TITOLO DA DEFINIRE
LE MOLECOLE AFFETTUOSE
DEL LECCA LECCA
ROMANZO ATTACCATICCIO
Il lecca lecca contiene molecole affettuose. Nulla si può opporre al loro abbraccio.
(Robert L. Wolk, Al suo barbiere Einstein la raccontava così)
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[Allora, a sedici anni (I pugni in testa)]
Certe notti succedeva di stare in casa con Spinetta, Spinetta mi ospitava in un
buchetto per studenti, diciotto metri quadri, e certe notti succedeva che Spinetta si
svegliava, Spinetta Marocchino, si svegliava e mi svegliava, era la mia ragazza
allora, una studentessa di psicologia con parecchi problemi psicologici, uno su
tutti: dormire. Soffriva di un’insonnia, Spinetta Marocchino, un’insonnia
stranissima, un’insonnia che forse, non lo so, su qualche libro di medicina si
sarebbe anche trovata, non lo so. Io non ne avevo mai sentito parlare. Spinetta
dormiva solamente dopo che qualcuno le aveva leccato la fica. Era una cosa
imbarazzante, nemmeno divertente, per nulla divertente, e questo l'ho subito
capito, la prima volta che l'ho fatto: slinguazzavo, slinguazzavo, e Spinetta ha
cominciato a dimenarsi e a darmi pugni sulla testa, era il suo modo di godere,
darmi pugni sulla testa e supplicarmi di restare, di continuare a baciarla, di portarla
fino all’apice di un folle godimento, e dopo una mezz’ora, mezz’ora scarsa, lei
dormiva, io per nulla, avevo mal di testa, un mal di testa da impazzire, cominciavo
a maledirmi, andavo in bagno a impasticcarmi, due Saridon per volta, non serviva,
passavo intere notti a compatirmi, giurarmi e rigiurarmi di non farmi più trattare in
quel modaccio, pensavo di lasciarla, Spinetta Marocchino, ma poi non lo facevo.
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mondo di Playmobil, il mio pallone Tango Spagna, i miei figurini del Subbuteo, il
mio Big Jim che fa l’agente segreto e ha una valigetta con le facce di ricambio, la
mia fotografia con la cantante Nada, la mia collezione di fumetti splatter, il mio
vecchio Commodore Amiga 600, il mio cubo di Rubik, la mia copia del Corriere
dello Sport con l’autografo di Ciro Muro 1, il mio giubbotto di pelle in stile Fonzie,
e soprattutto, soprattutto, soprattutto la mia collezione di peli pubici, una cosa
deliziosa che testimonia il mio genio di precursore, di inventore della moda, e me
ne vanto: anni dopo ho visto un film, La Commedia di Dio, dove un anziano
signore chiamato João de Deus passava le ore più belle della sua vita a sistemare in
un prezioso album la propria collezione di peli pubici femminili. Anche il Mostro
di Milwaukee collezionava peli pubici. Anche Remo Remotti, l’ha scritto lui.
Anche zio Nino, un personaggio del film Denti di Gabriele Salvatores. Così anch'io
ho voluto conservare i peli delle ragazze che ho avuto, quattro ciuffi, solo quattro,
ma ho fiducia, non dispero.
Sono cose, queste cose, che non posso farne a meno, veramente, e più di tutte il
mio pallone, no, menzogna, più di tutte il mio giubbotto, no, menzogna, più di tutte
mi vergogno, mi vergogno a dire i peli, ma di tutte queste cose, sono i peli che mi
danno sicurezza, più piacere e sicurezza, e questo è amore.
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gente, dico, non i luoghi dove c’era gente. La festa di san Calogero, per esempio,
con tutti quegli esaltati che correvano dietro al santo in portantina, dietro al santo
che correva, a me piaceva. I concerti rock, per esempio, con tutti quei ragazzi che
ballavano, sudavano e ascoltavano canzoni senza senso, a me piacevano. La
scuola, per esempio, con tutti quei bulletti che tiravano pallottole di carta, mi
tiravano pallottole di carta, mi facevano inghiottire dei fogli di quaderno, la scuola,
la scuola a me piaceva, in parte sì, la matematica piaceva: far dei conti, tabelline,
risolvere equazioni, rifiutarsi di passare il compito ai più ciuchi, mi piaceva.
Alle medie, un professore, il professore di matematica, il professore Virgilio, mi
disse che in me vedeva il personaggio di un film, un personaggio che sbancava un
casinò grazie alla sua abilità nel calcolo delle carte del blackjack, un gioco,
secondo il professore, piuttosto matematico, scientifico, un gioco governato da una
regola precisa: le carte basse del mazzo sono sfavorevoli al giocatore, quelle alte
sono favorevoli. Tutta qui la matematica? Lo so che non capite, non m’importa.
Per come la vedeva il professore, quel gioco poteva farmi ricco. Solamente,
dovevo imparare a contare le carte. Tenere nota delle carte. Le carte uscite. Poi,
decidere l’ampiezza della scommessa. Per come la vedevo io, qualcuno doveva
portarmi al casinò, ma il professore, il professore non poteva, non voleva, secondo
lui avrei dovuto aspettare i diciott’anni. Per come la vedevo io, qualcuno doveva
portarmi assolutamente al casinò. Mio padre e mia madre. Con un travestimento mi
avrebbero fatto passare per maggiorenne. Con un travestimento. Peccato che mio
padre e mia madre non ci pensassero neppure, anche il dottore, anche il dottore
chiamato professore era contrario, e pure il personale della clinica Serena, della
Divisione di Neurologia dello Sviluppo della clinica Serena, persino gli infermieri,
le suore, il cappellano, dicevano tutti la stessa cosa, che avevo bisogno di curarmi,
non di andare al casinò.
Dicevano tutti la stessa cosa: NO.
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pomeriggi passati a provare i tiri del Subbuteo, le partite di pallone contro il muro,
la mia infanzia è stata incanto, così la percepivo, veramente, troppo bella perché
povera d’inganni, d’illusioni, delusioni, che seppure sempre entravo e sempre
uscivo dalla clinica Serena, ero convinto di vivere la vita come meglio non potevo,
di avere i migliori genitori del mondo, anche se volevano guarirmi da un’assurda
malattia, anche se non mi portavano a giocare al casinò, anche se non capivano che
potevo farli diventare ricchi col blackjack, anche se continuavano a trattarmi come
un mezzo handicappato, ero convinto che la mia vita non potesse migliorare, e
dunque, deduzione, era la migliore possibile, e questo lo pensavo perché in fondo,
in fondo in fondo, sono uno che è sempre riuscito a vedere il lato bello delle cose:
mi prendevano a schiaffi, per esempio, ero contento di non essere stato preso a
pugni, per esempio. Non avevo la ragazza, per esempio, ero contento di non essere
lasciato, per esempio. Almeno fino a quindici anni. A quindici anni ho conosciuto
Silvia, Silvia Bonsignore mi è finita addosso con la bici, si è scusata e mi ha
sorriso, il mio primo sorriso di ragazza, è stato un colpo, un fulminaccio.
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[Ora, di allora, a dodici anni e a quindici (Cos’è l’amor?)]
E’ quello doloroso che mi è toccato, l’amore? E’ quello che è sembrato mi
toccasse, qualche volta, poche volte, oppure è un’altra cosa, un sentimento mai
provato?
Forse il vero amore l’ho avuto da bambino, quando mi bastava giusto un niente
per prendere la febbre, mi bastava un colpo d’aria per sentire le tonsille, nella gola,
soffocanti, mi bastava un colpo d’aria. Il vero amore era quello di mia madre che
veniva in camera a portarmi una spremuta, panacea di tutti i mali, una spremuta
color sangue, arance rosse di Sicilia, color sangue.
Forse il vero amore mi ha sfiorato a dodici anni, quando mi sono accorto di
avere una cisti seborroica del cazzo, anzi, sul cazzo, una cisti da tagliare, un
intervento facile, tranquillo, che si fa in ambulatorio, ma non ad Agrigento, non
allora, allora si finiva all’ospedale, all’ospedale di Agrigento, e non bastasse la
vergogna, non bastasse la paura, ecco il chirurgo: parkinsoniano doc, un macellaio,
un vecchio tremolante che operava sempre in anestesia totale, fosse un cancro o un
pedicello, un’arteria chiusa o un nevo, un vecchio macellaio che mi ha fatto
provare un’esperienza allucinante di panico post-operatorio, ma pensate:
ridestandomi, ho scoperto di essere lì lì per convertirmi all’ebraismo. Un miracolo
laico: sparizione della cisti e, inopinatamente, del prepuzio. Parkinson Doc mi
aveva circonciso. Forse il vero amore l’ho conosciuto allora, quando mia madre mi
ha vegliato due notti all’ospedale, si è seduta su una sedia e là è rimasta, per due
notti, tutta storta su una sedia, e non lo so, pensavo fosse amore, poi ho letto che
l’amore per i figli è un’esigenza, un’esigenza delle donne, che senza non
vivrebbero, si sentirebbero perse, abbandonate. Io non penso che mia madre mi
abbia amato veramente, non lo penso, lo speravo, ultimamente ho cominciato a
pensare che il suo amore è fisiologico, o innato o fisiologico, persino socialmente
conveniente, perché è considerata disdicevole una madre che non ama il proprio
figlio. Fosse onesta con se stessa lo direbbe, ammetterebbe la sua colpa, questa:
quando una si fa madre, deve mica fare sforzi per amare la sua creatura.
L’amore, quand’era ancora una parola, una parola molto ambigua, mi sono
illuso di riceverlo da Silvia, da Silvia Bonsignore, che mi ha investito con la bici e
si è scusata, mi ha sorriso, non eravamo niente, io e Silvia, niente, e questo niente
mi è subito sembrato il fondamento dell’amore, di un amore in cui credere, idee
chiare non ne avevo, ma questo niente mi è subito sembrato il fondamento di un
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amore a cui nessuno ci obbligava. Volevo proprio darglielo, l’amore, farla proprio
innamorare, Silvietta Bonsignore, ma non sapevo come. Dopo una settimana che ci
eravamo conosciuti, le avevo già comprato: un barattolo di Baci Perugina, un
orsacchiotto di peluche con su scritto I love you, un ciondolo a cuore che si
divideva in due parti, una radiolina anch’essa a forma di cuore. Ho esagerato, ma
tutte queste cose, regalini, pensierini, sembravano non avere effetto su di lei,
voglio dire: non è che ricambiasse, si limitava ad accettare, sorridere, confondermi,
voglio dire: non è che mi aiutasse. Io continuavo a chiedermi cos’era questo amore
che tutti si facevano.
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Serena, si domandavano se per caso il mio rendimento scolastico potesse in
qualche modo essere influenzato da quella malattia di cui non voglio più sentire
parlare. Poi qualcuno, voglio dire: il dottore professore primario della clinica
Serena, rispondeva che era certamente colpa di quella malattia che guai a chi me
ne parla.
“Provi lei,” dissi al dottore, “a prendere il mio nome e rispondere a un appello.
Ma lei come si chiama?”
Il dottore non rispose.
Franco Anguilla, c’era scritto sulla porta del suo studio.
Clinica Serena Divisione di Neurologia dello Sviluppo Primario dott. Franco
Anguilla.
Io Pesce, lui Anguilla. Da quel giorno, il mio dottore, mi fu un poco più
simpatico. Un fratello? Beh, non proprio: quasi quasi stessa razza.
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metà, che danno un senso di giustizia, di riposo, poi ho pensato: però è bella tutta
questa abitudine, tutta questa consuetudine, poi per me, per me che amo i numeri
perfetti, numeri che sono la somma dei loro divisori, sempre, non si sa se i numeri
perfetti sono infiniti, ma è sicuro che tutti i numeri perfetti pari terminano con 6 o
con 8, è sicuro, è stabilito, come il fatto, tutto a un tratto ho riflettuto, come il fatto
che io e Silvia ci vedevamo lunedì pomeriggio alle 6, mercoledì sera alle 8,
giovedì pomeriggio alle 6, sabato sera alle 8, domenica pomeriggio alle 6.
Logica, quest'ultima, davvero solida, sì, davvero: se Silvia mi abbandona, ho
pensato, la mia vita va in frantumi, crolla il mondo, crolla tutto, poi ho pensato
ch’ero io a pensare di lasciarla, mica lei, mi sono subito pentito, ho balbettato: Si-
Silvia, ho balbettato: T-Ti amo, ci vediamo.
Le ho stampato un bacio in bocca.
E sono scappato.
E’ stato come… ve l’ho detto: ci si vergogna un poco, ma dopo è un sollievo.
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l’intenzione di lasciarglielo credere.
In fondo è questo che le volevo dire, e voglio dire: in tutta la mia vita non ho
mai mentito. Credete lo abbia fatto proprio allora?
[Allora, a quindici anni (Silvia mi dice cose che non so: saranno vere, saranno
false…)]
Mai, per nessuna ragione, rivedrò una di quelle insensate telenovele siciliane
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che piacciono tanto a mia madre. Mai, per nessuna ragione, voglio rivivere quel
triste giorno in cui ho visto una puntata di Strazzami lu cori, produzione siculo-
colombiana che raccontava e che racconta di faide famigliari, tradimenti, passioni
contrastate e divoranti gelosie, sceneggiate a questo modo:
“Francuzzu, ci fu qualcuno prima di me? Dimmelo, ti scongiuro, o farò un gesto
di cui potrei pentirmi!”
“Carmela, smettila di tormentarti. La gelosia ci scredita di fronte al mondo
intero.”
Oppure:
“Memè, disgraziato! Ho visto che guardavi Crocifissa con gli occhi iniettati di
piacere.”
“Nunziatina, luce mia! Ti giuro che i miei occhi sono solo raffreddati!”
Dopo un’ora di simili finezze, ero talmente accalorato, talmente istupidito che
appena ho visto Silvia, le ho gridato: “C’è stato qualcun altro prima di me?”
E aspettavo che lei mi rispondesse: “Ciccio, stai tranquillo. Sei stato il mio
primo ragazzo.”
Invece no.
Ho scoperto che Silvia aveva avuto un fidanzato, un certo Marco, di sedici anni,
quando lei ne aveva tredici. Ho scoperto che c’era stato solo un bacio, tra lei e
Marco, così ha detto, ha detto Silvia, un bacio dato sui gradini della Chiesa del
Rosario di Ribera, poi s’erano lasciati, come se il futuro non potesse ormai
promettere che una versione degradata di quell'ineguagliabile piacere, il primo
bacio.
Potevo accontentarmi. In fondo era solo una storiella, solo un bacio, una
storiella da bambini. Potevo accontentarmi.
Non l’ho fatto.
“C’è stato solo lui?” ho insistito.
Silvia era un poco imbarazzata. Per come la mettevo, sembrava dovesse
superare un esame di virtù.
“A dire il vero…”
Cazzo, no, l’avrei bocciata. Silvia aveva avuto un secondo fidanzato, un certo
Antonio, di diciannove anni…
“Non entrare nei dettagli, non m’importa. Immagino che Antonio sia stato
l’ultimo…”
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“Oddio, Ciccio, veramente…”
C’era stato pure un terzo, un terzo fidanzato, anche se lei non lo chiamava
fidanzato: un certo don Gabriele, di quarantasei anni…
“Grazie, Silvia. Ritiro la domanda.”
Quel giorno siamo andati avanti e indietro, io e Silvia, avanti e indietro per la
piazza, per mezz’ora, senza dirci una parola.
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lotto, la tassa volontaria dei cretini, una truffa organizzata dove un ambo, che ha
una probabilità di uscire su 400 è pagato 250 volte la posta, c’è qualcosa che non
quadra, dico io, c’è qualcosa che non quadra in un gioco dove un terno, che ha una
probabilità di uscire su 11.748 è pagato 4.250 volte la posta, c’è qualcosa che non
quadra, dico io, c’è qualcuno che fa il furbo, c’è lo Stato che fa il furbo, dico io, e
glielo dico, ma lei non mi capisce, è convinta che il lotto ci aiuterà a vivere di
rendita, che gliel’ha detto Tizio, che gliel’ha detto Caio che il culo di Sempronio è
stato grande, Sempronio s’è arricchito con il lotto, Sempronio si è perfino
licenziato, al padrone ha detto addio, e marameo.
Mamma mia! Ci sono dei momenti che mi verrebbe voglia di prenderla a
bastonate, veramente, se non la prendo a botte è perché penso, non mi succede
spesso ma lo penso, penso che abbia un filo di ragione: la matematica è una bestia,
grande bestia. All’inizio si fa credere una corazza che protegge dalle debolezze
dell’animo umano, si fa credere purezza, verità, sincerità, ma alla fine è lei che
conta noi, ci conta i giorni e nemmeno ce ne accorgiamo.
[Allora, a quindici anni (Chi vuole stare sano, dal medico stia lontano)]
Mi dice il dottore, il dottore professore primario della clinica Serena, vaffanculo
la clinica Serena, della Divisione di Neurologia dello Sviluppo della clinica
Serena, vaffanculo la Divisione di Neurologia dello Sviluppo della clinica Serena,
della clinica Serena di Palermo, vaffanculo la città di Palermo. Mi dice Franco
Anguilla: “Tu sei sano come un pesce, Ciccio Pesce!”
“Come?”
“Non mi trovi divertente? Ok, lasciamo stare. Volevo parlarti di qualcosa che
sembra metterci in conflitto, ma in realtà potrebbe avvicinarci.”
“E cioè?”
“Sai bene i tuoi genitori ti credono affetto da una grave forma d’autismo, e non
credo ci sia modo di fargli cambiare idea. Se mi rifiuto di curarti, si rivolgeranno a
un altro medico, e poi a un altro, e un altro ancora, fino a quando troveranno un
criminale che fingerà di assecondarli, magari proponendo una cura molto lunga, e
molto, molto costosa.”
“Come faccio a uscirne vivo?”
“Grazie a me. Io ti sono amico, e ho pensato a una soluzione. Caro Ciccio, ti
toglierò d’impiccio! Ah, ah, ah, divertente, divertente davvero!”
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“Ma che cosa?”
“La rima. Non ti fa ridere? Ok, passiamo al resto. Per curare la tua malattia
inesistente ti prescriverò delle medicine inutili, pillole fatte d’amido, inefficaci dal
punto di vista farmacologico, ma in grado di convincere i tuoi genitori che sto
provando a farti riacquistare la salute. Dopo alcuni mesi di questa messinscena,
vedrai che risultati: penseranno che stai meglio. E dopo un anno, oplà: guarito!”
“Non sarebbe più semplice convincere quelle due teste di legno…”
“Impossibile. E’ già tanto se sono riuscito a evitarti un ricovero. E poi, l’hai
detto: sono teste di legno.”
“Va bene. Accetterò le pillole.”
Due al giorno, 40 mg. Così il dottor Anguilla riuscì a farmi prendere la
Fluoxetina, un antidepressivo che si usava per curare una particolare forma di
autismo, la sindrome di Asperger.
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casalinga, come ha fatto non lo so, a piantarsi nel cervello di mio padre e mia
madre e convincerli che io ero affetto da una sindrome che prima del 1944, in tutto
il mondo, nessuno conosceva, e prima del 1987, a Ribera, provincia di Agrigento,
nessuno conosceva. Si viveva bene uguale.
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dipendenza psichica: sentirsi bene solo avendo la mia dose quotidiana di Silvia. E
a questo punto, mi chiedevo: se mi lascia? Ecco che improvvisamente sprofondavo
in un sogno lucido e angosciante, doloroso, molto doloroso. Silvia non veniva più
agli appuntamenti. Ogni lunedì pomeriggio alle 6 arrivavano al suo posto
solitudine e angoscia. Ogni mercoledì sera alle 8. Ogni giovedì pomeriggio alle 6.
Ogni sabato sera alle 8. Ogni domenica pomeriggio alle 6. Puntuali, come Silvia.
Portandosi dietro la certezza che quell’abbandono avrebbe generato altre
conseguenze, non meno dolorose. Punto primo: i miei genitori si sarebbero ancora
più convinti della mia incapacità di sviluppare relazioni. Punto secondo: le porte
della clinica Serena mi avrebbero inghiottito, con la loro fame mostruosa che di
giorno in giorno richiedeva altri malati, altri ricoveri, altre costose prescrizioni.
Avrei potuto sopportare tutto questo? Sopportare pure il vuoto, la noia? La clinica
Serena di Palermo? Da Ribera a Palermo sono 115 chilometri, due ore scarse
d’auto nelle quali mio padre e mia madre si sarebbero detti ad alta voce…
Lei: “Il Signore ci dia la forza di sopportare questa pena.”
Lui: “Se lasciavi fare a me…”
Lei: “Se lasciavo fare a te, cosa?”
Lui: “La sua educazione. Hai nutrito Ciccio con le tue insicurezze, e questo è il
risultato. Nostro figlio odia le persone perché ne ha paura.”
Alle 5 e 30 del mattino, ho preso carta e penna e ho deciso di fare due liste: la
lista dei motivi per i quali avrei dovuto continuare a frequentare Silvia e la lista dei
motivi per lasciarla. Se quest’ultima fosse risultata la più lunga delle due, avrei
agito di conseguenza, e pure in fretta.
Ho preso carta e penna ma non sono riuscito a scrivere. Ogni cosa che pensavo
avevo paura a scriverla, mi sembrava di farmi una diagnosi. E una diagnosi ha
senso solo se c’è una malattia.
Sono rimasto così, senza far nulla, fino alle 7, quando mio padre si è alzato per
andare al lavoro, ha visto la luce accesa nella mia camera e ha borbottato: “Ciccio
si è addormentato senza spegnere, ieri sera. Brutto segno.”
[Allora e un poco prima (La prima volta e quella che sarà, se mai sarà, la prima
volta)]
Silvia era una ragazza che avrebbe dovuto avere un mucchio di pretendenti, e
non solo tra i ragazzi, perché Silvia aveva un corpo, aveva un corpo che ogni curva
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era piazzata al punto giusto, aveva solo quindici anni, figuriamoci tra cinque.
Silvia poteva avere i ragazzi che voleva, i più belli di Ribera, i più ricchi,
intelligenti, e invece c’ero io, almeno mi sembrava, solo io, e voglio dire: qualcosa
non quadrava. Silvia aveva un seno, aveva un seno perfetto, con i capezzoli
sporgenti che scolpivano magliette molto fini, molto strette. Silvia non faceva
nulla per nascondere le sue forme, ma del sesso, posso dire, non è che le
importasse, almeno, posso dire, con me non le importava, posso dire, voglio dire,
l’ho già detto: qualcosa non quadrava. Io e Silvia parlavamo, parlavamo, a me
pareva strano che l’amore fosse tutto quel parlare, soprattutto parlavamo dei suoi
sogni, soprattutto del suo sogno, Parrucchieria da Silvia, era il suo sogno.
Silvia aveva avuto tre ragazzi, due ragazzi a dire il vero, che io quel don
Gabriele non lo so, ci sono rimasto male, ho pure pianto, quel don Gabriele poteva
essere un prete, un prete o non lo so, un capomafia, comunque un disonesto, un
criminale, un ipocrita, ci sono rimasto male, ma ho pure riflettuto: chi cazzo se ne
frega, Silvia è un’occasione irripetibile per vivere nel mondo, finalmente, non più
solo guardarlo, il porco mondo, Silvia è un’occasione irripetibile per scoprire il
sesso, per scopare, che era una cosa eccitantissima di cui avevo molto sentito
parlare, mi ero anche toccato, prima di conoscere Silvia, in modo naturale,
pensando alla cantante Nada, avevo cominciato a toccarmi il cazzo, e in modo
naturale, una mattina, ero stato attraversato da una scossa, un qualche tipo di
corrente elettrica, un calore, una spruzzata, una vergogna nel vedere le lenzuola
che assorbivano quel liquido biancastro. Una vergogna così forte da essere
costretto a un’invenzione, a dire: “Mamma, voglio risparmiarti un lavoro. Da oggi,
prima di andare a scuola, mi rifarò il letto.”
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pezzo.
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alla tv, e se non vi dispiace volevo starci anch’io…”
Melo fa la faccia di chi non vede l’ora di saltarci addosso e, a pugni e a schiaffi,
spingerci verso l’uscita. Ma Silvia…
“Pensa a fare il tuo lavoro, è meglio.”
“Il mio lavoro, ma che minch… Per voi due?”
“Ecco, appunto: visto che in sala ci saremo solo io e Ciccio, non si potrebbe
cambiare film?”
“Cosa?”
“Fammi un favore. Che sono quelle scatole?”
“Vecchie pellicole in bianco e nero. Dovrei liberarmene, ma pesano.”
“Scelgo quella.”
“Parrucchiere per signora?”
“Esattamente. Di che parla?”
“Ora sei tu a fare domande di minch… Oh, scusa! Domande senza senso. Di
cosa vuoi che parli? Di un parrucchiere.”
“Ok, vediamolo.”
Mercoledì 3 luglio 1990 è una data fondamentale del mio viaggio alla scoperta
dell’amore. Quel giorno, quella sera, allo stadio San Paolo di Napoli, si giocava
Italia-Argentina, semifinale dei mondiali. L’Italia di Totò Schillaci contro
l’Argentina di Diego Armando Maradona. Totò contro Maradona. Magari fosse
stato quello, il film! Mi sarebbe piaciuto vederlo insieme a Silvia, ma era solo una
partita, secondo lei “una stupidissima partita”. Così sono rimasto dentro un cinema
a sorbirmi Parrucchiere per signora, un film del 1956 con Fernandel. Sono rimasto
in una sala vuota e senza aria condizionata, a interrogarmi se essere là dentro fosse
amore, se con Silvia fosse amore.
[Un po' meno che adesso, a diciott’anni (Un brusco salto temporale, per
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capriccio, per spiazzare il lettore)]
Spinetta mi chiedeva: “Di che sa?”
Ma che ne so, ma che ne so. La fica di Spinetta emanava un odore indecifrabile,
né buono né cattivo, forse forse era sudore, forse misto a gelsomino, a qualche tipo
di lavanda, era dolciastro, poi pungente, disgustoso, seducente.
“E’ un odore indeci…”
“Non smettere, ti prego.”
“Ma come faccio a…”
“Bacia e non parlare.”
“Come faccio a risponderti?”
E va bene. Me ne restavo zitto zitto, aspettavo, sottomesso, rassegnato, di solito
mezz’ora, mezz’oretta, poi arrivava: il pugno in testa. Era il segnale che Spinetta
stava entrando in corto circuito. Cominciavano i sospiri, le contrazioni dell’utero, i
momenti di apnea, le urla bestiali che precedevano una raffica di orgasmi. E di
pugni. E di rimbrotti: “Perché ti eri fermato? Potevi rovinare tutto. Non devi più
fermarti, capito? Per nessun motivo.”
Avrei voluto dirle: Ma che cazzo vuoi da me? Sesso orale non vuol dire
rispondere e leccare allo stesso tempo.
Avrei voluto. Ma la mente, la mia mente, proprio allora, con Spinetta che
rompeva, la mia mente era tornata su un articolo che mi aveva fatto impressione,
un articolo della rivista Scienza & Psiche, un articolo in cui uno scienziato
americano sosteneva che l’uso smodato del sesso orale poteva essere la causa
scatenante di alcuni tumori della bocca.
Domandona: come aveva fatto a scoprirlo? Era andato a chiedere ai malati se
negli ultimi anni avevano praticato irrumazione, voglio dire: fellazione,
cunnilingio? Non lo so. Certi mestieri, lo scienziato per esempio, uno pensa: un bel
mestiere, lo scienziato. Ma non sempre.
“Puoi andare.”
La voce di Spinetta, sonnacchiosa, già impastata.
“Co-cosa?”
“Ciccio, non mi dire! Ti stavi addormentando!”
“No, no, scusami. Pensavo.”
“A che pensavi?”
“A…”
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“Va bene, non m’importa. Adesso ho sonno.”
A che pensavo? Pensavo che ogni tanto, che prima era ogni tanto, che ora era
ogni giorno, pensavo che pensavo d’ammalarmi, troppo spesso ci pensavo.
Pensavo che mangiavo poco poco, riso bianco e mele cotte, perché avevo una
paura, una paura da morire, di morire per un cancro, un cancro al colon. Pensavo
che bevevo solo acqua, solo acqua naturale, niente vino, una gazzosa, niente coca,
un bicchierino, niente niente, perché avevo una paura, una paura da morire, di
morire per un cancro, un cancro al fegato. Pensavo che pure respirare mi creava dei
problemi, ch’era buffo andare in giro con una mascherina per paura delle polveri
sottili e dello smog, una paura da morire, di morire per un cancro, un cancro ai
polmoni. Pensavo che Spinetta poteva anche ammazzarmi, questa storia di baciarla
poteva anche ammazzarmi. Pensavo: glielo dico, glielo dico, ma poi non lo facevo.
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è agitata, ha detto: “Ciccio, ancora alzato?”
“Ehm, sì, guardavo un film, ma sto spegnendo…”
Non avere mai scopato, con Silvia, mai scopato, dev’esserci un motivo, ho
ragionato, ho riflettuto, mi è venuto da pensare: Silvia non mi credeva capace: può
darsi, può darsi. Oppure: Silvia bisognava prenderla con forza, senza chiedere
permesso, può darsi, può darsi. Oppure: Silvia era frocia, può darsi, può darsi.
Oppure: Silvia non accettava di essere considerata alla pari di una ragazza cin cin,
può darsi, può darsi. Oppure: Silvia era vergine, escluso, escluso. Oppure: Silvia
era stata violentata da un porco che l’aveva resa frigida, può darsi, può darsi, da un
pretazzo o da un mafioso, da quel certo don Gabriele, può darsi.
Era un mistero, e ancora oggi che Silvia è morta, non capisco perché il giorno
che le ho detto, con fatica, con vergogna, ch’era strano, molto strano che un
ragazzo e una ragazza come noi, innamorati come noi, non avevano ancora fatto
sesso, mi sono sentito rispondere che l’amore fisico non avrebbe aggiunto nulla
alla nostra storia. Ma perché?
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Metti caso avesse chiesto se c’era un’altra donna, avrei risposto: c’è Miou.
Non me l’ha chiesto.
Con Silvia, ho continuato a fare le stesse cose: lunedì piazza, mercoledì cinema,
giovedì piazza, sabato cinema, domenica piazza. Con Miou, ho imparato a fare
cose nuove: lunedì pompino, mercoledì penetrazione, giovedì leccatina, sabato
inculata, domenica: ripasso di tutte le posizioni studiate in settimana.
Per un mese la bella e invisibile francesina è stata la mia schiava, è stata vaso,
serratura, è stata pompa aspiratutto, mare latteo, la mia strada, soprattutto, la mia
strada a un mondo nuovo. Insomma, per essere una donna che non c’era, è stata
grande.
Poi, un giorno, mi ha deluso, mi ha deluso grandemente. Approfittando
dell’importanza che le davo, per lei avevo smesso di vedere Colpo grosso, Miou si
era fissata con l’idea che era meglio se mi sbarazzavo di Silvia, che Silvia non
serviva, mi serviva proprio a nulla andare al cinema o far vasche nella piazza.
“Sì che mi serve,” replicavo, “innanzitutto perché, nella sua veste di ragazza
ufficiale, tiene a bada i miei genitori, e poi è precisa, riservata, s’impiccia poco
della clinica Serena, dei miei guai con i dottori, degli antidepressivi, del tempo che
passo giocando al Subbuteo con me stesso, non mi fa sentire in colpa se vedo una
partita di quel calcio che lei odia, e a farla breve, sesso a parte, mi permette di
essere me stesso.”
Vivevo giorni di assoluta confusione. Non mi andava di farmi delle ossessioni
con una succhiacervello, per di più inventata, che mi avrebbe succhiato pure
l’anima, e però: di farmi coinvolgere emotivamente da Silvia mi andava ancora
meno, perché con Silvia ero diventato uno di quei giovani anziani, ce ne sono,
vecchi ottuagenari dai quindici ai vent’anni che accumulano giorni tutti uguali e
sono contenti, come fanno non lo so ma sono contenti. La mia vita con Silvia
assomigliava a una gita solitaria, una gita, che ne so, magari al lago, magari in una
sera di bonaccia, piatta piatta la mia vita, vita grigia, soporifera, noiosa. La mia
vita con Silvia era come stare seduto, che ne so, su una panchina, dentro un parco,
in una sera di novembre, e non vedere passare nessuno, secca secca la mia vita,
inconcludente. Avessi avuto l’Asperger, forse, dico forse, avrei potuto
accontentarmi, avrei dovuto accontentarmi, ma io, che sia ben chiaro, chiaro a
tutti, non avevo, non ho avuto quella stronza malattia, mai avuta.
Una notte, alle 4, angosciato dall'insonnia, ho preso carta e penna e ho scritto,
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questa volta ce l’ho fatta, ho scritto:
Logica dice che ho tre possibilità: stare da solo, stare con Silvia o stare con
Miou. Logica vuole che io ami maggiormente almeno una delle tre cose, anche se,
in coscienza, non so quale.
(1) Se amo stare solo, allora amo anche Silvia.
(2) Se amo Silvia ma non amo stare solo, allora amo anche Miou.
(3) O io amo sia Silvia che la solitudine, o è meglio che decida di stare con
Miou.
Tutto, sulla carta, mi appariva semplice, lineare. Il mio problema era amare
Miou e al tempo stesso volere conservare i miei spazi di solitudine. Amare Miou
ma volerla trasformare in Silvia. Amare Silvia ma volere che fosse meno Silvia e
più Miou.
Tutto chiaro, sì, ma… come uscirne?
25
minuti. A che serviva? Allora non capivo, boh, me lo chiedevo, non capivo.
Riflettendoci, ho pensato che era una strategia per costringermi a parlare, perché
io, di parlare, non è che avessi voglia di parlare con Clara che chiamavo la
becchina, zero voglia.
Cinque minuti, trecento secondi, è un sacchissimo di tempo, è come dire: uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno
uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno uno.
Era un tempo insopportabile, specie se si trattava di stare fermo sotto gli occhi
sgranati della becchina, la becchina mi guardava, seria seria e zitta zitta, cupa cupa
mi guardava, aspettava e non parlava, pensierosa, tenebrosa, manco stesse
ruminando chissà quale fantastica astrazione, la becchina non fiatava, lasciava
scorrere i minuti, giusti giusti, giusto cinque, poi diceva, immancabilmente,
inevitabilmente, da trentadue sedute, la stessa frase: “Allora, ragazzo, di cosa
vogliamo parlare, oggi?”
A quel punto, ero disposto a sproloquiare di qualunque cosa, piuttosto che
subire altro silenzio.
“Domenica scorsa, io e Silvia, la mia fidanzata, abbiamo visto un film che c’è
piaciuto molto. Harvey si chiamava, con James Stewart.”
“James Stewart? A Ribera danno film così vecchi?”
“Non lo fanno, naturalmente. Ma io e Silvia siamo diventati amici di Carmelo
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Spidicato, il proiezionista. Così, quando la sala è vuota, Carmelo ci fa scegliere
cosa vedere.”
“Vogliamo parlare di questo Harvey, allora…”
“D’accordo. E’ la storia di un uomo che trascorre le sue giornate in compagnia
di un amico immaginario, un coniglio bianco alto un metro e ottantasette
centimetri.”
“Un coniglio alto quasi due metri? Interessante…”
“Uno e ottantasette, lo ricordo bene.”
“Già, e cos’è che ti ha colpito?”
“La cattiveria della sua famiglia. Pensi che vorrebbero farlo rinchiudere in una
clinica psichiatrica.”
“La famiglia del coniglio?”
“No, dell’uomo!”
“Volevano rinchiudere il coniglio in manicomio?”
“No, Harvey!”
“Ah, certo. E lui come ha reagito?”
“Continuando a vivere la sua vita come se niente fosse.”
“E quello che vorresti fare anche tu?”
“Sì, ma non è di questo che voglio parlare.”
“E di cosa?”
“Del fatto che ci si possano creare degli amici immaginari. Non sarà mica un
sintomo di qualche malattia?”
“Sì, cioè… No!”
“Sì o no?”
“No. Il tuo come si chiama?”
“Il mio che?”
“Il tuo amico immaginario.”
“Io non ho nessun amico immaginario.”
“Però quel film ti ha conquistato…”
“E allora?”
“Forse piacerebbe anche a te avere un amico come il coniglio.”
“Nient’affatto.”
“Un amico immaginario con cui parlare dei tuoi problemi…”
“Io non ho problemi.”
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“Tutti li abbiamo. La vita è molto più complicata di quanto la tua giovane età
può farti credere. Siamo nati per soffrire, e attraversiamo questo nostro breve
tempo cercando di non farci travolgere da una marea montante di dubbi e
insicurezze…”
“Per favore, la smetta! So dove vuole arrivare. Sta di nuovo provando a
convincermi che ho bisogno di cure.”
“Ti sbagli. Io sto dalla tua parte. E anche il dottore.”
“Non lo so. Non so più nulla. Anzi, no, una cosa la so bene: io non sono malato.
Non ho bisogno di nessuna cura. Non ho bisogno di queste inutili sedute. Delle
vostre pillole del cazzo. Io non sono malato. Non sono malato. NON SONO…”
“Va bene, Ciccio. Per oggi abbiamo finito.”
Sedute come questa costavano a mio padre 80 mila lire.
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Contro Silvia, l’ho già detto: sopportarne la freddezza, un torpore erogeno che
non è lecito aspettarsi da una bella adolescente: indifferenza verso il corpo,
frigidità, distacco, quel certo non so che da dea intellettuale.
Pro Silvia, una nuova riflessione: era di ghiaccio, sì, d’accordo, ma questo ne
faceva il tipo di donna su cui contare in situazioni di pericolo. Pensavo: su un
aereo che cadeva in mezzo al mare, Silvia mi avrebbe fatto indossare il giubbotto
salvagente mentre io avrei cercato un’insincera quanto tardiva conversione al
cristianesimo; nei piani alti di un grattacielo in fiamme, Silvia mi avrebbe fatto
fuggire dalle scale di sicurezza, mentre io, stupidamente, avrei provato a ficcarmi
in un ascensore affollatissimo e destinato a bloccarsi per mancanza di corrente;
durante un terremoto, Silvia mi avrebbe fatto riparare sotto una robusta scrivania,
mentre io avrei voluto correre in strada rischiando di finire schiacciato dalla caduta
di un vecchio cornicione.
Non lo so, c’ho confusione: con lei era come vivere sospesi in una bolla di
sapone, mi viene quest’esempio esagerato, in una gigantesca bolla di sapone che ne
conteneva altre due: in una c’ero io, nell’altra lei, e via volare, volteggiare, senza
mai toccare terra. Con Silvia si viveva in un Altrove, un mondo tutto nostro dove il
freddo non era mai freddissimo, il caldo non era mai caldissimo, i venti soffiavano
alle spalle e la nebbia era trasparente. Un mondo dove l’ora era sempre l’ora esatta,
dove i treni arrivavano puntuali e gli esseri umani si tenevano a distanza, incapaci
di farsi del male: niente rabbia nei confronti del diverso, niente liti con i genitori,
nessuna animosità per le strade, nessuna violenza nell’amore. Nessun amore, forse.
Un mondo di felicità, ma in grigio, un mondo falso, dopotutto, messinscena per chi
non vuole sapere che le bolle di sapone, o scoppiano da sole, o scoppiano al
contatto con le cose, con gli altri, le persone. Comunque scoppiano, e questo, piano
piano, stava per accadere.
Incontrandoci e scontrandoci con Miou, lo prevedevo, lo temevo: per me e
Silvia sarebbe presto arrivata la fine. Una deflagrazione.
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Era in ritardo.
Sono corso a una cabina e l’ho chiamata, zumpallero, con il cuore che pestava,
zumpallero, con le dita tremolanti ho fatto lo 0, il 9, il 2, il 2, ho fatto l’8, ho fatto
l’1, poi il 6, il 3, l’1, il 3, con i nervi a fior di pelle, zumpallero, perché Silvia no,
non c’era, zumpallero.
Neanche a casa.
Ho provato con mia madre…
“Ciccio, no. Qui non s’è vista.”
Con suo nonno…
“Ma chi sei? Parla più forte! Silvia chi?”
Con una zia parrucchiera…
“Non lo so dov’è finita. Quando la trovi, ricordale di restituirmi la piastra
arricciacapelli che le ho prestato il mese scorso.”
Con i carabinieri…
“Ma chi sei, il figlio di Pasqualino Pesce? Non ti sembra di correre troppo?
Forse la tua bimba ti ha mollato.”
“Mi ha mollato?”
Zumpallero.
“E’ la prima volta? Sei giovane, non fartene una malattia. E soprattutto, impara:
alle ragazze non devi credere!”
“Mi sta dicendo che non la cercherete?”
“Ma sì che la cerchiamo. Intanto vai a dormire. Domani, se la tua Silvia non si è
ancora fatta viva, vieni a trovarci, magari con suo padre.”
“Grazie.”
“E ricordati: in questi tempi corrotti una qualsiasi ragazza di quindici anni è già
una puttanella che sa come fare fessi gli uomini, pensa i succhiaminne come te, se
li divora! Ascoltami, che ti educo alla vita. Le regole di sopravvivenza sono tre:
illudere, fottere e scappare. Soprattutto fottere. Capito?”
“Illudere, fottere e…”
“Mandarle a cacare. O saranno loro a farlo, come Silvia.”
“Lei è sicuro?”
“Sicurissimo.”
Ok, se mi ha mollato, pensavo, c’è da dire che l’ha fatto in modo sorprendente,
non da Silvia, voglio dire, che per Silvia la cosa più importante era non perdere la
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faccia, in ogni cosa che faceva, mantenere discrezione, correttezza, dignità, non
certo rendersi imprendibile, fuggire, vergognarsi. Ero convinto che Silvia fosse in
pericolo, zumpallero, e sì, per forza: per un anno, per un anno era stata puntuale,
maniacalmente puntuale, mai un ritardo, mai una scusa. Silvia era proprio una
ragazza priva di contrasti: precisa, lo era sempre, discreta, lo era sempre, diligente,
minuziosa. Se avesse voluto lasciarmi, sono certo che me l’avrebbe detto,
spiegandomi i motivi, le sue insoddisfazioni, le mie manchevolezze, tutte, tutte, e
senza pena, senza preoccuparsi di girare il coltello nella piaga del dolore, senza
pena, sono certo, ma mettendoci la faccia. Non così, vigliaccamente, non così,
fuggendo, no.
Sono tornato alla cabina e ho richiamato, zumpallero.
“Pront…”
“Silvia!”
“Sono sua madre. Ciccio, perché urli?”
“Può passarmi Silvia, per favore?”
“Credevo fosse con te.”
“Dovevamo incontrarci, ma in piazza non c’è.”
“Gesù mio, dov’è?”
“Non lo so. Che facciamo?”
“Mio marito è uscito in mare, ha un peschereccio.”
“Che facciamo?”
“Vediamoci dai carabinieri, tra dieci minuti.”
Dai carabinieri voleva dire dal maresciallo La Farciola, un abruzzese che non
vedeva l’ora di correre in licenza a casa.
“L’ho già detto all’innamorato pazzo: mi sembra presto per parlare di
scomparsa.”
“Io e sua madre non crediamo che sia presto. Silvia era metodica, abitudinaria.
Non saltava mai un appuntamento.”
“Quanti anni hai?”
“Che c’entra? Quasi sedici.”
“E a quasi sedici anni, che ne capisci tu di femmine?”
C’era una vena di derisione nel tono della sua voce che non mi piaceva affatto.
“Non ci capisco un cazzo, contento?”
“Ehi, datti una calmata!”
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“Mi scusi, ma Silvia la conosco bene. Secondo me le è successo qualcosa di
brutto!”
Stop.
Il mio ricordo ha un buco nero. Non so più cos’hanno detto: il maresciallo, la
madre di Silvia, non so niente. Passarono dei minuti? Quanti?
Mi vedo con la mente fuori dalla caserma, sto guardando l’orologio, terribile,
angosciante: era fermo l’orologio, una cosa che mi ha mandato in panico, che,
vero, a molti può sembrare comico, può darsi, non a me, terribile, angosciante, mi
succede ancora adesso, lo spettacolo del tempo immobile è fonte di un disagio non
solo psicologico, anche fisico, non comico, se il tempo mi si ferma, anch’io mi
fermo, ancora adesso, mi succede ancora adesso, non lo so, non so perché, non so
come né perché, perché succede, mi spavento, mi spavento di morire, di morire di
paura, mi spavento d’impazzire, di perdere il controllo, ho solo un modo per
salvarmi, solo un modo: chiedere, ossessivamente, compulsivamente, chiedere…
“Che ore sono?”
“Ciccio, sei scosso. Devo portarti a casa?”
“Signora, che ore sono?”
“Guarda che non mi costa nulla accompagnarti.”
“Grazie. Forse… no… ho il motorino… grazie.”
“Allora vai. Ci sentiamo domattina. Se ci sono novità puoi chiamarmi a
qualunque ora.”
“Che ore sono?”
“Non ho l’orologio.”
“Le ragazze come Silvia non fanno un cambiamento di programma quando
hanno un appuntamento. Secondo lei la cercheranno già da stasera?”
“Lo spero con tutto il cuore, Ciccio. Dobbiamo avere fiducia.”
“Che ore sono?”
“Non ho l’orologio, te l’ho detto. Sei sicuro di stare bene?”
“Che ore sono?”
“Sei sicuro di non avere visto Silvia, stasera?”
“Non l’ho vista.”
Sono andato via pensando che se Silvia non tornava, la cosa più semplice per i
suoi genitori era cominciare a dubitare di me. Per sua madre, pensare di trovarsi di
fronte a un assassino. Per suo padre, aspettare un mio passo falso e poi saltarmi
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addosso massacrandomi di botte, eventualmente denunciarmi. Sono andato via
pensando a come sarebbe stato bello vedere Silvia uscire dal buio e cominciare a
ridere di me, della mia incapacità a credere che lei, per una volta, per una volta
almeno, era riuscita a stupirmi, a mostrarsi imprevedibile, ho pensato. Sono andato
via pensando che avevo solo lei, volevo bene solo a lei, e lei non c’era, non ci
sarebbe stata, per quanto tempo, per tanto tempo o mai, non ci sarebbe stata.
Silvia, Silvia.
Gli unici dati certi erano la sua scomparsa, zumpallero, e questa voce fastidiosa
nella testa, zumpallero. La voce di Miou. La voce che diceva: “Zumpallero”. Che
diceva: “Zumpallà”.
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“Pesce Francesco, non raccontarci minchiate. Hai visto Silvia, giovedì?”
“No.”
Ero sicuro: il giorno prima, io e Silvia eravamo andati al cinema, a vedere Pretty
Woman. Alle 22 e 20 l’avevo accompagnata a casa, in motorino. Non c’era stato
bisogno di darci appuntamento per il giorno successivo, era normale incontrarsi di
giovedì pomeriggio, normale, passeggiare, come tutte i giovedì, normale. L’ho
vista chiudere la porta e sorridermi. E’ l’ultima immagine che ho di lei.
“Ci stai prendendo per il culo?”
“Perché dovrei?”
“Ci sono un sacco di motivi per cui potresti mentire.”
“Vi sto dicendo la verità!”
La verità, ci avrei giurato. Ma quelli, due aguzzini, non volevano sentire
ragioni, urlavano che la mia reticenza gli stava rompendo i coglioni. Miou diceva:
“Hanno i coglioni delicati! Chi si credono di essere per insultarti, per rovesciarti
addosso le loro frustrazioni?”
“Se l’hai uccisa non ce lo vieni certo a dire…”
“Non l’ho uccisa!”
A un certo punto hanno pensato bene di puntarmi un faro in faccia, come avevo
visto fare solo al cinema. “Hanno pensato male,” ha detto Miou, “perché adesso tu
ti alzi dalla sedia e li mandi a fare in culo, e ce ne andiamo”.
Dovevo? Non l’ho fatto, mi è mancato il coraggio, ho solo detto che volevo
alzarmi per pisciare, ma quelli hanno risposto che non era il momento, e il chiodo
in testa, il chiodo in testa ha suggerito di fingere un attacco di panico, che forse la
smettevano, e invece quelli si sono fatti minacciosi, hanno detto che se non
confessavo mi avrebbero dato tanti di quegli schiaffi da farmi ballare il rock and
roll, poi hanno riso tutti e due, doveva trattarsi di una battuta, ho pensato.
A me un attacco di panico è venuto per davvero, messo in mezzo dai due
carabinieri, stritolato da Miou, messo in mezzo e stritolato, incalzato, asfissiato,
ridotto a non pensare, ho cominciato a sentire un formicolio alle mani e ai piedi,
poi alla pancia, poi al collo, ho cominciato a irrigidirmi, sono diventato un pezzo
di legno, è finita che hanno dovuto chiamare un dottore, è finita con Miou che mi
diceva: “Bella idea sentirti male”. Ma non era una furbata: stavo male.
E poi, sul serio, mi dispiaceva non essere d’aiuto, ma io della morte di Silvia
non potevo dire niente, ero sconvolto, addolorato, non potevo dire niente, non
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sapevo proprio niente, ogni volta che provavo, che provavo a ragionare, a ricercare
qualche cosa, nel cervello, qualche cosa, che ne so, una frase, un particolare,
qualche cosa che potesse rimandare a qualche cosa che potesse fare luce sul
delitto, che ne so, ogni volta c’era Miou che distraeva, un chiodo in testa, mi
parlava, mi assillava, mi diceva: “Basta con questa Silvia, pensiamo a noi due,
pensiamo al futuro”.
Ecco, futuro è una parola che per me, in quel momento, non aveva molto
significato.
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andarci. Fossi andato, sono certo che mi sarei commosso, avrei fatto la mia scena,
sincera e naturale, la mia scena, lacrimando, perché era il solo modo di dimostrare
a tutti che Silvia era importante, che la sua morte mi aveva spezzato il cuore, che
non ero colpevole di niente. Fossi andato, avrei seguito il consiglio di mio padre:
Vai, piangi, grida a più non posso, strappati i capelli, fatti portare via.
Ho litigato con mio padre, con mia madre, loro sì che sono andati, hanno detto
che non andare sarebbe stata un’ammissione di colpevolezza, ma io no: non sono
andato. Io a Silvia le volevo un bene forte, un vero bene, non avevo alcun bisogno
di farlo sapere a tutti, di esporre il mio dolore, il mio viso rigato dalle lacrime, le
mie mani contratte, gli occhi rossi. Piangere e gridare mi sembrava un insulto a
una ragazza che aveva sempre voluto vivere sottotraccia.
Ho detto a mio padre: “Per amore di Silvia, farò la strada del corteo, ma non con
tutti voi. Mezz’ora dopo.”
Ha detto lui: “Sei pazzo.”
[Allora, a quindici anni (Cose che succedono agli assassini, pure a quelli
presunti)]
Durante una delle mie settimane peggiori, quella successiva alla morte di Silvia,
mentre andavo a scuola, una mattina, ho incontrato un uomo, un uomo grande e
grosso, con un naso da ubriacone, con dei rotoli di ciccia tenuti a malapena dai
vestiti, un uomo che mi ha chiesto: “Eri il suo fidanzato?”
“Cosa?”
“Sei tu lo stronzo che l’ha uccisa?”
Ho avuto la tentazione di tirare dritto, ma lui mi ha preso per un braccio e ha
fatto un ghigno, ha messo fuori i denti e mi ha gelato, ringhiando parole miste a
sputi: “Non rispondi? Non ti hanno insegnato l’educazione?”
Ho detto a malapena: “Chi è lei?”
“Le domande le faccio io. Tu rispondi. Eri il fidanzato di Silvia?”
Quell’uomo grande e grosso, affogato di sudore, stringeva con una forza che ho
pensato fosse sufficiente per aprirmi un buco nel braccio, da parte a parte.
“Eri il suo fidanzato?”
“Sì.”
“Da quanto tempo stavate insieme?”
“Un anno.”
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“E ti piaceva scopare con lei, brutto figlio di puttana?”
“M-ma io ve-veramente, noi…”
“Che minchia balbetti?”
“I-io e Silvia non abbiamo mai…”
“Sparala più grossa.”
“Mai, lo giuro.”
“Sei un pezzo di merda. Le lacrime che hai fatto piangere ai suoi genitori, le
dovrai piangere tu. Capito?”
Mica tanto, ho capito. Mi chiedevo: vuoi vedere che è un parente di Silvia? O
un picciotto che suo padre ha pagato per picchiarmi? Vuoi vedere che è quel certo
don Gabriele? O una specie di giustiziere solitario? Vuoi vedere che è un tizio
qualunque che ha perso la testa e si accanisce sul primo sfigato che gli capita a
tiro? Chiunque fosse, quel grasso cola grasso aveva l’aria di volermi maciullare, e
per fortuna, per fortuna che una moto si è fermata. Non una dei carabinieri, una più
bella. La Ducati 350 del mio professore di matematica. Comprata col blackjack,
diceva lui.
“Problemi, Ciccio?”
Mi ricordo, a questo punto, che il grassone se n’è andato, è scappato via
sorpreso, smadonnando.
“Nessuno, professore. Ma se non le dispiace, vorrei un passaggio fino a scuola.”
“Salta su.”
Saltare? Mi ci fiondo. Il prof parte a manetta.
Urlo: “Sa, mi sono iscritto allo scientifico. Come voleva lei.”
Urla: “Bravo, farai strada. Chi era il grassone?”
Urlo: “Non lo so.”
Quel giorno, mi ricordo, ho avuto la certezza che continuare a vivere a Ribera
sarebbe stata dura.
