in un campo
vicino a casa, e quei momenti sono tra i miei ricordi più belli. Ho insegnato
a Reid e Victor a giocare a scacchi quando erano piccoli, e tutti e due sono
diventati ottimi giocatori. Mi piaceva portarli ai tornei, dai quali
emergevano sempre con un trofeo luccicante tra le mani. Il figlio di Reid,
Desmond, e quello di Victor, Jason, sono a loro volta ottimi giocatori ed è
raro che teniamo una riunione di famiglia senza che si facciano una o due
partite di scacchi.
Ci sono altri giochi molto popolari nelle riunioni di famiglia. C’è
Scarabeo con mia figlia Eve, che è sempre la campionessa in carica. Ma
soprattutto amo il poker, con puntate moderate, e le partite di pinnacolo con
Reid e Ben, nelle quali utilizziamo le stesse regole e puntate di quando
giocavo con mio padre e zio Abe.
A volte Victor ci intrattiene con qualche trucco o magia. Alla scuola
superiore era un ben noto burlone, e durante l’adolescenza si esibiva come
mago, sia per gli adulti che per i bambini. Chiunque sia stato presente alla
cerimonia di diploma della scuola superiore Gunn ricorderà lo spettacolo di
Victor che marcia solennemente lungo la navata per ricevere il suo diploma,
quando all’improvviso il tocco che ha in testa prende fuoco. La cerimonia fu
interrotta tra mille esclamazioni e un incredibile scoppio di applausi. Rimasi
basito come tutti i presenti e lo supplicai di dirmi come avesse fatto. Da vero
mago dedito alla sua arte si era sempre ostinatamente rifiutato di rivelare
qualsiasi segreto professionale, persino al suo supplice padre, ma in
quell’occasione s’impietosì e mi rivelò il segreto del tocco in fiamme: un
contenitore di alluminio nascosto nella tesa del cappello, un serbatoio di
liquido infiammabile, un minuscolo fiammifero e, voilà, il tocco era in
fiamme. (Non provate a farlo a casa vostra.)
Sono stato così preso dall’insegnamento, dalla scrittura e dal dovere di
sostenere finanziariamente la famiglia che ora, guardando indietro, sento di
essermi perso molto. Mi rammarico di non aver trascorso più tempo a tu per
tu con ciascuno dei miei figli. Alla cerimonia funebre del mio amico Larry
Zaroff uno dei suoi tre figli descrisse una cara tradizione di famiglia,
secondo la quale il padre trascorreva la maggior parte del sabato con uno
dei tre figli, a turno. Pranzavano, chiacchieravano e andavano in libreria
assieme, e ciascuno si sceglieva un libro. Che bellissima tradizione! Mentre
ascoltavo, mi ritrovai a desiderare di essere entrato più in profondità nelle
vite di ciascuno dei miei figli. Se mi capitasse di fare un altro giro su questa
terra, mi comporterei in modo diverso.
Marilyn è stata il genitore di riferimento nella quotidianità, e ha
rinunciato alla maggior parte dei suoi impegni di scrittrice finché i figli non
sono cresciuti. Dopo le necessarie pubblicazioni accademiche, cominciò a
scrivere per un pubblico più vasto, seguendo il mio esempio. Nel 1993
pubblicò Sorelle di sangue: la rivoluzione francese per le donne, e da
allora ha firmato altri sette libri, tra i quali Una storia della moglie, La
nascita della regina negli scacchi, Una storia del seno, Come i francesi
hanno inventato l’amore, Il sesso sociale e I luoghi dell’eterno riposo in
America, in collaborazione con nostro figlio Reid, che è un eccellente
fotografo d’arte. Ogni suo libro è stato una grande avventura per me. Siamo
sempre i primi lettori dei lavori dell’altro. Marilyn attribuisce alla mia
attrazione per il seno l’ispirazione per Una storia del seno, uno studio
culturale di come i corpi delle donne sono stati visti e rappresentati nel
corso della storia. Tuttavia quello che preferisco è La nascita della regina
negli scacchi, un libro in cui delinea l’evoluzione di un pezzo del gioco che
non è esistito per secoli ed è apparso per la prima volta sulla scacchiera
intorno all’anno 1000, in qualità di pezzo più debole in assoluto. A poco a
poco è andato però assumendo più potere, con la crescita del potere delle
regine in Europa, fino a raggiungere la posizione attuale di pezzo più potente
della scacchiera alla fine del quindicesimo secolo, durante il regno della
regina Isabella di Spagna. Ho assistito con enorme orgoglio a molte
presentazioni di Marilyn in librerie e università. Al momento è nel pieno
della stesura di un altro libro, Il cuore amoroso, che esplorerà il modo in cui
il cuore è diventato il simbolo dell’amore.
Nonostante la nostra forte etica del lavoro, io e Marilyn siamo sempre
stati saldamente inseriti nella nostra famiglia, adempiendo ai ruoli di genitori
e di nonni per più di sessant’anni. Abbiamo cercato di rendere la nostra casa
un luogo accogliente non solo per i figli, ma anche per gli amici e per gli
amici dei nostri figli. La nostra casa ha ospitato moltissimi matrimoni, feste
per la pubblicazione di libri e per i nuovi nati. Forse sentivamo questa
necessità più di altri, dato che abbiamo lasciato le famiglie d’origine alle
nostre spalle, sulla costa est, e ci siamo creati una nuova rete di familiari e
amici in California, con le radici nel futuro piuttosto che nel passato.
Anche se nel corso delle nostre vite abbiamo viaggiato parecchio (in
molti paesi europei, in moltissime isole tropicali dei Caraibi e del Pacifico,
in Cina, Giappone, Indonesia e Russia), mi ritrovo, con il passare degli anni,
a essere sempre più riluttante all’idea di lasciare casa mia. Il jet lag è più
forte che in passato, e spesso durante i viaggi lunghi mi ammalo. Quando si
tratta di viaggiare Marilyn, che cronologicamente ha solo nove mesi meno di
me, spesso sembra vent’anni più giovane. Adesso, quando vengo invitato a
tenere conferenze in paesi lontani, oppongo invariabilmente un rifiuto,
proponendo spesso delle videoconferenze. Mi limito a raggiungere le
Hawaii e a volte Washington e New York, e ogni anno vado ad Ashland per
il festival dell’Oregon dedicato a Shakespeare.
In un’intervista inserita nel film documentario del 2014 La cura di Yalom,
nostra figlia Eve disse candidamente al regista che io e Marilyn avevamo
sempre messo la nostra relazione al primo posto, ovvero al di sopra della
relazione con i nostri figli. La mia prima reazione fu la protesta, ma in realtà
credo che avesse ragione. Eve continuò dicendo di avere invece messo al
primo posto i propri figli, ma poi aggiunse malinconicamente che il suo
matrimonio non era durato più di venticinque anni. Nei dibattiti con il
pubblico a conclusione del film, diversi spettatori notarono che il nostro
matrimonio sembrava molto saldo e resistente, mentre tutti e quattro i nostri
figli avevano divorziato. Risposi che sospettavo che fossero entrati in gioco
alcuni fattori storici: un totale tra il quaranta e il cinquanta per cento dei
matrimoni americani contemporanei si conclude con il divorzio, mentre tra i
miei contemporanei il divorzio era molto raro. Nei miei primi venticinque o
trent’anni di vita non avevo mai incontrato una persona divorziata. Nei
dibattiti con il pubblico del film riguardo ai divorzi dei nostri figli, Marilyn
aveva sempre voglia di intervenire obiettando: «Ehi, tre dei nostri figli si
sono risposati, e stanno avendo un ottimo secondo matrimonio».
Durante ognuno di questi divorzi, io e Marilyn avevamo discusso
all’infinito su cosa potessimo aver sbagliato. I genitori sono responsabili dei
fallimenti dei matrimoni dei propri figli? Sono certo che molti genitori si
siano rivolti questa stessa domanda, alla quale non esiste risposta. Il
divorzio è in genere un’esperienza dolorosa per chiunque vi sia coinvolto. Io
e Marilyn abbiamo condiviso la tristezza dei nostri figli, e anche oggi
manteniamo un rapporto intimo con tutti loro e con i nostri nipoti, rincuorati
dal sostegno che si offrono a vicenda.
39.
A proposito di idealizzazione
Da quando il mio libro La teoria e la pratica della psicoterapia di gruppo
venne adottato come libro di testo, quarantacinque anni fa, ho avuto un
seguito fedele tra gli studenti e i terapeuti. Sono loro il mio pubblico
privilegiato e non mi sarei mai aspettato di averne uno più ampio. Così fui
sorpreso ed elettrizzato quando la mia raccolta di racconti terapeutici, Il
carnefice dell’amore, divenne un best seller in America e fu tradotto in molti
paesi. Ero sempre rallegrato quando gli amici mi scrivevano di averlo visto
in bella mostra negli aeroporti di Atene, Berlino o Buenos Aires. In seguito,
quando i miei romanzi raggiunsero i lettori stranieri, ho sempre conservato
con cura le copie delle edizioni in serbo, bulgaro, russo, polacco, catalano,
coreano, cinese che mi arrivavano per posta. Solo per gradi ho accettato
(senza però mai capirne completamente il motivo) che la grande maggioranza
dei miei lettori provenga da altri paesi e legga i miei libri in un’altra lingua.
Marilyn è stata per molti anni costernata dal fatto che l’unico tra i paesi
maggiori ad avermi completamente ignorato fosse la Francia. È stata una
francofila convinta fin da quando ha cominciato a studiare la lingua a dodici
anni, e soprattutto dopo l’anno universitario trascorso in Francia con il
programma del college Sweetbriar. Ho cercato più volte di migliorare il mio
francese con vari insegnanti, ma sono talmente inetto che persino mia moglie
è giunta alla conclusione che non ci fosse niente da fare. Nel 2000 una nuova
casa editrice francese, Galaade, mi fece un’offerta per i diritti di traduzione
in francese dei sette volumi che avevo scritto fino a quel momento. Da allora
la Galaade ne ha pubblicato uno all’anno, e in breve potei contare su un
considerevole numero di lettori anche in Francia.
Nel 2004 la Galaade organizzò una manifestazione al teatro Marigny di
Parigi, sulla Rive droite (oggi teatro St. Claude). Dovevo essere intervistato
(naturalmente con un interprete) dall’editore di Psychologies, una popolare
rivista francese. Il teatro è una grandiosa struttura antica, con un’ampia buca
per l’orchestra, due balconate e un maestoso palcoscenico, un tempo onorato
dalla presenza del grande attore francese Jean-Louis Barrault. Quando
arrivai a teatro, fui stupito che ci fosse il tutto esaurito e notai con meraviglia
una lunga fila di persone in attesa fuori dall’edificio. Appena entrato,
adocchiai un enorme trono di velluto rosso al centro del palcoscenico, dove
ci si aspettava che io sedessi e arringassi le folle. Era decisamente troppo!
Insistetti affinché il trono venisse sostituito con qualcosa di meno
pretenzioso. Quando la gente prese posto, notai un buon numero degli amici
francofoni di Marilyn, che per anni non avevano potuto conversare con me e
nemmeno leggere i miei libri. L’intervistatore pose proprio le domande
giuste, io raccontai molte delle mie storie migliori, il traduttore fece miracoli
e la serata non avrebbe potuto riuscire meglio. Potevo quasi sentire Marilyn
fare le fusa dal piacere, mentre i suoi amici francesi si rendevano conto che
dopotutto non ero l’idiota che avevano creduto.

