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John M.

Hull, Nel mondo di chi non vede

John M. Hull, nato in Australia nel 1935, esperto di metodologia dell’insegnamento della
religione, è professore all’Università di Birmingham. Affetto da disturbi agli occhi fin
dall’infanzia, perde completamente la vista intorno alla fine degli anni ‘70. Il libro: Il dono
oscuro non è stato scritto di getto: è come un diario, durato cinque anni, che narra della
progressiva perdita della funzione visiva da parte dell’autore. I brani scelti vanno letti come
un’introduzione al mondo dei non vedenti, rivolta a chi vede.

Diventare bambino
Camminavo lungo Navigation Street, nel centro della città. Qualcuno mi ha offerto un
pacchetto di caramella alla menta. “Grazie” gli ho detto calorosamente, accettando le
caramelle con un sorriso raggiante. “Di niente”, ha risposto il mio benefattore. “Tanto avevo
deciso comunque di regalarle al primo bambino che avrei incontrato”.
Ad una cena ufficiale hanno servito, come seconda portata, del pollo non disossato. Ho
chiesto alla persona seduta vicino a me di fare un cenno alla cameriera affinché riportasse il
pollo in cucina per farmelo disossare: è la cosa meno imbarazzante da fare, in circostanze
come questa. L’invitata che sedeva accanto a me ha detto che non ce n’era bisogno, ci
avrebbe pensato lei a farlo. Si è messa subito all’opera tagliando il pollo con molta abilità e
ripassandomi poi il piatto con queste parole: “Giusto ieri ho fatto la stessa cosa per un
bambino handicappato”.
Ero ospite assieme ad un amico in una casa che non mi è familiare; durante la notte si è
verificato un allagamento e la moquette si è completamente impregnata di acqua. Di questo
piccolo incidente sono venuto a conoscenza la mattina presto, quando mi sono diretto verso il
bagno dopo essermi svegliato. Il mio amico si è immediatamente alzato dal letto e mi ha
gridato: “Non andare in bagno, John, c’è stato un guasto”. Sono tornato indietro da lui e mi
ha spiegato il problema. Seduto sul bordo del suo letto, riflettendo su quanto mi aveva
raccontato, mi è venuto da domandargli: “Dimmi, non è che sei stato tutta la notte sveglio
ad aspettare il momento in cui mi sarei alzato per andare in bagno, in modo da fermarmi in
tempo? Non hai pensato di svegliarmi prima per dirmelo? Ritenevi che sarebbe successo un
pasticcio se fossi entrato in bagno senza esser informato?” Il mio vecchio carissimo amico è
scoppiato a ridere e mi ha detto: “Beh è andata più o meno così. Non ho passato la notte
sveglio, ma sono andato a letto deciso a svegliarmi anch’io non appena ti avessi sentito
alzare”. Poi con aria convinta e una nota di riso nella voce ha aggiunto: “E’ come di nuovo
avere un figlio”.
Viaggiando in treno io e mia figlia di undici anni non siamo mai riusciti a capire quale
biglietto fosse il suo e quale il mio. Sul suo, acquistato con lo sconto concesso ai ragazzi,
c’era scritto ‘Tariffa ridotta’ Sul mio, acquistato con lo sconto concesso agli invalidi, c’è
scritto ‘Bambino’.
Qualche giorno fa ho avuto una discussione con Clive Inman, che si è appena ripreso da
un grave incidente automobilistico, ed è costretto sulla sedia a rotelle. Mi ha detto che la
gente quando lo vede sulla sedia a rotelle tende sempre a parlargli lentamente, con voce
gentile e quasi compassionevole. Il loro tono paziente, vagamente paternalistico, assomiglia
molto al tono di voce che si adopera parlando ai bambini. Vi si coglie anche una nota di
incertezza: la gente non sa bene come reagire all’incontro con un adulto che è stato ‘ridotto in
quel modo’.

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Un uomo adulto invalido perde parte della sua virilità, parte della sua maturità di adulto
e parte della sua umanità. Gesù ha detto che dovremmo pentirci e diventare come bambini
innocenti, ma non mi va bene che avvenga in questo modo. Non mi piace che la mia
condizione di adulto mi venga espropriata così.

Tu sei capace solo di parlare?