37
masserie di proprietà del barone Francesco Agnello, e fate caso: zio Lillo era
carpentiere con il pallino dell’architettura, e il secondo s’intitolava Forma,
geometria e struttura nel cinema di Cicciolina, e fate caso: zio Lillo era cinefilo
con il pallino della fica. E già che continuo a parlare di mio zio, di Lillo Pesce, mi
piace ricordare che era l’unico parente con cui riuscivo a dire qualche cosa che non
fosse: Ciao Ciao Come stai Bene grazie Ci vediamo. E già che non la smetto di
parlare di mio zio, mi piace ricordare che lo penso con amore, lo zio Lillo, quasi
amore, con affetto, lo zio Lillo, quasi affetto, mi piace ricordare che lo penso, lo
zio Lillo, e gli perdono quella storia vergognosa per cui mia madre gli aveva tolto
il saluto: Anziano cade da un ponteggio mentre fa sesso, scrissero i giornali, e lo
faceva, ci scommetto, con una ragazzina, ci scommetto, con qualcuna che ha
chiamato l’ambulanza ed è scappata, si è cacata di paura e l’ha lasciato agonizzare,
scrissero i giornali, che lo zio fu ritrovato spiaccicato e quasi morto, con il casco
da cantiere e niente addosso, come un verme, nudo nudo, con lo sperma che gli
usciva dall’uccello ancora caldo, scrissero i giornali.
Il giorno che avevo deciso di lasciare Ribera, mio padre e mia madre si erano
messi a pensare e a ragionare e a fare una lista dei parenti che potevano darmi
alloggio, e dopo avere incassato una sfilza di rifiuti, erano arrivati in fondo a
quella lista, a un nome scritto e cancellato e scritto e cancellato e scritto e
cancellato e scritto varie volte, il suo: Pesce zio Lillo. Hanno chiamato lo zio Lillo,
lo zio Lillo mi ha preso volentieri, era contento, stava solo, si annoiava, era
contento di ospitarmi, e pure io, ero contento, ero convinto ch’era meglio andare
via, via di corsa da Ribera, per non sentire il peso delle malignità, per non fare i
brutti incontri che cominciavo a fare. Il giorno che avevo pronta la valigia, mio
padre e mia madre chiamarono i carabinieri, chiesero se per loro andava bene.
Andava bene, a patto che restassi nei dintorni: a Montallegro, a Siculiana, alla
Marina. Andava bene, per loro andava bene che vivessi alla Marina, 41 minuti da
Ribera.
[Un po’ più che allora (Cosa possiamo aspettarci dal seguito di questo libro)]
La mia vita con zio Lillo, inframmezzata dalle solite visite alla clinica Serena,
vaffanculo, di Palermo, vaffanculo, è stata caratterizzata dalla presenza di
Mariangela Baldini, una ragazza di ventidue anni, di Joppolo Giancaxio, che aveva
il padre carcerato e veniva da mio zio a rassettare, a pulire, a sistemare, lavare,
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stirare, pure a fargli dei pompini. Arrotondava. C’eravamo detti delle cose, io e lei,
delle chiacchiere sul fatto che Mariangela era cotta di un attore molto ricco, molto
conosciuto, di un attore siciliano molto bravo anche, Toni Sperandeo, era cotta
senza averlo mai incontrato, e io ho le ho detto: “Se t’interessano gli attori, se entri
nell’or-dine di idee di fidanzarti con qualcuno che mente per lavoro, io ti devo dire
che in tutta la mia vita non ho mai mentito.”
Ha detto lei: “Mai?”
Ho detto io: “Mai.”
Ha detto lei: “E se ora ti dicessi che sono pronta a succhiartelo a patto di non
farlo sapere a Lillo, che faresti?”
Ho detto io: “Stai scherzando?”
Ha detto lei: “Comincia a sbottonarti.”
Infida la donna, perfida la donna.
La mia storia con Mariangela, inframmezzata dalle solite visite alla clinica
Serena, vaffanculo, di Palermo, vaffanculo, è una storia che racconto volentieri, la
mia storia con Mariangela e Miou, che c’era ancora, la stronzissima Miou, più
gelosa, più sclerata, più incazzata, è una storia che racconto per spiegarvi che
nulla, nulla è più illusorio di un orgasmo. Ci si crede re del mondo, una manciata
di secondi, poi si torna uomini e ominicchi, conta nuovamente ciò che non siamo,
ciò che non abbiamo saputo realizzare.
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 1:
Benvenuto!)]
Zio Lillo nasce… no, diceva lui: “Sono scappato dai liquami di mia madre il 7
ottobre 1932 a Ficolido, stazione balneare di Marina di Agrigento, provincia di
Agrigento.”
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 2: Zio Lillo
scopre il sesso)]
A sei anni, un pomeriggio, mentre sta facendo i compiti, il piccolo Lillo è
disturbato dalle urla di sua madre. Corre in camera dei genitori e vede un uomo e
una donna fare sesso anale. Per strano che possa sembrare, i due amanti si
avvolgono nelle coperte e continuano imperterriti a scopare, per evitare che il
bambino si accorga che l’uomo che sta sopra non è suo padre.
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Lillo dice: “Mamma, tutto bene?”
“Certo, va a studiare.”
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 3: Zio Lillo e
le ragazze)]
A sedici anni, zio Lillo porta un’amica al cinematografo e durante l’intervallo,
cerca di convincerla ad avere un rapporto sessuale in mezzo alla sala. La trova una
cosa normalissima da fare, specie in quei momenti di noia tra un tempo e l’altro.
Ma la ragazza comincia a dimenarsi e a gridare e il giovane Lillo finisce per essere
fermato da due spettatori che si rivelano carabinieri in libera uscita e, dopo avergli
rotto il naso a furia di cazzotti, lo portano in caserma.
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 4: Zio Lillo
divorzia)]
Zio Lillo è sempre stato un erotomane, però cattolicissimo. Si è sposato una sola
volta, ma ha divorziato dopo un mese perché la moglie non accettava di vestirsi da
suora e farsi legare i polsi con la catena del rosario.
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 5: Zio Lillo
diventa ricco)]
Dopo anni di autentica fame, con la sua paga di lavoratore edile regalata alle
puttane, Zio Lillo risolve i suoi problemi finanziari grazie a una schedina del
Totocalcio che gli frutta 4 miliardi di lire e rotti. Un anno dopo, si licenzia per
potersi dedicare alle sue passioni: visitare le grandi città d’arte e cercare di
conoscere Cicciolina.
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 6: Zio Lillo si
organizza)]
Zio Lillo aveva un’agendina con i numeri di telefono delle prostitute di Marina
di Agrigento. Erano tre: Alessandra Fiannalisca, 34 anni, altezza 173, seno 90, vita
65, fianchi 90, fica 4, canale vaginale 7, specialità: tormentare il corpo del partner
con i tacchi a spillo e costringerlo a baciarli e leccarli. Piera Sinacori, 29 anni,
altezza 165, seno 82, vita 60, fianchi 85, fica 3,5, canale vaginale 8, specialità:
essere bendata e lasciarsi punzecchiare con qualunque oggetto acuminato su
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braccia, gambe, seno, genitali, glutei. Carmela Pizzittelli, 29 anni, altezza 179,
seno 93, vita 68, fianchi 90, fica 5, canale vaginale 12, specialità: vestirsi da uomo,
obbligare il partner a indossare abiti femminili e sodomizzarlo con un pene finto.
[Molto, molto prima che allora (Annotazioni per uno zio speciale, 7: Zio Lillo
non si dà una regolata (ma una regola sì)]
Per zio Lillo una cosa era importante nella vita: andare a letto ogni sera con una
donna diversa e risvegliarsi da solo.
[Allora, a quindici anni e un po' (Annotazioni per uno zio speciale, 8: Zio Lillo
mostra un cuore d’oro)]
Io sono appena arrivato. Zio Lillo mi accoglie in vestaglia, sorseggiando un
bicchiere di Johnny Walker, mette un cd di Brigantony e dice: “Per festeggiare il
tuo arrivo, stasera faremo festa. Ho già parlato con le ragazze. Non vedono l’ora di
conoscerti.”
“Che tipo di ragazze?”
“Zoccole, hai presente?”
“Provo a immaginare. Ma siamo sicuri di non prenderci una malattia?”
“Parli come tua madre. A quasi sedici anni non si pensa alle malattie.”
“E se poi succede?”
“Parlerò allo Spirito Santo e lo convincerò a preservarti da ogni pericolo. Dico:
p-r-e-s-e-r-v-a-r-e, non a caso.”
“Ok, ma potrei sapere esattamente cosa accadrà?”
“A prima vista, mi sembri un ragazzo studioso. Mai sentito parlare di
Baccanali?”
“Bacca… che?”
“Ciccio, mi deludi. Le baccanali erano feste orgiastiche che si svolgevano
all’epoca romana.”
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Miou, ma ci si poteva fidare? Di un'amante immaginaria, ci si poteva fidare? Sono
andato in bagno e ho provato a controllare se tutto funzionava: dopo i casini che mi
erano successi, lo stress, gli sbattimenti, dopo un mese ero curioso di sapere se
riuscivo a masturbarmi, e per farlo, per provarci, ho richiamato alla mente la
masturbazione bilaterale di Stefania Casini al padrone De Niro e al contadino
Depardieu in Novecento di Bertolucci. Mi sono lasciato prendere la mano
dall’entu-siasmo e ho cominciato a stantuffare, ma uffa, uffa, niente, niente, dopo
dieci minuti di assoluto niente, stavo lì, col coso in mano, duro, certo, ma anche
asciutto, non riuscivo a eiaculare. Che mi stava succedendo?
Se ci penso, sono passati tanti anni da quel giorno, ma quel giorno, di quel
giorno, se ci penso, ogni cosa è nel presente.
Miou che dice: “E’ la tensione.”
Io che dico: “La tensione? Ce l’ho adesso, la tensione. Mica prima.”
Se ci penso, è come un film, grottesco: sto seduto sulla tazza, tutto curvo, faccia
in terra, mi concentro e con la mano ci do dentro. Niente, niente.
Miou dice: “Non pensarci che ti passa.”
Io dico: “E se invece fosse colpa…”
Un horror film: ci do dentro, ma sto male. A furia di su e giù, per le frizioni,
anche rabbiose, anche violente, la pelle del mio cazzo si è irritata, rossa rossa.
Miou dice: “Colpa di che cosa?”
Mi ferisco addirittura, ma non cedo, non mi schiodo dalla tazza.
Dico: “Forse di quelle pillole che il dottore ha voluto farmi prendere.”
Non mi schiodo. Neanche se crepo. Neanche se grido.
Miou dice: “Ma se sono finte!”
Ecco, grido: per la rabbia, il bruciore, la vergogna, la paura, non lo so.
Dico: “E se non lo fossero?”
Mi alzo, apro l’armadietto del bagno, prendo la scatola delle medicine, le mie
stronze medicine, tiro via il foglietto illustrativo, leggo: Effetti indesiderati.
Erezione prolungata senza eiaculazione. Incapacità di eiaculare durante
l’amplesso o durante altre attività sessuali.
Miou dice: “Quel dottore ti ha fottuto.”
Dico: “Gli ho creduto e mi ha fottuto!”
Mi ricordo, mi ricordo come adesso. A poche ore dal mio primo possibile
rapporto sessuale, mi era capitato questo cazzo di problema, questo cazzo di
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problema col mio cazzo, ma che cazzo, miei lettori, se ridete, vengo lì, vi rompo il
cazzo.
Miou dice: “E con zio Lillo, che si fa?”
Dico: “Se ha già chiamato le ragazze, ci faccio la figura del pivello.”
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“Certificano la prestazione. Se così non fosse, qualsiasi inetto potrebbe
inventarsi di averlo fatto mille volte di seguito, o anche diecimila.”
“Spiegami meglio: tu scopi e loro guardano?”
“Che male c’è?”
Quella sua storia assurda, vera o falsa, era il più preciso degli assist.
“Io non sono capace di fare queste cose. Non ci penso proprio. Mi vergogno. E
poi mi avevi detto di avere organizzato tutto per me. Doveva essere una festa. La
mia festa.”
“Festeggeremo il mio record, cosa cambia?”
“Domani sera vado al cinema. Tu fai quello che ti pare.”
“Ma Ciccio…”
“Vado al cinema.”
Ho provato, ma il cinema Malpelo di Marina era chiuso per restauri, così sono
rimasto a passeggiare, avanti e indietro, solo solo, sul lungomare. Ho fatto passare
4 ore e sono rientrato.
Tutto calmo. Zio dormiva.
Una bottiglia di spumante sul tavolino era l’unico possibile indizio di una festa.
Il resto era pulito, ordinato.
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[Allora come adesso, ma soprattutto allora (Ossessione, due ossessioni)]
Silvia non ce la faccio, non ce la faccio proprio a cancellarla, allora come
adesso, quella mattina poi, quella mattina mi sembrava d’averla nella testa,
prigioniera nella testa, di sentirla, mi sembrava, ronzare, mormorare, il debole
ronzio di una mosca in un barattolo di vetro, il sommesso mormorio di una persona
che è prossima a morire, mi sembrava di sentirla che girava e che picchiava sulle
tempie, avevo mal di testa, colpa sua, colpa di Silvia, di Miou, ma sì, che c’era
anche Miou, dal giorno prima c’era lei, anche Miou, di lei più che il ronzio sentivo
gli schiamazzi, la testa mi esplodeva, con lei, letteralmente, con Miou, Miou che
mi diceva ch’ero proprio un deficiente, un sottosviluppato, un imbecille, un
minorato, un ritardato, e tutte queste cose per il fatto, il solo fatto di non riuscire a
liberarmi di Silvia, né da viva né da morta.
Mi sono alzato, verso le 7, verso le 8, ho acceso la luce, ho guardato il mio
nuovo orologio, un Easytime economico analogico: le 7 e 44. Mi sentivo così
stanco, così a pezzi al pensiero di vestirmi, uscire, prendere l’autobus, andare a
scuola, a scuola non potevo, non mi ero ancora iscritto, alla Marina non c’era lo
scientifico, non c’era il classico, non c’era il magistrale, solo il professionale
marittimo, una scuola che per me era come andare a frequentare un corso di cinese
mandarino, non capivo niente di attività marittime, non ero mai salito su una barca,
mai su un pedalò, non sapevo cosa farmene di un titolo professionale di Padrone
Marittimo e Meccanico Navale. Se fuori c’era il sole avrei potuto camminare,
camminare senza meta, a me piaceva camminare senza meta, salire e scendere
dagli autobus senza una ragione, lasciarmi trasportare per le vie, ammirare le case,
se c’era da ammirarle. Se pioveva, avrei potuto rimettermi a letto, dormire fino a
tardi, sognare, magari.
Ho guardato alla finestra: pioveva, e visto che pioveva, non mi restava che una
cosa da fare, anzi due: eliminare Miou dalla mia testa e cercare di recuperare il
sonno perso. Due miracoli. Però era bello provarci, però non ce l’ho fatta, perché
sul punto di assopirmi ho sentito, come un tuono, come un botto di cannone, così
l’ho percepito, un drin.
Zio Lillo che gridava: “Ciccio, è la ragazza che fa le pulizie. Apri tu, per favore.
E dille di correre da me.”
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Mariangela Baldini, la prima volta che l’ho vista: giubbotto di pelle nera,
canottiera bianca aderente, jeans, scarpe da tennis rovinate, altezza 180, peso sui
60, occhi neri, capelli rossi tagliati corti, pelle dorata come quella di una Bond girl,
lentiggini, lingua che lecca il labbro superiore, quasi un tic, però eccitante, e
sguardo a palla, sbalordito, come a chiedersi chi sono.
E infatti: “Tu chi cazzo sei?”
“Francesco.”
“Dio, che occhiaie! Ti sei dato agli stravizi, ieri notte? Con quel porco di tuo zio
si finisce sempre a far casino.”
“No, soffro d’insonnia.”
“Sei un pallaro, proprio come lui.”
Lui che chiama, a tutta voce: “Ciccio! Mariangela! Aiutatemi, porco diavolo!”
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merda.”
Dico io: “Ma cos’ha preso?”
“Questo stronzo si è fatto un’iniezione di cocaina al cazzo.”
Strabilio: “Ma perché?”
“Serve a irrigidire i corpi cavernosi e a prolungare l’orgasmo. Il guaio è che
l’erezione può essere molto dolorosa e durare per ore, anche quando il desiderio
sessuale non c’è più. A proposito: da quanto tempo è in questo stato?”
“Credo che stanotte abbia dormito. Ero sveglio e non l’ho sentito chiedere
aiuto.”
Mariangela lo apostrofa in tono cattivo: “Da quanto tempo, coglione?”
Zio Lillo scoppia a piangere. Si piega su un fianco, fa una smorfia di dolore e
scoppia a piangere, stringendo un lembo di lenzuolo tra le dita. Mi fa pena. Dice:
“Otto ore. Io mi vergognavo, non volevo farmi vedere da Ciccio, ma poi non ce
l’ho fatta…”
Mariangela sbuffa: “Dobbiamo chiamare un’ambulanza. E pure in fretta.”
Penso io: Ma dove sono capitato?
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venticinque, massimo trent’anni, ha salutato Mariangela con un bacio, con un
bacio sulla guancia, poi le ha chiesto: “E’ come l’altra volta?”
“Sì.”
Questo giovane dottore si è chinato su zio Lillo, poverino, zio Lillo non parlava,
aveva la bocca contratta in una smorfia di dolore, ci provava, non parlava, non gli
usciva neanche un suono, anzi uno, ma dal culo: scorreggiava, il gas puzzava, latte
rancido sembrava.
Questo giovane dottore gli ha preso il coso in mano, lo ha scrutato, visitato con
disgusto, poi ha guardato Mariangela con gli occhi di chi la compatisce, poi ha
fatto una smorfia, non so, sbigottimento, poi ha detto: “Sembra peggio dell’altra
volta.”
Poi ci ha consigliato di portarlo all’ospedale, perché, ha detto: “E’ molto peggio
dell’altra volta.”
Poi ha spiegato che un’erezione così prolungata poteva avergli danneggiato le
strutture del pene, ha detto che un’erezione che durava da più di otto ore lui non
l’aveva mai vista né studiata, ha detto che un’erezione così lunga avrebbe finito
per procurargli una disfunzione erettile irreversibile, ha detto: irreversibile.
Ho detto io: “Tanto il record l’ha battuto.”
Ha detto lui: “Quale record?”
Neanche il tempo di spiegare. Sono entrati due infermieri in divisa arancione.
Uno di loro, un biondino con la faccia da porchetta, ha salutato Mariangela con un
bacio, e sono due, ho pensato, con un bacio sulla fronte, come fosse in confidenza,
poi le ha chiesto: “E’ come l’altra volta?”
“Sì.”
L’altro infermiere, un morettone tutto muscoli e occhi da duro, si è chinato su
zio Lillo, gli ha preso il coso in mano e ha fatto finta di batterci le nocche, poi ha
detto: “Beata chi se l’è goduto.”
Il dottore, il dottorino, si è incazzato. Ha detto: “Basta con le stronzate. Su,
sbrighiamoci.”
“Andiamo!”
“Muoviamoci!”
Muscolo e Porchetta, due bravi soldatini, hanno messo il pepe al culo, hanno
preso zio Lillo, l’hanno preso come un tronco, con nessuna gentilezza, l’hanno
messo in barella, legato stretto stretto, e sono schizzati per le scale, due gradini,
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due per volta, tre per volta, poveretto, povero zio Lillo.
Io ho guardato Mariangela e ho sorriso, senza un perché, forse era uno di quei
risolini isterici provocati dall’angoscia, non lo so. Pure Mariangela ha sorriso.
Ho detto: “Che si fa?”
Ha detto: “Ho la macchina di sotto. Li seguiamo.”
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dei Totò, che mi fanno vomitare.
(Poetico, per sedurre) Sono convinto che l’amore è un evento che riverbera
d’eternità e ci aiuta a dimenticare la fragilità della vita. Su Ciao2001 ho letto che
le grandi storie d’amore nascono da incontri casuali. Guarda caso, ti giuro,
casualmente, proprio adesso stavo pensando che non ho la fidanzata.
(Cinefilo, per impressionare) Mariangela, Mariangela, come Mariangela Melato,
nata a Milano il 18 settembre 1943. Ho visto un film alla tv, un film con
Mariangela Melato, si chiamava Notte d'estate con profilo greco, occhi a mandorla
e odore di basilico, un film di Lina Wertmuller, nata a Roma il 14 agosto 1928, un
film con Mariangela Melato miliardaria lombarda che rapiva un bandito sardo
specialista in sequestri e chiedeva 100 miliardi di riscatto, un film assurdo, un
brutto film, però Mariangela è un bellissimo nome.
(Diretto, per sintetizzare) Mi piaci.
(Bugiardo, per invogliare) Dici che mio zio è superdotato? I suoi venti
centimetri di pisello mi lasciano indifferente. Nella mia famiglia è una cosa
normale.
[Allora, a quindici anni e un po' (La sola cosa che Mariangela mi ha detto…)]
…è quella che mi ha detto quando siamo arrivati in piazza Italia, in piazza Italia
12, lei in macchina, io già fuori, mi ha detto di non farmi idee sbagliate, esagerate,
su zio Lillo, che il record di zio Lillo non sarebbe stato pubblicato nel Guinness
dei primati, nel Guinness Book of World Records, ma nel Guinness dei primati del
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sesso, nel Guinness Book of Sexual Records, che è tutta un’altra cosa, minore.
[Ora, di allora e dopo (Un capitoletto in cui rumino pensieri per lo più già
scritti)]
Certo che io a pensarci ho avuto delle ragazze che non lo so che cosa ho fatto
per meritarmele. Ho avuto Silvia, che Silvia aveva un corpo, l’ho già detto, aveva
un corpo che ogni curva era piazzata al punto giusto, poi è morta, ma la cosa che
mi va di ricordare è che non avevo dovuto faticare per corteggiarla, e questo è
strano, è strano veramente, perché io, a dire il vero, non è che sono proprio una
bellezza: ho gli occhi spiritati, gli occhiali spessi un dito, i capelli ritti in testa, il
naso un poco piatto, e messo insieme tutto questo, l’espressione di un gattaccio, di
un randagio. Perciò non me lo spiego cosa ho fatto per meritarmi Silvia, e
Mariangela, e Titti, e Spinetta, non c’era molto gusto in queste ragazze,
semplicemente si sono accontentate. Non sarà stato per quel fatto della mia
presunta malattia? Non sarà stato per quel fatto che in ogni giovane ragazza batte
un cuore da crocerossina?
Mariangela, non credo. Con lei ero stato chiuso, chiusissimo sui viaggi, sui miei
viaggi forzati alla clinica Serena, vaffanculo la clinica Serena, con lei mi
vergognavo, le dicevo che un giorno a settimana uscivo con i miei, non è che le
mentivo, non dicevo dove andavo, ma uscire con i miei era quello che facevo, poi a
Mariangela chissà, forse è piaciuto il fatto che ero vergine, vedere che mi eccitavo
per cose che annoiavano i suoi amanti, i suoi clienti, per cose che zio Lillo
nemmeno ci pensava, tipo coccole e carezze, a dire il vero con lei ero stato chiuso,
chiusissimo sulla mia verginità, con lei mi vergognavo, le dicevo che avevo avuto
un’amante, le parlavo di Miou, non è che le mentivo, Miou esisteva veramente,
invisibile e presente, presente nella testa, la mia testa, Miou mi confondeva con
sgridate molto brutte, umilianti. Sintetizzo: “Quella stronza di Mariangela ha la
pessima abitudine di darla per denaro, si vede lontano un miglio che, bene che ti
vada, potresti essere solo un diversivo, un passatempo. Non crederai di farla
innamorare? Ma dài! Se pure succedesse, appena zio Lillo tornerà sano, quella
zoccola s’inventerà una scusa per mollarti. Lo capisci, Ciccio? Tu vivi sulla luna,
sei un ingenuo.”
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Se il primo giorno a casa di zio Lillo era stato complicato, il secondo
prometteva di essere peggiore, la notte soprattutto.
Mi ricordo come mi sentivo al pensiero di dover trascorrere la notte in una casa
vuota, una notte intera, non mi era mai successo di passare la notte in una casa
vuota, spaventato mi sentivo. La casa di zio Lillo, con le ombre della sera, si stava
trasformando nella casa dei fantasmi, la casa stregata, la casa maledetta, la casa del
diavolo. Ho cominciato a perlustrare quella casa, la casa di zio Lillo, di zio Tibia,
di zio Fester, ho guardato nei ripostigli, ho cercato in tutti gli angoli, nel buio sotto
i letti, lo so, vi sembra stupido, ma non mi era mai successo di passare la notte in
una casa vuota.
Al buio, nel silenzio, ogni rumore è il passo di un ladro che entra in casa, ogni
ombra è un maniaco omicida, e questo è ancora niente: dopo vengono i miei nonni,
i miei parenti morti che mi chiamano con voci disumane, neanche fosse un film di
Dario Argento, dopo viene il sangue che gronda dalle pareti, mi raggiunge e
sommerge come un’onda, neanche fosse un romanzo di Stephen King, e comunque,
oltre ai sogni lucidi e paurosi, quello che c’è di fastidioso è Miou, Miou de
Pompidou che mi dà del cacasotto.
Alle 21, mi sono chiuso in camera, mi sono chiuso a chiave e, con la luce
accesa, ho aspettato che facesse giorno.
Un’altra notte insonne.
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incorporei, ombre fuori fuoco, nessuno ci fa caso. Ci sono un sacco di assassini che
camminano tra noi, e nemmeno lo sappiamo. Ciccio, tu non sei colpevole, ma ti
comporti come se lo fossi. Perché scappi?”
E’ il suo parere. Ma lei dovrebbe sapere bene che tornare a casa è impossibile,
impossibile per me, contrario al volere dei miei, pericoloso.
Da Miou non arriva mai niente di costruttivo. La sola cosa che sa fare è
pomparmi nella testa, ci sono dei momenti che mi pompa così forte, così forte nella
testa, che penso che mi scoppi, la mia testa, ma lei non la finisce, Miou non la
finisce, continua a martellare, mi fa venire voglia di picchiarla, mi fa venire voglia
è dire poco, due o tre schiaffi glieli do, che poi è come dire me li do, però non
basta, mi ritrovo con un grande mal di testa, anche Miou, col mal di testa, mi viene
in mente un film, non mi ricordo, forse Alien, c’era un poveretto con un mostro
sulla faccia, tipo un polpo. Ecco, se volete immaginare la mia amica invisibile,
pensate a un polpo, un polpo sulla faccia.
Ma che rogna. Io prima di tutto non avevo intenzione di farmi consigliare. Non
da lei. Non da Miou. Io, per conto mio, cosa ho pensato? Ho pensato di chiamare
Mariangela e pregarla di passare la notte insieme a me. E mentre le telefonavo, ho
pensato che non mi era mai successo di chiedere a una ragazza di passare la notte
insieme a me. Ho pensato che non mi era mai successo di pensare che una ragazza
potesse accettare di passare la notte insieme a me.
Mariangela ha risposto: “Francesco, ma che dici? A quasi sedici anni hai paura
dei fantasmi?”
Io ho pensato: naturale, non accetta.
Poi ha aggiunto: “Tanto lo so che è un modo furbo di chiedermi di venire a letto
con te.”
Io ho pensato: naturale, non accetta e si offende.
Mariangela ha concluso: “Perché se mi fai venire a casa di Lillo e poi mi dici
che è tutto uno scherzo, allora m’incazzo.”
Io ho pensato: incredibile, accetta.
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forse due, ma dopo, se tutto andrà bene, potrà condurre una vita soddisfacente,
persino avere dei rapporti.
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Il giorno dopo, alle 12 e 30, ho preso carta e penna e ho scritto: Zio Lillo è
geloso.
Questo problema, benché apparentemente difficile, l’ho risolto in un paio di
minuti.
Alle 12 e 32, ho scritto: Chi se ne fotte.
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Non mi sembra il momento di mettersi a pensare, avrei risposto.
Se mi avessero chiesto, quando ho avuto Mariangela di fronte, eccetera
eccetera…
Non ho tempo, avrei risposto, andate a cacare, avrei risposto.
Avrei risposto con fatica, perché sentivo le vertigini, formicolio alle mani, fitte
al cuore, ma non solo, anche la certezza di essere sul punto di avere un infarto, che
poi mi era successo tante volte di essere sul punto, poi l’infarto non veniva.
Mariangela era bella. Bellissima. Indossava un completino di seta bianca con un
motivo di roselline rosa. Roselline, mi ricordo. Niente reggiseno, mi ricordo.
Mi ricordo di Mariangela che dice: “Beh, non parli?”
Mi ricordo le vertigini, il formicolio, le fitte, mi ricordo lo spavento, la
vergogna di sudare, di puzzare, mi ricordo che le ho detto: “Sei bellissima.”
“Grazie.”
“Bellissima”
“Grazie.”
“Bellissima.”
“Ma che hai? Ti sei incantato?”
“Bellissima.”
“Francesco, stai male?”
Mi ricordo un velo grigio che annebbiava la mia vista, poi un brivido di freddo,
tanti brividi, brividi di freddo, mi ricordo che tremavo, che cadevo. Mi ricordo che
non è successo niente, nel giorno del mio esordio, niente di cui potessi andare
fiero, scopare con Mariangela, niente, io me lo sentivo, andava storto, tutto è
andato storto, ma ho dormito, senza spettri, ho dormito per tredici ore,
completamente vestito, sul pavimento.
Mi sono risvegliato il giorno dopo, alle 10, con Mariangela in pigiama che
beveva un caffellatte e mi guardava un poco ironica, era come se dicesse… no, l’ha
detto, l’ha detto ad alta voce: “Sei proprio un bambino. Ma visto che la mia
presenza è servita a farti dormire tranquillo, resterò anche stanotte. Anzi, finché
tuo zio non sarà dimesso, credo proprio che mi trasferirò qui.”
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notizie dei telegiornali, anche per via del fatto che eravamo piuttosto timorosi
all’idea di fare altro, di scopare, questa cosa di scopare si era trasformata in un
blocco psichico, solo a pensarci mi veniva il batticuore, dopo mi chiedevo: ci sono
io, un ragazzo vergine, c’è Mariangela, una ragazza facile, c’è il miracolo che lei
me la darebbe, pure gratis, e allora: sono un coglione?
Un lettore esigente potrebbe obiettare che in questa definizione c’è qualcosa di
semplicistico e magari chiedere un’analisi più approfondita del mio livello di
autostima, ma io no: la parola coglione spiega esattamente ciò che ero, ciò che mi
sentivo mentre guardavo la tv e commentavo le notizie dei telegiornali, per
esempio che il traghetto Moby Prince si era scontrato con una petroliera,
incendiandosi e causando la morte di 140 persone, nel porto di Livorno, solo un
uomo era riuscito a salvarsi, io avevo fatto una battuta sul culo di quell’uomo, un
uomo al primo imbarco, un mozzo. Sai che mazzo, avevo detto io, Mariangela mi
aveva fulminato con lo sguardo, poi non so, come se un pensiero la ferisse, s’era
rabbuiata.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“Scusami. Su certe cose non riesco a scherzare. Una volta mi è capitato di
scampare a un disastro aereo.”
“Quando?”
“Cinque anni fa. Andavo in Grecia con mia sorella, che si stava laureando in
architettura e doveva terminare una tesi sull’Acropoli di Atene. Una bomba è
esplosa in volo, e alcuni passeggeri sono stati risucchiati nel vuoto.”
“Quattro.”
“Non ho capito…”
“Il numero dei passeggeri risucchiati nel vuoto: quattro. E l’aereo sul quale
viaggiavi era un Boeing 727. Vi siete salvati grazie a un atterraggio d’emergenza.
Un vero miracolo, in quelle condizioni.”
“Ma come fai a sapere queste cose?”
“So tutto dei disastri.”
“Ma perché?”
“Ne sono attratto, non so spiegarmene il motivo. Posso recitarti a memoria i più
gravi disastri nella storia dell'aviazione mondiale. Con la sigla degli aerei
coinvolti, il numero dei morti e dei feriti…”
“Mi fai paura.”
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“Conosco i nomi delle 81 persone che hanno perso la vita nella strage di Ustica.
E non mi fermo qui. So tutto dell’incidente ferroviario di Balvano e delle sue 501
vittime. E del disastro di Ufa, sulla ferrovia transiberiana, che causò 517 morti,
quasi tutti bambini in ritorno da una colonia sul mar Nero.”
Forse stavo esagerando. Forse la mia strana erudizione era spregevole. Forse è
per questo che Mariangela aveva cominciato a sbuffare, insofferente.
“Sai, Francesco, mi ricordi un tipo che ho conosciuto in discoteca. Uno studente
di medicina che si eccitava con le immagini di incidenti d’auto. Pensa che tutte le
donne con le quali era andato a letto avevano una menomazione fisica. Quando
l’ho saputo, me la sono data a gambe.”
“Io non sono così matto.”
“Lo spero per te. Ma non voglio più sentire questi discorsi. Mi hanno fatto
venire freddo.”
“Vieni qua, ti abbraccio.”
“Stammi lontano!”
“Ma io volevo solo esserti d’aiuto.”
“Non ora.”
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avevano letto in pochi, mi ero fatto una cultura su Alberoni e l’amore, Alberoni e
l’erotismo, Alberoni e l’amicizia, mi ero chiesto quanti alberi dovessero sradicare
per fare scrivere Alberoni, quante foreste rase al suolo per fare scrivere Alberoni,
per poi leggere che se ero veramente innamorato di Silvia dovevo essere anche
terrorizzato dall’idea che lei non mi amasse più, dovevo anche essere disperato
perché sapevo di non potere vivere senza di lei. E se non c’erano terrore e
disperazione, quello che provavo non era amore. Caro Alberoni, ho scritto, sì, gli
ho scritto, Francesco Alberoni Garzanti 20100 Milano, mi sembra strano che lei
misuri l’amore col terrore, che se devo vivere nel terrore è meglio non
innamorarmi, e se devo vivere nella disperazione di perdere Silvia, sarebbe stato
meglio non averla mai incontrata, perché poi c’è pure il rischio che confondo, mi
confondo, m’innamoro del terrore, mi dispero di non essere abbastanza disperato,
questa è vita? Non è vita, gli ho risposto. Ma lui no, non mi ha risposto. A
Francesco Alberoni non importava un fico secco di lasciarmi nell’ignavia. A me è
sembrato di avere letto i suoi libri per niente, di avere fatto bruciare interi pezzi di
foresta amazzonica per niente, mi sentivo proprio in colpa, ho cercato un
cassonetto e ci ho buttato tutti i libri di Alberoni, ho continuato a interrogarmi e
non sapere niente.
Con Mariangela, però, qualche certezza ce l’avevo: quella specie di non so,
diciamo affetto, diciamo attaccamento, quella specie di amore non amore che
avevo vissuto con Silvia, con Mariangela, ero certo, non l’avrem-mo mai vissuto.
Mariangela era immersa nella carne, nel desiderio che a volte straripava, e se non
era per i miei problemi d’ansia e di bassa autostima, se non era per i miei problemi
d’eiaculazione, per quelle cazzo di pillole di quel cazzo di dottore di quel cazzo di
clinica, se non era, se non era e se non era, con Mariangela avrei dato un nido al
mio aquilotto.
E poi ero sicuro che a mio padre e mia madre, posso dire, Mariangela non
sarebbe dispiaciuta, perché era sveglia, Mariangela, quegli occhi a palla dicevano
ch’era sveglia, quel rosso dei capelli le dava un’aria elettrica, vitale, e poi era
grande, Mariangela, sei anni più di me, adatta a insegnarmi le regole complesse
dell’incontro con gli altri, mentre Silvia era apparsa ragazzina, a mio padre
soprattutto, all’inizio era piaciuta, anche a mia madre, ma poi avevano cominciato
a vederla come una lupa solitaria, molto chiusa, mi ricordo, troppo simile a me,
troppo destinata a frequentare lo studio di qualche terapeuta.
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Io ero sicuro, sono sicuro, che se i miei genitori avessero conosciuto quelli di
Silvia, tempo un mese ci saremmo ritrovati tutti e sei a passeggiare lungo i viali
ombreggiati dai pini che circondano il giardino della clinica Serena.
Io ero sicuro, sono sicuro, sicurissimo che mio padre, prendendo sottobraccio il
padre di Silvia, avrebbe detto: “Caro lei, io penso che un ragazzo di sedici anni
deve avere molti amici. In caso contrario, ho tutte le ragioni di credere che il suo
cervello non funzioni.”
Io ero sicuro, sono sicuro, sicurissimissimo che mia madre, ficcandosi le mani
nella scollatura per estrarne un fazzoletto, avrebbe detto: “Mi viene da piangere se
penso che un ragazzo e una ragazza di sedici anni hanno un rapporto d’amicizia
che esclude il mondo intero. I nostri cuccioli devono essere aiutati, che lo vogliano
o no.”
E il padre di Silvia avrebbe forse detto: “Signora mia, lei ha ragione. Io passo la
maggior parte del mio tempo in mare, e lo so bene: la solitudine è l’antipasto della
morte.”
O giù di lì.
E la madre di Silvia avrebbe detto: “La morte è quando non hai qualcuno che ti
cerca.”
O giù di lì.
[Allora, a quindici anni e un po', e prima (Piccola anatomia del non so che)]
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facevo l’amore con una ragazza, devo dire che ogni tanto avevo pensato di
prendermelo con forza, quell’amore, con Silvia soprattutto, con la forza, come se
io potessi essere capace di prendere qualcosa con la forza, non ero capace, io, ero
uno che a scuola gli rubavano le merendine, le Girelle gli rubavano, altro che
forza.
2) Dal momento che ho scritto alcune pagine sul chiodo che avevo nella testa,
su Miou, Miou de Pompidou, devo dire che ogni tanto ho pensato di parlarne con
qualcuno, la becchina per esempio, la psicologa becchina per esempio, mi aiutasse
a sradicarlo, questo chiodo, ci ho pensato, ci ho pensato e ho rinunciato, che lo so
che avrebbe detto, la becchina, avrebbe detto che guarirmi lei poteva, ma solo a
condizione che io, la mia determinazione, la mia volontà, la mia disponibilità a
frugarmi dentro e parlare con me stesso…
Tutte palle, come se io potessi essere capace di comandare la mia testa. Ma no,
le avrei risposto, sono quello che ha bisogno di pillole, di lunghe spremiture di
cervello. Come faccio a parlare con me stesso, se per voi sono un matto, come
faccio a ragionare con un matto, un mezzo matto?
3) Dal momento che sapete, sospettate che un giorno con Mariangela si è fatto,
si è scopato, non voglio più lasciarvi con l’acquolina in bocca, no, per nulla, voglio
invece raccontarvi com’è andata, questo voglio, che poi è stato un modo assai
bizzarro, se ci penso, e a raccontarvelo ci vuole un bel capitolo, più lungo e
dedicato, mica questo.
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scuola, andavo con poca voglia, studiavo per la sufficienza, odiavo tutti i
professori, matematica a parte, odiavo i compagni che mi avevano appiccicato
addosso la fama, una fama mica bella, di uno che se avesse avuto l’occasione di
scopare non avrebbe saputo da dove cominciare, e lo diceva, qualche stronzo di
compagno, qualche stronzo, quasi tutti, lo dicevano con una tale sicumera che se
non fosse stato che avevano ragione, li avrei anche pestati, se non fosse stato che il
solo pensiero di pestare qualcuno mi metteva addosso una paura folle, che poi,
razionalmente parlando, c’era pure l’ipotesi che andassi per rompere qualche dente
e finissi sdentato, e questo sì che mi atterriva.
Per me è sempre stato difficile chiedere a una ragazza di scopare. Una volta, con
Silvia, ci ho provato, gliel’ho detto, con fatica, con vergogna, mi sono sentito
rispondere che l’amore fisico non avrebbe aggiunto nulla al nostro amore, e
insomma, pensando a quella frase mi è sparito il coraggio di chiedere a Mariangela
una seconda possibilità, una terza, una quarta, quante ce ne sarebbero volute a non
tremare, a non cadere, a non svenire, a non addormentarmi di nuovo a un passo dal
gran passo, e insomma, pensando alla figura di merda che avevo fatto, mi è venuta
l’idea, l’ideona, come Archimede Pitagorico quando gli si accende la lampadina in
testa. Ecco l’idea: di notte, mentre Mariangela dormiva, avrei riempito la casa di
foglietti, disseminati ovunque, attaccati ovunque, foglietti con su scritte delle frasi
spiritose, evocative, sottintese, foglietti che spiegavano a Mariangela quello che
non riuscivo a dirle in faccia. Sei foglietti sono riuscito a scrivere:
Foglietto numero 1: (Sul fornello più piccolo della cucina a gas): Stamattina ho
voglia di una colazione da campioni. Ho guardato in frigo, ma di latte ce n’è poco.
Posso inzuppare il biscotto nella tua tazza?
Foglietto numero 2: (Sul pulsante dello scarico del cesso): Non offenderti,
Mariangela, ma ho un fortissimo bisogno di scaricarmi.
Foglietto numero 3: (In un vaso da fiori con una primula rossa): Sei bella come
questo fiore, un fiore che diventerà sempre più bello se mi permetti d’innaffiarlo.
Foglietto numero 4: (Tra le sbarre di una gabbietta vuota per uccelli): Ogni
volta che mi fermo a guardarla mi prende la tristezza. Sono certo che questa
prigione ha visto vivere e morire un passero solitario.
Foglietto numero 5: (Sull’albero maestro del modellino di un veliero in
costruzione): Il fai-da-te non fa per me. Che ne diresti di montare insieme?
Mi sarebbe dispiaciuto che non fosse andata come speravo, anche perché il mio
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piano sembrava perfetto: le frasi che avevo scritto erano provocatorie ma non
volgari, Mariangela possedeva l’ironia necessaria ad apprezzare la mia trovata e
zio Lillo giaceva in ospedale, incapace di nuocermi.
Aspettando che si facesse giorno, mi sono immaginato la mia prima amante in
tutte le posizioni che allora conoscevo, giusto due a dire il vero, me la sono
immaginata tutta nuda, con la pancia sulla mia pancia, con la schiena sulla mia
pancia, e tutti gli ingranaggi al loro posto. Ho desiderato queste cose tanto
intensamente che mi è venuto naturale farmi una sega, e nonostante la gioia di
essere riuscito facilmente a eiaculare, quando mi sono accorto che Mariangela si
sarebbe svegliata di lì a minuti, trovandomi spompato, mi sono dato del coglione.
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che ogni attimo è un attimo immenso che divide la vita in due dimensioni parallele,
e poi in quattro, in otto, in sedici, in un numero infinito di dimensioni, basta un
niente, voglio dire:
1.0) Mariangela si sveglia dopo che ho staccato i fogliettini, va a pisciare, non
m’incontra, e io e lei si continua a non scopare per chissà quanto tempo.
2.0) Mariangela si sveglia, corre in bagno, me la ritrovo davanti senza avere
quei pochi secondi in più che mi servirebbero a capire se è giusto o non è giusto
disfarmi dei foglietti.
1.1) Mariangela dice: “Ti preparo un latte caldo?”
2.1) Mariangela dice: “Cos’è quel bigliettino?”
1.2) Io dico: “Sì, grazie. Non sei più arrabbiata con me?”
2.2) Io dico: “Non offenderti, Mariangela…”
1.3) Lei dice: “No, perché dovrei?”
2.3) Lei dice: “Fammi leggere. Ma che razza di cazzata! Se è uno scherzo,
non fa ridere per niente”.
1.4) Io dico: “Per quella mia insistenza nel parlare di incidenti aerei. E per lo
svenimento della sera precedente, quando stavamo quasi per…”
2.4) Io dico: “Sì. Cioè… no. Non è uno scherzo. E’ solo un modo per dirti
che ti amo e vorrei…”
1.5) Lei dice: “Sai, Francesco, credo che alla tua età sia abbastanza normale
avere paura del sesso. Ma io sono decisa a insegnarti che non ce n’è motivo.”
2.5) Lei dice: “Vuoi scopare con me? Io sono prontissima, lo sai.”
Allora avrei pensato: Sliding Doors è proprio un film del cazzo, avrei pensato.
[Allora, a quindici anni e un po' (La prima volta non si scorda mai, neanche
volendo)]
Mariangela mi dice di spogliarmi e accomodarmi sul divano. Io obbedisco.
“Anche i calzini?”
Via i calzini. Resto lì con la vergogna, eccitato, imbarazzato, mentre lei si sfila
la t-shirt, i pantaloni del pigiama, le culotte in pizzo nero, e voltandomi le spalle,
poggia il culo sulle cosce, le mie cosce.
Mariangela mi prende il cazzo tra le mani, lo sfrega fino a farlo diventare un
cetriolone e poi s’infilza, poi si alza… no, si siede, poi si alza… no, si siede.
Piacevole, davvero, ma ho il terrore che il coso scivoli dal buco e all’ennesima
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botta di culo (non parlo di fortuna) finisca per piegarsi, rompersi, far sangue,
sangue a fiotti, che vorrebbe dire: rottura dell'uretra peniena, panico
incontrollabile, ricovero in chirurgia d’urgenza e, per capriccio del destino, posto
letto a lato di zio Lillo.
Mariangela su e giù non mi aiuta a rilassarmi, è un funambolo di chiappe e
cicaleccio, sì, pure di chiacchiera: io mi dibatto tra foschissimi pensieri e lei se ne
fotte, mi fotte raccontandomi che questa posizione l’ha sperimentata in treno con
un tale Mariano, controllore del regionale Palermo-Agrigento, e che al momento di
godere, alla stazione di Aragona, un gruppo di studenti erano entrati in cabina e
resosi conto di quanto stava succedendo, avevano cominciato a sfottere e
sghignazzare, offrendosi di sostituire quell’amante che, poco avvezzo
all’esibizionismo, alla vista dei pivelli era fuggito, non avendo neppure l’animo di
far sparire loro, chiedendogli il biglietto.
Mariangela bla e bla non aiuta la mia concentrazione, poco importa, non le
importa. Dopo cinque o sei minuti, non è che in quei momenti avessi voglia di
contare, dopo cinque o sei minuti, o forse sette, o forse otto, ecco le sue urla, urla
travolgenti, esagerate.
Lo scoppio del piacere?
Mariangela si alza, si lamenta: “Non è stata una meraviglia.”
“No?”
“Ti ho sentito così distante che mi hai dato delle brutte sensazioni. Ora non ho
voglia di farti godere con le mani. Sarei un’ipocrita, perciò va pure in bagno, fatti
una sega, ma sappi che io non sono per niente contenta. Ho goduto, ma non sono
contenta.”
Sto quasi per risponderle che l’amore che cerco, con quella sua ginnastica non
c’entra proprio niente.
E invece dico: “Mi dispiace.”
E corro in bagno, con Miou.
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una ragione per vivere, per vivere felice.
Morire no, la morte mi sembrava facile, a morire sono bravi tutti, prima o poi.
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all’ennesimo urlaccio, ho buttato giù la cornetta e sono uscito, sono sceso giù per
strada e ho cominciato a correre, correre, correre, mi sono accorto che il mio cuore
non si stancava così in fretta, non come prevedevo, e ho capito che Bennato era un
grande cantautore, e secondo me, ce l’aveva pure lui un sacco di gente che voleva
rendergli difficile il cammino, solo che lui era più svelto, era intelligente, più di
me.
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Non fatemi domande. Io sto bene. Sto benissimo. A casa non ci torno. Dal dottore
non ci vado. La clinica la schifo. Vaffanculo. Ora, se volete, potete anche salire.”
Boom.
Quel sabato mattina, ricordo anche la data: 13 aprile, ore 9, i miei genitori sono
stati abbattuti. L’unica cosa che ricorderanno, a distanza di vent’anni, è la vista di
Mariangela che usciva dal bagno senza slip, con i peli ispidi e rossi spruzzati di
goccioline brillanti nella luce. Mariangela che sorrideva, portandosi una mano
sulla bocca, sorrideva con aria maliziosa e andava via, ondeggiando le chiappette.
E questo è il resto:
Ho contato 3 minuti e 36 secondi prima che mio padre riuscisse a pronunciare
una parola.
Sul finire di quei lunghissimi secondi, mia madre ha mormorato:
“Pasqualino…”
Poi è sbottata: “Pasqualino, non gli dici niente?”
E infine: “Niente?”
“A chi?”
“Ma che risposta è? A tuo figlio! Non lo vedi in che bordello è capitato? Lillo
non si sa che fine ha fatto e una puttanella gira nuda per casa.”
“E che possiamo fare io e te da soli, se Ciccio ha deciso di non tornare a
Ribera?”
“Obbligarlo. Avremo pure dei diritti, o no?”
“Se lui è contento…”
“Contentissimo,” ho precisato io, per metà dicendo una bugia e per metà
convinto che tra due infelicità sceglievo la minore.
“Siete tutti uguali, voi uomini,” ha detto lei.
Uomini, ha detto. E non lo so, sto esagerando, forse, non lo so, ma in quei
momenti mi sono sentito grande, mi è sembrato di essere finalmente riuscito a
guadagnarmi un certo rispetto, a dire cose che pensavo e che volevo fare. Mi sono
ricordato che una volta la becchina mi aveva spiegato che le mie insicurezze
nascevano dall’incapacità di parlare uomo a uomo, di parlare con mio padre, vallo
a capire perché ci sono riuscito così tardi, a quasi sedici anni, che non è nemmeno
tardi, a sedici anni.
E questo è il resto del resto:
A mia madre sono venuti dei lucciconi, due occhi bagnati e rossi, sicuro che era
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colpa di Mariangela e del momento imbarazzante che aveva creato, sicuro che era
colpa di mio padre e del bozzo madornale che gli era cresciuto sotto la zip, ma che
potevo farci? Io, l’unica cosa che speravo è che ora se ne andassero, senza fare
teatro, anche se chiedere a Mariangela di preparare dei caffè non era poi difficile,
era un modo per provare a ritornare sereni, due chiacchiere e un caffè, comunque
non l’ho fatto, per il rischio che avrei corso, non l’ho fatto, che lo so qual era il
rischio, che venissero fuori dei discorsi, dei discorsi fastidiosi sull’assenza di zio
Lillo, sulla clinica, sul mio ritorno a casa, sull’opportunità di avere una storia con
una tipa che non si preoccupava di nascondere la fica ai genitori del suo ragazzo,
che sono cose, tutte queste, che sono le ultime cose di cui avrei voluto parlare.
Se ne sono andati, e prima che mio padre se ne andasse, mia madre non l’ho
neppure guardata, prima che mio padre se ne andasse, gli ho regalato un nastro di
Adriano Celentano, non so perché l’ho fatto, ho preso quel nastro, un nastro di zio
Lillo, e gliel’ho dato. Poi mi sono ricordato che era la prima volta che facevo un
regalo a mio padre, e mi sono vergognato.
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“Ecco, non lo voglio.”
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buono nella mia vita.”
“Francesco, sei ridicolo! Sai qual è il tuo problema: non fai un cazzo tutto il
giorno. Ti sei iscritto a scuola?”
“Non ancora.”
“Ammazza, sei veloce.”
Ecco, io e Mariangela ogni tanto facevamo dei discorsi.
Non parlavamo più di aerei.
Scopavamo e facevamo dei discorsi, poco belli.
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quando un giovane medico si è accorto di un ingrossamento improvviso del suo
testicolo sinistro. Gli hanno fatto un’ecografia e quello che hanno trovato non è per
niente bello.”
Sono sconvolto, a momenti cado sulle ginocchia, sulle ginocchia diventate
molli.
“Morirà?”
“E’ presto per dirlo. Domani lo operano. Non hai idea di quanta merda chimica
dovrà mettere nel corpo. Adesso cambia tutto…”
“Cioè?
“Dovremo cercargli qualcuno che lo assista. Lillo era un uomo molto solo,
anche se si sforzava di dimostrare il contrario.”
“Eppure si dava un sacco di arie, diceva di spassarsela.”
“Cazzate. Amici non ne aveva, e a parte me, non se lo cacava nessuno.
Sentimentalmente, la sua vita era un disastro. C’erano due o tre ragazze che ogni
tanto venivano a trovarlo, ma solo perché le pagava. Le hai viste in questi giorni?
Qualcuna di loro ha bussato alla porta per chiedere che fine avesse fatto il tuo
zietto?”
“Ma allora, anche la storia del record…”
“Vuoi sapere se è vero? Senti com’è andata: tuo zio era pieno di soldi.
Stipendiava delle pornostar, un regista e una troupe cinematografica che lo
riprendeva mentre scopava.”
“Ma perché?”
“Si era messo in testa di girare un documentario che lo facesse diventare famoso
come quell’altro Sperminator, un americano, un certo Fred… non ricordo il
cognome…”
“Zinnerman.”
“Ecco, lo ha raccontato anche a te. Fred Zinnerman era diventato il suo incubo.
Anzi, no: la celebrità era il suo incubo.”
“Mi sembra tutto così assurdo…”
“E’ la verità. Lillo non accetta di essere una persona anonima. E’ la cosa che più
lo fa soffrire. Da quando lo conosco si è sempre lamentato di non avere talento per
nessuna arte. Voleva finire sui giornali, ma non sapeva come fare, finché il record
di quell’americano gli è apparso alla sua portata. Per sei mesi è stato un diavolo,
inforcava alla grande, ma poi ha avuto problemi alla prostata, e tra una scopata e
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l’altra dovevano passare giorni, a volte settimane. Era spompato: neanche un
esercito di supermaggiorate sarebbe riuscito a rianimarlo, ma il regista era stufo di
aspettare, un operatore se n’era già andato e nella troupe si diffondeva il
malcontento. Bisognava fare in fretta, ecco perché ha deciso di ricorrere
nuovamente a quelle fottute punture. Mi ha confessato di averne fatte più di dieci,
nell’ultimo mese.”