Nel 2012 una regista svizzera, Sabine Gisiger, mi contattò per girare un
documentario sulla mia vita. Sembrava una proposta curiosa, ma quando al
Mill Valley Film Festival assistetti alla proiezione di Guru, un film
eccellente che aveva girato su Rajneesh, il popolare leader che con le sue
manipolazioni aveva guidato una comune in Oregon, cominciai a provare un
certo interesse. Quando le chiesi perché avesse scelto me come soggetto di
un film, mi rispose che si era sentita “sporcata” dal lavoro su Rajneesh e
aveva deciso di fare un film su una «persona rispettabile». Una persona
rispettabile: fu così che mi conquistò.
Cominciammo un periodo di riprese che durò più di due anni, con Sabine
come regista, Philip Delaquis come produttore, e i loro magnifici tecnici del
suono e della fotografia. La troupe fece diverse visite a casa nostra, a Palo
Alto, alla Stanford e ai luoghi di vacanza della nostra famiglia, nelle Hawaii
e nel sud della Francia, e in breve l’intero cast si sentì parte della famiglia.
Venni ripreso in varie situazioni: mentre parlavo in pubblico, andavo in
bicicletta, nuotavo, facevo immersioni, giocavo a ping-pong, e una volta
mentre ero immerso nella vasca idromassaggio con Marilyn.
Per tutto il tempo mi chiesi chi diavolo avrebbe voluto vedere un film che
mostrava tutti questi aspetti banali della mia vita. Non avevo fatto
investimenti finanziari nel film ma, essendo diventato amico della regista e
del produttore, mi preoccupavo per i soldi che avrebbero perso. Alla fine,
quando l’intera famiglia e diversi amici intimi assistettero alla proiezione
privata di una prima versione a San Francisco, mi sentii sollevato: Sabine e i
suoi collaboratori avevano fatto un lavoro eccellente, selezionando scene da
molte dozzine di ore di riprese e organizzandole in un insieme coerente della
durata di settantaquattro minuti. Nonostante le mie proteste, venne intitolato
La cura di Yalom. Tuttavia mi sconcertava l’idea che qualcuno, al di fuori
della famiglia più stretta e degli amici più intimi, potesse provare il minimo
interesse per il film. Inoltre mi sentivo imbarazzato ed esposto. Anche se
sono giunto a identificarmi con quello che scrivo e considero i miei libri, in
particolare le storie e i romanzi, i capitoli più importanti della mia vita
adulta, il film si occupa poco di me in quanto scrittore e si concentra invece
sulle mie attività quotidiane. E tuttavia, con mia sorpresa, il film in Europa
fu un successo, e alla fine venne proiettato in cinquanta cinema per diverse
centinaia di migliaia di spettatori.
Nell’autunno del 2014, quando venne proiettato a Zurigo, la regista chiese
a me e a Marilyn di essere presenti alla prima mondiale. Anche se avevo
deciso di non fare più viaggi oltreoceano, quello era un invito che non
potevo rifiutare. Volammo a Zurigo e assistemmo a due proiezioni, la prima a
inviti, con un pubblico di terapeuti e persone importanti, e la seconda per un
pubblico normale. Al termine di ciascuna proiezione risposi alle domande
dei presenti e mi sentii molto esposto, specialmente per le riprese di me e
Marilyn nell’idromassaggio, anche se si vedevano soltanto le nostre teste e
le spalle. Ma mi emozionai vedendo le scene di una vacanza della famiglia,
quando i nostri nipoti Alana e Desmond si sfidano in una gara di ballo. Alla
fine del film si sente cantare un’altra nipote, Lilli Virginia, che è una
cantautrice professionista.
Quando, pochi mesi dopo, il film fu proiettato in Francia, Marilyn si recò
a Parigi per la prima e parlò al pubblico del teatro dopo la proiezione. Fu
poi emozionata di vedere le nostre facce sulla copertina di Pariscope, una
guida popolare agli eventi della città di Parigi.
Pochi mesi dopo il film fu proiettato a Los Angeles ma, a differenza
dell’Europa, suscitò scarso interesse. Nonostante una recensione favorevole
sul Los Angeles Times, fu tolto dal cartellone dopo pochi giorni.
In concomitanza con il viaggio a Zurigo per la prima del film, avevo
accettato l’offerta di tenere una conferenza a Mosca. L’incentivo era stato un
compenso insolitamente generoso, nonché il volo da Zurigo a Mosca su un
jet privato. Quel volo fu una vera e propria storia a sé. Eravamo solo quattro
passeggeri: io, Marilyn, un ex paziente che avevo incontrato per un’unica
seduta molti anni prima e un caro amico di questi, un oligarca russo e
proprietario dell’aeroplano. Io sedevo accanto all’oligarca, con il quale
ebbi una cordialissima conversazione per tutto il volo. Mi diede
l’impressione di essere un individuo riflessivo, profondo, afflitto da alcune
aree problematiche della propria esistenza. Capii bene i suoi travagli ma,
per cortesia, non volli andare troppo a fondo. Solo molto tempo dopo venni
a sapere che lo scopo (non esplicitato) di quel volo era che offrissi un po’ di
terapia a quell’uomo tormentato. Se solo l’avessi saputo, se solo qualcuno
avesse parlato chiaro, mi sarei maggiormente concentrato su come essergli
d’aiuto.
La mia conferenza ebbe luogo all’Istituto di psicoanalisi di Mosca, una
grande università e sede spesso usata per i concerti rock. Lo sponsor aveva
programmato di avere una traduzione simultanea grazie a settecento cuffie,
ma si presentarono millecento persone, causando una tale confusione che lo
sponsor, abbandonata l’idea della simultanea, chiese che le cuffie venissero
restituite e diede istruzioni a un traduttore molto ansioso affinché
provvedesse a una traduzione dal vivo.
Quando cominciai a parlare e notai che nessuna delle mie battute veniva
accolta da sorrisi, mi resi conto che doveva esserci un serio problema con la
traduzione. In seguito il mio ospite mi disse che il traduttore, innervosito dal
brusco cambiamento di programma, aveva avuto bisogno di una quindicina
di minuti per riprendersi, ma alla fine riuscì a fare un buon lavoro. Dopo la
conferenza gli sponsor avevano organizzato una rappresentazione in russo di
uno dei racconti di Creature di un giorno, “Arabesque”, la storia di una
ballerina russa. Due attori di straordinaria bellezza, con abiti esotici, misero
in scena la storia, della quale era testimone un uomo anziano e silenzioso
(presumo si trattasse di me), seduto in un angolo. Lo sfondo dell’azione era
un grande schermo sul quale veniva proiettata la mano di un artista che, con
un pennello, creava bellissimi disegni surreali usando i colori a olio. Alla
fine dell’evento firmai libri per un tempo infinito.