In questi ultimi tempi il comportamento di Thomas mio figlio nei miei confronti è
rivolto soprattutto a determinare con esattezza le implicazioni che la cecità ha nel nostro
rapporto. Sono implicazioni di cui intuisce l’esistenza e vuole misurare in tutti i loro aspetti.
Oggi era seduto al tavolo in braccio a me e colorava un libro di disegni di dinosauri. Mi ha
domandato se volevo colorare anch’io qualcuna delle figure. Quando gli ho detto che non ero
in grado di farlo perché non potevo vedere i contorni dei disegni, lui ha commentato: “Io
sono capace di colorare perché vedo i contorni, perché non sono cieco”. Io ho assentito e lui
dopo aver continuato a colorare ancora per un po’, ha alzato la testa verso di me e mi ha
guardato. Me ne sono accorto chiaramente, quando si è voltato a guardarmi.”Tu sei solo
capace di parlare?”
A queste sue parole mi sono messo a ridere e gli ho detto: “Sono capace di parlare e anche
ascoltare”.
“Eh sì”, ha esclamato lui.
“E di fare il solletico”.
Di nuovo un assenso entusiastico.
“E poi sono capace di urlare, senti qua”. E ho lanciato un urlo fortissimo.
Divertendosi un mondo Thomas ha voluto che lanciassi un altro urlo e poi un altro
ancora, unendosi a me. Ho concluso il nostro scambio di vedute dicendo: “Allora non ci
vedo, però sono capace di parlare, di ascoltare, di fare il solletico e di fare degli urli”. A
queste mie parole è seguita una pausa, durante la quale Thomas ha probabilmente fatto
qualche riflessione, sfociata in questo suggerimento: “Stai a sentire papà, per colorare puoi
fare così”. Mi ha messo tra le dita una matita colorata e guidandomi la mano l’ha fatta
muovere sulla pagina, avanti e indietro. Io gli ho consigliato di tenermi per il polso, in modo
da poter imprimere alla mia mano un movimento circolare. Ho colorato quasi tutto il
dinosauro con tanti piccoli movimenti circolari, e questo è piaciuto tanto a lui che a me,
sicché l’abbiamo ripetuto più volte.
Lizzie che ha un anno e mezzo meno di Thomas, è ancora assolutamente ignara del
significato della mia cecità. Questa mattina le ho detto di gettare un fazzolettino di carta nel
cestino della carta straccia e lei andando a raccoglierlo sul pavimento si è girata a chiedermi:
“Questo qui? E’ qui che lo devo buttare?” Thomas ha ormai raggiunto una fase in cui capisce
che per mettermi in grado di rispondere dovrebbe venire da me a farmi toccare con la mano il
cestino della carta straccia.

Il lutto è terminato?
Una sera dello scorso novembre, sulla via di casa, mi trovavo a un incrocio sulla Bristol
Road in attesa che il semaforo emettesse il segnale sonoro di attraversamento. Tutt’a un tratto
ho percepito con estrema chiarezza il contrasto tra quel che dovevo apparire all’esterno e ciò
che sentivo dentro di me. Tutta quella gente che passava veloce in automobile probabilmente
pensava: ”Oddio, c’è un cieco. Speriamo che non si metta ad attraversare la strada proprio
mentre passo io. Chissà se ce la fa… Magari dovrei rallentare, o fermarmi a chiedergli se ha
bisogno di aiuto. Come mai non ha uno di quei cani per i ciechi?”
Dentro di me invece mi sentivo tranquillo, competente e capace di cavarmela
egregiamente in quella situazione. Il rumore del traffico che mi giungeva da destra e da
sinistra era intenso e piacevolmente vario e sullo sfondo il rumore dei passi delle persone che
camminavano sul marciapiede, più forti sul mio lato della strada, meno forti sull’altro,

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mescolandosi alla molteplicità degli echi e dei rumori di contorno, formavano quel
particolare intreccio di sonorità che io chiamo Bristol Road. Nel giro di pochi secondi il
rumore del traffico avrebbe subito un cambiamento: lo scorrere continuo delle automobili in
una direzione e nell’altra che percepivo in quel momento avrebbe lasciato posto al pigro
ronzio dei motori delle auto ferme al semaforo, da una parte e dall’altra della strada. Nel
mezzo si sarebbe creata una piccola zona di silenzio. Io mi sarei proteso in avanti, allungando
il bastone e tastando il terreno prima da un lato e poi dall’altro, annunciando così la mia
intenzione di attraversare (nel caso che qualcuno non l’avesse capito); poi in tutta sicurezza
avrei mosso il primo passo verso quella zona di silenzio. Avrei attraversato la strada
speditamente e sarei salito sul marciapiede dopo averne tastato il bordo con il bastone: quindi
mi sarei voltato a fare un rapido cenno di saluto in direzione dei guidatori che avevo
immaginato nella mia fantasia e subito dopo mi sarei fermato per una breve sosta, appoggiato
al paletto di ferro della recinzione che costeggiava il marciapiede. Dietro di me, a quel punto,
la zona di silenzio si sarebbe nuovamente riempita di rumori, accogliendo il flusso rombante
delle auto in transito da una parte e dall’altra della strada. Una volta ancora ce l’avevo fatta.
E tuttavia mi ha colpito, mentre ero lì fermo ad aspettare il segnale del semaforo, l’idea
che un ambiente che a me suonava perfettamente normale e ricco di informazioni, in grado di
comunicarmi tutto ciò che era utile per attraversare la strada, potesse apparire sotto una luce
tanto diversa al guidatore di un’automobile. Come un lampo mi ha attraversato la mente un
pensiero: loro pensano che io sia cieco, ma non è vero! O meglio: loro pensano che io sia
incapace e privo di qualsiasi informazione, che non sappia dove sono e che da un momento
all’altro possa compiere qualche sciocchezza ai miei o ai loro danni. Ma probabilmente il
mio grado di sicurezza non è inferiore a quello di un qualsiasi pedone fermo a questo
incrocio.

[J. M. Hull, Touching the rock. An experience of blindness, tr. it. Il dono oscuro. Nel mondo
di chi non vede, Milano, Garzanti 1992; adattamento dalle pp. 126-127; 155-156; 171-172]

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