“E adesso si trova nei guai. Però non puoi dire che è rimasto solo. Ci siamo
noi.”
“Francesco, hai idea di cosa significa assistere un malato di cancro?”
“Qualcuno dovrà farlo.”
“Io no.”
“Che stai dicendo?”
“Sono una vigliacca, è vero, ma per me il cancro è come quelle tue storie degli
incidenti aerei. Preferisco non pensarci. Ho già visto morire mio nonno: i dolori, le
urla, i cerotti di morfina… non voglio rivivere quei terribili momenti.”
“Ma io ho solo sedici anni, non saprei che fare!”
“Potresti chiedere ai tuoi genitori di trasferirsi qui.”
“Non so… potrei provare. Forse mia madre sarà pure disposta a farlo, ma… che
ne sarà di noi?”
“Credimi, nel giro di poche settimane mi avrai dimenticato.”
“Oh cazzo, te ne vai?”
“Puoi starne certo. Fare l’infermiera non è roba per me.”
“Complimenti, ti stai guadagnando un posto in paradiso.”
“No, Francesco, senti… non essere cattivo. Una situazione come questa
potrebbe durare anni.”
“E così te ne freghi. Dopo avergli spillato un sacco di soldi, lo ringrazi
lasciandolo affogare in un mare di merda.”
“Tu non capisci. Lillo mi farebbe ricca, se solo accettassi di rimanergli vicina.
Sono io che non ce la faccio.”
“Ma vaffanculo!”
Punch!
Sì, l’ho colpita. Non mi era mai successo. L’ho colpita, dritta al naso, e forse
gliel’ho rotto. Mariangela ha urlato, è caduta, ha battuto pesantemente la testa sul
pavimento, e a questo punto, a questo punto, giuro, ero talmente incazzato che mi è
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venuta voglia di stuprarla, mezza morta, lì, sul pavimento, ma è stato un pensiero
fugace.
[Allora, a quindici anni e un po' (Mi ha sempre fatto paura trovarmi in situazioni
che richiedono decisioni veloci)]
Sono un tipo molto lento, io, sono uno che calcola, ragiona, ci pensa e ci
ripensa, che si prende tutto il tempo, tutto il tempo necessario. Ma se tempo non ce
n’è? Mi fa paura, mi ha sempre fatto paura trovarmi in situazioni che richiedono
decisioni molto veloci. In questi casi, se mi obbligo a fare qualche cosa, è quasi
sempre la cosa sbagliata.
Tipo quando, con Mariangela Baldini stesa a terra, stesa a terra da un cazzotto,
proprio brutta da guardare, con la bocca tremolante, con le palpebre socchiuse, con
il sangue sulla nuca, mi sono chiesto: e ora, che faccio?
?
?
?
L’unica cosa che non avrei dovuto fare: ascoltare Miou.
“Scusa se m’impiccio, ma non vedi che è morta?”
“Ma no, è svenuta.”
“E’ morta, ti ho detto. Se fossi in te, mi libererei in fretta del suo corpo.”
“Liberarmi… Cosa?… Come?… Perché?”
Chiedere consiglio a Miou significava sentirmi rispondere con cose criminali
che mi sembravano difficili da pensare, figuriamoci da mettere in pratica.
“Non voglio forzarti, ma ricordati che sei indagato per l’omicidio di Silvia. Se ti
trovi coinvolto in un'altra storia simile, finirai in galera.”
“In galera?”
Il cuore mi esplodeva, respiravo con fatica e avevo il terrore di essere costretto
a prendere una decisione.
[Ora e poi allora, a quindici anni e un po' (Chi sono? Un pennivendolo dilettante
e presuntuoso che fa come gli pare e se ne frega…)]
1. Delle convenzioni narrative.
2. Dell’occultamento di dettagli necessari alla comprensione del racconto.
3. Del pozzo senza fondo in cui precipita la trama.
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4. Di scrivere per il proprio divertimento e non per quello del lettore.
5. Della veridicità.
6. Della spontaneità.
7. Dei responsabili editoriali e dell’accusa di essere inutilmente audace e
originale.
8. Dei sopraccitati e delle loro sicure lettere di rifiuto: “Per questi motivi,
seppur con rammarico, non ci è possibile accogliere il suo romanzo nei
nostri piani editoriali… e bla, e bla, e bla…”
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Andavo a Roma perché il primo treno che partiva andava a Roma. Ora penso: se
quel treno fosse andato a Caprera, sarei andato a Caprera. Se quel treno fosse
andato a Siracusa, a Napoli, a Bologna, sarei andato a Siracusa, a Napoli, a
Bologna. Se quel giorno ci fosse stato lo sciopero dei treni, non sarei andato da
nessuna parte. La mia storia sarebbe stata un’altra storia: non avrei conosciuto Titti
Jena, non mi sarei innamorato di Titti Jena, Titti Jena non si sarebbe innamorata di
me, non sarebbe, forse, non si sarebbe schiantata contro un albero in via
Nomentana a Roma, non sarebbe stata uccisa, non sarebbe, forse.
Se avessi previsto il futuro, mi sarei buttato giù dal treno, dal treno che da
Marina di Agrigento portava a Roma, giù dal treno, in una campagna qualsiasi.
[Allora, a quindici anni e un po' (Un capitoletto che va sul sicuro giocando sulla
solita Roma dei luoghi comuni)]
A Roma Termini arrivo alle 9 e 30. Il cielo è azzurro. Alla stazione c’è un
traffico di gente che da allora, ogni volta che penso a un formicaio, che poi, a dire
il vero, mi succede poche volte di pensare a un formicaio, quelle volte penso alla
Stazione Termini. Un giorno, su una rivista, ho letto che le formiche sono divise in
caste: regine, maschi, operaie, e ogni gruppo è specializzato per svolgere una
particolare funzione. Così ho pensato che anche gli uomini e le donne sono divisi
in caste: fuggitivi, inseguitori, indifferenti, come dire: ladri, guardie, e quelli che
se ne fottono, e ogni gruppo è destinato a scappare, sempre, a inseguire, sempre, a
fottersene, sempre. La mia sorte è quella di chi scappa, l’ho capito a Roma
Termini, ho capito, ho ragionato, sono bravo a ragionare, ho ragionato: Roma ha
due milioni, tre milioni, quasi quasi tre milioni di abitanti, se uno scappa, dentro
Roma, una vita se la fa, un’altra vita, parallela, se la fa. E’ sempre meglio
confondersi a Roma che a Ribera, o a Marina di Agrigento. A Ribera sono in
ventimila, forse ventimila, a Marina di Agrigento sono meno di ventimila, forse
meno di ventimila. Confondersi, che bello. La cosa che mi è subito piaciuta è
quella gente, le formiche, quella gente si vedeva chiaramente che per loro ero un
fantasma, non come a Ribera, o a Marina di Agrigento, che appena mi muovevo
c’era sempre un curiosone a domandarmi dove minchia me ne andavo, e se invece
stavo fermo c’era sempre un curiosone a domandarmi perché minchia stavo fermo.
A Roma sono sceso dal treno contento, mi sono guardato attorno, ho guardato la
gente, le formiche, si vedeva chiaramente che per loro ero un fantasma.
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Non per tutti.
“Hotel?”
“O… che?”
Un tipo che sembra uscito da un film di Pasolini. Anzi, sembra proprio
Accattone, con il volto segnato dal tempo come un muro scrostato, la pelle scura e
il naso grosso, la somiglianza è incredibile.
“Hotel, sleep, you speak english?”
“No.”
“Dormir. Schlaf. Fà la nanna.”
“Quanto costa?”
“Poco.”
“Quanto?”
“Annamo, su.”
Lo seguo. Forse per stanchezza, forse perché Roma mi sembra già
maledettamente grande, forse perché ho paura di perdermi tra strade, bar, negozi e
pensioncine, forse perché il tizio non ha l’aria di volermi mollare.
Dice: “Hai avuto culo a incontramme. Tu sei er tipico pischello che scenne dar
treno e se va a ficcà ner primo cesso che trova.”
Il romanesco è una lingua fastidiosa. E’ una lingua, il romanesco, che qualunque
cosa dici, chi la dice sembra che… te sta a pijà per culo.
“Dove andiamo?”
“Statte carmo, nun t'aggità!”
“Sì, ma dove…”
“E aspetta!”
Andiamo a piedi. Lui avanti, io dietro, per quindici minuti. Leggo: via Cavour,
via Urbana, via Leonina, via Madonna dei Monti…
“Manca molto?”
“No.”
Speriamo. Quell’uomo ha il ritmo di un soldato. Con lui non si cammina.
Croooc e craac. Si marcia. Croooc e craac su certi…
“Cosa sono?”
“Sanpietrini. Servono a rompe le palle a li ciclisti. Te do un consiglio da amico:
se vivi a Roma e c’hai la bici, nun annacce.”
“Non ce l’ho la bici.”
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“Sei a fette? Te faccio comprà na moto a poco. Conosco uno sfasciacarrozze…
te poi fidà. Cià tutta robba ru… russa.”
“Grazie, non mi serve, non adesso.”
Croooc.
“Fa’ come te pare, oh! Ma se te serve, sai do trovamme. Si nun me vedi, chiedi
di Tarquinio, l’urtimo re di Termini.”
“Chiedo a chi?”
“A chi te pare. Alla Stazione basta che dici Tarquinio e me conoscono tutti.”
Craac.
Tarquinio Piede lesto taglia a destra in un cortile, e all’improvviso, ho
l’impressione di finire dentro a un film. In quel cortile sta piovendo: un
acquazzone. Proprio strano…
“A Roma il tempo è assurdo. Un attimo fa c’era il sole…”
“Sei un pischello.”
“Che?”
“Un bimbo. Guarda mejio.”
Che figura. Figuraccia. Da merdaccia. L’acquazzone è un acquazzone artificiale,
come al cinema, fasullo: un diluvio di panni, decine di panni stesi ad asciugare.
Gocce rosse, gocce gialle, gocce azzurre.
“E’ bello.”
“Te piace? So’ contento.”
“Però questo posto non mi sembra un albergo.”
“Lasciate pregà: starai ‘na pacchia.”
Mi indica una porta sgangherata e semiaperta, una porta con la scritta… mi gira
un po’ la testa… con la scritta: AFFI… manca una lettera… TACA… manca una
lettera… ERE KREISLER.
“Ce stai, Grete?”
La voce che risponde, sgradevole e ferrigna, è femminile: “Tarquinio, sei tu?”
“Dimme, cocca mia, come te va?”
Silenzio.
Poi appare: un naso lungo come un becco di beccaccia. Una bionda tedesca sui
quaranta, tutta spigoli e magrezza. Sigaretta tra le dita, mezzo tocco di rossetto,
lenti spesse.
“Butta male. Domani giorno di tasse e camere libere. Io non so che santo aiutare
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me.”
“Ma che stai a di’? Finché ce sta Giulietto tuo, li santi li poi lassà in cielo! Fatti
abbracciare!”
L’abbraccia? Oddio, la spezza!
“Chi hai portato?”
“Sto bel pischello cerca un letto.”
“Non ha età maggiore.”
“E’ vero, ma guardalo nell’occhi: sembra un angeletto. Nun te po’ fregà.”
Tuttaspigoli mi squadra: “Che dici, giovanotto, Giulio ragione? Come è tuo
nome?”
“Francesco.”
“Fai vedere documento…”
“Veramente, io…”
“Capito. Giulio porta rogne, io prendo in culo. Hai soldi?”
“Signora, sono appena arrivato. Non ho un lavoro. Per un mese posso pagare…
duecentomila lire. Forse.”
“Spiritoso tu. Per duecentomila lire dormi in sottoscala.”
“Mi sta bene.”
[Allora, a quindici anni e un po' (La mia prima settimana a Roma e il coraggio
del beige)]
Una settimana che ho fatto sempre le stesse cose: il primo giorno, un giovedì,
sono andato a passeggiare in centro; il secondo, un venerdì, sono andato al
cineclub Il Labirinto a vedere Alice nelle città, un film di Wim Wenders; il terzo,
sabato, sono andato a passeggiare in centro; il quarto, domenica, sono andato al
cineclub Il Labirinto a rivedere Alice nelle città; il quinto, lunedì, sono andato al
cineclub Grauco (Gruppo di Autoeducazione Comunitaria, mi hanno detto) a
vedere un film di cui non ricordo il titolo di un regista di cui non ricordo il nome
ma ricordo un unico piano sequenza di due ore e quindici; il sesto, martedì, sono
andato alla libreria Rizzoli di Piazza Colonna e ho rubato una guida alla storia e ai
luoghi del cinema nella capitale; il settimo, mercoledì, sono andato a passeggiare
in centro, a via del Corso, e a via del Corso mi sono innamorato di un negozio che
si chiamava Energie e vendeva camicie, camicette e maglioni rossi, fucsia, rosa
salmone, giallo limone, che a Ribera, ho pensato, a Ribera se li sognano i colori di
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Energie. A Ribera se chiedi una camicia, una camicetta o un maglione colorato ti
portano una camicia bianco panna, una camicetta bianco panna a righine grigie
sottilissime e un maglione tendente al giallo, quasi grigio, insomma: beige, che a
Ribera il beige è il più acceso dei colori, e se hai il coraggio di comprarlo, quel
maglione, le commesse ti guardano come se fossi un tipo stravagante, però anche
da ammirare. Uno che ha coraggio, il coraggio del beige.
La mia prima settimana a Roma mi è sembrato di avere fatto le stesse cose che
facevo a Ribera, che facevo con Silvia, ma senza di lei. E ho pensato che mi
sarebbe piaciuto, mentre facevo quelle cose, farle con Silvia. E mi è venuto da
piangere, ma poco.
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occasioni perdute, un dolore dentro al petto, un’asfissia, con il sangue che mi sale
nella testa e prova a farmela scoppiare, non è facile pensare e ripensare alle
occasioni che ho avuto, alle occasioni che ho perduto, sono ancora convinto che la
colpa è di mio padre e di mia madre, non mi avessero trattato come un ritardato,
oggi sarei ricco, i soldi li avrei fatti col blackjack, a Sanremo, a Venezia e pure a
Roma, a Roma no, a Roma boh, a Roma, mi ricordo, usciva un giornale che si
chiamava Qui c’è tutto, un giornale che mischiava annunci di lavoro con annunci
di donne in cerca di uomini disposti a scucire dei denari per attraversare il tunnel
della Grande San Bernarda, e negli apparentemente serissimi annunci di lavoro, si
cercavano persone tipo: agente immobiliare bella presenza, giovane contabile con
inglese fluente, elettricista diplomato, fisioterapista con attestato, fotocompositore
minimo due anni di esperienza. Tutte cose che non sapevo fare abbinate a requisiti
che non avevo, e in mezzo a chi cercava lavoratori qualificati, c’erano richieste più
abbordabili, annunci per ambosessi spigliata personalità dialettica telefonisti
cartomanti aspiranti sibille per un serio consulto di cartomanzia telefonico alte
provvigioni. Mi stavano anche bene le alte provvigioni, peccato poi leggevo: solo
maggiorenni.
Cazzo!
Ero intruppato, proprio lì, nella miseria, con una tenutaria di pensione che
reclamava soldi, soldi, soldi, e con lo stomaco all’asciutto che reclamava cibo,
cibo, cibo.
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Kreisler, mentre guardavo il soffitto, l’ho guardato a lungo e alla fine mi è parso di
vederci tutto ciò che era e che poteva essere, come quando si guarda uno specchio
e si ha l’impressione di vederci dentro le ombre dei morti, io ci ho visto tanto di
quel bianco che ho pensato: ecco, quella è la mia vita futura, tutta bianca, senza
tinta, che piuttosto che vivere una vita senza tinta è meglio spaccarsi la testa su
quel bianco, è meglio.
Poi mi è sembrato di essere andato troppo avanti con le riflessioni e mi sono
concentrato su me stesso, ho cacato. Poi sono tornato a guardare il soffitto ed era
sempre bianco.
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“No.”
“E allora?”
“Allora cosa?”
“Non t’incazzi?”
“No.”
“Vorrei vederti nei miei panni, caro il mio pisellino. In questo mondo se non hai
il cazzo…”
“Lo so.”
Io, per questa frase mi sono quasi preso un esaurimento nervoso, perché Titti la
ripeteva sempre, quand’era il caso e quando no, come un tic, insopportabile.
“Titti, diluvia.”
“In questo mondo…”
“Sì, sì.”
“Titti, ha smesso.”
“In questo mondo…”
“Sì, sì.”
Che mal di testa.
Pausa.
Il proprietario dell’Azzurro Scipioni si chiamava Silvano Agosti. A volte stava
alla cassa, a volte faceva il proiezionista, a volte sorvegliava la sala, a volte non
c’era proprio, perché si dice che girasse dei film, dei film che a Ribera nessuno ha
mai saputo niente di quei film, dei film che solo il pubblico dell’Azzurro Scipioni
ha saputo qualche cosa di quei film, ma belli, belli nei titoli: Il giardino delle
delizie, per esempio, un bellissimo titolo; Matti da slegare, per esempio, un
bellissimo titolo. Che poi, a essere sincero, se fossero belli quei film non lo so, non
li ho mai visti.
Tre sere di seguito sono andato all’Azzurro Scipioni, alle otto, sono rimasto un
paio d’ore a parlare con Titti per poi vedere lo spettacolo delle dieci. Parlare con
Titti, parlavamo di cinema, lei mi parlava dei suoi registi preferiti, di Godard,
Truffaut, Chabrol, Rohmer, Rivette, Bresson.
“Tutti uomini, hai notato?”
“Sì.”
“Quante registe conosci?”
“Io?”
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“La Cavani, la Wertmuller… e poi?”
“Boh.”
“Per una donna è molto più difficile farsi accettare da un produttore.”
“Ah…”
“In questo mondo se non hai il cazzo lo prendi nel culo.”
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La solita Liliana Cavani, che ha girato la più bella storia di sadomasochismo
mentale in Oltre la porta, con Eleonora Giorgi che non riesce a liberarsi dal
sequestro psicologico di Marcello Mastroianni, insomma, io la Giorgi l’avevo
tanto amata in Appassionata di Gianluigi Calderone, e ogni volta che ci penso,
scusate...
...
...
...
...
...
...
...devo farmi una sega.
Kira Muratova.
Kimberly Peirce.
Miranda July.
Doris Dorrie.
Claire Denis.
Queste ultime cinque non le conoscevo, le ho scovate su Google.
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Oh.
L’ho detto.
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successa, anche perché, perché a Marina di Agrigento, di ragazze che abitavano da
sole non ne conoscevo, a Marina di Agrigento le ragazze passavano dalla casa dei
genitori alla casa del marito.
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Crescendo, mi sarei accorto dell’inattendibilità di quella mia ingenua statistica.
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[Allora, a sedici anni (Extralarge)]
Titti doveva superare quell’esame per conservare la borsa di studio, 420 mila
lire al mese che coprivano le spese d’iscrizione e di soggiorno, era per quello che
cercava di conoscere, imparare, frantumare quel mattone di Heidegger, l’eredità di
Heidegger nel neonazismo, a essere sincera, mi aveva confessato… com’è che
aveva detto?
“Non me ne fotte un cazzo di Heidegger, un cazzo del neonazismo, un cazzo
della mia laurea in filosofia, ma se perdo la borsa di studio, dovrò tornarmene al
paese, al mio schifo di paese.”
“Di dove sei?”
“Del posto dove Cristo perse le scarpe.”
“Divertente.”
“Non direi. Perché mi guardi con l’aria di uno che sta per vomitare?”
In effetti, la guardavo in maniera leggermente, no, decisamente, no,
abbastanza… sì, abbastanza schifata. Dopo due ragazze magre magre, Silvia
Bonsignore, 46 chili, Mariangela Baldini, 49, ora Titti, proprio no, non riuscivo ad
accettarla, Titti Jena 68, non riuscivo, forse avevo dei problemi, o forse no, forse
Titti era davvero sovrappeso, aveva un corpo gelatina, io quel corpo, quel suo
corpo, quella carne tremolante, proprio no, non lo accettavo, voglio dire: la
rotondità troppo rotonda del sedere, la consistenza troppo consistente dei seni, la
carnosità troppo carnosa della vagina, insomma, voglio dire: forse Titti aveva dei
problemi, dei problemi psicologici che la facevano ingrassare, o forse era normale,
era normale che amasse il proprio corpo, che non si facesse passare per la testa
l’idea di mettersi qualcosa, di coprirsi, forse io, forse io avevo dei problemi, forse
no, forse sì: la osservavo camminare e la scrutavo, sulla pancia, sulle cosce, la
fissavo e mi chiedevo: come fa a non vergognarsi?
E non parliamo di Miou. Miou la detestava. La buzzi, la chiamava, buzzicona, la
chiamava. O buzzicozza.
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scivolare e infrangere la porta scorrevole a vetri e ho anche pensato che una cosa
così lontana dal senso comune facevo meglio a non dirla; poi ho pensato che se
cominciavo a nascondere le cose succedeva che prendevo il vizio e diventavo un
tipo misterioso; poi ho pensato che se avevo avuto due ragazze e tutt’e due erano
morte facevo meglio a non dirglielo, a Titti; poi ho pensato che farsi la doccia è
uno di quei momenti che pure se vuoi tenere la testa sgombra dai pensieri prima o
poi ti arrivano, i pensieri.
[Allora, a sedici anni (Sette giorni dopo, sul Messo d’Italia, un giornale
spiegazzato e buttato in un cassonetto della metropolitana di Roma, linea B,
fermata Colosseo, un breve articolo richiama la mia attenzione)]
Nuovi clamorosi sviluppi nell'inchiesta sulla morte di Mariangela Baldini, la
ragazza ventunenne precipitata nel maggio scorso con la sua vettura nel vallone
sottostante il viadotto Morandi. Nelle prime ore di stamani (ieri per chi legge), si è
sparsa la notizia che la polizia di Agrigento, e nello specifico la squadra
scientifica, avrebbe riscontrato alcuni elementi che configurerebbero l’ipotesi di
omicidio. La ragazza potrebbe essere stata uccisa in un altro luogo e
successivamente caricata in macchina e fatta cadere dal ponte, per simulare un
incidente o un suicidio. La svolta delle indagini non c’è ancora, ma una nuova e
strana coincidenza è al vaglio degli investigatori: tra gli amici della vittima spunta
l’enigmatica figura di Francesco Pesce, il sedicenne di Ribera che circa un anno fa
era stato a lungo indicato dai giornali e dall’opinione pubblica come uno dei
possibili indagati per l’omicidio di una sua coetanea, Silvia Bonsignore. Lo zio
presso cui il ragazzo era andato a vivere ha rilasciato un’intervista a una tv locale,
accennando al sospetto che tra il nipote minorenne e la Baldini ci fosse qualcosa di
più che una semplice amicizia. Il magistrato che indaga, il procuratore Giancarlo
Ravotto, da noi interpellato, è apparso fin troppo prudente: “Il ragazzo è
irreperibile da giorni, e questa sua insensibilità al dovere morale di contribuire alla
ricerca della verità non giova alla sua reputazione. Mi sembra però corretto
affermare che, allo stato dei fatti, non ci sono prove inoppugnabili di un suo
coinvolgimento.”
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costretto a tenersela per forza, ne ha bisogno, non riesce a trovare di meglio, e
insomma, per esempio, Titti non era tanto bella, però a me piaceva, mi piaceva
perché la solitudine mi piaceva meno, e allora Titti diventava affascinante, con la
fantasia diventava sexy.
SUPERTITTI
Della donna il 100%
Succosa, appetitosa, saporita, grazie al mix di un corpo materno, una pelle dolce e
profumata e un seno generoso impreziosito dagli ampi cerchi rosati dei capezzoli.
SUPERTITTI
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Modalità di conservazione e data di scadenza: Se conservata in luogo asciutto e
caldo, specie d’inverno, il prodotto è da considerarsi a lunga durata.
Prodotto energizzante. Ingredienti: Emozioni primarie 67,6% (rabbia, paura,
tristezza, gioia), Emozioni secondarie 32,4% (allegria, ansia, rassegnazione,
gelosia, speranza, offesa, perdono, nostalgia, rimorso, delusione, vergogna, colpa,
orgoglio, imbarazzo, rammarico).
Modalità d’uso: Si consiglia di assumere SUPERTITTI dopo cena.
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standard: petto, pancia, ombelico, pube. Infine, quello che doveva essere il via al
vero piacere lo liquidava in un tempo così breve da non potersi misurare, boh, più
o meno tre secondi, due, uno. Perché Titti era convinta che fare i bocchini fosse
una cosa sconveniente per una ragazza politicamente impegnata a contrastare il
potere del maschio dominante e bla e bla e bla. Guai a contraddirla: si rischiava
uno sproloquio, un’ora di sproloquio, sì, precisamente, un’ora di sproloquio su
lotte femministe e viltà di chi considera il proprio amante come un predatore
necessario, non era proprio il caso.
La mia parola d’ordine: zitto. Mai traballare, mai mettersi a pensare che non era
sesso vero, era il peggiore che avessi mai fatto. E che dunque: sesso peggiore
uguale vita peggiore. La mia parola d’ordine: zitto. Pensare che Titti mi ospita e mi
fa risparmiare i soldi della camera. Zitto. Pensare che a casa di Titti ho il tempo di
escogitare un piano prima che i miei genitori, prima che zio Lillo, prima che i
genitori delle ragazze uccise, prima che la polizia o i carabinieri mi vengano a
trovare. Zitto.
Finita la sua parte, Titti si girava da un lato e fingeva di dormire, e allora io,
secondo copione, io che ogni tanto mi chiedevo per quale motivo accettassi questo
sesso da catena di montaggio, io mi avvicinavo lentamente e cominciavo a
coccolarla, accarezzarla, baciarle la fica per un tempo che a me sembrava
immenso, boh, immenso, più o meno.
Fino a farla godere (e questo mi autorizzava a pretendere una sega).
Titti diceva che la penetrazione è sottomissione. Titti diceva che la penetrazione
è come sparare un proiettile contro la donna. Titti diceva che il rapporto
eterosessuale è sessista.
“Che vuoi dire?”
“Che in questo mondo se non hai il cazzo lo prendi nel culo.”
“Ah.”
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Ma io diventerò come quegli uomini incapaci di stare soli che appena trovano
una donna si scoprono incapaci di stare con una donna?
Ma io diventerò come quegli uomini incapaci di stare con una donna che appena
lasciano una donna si scoprono incapaci di stare soli?
Quando mi sono venute queste due domande, prima e dopo uno sbadiglio, ho
temuto che avrei passato la notte a ruminarci sopra, che mi avrebbero dato
l’insonnia e il mal di testa, e invece dopo qualche minuto non le consideravo
importanti.
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Ora non lo so se Titti mi avrebbe risposto con quel suo solito sorriso di
commiserazione, un sorriso che le appariva sulle labbra un attimo prima di
vomitarmi addosso le solite frasi femministe: “Vorresti recitare il ruolo del
maschio dominante, eh? Vedermi come una potenziale schiava d’amore da
inculare, da sfruttare in qualunque modo possibile, eh? Magari facendomi
prostituire, visto che non hai un soldo, eh? Ma io non sono quel tipo di donna e
quindi faresti meglio a evitare di pensare a strane idee, che io non sono un buco
per il tuo fottuto cazzo.”
Non lo so se avrebbe risposto così, o più o meno così, o mi avrebbe ignorato,
non lo so. Quello che so è che dietro questa mia incapacità di chiedere che mi
venisse dato ciò che desideravo si nascondevano dei problemi, primo fra tutti
quello di non essere accettato e amato, secondo, quello di diventare lo zerbino di
ogni donna che in futuro avrei incontrato, e se penso a Spinetta, a quello che è
successo con Spinetta, allora è proprio vero che quei problemi erano avvisaglie che
ho sbagliato a sottovalutare.
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ritenuta attraente.
“Avere addosso due occhi pieni di desiderio è una cosa che detesto.”
“Allora perché giri nuda per casa?”
“Nuda? Io? Sarà capitato una volta che ero uscita dalla doccia. Tu piuttosto, non
potevi essere più riservato? Sei come tutti gli uomini: guardi le donne come si
guardano le scrofe a una fiera agricola.”
Con lei ogni discorso era una guerra. Le sue convinzioni, scolpite nel granito. Il
mondo, diviso in tre categorie: i maschi con la bava alla bocca, le femmine
accondiscendenti e puttane, e se stessa.
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detto io... “Non è bello, ho detto io”.
“Meriterebbe una lezione,” ha detto Miou.
E io ho pensato: qua si mette male.
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prendere e linciarti.”
Vista così come la vedeva Miou, c’era da spararsi, e se non fosse che la cosa mi
spaventava, quasi quasi... no, non ce l’avevo quel coraggio.
Dopo però m’è venuto il pensiero che se mi fossi ammazzato anche lei sarebbe
morta, anche Miou, e quasi quasi...
“Cosa cazzo stai pensando?”
“Io... niente. Zitta, Miou, zitta.”
Vi ricordate quella canzone che diceva: È notte alta e sono sveglio e mi rivesto
e mi rispoglio mi fa smaniare questa voglia che prima o poi farò lo sbaglio di fare
il pazzo venir sotto casa tirare sassi alla finestra accesa prendere a calci la tua porta
chiusa?
Anch’io l’ho fatto. Sono andato sotto casa di Titti e ho tirato sassi alla finestra
accesa, ma prima di prendere a calci la sua porta chiusa, un poliziotto mi ha visto,
mi ha lanciato un’occhiataccia, mi ha detto una frase più da vigile, da poliziotto
della stradale, non certo una frase degna di memoria, una frase tipica di uno che
ruba lo stipendio, uno che se ne sta fuori dalla caserma a fumarsi la Marlboro ed
ecco che gli capita sotto gli occhi un giovanotto da arrestare 3.
Il poliziotto ha detto: “Favorisca un documento”.
Non ha voluto sapere perché lei era il mio chiodo fisso. Non ha voluto sapere se
insieme a lei ci stavo meglio e più la pensavo e più la volevo. Non ha voluto sapere
se non avevo fatto più l’amore senza lei e non me ne fregava niente senza lei. Non
ha voluto sapere se ogni volta che incontravo un angelo gli dicevo: non mi fai
volare in alto quanto lei. Non ha voluto sapere la ragione di tutto quel casino, tutto
il casino fatto per non perderla, per questo amore che era un frutto acerbo. Non ha
voluto sapere se quel trovarmi lì, a notte alta e sveglio, era dovuto a Titti o alla
nostalgia di un materasso comodo.
Ha voluto sapere se avevo un cazzo di documento.
3
Nota dell’autore. L’avevo detto che quel commissariato di polizia messo lì, proprio davanti alla
casa di Titti, mi avrebbe di sicuro portato molta rogna. L’avevo detto, però dimenticarmene è stata
una minchiata, incredibile minchiata. Imperdonabile. Inammissibile.
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E io non ce l’avevo.
Così è cominciata una lunga, interminabile attesa, perché il vice del vice
commissario che doveva interrogarmi stava finendo di vedere una partita di calcio
sulla quale aveva scommesso e poiché stava vincendo, per scaramanzia si rifiutava
di spegnere la tv. In quell’attesa, una mezz’ora, mi ricordo due pensieri avuti in
testa, due pensieri veramente profondi, secondo me:
1) Le canzoni d’amore sembra che interessino a tutti e invece non è vero.
2) Se la polizia uccide la libera espressione dei sentimenti di un cittadino è
segno che il sistema che si definisce democratico non è tanto democratico.
Due pensieri che dopo averli fatti mi sono stancato e non ho pensato più a nulla.
Salvo, forse, che mi trovavo in un mare di guai.
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storia, non possa evitare di farmi una serie di domande interessanti.
La prima: Come si spiega che il cornutissimo Ciccio Pesce, in quanto te stesso
medesimo, sia riuscito a trattenersi dall’inveire contro la zoccola, e abbia invece
preferito ritirarsi nel buio?
La seconda: Di che partita si trattava? Com’è finita?
Due domande come queste hanno due sole possibili risposte.
La prima: Perché mentre stavo per mettermi a inveire contro la zoccola, proprio
allora l’arbitro ha fischiato la fine e il poliziotto che mi aveva beccato è sceso in
strada a urlarmi: Cazzo, chi ti ha detto di uscire?
La seconda: Non lo so.
Il poliziotto si è messo a inseguirmi, ma io, seppure stanco e malnutrito, avevo
sedici anni e lui fumava troppe sigarette.
[Allora, a sedici anni (Si usa per designare chi è zozza moralmente)]
Certo che TROIA è una parola che soltanto chi ha conosciuto una TROIA come
Titti può arrivare a comprendere, e BUGIARDA è una parola che soltanto chi ha
conosciuto una TROIA BUGIARDA come Titti può arrivare a comprendere, avevo
pensato prima di cadere a terra svenuto.
[Allora, a sedici anni (Tema: Descrivi, con parole tue, la giornata tipo di un
barbone)]
La mia giornata tipo comincia alle sette e trenta, quando scrivo il primo cartello:
MIO PADRE È MORTO . MIA MADRE S ’ È FATTA METTERE INCINTA DA UN DOMATORE
DI LEONI ZINGARO E SE N’ È ANDATA A VIVERE CON LUI . I MIEI NONNI NON CI SONO
SUCCO D’ ARANCIA .
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Odorose di Nostro Signore Gesù Cristo Buon Pastore e del Santissimo Sangue di
San Girolamo. Cambio cartello: HO DICIANNOVE ANNI MA NE DIMOSTRO MENO
PERCHÉ QUAND ’ ERO PICCOLO I MIEI GENITORI MI HANNO NUTRITO CON LATTE IN
100
Flap.
“Miou! Che cazzo faccio?”
“Scappa.”
Lo so che il senso civico e quelle palle lì, lo so, lo so. L’avrei anche soccorso, il
poveretto, ma ho avuto paura che appena sveglio si mettesse a urlare scatenandomi
addosso l’odio delle masse. E l’ultima cosa di cui avevo bisogno era trovarmi in
mezzo a un capannello di gente. Perciò meglio scappare.
“Ecco, vedi,” ho detto a Miou, “tutti noi, anche il più buono, il più introverso
ragazzo di paese, ognuno di noi potrebbe diventare all’improvviso una belva
ferocissima, da un momento all’altro, basta che lo metti a vivere per strada.”
“Non è vero,” ha detto Miou, “secondo me ci sono dei barboni che sono pezzi di
pane.”
“Sempre a contraddirmi,” ho detto io.
“Sempre,” ha detto lei. “E comunque questa tua improvvisa cattiveria mi piace,
può venirci utile, mi sa.”
Corri e corri, mi sono fermato a Piazza del Popolo, dove ho scritto il mio terzo e
ultimo cartello della giornata, e visti i deprimenti risultati avuti con i precedenti,
ho deciso di puntare al cuore del problema. Ho scritto: HO FAME , CAZZO.
Due minuti dopo, ho cancellato il CAZZO . Un ripensamento che non è servito a
un cazzo. Offerte zero, anche se un ragazzo filippino mi ha comprato un panino
con provola dolce e prosciutto crudo.
[Allora, a sedici anni (Tema: Descrivi, con parole tue, le difficoltà che un
barbone deve fronteggiare durante la giornata)]
La giornata tipo di un barbone scorre via con più regolarità di quanto ci si possa
immaginare. Ci sono tappe più o meno obbligate, alcune in salita, molte in discesa.
Pranzare è in discesa. Ogni giorno alle undici e trenta, davanti alla stazione di
Porta Maggiore, viene il furgone dei volontari di Sant'Egidio e porta cibo caldo.
Altrimenti, se ho rimediato qualche soldo e voglio sentirmi un signore, ho scoperto
una trattoria gestita da un cinese dove danno un pasto completo per tremila lire.
Bagno pubblico è in discesa. Piscio dove capita, agli angoli di strada, e caco in
qualche anfratto, oppure se mi trovo in stazione, per duecento lire mi danno il
rotolo di carta igienica e l'asciugamano.
Riposino pomeridiano è in discesa, in un giardino pubblico, a scelta. Villa Ada,
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per esempio, è molto grande e ci sono degli enormi cespuglioni sotto cui dormire
senza essere disturbato.
Masturbarsi è in salita. Sono un tipo che va in ansia facilmente e il timore di
essere scoperto a smanettarmi il cazzo mi impedisce di avere un’erezione delle
mie, di quelle dure, che non reggono il confronto con zio Lillo cocainato ma
almeno sono vere, biologiche, ruspanti.
Dormire è in discesa. Me la cavo nella sala d’aspetto della stazione Tiburtina.
Siamo in cinque: un tossico, una vecchia, due ragazzi che viaggiano senza soldi e
il sottoscritto. I poliziotti della Postale si tengono a distanza e ci lasciano fare, a
patto che nessuno si ubriachi o pianti rogne. Ho i cartoni sotto e una coperta che ho
rubato a Titti, una coperta marrone, di lana spessa e con al centro un disegno della
fiamma stilizzata dei Vigili del Fuoco, forse Titti l’ha rubata, pure lei. Nel dubbio,
per non dare nell’occhio, ci metto sopra dei giornali.
Le prime ore di sonno sono le peggiori, perché mi sveglio, mi addormento, mi
risveglio, mi vengono i pensieri e a volte delle idee che mi sembrano fantastiche,
del tipo: se potessi esibirmi mettendo in mostra il mio talento artistico, farei tanti
di quei soldi da permettermi un albergo.
Pochi secondi dopo averla avuta, quest’idea, ho pensato che non sapevo cantare,
né ballare né recitare. Abortita.
Ogni mattina, appena sveglio, la prima cosa che faccio per tirarmi su il morale è
ricordare a me stesso che non sono solo.
“Buongiorno, Miou”.
“Buongiorno, testa di cazzo”.
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sicuramente per nulla pescaresi, le aveva offerto il pretesto per scatenare
un’ignobile offensiva nei miei confronti.
“Sei un ingenuo o un coglione? Continui a fidarti delle donne e guarda come ti
sei ridotto: dormi sotto un ponte, non ti lavi da una settimana, puzzi come una
carogna di topo, e mentre passi le giornate a cercare cibo nei bidoni dei rifiuti,
quella stronza se la gode con due uomini.”
“E’ vero, merito una lezione. La vita mi sorprende di continuo e sempre in
peggio. Voglio morire.”
“Sei la causa del tuo male. Ma per il semplice fatto che la tua fine avrebbe su te
stesso un effetto peggiore che la sua, sarà lei a morire.”
“Oh, no!”
Ok, ok. E’ chiaro che tante volte può scapparci di dire che ammazzeremo questo
o quello, ma poi via, sono cazzate, forzature, mica ci si macchia le mani di sangue,
si rischia la galera, via, via, per cose di passioni, sentimenti provvisori. Si
dimenticano.
“E se non hai capito, te lo ripeto: Titti Jena avrà la giusta punizione.”
Incredibile, pazzesco. Miou diceva sul serio, e insomma, nonostante il trasloco
obbligato e il cielo sotto cui mi aveva messo a dormire, io pensavo di poterla
perdonare, Titti Jena. Con tutti i guai che avevo nella testa, il mio più grande
desiderio era dimenticarmi di lei, e invece niente, Miou non me lo permetteva.
“Devi ucciderla.”
“Sei pazza. La polizia mi sta già cercando per due omicidi che sono certo di non
avere commesso.”
“Lascia stare e pensa a liberare il mondo dalla stronza. Ho delle buone idee, se
vuoi.”
“E quali sarebbero?”
“Per esempio, potresti andare a rubare delle cellule cancerogene vive alla
falcoltà di medicina, e poi trovare il modo di iniettargliele in corpo senza che lei se
ne accorga. Così morirà di cancro e a nessuno verrà in mente un omicidio.”
“Senza che lei se ne accorga? Tu sei completamente pazza.”
Era la prima volta che Miou mi parlava in modo così esplicito. Ammetto che
aveva odiato Silvia e anche Mariangela, ma si era trattato di banale gelosia
femminile, o almeno così m’era sembrato. Ora invece esagerava, stava dicendo
cose sbagliate, cose a cui non credeva neanche lei: possibile che volesse fare di me
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un assassino? Quando mi trovavo nei guai con Miou era necessario escogitare
qualche trucchetto mentale.
Pensa bene, Ciccio.
Pensa bene.
Pensa.
!
Piano A: zittirla prima che i suoi chiodi mi si conficchino così a fondo nella
testa che non sarà più possibile estirparli. Piano B: non c’è. Zittirla e basta.
Spiazzarla. Rivoltarle la frittata. Così: “Mi ammazzo io, invece. Sai che faccio?
M’infilo nella vasca da bagno e ci butto dentro una stufetta elettrica.”
“Quale vasca da bagno, coglione? Vuoi buttarti nel Tevere? E poi, come devo
spiegartelo che sarà lei a morire? Ascolta, io pianterei un chiodo arrugginito sullo
stipite della porta di casa sua, proprio all’altezza delle ginocchia, per ferirla. E
magari su quel chiodo ci spruzzerei qualche goccia di veleno. Ora non chiedermi
quale veleno possa uccidere a contatto con la pelle, prova a documentarti.”
“Non ho nessuna voglia di documentarmi. Piuttosto mi hai dato un’idea: mi
butto al fiume, stanotte. Se l’acqua è abbastanza gelida, morirò. Altrimenti morirò
lo stesso, visto che non so nuotare.”
“E se nessuno ti cerca? E se invece ti trovano ma pensano che sei scivolato?
Passi per cretino.”
Replicava, ma ormai era chiaro che la costringevo all’angolo, attaccavo,
sfornavo idee di suicidio come gocce di una pioggia fittissima, una dietro l’altra,
una dietro l’altra...
“Potrei infilarmi la pistola in bocca e sparare con la canna rivolta verso l’alto, in
direzione del cervello. Oppure, per non sbagliare, puntarmi una pistola a una
tempia e l’altra al cuore. E fare fuoco nello stesso tempo.”
“Sei minorenne, non hai il porto d’armi e non fai parte di una banda criminale.
Rassegnati: nessuno ti darebbe una pistola.”
Alcune riuscivo pure a dirle, altre no: prima che uscissero di bocca venivano
scavalcate da idee nuove, ed era giusto, ingegnoso, l’unico modo per comandare il
gioco.
“Allora mi chiudo in macchina, prendo un tubo di gomma da fissare allo
scappamento e lo faccio passare attraverso il finestrino. Sigillo le aperture e
accendo il motore.”
104
“Non hai la macchina.”
“Ingestione di farmaci?”
“Danno una morte lenta. C’è sempre il pericolo che qualcuno se ne accorga e
chiami l’ambulanza. E se rimani a vegetare su un letto con una lesione fisica o
cerebrale, non contare su di me.”
Abbiamo continuato per un tempo che mi è sembrato immenso, e mentre ci
facevamo la guerra, ognuno stretto alla sua parte, come spesso ci accadeva, mi
sono messo a pensare che tutta questa energia sprecata a combattere sarebbe stato
meglio impiegarla per fare belle cose, belle cose insieme, dei progetti, e non invece
urlarci all’infinito che quello che volevo io era buono e quello che voleva lei era
cattivo, e viceversa. Mi sono messo anche a pensare che eravamo diventati i boia
di noi stessi, e prima o poi ci saremmo tagliati la testa e non avremmo avuto il
tempo nemmeno di rammaricarci su ciò che poteva essere e non è stato e non potrà
più essere, e insomma, a furia di pensare queste cose inappellabili e tristissime,
sono sprofondato in un magone così profondo da ritrovarmi a non parlare più.
Allora lei, vincente, ha sentenziato: “Uccidiamola, è deciso.”
105
Ripensandoci, un minuto dopo, ho capito che si trattava di un’idea del cazzo.
Con i poliziotti che mi cercavano, ho capito che io e lo stronzo saremmo stati
fermati prima di arrivare a destinazione.
Poco dopo mi sono chiesto: chissà se portare stronzi dentro buste di plastica è
un reato.
“C’è un sacco di gente che va in giro con dei sacchetti pieni di stronzi,” ha detto
Miou.
“Sono stronzi di cane,” ho detto io.
“Allora se ti fermavano potevi fargli credere che era lo stronzo del tuo cane.”
“Ah, brava. E se mi chiedevano del cane? Dov’è il cane?”
“Al cane gli è venuto da pisciare ed è andato a cercare un bagno pubblico,” ha
detto lei.
[Allora, a sedici anni (Nella mia testa ha fatto il nido e si nutre di me come una
zecca)]
Litigare con Miou mi ha tolto la voglia di mangiare per tutta la giornata, e
questo è un bene, però mi ha fatto anche raggiungere dei picchi d’incazzatura che
non avevo mai toccato, precisamente quando ha detto che sono fortunato ad avere
una persona come lei, è una fortuna, una persona che mi consiglia, mi toglie i
mostri dalla testa.
“I mostri dalla testa,” le ho risposto, “a me sembra esattamente il contrario, che
i mostri sono i tuoi, ce li metti tu.”
“Che delusione, Ciccio. Avevi detto che mi volevi bene.”
“Un poco, avevo detto. Ma che c’entra?”
“Se davvero mi vuoi bene...”
“Non al punto di farti passare questa roba: un omicidio, no!”
“Per farmi contenta.”
“No.”
“Solo stavolta.”
“No.”
“Ma non capisci che lasciare in vita Titti è come dargliela vinta. Lei continuerà
a spassarsela e quelle poche volte che si ricorderà di te, le verrà da ridere.”
“Capisco il tuo punto di vista, ma piuttosto che macchiarmi di un delitto, una
cosa disumana, piuttosto che ammazzare, sono io che mi ammazzo, e basta.”
106
“Sei un fesso.”
“Vaffanculo!”
“Un cacasotto.”
“Vaffanculo!”
“Sei un cazzo pieno d’acqua.”
“Vaffanculo!”
Ero nervoso per il fatto che non potevo prenderla a sberle, così ho pensato: può
fare tutti i discorsi che vuole, io vado, me ne vado, corro, scappo.
E intanto che correvo mi è venuto da pensare se aveva un senso scappare da
qualcosa che era parte di me stesso. Era difficile, un numero da circo, una cosa mai
provata, un doppio salto mortale della mente che doveva proiettarmi fuori dalla
mia testa, e neanche da tutta, solo da quella parte che ospitava Miou, era
impossibile riuscirci, mi sono venuti in mente dei cani che non riescono a fuggire
dalla propria ombra, abbaiano, vorrebbero spaventarla, prenderla a morsi, ma non
serve a niente.
“Io non ti lascerò mai, Ciccio, perché sono sicura che non potresti vivere senza
di me.”
107
dell’orgasmo. Chiusa la seconda parentesi.
Quelli che hanno i macchinoni io li ho sempre presi per impotenti ai quali non
bisognerebbe fare caso, se poi non capitasse che una volta, anzi no: tutte le volte,
anzi no: quasi, se non mi capitasse che mentre attraverso la strada, sulle strisce,
voglio dire, sulle strisce, uno di questi robocop frena di botto, apre il finestrino e
ringhia: “Con calma, eh, mi raccomando”.
Ecco, chiuse le parentesi. Titti aveva una Panda, e mi ricordo che quando l’ho
saputo, se prima le volevo bene cinquanta, quando ho saputo che aveva una Panda
ho cominciato a volerle bene ottanta.
Ecco, io tutte le volte che penso a quella Panda è come se tornassi a
innamorarmi di Titti. È stupido, lo so, ma che ci posso fare?
108
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che le mezze stagioni non esistono più.”
“L’uomo è cacciatore ma sotto sotto è la donna che sceglie.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che che l’uomo è cacciatore ma sotto sotto è
la donna che sceglie.”
“L’aria condizionata fa venire il mal di gola.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che l’aria condizionata fa venire il mal di
gola.”
“Gli italiani vanno in vacanza all'estero e non conoscono l'Italia.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che gli italiani vanno in vacanza all'estero e
non conoscono l'Italia.”
“Roma va in tilt per due gocce d’acqua.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che Roma va in tilt per due gocce d’acqua.”
“Il nuoto è uno sport completo.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che il nuoto che è uno sport completo.”
“I maschi italiani sono mammoni.”
E io le rispondevo: “Lo sanno tutti che i maschi italiani sono mammoni.”
“La gente parla per luoghi comuni.”
E io non rispondevo, perché mi dispiaceva mettere Miou in una situazione
d’imbarazzo, oltretutto lei era incazzosa e io non avevo nessuna voglia di litigare,
gli ultimi giorni erano stati molto stressanti e non volevo altri problemi, però
pensavo che quelle sue opinioni, quei concetti non molto profondi, erano come
tagliare l’aria con un coltello di plastica, che poi l’aria non la tagli ugualmente, ma
vuoi mettere con un coltello d’acciaio, ci fai più bella figura.
109
Il giorno dopo, devo distrarmi, ho pensato, tenermi lontano dal pensiero di Titti
e dal cinema e da tutte le cose che possono farmi pensare a lei, e allora sono andato
in un posto dove non ero mai stato, sono andato al mercato delle pulci di Porta
Portese, il mercato più grande e famoso di Roma, pieno di gente che vende e
compra di tutto: mobili antichi, tappeti, cd pirata, libri, pesci rossi, jeans, e mentre
curiosavo tra le bancarelle dell’usato, Miou mi ha fatto notare un libro intitolato
‘Hacking della vita quotidiana’, un libro che cominciava così: Manomettere i freni
di un’auto è molto semplice. Dietro le ruote c'è l'impianto frenante, basta cercare
con le mani le pinze freno e attaccato ci trovate un tubicino di gomma che va
pizzicato con delle normali tronchesi in modo che l'olio fuoriesca con calma (se lo
tagliate di netto la vostra vittima si accorgerà subito che c'è qualcosa che non va).
Tempo una decina di frenate e il botto è garantito.
“Compralo,” ha detto Miou.
“Non so che farmene,” ho detto io.
“Compralo,” ha detto Miou.
“No,” ho detto io.
“Compralo,” ha detto Miou.
“Ti ho detto di no.”
“Compralo.”
“Ma perché?”
“Lo so io, perché. Compralo.”
Alla fine il libro non l’ho comprato, e in questo ho vinto io, mi sono pure
inorgoglito di non essere un burattino nelle mani di Miou.
Però l’ho rubato.
110
Mentre tornavo al mio hotel a tante stelle, milioni di milioni, sono passato
davanti alla sede del Messaggero, in via del Tritone, ho visto una vetrina con le
pagine del giornale, ho visto la foto di un’auto distrutta e un titolo che diceva:
Schianto contro un albero, muore donna.
Sono riuscito a leggere le prime righe: Una donna di trentacinque anni,
Elisabetta Jena
Oh cazzo.
è morta a causa delle ferite riportate in un incidente stradale avvenuto la
scorsa notte, intorno all’una e trentacinque. L’auto sulla quale viaggiava si è
schiantata contro un albero in via Nomentana a Roma.
Oh cazzo.
Mi si è bloccato il respiro, o qualcosa del genere, una strana sensazione, come
avere un corpo estraneo nella gola.
Oh cazzo.
Sono caduto in ginocchio e ho messo le mani al collo.
Oh cazzo.
Poi, in pochi secondi è passato tutto.
“Oh cazzo,” ha detto Miou. “Titti aveva trentacinque anni. A te aveva
raccontato di averne venticinque. Che bugiarda.”
111
vaffanculo, ma impazzire, proprio no, non ho temuto d’impazzire, nemmeno
quando ho cominciato a provare scetticismo sulla possibilità di tirarmi fuori dal
pozzo di merda in cui ero sprofondato, o quando ho pensato che la morte di Titti
seguiva quella di Mariangela e quella di Silvia, e ho pensato, infine, che, a
pensarci, anche il più idiota dei commissari avrebbe tratto delle ovvie
conclusioni… vabbè, lasciamo perdere.
[Allora, a sedici anni (Una lunga, estenuante discussione con me stesso, senza
Miou (estratto))]
E’ stata lei.
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
Sono stato io.
No, no, no. E’ stata lei.
Sono stato io.
No, no. no. E’ stata lei.
E se si fosse trattato di un incidente?
No, no, no. E’ stata lei.
E se fossi stato io?
No, no, no. E’ stata lei.
E se fossi stato io mentre ero fuori di me?
Come uno che ha perso la testa?
Sì.
In quel caso, prima di cercare un colpevole, bisognerebbe capire se ero io che
avevo perso la testa, o se la testa aveva perso me.
Bella questa. Dove l’ho sentita?
In un film.
Quale film?
Non mi ricordo.
112
Ecco: potrei essere stato io, solo che ora non mi ricordo.
No, no, no. E’ stata lei.
E’ inutile discutere. Non faccio nessun progresso.
Mi sono chiesto perché Miou non si fa viva?
Evidentemente ha qualcosa da nascondere.
Ne sono sicuro, è stata lei!
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
E’ stata lei.
Non è stata lei.
Sono stato io.
No, no, no. E’ stata lei.
Sono stato io.
No, no. no. E’ stata lei.
E se si fosse trattato di un incidente?
No, no, no. E’ stata lei.
E se fossi stato io?
No, no, no. E’ stata lei.
E se fosse stata lei mentre era in me?
Come una che si è impossessata di qualcuno e lo fa agire al posto suo?
Sì.
In quel caso, prima di sbattere il mostro in prima pagina, bisognerebbe capire se
l’eventuale delitto è imputabile a me, che ero momentaneamente incapace di
intendere e volere, o a chi mi possedeva.
Bella questa, dove l’ho sentita?
Al ventottesimo congresso internazionale dell'avvocatura, a Boston.
Sono stato a Boston? Non mi ricordo.
Sto scherzando, scemo.
Scemo a chi?
A me.
113
[Ora, pensando ad allora (Correzione di bozze)]
A pagina 7, quarta, quinta, ottava, nona e dodicesima riga, invece di “non sono
stato io, non sono stato io”, scrivere: “non ricordo di essere stato io”.