A Mosca accettai un insolito invito a discutere di esistenzialismo con un


gruppo di funzionari di banca per un’ora e mezzo. Ci incontrammo in un
magnifico salone in cima a un grattacielo. Era presente una cinquantina di
persone, tra le quali il presidente della banca, uno dei pochi che parlava
inglese. Io, naturalmente, non sapevo una parola di russo e la traduzione
rendeva la discussione complicata. Il pubblico sembrava profondamente
disinteressato all’esistenzialismo e non poneva domande. Supposi che tutti
fossero restii a impegnarsi in un dibattito libero in presenza dei loro
dirigenti, e cercai con impegno di esplorare la cosa, ma senza risultato. Il
presidente della banca sedeva in prima fila incollato al suo iPad e, dopo
venti minuti, interruppe l’incontro per annunciare che l’Unione Europea
aveva appena imposto nuove sanzioni alla Russia, e lui avrebbe desiderato
che utilizzassimo il tempo che ci rimaneva per discutere le loro
preoccupazioni per questa svolta degli eventi. Mi dissi del tutto d’accordo,
dato che c’era evidentemente scarso entusiasmo per l’esistenzialismo ma
anche in questo caso seguì solo il silenzio. Ancora una volta espressi la mia
preoccupazione che i presenti potessero non voler dar voce alle proprie
opinioni in presenza dei loro dirigenti ma, per quanto ci mettessi tutto il mio
impegno, non trovai il modo di uscire da quell’impasse. Il mio lavoro si
concluse con pochi risultati, a eccezione del compenso, che mi fu corrisposto
in modo curioso. Mi venne detto che l’avrei ricevuta il giorno successivo,
durante una cena che l’università avrebbe dato in mio onore. La sera
successiva, dopo il dessert, qualcuno mi porse in maniera surrettizia una
semplice busta piena di valuta americana. Immaginai che mi avessero pagato
in quel modo misterioso per farmi un favore, sulla base del (falso)
presupposto che avrei potuto evitare di pagare le tasse su quella somma, ma
è anche possibile che per una qualche ragione la banca avesse cercato di
liberarsi del contante in eccesso.
Invecchiando ho cercato di evitare voli lunghi e sono giunto a preferire le
videoconferenze. Per farle devo recarmi a uno studio per videoconferenze
vicino a casa mia, rivolgermi al pubblico e rispondere alle domande per
circa novanta minuti. Ho fatto dozzine di presentazioni via videoconferenza
da quando ho deciso di mettere fine ai viaggi oltreoceano, ma di recente, nel
maggio 2016, ce n’è stata una assolutamente insolita con la Cina. Tre
psichiatri cinesi mi hanno intervistato per novanta minuti, mentre un
interprete, venuto a San Francisco per l’occasione, mi sedeva accanto e
traduceva le loro domande e le mie risposte. Il giorno successivo i miei
sponsor mi dissero che l’intervista era stata vista da un vasto pubblico, ma
rimasi sbalordito quando mi inviarono una foto degli intervistatori e il
calcolo preciso degli ascoltatori: erano stati 191.234.
Quando espressi la sorpresa e l’incredulità per quel numero, lo sponsor
cinese commentò: «Dottor Yalom, come la maggior parte degli americani lei
non si rende realmente conto della vastità della Cina».