A pagina 48, quarta riga, invece di “Oh, non sono stato io”, scrivere: “Oh, non
ricordo di essere stato io”.
A pagina 80, sestultima riga, invece di “…non sono stato io, non sono stato io”,
scrivere: “…non ricordo di essere stato io”.
A pagina 81, sedicesima riga, invece di “Evidentemente, ho pensato, non sono
stato io”, scrivere: “Non ricordo di essere stato io”.
114
film porno, quando un forte schizzo di sperma bagna la faccia di una donna, lei si
apre in un sorriso che gratifica il suo amante.
Peccato che, nella mia porca vita, quando ho goduto nella bocca di Mariangela,
lei mi ha guardato con un'espressione schifata.
115
male, veramente, veramente molto male, era vivere a Roma ed essere stato
costretto a interrompere gli studi, perché il mio sogno, e il sogno principale di tutti
i ragazzi di Ribera e di Marina di Agrigento, il sogno di tutti quei ragazzi era
iscriversi alla mitica Sapienza, l’università di Roma, con i suoi 100 e passa corsi di
laurea, le 150 biblioteche, i 20 e più musei, e gli sportelli di orientamento, che io
pensavo alla grandezza smisurata di una città nella città dove uno poteva anche
smarrirsi e perdere l’orientamento, e infine una leggenda, la leggenda, un altro
segno della meraviglia di questa università: le studentesse del corso di laurea in
Discipline dello Spettacolo, giovani ninfe grazie a cui centinaia di impacciati
diciottenni di paese venivano a Roma a perdere la verginità.
3) Che poi è la conseguenza: domattina vado alla Sapienza e mi fingo uno
studente.
116
di quegli occhi gonfi e rossi che dal primo momento che li ho visti mi hanno fatto
venire voglia di abbracciarla e consolarla, e… cazzo! Intanto che sognavo era
scomparsa, via, se n’era andata via di fretta, e allora mi sono chiesto dove avesse
mai da andare, e mi sono rattristato, e ho capito che se una si sveglia presto la
mattina, per tutta la giornata non fa altro che schizzare, è come un giocattolo
caricato a molla, come un sasso lanciato da una fionda, come una palla da biliardo.
Corre finché ne ha, poi basta.
Mia madre diceva che lavorare di notte fa male alla salute e alzarsi tardi al
mattino conduce alla povertà. Diceva che non aveva mai visto un metronotte ricco,
un asfaltatore di strade ricco, un guardiano notturno ricco, e anche i medici di
guardia del pronto soccorso, diceva mia madre, tra tutti quei medici che
guadagnano cifre vergognose, quelli del pronto soccorso ci fanno la figura dei
pezzenti.
117
Dacci un taglio, mi sono detto.
La seconda ragazza che ho incontrato mi è piaciuta per la faccia da lolita e
l’espressione imbronciata come fosse la Bardot, poi bisogna dire che aveva
qualcosa di molto eccitante, qualcosa a cui non resistevo: sbavature di rossetto
sulle labbra, sì, eccitanti, secondo me è iscritta al corso di laurea in Discipline
dello Spettacolo, ho pensato, e intanto mi ero accorto che indossava una minigonna
inguinale, elettrizzante, secondo me ha appena finito di scopare con un assistente
professore del corso di laurea in Discipline dello Spettacolo, ho pensato, e intanto
mi ero accorto che indossava una maglietta di cotone aderente sui capezzoli, una
maglietta bianca con su scritto…
“Che c’è scritto?”
“E’ inglese, non capisci? I fuck for Satan. Scopo per Satana. E’ la maglietta che
io e le ragazze indossiamo sul palco.”
“Sei un’artista?”
“Fino all’estate scorsa facevo la valletta in un programma di merda, un quiz di
una tv che vedono solo a Frosinone, una roba senza prospettive, così mi sono rotta
e ho scoperto che la mia vera vocazione è il rock. Ho messo su una band che si
chiama ‘Le Segretarie del Diavolo’. I nostri testi sono un’esortazione a godersi la
vita senza limiti o regole morali. Vuoi scopare?”
Mi vergogno a dirlo, ma quando una ragazza è così diretta, quando le cose si
fanno troppo semplici, e che cazzo!… M’impegno a complicarle, mi scappa
un’ironia che è un meccanismo di difesa. Pensare che mio padre ha sempre detto:
“Se un treno passa, devi salirci sopra”. Io invece…
“Sco-scopare? Sì, però…”
“Però cosa?”
“C’è anche lui?”
“Chi?”
“Il tuo… principale.”
Ho indicato la maglietta, e questo l’ha irritata.
“E anche se fosse? Sei un bigotto, vai, vai…”
Mi ha detto di andar via e se n’è andata lei, nervosa. Vedere una ragazza per la
seconda volta sfuggirmi…
Non è che sto perdendo la fortuna, ho pensato? Non è che a sedici anni sono
troppo giovane per capire la testa di queste studentesse? Del resto, se ci penso, se
118
ci penso bene, questa mia fortuna con le ragazze, questa mia fortuna di scopare
precocemente, molto prima dei diciannove anni, dato medico reale delle città di
Ribera e Marina di Agrigento, questa mia fortuna di scopare con Mariangela e con
Titti non è che mi abbia reso semplice la vita, non è.
119
me tutto dipende da come vedi la vita, perché veramente, mi ricordo, a quattordici anni
avevo un'idea piuttosto precisa e complicata di come doveva essere la mia ragazza
ideale, e due anni dopo, mentre passeggiavo alla Sapienza, invece mi dicevo: una
qualsiasi.
120
E mi sembrò che avesse senso mettermi a pensare a mio padre che diceva che su
cento donne del Nord, novantanove sono troie.
E mi sembrò che avesse senso mettermi a pensare a mia madre che diceva che
l'uomo è cane e ha il diritto di cacciare, ma la donna è lepre e ha il dovere di
scappare.
E allora, con gli occhi persi sui capelli fradici di pioggia delle ragazze, e su quei
capezzoli bagnati che mi facevano immaginare la bellezza di tante tumultuose
vagine, mi venne in mente un'immagine di Silvia con l'ombrello, e mi sembrò che
avesse senso dare un senso ai miei pensieri, una morale a tanta arretratezza: chi è
causa del suo mal pianga se stesso.
121
crocifisso che oscillava tra i capezzoli dritti come chiodi.
Una frenata ed ecco l'ola, il corpo di lei che si allontana e rimane fermo, per
pochissimi secondi, in attesa dell'onda di riflusso che me lo scaglia addosso, un'altra
volta, un'altra volta ancora.
Quella parte di me che vive solo di automatismi aveva alzato i giri del motore, e
allora io, che al contatto fisico non ero più abituato, ho capito che per non godere lì,
davanti a tutti, dovevo assolutamente distrarmi, pensare a qualsiasi cosa che non fosse
quella cosa lì, e mi è venuto da pensare al fatto che il latte io non lo digerivo bene, un
buon pensiero, e mi è venuto da pensare che una volta avevo mangiato una pizza ai
funghi porcini e avevo vomitato, un ottimo pensiero, e mi è venuta quest'idea, davvero
innovativa, di ripetere a memoria la formazione dell'Unione Sportiva Marina di
Agrigento, stagione 1985/1986, e ho cominciato: Lazzaro, Cacicia, Gallo, Montaperto,
Ferrara, Faldetta, Iapicone, Esposito, Mingoia...
Stop.
Qualche secondo di ricordi confusi: la porta che si apre, non so cosa succede, mi
sembra di cadere, paura di cadere, faccio un salto, un salto all'indietro, mi sento
afferrare per un polso, resisto, non resisto, arriva l'onda di chi scende e sono a terra,
sull'asfalto, cado su una mano, la mano si piega, un dolore lancinante, e ancora lei, la
bella sconosciuta su di me, il ciondolo tra i seni che balla più che mai, lo vedo bene, è
un Cristo senza perizoma, oh mamma, mamma sarebbe inorridita, grido: Cristo, che
botta!
La bella sconosciuta fa la faccia preoccupata, mi bacia sulla guancia, dice: “Ti sei
fatto male?”
“Non sai quanto.”
“Dovresti essere contento. Abbiamo evitato una multa.”
“Ma che dici?”
“Non hai visto il controllore?”
“Chi?”
“L'uomo col berretto rosso.”
“Tra tutta quella gente? No. E poi i controllori non salgono mai sugli autobus
affollati.”
“Stavolta sì. Avresti dovuto accorgertene, ma evidentemente avevi la mente
occupata.”
“Eh, già, chissà perché...”
122
“E' stato un attimo: ho visto l'uomo col berretto rosso, poi la porta che si apriva, e ne
ho approfittato per tirarti giù. Un po' bruscamente, lo ammetto.”
“Allora è come pensavo: sei stata tu!”
“Ma certo, e ora, se vuoi esprimere il tuo ringraziamento, fallo pure.”
“Un vaffanculo. Ti basta?”
“Ma dài, non fare l'offeso! Io sono Spinetta, e tu?”
Ci penso un attimo, poi decido che non è il caso di fare lo schizzinoso.
“Francesco.”
“Hai la faccia da Ciccio. Ti va bene se ti chiamo così?”
“No!”
“Ok, Ciccio. Io abito qua vicino e faccio degli ottimi spaghetti alla carbonara. Vuoi
venire?”
“Non so, perché dovrei accettare?”
“Sembri piuttosto denutrito.”
“Io mangio tutti i giorni, per chi mi hai preso?”
“Non innervosirti. Pensa agli spaghetti. E poi quel tuo polso dolorante ha bisogno di
cure, e io voglio sdebitarmi.”
“Sì, ma dimmi un po': sei una studentessa del corso di laurea in Discipline dello
Spettacolo?”
“Perché me lo domandi?”
“Curiosità, solo curiosità.”
“Sto al secondo anno di psicologia.”
123
quelle scale, il tempo di salirle, poco tempo e tanti sbuffi.
124
“E invece, caro Ciccio, non accadrà nulla di quanto ti eri immaginato. E sai perché?”
“No.”
“Non puoi indovinarlo. Ma visto che ci tieni tanto...”
“Io, veramente, no.”
“Visto che insisti, te lo dirò! Ho un problema con il muscolo pubococcigeo.”
“Cos'è?”
“E' il responsabile del mio secondo disturbo mentale. Mi spiego meglio: se ti venisse
voglia di penetrarmi, devi sapere che non ti sarà possibile, perché la mia vagina rifiuta
l'inserimento di qualunque oggetto.”
“Vuoi dire un pene?”
“Certo, ma anche un assorbente, un vibratore, una carota.”
“Ma se non vuoi fare l'amore basta dirlo.”
“Al contrario, lo desidero tantissimo.”
“E allora?”
“E' lui che non vuole. Il pubococcigeo è un muscolo involontario. E se decide di
chiudersi lo fa. E' come un ponte levatoio che serve a evitare gli accessi indesiderati alla
mia vagina. Il guaio è che agisce per conto suo, e se qualcuno prova a prendermi, non
importa se con forza o gentilezza, gli sembrerà di sbattere contro un muro.”
“Allora non potremo mai fare l'amore. E' un peccato.”
“Un contrattempo, facilmente risolvibile.”
“E come?”
“Non lo immagini?”
“No.”
“Proprio non ti viene in mente che potresti accontentarmi in un altro modo?”
Ecco, ho pensato, ci risiamo. Chi fica non lecca paradiso non tocca.
“L'ho pensato, ma non ho detto nulla.”
Poi ho pensato a quella volta che, da bambino, a casa di una zia, avevo visto una
banconota da mille lire per terra, e, chinandomi felice di raccoglierla, avevo battuto la
testa contro lo spigolo di un tavolo ed ero svenuto. Ecco, se Spinetta era la moneta, il
suo cazzo di muscolo pubo-e-qualche-cosa era quel cazzo di spigolo di un tavolo del
cazzo, messo in un cazzo di posto sbagliato al momento sbagliato per vanificare gli
effetti di un'imprevista fortuna.
L'ho pensato, ma non ho detto neanche questo.
“Ciccio, mi stai ascoltando?”
125
Trallalero, ho pensato.
“Fatti una doccia. E quando avrai finito, dai un'occhiata sul lavandino. C'è un
collutorio alla menta che non ho ancora aperto. Puoi usarlo tu.”
Ho un tetto sulla testa, trallalero.
“Ciccio, che aspetti? Corri in bagno!”
Ho un tetto sulla testa e non voglio pensare ad altro.
“Vado, sì.
126
arrivata al culmine dell’orgasmo, mi desse quei pugni molto forti sulla testa e al
tempo stesso mi implorasse di restare lì dov’ero, con la faccia premuta sulla fica,
ed era piuttosto umiliante prendere quei pugni sulla testa e rimanere con la faccia
premuta sulla fica.
All’inizio, devo dire, per la gioia di avere finalmente un tetto sulla testa, ero
quasi riuscito a sopportare questa cosa, quasi quasi, ma poi, con il passare dei
giorni e dei mesi, ho finito per nausearmi e capire che pure i vini sopraffini, se li
bevi tutti i giorni, vanno a noia.
127
fiche da due soldi...
128
che a ottant’anni ancora giocava nella Fiorentina e ogni tanto faceva un film, io,
una storia così non l'avrei mai voluta, naturale, se non avessi avuto bisogno di un
tetto, e invece eccomi: lei in piedi, appoggiata a un muro, e io a quattro zampe che
la leccavo da sotto, e invece ieri mi si era accovacciata sulla faccia, facendomi
eseguire il compitino che quasi soffocavo, e l'altro ieri era stata lei a mettersi a
quattro zampe, con il sedere in alto e la faccia appoggiata a terra, mentre io mi ero
inginocchiato dietro, e come un cane... slurp, slurp.
Una cosa indegna di un uomo, avrebbe detto mio padre.
Io, allora, mi ricordo che pure il cunnilingus, mi ricordo, pure quello, dopo Titti
avevo giurato di non caderci più, e invece eccomi qui: steso a pancia in aria, sul
letto o sul divano, seduto o sdraiato ma sempre con il naso nel boschetto, che poi
chissà perché, mi domandavo, ero incapace di ribellarmi al mio destino di
francobollatore, come se quell'atto fosse, boh, compensativo, come se i vapori
sprigionati dalla fica di Spinetta potessero anestetizzarmi e farmi dimenticare il
vuoto della nostra relazione.
129
rilassamento combattevano testa a testa, e io mi accapigliavo con me stesso per dirigere
altrove l’attenzione.
Divano.
Divano in similpelle.
Unghiate.
Gatto.
No!
Divano.
Divano in similpelle.
Marrone.
Unghiate.
No!
Divano.
Divano in similpelle.
Marrone.
Giù: tappeto.
Viola.
Avanti.
Tra me e Spinetta c'era una lunga processione di oggetti fuori posto: un mucchio di
riviste sparse sul pavimento, Cosmopolitan, mi pare, Intimità, Confidenze, poi una
scarpa rosa con il tacco a spillo, poi un libro intitolato Niente paura, uomini: voglio fare
solo sesso, di Paula Lambert, poi lo schermo di un pc, poi una tazza e un cucchiaino da
caffè, poi un paio di forbici, poi due pacchi di noccioline tostate, poi si arriva alla porta
socchiusa da dove esplodeva, come una fucilata, la voce autoritaria della mia
torturatrice. Una frase, sempre quella: “Ciccio, non riesco a dormire. Puoi venire a
consolarmi?”
[Allora, a sedici anni (Istruzioni serissime per non perdere il mio status)]
Indifferentemente a pranzo o a cena, Spinetta mi spiegava le modalità da usare
per aumentare il suo piacere e farla arrivare all'orgasmo. Riassumendo: erano
permessi i colpettini di lingua molto soft, ma stando bene attento a non
comportarmi come un addetto al martello pneumatico. Era permesso succhiarle il
clitoride come fosse una caramella, ma era vietato interrompere la manovra per
asciugarsi la bocca, e vietatissimo sputare sul lenzuolo il contenuto delle sue
130
secrezioni vaginali. Era permesso metterle un dito nel culo, ma solo a patto di non
inserire lo stesso dito nella vagina, perché i batteri presenti nell'ano potevano
causare infezioni. Infine, a un segno convenuto, una lieve pressione delle cosce
sulle mie guance, era permesso, anzi obbligatorio darle lievi morsi al clitoride.
Dopo queste direttive, non è che Spinetta affrontasse altri argomenti, e forse,
dico forse, era giusto, dato che io e lei eravamo due persone molto distanti, con
interessi e caratteri diversi, e si sa che il letto non è il posto ideale per mettersi a
discutere, o peggio a litigare.
Le mie giornate, più o meno tutte uguali, potevano riassumersi così: sveglia
intorno a mezzogiorno, doccia, pranzo, istruzioni, stimolazione orale io a lei, cena,
istruzioni, stimolazione orale io a lei, tv libera per lei, sega libera per me.
Però in fondo, molto in fondo, precisamente in quella parte di me che trascurava
le motivazioni del tutto venali che mi avevano costretto a impiegarmi in qualità di
sovrintendente all'amministrazione della sua vagina, in fondo, molto in fondo,
l'ammiravo, quella cagna in calore, forse per via di qualche storia bizzarra e
divertente che a volte raccontava.
Una volta, per esempio, mi ha confessato di avere avuto un periodo nel quale la
forza sessuale che da sempre determina la sua vita l'aveva indotta a masturbarsi in
modo compulsivo, un bisogno incontrollato di sfregarsi, anche in pubblico, mi ha
detto, poi mi ha mostrato un libro del suo corso di studi, un libro intitolato
Masturbazione come libertà, un libro che per un mese intero aveva preso possesso
del suo corpo, in un mese si era fatta non sa quanti ditalini, certo troppi, se
consideriamo che quel libro aveva dovuto leggerlo tre volte, prepararci su un
esame, e allora io, come al solito, ho pensato una cosa e ne ho detta un'altra, ho
pensato: Devi farti ricoverare, bella mia.
E invece ho detto: “Una come te, che non si fa scrupoli di mostrarsi vera, è la
donna che tutti gli uomini sognano.”
Poi ho anche pensato che continuando a restare fedele ai suoi ordini, potevo
garantirmi un tetto per molto tempo ancora.
131
Naturale, dico io, che Gesù si senta solo, tanto solo, lui, lassù, nel Regno dei Cieli,
quel luogo senza tempo dove non puoi neanche attaccare bottone con una ragazza
chiedendo che ore sono, e insomma, il programma delle attività degli angeli e dei santi
pare adatto a un club di comatosi: contemplare la divinità, infinitamente, cantare inni e
lodi, perennemente, pregare per la pace, ininterrottamente, troppa pace, una pace
nemmeno inframmezzata da qualche diversivo: una bestemmia, una calunnia, una sana
scazzottata, ma che è? Pace oggi, pace domani, una pace sempiterna è una rottura di
coglioni. Naturale che quel povero Cristo abbia voglia di spiare e curiosare sulla Terra,
lo capisco, ma che bisogno c'era, mamma mia, che bisogno c'era di impiantarmi nella
mente la paura di essere osservato o giudicato?
Non è che per caso si potrebbe avere una pillola per svuotare la testa da questi
pensieri ossessivi religiosi?
Lo dico perché spesso mi succede una cosa che è il segno dei tremendi disturbi
mentali che l'educazione cattolica mi ha provocato. Cioè, mentre bacio Spinetta, ho la
netta percezione di partecipare a un rapporto a tre: io, lei e un sexy parruccone in
perizoma azzurro con ricami dorati (per non parlare di Miou).
132
più paura, quella parte che è gelosa di tutte le mie compagnie, di tutte le ragazze, quella
parte che vive, pensa e agisce sotto il dominio di Miou.
“Scusa, Miou, ma non capisci che di Spinetta non me ne frega un cazzo? Se sto con
lei è perché mi sono stancato di dormire sotto un ponte, e per nient'altro.”
“E' stato così all'inizio, ma è già passato un mese, e se non fai in fretta a liberartene,
c'è il rischio che prima o poi te ne innamori.”
“Stai scherzando, vero?”
“Nient'affatto. Sono stufa di vederti umiliato. E se questa storia non finisce, lo sai
cosa ci faccio con la tua porcellina?”
“Miou, per favore...”
“Le strappo il cuore dal petto, ecco.”
“Zitta, mi fai impressione!”
“Zitta un corno. Ti concedo un paio di settimane, poi farò di testa mia.”
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abbia importanza, e insomma, mi fece bere un'acqua pranizzata, non è successo niente,
mi ricordo, qualche scorreggina e nei giorni seguenti le pareti della mia cameretta
ripresero ad avanzare.
Era un periodo che mio padre e mia madre mi portavano dai dottori anche per un
raffreddore, e la mia educazione era fondata su frasi del tipo:
a) Non uscire che là fuori è pieno di brutta gente.
b) Stai attento che potresti cadere.
c) Non provarci che ti fai male.
d) Se ti allontani anche un paio di metri, ti perderai.
Era un periodo che mi sentivo prigioniero, non vedevo mai un amico, non uscivo,
uscivo solo per la scuola e per andare dai dottori, un periodo che bastava un colpo di
tosse e i miei si convincevano di avere un figlio malatissimo, spacciato. Era il periodo
precedente ai miei ricoveri alla clinica Serena, vaffanculo, alla Divisione di Neurologia
dello Sviluppo della clinica Serena, vaffanculo.
134
possibile considerarmi molto intelligente, però mi dispiaceva scoprirmi il meno
intelligente di tutti, così poco intelligente da non trovare una soluzione, da non sapere
dove sbattere la testa, da farmi scoppiare un mal di testa, un mal di testa pulsante, un
mal di testa così forte da mandarmi fuori di testa, da costringermi a pensare, voglio dire:
mi è scappato, mi è scappato di pensare che se avessi lasciato fare a Miou sarebbe stato
meglio, incredibile che cosa mi è scappato.
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Ci sono mestieri che non sarei in grado di fare, nemmeno se costretto: il terrorista, il
mafioso, il killer di professione, no, no, no. A me quelle persone che uccidono senza
pathos, freddamente, con lo spirito di un artigiano bravo e puntiglioso, quelle persone lì
non le capisco, le rispetto, sì, e certe volte, trovandomi nella condizione di odiare
profondamente qualcuno, le ho pure invidiate, però non ne sarei capace. Io sono pieno
di turbamenti mentali prima di cominciare, figuriamoci dopo aver finito.
Io se devo uccidere qualcuno, devo farlo: a) per disperazione; b) per follia; c) con la
convinzione di commettere un'azione meritoria (la soluzione che preferisco).
Meritoria verso chi? Verso me stesso, è sufficiente.
Giorno dopo giorno, Miou mi sfiniva con attacchi al mio carattere, alla mancanza di
coraggio, all'attendismo, a tutto me stesso. Per lei era semplice, attraverso la gelosia,
uccidere. Per me era complicato, cervellotico, pesante, nonostante mi sentissi
prigioniero nella mente e nel corpo, fare uscire, in un violento attacco di razionalità
omicida, tutto il mio risentimento, tutta la rabbia, tutto il dolore, e da miniometto
addomesticato quale ero diventato, trasformarmi in un vendicatore senza macchia.
Mi dicevo: se è vero che Spinetta mi tiene prigioniero, è un buon motivo per
ucciderla? Non sarebbe sufficiente derubarla?
E Miou: “Bravo coglione! Così lei correrà a denunciarti. Certe cose si fanno senza
pensarci troppo, altrimenti ci si caccia nei pasticci.”
“Adesso esageri, Miou. Vuoi dirmi ancora cosa devo fare? Ultimamente, mi sembra
di essere stato troppo remissivo, nei tuoi confronti.”
“Ah, nei miei? Questa mi fa proprio ridere.”
[Allora, a sedici anni, come fosse ora (Non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la
faccio, non ce la faccio più)]
Non ce la faccio, uno. Dopo il rifiuto di Spinetta è cominciato un periodo che dormo
poco, sono stanco, sento i battiti del cuore come bombe, ho la pancia così gonfia che
non so, sarà lo stress, speriamo. In quel pochissimo che dormo, tre ore o quattro a notte,
faccio un sogno, un sogno ricorrente, mi spavento: Corro nudo in mezzo a una
campagna in fiamme, nudo tra le fiamme, tra nuvole di fumo, dovrei bruciarmi,
soffocare, e invece tremo di freddo, un freddo da morire. Penso che in quel sogno c'è lo
zampino di mia madre, sì, l'inferno e quelle robe lì. Non so neppure dargli un senso, no.
Non ce la faccio, due. La maggior parte dei sentimenti e dei pensieri che mi vengono
di sera, prima di addormentarmi, succede che al risveglio non li ho più, o mi sembrano
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stupidi, o mi fanno vergognare. E' come quando, da barbone, rovistavo convulsamente
nei cassonetti e raccoglievo oggetti dentro un sacco, poi di notte mi calmavo e ci
guardavo dentro, per vedere cosa poteva tornarmi utile e cosa no. Per esempio,
stamattina ho pensato di tenermi la consapevolezza che tra le storie, le mie storie più o
meno d'amore, questa è quella che promette meno, che non può darmi nulla, solo
angoscia, inquietudine, ossessione. Nulla, nulla.
Non ce la faccio, tre. Non sono un esperto di fughe clandestine, ma l'unica maniera di
salvarmi, a me pare, ma non so, non sono un esperto, l'unica maniera di salvarmi è
rubare i soldi che Spinetta tiene in casa e utilizzarli per fuggire all'estero. A Miou
piacerebbe molto andare all'estero. Mi ha detto che in un paese dove tutti parlano una
lingua sconosciuta, io e lei non si potrebbe che parlare tra di noi, continuamente. E si è
eccitata così tanto, a quell'idea, che per un'ora mi ha lasciato con le formiche in testa,
roba da matti.
Non ce la faccio, quattro. Però dovrei.
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sarai in una spiaggia dell'Atlantico, lontano da occhi indiscreti, e ti godrai il sole.”
Io: “Sì, brava. Secondo te, dovrei viaggiare senza documenti. E come faccio?”
Miou: “Con tutti i film che hai visto, possibile che non ti venga un'ispirazione?”
Io: “Mi serve tempo per pensare.”
Miou: “A cosa, Ciccio? A cosa? Questa è una faccenda che diventa complicata solo
se non la sbrighi in fretta.”
Io: “In fretta, non è facile. Per giustificare quest'omicidio devo potermi aggrappare a
qualche certezza, a qualche ragione che mi dia la forza morale di farlo. Lo capisci o no,
che si tratta di cambiare me stesso? Io non ho mai ammazzato nessuno!”
Miou: “Sei sicuro?”
Io: “Che cazzo dici?”
Miou: “Lasciamo stare.”
Io: “No, davvero. Che volevi dire?”
Miou: “Niente.”
Io: “In un modo o nell'altro riesci sempre a farmi agitare. Se c'è una cosa di cui sono
sempre stato certo è che tutte le accuse che mi rivolgono sono infondate.”
Miou: “Vedila così: ogni uomo che perde la speranza è un potenziale assassino.”
Discorso chiuso. Mezz'ora dopo quella discussione ho sentito come friggermi la testa
e mi è venuto da gridare: “Esci da lì, bastarda!”
Mi sono dato dei pugni sulle tempie, inutilmente.
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sfracellato, non lo so, comunque ero disteso su una barella, e ho sognato due
infermieri che venivano a prendermi, e c’erano dei poliziotti, e dei carabinieri, e
mentre mi portavano via, io pensavo che i giornali sarebbero usciti con la mia foto,
e la gente di Marina di Agrigento mi avrebbe anche invidiato, avrebbe detto:
“Buono per lui, adesso potrà chiedere un sacco di soldi per andare in televisione”.
[Allora, a sedici anni (Quello che è successo veramente e tante cose nuove che ho
capito)]
E' stata lei, è stata Miou!
L'ha colpita alla testa con un soprammobile di marmo a forma di piramide, e a me
che guardavo, inorridito, mi è venuto da pensare che mi ero sempre chiesto a che
servissero, quei soprammobili di marmo a forma di piramide, e ho capito a che
servivano, erano armi che ognuno poteva tenersi in casa senza avere il porto d'armi.
Spinetta è caduta, neanche un grido, è caduta in terra, è svenuta, è morta, è morta.
Miou si è slacciata i pantaloni e le ha pisciato addosso, io ho pensato che era stata
una cazzata, ecco, sì, poteva anche capirlo che lasciare delle macchie di urina sul luogo
del delitto era un modo idiota di complicarsi la vita, poteva anche capirlo, che a quel
punto, anche se avesse asciugato il cadavere, o l’avesse immerso, chessò, nell’acqua
della vasca, la polizia scientifica avrebbe scoperto tutto e insomma, Miou ha capito che
doveva portare via Spinetta, ha capito che da sola non ci sarebbe mai riuscita, ha capito
che doveva tagliarla a pezzi con un coltello da cucina, un coltello elettrico portatile.
“Ciccio, Ciccio mio, devi aiutarmi.”
“Ma sì, certo.”
Perché l'ho fatto? Non lo so. Sono stato fortunato, mi aspettavo uno spargimento di
sangue enorme, la gola di Spinetta che esplodeva, materia organica che schizzava
dappertutto, e invece il sangue si è allargato in tante macchie, giusto giusto su un telo di
plastica che avevamo messo a terra, che fortuna, me la sono cavata con qualche goccia
sulla faccia, sei ore e ce l'ho fatta, è stata dura, le sei ore più lunghe della mia vita, ho
capito che anche così non era facile, che dovevo comprare delle buste o dei sacchetti,
insacchettarla e poi uscire con un pezzo di lei, uno per volta, e non avevo neppure idea
di dove buttare quei pezzi.
“Sono orgogliosa di te, amore mio.”
“Anch'io, Miou, anch'io lo sono.”
Oh cazzo, no! Perché l'ho detto? Non lo so. So che il panico è scoppiato quando mi
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sono voltato verso Miou e ho chiesto che stavolta fosse lei ad aiutarmi, perché dovevo
lavare il coltello.
Quel coltello riluceva e scintillava, mi ricordo.
Riluceva e scintillava, e lei non c'era.
C'era il corpo di Spinetta, fatto a pezzi, e lei non c'era.
Miou non c'era.
Allora ho capito tutto, d'improvviso, ma proprio tutto tutto, e non c'è bisogno che ve
lo spieghi, visto che ero il solo a non aver capito.
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[Allora, a sedici anni (Il post)]
Poi non lo so come ho fatto a sopravvivere. Se chiedessero a un medico: Un uomo
che ha bevuto soda caustica, può rimanere in vita? Io non sono un medico,
probabilmente il medico risponderebbe di no.
E allora, come ho fatto a scamparla? Forse, in quei mesi con Spinetta, e pure con
Titti, avevo accumulato tanto di quel liquido vaginale che mi si era formata una placca
nella gola che aveva rallentato la discesa della soda, almeno in parte4. Forse, boh.
Io non lo so come ho fatto a sopravvivere. Se chiedessero a un medico: Un uomo che
si butta dalla finestra di un terzo piano, può rimanere in vita? Io non sono un medico,
probabilmente il medico risponderebbe di sì, a patto che il tizio in questione non abbia
la pancia piena di soda caustica.
Anche, dico io, anche.
4
Non do consigli medici. La mia teoria di sopravvivenza all'ingestione di sostanze chimiche contenute
nei prodotti per la casa non è accettata dalla scienza medica ed è in attesa di essere sottoposta alle
verifiche sperimentali condotte con metodo scientifico.
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sarebbe ora di riposarmi, morire, e in momenti come questo, il mio solo desiderio è
un'angelessa che scenda a prendermi, ma prima di portarmi in paradiso, o all'inferno, o
non so dove, almeno, dài, mi faccia un pompino.
[Ora, di un allora che non potrà più essere (Chissà cosa sognavo!)]
E infine voglio dirvi che ho sognato di tornare all'Azzurro Scipioni, vedere un film,
un vecchio film con Anthony Hopkins, Quel che resta del giorno.
C'era Silvia con me, c'era Mariangela, Titti e pure Spinetta. Ridevamo e
scherzavamo, ci davamo dei bacetti, degli abbracci, carezze, Silvia ha detto che
eravamo un bel gruppo, che dovevamo restare sempre insieme, eravamo perfetti, e io
ricordo di avere pensato, nel sogno oppure dopo, dopo essermi svegliato, ho pensato che
la vita, la mia vita, meglio di qualsiasi altra, era l'esempio che tutto ciò che accade è
privo di fondamento e di sostanza, e quando siamo infelici e marchiati dai nostri
fallimenti, non abbiamo il diritto di incazzarci con Dio, o con gli altri, o col destino, e
neppure con noi stessi, perché trovare dei colpevoli presuppone una possibilità di
cambiamento, una svolta consapevole che non è mai possibile, mai, mai.
Alla fine di quel sogno, quando siamo usciti dal cinema, le ragazze mi hanno preso in
giro, mi hanno detto che a metà del secondo tempo avevo cominciato a russare.
“Potevate svegliarmi.”
“No”, mi hanno risposto, scambiandosi sorrisi, parlando tutte insieme.
“No? E perché?”
“Dormivi così bene che era un peccato turbarti. Da quando ti conosciamo è la prima
volta che ci sei sembrato veramente felice.”
FINE
FRANCESCO
1. Mi presento.
C'è un modo per parlare di sesso senza dire che sto scopando? Se c'è, chi se ne
frega! Un pene-scopa è un'ottima metafora per me che faccio up e faccio down con
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lo spirito di un addetto alle pulizie assillato dalla fretta di terminare il suo lavoro.
Ma sì: quegli scopini che incontro spesso alla stazione. Una volta ho chiesto a uno
come mai stava in ansia, sudato e stanco, e mi ha risposto: «Perché ho voglia di
tornare a casa e scopare con mia moglie».
Io una moglie non ce l'ho.
Ho Laura e mi piace sempre meno. Il sesso, voglio dire, perché Laura è ancora
bella, ma ha un modo di toccare che mi annoia: una carezza qua, una carezza là, un
complesso di gesti prevedibili eseguiti con l'aria di chi è costretta a recitare da anni
la stessa commedia.
Quando ci siamo conosciuti, eravamo capaci di fare l'amore per ore, dilatando il
tempo senza stancarci, ma poi tutto è cambiato: la poesia dei preliminari si è
trasformata in abitudine, e oggi sono quasi indifferente al pensiero che avevo
saputo essere felice invadendo il suo oscuro territorio col mio esercito di soldatini
con la coda.
Come sono lontani i tempi delle eccitanti scopate, sonore trombate, atletiche
chiavate! Laura mi guarda il cazzo come se guardasse un mocio spelacchiato,
sbuffa e dice: «Non sei più un ragazzo». E poi mi preferisce un pene finto, anzi no:
ci vuole tutti e due, e allora io, per paura di perdere il confronto con i 22 cm di
mister Lattice, scelgo come oggetto di concentrazione una bellissima pornostar che
ho conosciuto su Youporn, si chiama Skyla Novea, ha le lentiggini, proprio come
Pippi Calzelunghe, e questo aiuta, sì, mi aiuta, perché io, da adolescente, sognavo
di stuprare una ragazza con i capelli rossi e i calzettoni a righe colorate, e la
chiamavo Pippi, anche se il suo vero nome era Addolorata Crocifissa Maria.
Il trucco funziona. Laura gode. Godo anch'io. Però mi piace sempre meno, sarà
che ci conosciamo da trent'anni, scopiamo da trent'anni, ma poco importa ormai, ci
sono altre cose che mi piacciono, Ammazza la star, per esempio, un videogioco
dove una donna famosa, sempre diversa da livello a livello, fugge nel corridoio di
un treno in corsa inseguita da uno psicopatico omicida che brandisce un cazzo
mitragliatore.
Che gioia udire il taratatatata del cazzo mitragliatore! Io sono uno che
rimarrebbe giorni interi chiuso in camera a giocare, con gli occhi gonfi e rossi fino
a notte. Per me è importante avere qualcosa che mi riempie la vita: ci ho provato
con il tennis, ma non ha funzionato, schiappa, schiappa; ci ho provato con la
musica, ma non ha funzionato, stonato, stonato; ci ho provato con il poker, ma non
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ha funzionato, sfigato, sfigato. Io sono uno che ha bisogno di farsi coinvolgere
totalmente. Ora ho un amore esclusivo e smodato verso questo videogioco, una
fanatica infatuazione che mi ha restituito la gioia di vivere, vivere per raggiungere
un traguardo, mitragliare la donna, impedire che si salvi, è naturale: sono sempre
dalla parte dei cattivi, dei perdenti, poveretti. Da bambino detestavo il velocissimo
struzzo corridore, quello stronzo di Beep Beep, ed ero molto dispiaciuto nel vedere
Wil Coyote sfracellarsi in un burrone, una volta, due volte, cento volte. Alla lunga
sono fatti molto tristi, dolorosi e negativi. Non è facile, non è facile per niente
odiare il topo Jerry e sperare inutilmente di vederlo divorato. Non è facile per
niente abituarsi all'idea che un merdosissimo topo debba vincere su un gatto. I topi
puzzano, trasmettono malattie, partoriscono decine di topolini che moltiplicati per
il numero di topi presenti nelle fogne fanno legioni di batuffoli di pelo odoranti di
urina che si preparano a conquistare il mondo. La gente odia i topi, è sempre
andata in questo modo, eppure mi domando per quale finalità eversiva gli autori
dei cartoon provano a destabilizzare le nostre credenze più solide.
Non è facile per niente essere un bambino felice se i tuoi eroi perdono sempre,
se il lupo è costretto a vomitare la nonna e le sorellastre di Cenerentola rimangono
zitelle per tutta la vita. Ecco perché Ammazza la star rappresenta la mia rivincita
su un'infanzia in cui, per colpa della grettezza dell'industria cinematografica, ho
subito umiliazioni e traumi. Anche se non tutto è filato per il verso giusto e, poiché
quella stronza di star riusciva a farla franca, ho dovuto inventarmi un modo per
cambiare il finale. E allora Ammazza la star ha finito per legarsi alla mia seconda
passione, che è quella di uccidere donne sui treni. Donne giovani e sconosciute,
per il momento, perché sono fuori da quel giro che mi permetterebbe di agganciare
qualche attrice, una cantante, una troietta di regime. Ho tutto un piano: comincio
ad ammazzare queste belle sconosciute e poi, quando i giornali avranno cominciato
a occuparsi di me, faccio il grande salto e sparo a una famosa. E se pensate che
giocare ad Ammazza la star e ammazzare le donne sui treni siano attività molto
distanti tra loro, perché una è virtuale e l'altra può mandarti in prigione, eh, non
capite, non capite un cazzo di una cosa e dell'altra. Mi obbligate a rubare tempo
alle mie passioni e spiegare l'abc di Ammazza la star e dell'omicidio seriale.
Cominciando dall'inizio, da quando ero un bambino di nove anni e non avevo
amici con cui giocare a pallone. Così ho trascorso gran parte dell'infanzia a
strappare le zampe ai grilli e ridere di gusto se provavano a saltare. I miei tagli
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erano secchi, le mie dita chirurgiche: facevo uscire poco sangue, e mi ricordo che
era giallo, un sangue giallo, ripugnante, a volte verde. Se ci fosse stata una laurea
in Metodologia e tecnica dell'anatomia chirurgica dei grilli , forse sì che mi sarei
laureato, da bambino prodigio, il più giovane laureato della storia.
Un giorno mio padre ha scoperto che tenevo le zampe dei grilli in una scatoletta
di fiammiferi e mi ha detto: «Stai attento, Francesco, che questa tua passione non è
un gioco. Si comincia strappando le zampe ai grilli e si finisce nel tunnel della
violenza e della malattia mentale. Non vorrei che un giorno ti venisse voglia di
strappare il cuore alle donne».
Io ridevo, mi ricordo, e pensavo che scherzasse, e invece no. Mio padre è sempre
stato pronto a rompermi le palle con l'aspetto morale di qualsiasi cosa, è sempre
stato pronto. Anche adesso che un ictus gli ha paralizzato la parte destra del corpo,
mi rimprovera di essere un indemoniato perché amo i videogiochi dell'orrore. E mi
chiama depravato perché amo le donne del cinema porno.
Ma se sapesse il trattamento che riservo alle altre, che direbbe?
Nella variante del gioco che ho ideato e sto cercando di rendere celebre, ogni
livello vede opposti un uomo con il cazzo mitragliatore, che sono io, e una giovane
donna, che cambia aspetto dopo essere stata uccisa ma indossa sempre una
minigonna inguinale di pelle nera. La cosa bella è che ho ucciso solo donne che
indossavano minigonne inguinali di pelle nera, e questo è un particolare che sta
facendo impazzire gli agenti, sì, gli agenti di commercio del settore abbigliamento
articoli sportivi maglieria calzature minigonne inguinali di pelle nera, uomini
calmi, all'apparenza, gente così, con il sorriso di ordinanza sotto un'aria assonnata
che fa capire quanto poco gli piaccia fare quel lavoro, gente così, così così,
famiglie composte da mariti che non permetterebbero mai alle loro mogli di
indossare minigonne inguinali di pelle nera, e mogli che non permetterebbero mai
ai loro mariti di guardare donne in minigonna, e figlie che escono in jeans con la
minigonna nella borsa e poi vanno a cambiarsi nei bagni pubblici. Io questa
terribile ipocrisia del ceto medio l'ho sempre disprezzata, ma non è questo che mi
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spinge ad ammazzare quel tipo di ragazze, è che mi basta pensare a una minigonna
inguinale e mi viene un'erezione, mi basta scrivere di una minigonna inguinale in
pelle nera e devo farmi subito una sega.
Torniamo al gioco. Ciò che accomuna le due versioni, la virtuale e la reale, è che
ogni singola partita si conclude quando la ragazza è sotto la minaccia di un cazzo
mitragliatore e non le è possibile fuggire o salvarsi la vita in altra maniera,
reagendo con violenza o mettendosi a urlare per richiamare l'attenzione di
qualcuno. Io sono il vincitore, ma per salire di livello devo prima mitragliare la
mia vittima.
È un gioco che s'impara, non servono talenti, intelligenze speciali,
predisposizioni innate. Se ce l'ho fatta è perché ho avuto un grande desiderio di
autoaffermazione, tanto esercizio e tanta volontà. È vero: la volontà fa l'uomo
grande. A prima vista può sembrare una cazzata motivazionale e invece è un buon
insegnamento, per voi che mi leggete. Fate come me: allenatevi alla crudeltà,
prima con i grilli, per rendervi disinvolti, per non avere pena, e poi con le persone.
Il mio record è il cento per cento di omicidi riusciti su quelli tentati, e dire che
all'inizio ero timido, impacciato e molto spaventato all'idea di ritrovarmi da solo
con una donna in uno spazio ristretto come può essere il bagno di un treno. E
invece, non solo ho avuto il coraggio di guardare le mie vittime negli occhi, ma ho
risposto alle loro grida di terrore con lo stesso ghigno stridulo dell'Uomo Cazzo
Mitragliatore, il carnefice di Ammazza la star.
Quando sarò famoso, e lo sarò il giorno che mi arrestano, arriveranno un sacco
di persone, magistrati, criminologi, scrittori di gialli, giornalisti, preti, e mi faranno
domande del cazzo, tipo: «Che cosa ti spingeva a uccidere?»
O anche: «Provavi rimorso?»
O anche: «Se non ti avessero arrestato, avresti continuato?»
O anche: «Perché hai ucciso solo donne?»
A quest'ultima domanda risponderò che non è giusto pensare che l'ho fatto
perché ho la mente ottenebrata da qualche serio problema sessuale.
Semplicemente, le donne sono più deboli e le si manda senza sforzo all'altro
mondo. A me, ve lo confesso, piace vincere facile, e con gli uomini non sarebbe
possibile, perché sono tutti più robusti e più forti di me, che ho il fisico di un
manico di scopa e due cocci di bottiglia spessi un dito sopra il naso. Uno
spaventapasseri orbo, così mi ha definito quello stronzo di mio padre.
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Mi dispiace di non essere amato da lui, e a volte ho pensato che le cose
andrebbero meglio, che l'amore sboccerebbe se solo trovassi il coraggio di
confessargli la mia bravura, ché non è mica vero che il suo unico figlio è un buono
a nulla: il suo unico figlio è un maestro di Ammazza la star, the real version.
Purtroppo, trovato quel coraggio, sarebbe tutto inutile, dannoso, perché lo so cosa
direbbe mio padre, farebbe uno squillo al 113 e a me direbbe che un uomo bravo
non è sempre un brav'uomo. Lui è specializzato nell'offendermi, avvilirmi,
incessantemente, ininterrottamente, mi fa soffrire nella testa, e allora, ogni sera,
chiudo a chiave la porta della mia camera e mi metto a mangiare patatine fritte, e
me lo dico da solo che sono un brav'uomo, perché io quelle donne non le ho mai
violentate. Colpite al cuore sì, sventrate anche, perché faceva parte del gioco, ma
non violentate.
Perché io sono un brav'uomo.
3. L'ideale della mia vita è vedere un film horror seduto accanto a una ragazza
sul divano di casa e non essere sfiorato dall'idea di ucciderla.
Dice Laura: «Dovresti vergognarti di sprecare il tuo tempo con i film di quello
psicopatico… come si chiama?»
Dico io: «Dario Argento. E ti faccio notare che i film horror vengono
programmati molto raramente, una o due volte al mese. Perciò sei ingiusta a dire
che spreco il mio tempo davanti alla tv. Anche volendo, non potrei».
Dice Laura: «Ma tu cosa vuoi fare nella vita, trovarti finalmente un lavoro o
startene seduto a scaldare il divano? Mi sa tanto che in Italia non si campa, a
scaldare il divano».
Dico io: «Anche a rompere i coglioni, non si campa».
Stare in casa, io e Laura, mi capita che ho voglia d'ammazzarla. Sarebbe facile:
lei ha il collo magro, fragile, sarebbe come afferrare il collo di un cigno. Ci
vorrebbe poco a strangolarla, eppure mi trattengo, non lo faccio, insomma, tutto il
giorno ho i miei problemi con le donne dei treni, devo aggiungerci anche Laura?
Non voglio. Per questo la sopporto, anche se odia gli horror. Per lei odiare gli
horror significa sedersi accanto a me e lanciarmi occhiate di rimprovero,
ticchettare con i piedi sul pavimento e criticare ossessivamente ogni scena, ogni
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attore, la trama, il montaggio, la colonna sonora. E poi dice che eccitarsi alla vista
di un'attrice che schizza sangue e perde le budella significa cadere sotto il dominio
di Satana.
Provo a riflettere. Io amo i film horror. Laura odia i film horror. Devo dedurne
che lei odia me? Potrebbe amarmi se accettassi di non vedere più quei film?
Oppure alzerebbe la posta, obbligandomi a nuove e dolorose rinunce? Ma
soprattutto: se non ci fossi io di mezzo, avrebbe almeno la curiosità di vedere
Suspiria, che è l'horror più bello di tutti i tempi? Forse un giorno riuscirò a
spiegarmi il motivo che l'ha spinta a farmi leggere un articolo sul web in cui si
diceva che un regista amatoriale di film horror aveva rapito, torturato, sodomizzato
e ucciso 33 donne e le aveva nascoste nella sua cantina. Quando gli ho fatto notare
che quel regista non era Dario Argento, Laura non si è persa d'animo e ha provato
a convincermi che nel mestiere di ogni uomo c'è il suo destino, e dunque anche
Dario Argento si era certamente macchiato di atroci delitti che la polizia aveva
archiviato in fretta, grazie alle mazzette verdi di quei magnati di Cinecittà che si
arricchiscono alle spalle dei coglioni come me.
Quando l'ho conosciuta, mi ricordo, Laura era splendida, aveva diciannove anni
e un rapporto problematico con un uomo più grande, un calciatore inglese che
beveva troppe birre e la picchiava se lei si rifiutava di scopare. Così le ho chiesto
se voleva liberarsi di quel mostro e poi ho supplicato mia madre di ospitarla, e mia
madre ha detto sì, ma prima ha voluto accertarsi che non si drogasse o facesse
parte di una setta o fosse dei Pesci, perché i Pesci sono molto pettegoli e adorano
impicciarsi delle vite degli altri. Laura è dei Pesci, ma nei discorsi fatti a casa è
nata il 3 gennaio, è Capricorno, perché sono molto riservate, le ragazze del
Capricorno. Mia madre dice sempre che l'astrologia ci azzecca, dice: «Sì, non ha
predetto l'attentato alle Twin Towers, ma che c'entra? Coi caratteri ci azzecca,
sempre».
Oggi Laura ha quarantasette anni, uno meno di me, lavora nel call center di una
fabbrica di giocattoli porno e guadagna solo se convince dei poveretti a comprare
una vagina finta in silicone medicale brevettato che può trovare posto, dice Laura,
anche nel cruscotto dell'auto o in un borsello, per regalare in qualsiasi momento
una masturbazione da sogno.
Bisogna pensarci bene prima di lavorare in un call center, perché quando si
passano otto ore a cercare di convincere la gente, poi è inevitabile tornare a casa e
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continuare a fare il mestiere della rompicoglioni che vuole imporre a tutti la sua
visione del mondo. Ma cosa può saperne lei, di Dario Argento?
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i modi possibili, non ce la facevano a resistere.
5. Però è anche vero che il potere e il controllo del perfetto Uomo Cazzo
Mitragliatore vacillano di fronte a un perverso e strano modo di amare.
Io, Laura, papà e mamma viviamo in una bella casa di campagna a Caceovo, un
paese relativamente tranquillo dell'Abruzzo meridionale. Relativamente, ho detto,
perché la finestra della mia camera si affaccia su una linea ferroviaria dove i treni
corrono in entrambi i sensi di marcia.
A Laura non va bene l'arredamento della mia camera, i panni sul letto, le lattine
di coca vuote e quel disordine diffuso che le ricorda un ostello per studenti, e più
di tutto non sopporta l'armadio vuoto e molti abiti ficcati in scatoloni e valigie da
quando, venticinque anni fa, no, ventisei, dovevamo trasferirci a Bologna per
studiare al Dams, ma poi mio padre si è ammalato e non siamo più partiti. Io
detesto i traslochi perché rimuovendo il contenuto da scaffali e cassetti si finisce
sempre per fare i conti col passato, e a me non piace ricordare le cose belle che ho
vissuto e che non torneranno, mi viene da piangere, come quando ho ritrovato la
mia tessera di socio della Banca di Paperopoli, con su scritto: «Paperon de
Paperoni, riconosciuto come il papero più ricco del mondo, nella sua qualità di
Fondatore della favolosa Banca di Paperopoli, è lieto di darti il più caloroso
benvenuto e ricordarti che la parola d'ordine per tutti i soci è: caccia ai Paperon
Dollars e guerra ai Bassotti». Sono stato un giorno col magone, mi sono ricordato
che quella tessera io non la volevo, perché stavo dalla parte dei Bassotti, ma mia
madre ha raccolto i bollini e li ha spediti all'editore, e allora, il giorno che mi è
arrivata a casa, maledetta, maledetta tessera, quando l'ho vista ho pianto e mi
sembrava di avere tradito la banda. Poi, anni dopo, ho pianto ancora, perché quella
tessera rappresentava l'infanzia, un meraviglioso periodo di ebbrezza senza senso,
una felicità che avevo definitivamente perduto. Però in Emilia volevo fortemente
andarci, perché una volta avevo sentito dire da Guccini che laggiù c'è una pianura
così vasta che se lavori di fantasia e fissi l'orizzonte, puoi vedere la polvere alzarsi
e sentire il tuono lontano dei bisonti al galoppo. Ci sono rimasto molto male che
non siamo partiti, ma Laura ha detto che l'ictus di mio padre cambiava tutto. Lei
crede di dovere sempre qualcosa agli altri, ed è per questo che ogni mattina prepara
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il caffè a mia madre, pulisce la tazzina, compila la lista della spesa e sta attenta che
mio padre prenda tutte le medicine. Quando le ho fatto notare che questa intensa
devozione poteva averla anche con me, Laura ha risposto che mi ama.
Strano modo di amare, ho pensato.
Poi ha aggiunto che se a volte mi tratta male è perchè troppo coinvolta
emotivamente.
Strano modo di essere coinvolta emotivamente, ho pensato.
Poi mi ha chiesto se avevo voglia di scoparla.
Strano modo di chiudere le discussioni, ho pensato.
Ho sempre immaginato la tazza del cesso come un buco nero che inghiotte tutto
quello che gli si butta dentro e lo spedisce da qualche altra parte, ma dove non si
sa, nessuno è in grado di vedere di là dal buco. Ecco, se anche voi, come me, avete
paura di essere risucchiati nella tazza, allora vi consiglio di non usare le toilette dei
treni, e se proprio vi scappa, tenete gli occhi chiusi e non guardate quei trenta
centimetri di buio che fanno più paura di un normale wc, anche se io, a dire il vero,
non sono mai riuscito a defecare neanche nel mio bagno, no: metto un foglio di
giornale sul pavimento, ci faccio sopra la cacca, la raccolgo e la butto nella tazza,
senza guardare, con le mani sulle orecchie per non sentire il rumore dell'acqua che
scende lungo il tubo di scarico, un rumore secco, come un colpo di frusta dato
all'aria, fa paura, molta più paura di uno sparo, per dire.
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8. La prima volta non si scorda mai.
Immaginate una ragazza mora, sui venticinque, capelli ricci, occhi neri e
luccicanti, come i gatti.
Immaginate questa ragazza seduta in una cabina del Regionale Lanciano-
Pescara, con la sigaretta accesa e la musica a palla nelle cuffiette. La ragazza batte
il ritmo con i piedi, è tutta un fremito, eccitante, però stronza, così stronza che
quando una suora anziana con il volto rugosissimo e un rosario tra le dita le fa
notare che la cabina potrebbe prendere fuoco, lei la guarda come se non avesse
capito le sue parole o sentito qualcosa di assurdo. E non risponde.
La stronza number one.
Io gioco il settimo livello, molto tosto, perché al settimo livello le donne si fanno
più sfrontate, sono pezzi di fiche che farebbero sudare un Gesù Cristo in
porcellana. Una dice: «Vuoi uccidermi? Avanti, moccioso, sei solo un debole che
si sta mettendo alla prova».
La stronza number two.
Metto i pollici sui pulsanti e attorno a me tutto è silenzio, concentrazione,
solitudine. Le regole del gioco m'impongono di fare in fretta, reagire alla
provocazione, non sbagliare, non farla fuggire, non rischiare di essere costretto ad
affrontare da capo il livello, ma proprio in quel momento mi arriva il fumo sulla
faccia, il fumo della stronza.
La stronza number one.
Allora sbotto, infuriato: «Spegni quella sigaretta, per favore. Non lo sai che sul
treno è vietato fumare?»
«E se non smetto, che succede? Vuoi uccidermi?»
«Sì».
Io sono un uomo di parola. Ho sempre detestato quelle persone che dicono tanto
per dire, mosse dall'istinto o dalla rabbia. Io sono un uomo di parola e lei è una
stronza che mi ha buttato il fumo in faccia e mi ha distratto, facendomi tornare al
sesto livello.
Pochi minuti dopo l'ho seguita alla toilette.
Ho aspettato che entrasse e, mentre stava per chiudere, ho bloccato la porta con
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un piede.
Lei ha urlato: «Che cazzo vuoi?»
E io, per essere spiritoso: «Applausi per me».
Divertente, vero? Prima che si potesse rendere conto di ciò che stava
succedendo, l'ho colpita violentemente al viso con la console, ed è stata l'unica
volta che non ho usato il cazzo mitragliatore, poiché non avevo programmato
nulla.
Lei è caduta all'indietro e si è trovata seduta sulla tazza del cesso.
Applausi, applausi, applausi per me.
Ho continuato a colpirla fino a quando ha smesso di respirare. Poi mi sono
masturbato, o forse no, non mi ricordo se questa cosa di farmi le seghe sulle donne
morte è cominciata subito, o dopo qualche giorno, con i primi omicidi ispirati al
videogame, non lo so. Forse mi sono limitato a strizzarle i capezzoli, che è una
cosa che mi ha sempre mandato in estasi. Ricordo solo di avere atteso che il treno
rallentasse per saltare giù e correre nei campi.
Ricordo che pioveva.
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Pescara, con la sigaretta accesa e la musica a palla nelle cuffiette, applausi per
Fibra Fib
ra Fibra Fibra Fibra. La ragazza batte il ritmo con i piedi e sussurra le parole,
applausi applausi applausi per Fibra. È tutta un fremito, eccitante, però stronza,
così stronza che quando una suora anziana con il volto rugosissimo e un rosario tra
le dita le fa notare che la cabina potrebbe prendere fuoco, lei la guarda come se
non avesse capito le sue parole o come se avesse sentito qualcosa di assurdo. E non
risponde.
9-bis. Precisazione.
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debole e meschina e stronza che vuole togliersi lo sfizio di sapere cosa si prova ad
ammazzare, e basta che uno parli di queste cose e subito ci ritroviamo invasi da
serial killer di donne incinte.
A me le donne incinte sono sempre piaciute, specie quelle attrici che si fanno
fotografare nude su riviste di carta patinata. Non è che mi capita spesso di vedere
una figa sovrastata da un pancione, è un'immagine che pompa sangue al cazzo. Mi
ricordo di una foto di Monica Bellucci incinta e nuda, o una foto di Cindy
Crawford, o una di Sienna Miller, mi ricordo che ho avuto voglia di tutto meno che
ammazzarle, e questo dimostra la bontà del mio carattere.
Una volta mi è successo di incontrare una donna incinta su un treno, e ho subito
temuto che tutti quei sussulti sui binari potessero far male al bambino. Ho
dimenticato di avere il cazzo mitragliatore nel borsello e ho pensato che mi sarebbe
piaciuto avere un figlio, perché i figli sono la piena realizzazione della vita. Ho
pensato che se avessi avuto un figlio, avrei concentrato le mie emozioni su di lui,
avrei smesso di uccidere, e quest'ultimo pensiero ha un poco raffreddato il mio
entusiasmo per la paternità. Mi sono immaginato in uno studio televisivo, con i
riflettori puntati addosso, sudato ma composto, carismatico, mentre rivolgo il mio
intenso sguardo alla telecamera e rispondo: «Se non ho fatto un figlio è perché
volevo essere un padre presente, e questo non era conciliabile con la mia
occupazione principale. Ora vorrei informarmi con il direttore del carcere se posso
avere un paio d'ore di permesso per incontrare la mia donna e coronare l'unico
desiderio che mi è rimasto».
Pentimento: zero.
In tutti questi anni, non ricordo di avere avuto un solo momento di rimorso per le
pene provocate, neanche un dispiacere, un pensiero per le famiglie delle donne
morte, niente. Come posso essere così freddo da neutralizzare anche i dolori più
antichi e radicati dentro la coscienza, non dico solo mia, ma di tutti gli esseri
umani? Forse… probabilmente… no, sicuramente perché i videogiochi mi hanno
insegnato a pensare e agire in funzione di obiettivi che si devono raggiungere,
senza farsi troppe seghe mentali, dato che il tempo è un elemento cruciale del
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gioco, ogni secondo è prezioso. In quel mondo virtuale ho sperimentato un senso di
potere senza pari. Trasportarlo nel reale, è stato facile. E poi è evidente che
uccidere mi fa proprio trovare me stesso, quella parte di me stesso che gode della
libertà di dare o togliere la vita. Solo alcune volte, tra un omicidio e l'altro ho
avuto un dubbio, sempre lo stesso: ho pensato che per accrescere l'eco delle mie
imprese sarebbe stato meglio uccidere una donna famosa anziché tante
sconosciute. Lo prova il fatto che quando Mark Chapman ha sparato a Lennon era
un signor nessuno, ma il giorno dopo la sua faccia burrosa stava su tutti i giornali.
Eppure, in lui e in tanti altri assassini improvvisati non c'è un pensiero, un'idea, un
progetto. Si dice addirittura che, dopo aver sparato, Chapman rimase impassibile
sulla scena del crimine, tirò fuori una copia del Giovane Holden e si mise a leggere
fino all'arrivo della polizia. Quello che mi rode è che tutti si ricordano di lui,
l'assassino di John Lennon, questo tipo ha migliaia di pagine su Google ed è su
Wikipedia, Wikinvidia.
Rimane il fatto che la morte violenta di una persona famosa è sufficiente a
trasferire quella fama al suo assassino, mentre a me, per l'uccisione della stronza
number one, sono toccati un paio di giorni di anonima gloria, poi ho dovuto farlo
ancora, e ancora, e ancora. Per fortuna, quando potrò raccontare la mia storia
dinanzi a gente illustre, l'originalità del metodo di omicidio spazzerà via il ricordo
di tutti i miei colleghi. E il nome, poi: ho un nome che spacca. Su, facciamo un
test: qual è meglio? Jack lo Squartatore o l'Uomo Cazzo Mitragliatore? Il Mostro
di Firenze o l'Uomo Cazzo Mitragliatore? Unabomber o l'Uomo Cazzo
Mitragliatore? L'Angelo della morte o l'Uomo Cazzo Mitragliatore? Dài, non c'è
confronto. Avrei dovuto lasciare un bigliettino sul corpo delle vittime, ecco, sì,
questa è un'idea, un bigliettino con il nome: Uomo Cazzo Mitragliatore. Bello,
bello il nome d'arte, il mio, bello.
Mi fa rabbia che i giornali abbiano cominciato a parlare diffusamente di me solo
dal terzo omicidio. E la tv ha fatto peggio, aspettando il quarto per dedicarmi una
puntata di Criminal show. Quegli idioti mi chiamano "il mostro dei treni". Banale,
più banale non si può.
Laura non capisce perché mi interesso così tanto a quelle trasmissioni. Dice che
la televisione nutre di sangue il suo pubblico, io non so cosa rispondere. Sono
nervoso, nervosissimo. Sto davanti alla tv e ascolto il criminologo famoso: spara
cazzate, e io zitto. Lo psichiatra famoso: spara cazzate, e io zitto. L'ispettore di
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polizia famoso: spara cazzate, e io zitto. Ci sono tutti quei famosi e tutti insieme
non riescono a scoprire il collegamento tra i miei delitti e il videogioco, che poi è
la chiave per individuare il tipo di arma che utilizzo. Quelli pensano che si tratti di
una semplice mitraglietta.
Ho visto alcune foto di Charlize Theron con un top aderente e una minigonna
inguinale di pelle nera. Mi sono innamorato.
13. Una sera come tante e una nuova amica da andare a trovare.
Mia madre, seduta sul divano, fuma una sigaretta elettronica e guarda un tg
locale. Parlano di una donna che va nelle stazioni e affigge volantini di insulti al
mostro dei treni.
Penso: Ecco una stronza che non si fa i cazzi suoi.
Dico: «Un bel coraggio. Mi piacerebbe conoscerla e complimentarmi con lei».
Mamma dice: «È Paola Ciccocioppo».
«Ma chi, la nostra compaesana? La professoressa di italiano? La gente ne dice
peste e corna».
«Sì, soprattutto corna. È proprio lei, la zoccola».
«Andrò a parlarle e mi offrirò di aiutarla».
Una frase che mia madre non capisce. Per fortuna. Dice: «Che razza di pensieri,
Francesco, non ti riconosco. Sei sempre stato un egoista».
«Hai creduto che lo fossi. La mia vita è condizionata dalla brutta opinione che tu
e papà avete di me».
«Va bene, va bene. Adesso zitto che sta per cominciare il programma della De
Filippi».
Zitto, sì. Questa storia di dovermene stare zitto, o perché mi conviene o perché
mi ordinano di farlo, è una rottura di coglioni. Zitto, sì, ma prima o poi…
«Ciao, mamma».
Rimango un po' a guardarla, buttata sul divano, con gli occhi fissi sullo schermo,
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senza un cazzo di vitalità, senza un cazzo da fare, senza un cazzo, soprattutto,
perché i medici che hanno in cura mio padre gli hanno sconsigliato alcuni
comportamenti a rischio, tipo i rapporti sessuali. E così le è rimasta la tv, ed è
come se fosse lì da sempre, in compagnia della De Filippi. E quando spegne, a
notte fonda, è come se spegnesse anche se stessa.
Si addormenta.
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«Scusa, puoi ripetere? Mi ero distratta un attimo».
«Quello che uccide le donne sui treni».
«Ah, il mostro! Mi pare di conoscerlo da sempre».
«Questo è interessante».
«Cosa?»
Santissima pazienza! In certe situazioni, mantenere la calma è un esercizio
spirituale a cui un serial killer viene sottoposto per provare la saldezza della sua
vocazione.
«Paola, per favore, fermati un momento. Se continui a schizzare da una parte
all'altra della stanza, non riusciremo mai a parlarci».
«Devo togliere batteri e polvere».
«Non potresti farlo dopo?»
«E quando? Tutte le mattine se ne vanno via combattendo con i miei scolari, un
branco di mocciosi scatenati».
Schizza via, forse in cucina. Dopo pochi secondi, torna con uno straccio e, con
nevrotica rapidità, comincia a passarlo su un divano.
Dice: «Rientro a casa così nervosa che devo riposarmi un paio d'ore per non
collassare».
Poi tocca a una poltrona girevole.
«Tu non hai idea di cosa significa lavorare in una scuola pubblica».
Poggiapiedi marrone.
«I ragazzi di oggi sono molto indisciplinati, non ascoltano. Secondo me è colpa
di tutte quelle ore che passano in casa, sbattuti davanti alla tv o con gli occhi fissi
sul computer».
Tappeto a pelo lungo.
«Ti sei accorto che nessuno di loro gioca in strada? Solo televisione, computer e
quegli stupidi videogiochi».
Plafoniera.
«Non mi stupirei se anche il mostro dei treni avesse un passato fatto di tv e
videogiochi. Tu che ne pensi?»
Ecco, adesso è come se avessi ricevuto il suo straccio in faccia.
«Io… no».
«No che cosa? Ti ho chiesto se pensi che il mostro abbia passato un'adolescenza
solitaria tra videogiochi e console. Io ci giurerei».
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Quella sua domanda è fastidiosa come un ago che entra sotto la pelle. Devo farla
smettere. Resettare il dialogo.
Urlo: «Guarda là!»
«Dove?»
«Sul comodino. C'è una cacca d'uccello».
«C'è una cacca? Oh, mamma mia! Le finestre! Ho dimenticato di chiudere le
finestre, ieri notte!»
«Sì, è probabile, ma ora devo andare. Magari ripasso quando sarai meno
impegnata».
«Stai scherzando? Mi lasci sola con un uccello in casa. Ho paura!»
«Sempre meglio di un serial killer, no?»
«Che cazzo dici?»
Va a finire che sono costretto a scappare, mentre quella trottola impazzita
imbraccia una scopa e mena colpi all'aria e all'invisibile pennuto.
C'è di buono che ho capito di non avere niente da temere. Paola è solo una
donnina presuntuosa e piena di nevrosi che cerca di dare un senso alla sua vita.
15. «Sii te stesso» è la frase più usata nella storia dei consigli personali. Ma
anche la più fraintesa.
Per vivere in pace con se stessi, dico io, bisogna assecondare i propri istinti
senza farsi condizionare dalla morale cattolica, dal pensiero dominante, dagli
insegnamenti che ci sono stati trasmessi dalla scuola e dai nostri genitori. Hai
voglia di scopare? Scopa. Hai voglia di ammazzare? Ammazza. Hai bisogno di
ammazzare un uomo per scoparti la sua donna? Ammazza e scopa. Tutto questo
dovrebbe essere accettato senza la riprovazione collettiva dell'omicida, anzi
sarebbe bello che noi serial killer fossimo visti come persone veramente libere. E
invece no: sono le mamme a rovinare l'armonia tra mente e volontà, sono loro che
ci spingono alla vergogna, trasmettendoci, fin da bambini, quel fottutissimo senso
di colpa che ci prende quando rubiamo una merendina, copiamo il compito di un
compagno o, scoprendo che il pipino non serve solo a far pipì, e vivaddio,
cominciamo a spararci delle seghe, meravigliose seghe. Ecco, il vero killer
dell'umanità è il senso di colpa. Il calabrone che uccide la farfalla e la smembra, ha
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il senso di colpa? La mantide religiosa che si scopa il maschio e poi lo divora, ha il
senso di colpa? Ma perché una sola specie sulla Terra deve avere il senso di colpa?
È l'unica specie che è stata creata a immagine di Dio, dite voi.
Col cazzo, dico io.
Somiglio a Dio? Bene. Vi siete chiesti quante persone sono state uccise da Dio
nella Bibbia? Quando il Diluvio Universale sterminò l'intera popolazione
mondiale, salvando solo una famiglia, Dio fu preso dal senso di colpa? No. Fece la
cosa giusta, così ci hanno insegnato.
E allora questa distinzione tra giusto e sbagliato andrebbe riformulata. Giusto è
quando rispondi ai bisogni primari della tua psiche. Sbagliato è tutto il resto.
Vi ho convinti? No? E allora vaffanculo. Comunque la pensiate, rimane il fatto
che uccidere dà una sensazione titanica, inebriante, è un peccato non provarci, ma
se non ci siete fatti, amen.
161
17. I perché (cfr. Max Aub, Delitti esemplari).
Tutti possono premere un grilletto, spingere qualcuno nel vuoto, rompere una
testa, tirare una coltellata o, come piace a me, mitragliare alla pancia, ma solo
pochi sono in grado di rispondere alla domanda: «Perché l'hai fatto?». Io posso
vantarmi di avere sempre avuto una risposta, una per ognuna delle mie vittime. E
altre risposte avrò, spesso bizzarre, a volte divertenti, ma sincere, sempre.
La prima donna l'ho uccisa perché mi ha soffiato il fumo in faccia, e questo lo
sapete.
La seconda perché scambiò una fermata per la sua e si alzò di scatto, facendomi
cadere la console. E anche se la proteggevo con una custodia di gomma antiurto e
antigraffio, fu il gesto a incattivirmi, e il fatto che quella stronza non mi chiese
neanche scusa. Borbottò: «Queste stazioni di paese si somigliano tutte».
La terza perché mi fece incazzare dicendomi che, secondo uno studio
dell'Università del Missouri, i videogiochi fanno diventare insensibili alla violenza
e rendono aggressivi. Non ne potevo più di queste storie, e fui costretto a darle
ragione.
La quarta perché era troppo bella e la quinta perché si mise in mezzo.
La sesta perché ne avevo voglia.
Poi ci sono quelle che non ho ancora incontrato. Di loro ho scritto nel mio
quaderno dei sogni insanguinati. È un diario, parallelo a questo, dove annoto
desideri e sogni, profetici o anche no. Delitti che forse non si realizzeranno mai,
però è bello scriverne.
La settima, ad esempio, mi piacerebbe dire che non volevo ucciderla, anzi,
volevo starle lontano, perché, sebbene avesse due tette gigantesche, portava un
maglione di ruvida lana bianca che mi dava prurito solo a guardarlo. Ciò che mi
spingerà a mitragliarla sarà la sua mini cagnetta, una specie di sorcetto che
abbaierà senza sosta con un interesse eccessivo per le mie caviglie. E quando Miss
Grandi Tette mi dirà, con terribile maldestria, che i cani riconoscono le persone
cattive, non potrò far altro che azionare il mio cazzo mitragliatore.
L'ottava perché mi lusingherà dicendo che assomiglio a un attore francese. Poi
parlerà piacevolmente della sua passione per gli splatter games, e si mostrerà così
162
simpatica, ma così simpatica, attraente, amabile, che sarà un duro colpo scoprire
che il suo vero intento è quello di farmi cambiare operatore telefonico.
La nona perché la vedrò mentre s'ingozza di patatine e hamburger. Penserò che
bisogna agire in fretta, per evitare che la sua immagine di cicciona in minigonna
inguinale di pelle nera si radicalizzi nella mia testa, alterando in modo irreparabile
quel potere di visualizzazione che favorisce il compimento di eclatanti seghe.
La decima perché aprirà il finestrino senza chiedere il permesso agli altri
viaggiatori, tutti più pazienti di me.
L'undicesima perché trascorrerà un sacco di tempo a slinguazzarsi con un burino
muscoloso in jeans e canottiera. Mi sembrerà sul serio innamorata, cotta, persa, ma
quando lui scenderà dal treno, lei telefonerà a un altro e lo chiamerà «amore e
maritino mio».
La dodicesima sarà famosa e mi renderà famoso.
Poi ci sarà pure qualche uomo, forse, brandelli d'uomo, schizzi di sangue, non lo
so, ma saranno delitti occasionali, di poca importanza.
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«Per me era un uomo sensibile, educato, di buona famiglia e molto premuroso.
Una volta si è pure offerto di aiutarmi a portare in casa della legna per il camino».
Avrei dovuto ficcarteli nel culo, quei tronchi!
È così che andrà: tutto il vicinato farà a gara per dipingermi come un un uomo
affabile e per bene. Ma cosa si aspettano, che un serial killer, nelle pause di lavoro,
vada in giro a pestare i calli alle vecchiette che attraversano la strada? O lo
immaginano fuori dai supermercati pronto a tirare coltellate alle buste della spesa
di innocenti casalinghe? O l'hanno sentito inchiodare quadri alle tre del mattino? O
credono che passi il tempo libero affacciato al balcone a sputare sulle teste dei
passanti?
SERIAL KILLER. Forse si aspettano questo nome stampato in lettere rosse sulla
mia fronte. O una targhetta sulla porta di casa. Eh, sì, ciascuno ha la sua: Notaio
Tizio, Avvocato Caio, Serial killer Sempronio.
Ma andate a cagare, via!
Una volta sono tornato a casa con una macchia di sangue sui pantaloni, lei mi ha
visto e si è limitata a dire: «Da quanto tempo non li lavi?»
Sono rimasto sbalordito e ho pensato: Mettiamo il caso che Laura non sappia
niente di me, cosa direbbe vedendomi entrare in casa con i pantaloni sporchi di
sangue? Sono certo che direbbe: «Oh, mio Dio! È sangue, che ti è successo?»
Se invece sapesse che sono un serial killer, e per qualche santo motivo non
volesse denunciarmi, forse direbbe: «Da quanto tempo non li lavi?».
Prima di ammalarsi, mio padre aveva tanti amici, era sempre disponibile con
tutti e la gente del paese gli voleva un bene grande, però a casa non riusciva a farsi
amare, era un fantasma che si materializzava soltanto a tavola, poiché il resto del
tempo era impegnato al lavoro o in partite di briscola. Poi, dopo l'ictus, è rimasto
solo. Si sa come vanno queste cose, si sa come si dice: «Ridi, e il mondo riderà con
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te. Piangi, e piangerai da solo». Ora il mio vecchio deve prendere a prestito
l'allegria dalla televisione, e a volte mi supplica di accomodarmi accanto a lui.
Dice: «Vieni, stammi più vicino, perché presto morirò e forse mi rimpiangerai».
Forse, sì, però che cazzo: dopo qualche minuto torna a rompermi i coglioni con
il fatto che non ho un lavoro, che spreco la mia vita, che ho quasi cinquant'anni, e
insomma, mi fa pensare che noi maledettissimi esseri umani, anche se siamo soli
come cani, divorati dal male e col fiato della morte sul collo, anche in quei
momenti non riusciamo ad amare oltre noi stessi, mai.
21. Il mio amore per Hannah McKay e le assurde pretese dei lettori sbavoni.
C'è una serie di frasi che abitualmente le donne dicono, forse per impietosirmi.
Ad esempio: «Che vuoi farmi? Per favore, no!» oppure: «Non spararmi, ti prego!»
oppure: «Se mi uccidi, vivrai nel rimorso!» oppure: «Ho una figlia, ti supplico!».
Loro credono che quelle frasi m'indurranno alla pena, e invece no, producono
l'effetto opposto: alimentano forza e fiducia in me stesso. Ignorano, le sventurate,
che la mia maggiore fonte di piacere non è l'omicidio in sè ma la sensazione di
potere assoluto che si prova di fronte a una persona inerme.
Ieri, per dire, mi sono arrapato inventandomi una scena di Dexter: Hannah
McKay in bikini sparava a Debra Morgan. Poi si metteva una mano negli slip e si
masturbava guardandola morire. Bizzarra fantasia, non trovate? Forse a voi lettori
apparirà di cattivo gusto. O forse no. Se siete arrivati a leggere fin qui, vuol dire
che vi piacciono gli effetti truculenti, il sesso spinto, la violenza, una smaccata
impudicizia.
Sì, d'accordo, ma vogliamo più particolari, e più piccanti, dài!
State calmi. Vi accontenterò, ma prima voglio dire che non posso pensare ad
Hannah McKay senza avere un'erezione. E mi fa rabbia, una rabbia pazzesca,
sapere che un imbranato come Dexter può avere quel mammifero modello centotre,
mentre a me rimane Laura che tra un anno sarà un cumulo di ciccia come al mondo
non ce n'è.
Non ci importa niente se la tua ragazza sta ingrassando. Vogliamo Hanna e
Debra. E tutti i particolari.
I capelli di Debra erano immersi in una pozza di sangue.
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E poi?
Le braccia e le cosce nude mostravano dei graffi.
Com'erano le cosce?
Nude.
Sì… continua…
Gli occhi spalancati e terrorizzati.
Ecco… così… bravo…
La fica…
Sììì!
La fica di Debra era sporca di sangue…
Oddioohh… Mmm… O Dio Dio…
Mi fate schifo, lo sapete?
Schifo? Noi?
Ma cosa credete, che io debba soddisfarvi come una baldracca? Che cazzo di
lettori siete? Una massa di maniaci!
No!
Una massa di esaltati, folli, squilibrati.
Ora esageri. Avremo anche qualche difettuccio, ma senza i suoi lettori, uno
scrittore che cos'è? Niente.
Me ne fotto. Non l'ho mica capito perché devo assecondare le vostre perversioni!
E la fica? Eravamo rimasti alla fica…
Ma andatevene tutti a fare in culo!
Questo capitoletto poteva rivelare molto di me, della mia genuina passione per lo
studio del serialkilleraggio, del mio amore per canali tipo Pornocrime,
Fetishcrime, Compilationcrime, e per libri di poliziotti dell'FBI che hanno titoli
eccitanti, come Storie di perversioni criminali, Ossessioni sadiche, Assassini senza
pietà, Sangue e rock. Avrei voluto raccontare di quella volta che ho pensato di
staccare la testa a Laura e posarla sul tavolo della cucina, ma non per cattiveria:
giusto per sapere come avrebbe reagito mia madre nel trovare una testa
sanguinolenta al posto della marmellata di ciliegie.
Senti, in qualità di tuoi lettori vogliamo solo due cose: gran bei pezzi di fica per
i maschietti e qualche cazzo di dimensioni eccezionali per le tue ammiratrici.
Basta! Mi sarebbe piaciuto parlare di quella sera che ho visto un video di certi
guerriglieri africani che avevano tagliato con l'accetta le braccia dei loro nemici e
166
le avevano buttate in un fiume. Si vedeva proprio il corso dell'acqua con tutte
quelle braccia galleggianti. Dopo mi è venuta fame e mi sono preparato un panino
con i wurstel, sono andato su internet e ho scoperto che i wurstel di pollo sono fatti
spremendo le carcasse dei polli, e mi hanno fatto pena, i polli. Se non foste arrivati
voi stronzi a reclamare particolari sempre più agghiaccianti e sessuali, avrei detto
tante cose interessanti. Così invece mi sono bloccato. Rabbia, stop. Una cosa che
mi succede sempre è che più mi si fa fretta e più mi blocco, e non c'è niente da
fare. Con il vostro atteggiamento, vi siete persi delle cose che nemmeno lo sapete
cosa vi siete persi.
22. La terza.
167
«Mi deconcentri».
Ero nervoso. Non potevo soffrire i suoi discorsi, così maledettamente banali, e
anche il piercing sulla lingua, la bocca troppo larga, i denti troppo bianchi e, più di
ogni altra cosa, l'irritante ciuffo di capelli che le cadeva sugli occhi obbligandola a
scuotere la testa come assalita da un tic nervoso. Avrei potuto desiderare di
ucciderla due volte: una perché non la smetteva di parlare, e due per
l'arrapantissima minigonna inguinale in pelle nera, ma quel giorno avevo un
foruncolo su una chiappa che mi faceva ballare continuamente sul sedile, e il mio
solo desiderio era tornare a casa prima possibile.
«Non stai un attimo fermo, cos'hai là sotto?»
«Sei una buona osservatrice, non ti sfugge nulla».
In un eccesso di sincerità, molto insolito per me, con la speranza di farle
intendere il desiderio che avevo di essere lasciato in pace, le confermai il
fastidioso problema che mi affliggeva.
La sua risposta fu irritante come una nota stonata: «Voglio farti ridere. Lo sai
cos'è un foruncolo sul culo di un serial killer? Tumore al cervello».
Ok, basta. C'era da ammazzarla e, per fortuna, in cabina eravamo soli.
Ho detto tutto.
Charlize Theron non mi attizza più. Ho visto alcune foto dell'attrice porno Tara
Lynn Foxx e, nonostante fosse nuda, me la sono immaginata in minigonna
inguinale di pelle nera.
E mi sono innamorato.
24. Le cose che io e Laura non abbiamo in comune sono 4850, ma se le elenco
tutte m'intristisco e mi ammoscio.
Laura ama il kebab (100 grammi = 1000 calorie), le patatine fritte (100 grammi
= 148 calorie) con maionese (100 grammi = 690 calorie) e bere birra (una pinta =
165 calorie) e caffè (poco calorico ma la caffeina aumenta il senso di fame). Io
168
sono astemio, non sopporto il sapore del luppolo e se proprio devo bere un caffè,
ma se devo devo devo, sotto tortura, se proprio devo bere quell'amaro, ho bisogno
di addolcirlo con tre bustine di zucchero.
Ora voi lettori mi direte: «Ma queste piccole diversità t'impediranno di
continuare ad amarla?»
«I venti chili soprappeso forse sì. E non è tutto».
A lei piace dormire e io soffro d'insonnia: mi sveglio nel cuore della notte e non
c'è verso di riprendere sonno; vado in bagno e leggo Batman (Laura odia i
supereroi); mi faccio una sega pensando a una strafiga qualsiasi con minigonna
inguinale di pelle nera (Laura non ha mai voluto indossarla, e questa sua ritrosia le
ha salvato la vita); apro la credenza e vorrei ingozzarmi di merendine (100 grammi
= 400 calorie, e infatti Laura se l'è mangiate tutte, anche se dice che fanno venire il
cancro).
Obietterete: «Sono piccoli disaccordi».
«Nient'affatto».
A lei piace viaggiare, e anche a me, ma ho paura dell'aereo (ovviamente, lei odia
il treno), così è difficile organizzare un viaggio senza litigare.
Insisterete: «Piccole opposizioni che vivacizzano un rapporto».
«No, lo stroncano».
Lei sorride quando facciamo l'amore, mentre io mi concentro sui suoi rotoli di
ciccia e mi viene da piangere.
Mi direte: «Ma sei cattivo».
«Nel mio lavoro conta».
«Che lavoro?»
Lei preferisce il cinema alla Tv, i libri ai videogiochi, i concerti dal vivo ai cd,
una telefonata a una mail.
«Questa Laura ci sta diventando simpatica».
«Non lasciatevi andare a giudizi affrettati. Conoscendola meglio, capirete che è
anche una persona falsa».
Se alle 8 del mattino una coppia di Testimoni di Geova suona il nostro
campanello per annunciarci la fine del mondo, io penso istintivamente al cazzo
mitragliatore, mentre lei li accoglie con un sorriso e dice: «Sono cattolica ma
apprezzo la vostra dedizione. Adesso però sto per cambiare il catetere a mio nonno
e non posso darvi retta. Grazie, buona giornata».
169
Se due stronzissimi venditori del cazzo di una stronzissima azienda energetica
del cazzo bussano alla nostra cazzo di porta, io non desidero altro che spalmare le
loro cazzo di budella in terra, mentre lei li accoglie con un sorriso e, da vera
pinocchia, dice: «Sono in affitto e il padrone di casa mi ha tassativamente vietato
di cambiare operatore. Però ci tenevo a dirvi che apprezzo il vostro lavoro e il
coraggio che avete nel rimboccarvi le maniche nonostante la crisi. Adesso però
devo allattare i miei tre gemelli e impegnarmi nel difficile compito di essere una
buona mamma. Grazie, buona giornata».
Mi direte: «Inutile che t'impegni a screditarla. Questa Laura ci sta diventando
sempre più simpatica».
«Ma non riuscite a stare zitti?».
Per finire, ci sono tutte quelle cose che io e Laura non avremmo in comune se lei
dicesse la verità quando dice, per esempio, che non ama giudicare e condannare
(falso: sta sempre a giudicare e condannare ogni cosa che faccio). O quando dice
che il bello della coppia è accettare le piccole imperfezioni del partner senza farne
motivo di scontro (falso: anche un mio capello lasciato inavvertitamente sul lavabo
è un motivo di discussione). O quando dice di non sopportare quelli che per un
leggero mal di testa vogliono essere accuditi come bambini (proprio lei, che mi
sveglia nel cuore della notte supplicandola di andare in bagno per prenderle una
pillola).
Anche ieri, ormai lo fa da mesi, mi ha accusato: «Non sei affettuoso come
quando ci siamo conosciuti».
«Non ero affettuoso» avrei voluto risponderle. «Volevo scopare». E invece ho
detto: «Cosa?»
«Non sei affettuoso e pure sordo».
Avrei voluto dirle tante cose, per esempio che se uno deve fare l'amore con la
stessa donna per trent'anni senza ammosciarsi, è meglio chiudere gli occhi e
immaginare di farlo con donne sempre nuove, e se uno deve sopportare la stessa
donna per trent'anni senza avere il desiderio di ammazzarla, è necessario
ammazzarne tante altre, pensando ogni volta che sia lei.
24. Zitti tutti! Sto ascoltando mio padre che guarda la tv e dice a mia madre…
170
«Sono persone pericolose».
«Di chi stai parlando?»
«Delle ragazzine che si mostrano nude in televisione. Farebbero qualsiasi cosa
per diventare famose. Anche ammazzare».
«Oh, per l'amor di Dio! Capisco che qualcuna possa andare a letto con un regista
o un produttore…»
«Ammazzare, ho detto».
«E chi potrebbe spingersi a tanto?»
«Le aspiranti veline, i ragazzi del Grande Fratello, e anche quelli dei talent
show. Ma li senti cosa dicono? "Il mondo dello spettacolo è la mia vita". E per la
propria vita si potrebbe anche finire quella degli altri, non credi?»
«Come la fai tragica!»
«Parli così perché nostro figlio non ha mai avuto un briciolo di aspirazione».
«Lascia stare Francesco. La tua mancanza di stima lo avvilisce».
«Ah, sì? Ed è per questo che a cinquant'anni dobbiamo ancora passargli la
paghetta? Perché è avvilito?»
Sì, avvilito. Dopo avere sentito questa avvilente discussione, sono andato via
avvilito. Su Google ho cercato il significato etimologico della parola e ho scoperto
che avvilire può anche voler dire rendere vile, togliere valore. Oh, cazzo! Una
carriera da serial killer non è compatibile con la viltà.
Ho avuto degli attimi di vero… di autentico… come dire… di profondo… non
mi viene la parola. Poi ho capito che vile non è sempre sinonimo di vigliacco ma è
usato per rappresentare una persona di scarso o nessun valore morale e
intellettuale, quindi incapace, inetto.
Io, per mio padre, sarei incapace e inetto.
Questo mi avvilisce.
25. X.
Se c'è una cosa che non posso assolutamente accettare di Laura è il rifiuto di
capire che l'odio unisce più dell'amore.
Faccio un esempio: io odio l'attore X (ha recitato in tanti di quei film che
dev'essere per forza un bravo attore, ma lo odio, non so perché: ogni volta che lo
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vedo mi viene l'alito cattivo). Se anche Laura odiasse X, allora avremmo qualcosa
che ci unisce: l'odio per X (voi non ci crederete, ma pronunciare quel nome, X, X,
mi dà la sensazione di avere una radio mal sintonizzata accesa in testa. Mi dà la
nausea da ronzio elettronico).
«Lo odio, Laura».
«Ma che t'ha fatto?»
«Niente, non lo so».
«Io lo trovo simpatico».
«Ma che cazzo dici?»
«Sì, insomma, mi piace un po' perché ha la faccia da cane bastonato. A me
piacciono gli attori con la faccia da cane bastonato».
«Ma vaffanculo i cani e gli attori cani. Vaffanculo».
«Non puoi essere tu a dirmi chi mi deve piacere e chi no».
Sa farlo apposta, Laura. Sa farmi incazzare, se vuole. E ogni volta che in tv c'è
un film con quello là, viene da me e dice: «Questo non possiamo vederlo, vero?
C'è X».
Lo dice con un tono che nemmeno quello là riuscirebbe a usare un tono così
acido, sferzante. Così del cazzo.
E questa è Laura.
P.S.
Volevo scriverlo il nome dell'attore X, volevo dirlo che il suo nome è Xxxxxxx e
il cognome è Xxxxxxxxxx, ma non l'ho fatto perché l'attore Xxxxxxx Xxxxxxxxxx
è così stronzo e famoso che se in futuro ci chiameranno in un talk show, potrebbe
dire: «Vengo volentieri a patto che non ci sia quella testa di cazzo di Francesco».
Ci sono giorni che sento delle voci nella testa, e dicono: «Sei invidioso perché i
famosi hanno i soldi che tu non hai. Sei invidioso perché i famosi hanno il
successo, le copertine dei giornali. Sei invidioso perché vorresti stare in loro
compagnia».
Io rispondo: «Non è vero. Penso invece che i famosi invidiano la mia libertà di
172
passeggiare in centro senza essere disturbato da fanatici ammiratori, esperti di
gossip, ragazzine strillanti e altra gente frustrata che rompe i coglioni».
Le voci dicono: «Nel centro di Caceovo ci vanno a passeggiare solo i cani
randagi».
Dico io: «È vero, ma i famosi mi invidiano anche perché sanno che vivere con
poco fa bene all'anima».
Le voci ridono e mi prendono per il culo: «Ma dove le hai lette queste cazzate,
sull'Eco di Sant'Antonio?»
Allora io vado sui social e mi sfogo insultando le persone famose, perché è
l'unico modo che conosco per mettere a tacere le voci.
A un presentatore televisivo ho scritto: «Sei una testa di cazzo, e come il cazzo
stai sempre tra le palle».
A un'attricetta ho scritto: «Sei così troia che la tua patata ha le recensioni su
TripAdvisor».
A un cuoco ho scritto: «Il tuo nuovo programma è utile come una forchetta per
mangiare il brodo».
A un romanziere ho scritto: «Avevo problemi di stitichezza, ma appena ho letto
una pagina del tuo libro mi sono passati».
Insultare i famosi è meglio del Prozac: allontana le ossessioni e mi calma.
È una buona medicina, ma fa incazzare Laura che dice: «Smettila o ti becchi una
querela».
Certo che se mi becco una querela io, cosa dovrebbero fare a quel tipo che ha
aperto una pagina Facebook per dire che un noto cantante mangia la merda? Io
insulto tutti, ma quel cantante proprio no, perché basta guardarlo in faccia e si
capisce che è buono e non farebbe male a una mosca. Neanche alla mosca che
venisse a rubargli la merda.
27. Sul cesso, aspettando di cagare, c'è chi legge e c'è chi scrive.
Se penso alla mia vita, ci trovo dei momenti di autentica disperazione, così
evidenti che rimangono impressi, tipo per il fatto di non avere mai avuto un amico,
credo sia un record da Guinness dei primati delle vite di merda, e mi dispiace che,
quando sarò famoso, i lettori penseranno che la mia vita è piena di tutti gli errori
possibili, e anche la mia scrittura è piena di tutti gli errori possibili, tipo il vizio di
scrivere periodi lunghissimi senza metterci un punto, come se ogni frase fosse un
173
serpente che si attorciglia al corpo del lettore, pure questo è un vizio da cui
nascono pessimi romanzi.
Ho fatto la cacca gialla, cazzo.
Il mio quarto omicidio l'ho fatto che era freddo, troppo freddo, freddo fuori e
pure in treno, per il mancato funzionamento dell'impianto di riscaldamento.
Ricordo questo particolare perché proprio quella mattina, ricordo anche la data: 7
dicembre, avevo letto su un giornale che in caso di guasto dell'impianto di
climatizzazione i passeggeri hanno diritto al rilascio di un bonus pari al 25% del
prezzo del biglietto. E mi è molto dispiaciuto rinunciarci, ma io su quel treno non
ci sono mai salito, cioè: ci sono e non ci sono mai salito, mi capite? Questa cosa
del mancato rimborso si è piantata come un chiodo nella testa, e anche un'altra,
un'altra cosa, un dispiacere: come ho potuto accanirmi su una ragazza in
minigonna che tremava per il freddo? Avrei dovuto essere gentile, dirle: «Posso
offrirti la mia giacca da poggiare sulle gambe?»
E lei: «Non m'importa della giacca. Ho freddo al cuore».
Io: «Allora posso offrirti le mie labbra da poggiare sulle tue».
Che poeta! Impossibile resistermi.
O anche no? Forse la ragazza avrebbe reagito con fastidio: «Non fai ridere
manco una iena. Lasciami stare».
Sono così bravo a farmi dei film mentali in cui va tutto male. Sono film, in verità
non dissi niente. Intirizzito dal freddo e dall'umidità, ebbi l'idea sciagurata ma
irresistibile di fare in fretta.
Scaldai l'aria con il fuoco del mio cazzo mitragliatore. Per il freddo, certo, ma
anche perché ero sicuro che nessuno mi vedeva. Ero sicuro e mi sbagliavo.
Sfiga.
Una donna incappucciata, incappottata, entrò all'improvviso. Una cicciona con
pantaloni da sci neri, scarponi con il pelo, non un centimetro di coscia nuda.
«No, ti prego… non uccidermi, no!»
«Ottimo» le dissi. «Supplicami. È questo che mi fa eccitare».
«Aiuto! Aiuto!»
174
Provò a scappare. E che potevo fare?
Taratatatata.
La verità è che le persone a volte si trovano nel posto sbagliato.
P.S.
Ogni Uomo Cazzo Mitragliatore che lotta per migliorare se stesso sa che prima
di ogni omicidio deve riflettere a lungo sui propri errori per azzerare la possibilità
di commetterne di nuovi. Ecco, a me pare di non essere simpatico e attraente
nell'approccio con le vittime e questo è penalizzante, cazzo se lo è, specie quando
incontrerò donne famose che hanno stili di vita liberi e trasgressivi ma sono
diffidenti con chi non è del loro giro.
Non si arrende.
Se l'avessi tra le mani, le direi: «Ho mai pensato di conficcarti un coltello nella
schiena, tagliarti la giugulare con una rasoiata, spingerti sotto un'auto in corsa,
spararti, soffocarti? Ci ho mai pensato? No. E allora mi spieghi perché cazzo ce
l'hai con me? Mi spieghi perché il quartiere della stazione è pieno di volantini che
mettono in guardia i passeggeri dal pericolo di incontrare il mostro dei treni?
Perché non tieni a freno la tua indole di giustiziere in gonnella? Perché hai deciso
di sostituirti alla polizia? Non ti accorgi che stai inciampando in qualcosa di più
grande di te? Non ti accorgi che sarebbe molto meglio, ma molto, molto meglio se
mi lasciassi lavorare in santa pace?»
Un omicidio tira l'altro, e l'altro, e l'altro ancora. E io, tra un omicidio e l'altro e
l'altro ancora, sto a chiedermi: perché? Per il sogno di diventare famoso? Per
l'orgoglio di essere riconosciuto come l'inventore di un'arma originale? Per fare
voltare tutte le persone a guardarmi mentre entro in un'aula giudiziaria? O ci sono
altri motivi, più profondi, che nego persino a me stesso, tipo l'odio per mio padre?
175
No, fino a quel punto no. Maltrattamenti infantili? No. Necrofilia e necrofagia?
Non scherziamo. Coprofilia e coprofagia? No. Pedofilia? No. Vampirismo? No.
Sadismo, ossessioni religiose? No, no!
Io sono diverso dagli altri miei colleghi. Diverso, originale nel desiderare il
coronamento di tutti i miei sogni di aspirante serial killer della gente famosa.
Qualche psichiatra potrebbe accusarmi di misoginia maligna, ma io amo le mie
vittime, le loro minigonne inguinali, i loro occhi strabuzzati che chiedono perdono.
E come mai non mi stanco di versare sangue, se sono così sentimentale? Perché
devo studiare, sperimentare, prepararmi al momento in cui avrò davanti una
famosa, una star. E anche perché è l'unica cosa che so fare.
Posso forse duettare con Rihanna? No. È molto più semplice uccidere Rihanna.
Posso scrivere romanzi come Joanne Rowling, l'autrice di Harry Potter? No. È
molto più semplice uccidere Joanne Rowling, l'autrice di Harry Potter. Mi sono
spiegato? Non è mica difficile, lo diventa perché voi associate il concetto di fama a
una qualche rettitudine morale. Non posso credere che qualcuno pensi ancora che i
famosi abbiano raggiunto i loro privilegi grazie alla passione e alla dedizione che
hanno messo in quello che facevano. Ma fatemi il piacere! Il mondo è pieno di
raccomandati. Solo un serial killer può essere giudicato per ciò che fa. Solo un
serial killer. Ve l'immaginate un serial killer che si fa raccomandare dal politico di
turno o trovi qualcuno che gli sbrighi il lavoro? Ve l'immaginate? No, è
impossibile.
31. Io non temo la concorrenza perché il mio percorso verso la fama è unico.
I serial killer attualmente attivi nel mondo sono più di quattrocento. Che faccio?
Mi cago addosso?
Me ne fotto! Io non temo la concorrenza perché sono originale in quello che
faccio. Non temo la concorrenza perché prima di cominciare mi sono chiesto che
cosa avrebbe potuto differenziarmi da tutti gli altri serial killer. E qual è il
particolare che mi rende unico? Il Cazzo Mitragliatore.
176
Un treno è lanciato a tutta velocità nel buio.
Mi piace.
Fuori piove, è una notte tempestosa. Fulmini e tuoni.
Mi piace.
Una donna corre da un vagone vuoto all'altro. Cerca di salvarsi da un assassino.
Mi piace.
Una carrozza dietro l'altra, nessun passeggero, tranne lei e l'assassino.
Mi piace.
La donna ha una minigonna inguinale…
Mi piace.
…di colore giallo oro.
Non mi piace!
Possibile che al maestro del brivido non sia venuto in mente che l'unico colore
adatto a una minigonna inguinale è il nero? Nera la minigonna e rosso il sangue:
un abbinamento perfetto.
I film di Dario Argento sono un miscuglio di momenti di alto livello stilistico e
cadute imbarazzanti. Mi sembra che a volte lo fa apposta a farmi incazzare, vuole
mettermi alla prova, ma niente, niente scalfisce il mio amore. Lui mi prende per il
culo e io lo amo, amo i suoi film, e questo più di tutti, Non ho sonno. È naturale: se
fossi un ballerino andrei pazzo per La febbre del sabato sera. Ma sono un serial
killer e amo Non ho sonno, amo la scena della donna uccisa sul treno, fra le più
belle del cinema mondiale.
E chi non è d'accordo, non capisce un cazzo.
33. Loop.
Ci sono notti che mi sento sospeso a un filo interiore, ho paura, una tremenda
paura di lasciarmi andare al sonno.
Mi succede questa cosa che è come avere l'impressione di cadere nel vuoto
mentre sto dormendo. Mi succede dopo un mese o due che non uccido e penso che
la mia vita non sarebbe niente senza il ricordo dell'odore del sangue, un odore
molto forte, un odore di ferro. E quando con il tempo l'odore si allontana e diventa
177
impercettibile, una parte di me, della mia testa, comincia a gonfiarsi e a sibilare
orrendamente parole che mi rimbalzano nel cranio: «Uccidi, uccidi».
Se riesco a zittire le voci, di solito non prima delle quattro del mattino, ecco che
la testa mi ritorna leggerissima, un'immensa palla vuota, il corpo leggerissimo, e
mi sento sospeso a un filo, ho una tremenda paura di lasciarmi andare al sonno. Mi
pare di star lì, a ciondolare, fino a quando il peso diventa insostenibile e il filo si
spezza.
34. Giapponeserie.
Perciò torniamo alla mia occupazione principale. Eravamo rimasti che dovevo
compiere un nuovo omicidio. Tutto era stato programmato, pianificato e pronto per
essere consumato nel medesimo modo. Sarei salito sul Lanciano-Pescara delle
21,30 indossando il mio cazzo mitragliatore. Avrei occupato la penultima carrozza
perché l'ultima è piena di prostitute nigeriane e ce n'è sempre una o due che
indossano il mio capo preferito. Avrei aspettato che la mia vittima andasse in
bagno e il resto lo sapete.
Nella storia del serialkilleraggio, centinaia di colleghi si sono distinti per
l'uccisione di prostitute e drogati, e qualcuno si è pure guadagnato il rispetto della
gente, ma per me la scelta di una prostituta non era dettata da ragioni morali o
dalla voglia di affermarmi come un pulitore dei bassifondi della società. A me
interessa che il mio nome diventi economicamente appetibile per lo show business.
Interviste, trasmissioni, articoli, convegni, ricerche sociologiche, dibattiti,
178
addirittura un film. Quello m'interessa.
La sera prima avevo oleato la mitraglia e con la solita impazienza angosciosa mi
accingevo ad andare a letto. Mi venne voglia di pisciare. Andai in bagno e mi
accorsi che il cazzo, quello vero, stava ardendo. Non avevo mai provato una
sensazione simile. Al passaggio della pipì lanciai un urlo lacerante.
«Che succede?» gridò Laura, entrando di corsa.
«Ho male al cazzo».
«Com'è successo?»
«Non lo so».
«Ti sei fatto una sega? È questo che hai fatto mentre dormivo? Peggio per te».
Per Laura una sega è un tradimento, ha questa fissa. Per me invece è l'ansiolitico
più sano e rilassante che si possa desiderare.
«No, Laura. Non mi sono masturbato. Il problema è che ho una torcia infuocata
tra le gambe».
«Potrebbe essere una brutta infezione. Forse è il caso di farti vedere da un
dottore».
«No, no, lasciamo stare, passerà».
«Tu credi?»
Una terribile fitta rispose per me.
«Va bene, andiamo».
Vi risparmio le sei ore di attesa al Pronto Soccorso, il disgusto per il racconto
della poveretta che sedeva accanto a me, una donna che aveva trovato una coda di
topo nello yogurt alla crema e temeva di essere rimasta contagiata da qualche
brutto virus. Tralascio la descrizione del mio stato d'animo, eccetera eccetera, la
lagna interiore, lo scontento, la grande incazzatura al pensiero che il nuovo
omicidio sarebbe saltato, tutte cose che vi farebbero chiudere con me spedendovi
tra le pagine di un romanzo buonista dove i personaggi affrontano le avversità e
qualsiasi cosa terribile gli accade con il sorriso sulle labbra e la convinzione che la
vita è bella e vale la pena di essere vissuta.
Vi dico solo che mi diedero un antinfiammatorio e il consiglio di farmi vedere
da uno specialista.
Anche i testicoli pulsavano per il dolore, camminavo a fatica. Ma la cosa più
angosciante fu la consapevolezza che il mio cammino verso la gloria avrebbe
subito una brusca interruzione.
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The show must go on… sì, 'sto cazzo!
Passarono giorni.
Settimane.
Mesi.
Passò un anno di andate e ritorni da un andrologo, almeno venti volte. Prendevo
il treno per Pescara e, rimpiangendo i bei giorni del taratatatata, l'ammazza e fuggi,
entravo in bagno e mi facevo una sega in modo da presentarmi al dottore con un
campione di sperma da esaminare.
Infine, ricevetti una diagnosi: probabilmente, con valide ragioni ma senza
certezza, perché la medicina procede sempre per errori e correzioni, ero stato
infettato da un batterio che si riproduce nelle mucose dei genitali e causa dolore
mentre si urina, gonfiore ai testicoli e perdita di pus dal cazzo.
Pertanto, prima complicazione, mi era stato ordinato di avere rapporti protetti.
Preservativo, a noi!
36. Quando sarò famoso, il racconto della lotta per indossare il maledetto guanto
fornirà lo spunto per una scena tragicomica del film sulla mia vita.
180
splendide città, ma non è riuscito a inventarsi un preservativo più facile da
indossare.
«Non sei più un ragazzo» dice Laura.
«Ma no! Se non fosse per questo maledetto coso…»
«Sono triste, Francesco. Mi viene in mente una frase che ho sentito in tv. Uno
scrittore ha detto che invecchiare significa passare dalla passione alla
compassione».
Io sto zitto, sempre zitto, ma ho lo sguardo di un cane castrato, perché so che su
questa tremendissima certezza Laura comincerà a preferirmi i 22 cm di mister
Lattice.
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fiutare come segugi, percorrere i luoghi del delitto, immaginare, pensare,
ipotizzare. Dicono che scrivere non è tenere il culo su una sedia, e se lo dicono
parlando da una scrivania all'altra.
In quei giorni ho letto tanto. Ho letto Nella mente del serial killer, di John
Douglas e Johnny Dodd, sottotitolo: La storia vera di trent'anni di caccia a Btk, lo
strangolatore di Wichita. Ho letto I buoni lo sognano i cattivi lo fanno di Robert
Simon, sottotitolo: Psicopatici stupratori serial killer. Ho letto: Serial killer
italiani, di Gordiano Lupi, sottotitolo: Cento anni di casi agghiaccianti da
Vincenzo Verzeni a Donato Bilancia. Ho letto Nati per uccidere, di Christopher
Berry-Dee, sottotitolo: Conversazioni di un criminologo con alcuni tra gli
assassini seriali più feroci della storia.
Un giorno mia madre mi ha chiesto perché leggessi tutti quei libri sui serial
killer, e ha aggiunto che, da ragazza, quando voleva imparare a cucinare, leggeva
libri di cucina.
Vale per tutti: quando stiamo male, una delle cose più odiose che possa capitarci
è avere al fianco qualcuno che ci chiede insistentemente: «Come stai?».
Vale per me: quando sto male, la cosa più odiosa che può capitarmi è avere
Laura che mi dice che l'amore è controllare le persone care quando stanno male.
Mi spiego meglio.
Alle sette e dieci del mattino Laura mi ha svegliato per chiedermi se durante la
notte avevo avuto dolore.
Alle sette e sedici ho guardato l'orologio perché Laura me lo ha chiesto di
nuovo.
Alle sette e diciotto mi ha consigliato di cambiare medico perché è un mese che
soffro e non posso andare avanti in questo modo.
Alle sette e diciannove ha precisato: «Lo dico per te».
182
Alle sette e ventuno ha chiesto: «Hai preso l'antiinfiammatorio?»
Alle sette e ventidue ha chiesto ancora: «L'hai preso o no?»
Qualche secondo dopo, nonostante le avessi risposto di averlo preso in perfetto
orario, mi ha rimproverato: «La prossima volta non ti scordare, eh».
Alle sette e venticinque ha detto: «La pillola funziona? Hai fatto la pipì? Il
dolore è calmato?»
Alle sette e ventisei ha detto: «Forse dovrei prendere una settimana di ferie per
assisterti meglio».