Ogni giorno, senza eccezioni, ricevo email da lettori da molte parti del
mondo, e ci tengo a rispondere a ogni lettera, in genere con un semplice:
«Grazie per avermi scritto» o: «Sono molto lieto che il mio lavoro significhi
qualcosa per lei». Faccio attenzione a menzionare il nome dello scrivente, in
modo che chi mi ha scritto sia certo che ho effettivamente letto la sua lettera
e sto provvedendo a una risposta personale. Questo porta via parecchio
tempo, ma sento che in tal modo sto facendo qualcosa di simile alla pratica
della meditazione quotidiana e benevola dei miei amici buddhisti. Quasi
quotidianamente ricevo una richiesta di consultazione da qualche parte del
mondo, via Skype o da parte di individui disposti a volare in California per
incontrarmi. L’altro giorno un uomo mi ha scritto per chiedermi se avrei
potuto collegarmi via Skype con sua madre, una psicoterapeuta in pensione,
il giorno del suo centesimo compleanno.
Oltre alla posta, a volte i lettori mandano dei doni, e la nostra casa è
adorna di oggetti provenienti da Grecia, Turchia, Iran, Cina. Ma il dono più
straordinario mi è stato inviato da Sakellaris Koutouzis, un noto scultore
greco che vive e lavora sull’isoletta di Kalymnos. Ricevetti una email da
parte sua nella quale mi chiedeva l’indirizzo, m’informava che aveva
apprezzato molto i miei libri e che mi stava facendo un busto in gesso,
basandosi sulle fotografie che aveva trovato sul Web. Andai a cercare
informazioni su di lui in Internet e scoprii che era un abile scultore, le cui
opere erano in mostra in diverse città in tutto il mondo. Insistetti per pagare i
costi di spedizione, ma lui rifiutò. Un mese più tardi un busto a grandezza
naturale arrivò alla mia porta, in un’enorme scatola di legno. Adesso se ne
sta in casa nostra ed è talmente somigliante che ogni volta quasi mi spavento
a guardarlo. Spesso io o i miei figli lo adorniamo con occhiali, con cravatte
o con uno dei miei numerosi cappelli.

Per quanto io cerchi di non dar peso a questi indici di notorietà, non ho
dubbi che abbiano accresciuto il mio io. Credo anche che l’età avanzata,
l’autorevolezza e la reputazione mi rendano più efficace come terapeuta.
Negli ultimi venticinque anni la maggior parte dei miei pazienti mi ha
contattato perché aveva letto alcuni dei miei scritti, e si è presentata nel mio
studio con una forte fiducia nei miei poteri terapeutici. Avendo incontrato
noti terapeuti, nel corso della mia vita, ho un’idea precisa di come simili
incontri possano lasciare il segno: riesco ancora a vedere le rughe profonde
sul volto di Carl Rogers. Cinquant’anni fa avevo chiesto di poter avere una
conversazione con lui e avevo raggiunto in aereo la California del Sud, per
trascorrervi un pomeriggio. Gli avevo mandato alcuni dei miei lavori e
ricordo che mi disse che, anche se il mio libro sulla terapia di gruppo era
ben fatto, era il libro che avevo scritto con Ginny (Ogni giorno s’avvicina)
che considerava molto speciale. E i volti di Viktor Frankl e Rollo May sono
così chiari nella mia mente che, se avessi il talento artistico che non ho,
potrei riprodurli con precisione a memoria.
Quindi, grazie alla mia reputazione, i pazienti rivelano segreti che non
hanno mai detto a nessun altro, nemmeno ai terapeuti precedenti, e, se li
accetto senza esprimere giudizi e in modo empatico, i miei interventi hanno
probabilmente un peso maggiore semplicemente per le idee preconcette che
loro hanno a mio riguardo. Di recente, nel corso di uno stesso pomeriggio,
ho incontrato due nuovi pazienti che conoscevano il mio lavoro. La prima,
una terapeuta in pensione, aveva guidato fino al mio studio da casa sua, a
diverse ore di distanza. Era preoccupata dalla propria tendenza ad
ammucchiare oggetti (in una sola stanza della casa) e da un comportamento
ossessivo: quando usciva di casa in macchina, dopo essersi allontanata di un
isolato doveva tornare indietro e controllare se aveva chiuso la porta e
spento il gas. Le dissi che non pensavo che la cosa potesse essere risolta da
una terapia breve con me, né che interferisse in modo significativo con la sua
vita. La giudicai una persona ben integrata, una donna che aveva un ottimo
matrimonio e che si trovava alle prese con il compito difficile di cercare un
significato alla sua vita dopo la pensione. Le fece piacere sentirmi dire che
non pensavo che avesse bisogno di una terapia. Il giorno successivo mi
mandò l’email che segue:
Volevo solo farle sapere quanto abbia apprezzato e avuto cara la nostra consultazione di giovedì, ha
significato moltissimo per me. Ho sentito il suo appoggio e la conferma che me la stavo cavando bene,
che sono felice e soddisfatta della mia vita e ho davvero apprezzato il suo commento a proposito del
fatto che non ho bisogno di una terapia. Sono uscita dal suo studio meno in ansia e con più fiducia in me
stessa, e pronta ad accettarmi. Ho sentito che è stato un vero dono. Niente male davvero per un’unica
seduta!