Alle sette e ventisei e ventiquattro secondi ha detto: «Non capisco perché cazzo
ti ostini a non volermi accanto! Ora vado al lavoro, ma tieni il cellulare acceso».
Io sono convinto che a Laura non gliene importa un cazzo di me e del mio
problema. Certo, vorrebbe che guarissi. Ma con quel fare da infermiera psicopatica
dimostra solamente il suo terrore di trascorrere il resto della vita con un malato.
E non finisce qui.
Alle otto e dodici, squilla il telefono.
Stacco, mi sono rotto.
Alle otto e trentadue, qualcuno suona alla porta.
Mia madre va ad aprire. Dice: «E tu che ci fai qui? Non dovresti essere al
lavoro?»
Sento un tonfo. So cos'è: la borsa di Laura lanciata con violenza sul divano.
Laura.
Laura.
Laura.
Si fionda in camera mia, urla: «Ti ho chiamato un centinaio di volte. Volevo
sapere come stavi. Ma perché cazzo non rispondi?»
40. Amici.
Ho riletto quanto ho scritto finora, delitti a parte, e ho notato che una cosa salta
agli occhi del lettore: non ho un amico. Cioè, cazzo, io lo so benissimo che molti
serial killer non hanno amici, ma questo assomigliare agli altri mi fa sentire
depresso, confuso nella massa dei mediocri. È come essere una faccia fuori fuoco
in una foto da buttare, una foto che nessuno guarderà.
183
«Ma smettila di piangere» mi dico. «Non è che banalmente, molto banalmente,
mi ha fregato la noia? Sono sicuro che se avevo degli amici con i quali divertirmi,
fare viaggi memorabili, andare in discoteca o alla partita, allora li avrei fatti questi
viaggi memorabili, sarei andato in discoteca o alla partita, invece di farmi venire
delle voglie pericolose, prendermi una fissa per un videogioco violento,
ammazzare le donne sui treni, e, cazzo, cazzo, no: raccontare tutto in un romanzo!
Ma chi li legge più i romanzi?»
Mesi e mesi di farmaci e non riuscivo a guarire. In questi casi uno che fa?
Cambia medico.
Prenotammo una visita a Pescara dal dottor Luiso, specialista in urologia, ma
quel dottore mi sembrò subito uno scemo perché non riusciva a pronunciare in
modo differente l'sc e l'ss, e stava lì a ripetere il mio nome storpiandolo in:
«Francesso, quanti anni hai?», «Francesso, parlami dei tuoi disturbi», «Francesso,
che lavoro fai?», e già quest'ultima domanda mi fece venire voglia di ammazzarlo,
ma c'era Laura con me e ci sarebbe rimasta male.
Comunque, il dottore scemo disse che, con i miei sintomi, piuttosto che un
batterio avevo un'uretrite, o forse no: una cistite interstiziale, o forse no:
un'endometriosi vescicale, o forse no: un ingrossamento della prostata, o forse no:
una reazione allergica al materiale degli indumenti intimi, o forse no: un cancro.
«Ma non allarmiamoci, Francesso, eh, non allarmiamoci».
Per non spaventarmi troppo, si mise a raccontare che solo una persona su
qualche migliaio ha un cancro per quei sintomi, e io pensai che anche una ragazza
su qualche migliaio viene uccisa sui treni da un serial killer con il cazzo
mitragliatore, e insomma, questa deduzione mi demoralizzò così tanto che la sera
stessa il dolore divenne insopportabile, un dolore lancinante. Ricordo di essere
rimasto sveglio tutta la notte con le mani sullo scroto a pregare il beato Carlino da
Balsamo, che è l'unico santo possibile per me, visto che prima di convertirsi ed
entrare in convento era stato un bravo killer.
Il dottore mi diede un antibiotico. Disse: «Ci vediamo tra un mesetto. Se non ti
serve la fattura, sono centocinquanta euro».
184
«Cento…?»
«Centocinquanta. E mi raccomando: niente drammi».
Fu un momento di imbarazzo. Laura mise mano al portafoglio con lo sguardo di
chi pensa: «Centocinquanta è un dramma».
185
43. Dottor Ironi, su consiglio del marito della zia del capo di Laura.
Lo sapete che fine ha fatto er sor Tranquillo? Ha fatto una brutta fine. A Roma lo
sanno tutti perché la storia si racconta, e invece a me non l'hanno raccontata ma
fatta vivere di persona e, cazzo, lo sapete o no?
A forza de sta' tranquillo, prima l'hanno incarcerato e poi l'hanno inculato.
Io mi sono salvato dal carcere.
Il dottor Ironi mi fece stendere su un fianco e indossò un guanto. L'idea che si
apprestasse a lavare i pavimenti non mi sfiorò neppure.
Come temevo, inserì un dito nell'ano e, dopo qualche minuto di silenzio (se fossi
uno scribacchino mestierante direi che in quei minuti vidi passarmi tutta la vita
davanti agli occhi), mi consigliò un'ecografia prostatica transrettale, concludendo:
«Ma non allarmiamoci, Francesco, eh, non allarmiamoci».
Allibita, Laura chiese: «Che cos'ha?»
«Per il momento, una prostata ingrossata. Sembra quella di un ottantenne».
Giuro, ho avuto tanti dispiaceri nella vita, ma scoprire che un organo, e
sicuramente altri, avevano un'età molto più vecchia della mia, questo era un
dispiacere che li batteva tutti.
Era un tormento.
Era una pena.
Era il ragionevole sospetto che sarei morto prima di diventare famoso.
Ma noooooo, pensai, muovendomi veloce verso l'uscita. Se la morte mi alita sul
collo, io devo correre più forte della morte.
«Duecento» disse il dottore, correndomi dietro.
44. L'ecografista Vacca, su consiglio del capo del marito della zia del capo di
Laura.
Transrettale, lo dice la parola stessa, vuol dire che "attraversa il retto", ma c'è
modo e modo di vivere un attraversamento, e se penso alle emozioni fortissime che
mi attraversano la mente quando vedo una ragazza in minigonna inguinale di pelle
nera, ecco, quello è un bell'attraversare, eccitante, appassionante; ma una sonda
ecografica che mi attraversa il culo mentre sto a chiappe nude con uno sconosciuto,
no, non è la stessa cosa.
186
«Un esame indispensabile» disse Vacca, esplorando le mie profondità con la
supponenza di chi si crede il padrone della scienza perché ha il potere di incularti,
e devi pure dirgli grazie. «Un esamuccio fastidioso ma indispensabile».
«Cosa vede?» chiese Laura.
«La prostata di un vecchio, molto ingrossata, con tre noduli di ipertrofia e una
formazione cistica. Ma non allarmiamoci, Francesco, eh, non allarmiamoci».
A questo punto, allarmati più che mai, io e Laura capimmo di dover prendere
appuntamento con il Professorone dei Professoroni, quello che Ugo Fantozzi
avrebbe chiamato il Prof. Dott. Dir. Sanitar. Gran. Fig. di Putt. Pezz. Di Merd.
Giuliano Giuliancane, più volte inquisito per tangenti e molestie sessuali, sempre
misteriosamente assolto ma, a detta della moglie del capo del marito della zia del
capo di Laura, il solo e unico dottore in grado di guarirmi.
Un pizzico caruccio, a dire il vero: 800 euro. Ma si sa che, al giorno d'oggi, se
un malato vuole continuare a vivere, deve rinunciare a sopravvivere.
44. IL PROFESSOR-ONE.
187
sua qualità poteva anche rotolare nello scarico del cesso senza che il mondo ci
perdesse granché, perciò risposi: «Cosa devo fare?»
«Una nuova transrettale. Prenda appuntamento con questo mio amico. È un
ecografista molto bravo e quantomeno avremo dei dati certi dai quali partire per
ragionare sul suo caso».
Questa breve chiacchierata ci costò 800 euro, ma in compenso lo stronzo
affermò che gli incontri successivi sarebbero stati considerati visite di controllo,
con un esborso di soli 650 euro.
Quindici giorni dopo fummo ricevuti dal nuovo ecografista, dal quale ricevetti
questa diagnosi: «Prostata ingrossata, con tre noduli di ipertrofia e una formazione
cistica» e un consiglio: «Non allarmiamoci, Francesco, eh, non facciamo gli
ansiosi. Giuliano Giuliancane è il migliore nel suo campo e certamente troverà il
farmaco giusto».
Intanto, ecografia: 140 euro.
45. Pravda.
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non vuoi più sesso delle femmine. Però tu vergogna a confessare».
«Ma signora, mi sta dicendo che sono diventato omosessuale?»
«Contrario. Tutti omi sono sessuali. Ma tu diverso: tu non vuoi più scopare».
Una frase straordinaria, illuminante, che mi aprì d'un tratto l'intelletto.
Per capire mesi e mesi di inguaribili dolori, mi bastò sostituire la parola scopare
con la parola uccidere.
La verità si introdusse in me come una linfa velenosa nelle vie del sangue, negli
umori, e infine nella mente: mi ero ammalato al cazzo perché non volevo più
uccidere le donne con il mio cazzo mitragliatore.
46. Conciliabolo.
189
«La più sciroccata di tutte. Avanti, parla».
«La mia idea è…»
«Sbrigati a dirla!»
«Sì, aspetta… ce l'avevo qui, sulla punta di un neurone… mi sono
dimenticata…»
«Lo sapevo che non ci si poteva fidare!»
«No, ci sono! La mia idea è di sbattersene il cazzo».
Le altre parti, tutte insieme, si stupirono: «Cioè?»
«Sì, sbattersene il cazzo. Mi spiego meglio: avete presente un bambino che vuole
disperatamente un giocattolo e piange? Cosa succede se la mamma non
l'accontenta? Il bambino si calma e non ci pensa più».
«E dunque?» chiese una delle tante parti.
«Dunque, tu, cioè io, cioè noi, cioè tu… continua a uccidere. Il cazzo ti farà
male perché è così che vuole dirti di smettere, ma poi, come un bambino
capriccioso, quando capirà che non c'è modo di ottenere ciò che vuole, si calmerà».
Ci fu un lungo momento di silenzio.
Troppo lungo, come se le parti trattenessero il fiato.
Poi, all'improvviso, esplosero in un applauso scrosciante che fece tremare la mia
testa, tutta intera.
47. Inutile.
Spiegarvelo sarebbe inutile. Se viaggiando in treno, non avete mai visto una
ragazza sui vent'anni che si siede di fronte a voi: minigonna, cosce burrose,
oscurità della vagina… no, non capireste.
Sono sicuro che per voi Ezechiele Lupo è un personaggio squallido, più che
detestabile.
Sono sicuro che non avete mai sperimentato l'ebbrezza che hanno i lupi, quella
mescolanza di esaltazione e vertigine di morte che si prova di fronte a una preda.
Sono sicuro che non approvereste, se vi dicessi che ho pensato: Fantastico. Una
porcella si consegna a Ezechiele.
Taratatatata.
E non ho voglia di raccontarvi altro.
190
Ta.
48. Nella cassetta degli attrezzi dell'Uomo Cazzo Mitragliatore, non dovrebbe
mai mancare la prudenza, anche verbale.
A pranzo Laura aveva la faccia seria, troppo seria. La faccia di chi ha il mal di
denti o cerca di nascondere un segreto o si aspetta una carezza che non arriva.
Invece di mangiare, mi guardava. Strano, perché lei aveva la fissa del pasto caldo,
e a vederla lì che faceva intiepidire la minestra, mi è venuto da pensare che non
sarei mai riuscito a capire con che faccia mi guardava, e gliel'ho detto.
Ho detto: «Mi guardi come si guarda un delinquente. Non ho ammazzato
nessuno, io».
E lei: «Sei bravo a indovinare le facce. Mi stavo giusto chiedendo se saresti
capace di ammazzare qualcuno».
«No».
«Sei sicuro? Di certe cose non si può essere mai sicuri».
«Ma che discorsi fai? Un omicidio d'impulso, passionale, un raptus forse è
possibile, non credo, non lo so. Forse ucciderei per salvarmi la vita, ma se mi parli
di un delitto programmato, studiato nei minimi particolari, allora no».
«Ieri al telegiornale hanno detto che il mostro dei treni potrebbe essere un
coglione qualsiasi. Non hanno usato quella parola, ma l'hanno fatta pensare».
«Che cazzo dici? Uccidere quelle donne in un luogo pubblico senza farsi beccare
non è come bere un bicchiere d'acqua!»
«Perché ti innervosisci? Come se la cosa ti riguardasse! Era un discorso così,
tanto per dire».
«Hai ragione, scusa».
Quando mi sdraio sul letto e provo a dormire, il pensiero di ciò che faccio e ciò
che sono e che sarò mi elettrizza senza tregua, ma passata l'euforia mi prende
l'ansia.
Il cazzo non fa male, ma il cuore scoppia e l'insonnia mi ha portato a fissarmi sul
191
rumore dei treni che passano vicino casa. Tu-tum, tu-tum. Una volta il tonfo
ritmato delle ruote sui binari neppure lo sentivo, ora invece aspetto quei treni per
ore, anche tutta la notte. E mi agito se non sono puntuali.
Con Laura faccio finta di dormire, ma ho due occhiaie che sembrano i segni di
un'auto che mi ha sgommato sulla faccia. Sto uno schifo.
Uno: si dice che un uomo che legge ne vale due, ma io penso che ci vorrebbero
due vite, una per leggere e una per vivere.
Due: leggere fa bene ma può anche fare male, per esempio prende un sacco di
tempo.
Tre: io negli ultimi anni non ho letto neanche un libro. Molto web, molta tv,
molti treni.
Fatte queste premesse, vi racconto di quella volta che Laura mi regalò un libro di
divinazione cinese contenente tre monete che, lanciate seguendo un certo metodo,
promettevano di dare una risposta su fatti e sviluppi della propria vita.
Disse: «Spero che questo infallibile oracolo ti consigli cosa fare della vita che ti
resta».
«Un libro in grado di illuminarmi? Non ci credo».
«Tu prova senza pregiudizi e vedrai».
Bisogna capirla: Laura passava le giornate a cercare di vendere al telefono
vagine in silicone e ogni tanto sentiva il desiderio di uscire dal suo mondo. Quello
era il momento dell'Occidentali's Karma. Io dapprima pensai di buttare il libro
parlante nel cestino della differenziata, ma poi ritenni più saggio dargli una
possibilità, e lanciando le monete chiesi: «Riuscirò a diventare famoso?»
Secondo le istruzioni dettagliate contenute nell'introduzione, la risposta si
sarebbe dovuta manifestare con una sequenza di due elementari segni grafici, una
linea intera e una spezzata alternata per sei volte. Mai e poi mai un uomo di media
cultura sarebbe riuscito a cavarci un senso, ma Laura mi disse che uomini di alta
cultura erano riusciti a spiegare quei segni in modo tale che anche un'innamorato
dei film di Dario Argento poteva avere le sue cazzo di risposte.
L'esagramma 23 sentenziò: «Non è propizio andare in alcun luogo».
192
Ma io non avevo chiesto nulla riguardo a un viaggio, boh! Pensai che non mi ero
concentrato bene mentre facevo la domanda e lanciai di nuovo le monete.
Per risultato ebbi nuovamente l'esagramma 23, un evento statisticamente
improbabile, ma io volevo sapere se mi attendevano fama e onori, non un taxi per
l'aeroporto.
Pensai che forse dovevo fare la domanda in cinese, e dopo avere tradotto con
Google, chiesi: 我會成功地成名嗎?
Questa volta le monete generarono l'esagramma 4, e io mi domandai se stavo
impazzendo a vedere in quell'ammasso incomprensibile di linee la faccia cagnesca
di uno sputasentenze che diceva: «Quando la prima divinazione dà responso,
ripetere più volte le divinazioni genera confusione e non dà risultati».
Allora pensai che quel libro mi stava prendendo per il culo e lo misi in vendita
su Ebay a 5 euro.
Una settimana dopo, poiché nessuno lo voleva, decisi di tenerlo e interpretai
quel 23 ripetuto alla maniera dei napoletani che leggono l'antica Smorfia: 23, lo
scemo.
E scemo io, pensai, che perdo tempo con queste stronzate.
51. Al lettore.
Detesto chi trae le conclusioni a cazzo. Detesto questo controllore che mi guarda
con aria seria, grave, e uno scintillio di superiorità negli occhi, e dice: «È tua
193
questa valigia? Non puoi tenerla appoggiata alla porta. Non vedi che ingombra?»
«Lo vedo, sì, ma non è mia».
«Stai tranquillo, non ho intenzione di farti una multa. Ti chiedo solo di
spostarla».
«Ma non è mia».
«Ascolta: su questo treno viaggiamo io e te, soli, da quando siamo partiti. E
allora, di chi è la valigia?»
«Mia».
«Ecco, così va bene. Adesso spostala e buon viaggio».
Inutile insistere e provare a ficcargli nella testa che quella strana valigia rosa con
appeso un pupazzetto a forma di cuore mi faceva anche abbastanza schifo. L'unica
soluzione possibile era prenderla e sperare di averci guadagnato qualcosa.
In fondo cosa rischiavo? Difficile immaginare che un qualche Mehmet Ali
avesse scelto il Regionale Lanciano-Pescara per dimenticare appositamente una
valigia piena di esplosivo.
Cercando di immaginare cosa ci avrei trovato dentro, fissai gli sparuti passeggeri
salire alle successive fermate senza vedere nessuna ragazza in minigonna inguinale
di pelle nera.
Ero triste, anche un po' nervoso, perché ogni giornata senza il taratatatata mi
sembrava una giornata persa.
Ma quella no. Lo capii quando, nel silenzio della mia camera, aprii la valigia e
mi resi conto che era manna dal cielo.
194
proprio quello, il mio diario, il manoscritto in cui si raccontava la storia della mia
vita, e tutti i miei progetti, i delitti. Paola lo aveva rubato e sapeva tutto.
Oh, cazzo.
Ancora.
Oh, no.
Ancora.
A me sarebbe toccata la galera e a lei la fama!
Ma Dio non ha voluto. Paola è salita su quel treno ed è scesa subito di corsa,
dimenticando la valigia. Forse mi seguiva, chi lo sa? Forse stava partendo e,
avendomi visto, si è messa paura ed è scappata. Forse. L'unica cosa certa è che Dio
ha voluto che la sua valigia finisse a me.
Dio, non la sorte.
Dio è con me.
Però, pensai: Avere il suo appoggio non significa che non debba darmi da fare.
Aiutati che Dio t'aiuta, dice il proverbio, e in questo caso, prima che Paola vada a
denunciare la perdita della valigia, devo ucciderla.
54. La Legge.
PAOLA
1. Mi presento.
195
Non sono una troiazza sbordellata come dicono certe malelingue. Il sesso mi è
sempre piaciuto, è vero, ma andare con tutti, quello no. Gli uomini che ho avuto
sono pochi in realtà, così pochi che ricordo i loro nomi: Adriani Luca, Arcuccio
Pino, Ardito Giulio, Bellante Roberto, Bomba Mario, Bordino Michele, Borrelli
Gildo, Butoni Franco, Catanzaro Fiorello, Colantonio Ivan, Conegliano Nicolino,
Croce Toni, De Candia Luigi, De Caro Franco, Del Bello Mario, Di Caro Antonio,
Di Giuseppe Santo, Di Lanciano Mario, D'Ovidio Daniele, Esposito Marco,
Finamore Nicola, Fucka Miro, Galimberti Pino, La Farciola Franco, Mantilla
Dario, Marsico Mariano, Mascitelli Gennaro, Miscia Giustino padre e Miscia
Giustino nipote, Orsogna Salvatore, Pace Paolo, Piscitelli Rocco, Porcinari Pio,
Prece Francesco, Roccacasale Vincenzo, Rosato Michele, Scarpetta Achille,
Sgrignoli Carlo, Trighellone Girolamo, Veneziano Claudio, Veronese Giovanni e
Veronese Peppino, Zurli Giuliano.
Ho un'ottima memoria. Li ho messi in ordine alfabetico ma potrei anche
elencarli per lunghezza del pene, a cominciare da Mariano che lo chiamano
Obelisco, e finendo con Nicolino, detto Sette e mezzo perché ce l'ha più piccolo
dei suoi sette fratelli.
Adesso ho un fidanzato, si chiama Asdrubale, ma io lo chiamo Dru. Quando fa
l'amore, Dru ha un tic, un movimento involontario del pisello, rapidissimo e
nervoso, un ondeggiare a destra e sinistra quand'è eccitato, e insomma, credo che si
senta come un tiratore a segno che cerca di prendere la mira mentre qualcuno gli
muove continuamente il fucile.
Perché sto con lui? Forse perché è un giovane d'altri tempi, ricercato nel parlare,
nel comportarsi e nel vestire, sembra arrivato sulla Terra da un pianeta che non ha
ancora conosciuto l'heavy metal e il tifo violento.
Che personaggio, Dru. Il mese scorso ha partecipato a un programma intitolato
Organi imbarazzanti talent show. Il suo cazzo è stato il secondo più applaudito, lo
ha battuto solo il cazzo aspiratore di un vecchio che riprendeva la sua urina dopo
che aveva pisciato. Vomitevole, vince sempre il cattivo gusto. Un gentiluomo
come Dru non si sognerebbe mai di tentare una volgarità simile.
E comunque, quel problema è un problema solo all'inizio, perché quando Dru
riesce a penetrarmi, anche solo per un paio di centimetri, il suo cazzo si comporta
come una mosca imprigionata in un bicchiere sporco di crema: un po' vorrebbe
196
sguazzarci dentro e un po' scappare, sbatte di qua e di là, mi fa provare un orgasmo
favoloso.
Tutto questo non deve farvi pensare che il sesso è la cosa più importante per me.
La mia vera passione sono i canali satellitari che trasmettono storie di omicidi. E il
mio sogno segreto è catturare un serial killer.
197
l'amavo.
Perciò, quando ho saputo che sui treni per Pescara si aggirava un serial killer, ho
pensato che finalmente, dopo anni di attesa, un principe azzurro mi stava venendo
incontro. Dovevo scoprire chi era e lavorare affinché si verificasse l'ipotesi uno.
Allora, dopo che l'avrebbero arrestato, sarebbe stato mio, mio, tutto per me e io per
lui, tutta, tutta per lui, e a certe malelingue avrei dimostrato che non è vero che
sono una puttana sputtanata. Io sono una sentimentale che non vuole più soffrire
per amore.
La gente pensa che i serial killer siano dei disadattati sociali che vivono da soli,
hanno gravi turbe sessuali che risalgono all'infanzia, sono vergini, odiano tanto le
donne e bla e bla e bla. Ma se fosse davvero così, se non avessero una vita
apparentemente normale che li confonde con migliaia di altre persone, sarebbe
semplice scovarli. Per esempio, a Caceovo siamo in quattromila, sarebbe semplice
fare una lista di chi non è stato mai visto con una donna e iniziare a cercare fra di
loro. Anch'io stavo per commettere questo sbaglio, sì, con Girolamo Trighellone,
che ha cinquantadue anni e non si è mai fidanzato, ma è solo timidezza, perché
quando gliel'ho offerta sul letto di un motel, con la gonna scesa fino alle caviglie e
niente slip, lui non è svenuto, no. Ha cominciato a leccarmela come panna da un
piattino, e va bene che io ero lì per la scienza, per la profilazione criminale, ma lui
è stato bravo, così bravo da farmi godere in pochi minuti.
Questo re, questo dio del cunnilingus poteva essere il mostro dei treni?
Impossibile.
Ho usato la stessa strategia investigativa con Rocco Piscitelli e Toni Croce,
all'apparenza due disadattati, ed entrambi mi hanno fatto vedere le stelle del
Paradiso. Poi ho smesso perché uno di quei cazzoni, credo Rocco, ha raccontato
tutto a suo padre, che fa il barbiere, e il paese ha cominciato a straparlare.
Ma come siete stronzi, ho pensato. Siete stronzi e stronzi e stronzi e quattromila
volte stronzi! Io voglio scopare… no, che cazzo dico? Io voglio s-c-o-v-a-r-e quel
killer che non aspetta altro che fare crepare le vostre figlie, e voi mi ringraziate
sputando veleno su di me?
198
4. Cambiare.
Dopo tre scopate, nuovo fango e la prospettiva di farmi tutti gli abitanti di
Caceovo per poi forse, mah, per colmo di scalogna, scoprire che l'uomo che
cercavo abitava in un paese vicino, mi è venuta l'idea di portare scompiglio nella
mente del serial killer affiggendo in stazione dei volantini. Non semplici
avvertimenti alla popolazione, ma qualcosa che portasse un elemento perturbatore.
Così scrissi: «PUOI CONTINUARE A UCCIDERE POVERE DONNE
INDIFESE, MA QUESTO NON FARÀ DI TE UN VERO UOMO. RIMARRAI
SEMPRE UN INUTILE PEZZO DI CARNE ATTACCATO A UN CAZZO».
5. Di stazione in stazione.
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vuoto. Nel nuovo alloggio rimaneva fermo, con lo sguardo fisso sulla porta, come
se aspettasse qualcuno. Era vestito con noncuranza: un maglioncino nero sbiadito
da troppi lavaggi e un paio di pantaloni di fustagno, anch'essi neri, di quelli che si
comprano sulle bancherelle degli ambulanti. Ai piedi aveva un paio di scarpe da
tennis, ovviamente total black, con dei lacci rosso fosforescente, unico tocco
civettuolo di un abbigliamento da becchino. Notai anche che era ben dotato, ma in
modo appariscente, quasi innaturale, come se nascondesse qualcosa nelle mutande.
Due o tre volte mi sparì davanti agli occhi, come un animale nella notte,
velocissimo e furtivo.
Poi, a corsa conclusa, me lo ritrovavo a Caceovo, appena sceso dal treno, e mi
metteva così a disagio che l'idea di seguirlo per vedere dove abitava finiva presto
divorata dalla paura.
Se è un mio compaesano, pensai, deve essersi nascosto molto bene in questi
anni, poiché non ricordo di averlo visto prima.
6. Il paese.
Sì, grazie. Siamo agli inizi ma grazie. Siamo al punto che ho dei sospetti, ma voi
lettori non giocate sporco solo perché sapete.
200
8. Risvegli.
Il mio cuore non la sente la musica del «No, no, non è lui, non è possibile che ho
avuto questo culo. Se fosse così semplice trovare un serial killer, i poliziotti, eh, i
poliziotti che ci starebbero a fare?»
Però non sente neppure l'altra musica, quella del «Sì, sì, è lui, che fortuna che
hai avuto a incontrare proprio lui, culo, culo all'ennesima potenza, è la classica
fortuna della principiante, il caso è chiuso, ma i poliziotti, eh, i poliziotti che ci
stanno a fare?»
Sfortunatamente, la mia testa non sa neppure dire: «Queste musiche avranno
ragione di esistere, ma se le ascolto insieme sembrano le stonature di uno
strumentista sull'orlo di una crisi di nervi».
Devo farmi un riposino. La mia testa non smette di pensare e quasi scoppia.
Signore, ti ringrazio d'aver dato al mondo un uomo, o forse un serial killer, così
crudele e così tonto da bussare alla mia porta con la scusa di avvertirmi dei pericoli
che corro.
E ancora, Signore, ti ringrazio se riuscirai a trattenere almeno un paio di lettori,
perché è vero che il mostro non sa che io so, ma è anche vero che presentarsi a
casa di una persona che non si conosce, e dirle che ti ha visto affiggere dei
201
volantini che sarebbe meglio non affiggere, è parte di una trama così cogliona che
neanche un bambino potrebbe prenderla sul serio.
Però è così. È andata proprio così.
11. Francesco.
202
«Scusa, puoi ripetere? Mi ero distratta un attimo».
«Parlavo del mostro. Quello che uccide le donne sui treni».
«Ah, il mostro! Mi pare di conoscerlo da sempre».
Perché mi è uscita quella frase? Non lo so. Ho paura e mi è uscita questa frase a
cazzo, mentre lui appare sempre più nervoso. Il ritratto perfetto di un serial killer
nervoso e irritabile.
«Paola, per favore, fermati un momento. Se continui a schizzare da una parte
all'altra della stanza, non riusciremo mai a parlarci».
Ho paura: se mi fermo, svengo.
«Devo togliere batteri e polvere».
«Non potresti farlo dopo?»
«E quando? Tutte le mattine se ne vanno via combattendo con i miei studenti, un
branco di adolescenti scatenati. Per pulire ho solo il pomeriggio».
Con la scusa di prendere uno straccio, schizzo via in cucina. Ho bisogno di
respirare. Chiudo la porta e via: uno, due, tre, quattro, cinque, sei… inspiro, espiro,
inspiro, espiro, inspiro, espiro. Afferro uno straccio e torno da lui, ma non riesco a
reggerne lo sguardo. Mi chino sul divano e mi accanisco su una macchia,
millimetrica. Dico: «Rientro a casa così nervosa che devo riposarmi un paio d'ore
per non collassare».
Poi tocca alla poltrona girevole.
Dico: «Tu non hai idea di cosa significa lavorare in una scuola pubblica».
Poggiapiedi marrone.
Dico: «I ragazzi di oggi sono molto indisciplinati, non ascoltano. Secondo me è
colpa di tutte quelle ore che passano in casa, sbattuti davanti alla tv o con gli occhi
fissi sul computer».
Tappeto a pelo lungo.
Dico: «Ti sei accorto che nessuno di loro gioca in strada? Solo televisione,
computer e quegli stupidi videogiochi».
Plafoniera.
Dico: «Non mi stupirei se anche il mostro dei treni avesse un passato fatto di tv e
videogiochi. Tu che ne pensi?»
Questa frase lo colpisce così tanto da fargli apparire una vampa di rossore sul
viso.
Farfuglia, col fiato corto: «Io… no».
203
«No che cosa? Ti ho chiesto se pensi che il mostro abbia trascorso
un'adolescenza solitaria tra videogiochi e console. Io ci giurerei».
È evidente che anche lui ha avuto un'adolescenza solitaria tra videogiochi e
console. Sono contenta di averlo spinto in un ginepraio, e quella mia domanda è
una spina nelle sue chiappe.
Mi aspetto che cambi discorso, e questo fa. Dice: «Guarda, guarda là!»
«Dove?»
«Sul comodino. C'è una cacca d'uccello».
«C'è una cacca? Oh, mamma mia! Le finestre! Ho dimenticato di chiudere le
finestre, ieri notte!»
Dovevo dirvi sin dal principio che soffro di ornitofobia. Non l'ho fatto perché
avevo paura di essere presa in giro.
Francesco è alla porta.
«Magari ripasso quando sarai meno impegnata».
«Stai scherzando? Mi lasci sola con un uccello in casa? Ho paura!»
«Sempre meglio di un serial killer, no?»
«Che cazzo dici?»
Mi ha minacciata! Istintivamente, per paura, imbraccio una scopa e meno colpi
all'aria e all'invisibile pennuto.
Invisibile perché non c'è. Semplicemente.
Sento sbattere la porta. Francesco se n'è andato. Per me è lui. Il mostro dei treni,
è lui, è in mano mia e non lo sa. Ma non andrò a denunciarlo. Lo seguirò e
annoterò su un quaderno tutti i suoi orari e ciò che fa. Voglio scrivere il libro della
sua vita e pubblicarlo il giorno stesso che lo arresteranno. Poi, una volta in carcere,
mi sarà riconoscente di essere diventato famoso grazie al mio libro, e s'innamorerà
di me.
204
Io: «Avete altre domande?»
Cacafregna 3: «Ma ti rendi conto in che guaio ti stai cacciando?»
Io: «Nessuna domanda?»
Cacafregna 4: «Si tratta di omicidio traslato».
Io: «Grazie a tutti, continuiamo».
14. Niente.
Il giorno dopo invece, io e Francesco eravamo sullo stesso treno e sembrava che
giocassimo a nascondino, ma in verità ero io che giocavo a nascondino, lui non si
era accorto di me, spero.
A un certo momento ha cambiato carrozza, ha guardato il panorama, ha aspettato
che entrasse qualcuno. Non è entrato nessuno.
A pagina 22 c'è scritto: Scartate quelle zone dove vi sembra possibile tenere
sotto controllo il portone di un'abitazione, se poi il sorvegliato, uscendo, vi può
tranquillamente augurare il buongiorno.
Tipo: «Paola! Paola Ciccocioppo! Ciao, vieni al bar, ti offro un caffè. Ho ancora
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tante cose da dirti, sai, a proposito di quei volantini. Secondo me è rischioso.
Dovresti smettere».
A pagina 28 c'è scritto: Una regola fondamentale è quella di evitare
appostamenti in quartieri dove gli abitanti della zona vi conoscono. Potreste
rischiare di essere chiamati a gran voce e attirare l'attenzione del pedinato.
Tipo: «Paola! Sono lo zio Michele, non mi riconosci? Facciamo un salto al bar,
ti offro un caffè».
«Ora non posso. Magari un'altra volta».
«Non puoi? Ma sono ore che ti osservo e tu rimani fissa a guardare quella casa.
Non è che ci abita un uomo che ti piace, eh? Birbantella!»
«Devo scappare, ciao».
«Ma guarda, hanno aperto: è Francesco! Dài, che lo conosco! Francescooo!!!
Voglio presentarti mia nipote!»
A pagina 25 c'è scritto: Se la casa del pedinato è presso un incrocio con
semaforo, molto trafficato, non appostatevi al di là della strada. È probabile che il
vostro uomo uscirà di casa mentre per voi scatta il rosso, e allora non avrete altra
scelta che buttarvi nel fiume di macchine.
Tipo: «Signorina! Ma non l'ha vista la divisa che indosso? Il fischietto, non l'ha
sentito? Non poteva aspettare il verde? Ora torni di qua che devo farle la multa».
«Mi scusi… io… stavo… sì, cioè… ho i minuti contati… non possiamo, per una
volta… mi lasci andare, la prego… ho fretta!»
«Non c'è nulla come la fretta che faccia perdere tempo, dice il saggio. E infatti
adesso le tocca aspettare la compilazione del verbale. Ma dopo, per farmi
perdonare, le offro un caffè».
Ecco, questo per dire che avevo deciso una cosa molto furba, almeno così mi
sembrava quando l'avevo decisa: piuttosto che passare le giornate cercando
Francesco sopra i treni, è meglio, molto meglio appostarmi sotto casa sua e
aspettare che esca. Ma come dice il manuale a pagina 126, che è l'ultima: Se
concludete la giornata bevendo più di un caffè, l'arte del pedinamento non fa per
voi.
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Da quando vivo sola, ho iniziato a soffrire della tremenda sindrome del ritorno
nella casa vuota. Non so se qualche manuale dei disturbi mentali riporta questa
sindrome, ma a me capita di mettermi a piangere tutte le volte che rientro a casa.
Per evitare queste crisi, mi ero rassegnata a uscire pochissimo, solo di mattina,
quando vado a insegnare. Ma da qualche giorno, dovendo seguire Francesco e i
suoi spostamenti in treno, resto fuori fino a tardi, e ogni volta che ritorno, non
faccio neanche in tempo a ruotare la chiave nella toppa e già mi prende un groppo
in gola. Penso che qui ci abitavo con mio padre, mia madre e i nonni, i miei quattro
adorabili nonnetti, allegri, burloni, sempre pronti a giocare con me. Ricordo che
una maestra delle elementari, Valoroso Michelina, mi chiese se volevo più bene
alla mamma o al papà, e io risposi che volevo bene ai nonni.
Poi i nonni sono morti e ho continuato ad abitare in questa casa con mio padre e
mia madre. E mio padre e mia madre sono diventati importanti, non come i nonni,
ma intanto ero cresciuta e mi bastava vedere qualcuno in casa, non sentirmi troppo
sola.
Poi mio padre si è ammalato di cancro e in meno di due anni è morto. È rimasta
mia madre, che parlava pochissimo ma, come ho detto prima, bastava la presenza.
Poi mia madre è morta, a novantadue anni. Arrivarci, diceva la gente al funerale.
Ma è morta.
Così ogni volta che rientro a casa, mi viene in mente quella poesia di Ungaretti
che dice: «Ho tanta stanchezza sulle spalle. Lasciatemi così, come una cosa posata
in un angolo e dimenticata».
E poi mi metto a piangere.
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Poi dalla serie tv sarà tratto un fumetto.
Poi sarà messa in commercio una bambola con le mie fattezze.
Poi milioni di persone mi chiederanno l'autografo.
Poi farò la diva capricciosa e a qualcuno negherò l'autografo.
Poi diventerò ancora più famosa.
Poi diventerò ancora più ricca.
Poi convocherò i giornalisti per annunciare che io e Francesco ci sposeremo in
carcere.
Poi il matrimonio sarà ripreso da tutte le televisioni del mondo.
Poi non so se avrò la voglia di essergli fedele.
Poi ci penserò.
18. Forse.
Oggi ho seguito Francesco sul Chieti-Teramo. Non è la prima volta che mi
accorgo che ha un pacco super grosso. È successo che un ragazzo in tuta da
ginnastica lo ha colpito proprio lì con il manubrio della bicicletta,
involontariamente, scendendo di corsa per sfuggire a un controllore. Gli ha dato
una botta così forte da fare inginocchiare un orso, ma Francesco non si è accorto di
nulla: ha continuato a fissare la porta e la gente che saliva.
Secondo me ha una protesi di ferro o qualche impianto strano, e forse i suoi
problemi nascono dal disprezzo nei confronti di se stesso per l'incapacità di avere
un'erezione naturale.
Io che sto scrivendo un libro su di lui dovrei avere più certezze, non posso dire:
«Secondo me». Queste certezze potrei averle in un solo modo, e però no: l'idea di
andarci a letto è troppo affrettata, è angosciante, e per quanto mi sforzo di farmela
apparire necessaria, è troppo pericolosa.
Ho notato che Francesco, quando deve leggere da vicino, per esempio la bacheca
delle partenze e degli arrivi, mette gli occhiali sulla fronte. Io non so se questo
particolare potrà essermi utile, però l'ho scritto su un quadernino dove annoto i
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suoi comportamenti, perché non si sa mai.
Ogni tanto sul web mi è capitato di vedere dei porno con la stessa scena: una
ragazza molto sexy minaccia un uomo tenendo ben salda tra le mani una pistola, e
lui, per difesa, si sbottona i pantaloni e mostra un cazzo enorme. La ragazza si
distrae e vi lascio immaginare come va a finire.
Una cosa difficile, per me che non ho mai ucciso nessuno, sarebbe vincere la
paura di essere sopraffatta dalla vittima designata. Forse potrei colpire qualcuno
alle spalle, ma trovarmelo di fronte, fosse un uomo, no, no: sarebbe troppa la
paura.
Sono andata a sentire la conferenza di uno scrittore italiano che aveva pubblicato
un libro sui serial killer americani, e lo scrittore sosteneva che molti serial killer
tengono un diario perché hanno l'ossessione di raccontare tutto a se stessi, di
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specchiarsi nella propria crudeltà. Io ho aspettato che lo scrittore finisse di parlare,
ho alzato il braccio e gli ho chiesto se anche i serial killer italiani tengono un
diario, ma lo scrittore si è un poco risentito, mi ha risposto che lui è un esperto
dall'Alaska alle Hawaii, il resto del mondo non gli interessa.
Certo, sarebbe una fortuna se Francesco avesse scritto tutto quello che gli è
successo prima di cominciare a uccidere: la sua infanzia, l'adolescenza, i rapporti
con la famiglia, le donne che ha avuto e quelle che lo hanno ferito, e poi,
naturalmente, i dettagli di tutti gli omicidi.
A me non rimarrebbe che copiare le sue memorie e firmarle a nome mio.
A casa di Francesco c'è sempre qualcuno. Suo padre è malato e sta tutto il giorno
affacciato a una finestra, con la canottiera di lana anche d'estate, questo per dire
come si è ridotto. Un'ameba, però c'è. Sua madre è pensionata e non ha voglia di
uscire neanche per la spesa, e infatti, due volte a settimana, arriva un furgoncino
del Supermercato Zio Abbas, ho annotato gli orari: lunedì ore 12, giovedì ore 9.
Poi c'è Laura, l'operaia della fabbrica Cazzi Vari di Bomba Settimio & Figli, che
ha uno strano orario su tre turni e può capitare in casa quando meno te l'aspetti e
aggredirti con un vibratore lanciasperma al peperoncino.
Insomma, anche se lascio Francesco su un treno e corro a casa sua, e in qualche
modo entro e mi metto a cercare un diario che forse c'è e forse no, il rischio di
essere scoperta è, da uno a cento, novantanove.
E niente. Peccato.
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grassa o brutta, rappresenta un altro buon motivo per cambiare cabina.
Dunque, ci sono soltanto due possibilità che lo rendono felice: cabina vuota o
cabina con ragazza sexy.
No, menzogna. C'è una terza possibilità: treno semivuoto e ragazza sexy con
impellente bisogno di fare pipì.
Ma ragioniamo: con il mostro dei treni sulle pagine di tutti i giornali e in tv, una
ragazza sexy di normale buon senso e media intelligenza va a sedersi in una cabina
vuota o si dirige al bagno a cuor leggero?
Ieri il Lanciano-San Vito, un piccolo treno regionale che fa un percorso di pochi
minuti per poi congiungersi con la rete nazionale, aveva due carrozze stracolme di
viaggiatori e una desolatamente vuota.
La vita per Francesco si fa difficile.
Mi sembra che a furia di divagare su sogni, case, treni e porno, sto dimenticando
che il mio obiettivo è contribuire alla cattura del mostro dei treni e scrivere la sua
biografia.
E invece da un pochetto mi sono messa a divagare e sembra che il mio principale
desiderio sia farvi capire cosa significa essere scrittrici con un sacco di idee in
testa.
Adesso dunque, ecco una serie di capitoletti tutti azione.
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27. Live one man show.
212
28. Beata solitudo, oh sola beatitudo.
Corro a furia, sento la terra, il vento, i fili d'erba. Più corro e più la mente si
svuota, come se potessi dimenticare perché corro, da chi scappo.
Non c'è luna, neanche stelle. Fa così buio che non riesco a vedermi le scarpe.
Dio, un respiro… o forse no… cosa è stato?
Grido: «Non farmi del male, non farmi del male, non farmi del male, non
uccidermi!»
Cado, mi rialzo, agito le braccia, do schiaffi all'aria.
«Non farmi del male, ti prego, non farmi del male!» continuo a ripetere. Ma a
chi lo sto dicendo? A chi?
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A nessuno.
30. Dai diamanti non nasce niente, dai cattivi propositi nascono fior di propositi.
31. Risolutezza.
Mi sono ricordata che, alle scuole elementari, quando copiavo gli esercizi di
matematica dal quaderno di Tenerume Cinzia e lei minacciava di raccontarlo alla
maestra, io rispondevo fiera: «Accada quel che accada».
31. Chi ha detto che i treni passano una volta sola nella vita non ha mai abitato
214
vicino a una ferrovia.
E non c'è cosa più frustrante che vedere un treno sferragliare tutti i giorni alla
stessa ora, tutti i giorni, tutti, e capire che il tempo scorre inesorabile ed è il tempo
dei condannati a morte. Ma non è solo questo a immalinconire: il peggio è che
molti di quei treni non li prenderemo mai, treni che portano in posti anche
bellissimi. Vorremmo fuggire verso la campagna libera, mollare tutto, e invece
rimaniamo alla finestra a guardarli passare. È così che mi spiego la fissa di
Francesco per i treni. Salirci, avrà pensato da ragazzo, è come dichiarare guerra
alla noia, e per noi che siamo nati a Caceovo, la noia è come la cioccolata in
Svizzera o la birra in Germania. Solo che nessuno ha voglia di mangiare e bere
noia. Qui turisti non ne vengono.
Sto divagando, e oltretutto sarebbe meglio interrogarsi su altre e più gravi fisse
di quel maniaco omicida, ma il fatto è che sono appostata da ore e aspetto che i
suoi vecchi vadano a dormire. Francesco non c'è. Oggi è il compleanno della sua
compagna, l'ho letto su Facebook, e festeggeranno con una cenetta intima al
Ristorante Pizzeria La Sciuscillette, anche questo l'ho letto su Facebook.
32. Se i due vecchi insonni si mettono a litigare, forse gli viene voglia di
mandarsi affanculo e dormire.
Mi sembra di avere sentito delle voci alterate. Adesso mi avvicino, così capisco.
Lei dice: «Ormai Francesco ha passato la cinquantina. Non è facile a quell'età.
Avrebbe dovuto pensarci prima, su questo sono d'accordo».
Lui risponde urlando. I singoli suoni sono rauchi e si odono a grande distanza.
«Sì, ma non è la prima volta che gli ricordo di trovarsi un lavoro! Non è la prima
volta, cazzo! Sono trent'anni!»
«Io lo aiuterò. Finchè sono viva, i soldi per vivere non gli mancheranno».
«E dopo? Mi sai dire che succederà? Come farà a sopravvivere quando non potrà
più contare sulla nostra pensione?»
In carcere la vita non è cara, penso io.
«C'è Laura» dice lei.
«Ma certo! Io ho lavorato una vita in officina e sento ancora le mani sporche
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d'olio e di grasso. Poi arriva lui e fa il mantenuto!»
«Basta, mi sono rotta di sentirti».
«Ah, è così? Sto cercando di portare un minimo di dignità in questa casa e tu
vuoi mettermi a tacere?»
«Andiamo a dormire, è meglio».
Bravi, andate.
«E vaffanculo! Parlare con te è inutile».
«Pronto?»
«Ciao, Santo. Sono Paola, come stai?»
216
«Paola chi?»
«Paola Ciccocioppo».
«Mi sa che hai sbagliato numero».
«Ma no! Davvero non ti ricordi di me?»
«Dovrei?»
«Abbiamo frequentato la stessa scuola per tre anni. Tu venivi a casa mia e mi
rubavi la Nutella».
«Porca miseria, Paoletta! Sono anni che non ci sentiamo! Come mai mi hai
chiamato? Se posso esserti utile, sono a tua disposizione».
«Sì, ecco… mi vergogno un po' a dirtelo, ma… ho letto sui giornali delle tue…
ehm, disavventure giudiziare… per quei furti negli appartamenti…».
«Un momento di debolezza. Mi sono fatto sei mesi di galera e ho messo la testa
a posto».
«Sì, però… io sono rimasta fuori casa e non trovo le chiavi. Perciò ho pensato a
te».
«Ah, questa è bella! Devo aiutarti a forzare la serratura di casa tua?»
«Bravo, hai capito».
«Ma come faccio a spiegarti per telefono? Tu non sei pratica di queste cose.
Chiama i pompieri».
«Li ho chiamati, ma devono arrivare da Lanciano e ci metteranno un sacco di
tempo. Io ho fretta perché temo di avere lasciato il gas aperto».
«E va bene. Prendi la tua carta di credito».
«Non ce l'ho».
«Allora qualcosa di simile, ma di plastica dura, molto resistente».
«La tessera sanitaria, ok».
«Spingila tra la serratura e il telaio, piegala all'indietro, forza il chiavistello e
apri».
«Spingo, piego, forzo… non capisco. Puoi darmi le istruzioni con più calma?»
«Prendi la tessera».
«Ok».
«Spingila».
«Verso dove?»
«Tra la serratura e il telaio della porta»
«Ok».
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«Ora piegala all'indietro».
«Cosa?»
«La tessera».
«Cazzo, è caduta».
«Lasciamo stare. Vengo lì e sistemo tutto in un minuto. Mi dai il tuo indirizzo?»
«No!»
«Perché? Lo faccio con piacere».
«Non voglio scomodarti, chiamo i pompieri».
«Come vuoi. Ma prima mi togli una curiosità?»
«Dimmi, ma fa presto però».
«Non ci vediamo da quando eravamo ragazzini, come hai avuto il mio numero?»
«Sta in elenco».
«Ma se hai detto di essere rimasta fuori casa? Porti l'elenco telefonico in borsa?»
«Siamo nel 2017. Ho internet sul cellulare e tutti i numeri del mondo a mia
disposizione. Ma tu parli da sbirro».
«Mi sbaglierò, ma c'è qualcosa che mi nascondi. Dimmi dove ti trovi e vengo ad
aiutarti».
Oddio, che cazzo faccio?
Accetto: «Solo se mi prometti che non mi chiederai nient'altro».
«Giuro, ma poi mi fai un regalino. Perdonami se ti sembro un mendicante, ma in
questa società di merda, per uno come me che è appena uscito di galera la vita è
dura».
«E va bene. Hai presente la casa vicino alla ferrovia? Quella che pare costruita
sui binari?»
«Certo. Arrivo subito».
35. Santo Puccio arriva presto, finisce presto e soprattutto, mi scassa le pacche
della fregna.
218
«Non ci sono soldi. Vattene, ti prego. I patti erano chiari».
«Senti bella, se hai avuto tanta fretta di rubare in questa casa, mi aspetto di
trovarci qualcosa di prezioso».
«Ma è prezioso per me, non per te».
«Vedremo, intanto resto».
«Non insistere o sveglieremo tutti».
«Che bella idea mi hai dato! Me ne vado, ma prima mi metto a urlare».
«Oh, merda. Resta, ma almeno aiutami. Tieni d'occhio la stanza dei vecchi».
«Yes, my queen».
«E fai meno lo spiritoso. Io vado di sopra».
219
superiori, mi avevano fatto leggere un racconto, credo fosse di Allan Poe, e più o
meno quel racconto invitava a riflettere sul fatto che le cose che cerchiamo con
affanno sono spesso sotto i nostri occhi, nascosti dalla loro semplicità e
quotidianità. C'era una lettera, mi ricordo, una lettera o qualcosa che tutti
cercavano, e questa lettera era disposta nel luogo più evidente, su una scrivania,
ma nessuno vedeva ciò che era clamorosamente in vista. Allora mi sono chiesta
quale fosse il posto più banale dove nascondere un diario segreto, e certo: in un
cassetto della scrivania, chiuso a chiave. E quale poteva essere il posto più banale
dove nascondere una chiave? E certo: in un altro cassetto della scrivania, chiuso a
chiave. E quale poteva essere il posto più banale dove nascondere la terza e
decisiva chiave? E certo: poggiata sulla scrivania, dove nessuno avrebbe dato peso
alla sua importanza.
Nonostante io rimanga convinta di essere malata di sfiga congenita e senza
rimedio, quella volta il buon Dio mi aiutò, facendomi trovare qualcosa di diverso
da un diario ma forse più importante, un manoscritto siglato in copertina da un
titolo che mi lasciò basita: Ammazza la star, il gioco virtuale e quello reale. Lo
sfogliai velocemente, col cuore in gola, e mi accorsi che era quello che cercavo.
E così sia.
Scesi le scale badando a non fare il minimo rumore, tenendo il mio trofeo stretto
in petto.
«Santuccio, andiamo. Dove sei? Santo?».
«Arrivo, sì. Dammi un secondo».
«Ma che cazzo fai?»
Quel ladro patentato, che solo pochi minuti prima mi aveva detto di avere messo
la testa a posto, era pronto a fuggire con l'argenteria e un grosso vaso cinese, senza
che io avessi la forza di obiettare, tanto ero contenta.
220
come il mio.
Alt, che ho detto? Quel pazzo scrive come me?
Inquietante.
Francesco è una merda, ma con la scrittura è un genio. È proprio strano che sia
finito a fare quel che fa. Se avesse sfogato le sue pulsioni patologiche sulla carta,
oggi avremmo uno scrittore in più e un serial killer in meno. E invece, poveraccio,
tra tanti scribacchini che assassinano la letteratura e hanno pile di romanzi nelle
librerie, lui ha preferito uccidere le donne.
Mi dispiace che, per colpa mia, non avrà il successo letterario che si merita, ma
solo una fama da assassino. D'altra parte, come si dice nell'ambiente dei serial
killer e degli scrittori, morte tua, vita mia.
Preparo la valigia e scappo via, stanotte. Prendo il regionale delle due che a
Pescara fa coincidenza con il Bari-Milano. Troverò una pensioncina e mi eclisserò
giusto il tempo necessario a finire la stesura, spedire agli editori e ricevere
l'inevitabile proposta di pubblicazione.
39. Mi ero illusa di avere preso la sfortuna a calci in culo e invece eccola qui,
221
fedele come una cagna bastonata che ritorna dalla padrona.
Se penso alla mia sfiga, dico che, in confronto a me, il ragioniere Fantozzi Ugo
può ritenersi l'uomo più fortunato della Terra.
FRANCESCO
E così, con un colpo di culo sono tornato in possesso del mio romanzo. Bene,
anzi benissimo.
Ma ero andato a liberarmi per sempre della ladra e sono dovuto tornare indietro.
Male, anzi malissimo.
Devo eliminare ogni traccia di lei e delle fotocopie che potrebbe avere fatto, e in
fondo mi dispiace: non porta mai la minigonna e ha gambe che sono due tronchi di
quercia, ma io volevo solo lavorare tranquillo, perché si è messa in mezzo?
222
Maledetta ficcanaso, fai l'insegnante? Insegna. Io faccio il serial killer? Uccido.
È tutto così lineare! Perché si devono mischiare le cose?
Ora che sa tutto, mi tocca mitragliarla. Faccio una doccia per riparare alla mia
coglioneria di dipingermi il petto con le frasi ispirate da Aleister Crowley (per il
lettore smemorato: capitoletto 54) e poi sarò da lei, e ta, e taratatatata.
Si era messo a tirare un vento, sotto casa di Paola, e c'era un cielo così cupo che
223
ho pensato che quel clima fosse lì per me, come un brutto presagio, ma è stato un
attimo, un momento di sconforto. Ho subito pensato che queste cose valevano per
gli uomini con la clava, non certo per un serial killer capace di costruirsi un cazzo
mitragliatore.