Più tardi, quello stesso pomeriggio, un sudamericano di mezza età, venuto a


trovare un amico a San Francisco, si presentò per un’unica seduta. Trascorse
quasi tutta l’ora a parlare delle sue preoccupazioni per la sorella, che per
quasi tutta la vita aveva combattuto l’anoressia. Dopo la morte dei genitori,
lui era stato così gravato dalle spese mediche e psichiatriche per curarla che
non era stato in grado di sposarsi e di metter su famiglia. Gli domandai
perché proprio lui, invece degli altri membri della sua ampia famiglia
d’origine, si fosse fatto interamente carico dell’assistenza della sorella.
Allora, con grande ansia ed esitazione, mi raccontò una storia che in
precedenza non aveva mai condiviso con nessuno.
Essendo tredici anni più vecchio della sorella, un giorno, quando lei
aveva due anni e lui quindici, i genitori gliel’avevano affidata per diverse
ore mentre loro e gli altri figli partecipavano a un matrimonio. Durante la
loro assenza, lui aveva avuto una lunga telefonata erotica con un’amica (che
non piaceva affatto ai genitori, i quali gli avevano espressamente proibito di
frequentarla). Durante questa conversazione la sorella era sgusciata fuori
dalla porta di casa ed era caduta giù per la scala, procurandosi escoriazioni
sul corpo e sulla faccia. Quando i genitori erano tornati, lui aveva confessato
tutto (il momento peggiore della sua vita) e, sebbene le ferite della sorella
fossero lievi e le escoriazioni fossero scomparse rapidamente, aveva
conservato dentro di sé, per tutti quegli anni, il segreto timore e a volte la
convinzione che l’anoressia di lei fosse stata causata da quella caduta.
Inoltre, nei venticinque anni trascorsi dal ferimento della sorella, era la
prima volta che rivelava quell’esperienza a qualcuno.
Facendo ricorso alla mia voce più profonda e formale, gli dissi che
avevo ascoltato con attenzione quello che mi aveva raccontato della sorella
e, dopo aver considerato tutte le prove addotte, lo dichiaravo innocente. Gli
assicurai che aveva pagato il suo debito per l’episodio di negligenza, e gli
garantii che non era in alcun modo possibile che la caduta potesse aver
causato l’anoressia. Gli suggerii anche di cercare di approfondire il tutto in
una terapia, una volta tornato nel suo paese. Pianse per il sollievo, declinò il
mio suggerimento di intraprendere una terapia e mi assicurò di aver avuto
esattamente quello che voleva. Uscì dal mio studio con un passo molto più
leggero.
Queste sedute singole, nelle quali riconosco gli sforzi e l’impegno del
paziente e gli do la mia benedizione, devono il loro successo in gran parte al
potere che il paziente stesso mi conferisce.
Non molto tempo fa una donna mi raccontò l’evento più triste della sua
vita. Nella tarda adolescenza, poco prima di lasciare la sua casa per andare
al college, aveva fatto un lungo viaggio in treno con il padre, uomo eminente
ma molto distaccato. Aveva atteso con enorme ansia quel viaggio da sola con
lui, ed era stata devastata quando il padre aveva aperto la valigetta e aveva
trascorso tutto il tempo lavorando, senza rivolgerle una parola. Le risposi
che la nostra terapia le offriva l’opportunità di rivivere quell’episodio. Lei e
io (un uomo illustre, più vecchio di lei) avremmo fatto un viaggio terapeutico
di alcune ore, ma l’avremmo fatto in modo diverso: lei sarebbe stata del tutto
autorizzata, persino incoraggiata a porre domande, e a esprimere lamentele e
sentimenti. Io avrei fatto in modo di rispondere e ricambiare nello stesso
modo. Fu commossa e, alla fine, aiutata da un approccio del genere.
E l’impatto di tutta quest’attenzione e di questo plauso sul mio io? A volte
mi dà alla testa, altre mi turba, ma in genere riesco a mantenere il mio
equilibrio. Ogni volta che incontro i colleghi nel mio gruppo di sostegno o
nel gruppo in cui discutiamo dei casi, sono consapevole che tutti loro,
medici eccellenti con una pratica di decenni, sono in tutto e per tutto efficaci
quanto me nel loro lavoro. Quindi non prendo molto sul serio l’adulazione.
Tutto quello che posso fare è prendere seriamente il mio lavoro ed essere il
miglior terapeuta possibile. Mi rammento che vengo idealizzato e che noi
umani, tutti noi, desideriamo ardentemente trovare un anziano dai capelli
bianchi, saggio e onnisciente. Se sono stato scelto per recitare questa parte,
be’, accetto con gioia questa posizione. Qualcuno deve pur occuparla.
40.
Un principiante dell’invecchiamento
Da bambino ero sempre il più giovane: il più giovane della classe, della
squadra di baseball, della squadra di tennis, del dormitorio al campeggio.
Adesso invece, ovunque vada, sono il più vecchio: il più vecchio a una
conferenza, al ristorante, alla presentazione di un libro, al cinema, a una
partita di baseball. Di recente ho partecipato e parlato a un convegno di
formazione medica per psichiatri organizzato dal dipartimento di psichiatria
della Stanford. Quando ho dato un’occhiata al pubblico di colleghi
provenienti da tutto il paese, ho visto solo pochi capelli grigi e nessuno con i
capelli bianchi. Non ero solo il più anziano, ero il più anziano e di
parecchio! Ascoltare le altre sedici conferenze e discussioni in programma
mi rese ancor più consapevole della mia età e dei cambiamenti verificatisi
nel nostro campo da quando avevo cominciato a esercitare la medicina, negli
anni Cinquanta. Tutti gli sviluppi correnti (la nuova farmacologia per la
schizofrenia, i disordini bipolari e la depressione, la nuova generazione di
esperimenti in corso, i trattamenti ad alta tecnologia per i disturbi del sonno,
i disordini alimentari e i disturbi da deficit d’attenzione), ormai sono in gran
parte al di fuori della mia portata. Mi ricordai di quando ero un giovane
membro promettente della facoltà che andava molto fiero di tenersi
aggiornato su qualsiasi nuovo sviluppo. Adesso mi sentivo sperduto in molte
presentazioni, in particolare a una conferenza sulla stimolazione magnetica
transcranica del cervello, che descriveva i metodi per stimolarne e inibirne i
centri critici in modo di gran lunga più efficiente e preciso rispetto al
trattamento con i farmaci, e senza effetti collaterali. Sarebbe stato quello il
futuro del mio settore?
Quando ero diventato medico interno, nel 1957, la psicoterapia era il
nucleo fondante della psichiatria, e la mia passione per l’esplorazione era
condivisa da quasi tutti i miei colleghi. Invece al convegno, nelle otto
presentazioni cui partecipai, si fece solo un’occasionale menzione della
psicoterapia.
Ho letto molto poco sulla psichiatria in questi ultimi anni. Spesso
attribuisco la cosa ai miei problemi visivi (sono stato sottoposto a interventi
chirurgici a entrambe le cornee, come pure a operazioni di cataratta), ma si
tratta di una misera scusa. Avrei potuto tenermi aggiornato leggendo il
materiale professionale con i caratteri grandi del mio Kindle. La verità,
leggermente imbarazzante da ammettere, è che non m’interessa più. Quando
comincio a sentirmi in colpa al riguardo, mi consolo dicendo che ho lavorato
quanto dovevo e, a ottantacinque anni, dovrei essere libero di leggere quello
che più mi aggrada. Poi aggiungo: «Inoltre sono uno scrittore, e ho bisogno
di tenermi al passo con la letteratura contemporanea».
Quando venne il mio turno di rivolgermi al pubblico al convegno della
Stanford, non feci una conferenza e non mostrai neanche una diapositiva, a
differenza degli altri oratori. Infatti – e qui sto per fare una grossa
confessione e dire una cosa che non ho mai detto in precedenza, non ho mai
fatto o usato una diapositiva in vita mia. Invece David Spiegel, un collega
della Stanford e un caro amico, mi intervistò con abilità e competenza sulla
mia carriera e l’evoluzione come terapeuta. Questo metodo mi è congeniale,
e il tempo passò così rapidamente che mi stupii quando l’intervista giunse al
termine. Mentre il pubblico si alzava in piedi e applaudiva, ebbi
l’inquietante sensazione che mi stesse dicendo addio.
Siccome sono pochi gli psichiatri che ancora lavorano alla mia età,
spesso mi chiedo: Perché continuo a incontrare pazienti? Non è per ragioni
economiche: ho abbastanza denaro per vivere comodamente. Il fatto è che
amo troppo il mio lavoro per abbandonarlo prima di essere costretto a farlo.
Mi sento privilegiato a essere invitato nelle vite intime di così tante persone
e, dopo tanti decenni, penso di essere diventato bravo.
Forse questo è in parte il risultato di aver imparato a selezionare i
pazienti. Da parecchi anni faccio terapie a tempo prefissato: durante la prima
seduta dico al paziente che lo incontrerò al massimo per un anno.
Nell’avvicinarmi agli ottant’anni, cominciai a chiedermi per quanto tempo la
mia mente e la mia memoria sarebbero rimaste integre. Non volevo che i
miei pazienti si ritrovassero eccessivamente dipendenti da un uomo che
presto avrebbe potuto andare in pensione. Inoltre ho scoperto che stabilire
una data di conclusione fin dall’inizio in genere aumenta l’efficacia del
trattamento e fa immergere più rapidamente i pazienti nel lavoro. (Otto Rank,
uno dei primi discepoli di Freud, aveva fatto la stessa osservazione più di
cento anni fa.) Sto bene attento a non accettare un paziente se mi sembra
improbabile che facciamo progressi considerevoli in un anno, e mando da
altri psichiatri i pazienti più seriamente malati e che necessitano di farmaci
psicotropi. (Dato che non mi sono tenuto al passo con le nuove ricerche, ho
smesso di prescrivere farmaci diversi anni fa.)
Avendo aiutato tante persone ad affrontare l’invecchiamento, pensavo di
essere ben preparato alle perdite che si profilavano dinanzi a me, invece
trovo la cosa di gran lunga più sconfortante di quanto avessi immaginato. Le
ginocchia doloranti, la perdita dell’equilibrio, la rigidità della schiena al
mattino, l’affaticamento, la vista e l’udito che si vanno affievolendo, le
macchie sulla pelle: tutto questo attira sì la mia attenzione, ma si tratta di
mali minori a paragone con l’affievolirsi della memoria.
Un sabato, poco tempo fa, io e mia moglie eravamo usciti per una
passeggiata e per pranzare a San Francisco, ma quando tornammo al nostro
appartamento mi accorsi che avevo dimenticato di prendere le chiavi.
Fummo costretti ad aspettare fuori un paio d’ore il ritorno di un vicino che
aveva un duplicato delle chiavi. Quella sera assistemmo alla commedia Quel
che s’ignora del mondo, di Fabrice Melquiot, che presenta una descrizione
ingegnosa di quanto accade dopo la morte. Era prodotta da mio figlio Ben e
messa in scena dai foolsFURY, la sua compagnia di attori. Io e Marilyn
avevamo accettato di discutere della commedia con il pubblico al termine
della rappresentazione, lei da una prospettiva letteraria, io filosofica e
psichiatrica. Anche se le mie osservazioni sembravano soddisfare il
pubblico, nel bel mezzo del mio discorso mi resi conto di aver dimenticato
un punto importante e interessante che avrei voluto discutere. Continuai a
parlare inserendo il pilota automatico e intanto frugavo freneticamente nella
mia mente alla ricerca dell’idea perduta. Dopo una decina di minuti, l’idea
all’improvviso saltò fuori e riuscii a dire quello che volevo. Dubito che il
pubblico si sia reso conto della mia frenetica caccia interiore al materiale
perduto, ma in quei dieci minuti, mentre stavo parlando, c’era una frase che
girava in tondo nella mia mente. «Ecco, è arrivato il momento. Devo
smettere di tenere discorsi in pubblico. Ricordati di Rollo». Mi stavo
riferendo alla scena che ho descritto in precedenza in questo libro, quando
Rollo May, a un’età avanzata, aveva fatto un discorso nel quale aveva
riferito lo stesso aneddoto ben tre volte. In quel momento avevo deciso di
non mettere mai un pubblico di fronte allo spettacolo della mia senilità.
Il giorno successivo riportai una macchina noleggiata all’agenzia (la mia
era dal meccanico). Era tardi, e l’agenzia era chiusa. Seguii le istruzioni
indicate, chiusi la macchina e depositai la chiave nella cassetta blindata.
Solo pochi istanti dopo mi resi conto che avevo lasciato nel portabagagli
della vettura la mia borsa, con dentro il portafoglio, le chiavi, i soldi e le
carte di credito. Alla fine dovetti chiamare l’assistenza perché venissero ad
aprire la macchina per poter recuperare la mia borsa.
Anche se in quel caso l’attacco alla memoria era stato particolarmente
violento, ormai quasi ogni giorno si manifestano vuoti di memoria, seppure
più lievi. Chi è l’uomo che si sta avvicinando sorridendo? Lo conosco, ne
sono certo, ma come si chiama? E qual è il nome del ristorante dove
andavamo di solito io e Marilyn, vicino alla spiaggia a Half Moon Bay? E il
nome di quella commediola comica nel film Getta la mamma dal treno? In
che via di San Francisco è situato il Museo d’arte moderna? Come si chiama
quella strana forma di terapia che si basa su nove diversi tipi di personalità?
E il nome di quello psichiatra che conoscevo, che aveva dato origine
all’analisi transazionale? Riconosco volti familiari, ma i nomi evaporano:
qualcuno torna, altri scompaiono immediatamente dopo essere stati ricordati.
Ieri ho pranzato con un amico, Van Harvey, di qualche anno più vecchio
di me (sì, ce n’è ancora in giro qualcuno!) Mi ha suggerito di leggere un
romanzo intitolato La casa di vetro di Simon Mawer, e io gli ho suggerito
Inverno, di Christopher Nicholson. Poche ore dopo le nostre email si sono
incrociate, e ciascuno chiedeva all’altro: «Come si intitolava il romanzo che
mi hai consigliato?» Naturalmente dovrei portarmi dietro un taccuino. Ma
ricordarsi di prendere il taccuino, è questo il problema!
Chiavi, occhiali, iPhone e numeri di telefono smarriti, o il luogo dove ho
parcheggiata la macchina: ecco il prezzo che mi tocca pagare ogni giorno.
Ma smarrire contemporaneamente le chiavi dell’appartamento e dell’auto fu
un caso estremo, probabilmente collegato all’insonnia di cui avevo sofferto
la notte precedente. Sono sicuro di conoscere le cause di quell’insonnia. La
sera prima avevo visto un film francese, Amour, che descrive le traversie di
un marito innamorato che sta invecchiando e che aiuta la moglie malata a
morire. La coppia assomigliava a me e a Marilyn, e il film mi aveva
assillato per tutta la notte. Amour è un magnifico film, ma ascoltate il mio
consiglio: guardatelo prima di compiere ottant’anni.
Sono preoccupato da tempo che invecchiando la mia memoria possa
costringermi a rinunciare a vedere i pazienti perciò, per evitare il
pensionamento, ricorro in modo massiccio a un programma di dettatura per
computer: dopo ogni seduta non manco mai di dettare un riassunto di una o
due pagine di ciascuna ora, e mi premuro di rileggerlo prima di incontrare di
nuovo il paziente. Per questa ragione lascio sempre venti minuti tra un
paziente e il successivo. Inoltre negli ultimi anni non incontro più di tre
pazienti al giorno. Quando un ex paziente dal lontano passato mi contatta via
email in un primo momento spesso non ricordo assolutamente nulla, ma
leggere anche solo poche frasi dei miei vecchi appunti dà il via ai ricordi
dell’intera storia.
Ma c’è un lato positivo nella perdita della memoria: dimenticare le trame
di molti libri mi permette di trarre godimento nel rileggerli. Sono sempre
meno i romanzi contemporanei che mi piacciono, così mi rivolgo ai miei
“favoriti”, allineati nella libreria: Cent’anni di solitudine, Grendel, Grandi
speranze, Le avventure di Maqroll, Casa tetra, I figli della mezzanotte, La
zia Julia e lo scribacchino, Daniel Deronda, Silas Marner e Così muore la
carne, molti dei quali possono essere letti come se fosse la prima volta.
In Fissando il sole descrivo il concetto di rippling, “i cerchi nell’acqua”,
come un modo per ridurre l’angoscia della morte. Ciascuno di noi crea,
spesso senza averne la consapevolezza, dei cerchi concentrici che possono
allargarsi e andare a toccarne altri negli anni a venire, persino per
generazioni. L’effetto che abbiamo sugli altri si espande in modo simile ai
cerchi nell’acqua di uno stagno, che continuano ad allargarsi fino a quando
non sono più visibili, e tuttavia continuano, a un livello non più percepibile.
Come John Whitehorn e Jerry Frank hanno allargato i loro cerchi dentro di
me, io credo di aver allargato i miei nei miei studenti, lettori e pazienti, e
specialmente nei miei quattro figli e nei sette nipoti. Ricordo ancora le mie
lacrime di gioia quando mia figlia Eve mi telefonò per dirmi che era entrata
nella facoltà di medicina, e l’anno scorso le mie lacrime sono tornate a
scorrere alla notizia che sua figlia Alana era stata accettata alla facoltà di
medicina della Tulane University. E quest’ultimo Natale mi sono seduto a
giocare con mio nipote Adrian, di tre anni, la nostra prima partita a scacchi.