58. Tormentoni.
Tornando a casa, dopo avere fatto inutilmente la posta a Paola che non s'è vista,
mi rimbombava nella testa un pezzo dance che ho sempre detestato. La canzone
dice: Tu sei fottuto, tu-tu-tu, tu sei fottuto, tu-tu-tu.
Chissà che canzoni vengono in testa a Paola, quando il mondo sembra avere la
nerezza dell'inferno, fuori e dentro.
59. Accelerare.
Mi sono addormentato tardi, tardissimo, alle tre, poi alle cinque ero già sveglio:
il cuore che batteva all'impazzata, pum e pum. Con quella stronza in giro ero
sicuro di non avere scampo, pum e pum. Non c'era tempo per uccidere una star,
pum e pum. Il mio progetto di gloria era finito, pum.
Mai si sarebbe detto in televisione, alla radio, su Facebook, su Twitter, che
avevano catturato l'assassino della star, e l'assassino sorrideva, era contento,
salutava con lo sguardo e si beava di stare sottobraccio agli agenti. Niente di tutto
questo sarebbe accaduto, e invece, cosa mi aspettava? La galera come uno dei
tanti, un normalissimo uccisore di donne sui treni, cose già viste e sentite in
centinaia di programmi sui canali di storie criminali. Ormai chi ci fa caso? Dopo
tanto bellissimo sognare, avrei dovuto sopportare un presente di rimpianti e sogni
infranti che mi avrebbero frullato i neuroni mentre provavo a dormire su un letto
fissato a mezza altezza dal pavimento. Questo squallido finale era da riscrivere, ma
come? Ci voleva un'idea miracolosa, un'ideona, ma io non sono molto forte con le
idee. Pensa e pensa, l'unica che mi è venuta è accelerare, compiere il mio ultimo
delitto prima che potevo, domani, sì, domani, perché non c'era tempo da perdere, e
per questo era necessario informarmi sugli eventi vicini che avrebbero coinvolto
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una donna famosa, una qualunque.
C'è una scrittrice, e non la cito perché è molto permalosa, che fa un recital di
poesie dedicate all'emancipazione delle donne nell'Africa sub-sahariana, ma le
scrittrici non se le caga più nessuno.
C'è un'attricetta, Luisa Sborra, che presenta un film con il famoso divo abruzzese
dal supermegaextracazzo, ma le attrici porno ormai non se le caga più nessuno.
C'è una giornalista, ma il suo nome non mi dice niente.
C'è un'imprenditrice, idem con patate.
C'è la moglie di un calciatore, ma è un calciatore del Pescara, e il Pescara, da
quando è sceso in B, non se lo caga più nessuno.
Ma in questo schifo di città non viene mai una scienziata famosa, una leader di
partito, una candidata all'Oscar, una donna moltissimo famosa?
62. Ho scelto.
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Antonella. Il cognome non lo dico neanche sotto tortura, voglio essere prudente
e mi sembra di avere il diritto di organizzare le mie cose in silenzio. Antonella e
basta. È bionda, bella, e ha un passato da stellina del piccolo schermo che ora ha
abbandonato o è stata costretta a farlo, ma continua a lavorare in teatro, e da
domani reciterà al Circus di Pescara con un ruolo da protagonista in una commedia
di David Mamet. Non è famosissima ma dovrebbe esserlo, perché ha talento, e
comunque il suo passato televisivo le ha fatto conservare una discreta notorietà.
Antonella arriverà domani e io devo scoprire dove alloggia. Non è semplice ma
non è impossibile, perché a Pescara ci sono solo ventitre alberghi. Ho scartato i
peggiori fidandomi di Tripadvisor, tipo uno in pieno centro che per un recensore
era "un posto fatiscente, sporco e molto economico. Da andarci se proprio
rischiate di rimanere in strada". O un altro che veniva descritto così: "Stanze
minimaliste, armadio con cassetti senza il fondo, lampadine bruciate e ventilatore
a soffitto che, quando è stato acceso, ha fatto decollare grossi gomitoli di
polvere". E un altro ancora dove "il bagno emana puzze vomitevoli e la tenda della
doccia è sporca e ammuffita". Normale che Antonella non possa dormire in posti
così brutti. Quanto alle settantanove pensioni o bed & breakfast, è possibile che
un'attrice anche poco famosa e il regista e gli attori dimorino in una pensione o in
un bed & breakfast? Secondo me, no. E non è neppure immaginabile che scelgano
un albergo di periferia. Nei pressi del teatro ci sono ottimi alberghi, il Majestic, il
Trilli e l'Adriatico. Antonella ha sicuramente scartato il Majestic, perché ha le
camere con le tende e le poltrone viola, un colore che i teatranti associano alla
sfortuna. Dunque: o il Trilli o l'Adriatico.
C'è da capire dove l'artista del serialkilleraggio e del cazzo mitragliatore reciterà
l'ultima e grandiosa scena.
Ci ragiono.
DIGRESSIONE
226
«Caro serial killer aspirante scrittore, per tutto il libro hai ammazzato nelle
cabine e nei cessi dei treni, dandomi a bere di essertela cavata saltando giù dai
convogli in corsa, anche se erano tratte regionali così poco frequentate che sarebbe
bastato mettere due poliziotti con le palle per dissuaderti dai tuoi insani propositi.
Per di più, mi hai ammorbato con quella tua stupida fissa per le minigonne
inguinali di pelle nera e la voglia di diventare famoso ammazzando una star, e ora
vuoi ambientare la scena madre del romanzo in un albergo, uccidendo un'attrice
neanche tanto conosciuta solo perché capita a Pescara? Ma non ti sembra di essere
un tantino incoerente? Te lo dico con rispetto, eh».
«Caro lettore, tu mi stai cagando il cazzo, però è vero: io ho molti più limiti
come scrittore di quanti non ne abbia da assassino. Quando uccido sono forte,
impassibile e creativo. Non mi credi? No? Te lo dimostro».
Si da il caso che stavo sperimentando una nuova arma, il culo a gas nervino.
Magari ve ne parlo in un prossimo romanzo. Intanto quel lettore l'ho steso con un
peto.
Guerra chimica.
Ho un cervello. Non sono così coglione da andare alle reception dei due alberghi
per chiedere in quale stanza alloggerà l'attrice Antonella. Ho un cervello che mi
dice di appostarmi cinque minuti davanti al Trilli e cinque davanti all'Adriatico,
andando avanti e indietro, avanti e indietro finchè non la incontrerò per caso. Ho
un cervello che non mi suggerisce altre soluzioni, e mentre percorro i duecento
metri che separano i due alberghi, scopro che ho anche un culo gigantesco, perché
Antonella scende da una cabriolet e mi chiede: «Sai dirmi dov'è l'albergo Trilli?»
Schock.
O si scrive shock?
Oppure choc?
Comunque sia, manca poco che mi piscio addosso per l'emozione. Antonella
indossa una canottiera rosa shocking e ha una chioma bionda che le cade a onda
sulle spalle nude. Peccato per i pantaloni blu di lino che faccio di tutto per non
227
guardare.
«Sì» rispondo, mentre immagino il mio cazzo reclamare la mitraglia. «L'albergo
è in fondo a questa via, subito a destra».
«Grazie, grazie. Aspetta, ho qui in borsa due biglietti omaggio per lo spettacolo
di stasera».
«Ne basta uno, grazie».
Che emozione. La ucciderò in camerino, dopo lo spettacolo, e mi consegnerò la
sera stessa ai carabinieri.
Dal programma di sala vengo a sapere che Antonella interpreta una timida
studentessa che accusa un professore universitario pomposo e insopportabile di
molestie sessuali. L'uomo rischia di perdere il lavoro, la famiglia, tutto. Ma la
denuncia è falsa, e la commedia vuole far riflettere sull'uso terroristico che certe
donne fanno della loro debolezza. David Mamet scrisse il testo nel 1991, all'epoca
del caso Anita Hill, la giovane laureata che portò in tribunale il suo capo, il giudice
Clarence Thomas, sostenendo di avere ricevuto molestie sessuali sul posto di
lavoro. L'accusa non fu mai provata ma fece molto scalpore perché in quel periodo
il Senato americano doveva decidere se confermare la nomina di Thomas alla
Corte Suprema. Lui si difese dicendo di essere stato linciato perché nero e di
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destra, ma il caso finì presto per assurgere a simbolo della lotta tra il movimento
femminista e il potere dell'uomo.
Se devo essere sincero, non me ne frega un cazzo di tutto questo. Non sopporto
gli atteggiamenti maschilisti e non mi piace la permalosità delle donne quando si
affrontano argomenti politicamente scorretti, tipo far notare che il mondo è pieno
di maschi con la bava alla bocca ma anche di studentesse che scopano con i
professori per avere buoni voti. Ho scritto queste righe sullo spettacolo per un solo
motivo: non voglio farmi credere uno stupido insensibile zotico ignorante che,
occasionalmente invitato a teatro, si metterà a sonnecchiare sulla poltrona.
229
meno!»
Minaccia inutile. Non riuscivo veramente a fermarmi: ero esaltato, eccitato,
infervorato.
Il tizio, grande e grosso, mi avrebbe certamente fatto a pezzi, ma come nelle
favole più belle, ecco che, per santa volontà, apparve un angelo a salvarmi. Non
proprio uno di quelli con le ali e senza sesso: un'angioletta bionda con le tette
leggermente affioranti da una vestaglia di seta rosa: «Vieni a cenare con noi. Così
potrai continuare a manifestarci la tua passione».
«Antonella, sei gentile, ma non so se posso… se riesco ad accettare… io, quando
mi trovo fra gente che non conosco, divento timido e impacciato…»
«Non mi pare» dice lei. E mi accorgo che sta guardando… oh, no! Ho addosso il
cazzo mitragliatore e questo crea un equivoco sulle effettive dimensioni della mia
artiglieria naturale, quella anatomica.
«Vieni e basta».
Mi prende una mano e mi tira a se, quasi mi abbraccia. Dice: «Sei lo spettatore
più entusiasta che ho mai avuto».
Andiamo verso i camerini mentre il custode bofonchia altre minacce, e col
trambusto che si è creato, il serialkilleraggio va a farsi benedire, almeno fino a
domani.
Ho sempre odiato la domanda: «Che lavoro fai?» oppure: «Cosa fai?» che poi è
lo stesso, perché alla gente non importa cosa fai per essere felice, vuol sapere che
lavoro fai e quanti soldi guadagni, e ti giudica per quello.
«Mi togli una curiosità: che lavoro fai?» dice un tizio che si presenta come il
regista dello spettacolo.
«Scrivo».
«Ah, bello. E che lavoro fai?»
«Te l'ho appena detto».
«Hai detto che scrivi, sì, ho sentito. Ma di lavoro?»
Cazzo, ecco perché sono un tipo solitario e, certe volte, l'idea di ritrovarmi tra la
gente mi fa venire l'orticaria.
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«Riparo Cadillac».
«Bene, sei un meccanico! Devo farti sentire il motore della mia Mercedes. Ha un
suono che non mi convince».
«Scusa, ma non hai sentito che ho detto? Io riparo Cadillac. Per la precisione, la
Cadillac De Ville Fleetwood 60 Special».
«Vuoi dire che ripari un solo tipo di macchina?»
«Esatto, ma è una macchina speciale, tutta rosa: Elvis ne aveva una».
«E così vorresti dirmi che sei un meccanico di automobili rosa?»
«Della Pink Cadillac».
«Ma quanto ti fai pagare?»
«Devo ancora deciderlo. È un'attività che ho aperto ieri. Aspetto il mio primo
cliente».
«Toglimi un'altra curiosità: sei un comico o solamente uno stronzo?»
Questo provoca. Sento un fremito al cazzo, come il clic di un grilletto, e sono
pronto a mitragliare. Ma devo stare calmo. C'è Antonella: «Vieni, Francesco. In
attesa che portino la cena, facciamo due passi sul lungomare. Devo chiederti una
cosa».
Il curiosone fuma di rabbia, scuote la testa.
«Eccomi, Antonella» dico io.
Passeggiamo, e lei mi prende sottobraccio.
«Hai mai pensato di dedicarti al cinema? Credo che tu sappia di essere molto…
ehm, dotato per un certo tipo di cinema. Hai capito cosa sto tentando di dire?»
«Oh, ma lui è così per te».
Una mezza verità.
«Mi fai arrossire».
«Sono sincero. Non lo dico per sedurti o perché voglio approfittare di te».
«Sei proprio sicuro?»
«Ma certo! Io non potrei mai fare sesso con te».
«Ah, no? E perché?»
«Io…»
«Sei gay?»
«No!»
«Mi vedi brutta?»
«No!»
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«Fai parte di una setta religiosa che considera il sesso un peccato mortale?»
«No, no!»
«Ti piacerebbe fare l'amore con me sulla sabbia?»
Impietrisco. Mi piacciono le donne che vanno dritte al punto, ma come faccio a
spiegarle che ho montato il cazzo mitragliatore che dovrebbe servire a spappolarle
il cervello? Se mi spoglio, lei comincerà a urlare per la paura e il disgusto. Ma se
rifiuto, penso che rimpiangerò a lungo di essermi perso l'ultima scopata della mia
vita. Prima di un ergastolo, stare con lei sarebbe come chiudere in bellezza. Che
faccio?
«Antonella, perdonami: devo andare in bagno. Mi aspetti qui?»
«D'accordo, ma fai in fretta».
«Volo».
Com'era quella frase latina che mi avevano insegnato al liceo? Veni, vini, vici…
no… vissi, venni, no… vidi, vinsi… no, non è il momento per le divagazioni.
Corro, entro in bagno, smonto la mitraglia, nascondo i pezzi nella vaschetta del wc
e via in spiaggia.
Com'era quella frase? Vidi… sì: la vidi che mi aspettava nuda, nella fresca
oscurità, a gambe aperte. Venni… sì: venni di sicuro, e forse anche lei, seppure i
suoi urletti di piacere seguirono una curva sonora discendente, e questo mi
dispiacque. Vinsi… non lo so, non posso essere sicuro che fu una grande vittoria,
perché Antonella mi raggelò chiedendo: «Eri emozionato?»
«Sì, perdonami».
«Se farai del cinema, dovrai imparare a essere più freddo. È questo il segreto:
caldo ma freddo, turgido e razionale».
«Sono mortificato».
«Stai tranquillo. Lo spettacolo resta in cartellone una settimana. Ti do il biglietto
per domani».
«Grazie».
Tornammo al ristorante e lei andò a buttarsi tra le braccia del regista, flirtando
con lui, tutta moine e occhi dolci.
Una grande attrice e una grandissima troia.
69. Repliche.
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Seconda replica, seconda scopata. Terza replica, terza scopata. Il sesso con
Antonella andava sempre meglio, tranne che per tre particolari: 1) Io mi ero
infatuato e lei continuava a civettare col suo gruppo; 2) Laura si stava
insospettendo e non potevo continuare a dirle che avevo trovato un lavoro
temporaneo come lavacessi del teatro, perché prima o poi sarebbe venuta a scoprire
la tresca; 3) L'evidente sconquasso sentimentale che m'impediva di uccidere
Antonella dava a Paola tutto il tempo necessario a fottermi, in qualunque modo
stesse pensando di farlo.
Tre pensieri ossessivi che mi causavano ansia e batticuore. Dice il saggio:
«Canta che ti passa».
Io ci provo, ma funzionerà? Non lo so, più no che sì.
71. Amore.
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comincia a spingerti forte, così forte che all'inizio è entusiasmante, ma poi ti
prende la paura di cadere e farti male. Vorresti scendere.
Questo è lo squilibrio, per consuetudine chiamato amore.
Quarta replica.
Sarei capace di ripetere il copione a memoria, ma quando guardo Antonella
recitare, la guardo solamente, non ascolto nulla. Ciò che faccio è vedere le sue
forme come pure forme, astraendole dalle battute del personaggio e dal rapporto
con gli altri attori. E se dico che ho occhi solo per lei, lo dico letteralmente. Mi
sforzo, riuscendoci, di ignorare la trama, il contesto in cui è stata prodotta o qual
era lo stato d'animo del drammaturgo mentre la scriveva. Sono come un sordo che,
a un assolo di piano, fissa il musicista e ne ricava ugualmente una grandissima
emozione, simile all'eccitante rapimento di chi ha scalato le vette della
comprensione artistica. E non provo il disappunto di essermi perso una serata
davanti alla tv a rivedere un horror del mio amato Dario.
Ieri, mentre io e Antonella guardavamo le stelle sdraiati sulla sabbia, le ho detto:
«Sei così brava che anche se leggessi l'elenco del telefono riusciresti a darmi
un'emozione unica».
Mi sembrava un complimento bellissimo, ma lei si è limitata a un tiepido sorriso.
Ha risposto: «Questa frase me l'hanno detta almeno un migliaio di volte».
Mia cara, ho pensato, mordendomi la lingua per non parlare, io sono un uomo
che dice cose banali ma ne fa di originali.
Quinta replica.
Ho notato che Antonella non si scandalizza se qualche idiota esce dalla sala
senza aspettare la fine dello spettacolo. Per me invece è un'intollerabile mancanza
di rispetto. Ieri sera uno spettatore brutto, con la testa calva e gibbosa e una pancia
incredibilmente gonfia che gli straripava sulla poltrona, si è alzato e si è diretto
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verso il bagno proprio un attimo prima che Antonella entrasse in scena all'inizio
del terzo atto.
L'ho seguito e civilmente ho aspettato che si liberasse l'intestino. Temevo che
l'impatto del piombo su quel pallone gonfiato potesse farmi arrivare degli schizzi
di merda sulla faccia.
Sesta replica.
Quello che ho fatto la sera prima ha avuto delle brutte conseguenze. Dopo il
ritrovamento dei pezzi del ciccione, Antonella mi ha raccontato di avere calpestato
un prepuzio insanguinato e di essere talmente disgustata che non riuscirà a fare
sesso per chissà quanto tempo. Per di più, il teatro si è riempito di poliziotti e ce
n'è uno che mi guarda male, non so spiegarmene il motivo.
75. Solo!
Ultima replica.
Non sono andato perché Laura ha preteso che l'accompagnassi alla presentazione
del libro di uno scrittore locale, Gennaro Settevoci, calzolaio di professione e
storico per passione, che ha scritto un saggio intitolato: La produzione della salsa
da sugo a Caceovo dall'avvento del fascismo all'entrata in guerra.
Gennaro Settevoci è lo zio della sorella di un amico del cognato del capo di
Laura, e quando una persona rispettabile e potente come il capo ti invita a certi
avvenimenti mondani, ha detto lei, non si può fare la brutta figura di non esserci,
costi quel che costi. Però le ho fatto promettere che a mezzanotte mi avrebbe
lasciato andare a teatro, altrimenti sarei stato licenziato.
Laura si è dispiaciuta e ha cercato di trattenermi dicendo che desiderava tanto
farsi una foto con me e con lo scrittore, ma io ho detto: «No. È un pensiero
bellissimo, ma devo proprio andare».
Alle undici e quarantatré minuti ero al Circus, giusto per vedere Antonella e gli
altri che caricavano le valigie su un furgone.
235
76. Ciao, amore, ciao.
77. Le riflessioni che seguono non devono essere lette da chi soffre di
depressione o ansia connessa alla depressione.
Io sono uno che si è illuso. Sono lo scemo del paese, sono uno che ha tradito.
Tradito chi? Se stesso. Sono uno che si è fatto piombare addosso un
innamoramento e una delusione da rimanerci schiacciato, e ora che Antonella è
partita, mi sono rimasti i ricordi, la nostalgia, la voglia di piangere, cinque scopate,
per me straordinarie, per lei chi se ne fotte, ma cos'è la nostalgia? Il cancro
dell'anima.
La famosa è andata via famosa e viva. Lo sconosciuto è rimasto sconosciuto e
mille volte più morto di tutti i morti, perchè è morto nell'anima e non vede più un
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futuro, non sente il profumo della gloria, e che vi devo dire ancora? Piuttosto che
seppellirvi sotto badilate di negatività, preferisco sparire.
PAOLA
237
FRANCESCO
78. Autocritica.
Mi ero dimenticato di dire una cosa, e anche se è una cosa triste volevo dirla lo
stesso, perché è importante. Mi ero scordato di dire che ho fatto la figura
veramente patetica del serial killer di paese che, di fronte a un nuovo e più
autorevole genere di vittima, un'attrice con un passato di soubrette televisiva,
mostra tutto il suo spaesamento e il suo candore e finisce per innamorarsi di lei.
È la storia, accaduta mille volte, della ragazza di città che arriva in paese e fa
innamorare in modo irresistibile un ragazzo poco scaltro, per poi abbandonarlo nel
dolore e nel grigiore della vita di prima.
Ecco, tutti i miei fallimenti derivano dall'essere nato in questa merda di paese.
La mia testa è di paese. Il mio cuore è di paese. Io, dannatamente, questo essere di
paese l'ho sempre visto come una condanna che Dio ha voluto infliggermi.
Perciò m'ammazzo.
PAOLA
L'altro giorno, mentre pagavo la spesa alla Coop, ho chiesto alla cassiera:
«Come si chiamano gli abitanti di Magnavacca?»
E lei ha risposto: «Gli abitanti di Magnavacca si chiamano magnavaccanti».
«Complimenti per la risposta», ho detto io.
E poi ho aggiunto che non volevo essere ironica, ma sottolineare che in quella
sua risposta c'era tutta la precisione dei popoli del Nord, così simili a studenti
modello che quando chiedi loro: «Quali sono gli affluenti del Po?» rispondono:
«Gli affluenti del Po sono…», e quando chiedi: «Chi fu il primo re di Roma?»
rispondono: «Il primo re di Roma fu…». Invece, a Caceovo tagliano corto e
rispondono: «Giulio Cesare».
Io penso che fra tanti magnavaccanti, in questo clima precisino riuscirò a
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recuperare dalla memoria la storia di Francesco, che al momento è vaporosa e
grigia come la nebbia che avvolge queste zone.
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Ava Gardner. Vuoi sapere come ci sono riuscito?»
«Magari un'altra volta».
«Non so se hai capito che io posso farti ricca».
«Certo che l'ho capito, ma ho un romanzo che voglio finire al più presto».
«E va bene, mi arrendo. Ma tu sbrigati e soprattutto prega che non arrivi un'altra
scrittrice a chiedermi la camera, perché allora rimpiangerai di avere perso una
grande occasione».
Ha smesso di parlare facendo un sospirone, e io ho pensato che la vita degli
scrittori, quelli veri, dev'essere una rottura di coglioni ininterrotta.
Dal giorno dopo, ogni volta che suonava il telefono sentivo un brivido. Mi è
venuto in mente Scream, un film horror in cui il telefono era usato per terrorizzare
e annunciare degli omicidi, e c'era un assassino che si chiamava Stu. Mi sono
ricordata che quando Dru mi ha portata a vedere quel film, io l'ho preso in giro per
tutto l'intervallo, ripetendogli ossessivamente: «Ma sei Dru o sei Stu? Se sei Dru
mi scopi, se sei Stu mi ammazzi. Se sei Stu sei stupido, però. Chi sei?».
Io ridevo, mi divertivo un sacco a dire quelle frasi, ma lui a un tratto si è
scocciato e ha fatto il gesto di tagliarmi la gola. Sono rimasta pietrificata e c'è
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voluto che quella notte mi leccasse la patata per calmarmi.
Comunque, non può essere stato Dru a cercarmi alla pensione. Anche se gli ho
detto che lo mollavo ed è incazzato come un dio vichingo, Dru non ha il fiuto dello
sbirro. Mi chiama sul cellulare ma non riuscirebbe mai a rintracciarmi.
46. Muu!
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48. Cinque domande che da piccola mi facevo sulle muuucche.
49. Cinque risposte che ho avuto conversando con Marangon Luigi perché mi
annoiavo come una mucca in un campo di sassi.
Questo posto è strano. Sul muro di cinta c'è un'insegna con la scritta
AGRITURISMO MUNGI CHE TI PASSA, e va bene, avranno preso un
copywriter, ma di agricolo non c'è nulla. Per me agricolo significa piante,
contadini in canottiera e cappelli di paglia. Qui ci sono solo una decina di vacche
da latte e nemmeno una famiglia di città con un figlio adolescente immusonito
perché voleva andare a giocare a calcio con gli amici e invece lo hanno portato a
seminare fagioli.
Sono l'unica cliente, passeggio tra le vacche e mi domando: Ma questa gente, i
Marangon, con tre bimbi da sfamare e una moglie che fa i letti e mi prepara la
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colazione, si mantiene con le vacche?
Comunque, è un posto silenzioso e dovrebbe essere l'ideale per una scrittrice che
non riesce a concentrarsi sulla storia da scrivere, riesce solo a concentrarsi sul fatto
che non riesce a concentrarsi. Ah, certo: io non sono una scrittrice di professione,
una scrittrice di un certo mondo, quello là, della scrittura, tutto pieno di scrittori
che parlano da scrittori, con gli scrittori e per gli scrittori; un mondo anacronistico,
come quando a Caceovo si parlava in dialetto e un forestiero non capiva, e noi lo
facevamo apposta, era un motivo d'orgoglio, come dire: noi siamo noi e voi andate
a fare in culo. Ora a Caceovo si parla anche il senegalese, pensa un po' quanto ci
siamo evoluti, quanto siamo educati, quanto siamo moderni, a Caceovo.
Io non sono una scrittrice, sono un'insegnante supplente di terza fascia con la
pretesa di scrivere e diventare famosa, e forse è per questo che, anche se ricordo
quasi tutto del diario di Francesco e ci sono dei momenti che penso di poterlo
riscrivere in un paio di mesi, poi, quando comincio, non so come continuare, forse
perché l'ho letto in fretta, forse perché non mi do pace di averlo perso troppo
troppo troppo troppo stupidamente. Ho un sacco di parole nella testa e non riesco a
decidere quali usare prima. È come avere un armadio pieno di vestiti e non sapere
cosa mettersi.
51. La proverbiale scontrosità degli uomini che vivono in campagna non riesco a
condannarla del tutto, forse perché, quando leggevo Topolino, il mio personaggio
preferito era Dinamite Bla.
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mondo, e se anche gli critichi la merda, è capace di ammazzarti e farti imputridire
sotto due metri di terra nera.
Molti assassini li ignoriamo non perché loro non ci darebbero a vedere cosa
sono, ma perché il modo formale in cui la società ci impone di trattare gli altri è un
deterrente a scoprirne la vera natura.
Questo pensavo, però forse mi sbagliavo e Marangon Luigi era solo un
allevatore innamorato delle sue vacche. Ma chissà.
Ieri sono andata in paese e in un bar dove vendevano anche libri usati (non vi
entusiasmate: vendevano sei libri), ho comprato Il supermanuale dell'aspirante
scrittore che non vuole arrendersi ai rifiuti scritto da Ralph Anatra.
Intanto dovevo insospettirmi e non l'ho fatto, perché il libro è del 1993 e su
qualunque libreria on line avrei potuto facilmente scoprire che questo Ralph
Anatra non ha più pubblicato nulla, dunque è probabile che lo scrittore che
insegnava come non arrendersi ai rifiuti si è arreso. Ma l'aspetto più sconfortante è
che i suoi consigli, definiti nella fascetta gli straordinari segreti e i fantastici
consigli per vivere una meravigliosa vita da scrittore di successo , sono scritti con
la sicumera di chi meriterebbe il premio Supercazzola per la letteratura Self-help.
A pagina 7 Ralph scrive, anzi urla, tutto in maiuscolo: CONSIGLIO NUMBER
ONE: VOLETE SCRIVERE? SCRIVETE. Il resto della pagina è bianco, forse per
dare modo al lettore di scriverci tutte le cazzate che gli sarebbero venute in mente.
E infatti qualcuno aveva scritto a penna: Vaffanculo tu, il tuo inutile libro e pure io
che ci ho rimesso ventimila lire.
A pagina 8 Ralph blatera: Per mettere in pratica il CONSIGLIO NUMBER ONE,
vi serve conoscere il SEGRETO NUMBER ONE, che è la risposta a questa
cubitale domanda: «SAPETE QUAL È IL PRIMO PASSO PER DIVENTARE UNO
SCRITTORE DI SUCCESSO?
Difficile, vero? Per fortuna c'è Ralph: SE NON AVETE I SOLDI PER UNA
OLIVETTI LETTERA 35, ANDATE IN CARTOLERIA E ACQUISTATE UN
QUADERNO E UNA PENNA. E il resto ancora in bianco: una nuova distesa di
assoluto nulla certamente dedicata ai lettori futuri e a me contemporanei, per dare
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il tempo di pensare, con struggente nostalgia, che nel 1993 qualche scrittore usava
ancora la penna.
Lo straordinario meraviglioso fantastico supermanuale ce l'ho qui, sul tavolino e,
guardando le mucche al pascolo, mi chiedo se questi… a occhio e croce… 300
grammi scarsi di carta sprecata possano servire a concimare la terra.
53. L'autrice condivide la sua prima regola sull'arte della scrittura e forse un
giorno scriverà un manuale per parlare delle cose che ha imparato senza leggere un
manuale.
Per cucinare un buon libro bisogna guardare dentro la propria mente e spremerla
come fosse un'arancia. Ecco, mi sembra una buona metafora: l'arancia è il cervello
e lo spremiagrumi è la volontà.
Questa è bella e non l'ha scritta Ralph Anatra, perché in quel caso il capitoletto
si sarebbe chiamato «53. Anatra all'arancia».
Nonostante i buoni propositi e una certa chiarezza, diciamo così, teorica, non
riuscivo a concentrarmi sulla scrittura, e ogni volta che squillava il telefono, mi
prendeva un batticuore da impazzire e immaginavo Marangon che bussava alla mia
porta e diceva: «È per te».
Poi, passato lo spavento, pensavo: Mi pare che in questo posto solo io sono
terrorizzata dalla morte. Neppure le vacche sembrano pensarci.
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Aspettare l'evolversi degli eventi era come favorire chi voleva giocare con me
come il gatto con il topo. E d'altra parte, non potevo scappare di paese in paese,
poiché evidentemente ero seguita, e non potevo tornare a casa e consegnarmi
scioccamente nelle mani di Francesco. Nulla mi appariva possibile e sensato.
Proprio nulla?
Io sono sola, Francesco è solo. Io avevo Dru, ma non era una relazione così forte
da potergli confessare in che situazione mi ero andata a cacciare. Francesco ha
Laura ma anche lui deve nasconderle tutto, questo è logico, non può dirle quello
che fa. Anche se la storia del crimine è piena di coppie assassine, io ho visto
Francesco che agiva da solo, e poi i suoi delitti sono così sessuali e perversamente
maschili che non potrebbbero appassionare una donna. Quanto a suo padre, non si
può neanche immaginare che il vecchio sia in qualche modo coinvolto, ridotto
com'è su una sedia a rotelle e pieno d'odio nei confronti del figlio.
Io sono sola e ognuno dei personaggi di questa storia sembra perduto in una
solitudine più o meno marcata.
Ma allora, rimanendo ancorata a pensieri razionali che escludono queste persone:
chi mi perseguita, chi sa, chi non dice, chi devo temere?
Ci penso e ci ripenso ma non ne vengo a capo, il nulla vince sempre. E se la
soluzione stesse nel rovesciare i ragionamenti?
Chi potrebbe interesse a uccidermi per salvare l'anonimato del mostro? Forse
Laura? Sì: quella donna vive a casa di Francesco da anni, e anche se tra loro non
c'è più la passione dei primi tempi, sono certa che, seppure tra mille rischi e
sofferenze interiori, preferirebbe evitargli il carcere.
E il padre di Francesco? Forse preferisce evitare la vergogna di finire sotto la
gogna mediatica. Per la sua mentalità sarebbe insopportabile sentire tutta Caceovo
che lo addita come il padre di un crudele assassino.
La madre? A lei non ho mai pensato, mai congetturato su un suo
coinvolgimento, e però, come diceva non so chi, il cuore di una madre è un pozzo
d'amore in fondo al quale si trova sempre il perdono. E in questo caso il perdono
sarebbe unito alla volontà di avere il figlio accanto per i giorni che le restano.
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Infine, Dru: è sempre stato instabile, e sentendosi offeso dalla mia decisione di
non condividere fatti così importanti, e per di più mollato in malo modo, potrebbe
avere deciso di vendicarsi.
Vista in questo modo, io sono sola, come ho detto all'inizio, e loro sono tutti.
Marangon Luigi si è stancato di correre dalla stalla al salotto e dal salotto alla
mia camera per dirmi che ho una chiamata e poi vedere che vado a rispondere e sto
due secondi alla cornetta perché mi hanno chiuso il telefono in faccia. Mi ha detto
che ormai aggredisce la sconosciuta dalla voce metallica con frasi molto dure, tipo
stamattina, ho sentito che urlava: «Brutta zoccola di merda, troia maledetta, ma che
fai non ci senti? Vai a farti fottere! Morirai, stronza, se continui a rompermi le
palle tutti i giorni con queste telefonate!» e poi mi ha raccontato che lei ha
risposto, freddamente: «Perché si scalda tanto? Io volevo solo parlare con Paola».
Marangon Luigi mi ha detto che lui è un uomo riservato che si è sempre fatto gli
affari propri senza ficcare il naso nelle faccende degli altri. Però se quelle
telefonate non finiscono, ne parlerà a suo nipote che è appuntato.
Io credo di essere sbiancata come un fantasma che immagina di trovarsi faccia a
faccia con un acchiappafantasmi e ho farfugliato la bufala che le telefonate sono di
una mia ex collega di scuola il cui marito l'anno scorso si è infatuato di me e ha
deciso di lasciarla.
Gli ho anche detto che andrò via per non creargli dei fastidi, ma non gli ho detto
che scappo dall'ipotesi di avere intorno a me un appuntato dei carabinieri che
comincia a fare il curiosetto.
Che ci vado a fare lì? E là? Tutto il giorno escludo posti dove andare alla ricerca
di quel poco di silenzio che mi serve per scrivere. E tutti i giorni penso a come
smascherare la mia persecutrice. E tutti i giorni vado a dormire in un paese diverso
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e con un grande mal di testa.
La sostanza è che ho scritto tre pagine in un mese, ho speso quasi duemila euro e
ogni sera mi domando: Cosa ho combinato di buono oggi?
Un cazzo.
59. Parole come viene viene (che è un modo per dirvi che sto quasi impazzendo).
Sento che sono quasi alla fine di questa storia disgraziata e sono stanca, mi
mancano le forze, ormai è chiaro che non riuscirò a scrivere il mio libro, è più di
un mese che sono fuori casa, non ce la faccio, tornare indietro non si può, tornare
indietro, già, sarebbe bello, non si può. Comunque, voglio dire che se tornassi
indietro, se potessi, magari c'è una parte dell'azzurro universo dove si può mettere
indietro l'orologio e vedere i treni che all'incontrario vanno. Ma io su quei treni
frequentati da Francesco non ci salirei nemmeno per scherzo.
Di notte, prima di addormentarmi, penso che se devo morire, sarebbe meglio
farlo da vecchia, cioè: farlo non lo farei affatto, ma se dovesse essermi fatta,
adesso, questa spietatezza, se proprio devo morire, una volta pensavo che sarebbe
stato meglio morire nel sonno, ma a furia di pensarci mi ricordo che non riuscivo
più a dormire, avevo troppa paura di morire nel sonno, e però se è destino che io
debba essere uccisa prima di avere scritto il romanzo che smaschera Francesco,
penso che morirei triste, sarebbe come morire per non avere commesso il fatto, e il
fatto, pensate alla tristezza, alla patetica tristezza, il fatto sarebbe la mia vita.
Se invece mi salverò, ho paura che non mi salverò dalla siderodromofobia, che è
un nome complicato per dire la fobia della corsa del ferro, dal greco dromos e
sideros, cioè la paura di viaggiare su un pezzo di ferro che corre, per brevità
chiamato treno. E ci saranno dei giorni che andrò alla stazione, farò il biglietto e
guarderò i treni partire.
A casa avrò un raccoglitore con fogli trasparenti e tutti i biglietti dei viaggi non
fatti.
La gente dirà: «È pazza».
La gente ha il vizio della sintesi.
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60. Esegesi.
61. Mutante.
Sogno: Francesco, vestito come il clown cattivo Pennywise, esce dallo scarico
del gabinetto e mi prende in giro per la mia incapacità di scrivere il libro su di lui.
Io prima mi metto a piangere e poi mi accorgo che ho gli artigli di metallo alle
mani, come Wolverine. Allora lo infilzo e gli faccio vomitare sulle piastrelle del
bagno tutto il sangue e i brandelli di corpo umano che si era mangiato.
Mi sveglio e non ho voglia di fare colazione.
FRANCESCO
79. Briciole di vita quotidiana di un serial killer che ha smesso d'inseguire i suoi
sogni.
Solo per dirvi che ho una nuova passione, vado spesso in biblioteca e il motivo è
sempre quello: ammazzare.
Ammazzo il tempo, e oggi mi sono innamorato di due versi belli e tragici di
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Ernesto Ragazzoni su un tale che si è sparato alla testa:
…e un giorno si fece saltar le cervella,
con tutte le storie che c'erano dentro.
PAOLA
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«E perché l'avresti fatto?»
«Mi facevi divertire. A quel tempo non c'era Youporn, e per vedere una scopata
bisognava affacciarsi sulla Terra e seguire qualche bella troietta che ci sapeva fare.
Tu eri la mia preferita».
«Ed è per questo che sono finita all'inferno?»
«No, la ragione principale è un'altra. Il tuo posto non è nel girone dei
lussuriosi».
«Ah, no? E dove allora?»
«In quello dei minchioni».
E poi, d'un tratto, mi sono svegliata. Ormai dormo pochissimo, due o tre ore a
notte, forse perché cambio continuamente letto (sto scrivendo da Melegnano, a 33
minuti di treno da Milano). Mi sveglio in un bagno di sudore e ricordo di avere
fatto sogni strani con un motivo ricorrente: i personaggi cambiano, le
ambientazioni cambiano, le sceneggiature cambiano, ma io vengo sempre derisa.
Il modo più preciso in cui posso descrivere la sensazione che ho al risveglio è
paragonarla a quello che provavo quando mia madre mi toglieva le coperte alle
sette del mattino urlandomi di alzarmi e andare a scuola. Improvvisamente, sentivo
un freddo che non era solo del corpo, ma molto più interiore. Era il freddo della
consapevolezza che un altro giorno di merda stava per cominciare. Un altro giorno
di inutili sbattimenti e libertà di agire come un computer programmato.
251
avevo diciott'anni, per una gita scolastica, e da Pescara a Parigi e da Parigi a
Roma, in vacanza con D'Ovidio Daniele, imprenditore della pasta e mio amante per
tre mesi, e mi ricordo di avere sempre chiesto se la rotta passava sul triangolo delle
Bermuda.
Inoltre, ho pensato:
E se un fulmine colpisce l'aereo? E se il motore si spegne improvvisamente o
prende fuoco? E se va via la luce e ho un attacco di panico? E se un terrorista fa
esplodere l'aereo perché è convinto che la via più breve per raggiungere il Paradiso
è morire a 10.000 metri d'altezza? E se il carburante finisce? E se nevica e il
ghiaccio appesantisce le ali? E se una porta si apre in volo? E se i due piloti sono
amanti e si mettono a litigare poco prima della manovra di atterraggio? E se scelgo
una compagnia che non ha mai avuto un incidente, e finisco per incappare nella
legge del "prima o poi"?
La mia paura degli aerei sarà anche immotivata, ed è sicuramente vero che i
mezzi di locomozione più pericolosi sono le moto, seguite da biciclette, auto,
camion e treni. Ma avete mai sentito parlare di windshear? Se vi siete appena
imbarcati e mi state leggendo, non smanettate su Google in cerca di questa parola.
Potreste ritrovarvi a fare i pazzi davanti a tutti implorando le hostess di farvi
scendere.
E comunque a Auckland non vado. È un'idea che quasi non ha senso, una di
quelle idee che ogni tanto mi vengono e sembrano meravigliose, ma dopo perdono
potenza, si affievoliscono come note in dissolvenza, le senti un poco nelle orecchie
e non le senti più.
Silenzio.
Inconcludenza.
Vuoto.
252
Non è vero, dico io, e vaffanculo.
Arrendersi è la via per sottrarsi all'ansia e al battito impazzito del cuore, dice un
sacco di un sacco di altra gente.
Questo è vero, in parte. Arrendersi è un sollievo, ma non si può alleviare il
dolore con la rinuncia. Perché il dolore si sposta da un'altra parte, ma sempre a te
rimane.
Sono su un bus che tra nove ore mi riporterà in paese, ma non mi sento una
perdente. Sono una che ci ha provato.
Chissà Francesco cosa fa. Forse sta organizzando l'omicidio della star, la grande
star. Forse è questione di giorni. Forse sto tornando giusto in tempo per assistere
all'ultimo spettacolo, il commiato del grande mattatore.
Mi sono arresa ai tanti errori che ho commesso, alla mia inettitudine, alla perdita
di un manoscritto che era oro, alla paura per quel cazzo di telefonate che mi
turbavano e rimangono un mistero, ma anche se non sono riuscita a conquistarmi
una vita da palcoscenico, almeno per una sera voglio un posto in prima fila.
Perciò tornerò a seguirlo.
65. Il Super Music Tour fa tappa a Pescara. I grandi artisti internazionali del pop
si esibiscono al Teatro D'Annunzio.
Sono andata, ma Francesco non c'era. Ho pensato che un'occasione simile non si
sarebbe presentata per anni. L'ho cercato in platea, tra le quinte e dentro i camerini,
fino a farmi insultare da uno stronzo di addetto alla sicurezza.
Ora so che avrei dovuto appostarmi sotto casa sua e aspettare che uscisse, capire
se aveva la febbre o qualche altro problema. Sono andata di fretta al concerto
perché pensavo che per uno come lui, che ha fatto del desiderio di celebrità il tema
di una vita, fosse impossibile non esibirsi lì con il suo cazzo mitragliatore, di
fronte a un sacco di gente predisposta a venerare una star, la nuova star
dell'omicidio seriale.
FRANCESCO
253
80. Reinventarsi.
Ieri sono andato a vedere Il Giovane Favoloso, che è un film su un poeta che
avevo letto a scuola perché mi avevano costretto, e ora invece mi piace da
impazzire: Giacomo Leopardi. In sala c'ero io e c'era una ragazza grassottella con
gli occhiali, la frangetta, un maglione a collo alto e i pantaloni di velluto, e tra le
mani un libro sui poeti del romanticismo europeo che ha letto durante l'intervallo.
Ho pensato che viviamo in una società dominata da un pensiero unico e banale
dove tutti vanno ai concerti di musica leggera e nessuno accompagna una ragazza
così bella a vedere un film così bello.
PAOLA
66. E tu.
Ieri era l'ultimo giorno che a Pescara proiettavano Il Giovane Favoloso, un film
con Elio Germano, un attore che mi fa sangue. Io invece sono andata a un concerto
pieno di gente isterica che applaudiva altra gente isterica che, per il solo fatto di
essere su un palco, potrei suppore fossero artisti.
E tu, Francesco, che mi hai fatto perdere il favoloso Elio Germano, si può sapere
dove cazzo eri?
254
vive con la pensione dei genitori e non è mai riuscito a trovarsi un lavoro, ma lui
non presta orecchio alle opinioni della gente e conduce una vita solitaria fatta di
abitudini estremamente regolari, come la passeggiata per il centro alle diciotto e la
messa un'ora dopo. Di sera non esce mai e guarda la tv con la sua compagna Laura,
soprattuto film d'amore e documentari sugli animali».
«Non esce mai?»
«No».
«Neanche un giro in treno?»
«La fissa dei treni gli è passata. Sembra che diversi anni fa, a detta di alcuni
paesani, la bocciatura a un concorso delle Ferrovie gli avesse fatto provare un forte
sentimento d'invidia per un cugino che era diventato capostazione a Viterbo grazie
alla raccomandazione di un ministro, e così, in attesa di una nuova selezione,
Francesco trascorreva un sacco di tempo a girovagare di stazione in stazione,
cercando di imparare tutto il possibile sui treni. Ma il mese scorso, con l'aiuto di
uno psicologo, ha imparato ad accettare la sua condizione di mancato ferroviere
senza farsene una colpa».
«Certo che Francesco è cambiato parecchio nell'ultimo mese. Lei non crede,
signora Gina?»
«Tutto scorre».
La signora Valente Gina, ottantenne titolare dell'omonima cartoleria, ha detto
quest'ultima frase come se invece di una pittilona abruzzese fosse un esemplare di
siculi virgo femina morem pellis hispidus et muta, nome scientifico che sta per
vergine siciliana non molto attraente che se vede un uomo che squarta un altro
uomo si tappa gli occhi, le orecchie e la bocca perché l'assassino si è sempre
comportato bene con lei.
In certi momenti, a sentirla, mi è venuto da pensare che molto dice e molto tace,
ma in paese sostengono che è spiona e loquace come solo le decrepite zitelle di
provincia sanno essere, e va bene, vuol dire che Francesco si è fatto santo.
68. Empirismo.
255
alle sette e venti. Un'ora dopo è tornato e alle dieci è andato in biblioteca, da dove
è uscito nel tardo pomeriggio stringendo tra le mani una biografia di Giacomo
Leopardi. La sera l'ho spiato da sotto la finestra mentre insieme a Laura guardava
un documentario sulla vita sessuale della rana pescatrice, un pesce dall'aspetto
minaccioso che vive negli oscuri fondali marini. Il volume era molto alto, così ho
sentito che quando un giovane maschio incontra una femmina, la afferra con i denti
e non lascia più, fondendosi con la sua pelle e con i vasi sanguigni e rinunciando a
tutti i suoi organi interni tranne i testicoli, che restano esterni e penzolanti su un
lato del corpo della femmina, rifornendola dello sperma necessario alla
fecondazione.
È dunque provato che Francesco non frequenta più i treni ma ha conservato il
gusto per l'orrido.
L'ho seguito per dieci giorni, a distanza ma senza mai mollarlo. All'inizio
sospettavo che la sua normalità fosse un nascondimento che serviva a preparare il
delittone. Molta finzione, pensavo, sono tutte sciocchezze: quel demonio simula la
quiete e prepara la tempesta. Ma giorno dopo giorno, ogni sua abitudine mi
appariva più sincera: le ore in biblioteca, i libri sotto il braccio, le passeggiate in
piazza con le mani dietro la schiena e lo sguardo verso il cielo, come un filosofo
che medita sul mondo.
Quello che proprio mi stupisce è il passaggio da Argento a Leopardi, dalla mater
tenebrarum alla donzelletta che vien dalla campagna. È come se Francesco si fosse
estratto dalla testa una parte di se stesso, come se avesse trovato una cura per la
crudeltà, e questa cura si chiama poesia.
Non so se è una cosa da pazza, ma vedere Francesco che fa una vita normale mi
ha fatto ricordare che io quell'uomo lì volevo farlo andare in galera e volevo che
dal chiuso di una cella s'innamorasse di me. Penso che sì: ero una pazza.
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Sono una pazza pure adesso che lo guardo mentre indossa un ridicolo pigiama
con gli orsetti di due taglie più piccolo della sua misura e provo una vergogna, un
pentimento, mi viene addosso una dolcezza, quasi affetto, e non capisco più che
voglio fare, se l'ho mai capito bene.
Sono una pazza perché ci sono dei momenti, tipo scosse, che mi piacerebbe
essere con lui mentre dorme. Con lui in qualche luogo. Con lui senza paura.
Quando non conosce i fatti, la signora Valente Gina ricorre a frasi vagamente
filosofiche che sembrano volere dire tanto e non dicono niente.
Le ho chiesto: «Perché Francesco esce sempre da solo o con Laura? Possibile
che alla sua età e vivendo sempre in un piccolo paese, non sia riuscito a farsi degli
amici?»
Colei che tutto sa ha risposto: «Ognuno è causa di ciò che ha».
«Ma sono cause psicologiche o anche fisiche?»
«Paoletta cara, vuoi essere felice? Arrovellati il cervello solo quando devi
affrontare un problema che ti tocca personalmente. Quello che vuoi sapere è parte
di un tuo problema o è solo curiosità?»
«Né l'una né l'altra cosa. Francesco è un tipo che m'intriga: originale, misterioso,
complesso al punto giusto».
«Sei innamorata di lui o vuoi scopartelo come fai regolarmente con tutti?»
«Signora Gina, che brutta opinione ha di me! Io sono fidanzata».
«Non dire corbellerie. So che hai lasciato Asdrubale. E so anche che lui ha
un'altra. Si chiama…».
«Ferma! Non voglio sapere il nome della troia».
«Va bene. Comunque, voglio dirti che Francesco e Laura non fanno l'amore da
mesi, però restano insieme. Sai cosa significa?»
«Se due persone non scopano, è segno che la loro storia è finita e presto si
lasceranno».
«Ne sei sicura?»
«Non dovrei?»
«Evidentemente c'è qualcosa di più forte che li lega».
257
«Laura che sa?»
«E cosa dovrebbe sapere?»
«Me lo dica lei».
«Io so quello che mi dice la gente. Non aggiungo una virgola».
«E non può riferirmi quello che dice la gente?»
«Sono fatti privati».
«Ma lei è un'istituzione del pettegolezzo!»
«Io non sono pettegola. Racconto i fatti degli altri solo quando penso che
possano essere utili a chi me li chiede».
«A me sarebbero utili per capire la solitudine di Francesco».
«Ascolta: se ti dicessi quanto so, ti darei il potere di rovinare le vite di molte
persone».
La signora Valente Gina mi invita a bere una tazza di caffè. Si fa vanto di una
miscela speciale contenente un fungo medicinale che si fa spedire tutti i mesi dalla
Slovenia.
«Interessante, ma non posso fermarmi. Si è fatto tardi e devo sbrigare alcune
cose. Sarà per un'altra volta».
«Non sai cosa ti perdi ma ciao».
La verità è che vado via perché mi sento molto inquieta. Ora so che lei sa. Siamo
in due a sapere, e poiché non sono stata io a dirglielo, c'è almeno una terza persona
che sa.
Francesco ha smesso di uccidere o si è preso una pausa, ma ciò che ha fatto è
noto a più persone. I misteri aumentano e cresce anche il timore che mi ronza nella
testa da giorni: io sono sola e loro sono tutti.
E sono sempre di più.
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73. Tristi chiacchiere da bar.
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«Prendere una rivoltella e spappolarmi il cervello. Faremo in modo che sembri
un suicidio».
«Tu sei pazzo!»
«Se non lo fossi, credi che staremmo qui a discutere?»
Gli chiedo, con un filo di voce: «Eri tu a telefonarmi?»
«Non io: Laura. Le ho confessato tutto e lei ha reagito come una persona che mi
ama davvero. Non mi denuncerà».
«Meglio di cosi…»
«Ha capito la mia scelta ma è troppo coinvolta emotivamente per farmi del male.
Abbiamo pensato a te, ma Laura era convinta che se te lo avessimo detto per
telefono, saresti scappata in capo al mondo. L'unica soluzione era quella di attirarti
qui».
«Ma perché proprio io?»
«Conosci la mia storia. E dopo avere visto ciò che sono capace di fare, non credo
che avresti molti rimorsi».
«Tutto questo è ridicolo, un omicidio… no: un suicidio per conto terzi. È
assurdo. Se vuoi ammazzarti, che c'entro io?»
«Morire non mi basta. Voglio provare la sensazione di avere una pistola puntata
contro la tempia e sapere che qualcuno premerà il grilletto. E voglio che sia una
donna a farlo, non ti dovrebbe essere difficile capire il motivo. Per ricompensarti,
ti lascio i miei appunti. Così potrai scrivere il libro sulla mia vita».
«Ci penserò. Ma prima voglio farti una domanda: perché non hai portato a
termine il tuo progetto? Eri così preso, infiammato dall'idea di diventare un famoso
serial killer. Certo, potevi scegliere qualcosa di più semplice, ma non capisco cosa
ti ha bloccato a un passo dalla meta, dopo avere sparso tanto sangue innocente…»
«È quest'odore».
«Cosa?»
«Non lo senti? Tutto qui è avariato: i muri delle case sono umidi, la puzza esce
dai tombini, il paese sembra decomporsi in un acido sulfureo che corrode ogni
cosa, e pure il tempo è immobile, ingoiato da orologi fermi. Caceovo è una palude
di sogni».
«Anche Recanati lo era. Ma il tuo amato Giacomo non si è messo ad ammazzare
la gente! E ha trovato il coraggio di fuggire dal suo inferno di noia».
«Io l'inferno l'ho dato agli altri. Ho rovesciato la mia frustrazione su quelle
260
povere donne, ma non è servito a niente. Ho continuato a sentirmi un povero
coglione inadatto a volgere lo sguardo oltre l'orizzonte. E quando ci ho provato,
l'ebbrezza di una vita nuova e ancora immaginata mi ha stordito, facendomi
perdere di vista i miei obiettivi. Le vedi queste persone sedute attorno a noi? Fanno
colazione e tra poco si alzeranno per andare al lavoro. Si sbattono, producono,
portano a casa uno stipendio e un pizzico di felicità. Di fronte a me sono giganti, o
almeno io li vedo così».
«Che idee sciagurate!»
«Forse. Ma non posso farci niente. Si sono attaccate al mio corpo come piccole
creature voraci che mi succhiano la mente».
Le cose che diceva erano terribili ma catturavano pienamente il mio animo, per
cui mi venne da pensare che, se avessi continuato ad ascoltarlo, mi sarei
infelicemente innamorata.
Dissi: «Non posso più sentirti, mi metti a disagio».
Lui sbuffò, con gli occhi lucidi: «Perché nessuno vuole ascoltare cose tristi?»
«Non lo so, ma ora devo andare».
«Mi aiuterai?»
«No».
La risposta più avara, la più codarda.