Dilemma: quando andare in pensione? Vengo spesso chiamato a dare aiuto a


pazienti che devono far fronte a questa stessa decisione. Non molto tempo fa
ho lavorato con Howard, un brillante dirigente di fondi speculativi di quasi
ottantacinque anni, molto intelligente, la cui moglie aveva insistito affinché
cercasse l’aiuto di una terapia perché non riusciva a smettere di lavorare per
ore attaccato allo schermo del computer. Dato che viveva sulla costa ovest,
doveva alzarsi alle quattro e mezzo del mattino per controllare il mercato
azionario, e restava davanti allo schermo per tutta la giornata. Anche se per
anni aveva lavorato a perfezionare un programma per computer in grado di
fare il suo lavoro, sentiva come un dovere verso i suoi investitori il fatto di
non allontanarsi mai dal monitor. Era raro che i suoi tre soci, due fratelli più
giovani e un amico di lunga data, saltassero le quotidiane nove buche di golf,
e Howard sentiva di dover lavorare per tutti loro. Sapeva che lui, la moglie
e le tre figlie avevano molti più soldi di quanti ne potessero spendere, ma
non riusciva a fermarsi. Era il suo dovere, diceva. Non poteva fidarsi
completamente del programma che aveva ideato per le transazioni. Sì,
ammetteva di essere dipendente dal salire e scendere del nastro della
telescrivente, e tuttavia non conosceva un altro modo di vivere. E inoltre (mi
strizzò l’occhio), era un vero sballo fare un colpo grosso sul mercato.
«Immagini la sua vita senza il lavoro, Howard. Come sarebbe?»
«Ammetto che sono terrorizzato all’idea di smettere».
«Cerchi di immaginare questa vita senza il lavoro».
«So dove sta andando a parare. Ammetto che non ha alcun senso.
Ammetto di avere paura di smettere. Che cosa farei tutto il santo giorno?
L’unica possibilità è viaggiare e visitare posti nuovi. Ma tutti i luoghi
interessanti, provi a dirne uno, io li ho già visti tutti».
Insistetti. «Mi chiedo se lei non senta forse che il lavoro la mantiene vivo,
che senza il lavoro scivolerebbe nelle fasi finali della vita, la senilità e la
morte. Noi due insieme possiamo cercare un modo per districare la vita dal
lavoro?»
Mi ascoltò attentamente e annuì. «Penserò a quello che mi ha detto».
Dubitai che l’avrebbe fatto.

Al cospetto dei miei ottantacinque anni non sono che un principiante e, come
Howard, combatto l’evidenza di essere vecchio. A volte accetto l’idea che
la pensione dovrebbe essere un periodo di pace e di riposo, un tempo di
serena riflessione. Tuttavia so anche che ci sono sentimenti ribelli
provenienti dalla prima fase della mia vita che continuano a creare
turbolenza e minacciano di riemergere, se rallento il ritmo. In precedenza ho
citato una frase presa da Dickens: «Poiché, quanto più m’avvicino alla fine,
viaggio come in circolo e m’avvicino sempre più al principio». Queste
parole mi assillano. Sempre di più sento delle forze che mi strattonano
indietro, verso le mie origini. Due sere fa io e Marilyn assistemmo al
Factory Festival dei foolsFURY a San Francisco (un evento sponsorizzato
ogni due anni dalla compagnia teatrale di mio figlio Ben), nel corso del
quale venti piccoli teatri provenienti da tutto il paese presentano i loro
spettacoli. Prima dell’inizio ci fermammo a mangiare un boccone al Wise
Sons, una piccola gastronomia ebraica che sembra uscita direttamente dalla
Washington degli anni Quaranta della mia infanzia. Le pareti del locale sono
quasi interamente coperte da foto di famiglia: gruppi di profughi dai grandi
occhi profondi e spaventati, in arrivo a Ellis Island dall’Europa dell’Est. Le
fotografie mi folgorarono: ricordavano quelle della mia famiglia d’origine.
Vidi un ragazzino triste, che avrei potuto essere io, che faceva il suo
discorso per il bar mitzvah. Vidi una donna che in un primo momento pensai
fosse mia madre. Provai un improvviso – e nuovo – impeto di tenerezza nei
suoi confronti e mi sentii mortificato e colpevole per averla criticata in
queste pagine. Come mia madre, la donna della fotografia sembrava priva di
istruzione e spaventata, una gran lavoratrice impegnata a sopravvivere e a
occuparsi della propria famiglia in una cultura nuova e strana. La mia vita è
stata così ricca, così privilegiata, così sicura – in gran parte grazie al duro
lavoro e alla generosità di mia madre. Rimasi seduto in quella gastronomia a
piangere mentre guardavo i suoi occhi, e gli occhi degli altri profughi. Ho
avuto una vita intera per esplorare, analizzare e ricostruire il mio passato,
ma adesso mi sto rendendo conto che in me c’è una valle di lacrime e dolore,
con i quali non verrò mai a patti.

Fin dalla pensione anticipata dalla Stanford nel 1994, il mio programma
quotidiano è rimasto invariato: scrivo tre o quattro ore ogni mattina, di solito
per sei o sette giorni alla settimana, e cinque volte alla settimana incontro i
miei pazienti, nel resto della giornata. Da oltre cinquant’anni vivo a Palo
Alto, e il mio studio è in un edificio separato a una cinquantina di metri da
casa. All’incirca trentacinque anni fa ho comprato un appartamento a Russian
Hill, a San Francisco, con una magnifica vista sulla città e sulla baia, e lì
incontro i pazienti nei pomeriggi di giovedì e venerdì. Marilyn mi raggiunge
il venerdì sera e di solito trascorriamo il weekend a San Francisco, una città
che trovo infinitamente interessante.
Mi rimprovero il mio falso pensionamento. «Quanti psichiatri
ottantacinquenni lavorano sodo come me?» Anch’io, come il mio paziente
Howard, sto forse continuando a lavorare per prevenire la senilità e la
morte? Domande del genere mi turbano, ma ho il mio arsenale di risposte.
«Ho ancora molto da offrire… L’invecchiamento mi rende più capace di
capire e aiutare le persone della mia età… Sono uno scrittore, e sono
inebriato dal processo della scrittura, quindi perché dovrei smettere?»
Sì, lo confesso: mi preoccupa terribilmente giungere a quest’ultimo
paragrafo. Ho sempre avuto una sfilza di libri in attesa di essere scritti, in
fondo alla mia mente, ma adesso non più. Una volta terminato questo, sono
sicuro che non ci saranno altri libri ad attendermi. I miei amici e i colleghi
brontolano quando mi sentono dire queste parole. Le hanno sentite molte
altre volte, in precedenza. Ma temo che questa volta sia diverso.
Chiedo sempre ai miei pazienti di esplorare i rimpianti e consiglio loro di
aspirare a una vita che ne sia priva. Guardandomi indietro, io ne ho pochi.
Ho avuto una donna straordinaria come compagna della mia vita. Ho figli e
nipoti affettuosi. Ho vissuto in un luogo privilegiato del mondo con un clima
ideale, bellissimi parchi, poca povertà e criminalità, senza dimenticare la
Stanford, una delle grandi università del mondo. E ogni giorno ricevo lettere
che mi ricordano che sono stato utile a qualcuno in una terra lontana. Quindi
le parole dello Zarathustra di Nietzsche hanno un senso per me:
«Era questa la vita? Avanti, ancora una volta».
Ringraziamenti
Sono grato a molte persone che mi hanno assistito in questa avventura. I
membri di Pegasus, il mio gruppo mensile di medici-scrittori della Stanford,
hanno sottoposto a critica diversi capitoli. E un ringraziamento speciale va
al fondatore di questo gruppo, Hans Steiner, e al mio amico Randy
Weingarten, psichiatra e poeta, che ha proposto il titolo del capitolo “Un
principiante dell’invecchiamento”. Ringrazio i miei pazienti, che mi hanno
permesso di descrivere episodi presi dalla loro terapia. Per proteggerne la
privacy, ho cambiato tutti i nomi e mutato profondamente ciascun dettaglio
che avrebbe potuto portare a una loro identificazione, tentando al tempo
stesso di comunicare certe particolari verità. I miei pazienti sono per me una
costante fonte di insegnamento e ispirazione. Sono stato estremamente
fortunato ad avere Sam Douglas e Dan Gerstle come editor. Grazie a David
Speigel e, come sempre, alla mia agente letteraria, Sandra Dijkstra, e al suo
collaboratore, Andrea Cavallaro, che mi hanno offerto un sostegno entusiasta
dall’inizio alla fine del lavoro. Gli amici di una vita Julius Kaplan e Bea
Glick mi hanno aiutato a mettere in moto la memoria, come pure i miei
quattro figli e i sette nipoti. E, soprattutto, sono grato alla mia amata moglie
Marilyn, che mi ha aiutato a ricordare avvenimenti di molto tempo fa e ha
svolto la mansione di redattore-capo dentro casa.
L’autore con la madre e la sorella, circa 1934.
I genitori negli anni Trenta.

Il padre dell’autore nel suo negozio di drogheria, circa 1930.


Irvin con il padre, circa 1927.
La stanza di Irvin a Boston durante gli anni della facoltà di medicina, 1953.
Il matrimonio nel 1954.

L’autore con la famiglia a Londra, inverno 1967-1968.


Con Rollo May, circa 1980.
L’autore con il critico Alfred Kazin e il professore di legge alla Stanford University John Kaplan, al
Centro per gli studi avanzati nelle scienze comportamentali, 1978.
Bali, 1988.

L’autore mostra un suo ritratto giovanile alla cena alla Stadthaus, Vienna, 2009.

Con la moglie Marilyn al Cremlino nel 2009.


Al Museo dell’Acropoli di Atene nel 2009.

La famiglia al completo a Hanalei, Hawaii, 2015.


Con la moglie Marilyn a San Francisco, 2006.
L’autore nel suo studio a Palo Alto, 2010.

Con una scultura dell’artista Sakellaris Koutouzis che lo ritrae, 2016.

Mentre impartisce al nipote di tre anni la prima lezione di scacchi nel 2016.

Potrebbero piacerti anche