Avrei potuto dirgli che soltanto Dio ha il diritto di liberarci con la morte; o che
non potevo sopportare altri pesi, figuriamoci un delitto; o che proprio in quel
momento, per sua sfortuna, mi era venuta voglia di guardare avanti a me, senza
curarmi del passato.
Niente di tutto questo: me ne andai in silenzio, voltandomi ogni cinque o sei
passi per controllare che non mi seguisse.
Non lo fece.
Rimanendo seduto come una statua, o quasi, senza muovere né mani né piedi ma
chiudendo gli occhi, Francesco continuò a guardarmi, guardando il buio che aveva
dentro.
FRANCESCO
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81. Le persone sbagliate.
Ho chiesto aiuto e non mi è stato dato. Ho chiesto a mia madre, e c'è mancato
poco che le venisse un infarto. Ha dovuto prendere il Valium, e quando si è
rasserenata, si è subito incazzata. Ha detto: «È già tanto che non vado a
denunciarti, lurido porco schifoso». Allora ho chiesto a Laura, e c'è mancato poco
che mi facesse venisse un infarto. È caduta a terra, in preda alle convulsioni, poi si
è rialzata con le lacrime agli occhi, ha cominciato a darmi dei pugni sulla faccia,
sul petto, dappertutto. Poi ha urlato: «È GIÀ TANTO CHE IO E TUA MADRE
NON ANDIAMO A DENUNCIARTI, LURIDO PORCO SCHIFOSO». Però,
quando si è calmata, due giorni dopo, mi ha aiutato a rintracciare Paola e c'è
riuscita grazie a un suo collega di lavoro che è sposato con una donna il cui fratello
è fidanzato con la figlia di un poliziotto. Ha seguito i suoi spostamenti e le ha
telefonato tutti i giorni ansimando come un killer in un film di Dario Argento. A
me sembrava un'idea del cazzo, ma Laura è stata più furba di Paola, le ha messo
paura e l'ha fatta tornare. Bene, ma non benissimo, visto che Paola si rifiuta di
uccidermi.
E mio padre? A lui non ho ancora detto nulla. Vaffanculo, ho sbagliato! Forse è
l'unica persona che mi ucciderebbe con gusto.
Dopo che Paola si era rifiutata di aiutarmi, e dopo avere capito che anche un
poeta passato alla storia per la sua solitudine e la sua infelicità aveva almeno un
amico che lo rendeva meno solo e più felice di me, sono andato a dormire e ho
fatto due sogni, diversissimi tra loro.
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Nel primo, mi alzavo dal letto stravolto perché l'insonnia mi stava distruggendo:
non sarei riuscito a dormire neppure prendendo una doppia dose di sonnifero.
Anche Laura si svegliava. Mormorava: «Dove vai?»
«A pisciare».
E invece non era vero. Andavo in cantina e indossavo il cazzo mitragliatore.
Quando tornavo in camera, Laura era seduta sul letto e aveva lo sguardo
nervoso. Diceva: «Lo sai che non sopporto di essere svegliata nel cuore della
notte».
Se non ricordo male, credo di averle staccato la lingua con una prima raffica, e
poi il resto.
Allora sentivo mio padre gridare: «Cosa è stato?»
E mi maledicevo perché avevo dimenticato di avvitare il silenziatore.
«Niente, papà. Sono zingari, là fuori. Fanno casino per festeggiare uno di loro
che è uscito di galera. Ora mi affaccio e gli dico di smetterla».
Mio padre non la beveva: «Il botto è stato in casa, ne sono certo. Ma porco cane,
cos'hai sul pisello?»
La bellezza del cazzo mitragliatore è che quando viene utilizzato con perizia
emette una massa di piombo a raggiera così pesante che un corpo umano si
spappola letteralmente e schizza da tutte le parti.
Ecco allora che la testa di mio padre volava a destra, e il corpo a sinistra.
Portiere a destra, pallone a sinistra.
Gol.
Esultavo: «Questo è pulp ragazzi, è meglio di Dario Argento!»
Poi mi accorgevo che mia madre aveva visto tutto.
«Oh, merda» diceva. «Adesso dovremo pagare un chirurgo plastico che li rimetta
a posto. Ucciderai anche me?»
«Certo, mamma. Sono un mostro».
E taratatatata.
In questo sogno c'era una certa coerenza, ma non troppa, perché con Laura ero
stato precipitoso e mia madre mi voleva bene. Ma ero ancora un serial killer, e un
serial killer, quando gli sbrocca la testa, esagera sempre. I giornali sarebbero usciti
col titolo: Disoccupato di Caceovo stermina la famiglia e si toglie la vita.
263
84. Il suicidio, affinché avesse un senso, non era una soluzione praticabile.
85. Sogno numero due. Titolo: Ma cosa vi aspettate, la coerenza? Siete scemi.
Anche in questo sogno mi alzavo nel cuore della notte, stravolto perché
l'insonnia mi stava distruggendo. E anche in questo sogno pensavo che non sarei
riuscito a dormire neppure se prendevo una doppia dose di sonnifero.
Anche in questo sogno Laura si svegliava. Sussurrava: «Amore, dove vai?»
«A pisciare».
Ed era vero. Andavo in bagno e facevo una pisciata liberatoria, di quelle che ti
fanno sospirare e ti sgombrano la testa, quando è piena di pensieri.
Tornavo in camera, e Laura era seduta sul letto, con lo sguardo innamorato.
Diceva: «Vieni, ti aiuto a rilassarti».
Mi faceva un pompino così bello che, nella furia del piacere, io sbracciavo e
facevo cadere un abat-jour. La lampadina si fulminava con un botto e sentivo mio
padre gridare: «Cosa è stato?»
«Niente, papà. Sono giovani universitari, là fuori. Fanno casino per festeggiare
uno di loro che si è laureato. Ora mi affaccio e gli dico di smetterla».
Mio padre non la beveva: «Una festa di laurea a quest'ora?»
«Sì, papà. È cominciata ieri sera e non è ancora finita».
«È incredibile. Questi giovani hanno una vitalità straordinaria. La noia del paese
non esiste più».
Mia madre faceva capolino dalla porta, e con un tono fintamente irritato, diceva:
«Quanto vi piace chiacchierare! Sono le quattro».
«Hai ragione, mamma. Io e papà abbiamo sempre tante cose da dirci. Ma
continueremo domattina, davanti a una tazza del tuo ottimo caffè».
«Buonanotte, Francesco».
«Buonanotte».
A proposito: quando vi ho detto che è impossibile succhiarsi l'uccello da soli, un
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po' mentivo, perché io, a sedici anni, ero riuscito a toccarmi la capocchia con la
lingua e sono certo che anche Giacomo, rimembrando Silvia che all'opre femminili
intenta sedeva, si faceva degli autopompini da impazzire.
Una cosa sono curioso di chiedere al lettore: «Ma io, per come mi conosci, alla
fine di questo libro, morirò?»
Certo, se questa fosse una serie, il lettore potrebbe rispondere come rispondevo
io quando i miei compagni delle elementari mi chiedevano perché non mi
emozionavo leggendo Capitan America, che era il supereroe più popolare tra i
bambini di Caceovo. Rispondevo: «È chiaro che l'eroe non può morire, altrimenti
la serie finirebbe». Poi sono venuti albi come La morte di Capitan America, La
resurrezione di Capitan America, e l'identità di questo supereroe è stata assunta da
più uomini, mettendo in dubbio molte mie certezze, ma intanto ero diventato
grande e leggevo Batman.
PAOLA
FRANCESCO
265
87. Futuro incerto.
È vero che Dexter, contrariamente a me, ha trovato anime affini di cui potersi
innamorare: la piromane Lila, la bella Lumen, la mia preferita Hannah. Ma questo
volteggiare di passere non gli ha evitato la solitudine e la scelta obbligata di
fuggire, mettendo in scena la propria morte e finendo per fare il boscaiolo sotto
falso nome.
È vero che io ho confessato a Laura la mia passata vocazione per il
serialkilleraggio e tutti i miei contorcimenti mentali. Ma questo atto di coraggio,
riuscirà a salvare il nostro rapporto o addirittura migliorarlo? Dice qualche
psicologo che la condivisione di un segreto rende solida una coppia, ma qui il
segreto è solo mio. Laura potrebbe denunciarmi da un momento all'altro, anche in
forma anonima, per uscirne pulita.
E Paola? In paese non si fa vedere da giorni, forse è partita, chi può dirlo?
Neppure Gina Valente sa che fine ha fatto.
DIGRESSIONE
88. Un altro lettore, simile a quello già incontrato nel capitoletto 63, si rivolge
allo scrittore con lo stesso tono supponente e, non capendo una cippa di letteratura,
gli caga il cazzo.
266
89. La mia lista della vita.
Immaginate che io rimandi la mia morte, che cosa ci guadagnerei? C'è qualcosa
per cui vale la pena vivere?
Ho un certo amore per le liste e questo gioco mi diverte. Dunque: 1) Il sorriso
dei miei figli? Non ho figli. 2) L'orgoglio negli occhi di mio padre? Mio padre mi
odia. 3) I racconti di mia nonna? Mia nonna è morta. 4) Le chiacchierate intime
con mia madre? Mia madre parla poco. 5) Fare l'amore con Laura per una notte
intera? Dopo che le ho detto chi sono veramente, Laura non sopporta di essere
toccata.
Lasciamo stare la famiglia. C'è qualcos'altro per cui vale la pena vivere?
Mangiare e bere, lasciamo stare: io sono uno che potrebbe mangiare riso in
bianco mattina e sera. Animali, lasciamo stare: mi fanno innervosire. L'affetto
incondizionato di un amico? Quello disinteressato di un'amica? Lasciamo stare.
Qualche ideale? Non lo so, ci penso: 1) Lottare per una società migliore? Ma se
neppure a casa riesco a farmi ascoltare. 2) Coltivare la giustizia e la legalità? Con
un passato come il mio, meglio non esporsi. 3) Aiutare gli italiani a liberarsi dei
cattivi politici? Francamente, me ne infischio.
Fino a pochi mesi fa avrei risposto: 1) Il videogioco Ammazza la star. 2) Le
donne in minigonna inguinale di pelle nera che viaggiano sui treni. 3) Il
taratatatata del mio cazzo mitragliatore.
Ero un sadico assassino, ma avevo delle certezze. Ora non più. Forse, per fare
qualcosa che mi tenga vivo, potrei cominciare a leggere le 4728 pagine dello
Zibaldone di Giacomo nell'edizione I Meridiani.
90. Capitoletto idiota per dire che le idee non basta averle, è necessario
dichiararle, anche a se stessi.
Forse avevo avuto l'idea giusta, ma siccome non l'ho detta, l'ho già dimenticata.
Eppure, sono convinto che si trattava di una grande idea.
Mi dispiace.
267
Non è tanto il fatto che l'ho dimenticata a dispiacermi. È che sono convinto che
si trattava di una grande idea.
O forse no. Forse era un'idea come tante, come quando da bambino facevo il
gioco delle idee con me stesso, e mi dicevo: «Forza Francesco! Fatti venire un'idea
per…»
«Dimmi, Francesco».
«Un'idea per diventare ricco!»
«Rapinare una banca».
«Bravo, Francesco. Hai il coraggio?»
«No».
«Idea bocciata. Adesso tocca a me. Dài, Francesco! Fatti venire un'idea per…»
«Per?»
«Essere promosso!»
«Studiare e fare i compiti».
«Hai voglia?»
«No».
«Idea bocciata».
Andavo avanti così per ore, e poco fa, ricordandomi di quel gioco, mi sono
detto: «Coraggio, Francesco! Fatti venire un'idea per espiare le tue colpe restando
in vita».
«Questa è difficile, però».
«Certo che è difficile, non sei più un bambino. Ora è il tempo delle domande
difficili».
«Ah, sì? Allora non ho più voglia di giocare».
«Idiota».
«Coglione».
Si muore soli, è vero. Però l'idea che al mio funerale vengano solo Laura e i due
vecchi, è un pensiero che mi mette così tanta tristezza da farmi passare la voglia di
morire.
Intanto faccio una buca, scavo con le mani fino a quando non sento più le mani,
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faccio questa buca di almeno mezzo metro e ci lascio dentro il cazzo mitragliatore,
perché non posso buttarlo in mare. Il cazzo mitragliatore merita una sepoltura, e io,
che non ho mai seppellito nessuno, mi metto a piangere, lo so che vi fa ridere,
ridete, ridete come scemi alle spalle del povero che sono, vergognatevi. A me
sembra di seppellire una persona cara.
Penso che a vent'anni dicevo: la mia vita è di merda, ma ho vent'anni e tanto
tempo per rimediare. E a trent'anni dicevo: la mia vita è di merda, ma ho trent'anni,
e anche Gesù Cristo prima dei trent'anni non aveva fatto un cazzo. E a quaranta
dicevo: la mia vita è di merda, passo il tempo a giocare ai videogame come
un'idiota mai cresciuto, ma faccio ancora in tempo a non sprecarla. E poi ho
cominciato ad ammazzare le donne sui treni. E volevo ammazzare una donna
famosa, non ce l'ho fatta, e ora dico: la mia vita è di merda, ma…
Tristezza: non riesco a continuare la frase.
92. Hikikomori.
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perché sono vittime di una sindrome chiamata Hikikomori, che significa "stare in
disparte" ed è il frutto di una società che tormenta i ragazzi con tantissime
pressioni per la scuola, la realizzazione personale, i sentimenti. Io non sono
adolescente, non sono giapponese, ma quella sindrome sembra essere la giusta
punizione per uno come me, e sono certo che chiunque mi vedesse, finirebbe
inevitabilmente per chiedermi: «Ma come cazzo fai a non uscire dalla tua stanza da
mesi? Ti sei condannato all'ergastolo?»
Ecco, appunto.
I quotidiani e le tv hanno smesso di occuparsi del mostro dei treni. Spero che
rimarrà per sempre uno dei tanti casi irrisolti della storia del crimine. La merda con
cui i giornalisti si guadagnano da vivere è stata spazzata via da decine di convegni
sulla transumanza e su Gabriele D'Annunzio.
Tutto è sprofondato nel silenzio: Gina Valente è morta e gli abitanti di Caceovo
si fanno i fatti propri.
Non succede quasi niente, e quel poco che succede, sembra meraviglioso. Ieri,
per esempio, ho avuto una sorpresa, una bellissima sorpresa: ho ricevuto una
cartolina da Paola. Dice che si trova molto bene a Tuxtla, in Messico, e me lo dice
con una cartolina che ha il timbro di un ufficio postale spagnolo e ritrae una veduta
di Parigi.
Che cazzo significa?
Paola non mi dà il suo indirizzo, ma scrive: «Spero, un giorno o l'altro, di
prendere un treno e venirti a trovare per rileggere insieme il libro delle nostre vite.
Un libro pieno di cose terribili che non dovremo mai augurarci di vedere
pubblicato».
Io sto qui. Sto in camera e l'aspetto, perché se Paola viene, se viene per davvero,
ho il sospetto che io e lei abbiamo molte cose in comune, più delle pagine dello
Zibaldone. E se ha ragione chi dice che il treno della vita passa almeno due volte,
io su questo treno riuscirò a salirci.
270
FRANCESCO CONSIGLIO
271
Macché delitto di gelosia,
io c’ho l'alibi,
a quell'ora sono sempre all'osteria.
272
-1. Fatte le dovute premesse…
In questo libro si citano per nome i seguenti personaggi: Anna Grazia Diamanti,
Massimo Spataro, Cinzia Picca, Franco Lamaiola, il commissario Spada, Pasquale
Meli, Francesco Scerni, Mario M’fami, Gerlando Verga, Giuseppina Albano, Gero
Caratozzolo, Salvatore Caratozzolo, Mariella Martelli Caratozzolo, Clara La
Farciola, Nonna Lella, Totò Lamaiola, Ciccio Granella, Rosalinda Coco, Tiziana
Coco, Ciro Vita, Marina Lamaiola, Massimo Messina, Calogero Schembri, Santo
Montalbano, Calogero Lametta, Petra Bella, Raimondo Panepinto, Rocco Galvano,
Giuliano Campanella, Franco Candido, Valeria Mancuso, Anna Consiglio, Claudio
Lombardo, Luca Gennaro Cammarola, Giuseppina Caldonazzo, Camillo Rea,
Lavinio Granatone, Cettina Bruccoleri, Mary Bruccoleri, Loredana di Bologna,
Karina la superzoccola bambina, Gigio Romeo, Giuseppina Starace, Francesco
Barletta, Tana La Frangetta, Roberto Rocco, Rosaria Bulone, Mariella Minelli,
Angela Lattuca, Annalisa Ciranni, Sara Angeloni, Cristina Donizetti, Rosanna
Sciortino, Svetlana Scerni, Toni Sorcio, Giovanni Sorcio, Orso Caramellana, Tino
Balli, Angelo Ricotta, Elia Zukowski, Stella Diamanti, Gennaro Bellavia, Carletto
Diamanti, Alfonso Lorco, Santino Lucia.
I loro nomi, cognomi, e le situazioni che racconto sono frutto della mia fantasia.
Chi mi conosce, sa che il padre descritto in queste pagine non è mio padre.
Chi mi conosce, sa che la madre descritta in queste pagine non è mia madre.
Anche se è vero che io avrei voluto essere il figlio di Howard e Marion
Cunningham.
Quando la storia mi frullava in testa, e solo in testa, e ancora ingarbugliata, il
mio protagonista, Franco Lamaiola, me l’ero immaginato con un carattere vivace
ed estroverso, ma con il trascorrere del tempo e delle pagine, vivendo e patendo
insieme a me, inevitabilmente ha finito per somigliarmi.
0. Si parte!
273
Trattasi di donna, 40 anni, peso Kg 56, altezza cm 173.
L’esame autoptico rivela quaranta ferite da arma da taglio, così distribuite:
sedici al fianco, a livello della fossa iliaca sinistra; tredici alla schiena, in regione
sopraspinosa destra; sette al collo, in regione sopraioidea; quattro al braccio destro,
sul margine ulnare.
Si nota inoltre, in corrispondenza dell’avambraccio, a 8 cm dalla piega del
gomito sinistro, una piccola incisione di forma stellare con 5 punte.
2. Bravi Ragazzi.
Una stella a cinque punte, graffiata sulla pelle, che ho subito pensato: è un
messaggio, è l’assassino che vuol dirci qualche cosa. Che vuol dirci con la stella a
cinque punte? Non lo so. La presenza di una stella a cinque punte fa pensare a
tante cose, ma il pensiero che mi torna nella mente, che mi resta nella mente, è
un’impresa fanciullesca, niente di speciale, niente: la telefonata di un gruppo di
ragazzi che dicono di essere i carcerieri di Aldo Moro. Niente. Niente di cui andare
fieri. La telefonata di un gruppo di ragazzi al 112.
“Pronto?…”
“Plonto, siamo le bielle.”
“Chi?…”
“Bligate Losse.”
Massimo Spataro, dodici anni, brigatista.
“Pronto?…”
“Pronto, siamo le bierre.”
“Chi?...”
“Ma allora non capisci!”
Cinzia Picca, tredici anni, brigatista.
“Cosa dovrei capire?”
“Il presidente è vivo e si trova rinchiuso in un carcere del popolo.”
Cinzia Picca qualche anno dopo ha cominciato a battere, si è comprata la
Mercedes e la casa a Roma, in via del Fontanile Arenato, figuriamoci, con le sue
tettine, con le sue tettine a pera e lo zio vescovo, figuriamoci, le amicizie sono
tutto nella vita.
274
“Dove si trova, il presidente?”
“In un calcele del popolo!”
Massimo Spataro fa l’operaio in una fabbrica di barche a vela, a Porta Pecorelli,
provincia di Agrigento. Guadagna 1200 euro al mese, che andar bene, se ne vanno
giusti giusti per l’affitto e per mangiare. Massimo Spataro vive solo.
“In un carcere del popolo? E voi sareste…”
“Brigate rosse.”
Cinzia Picca si è sposata il presidente della World Union for Progressive
Mozzarella. Poi dicono che ormai la danno tutte, che la fica ha smesso di contare,
conta eccome. Cinzia Picca ha lo skipper personale. Fa pesca nel Mar Rosso,
Cinzia Picca.
“E cosa volete per liberarlo? Uno scambio di prigionieri, o dei soldi? O un lecca
lecca?”
“Allora non capisci, carabiniere della minchia! Il rilascio di Aldo Moro può
essere preso in considerazione solo in relazione alla… a… alla…”
“A che?”
“Alla chiusura di tutte le scuole.”
Io, Franco Lamaiola, dodici anni, brigatista.
Non era stata mia l’idea di rompere i coglioni al commissario Spada. Io non lo
sapevo che il 112, che il 112 era il numero dei carabi, non lo sapevo, no. A quei
tempi la mia conoscenza del mondo si limitava al Manuale delle Giovani Marmotte
e alla formazione della Juve, la formazione che avevo scelto dopo aver visto il mio
Milan perdere 6-0 con l’Ajax, la formazione dall’uno all’undici, dall’uno ch’era
Dino all’undici Roberto, dall’uno all’undici. Avevo dodici anni e sognavo di
scappare di casa, di andarmene a Torino e diventare un’ala destra, e non pensavo
che esistessero lavori tipo l’accompagnatore, il distributore di volantini, il
lavavetri, l’addetto allo stampaggio rullatura filettatura molatura di viti e bulloni, il
venditore porta a porta, il dog-sitter, il mago sensitivo cartomante astrologo. E
invece è andata così: che ho fatto l’accompagnatore, il distributore di volantini, il
lavavetri, l’addetto allo stampaggio rullatura filettatura molatura di viti e bulloni, il
venditore porta a porta, il dog-sitter, il mago sensitivo cartomante astrologo.
Attualmente mi sono messo in testa di diventare uno scrittore di gialli, beninteso
uno scrittore di successo, ed è per questo che me ne sto davanti a un tavolo
dell’obitorio, un tavolo anatomico realizzato interamente in acciaio inox, con
275
sistema di filtrazione per putrescine e cadaverine, ed è per questo, perché non si
può scrivere di cose che non si conoscono direttamente, è per questo che me ne sto
accanto a Pappi Meli, al mio amico Pappi Meli, che di noi bierre, di noi bravi
ragazzi, è stato il capo, il capo indiscusso, il grande vecchio, quello che ideava gli
scherzi e rimaneva nell’ombra, insomma il paraculo. Il mio amico Pappi Meli è
titolare di un corso di insegnamento presso la Scuola di Specializzazione in
Medicina Legale dell’Università di Roma La Sapienza. Il mio amico Pappi Meli
continua a redigere il verbale e a ripetermi di stare fermo, stare fermo e non
toccare, che qui non ci potrei nemmeno stare, e se non fosse per lui, se non fosse
per l’amicizia che ci lega, dice Pappi, questa bella esperienza non riuscivi a farla,
dice Pappi. Ma poi dice che nel libro devo scriverci il suo nome e il suo cognome,
devo scriverci che il libro è dedicato al professor Pasquale Meli, per l’aiuto che mi
ha dato nella ricerca delle fonti e nella cura delle parti che trattano di scienza
medico-legale. Ricevuto, ma a pensarci è un gran casino, perché avevo già deciso
di dedicare il libro alla memoria di mia nonna, nonna Lella, è un gran casino,
perché Massimo e anche Cinzia mi hanno chiesto qualche riga, è un gran casino,
perché Pappi, Pappi Meli, il professor Pasquale Meli lo so bene che gli secca
leggere il suo nome accanto a quello di un semplice operaio, il nome suo
chiarissimo, professor, professor Pasquale Meli, il nome suo chiarissimo accostato
a un operaio, e pure a una puttana, a una zoccola arricchita, a Cinzia Picca, alla sua
amica d’infanzia, ma sempre di una zoccola si tratta, sempre di una zoccola, e
allora vada il cazzo, mal che vada, vada il cazzo a rinnovare l’amicizia, ma
nell’oscurità. Il nome no.
Il professor Pasquale Meli mi fa notare il pube di Anna Grazia, il pube nudo e
insanguinato. Mi chiede se provo eccitazione, se ho mai visto il sesso di una morta,
se ho voglia di scoparla, dice lui: “Te lo chiedo, sai perché? Curiosità
professionale.”
“No, per nulla,” dico io, “non ho più nemmeno voglia di vederla, no, per nulla,
grazie, ciao.”
Scappo via dall’obitorio e, mentre scappo, sento Pappi che mi urla: “Ma che ho
detto? Perché scappi?”
Scappo via dall’obitorio e, mentre scappo non lo sento, Pappi Meli, non lo
voglio più sentire, non lo sento ma continuo a domandarmi: e quella stella? E’ un
simbolo mafioso? Un simbolo esoterico? Un messaggio? Forse forse. La presenza
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di una stella a cinque punte fa pensare a tante cose, ma il ricordo che mi torna nella
mente, che mi resta nella mente, è il ricordo del commissario Spada che riconosce
le nostre voci. Quella di Massimo, per prima. Quando Massimo Spataro si agitava,
la sua erre scompariva. Il commissario se ne accorse e lo chiamò per nome.
“Massimo. Massimo Spataro.”
E poi: “Cinzia. Cinzia Picca.”
E poi: “Franco. Franco Lamaiola.”
Il commissario ci chiamò per nome, disse che una volta poteva perdonare, la
seconda no, ci avrebbe fatto piangere, e noi lo sapevamo, lo sapevamo come:
quello stronzo era capace di avvertire i nostri genitori.
3. Quest’inizio?
Bravo, mi son detto, ma che bravo, ma che inizio scoppiettante, son sicuro che il
lettore non mi molla, non adesso, son sicuro.
“Bravo,” mi son detto.
“Bravo un cazzo.”
Che alle volte mi succede di parlare con me stesso e quel che è peggio, mi
succede di parlare con me stesso e di scoprire che la testa, la mia testa, è come
fossero due teste: c’è una parte che mi apprezza e c’è una parte che mi schifa, e le
due parti, mi succede, son sicuro, le due parti fanno a morsi tra di loro, come un
cane con due teste che fa a morsi con se stesso, e qualche morso, è naturale, me lo
prendo, me lo prendo sulla testa, e quel che è peggio, che è straniante, è che alle
volte son contento, sono quello che li ha dati, quei morsi sulla testa, e quel che è
peggio, che fa male, è che altre volte sono triste, sono quello che li ha presi, quei
morsi sulla testa, e quasi sempre mi scoppia un’emicrania.
Questa volta, per esempio, una parte della testa, la mia testa, quella parte della
testa che mi apprezza, ha detto: “Bravo.”
“Bravo un cazzo,” ha detto l’altra, l’altra parte della testa, la mia testa, quella
parte della testa che mi schifa. E ha continuato: “Ti concedo che sei stato
divertente, ma è un incipit che parte a 200 all'ora, troppo veloce. Devi respirare
ogni tanto. Devi fare digressioni, rallentare il ritmo, andare a capo, spezzare con
una battuta di dialogo. Devi dare al lettore la voglia di raccapezzarsi, di continuare
277
a leggerti.”
Alle volte mi succede che le parti della testa, a furia di scontrarsi e contraddirsi,
non sanno più cosa pensare. E pure io.
4. Scerni Francesco.
Di tutti i miei compagni del liceo, Francesco Scerni detto Ciccio detto Hulk era
il più grosso. Alto, grosso, con la fissa dell’Inter. Quando al campetto sfidavamo le
terze, quelli più grandi, quelli che lui chiamava i montati delle terze, Ciccio Hulk
decideva chi giocava e chi no, e tanti suoi compagni li escludeva per invidia,
perché magri, agili, scattanti, e tanti suoi compagni si mordevano le dita, non
riuscivano a star fermi e si mordevano le dita, perché cazzo, perché cazzo, perché
il grosso voleva fare l’Altobelli, poveretto, per fare l’Altobelli avrebbe dovuto
segarsi in due, in quattro, ma nessuno aveva il fegato di farglielo notare, perché lui
era il più grosso. Lento, grosso, bravo a comandare: “Salta l’uomo!... Chiudi!...
Crossa!... Spingi sulla destra!... Marca, marca stretto!... Cambia!... Scatta!”
La verità è che il suo ruolo non prevedeva l’incontro col pallone. Ciccio
centravanti non c’entrava, non c’entrava niente col pallone.
Io da spettatore l’ho sempre visto fuori. Oltre la linea della porta, con la maglia
nerazzurra, i calzoncini neri, i calzettoni azzurri, le Mecap. Ciccio si piazzava alle
spalle del portiere avversario e lo riempiva d’insulti: bastardo, coglione, figlio di
puttana, tutti quelli che sapeva: merda secca, mezzaminchia, mezzasega, stronzo,
finché lo sfortunato non ne poteva più, si distraeva e beccava un gol. Ciccio Hulk
era quel tipo di ragazzo che se non eri suo amico ti sarebbe piaciuto ammazzarlo di
botte, però nessuno l’ha mai fatto, perché era grosso.
Ciccio fa il tassista, da Roma a Fiumicino, fa il tassista, e secondo la
testimonianza di un ragazzo di colore che lavora in una pompa di benzina,
potrebbe essere uno degli ultimi ad avere visto viva Anna Grazia. Il pompista, che
si chiama Mario M’fami, si ricorda di quel taxi, Freccia 3, pure la sigla si ricorda,
non è che si ricorda ogni cliente, ma quel taxi, quello sì, se lo si ricorda per un
piccolo incidente, un contrattempo: la serratura del tappo non funzionava, e
quando un omaccione, quando Ciccio è sceso per forzarla, dal sedile posteriore una
donna sui quaranta gli ha gridato di sbrigarsi, una donna sui quaranta, altezza uno e
278
settanta, bruna, bella, un poco isterica però: ha abbassato il finestrino e ha
cominciato a battere le mani sulla portiera, e non smetteva, non smetteva, gli
gridava di sbrigarsi, faceva un gran baccano, gli gridava di sbrigarsi per non
perdere l’aereo, e con lei gridava un tipo, un altro tipo ch’era dentro, e poi chissà,
chissà se c’era qualcun altro. Il pompista, che si chiama Mario M’fami ed è una
giovane promessa della Lazio, si è presentato spontaneamente in caserma, e
quando i carabi gli han chiesto se era certo, ai carabi gli ha detto: “Più che certo.
La faccia di quella pazza isterica è su tutti i giornali. E’ Anna Grazia Diamanti.”
Ciccio Scerni invece: “Boh.”
E’ stato interrogato, Ciccio Scerni, ha detto: “Boh.”
Non è apparso convincente.
5. Verga Gerlando.
Gerri Verga urologo mi guarda con pietà, indossa il guanto e si spalma il dito
medio di vasellina filante. Via, in ginocchio: Gerri entra, Gerri esce. Gerri entra ed
esce molto lentamente. Niente al mondo mi fa più vergognare dell’idea di
eccitarmi mentre Gerri infila il dito nel mio culo.
“Senti male?”
“No, per nulla.”
Gerri Verga urologo mi guarda con pietà, si sfila il guanto e dice che ho lo
sfintere tonico, il canale non capisco, il canale cosa, il canale anale libero,
l’ampolla rettale vuota.
“E la prostata, Gerri, e la prostata?”
“Normale.”
Gerri Verga urologo mi guarda con pietà e dice che la mia è ipocondria.
“Vuoi dire che sto bene?”
“Ma certo che stai bene.”
Gerri Verga lo sanno tutti ch’era stato il ragazzo di Anna Grazia; che lei lo
aveva abbandonato per tuffarsi nelle braccia di un professore di educazione fisica;
che, a distanza di vent’anni, lui non era ancora riuscito a liberarsi del fantasma
dell’amata; che le spediva una mail al giorno, e poi telefonate, appostamenti sotto
casa, suppliche, scenate, crisi depressive. C’è persino chi parla di ricoveri
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d’urgenza e sotto falso nome. Parlano tutti. Parlano Massimo e Cinzia, parla Ciccio
detto Hulk, parla Pasquale, Pasquale Meli che non l’ha mai sopportato e ora giura
di sapere che una settimana prima d’essere uccisa Anna Grazia aveva denunciato
l’ex-amante per percosse.
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6. Lamaiola Franco.
7. Albano Giuseppina.
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provarci, almeno fino al matrimonio.”
Così mi aveva detto, giurandosi sincera, ma poi s’era venduta a Gero
Caratozzolo, Gero Sardasecca, una specie di Don Chisciotte messo a dieta, figlio
del costruttore Salvatore Caratozzolo, figlio della baronessa Mariella Martelli
Caratozzolo, che io pensavo, di tutti i Carattozzolo, io pensavo ch’erano ricchi,
troppo ricchi, ma pure brutti, troppo figli di una cozza, e una volta gliel’ho detto, a
Gero, gliel’ho detto: “Siete così brutti che i figli ve li porta lo sparviero, la cicogna
si rifiuta.”
Giusi Albano non lo so che fine ha fatto. Lei e Gero si sono trasferiti, non lo so.
Alcuni anni dopo ho rivisto il film alla tv, il film che avevo visto al cinema
Mezzano, il film non mi ricordo, Il diavolo, ecco come si chiamava, Il diavolo in
corpo. Volevo farmi qualche sega, mi sembrava pure un modo simpatico per
ricordare Giusi Albano, volevo farmi qualche sega, ma avevano tagliato la scena di
fellatio.
282
settimane senza scrivere una riga, è una cosa che quando me ne rendo conto,
quando arrivo a rendermene conto, tutto il tempo che ho buttato, vorrei
recuperarlo, vorrei tornare a scrivere, scrivere come un invasato, vorrei scrivere e
non scrivo, non scrivo per il nervosismo, per il tempo che ho buttato.
Ho provato a liberarmi, a disintossicarmi, ma non c’è niente da fare. Ho provato
a spegnere il pc, a scrivere a mano, mi sono procurato una Mont Blanc, modello
Franz Kafka, con finiture in argento sterling 925 e pennino in oro 18 carati, mi è
costata una cifra, una cifra esagerata, mi è costata una cifra di spavento entrare in
gioielleria e rubarla, ho provato a liberarmi di yahoo, ma non c’è niente da fare: il
mio amore per gli scacchi è un’ossessione, un avvelenamento della psiche che
porta alla pazzia, ho provato, ho provato a liberarmi, ma non c’è niente da fare.
La certezza che il mio stato mentale si stava lentamente alterando l’ho avuta a
qualche giorno dai miei 23 anni, una mattina, una domenica mattina che,
svegliandomi col mal di testa, mi accorsi che i libri, che i miei libri avevano deciso
283
di lasciare gli scaffali.
I più audaci, i Joyce, i Calvino, i Perec, salivano sull’armadio e rimanevano
lassù, tra turbini di polvere, avendo un’idea sempre più vaga della strada del
ritorno. Altri, i Chatwin e i Theroux, presi da una furia esploratrice, sfidavano le
esalazioni nocive prodotte dai calzini scordati sotto il letto, o peggio ancora,
rischiavano la morte per arsura rimanendo con il dorso schiacciato e dolorante
dietro un termosifone.
Questa sorta di schizofrenia allucinatoria non mi ha più abbandonato. Di solito
basta un po’ di pulizia per riportare in salvo i dispersi, ma può anche capitare che
spariscano per anni, come Invisible Monster di Chuck Palahniuk.
Invisible Monster è il mio preferito, mi ero anche rassegnato a ricomprarlo, ma
poi, contro ogni probabilità, l’ho rivisto in una foto dell’Espresso che ritraeva la
camera d’albergo dove Anna Grazia è stata accoltellata, quaranta volte è stata
accoltellata: sedici al fianco, tredici alla schiena, sette al collo, quattro a un
braccio. Invisible Monster era lì, sulla moquette, tra un paralume rovesciato e una
bottiglia di Perrier sporca di sangue. Allora mi sono ricordato di quel giorno di
Natale di due anni, di tre anni, di quattro anni fa, di quel giorno di Natale, forse era
Natale, forse Pasqua, di quel giorno in cui lei mi aveva chiesto un libro perché
andava a San Giovanni Rotondo con delle zie e pensava di annoiarsi, e io le avevo
dato proprio quello, Invisible Monster le avevo dato, e difatti nella foto si vede la
dedica di Chuck, a Franco nel segno de la peace, a Franco Lamaiola, ma questo per
fortuna è abbastanza fuori fuoco, non si legge.
Io, prima di vedere quella foto, non avevo mai pensato alla mia stanza dal punto
di vista di uno che ci entra all’improvviso. Le cose sono cambiate quando ho
capito che i carabi sarebbero venuti a chiedermi di quel libro. Allora ho cominciato
a spolverare, lucidare, e finalmente, dice mamma, finalmente disporre le mie cose
secondo un criterio: intanto i libri con i libri e i dischi con i dischi, e questo perché
non mi va che uno stronzo di carabo venga a criticare il mio disordine, che poi lo
so, potrei anche reagire e spaccargli la faccia a suon di cazzotti, e solo per il gusto
di sentirmi un personaggio del mio Chuck, di Chuck Palahniuk.
Ora, grazie alla lentezza delle forze dell’ordine, dopo mesi di attesa e intensi
sgrassamenti, la mia stanza è l’esempio perfetto di come dovrebbe essere la stanza
di un omicida ossessivo.
284
11. Seduto al pc.
285
“Pensiero debole, scommetto.”
“Vuoi smetterla di fare la spiritosa?”
“Non prendertela. Se mi sono fatta viva è per darti dei consigli.”
“Che tipo di consigli?”
“Sul modo di scrivere una storia, per esempio. C’è una parte di te che vorrebbe
convincerti di essere uno scrittore senza difetti.”
“E invece?”
“Sei solo un principiante.”
“E questo sarebbe il modo di aiutarmi? Ero così contento del mio lavoro, e tu
me l’hai stroncato.”
“Le critiche non sono mai gradite. Specialmente da quelli che hanno più ragioni
per meritarsele.”
“Sai che ti dico? Sarai pure una parte importante di me stesso, ma hai
l’atteggiamento di una stronza.”
“Lo stronzo sei tu.”
“Sei tu.”
“Se lo sono io, lo sei anche tu. E’ naturale.”
Abbiamo continuato a insultarci per mezz’ora, io e la mia testa, quella parte
della testa che mi schifa.
Far dei passi avanti, neanche a parlarne.
12. Le faccio vedere io, a quella testa di… (Schizofrenia toc toc… bussa alla
mia porta. Riscrittura)
La certezza che il mio stato mentale si stava lentamente alterando l’ho avuta a
qualche giorno dai miei 23 anni, una mattina, una domenica mattina che,
svegliandomi col mal di testa, mi accorsi di avere un disperato bisogno di
paracetamolo.
Digressione: è vero, è vero che in famiglia abbiamo una certa inclinazione, che
mia nonna è morta per colpa del Saridon, mia nonna, mia nonna Lella è morta con
il sangue che le usciva dalla bocca, e pure io, pure io farò la stessa fine, la morte di
mia nonna, la morte sopraggiunta dopo aver battuto il record mondiale delle dosi
consigliate, delle dosi sconsigliate, la morte di mia nonna se non smetto, e penso
come, penso cazzo, penso come, com’è possibile sospendere l’uso del Saridon,
286
come posso evitare questo sisma intestinale che mi sembra un modo come un altro
per avvicinarsi al suicidio, ogni volta che ci provo sono palpiti, dolori, astenia,
allora penso che mi frega, che mi frega delle controindicazioni, tutte le volte che
ho rinunciato a quelle pillole sono stato assalito da un bisogno imperioso di
riprendere a ingerirle, che poi è chiaro, è chiaro che si tratta di dipendenza, è tutto
nella testa, è.
La certezza che il mio stato mentale si stava lentamente alterando l’ho avuta a
qualche giorno dai miei 23 anni, una mattina, una domenica mattina che,
svegliandomi col mal di testa, mi accorsi di avere un disperato bisogno di
paracetamolo.
Digressione: se si pensa al comportamento della nonna negli anni 1983 e 1984,
si potrebbe dedurre che il suo cervello avesse preso il largo, cfr. i suoi interessi, i
suoi interessi letterari, era passata da Liala al foglietto illustrativo del Saridon, ad
esempio leggeva ad alta voce tutte quelle parole nuove: dispnea, angioedema,
edema, shock anafilattico, trombocitopenia, leucopenia, anemia, nefrite
interstiziale, ematuria, anuria. E tutte quelle spiegazioni: la tossicità acuta nel ratto
con somministrazione orale di 0,5-1-2 mg/kg si è rivelata molto modesta, mentre la
tossicità subcronica con dosi pro kg die 10-20-40 volte maggiori di quelle massime
usate in terapia nell'uomo ha evidenziato la comparsa di gravi effetti tossici solo
nel gruppo di animali trattati con la dose massima.
La certezza che il mio stato mentale si stava lentamente alterando l’ho avuta a
qualche giorno dai miei 23 anni, una mattina, una domenica di luglio, pensa pensa
a tredici anni dalla morte di mia nonna, una domenica mattina che, svegliandomi
col mal di testa e un disperato bisogno di paracetamolo, mi accorsi che la farmacia
sotto casa era chiusa per via di un attentato, un’autobomba, una Lancia 1600
saltata in aria, morto un arbitro di calcio, tre passanti, due barboni, un barboncino,
non mi va di ricordare, mi vergogno, mi vergogno di non essermi commosso. Io
quel giorno ho avuto il sospetto che le sole cose per le quali vivevo erano
contenute in un blister di materiale plastico sigillato con un nastro di alluminio. Io,
quel giorno, nel cercare qualcuno che mi vendesse il Saridon, mi sembrava
d’essermi ridotto proprio male, mi sembrava di cercare un pusher, scesi in strada e
vidi quella gente, quella gente sbrindellata, sparpagliata, e poi quel grigio, quel
grigio che pioveva dappertutto, e le sirene, la fuliggine, la farmacia chiusa. Io, quel
giorno, ero disposto anche a rubare, ho pensato: vedi vedi che rottura di coglioni,
287
che rottura questa mafia del pallone, quest’angoscia intollerabile all’idea di non
avere niente con cui calmare il mal di testa, vedi vedi che sono troppo onesto per
sfondare la vetrina, per entrare in farmacia, vedi vedi che mi tocca aspettare
lunedì.
La certezza che il mio stato mentale si stava lentamente alterando l’ho avuta a
qualche giorno dai miei 23 anni, una mattina, una domenica di luglio che mi alzai
col mal di testa, e dopo essermi fatto sei chilometri di strada sotto il sole per
trovare una seconda farmacia, tornai a casa stanco, poco lucido, confuso, ma non al
punto d’ignorare che qualcosa non andava: i libri, i miei libri stavano
spontaneamente lasciando gli scaffali.
I più audaci, i Joyce, i Calvino, i Perec, salivano sull’armadio e rimanevano
lassù, tra turbini di polvere, avendo un’idea sempre più vaga della strada del
ritorno. Altri, i Chatwin e i Theroux, presi da una furia esploratrice, sfidavano le
esalazioni nocive prodotte dai calzini scordati sotto il letto, o peggio ancora,
rischiavano la morte per arsura rimanendo con il dorso schiacciato e dolorante
dietro un termosifone.
Questa sorta di schizofrenia allucinatoria continuò per mesi. Il noto medico di
famiglia e assessore socialista alla pubblica distruzione, dottor Ciccio Granella, mi
consigliò di smetterla con quella fissazione di fare lo scrittore, mi consigliò di
smetterla all’istante, di salvare il cervello prima che fosse troppo tardi.
“Non vorrai finire come Stefano D’Arrigo?”
“Magari,” dissi io, “magari.”
Intanto i libri continuavano a migrare. Di solito bastava un po’ di pulizia per
riportare in salvo i dispersi, ma poteva anche capitare che sparissero per anni,
come Invisible Monster di Chuck Palahniuk.
Invisible Monster è il mio preferito, mi ero anche rassegnato a ricomprarlo, ma
poi, contro ogni probabilità, l’ho rivisto in una foto dell’Espresso che ritraeva la
camera d’albergo dove Anna Grazia è stata accoltellata, quaranta volte è stata
accoltellata: sedici al fianco, tredici alla schiena, sette al collo, quattro a un braccio
e zero in faccia, in faccia zero, e questo è mica marginale, questo no, questo
mancato accanimento sul volto, non lo so, se fossi io, se fossi io l’assassino, la
prima cosa distruggerei lo sguardo, lo sguardo mi farebbe ricordare di avere una
persona di fronte, gli occhi della vittima sarebbero la prima cosa da colpire.
Ok, torniamo al libro. Invisible Monster è il mio preferito, mi ero anche
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rassegnato a ricomprarlo, ma poi, contro ogni probabilità, l’ho rivisto in una foto
dell’Espresso, lì, sulla moquette, tra un paralume rovesciato e una sfigatissima
bottiglia di Perrier sporca di sangue.
La Perrier: dico io che ci vuole molta sfiga, torno a dire, molta sfiga per farsi
2400 km di viaggio, passare il Monte Bianco e poi finire immortalata nella stanza
di un delitto. Dico io che mi è difficile pensare a quanti lettori dell’Espresso non
compreranno più una bottiglia di Perrier, e prima o poi, prima o poi verrà qualcuno
a sproloquiare che è tutta una manovra, una manovra occulta, prima o poi verrà
qualcuno a ricordarci che la stampa è in mano ai rossi, ai comunisti, che l’hanno
fatto apposta.
Poi c’è un fatto: c’è il fatto che Anna Grazia non beveva acqua frizzante, non mi
pare, mi pare invece che una sera eravamo in una festa, mangiavamo gli arancini,
mi pare d’averle sentito dire che l’anidride carbonica le dava il mal di pancia, e
questo è un fatto.
Ok. Rimasi a lungo a guardare quella foto, e infine ricordai il giorno in cui lei
mi aveva chiesto un libro perché andava a San Giovanni Rotondo con delle zie e
pensava di annoiarsi, e io le avevo dato proprio quello, Invisible Monster le avevo
dato, e difatti nella foto si vede la dedica di Chuck, a Franco nel segno de la peace,
a Franco Lamaiola, ma questo per fortuna è abbastanza fuori fuoco, non si legge.
Io, prima di vedere quella foto, non avevo mai pensato alla mia stanza dal punto
di vista di uno che ci entra all’improvviso. Le cose sono cambiate quando ho
capito che i carabi avrebbero usato qualche diavoleria scientifica per leggere il mio
nome fuori fuoco, bussare alla mia porta, entrare nella stanza, chiedermi del libro.
Allora ho cominciato a spolverare, lucidare, e finalmente, dice mamma, finalmente
disporre le mie cose secondo un criterio: intanto i libri con i libri e i dischi con i
dischi, e questo perché non mi va che uno stronzo di carabo venga a criticare il mio
disordine, che poi lo so, potrei anche reagire e spaccargli la faccia a suon di
cazzotti, e solo per il gusto di sentirmi un personaggio del mio Chuck, di Chuck
Palahniuk.
Ora, grazie alla lentezza delle forze dell’ordine, dopo tre mesi di attesa e intensi
sgrassamenti, la mia stanza è l’esempio perfetto di come dovrebbe essere la stanza
di un omicida ossessivo.
289
Novecentotredici case a schiera, tutte con ingresso indipendente e un piccolo
giardino occupato dagli scheletri di lavatrici, frigoriferi, cucine a gas, televisori,
radio, forni, telai di biciclette, batterie per auto, antenne.
“Dobbiamo pur metterli da qualche parte,” dice mio padre.
“Seppelliteli,” dico io.
“Non venirtene fuori con le solite minchiate,” dice lui.
A essere ottimisti, Pian della Repubblica è un museo di archeologia industriale.
Non essere ottimisti, è una discarica.
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“Io personalmente avrei pensato a Rosalinda, Rosalinda Coco, la figlia del
segretario comunale. Ho già parlato al padre, gli ho detto che cerchi una ragazza
d’altri tempi, una all’antica. Io personalmente…”
“No, papà.”
“Io personalmente ci ho molto riflettuto, e dico che non dovresti lasciartela
scappare: è ricca quanto basta, seria, intelligente, prossima a laurearsi in Medicina.
Io personalmente…”
“No, papà.”
Questo breve aneddoto, uno dei pochi veramente cupi, ha per argomento tutti i
disincanti che la gioventù riserva a ognuno, e che a distanza di anni, e a volte per
la vita, costringono milioni di ex ragazzi a viaggiare nel buio, transitando di
carattere in carattere, inseguendo vocazioni, smarrendo vocazioni, aspettando e
pregando che il miracolo si compia, e arrivi, tanto attesa, la grazia di essere
obiettivi con se stessi. Anni e anni per riuscire a liberarsi di quel tempo in cui ogni
scintilla di razionalità è soffocata dall’arroganza della giovinezza.
Per quasi tutti i giorni delle medie ho vissuto con il grande desiderio di
diventare campione in qualche cosa, nella musica, nel calcio, negli scacchi, non lo
so.
Gli scacchi erano il fuoco, il diavolo che si manifestava con un bisogno pressante e
improvviso di giocare, mio padre non voleva, temeva che gli scacchi influissero
negativamente sugli studi, non credeva a quel destino che a me pareva certo, che il suo
unico figlio potesse diventare uno dei maggiori scacchisti del ventesimo secolo, un
Karpov siciliano, questo avrebbe fatto meraviglia, un campione del mondo nato a Pian
della Repubblica, provincia di Agrigento.
In realtà nessun giovane scacchista è stato così lontano dal suo sogno quanto io
dal mio. A Bagheria, al primo torneo regionale, chiusi con 11 sconfitte su
altrettante partite e l’umiliante sorpresa di avere un padre che mi prendeva a
schiaffi e mi dava del coglione di fronte a una platea di un centinaio di genitori
sghignazzanti.
La sola cosa che si dovrebbe insegnare ai giovani, diceva Emil Cioran, la sola cosa
291
che si dovrebbe insegnare ai giovani è che non c’è niente, diciamo quasi niente, da
aspettarsi dalla vita.
16. Complimenti!
“Ti faccio i complimenti,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi
apprezza. “Siamo solo agli inizi, è vero, ma ti faccio i complimenti: la tua scrittura
paradossale esce fuori bene.”
Fino a qualche giorno fa era impensabile che la parte della testa che mi apprezza
non si fosse ancora accorta del mio stile, fors’anche pretenzioso come può esserlo
quello di un quarantenne aspirante giovane scrittore, ma riconoscibile, e comunque
perseguito con sincera immediatezza. Ora è certo: la mia cifra stilistica è stata
individuata e racchiusa in questi complimenti che a me sembrano sospetti.
“Ti faccio i complimenti,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi
apprezza, che la parte della testa che mi schifa l’ho messa da una parte, l’ho messa
a frequentare un corso on line, un corso che le sembra una cicuta, un corso che è il
Corso per migliorare l’autostima e ottenere il meglio da sé, a cura dell’Istituto
Roberto Pappadio per il Conseguimento dell’Umana Eccellenza, 10 video
scaricabili al prezzo di 99 euro cadauno, un corso che ho pagato con la carta di
credito di mia madre, chissà che casinaccio al primo estratto conto.
“La tua scrittura paradossale esce fuori bene,” mi dice nella testa quella parte
della testa che mi apprezza, e questi complimenti, per me son complimenti che
hanno l’aria di una presa per il culo.
“Paradossale,” dice.
Niente a che vedere con la scrittura asciutta di un Baricco, con la pastasciutta,
niente, io la pastasciutta non le voglio bene, e certo, certo che amo i piatti
complicati, irriverenti e comici, come gli spaghetti di lucertola burmese con
grissini al pepe nero, come il trito di cervella con le fave modicane, e dico certo,
certo che amo i piatti complicati, e dico forse, forse ci ha il mio gusto Paolo Nori,
non è per fare un nome, un nome a caso, non è il caso, c’è per caso uno scrittore
che s’ispira a Paolo Nori? Sì che c’è, ma son minori. Son minori a Paolo Nori: Ugo
Cornia, Paolo Colagrande, Daniele Benati… sì, ci sono. Son minori.
Mi viene in mente che Flaiano era accusato e lodato di essere un paradossista,
mi viene in mente Prezzolini, Longanesi, il grande Franz, il grande Chuck, mi
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viene in mente Paul Watzlawick, uno che ha scritto Istruzioni per rendersi infelici,
non è che sto mirando troppo in alto?
Sì, vabbè, lasciamo stare. Come il dizionario chiaramente illustra: paradossista:
chi ama parlare per paradossi, e mi sta bene, ma poi dice: paradosso: idea contraria
all’opinione comune, e mi sta bene, ma poi dice: espressa in una forma che la fa
sembrare assurda, e poi dice: assurdo: che offende la ragione, dal latino absurdus,
dissonante, che vuol dire: sgradevole all’orecchio, disarmonico, che vuol dire:
incongruo nelle forme, privo di senso musicale. Mi sta bene? No, per niente.
Vi sbagliate.
293
17. Coco Tiziana.
18. Ore 01:30 CHI HA PAURA DEI LIBRI IN TV? Programma culturale.
Dice uno scrittore, uno scrittore molto trash, molto trash, uno scrittore famoso
per il suo romanzo masturbatorio Cent’anni di solitudine, uno scrittore famoso per
titoli incandescenti come Onan il barbaro, dice lo scrittore: “Mi fa pena questo
proliferare di siti che permettono a ogni scemo illetterato di stamparsi il proprio
libro. Mi fa pena la mancanza di vergogna con cui il popolo di aspiranti romanzieri
ammucchia trecento pagine di parole e se le stampa.”
Dice una scrittrice, una scrittrice un poco meno famosa, poco meno, poco meno,
ma puttana quel che basta per vestire un vestitino trasparente, per mostrare le
tettine e alzare l’audience, dice la scrittrice: “Pensa che i letterati di una volta
avevano dei calli alle dita che facevano impressione, e delle croste, delle croste
nere al culo. Pensa che la maggior parte della vita la passavano seduti.”
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“State zitti,” ho detto io, che ho chiamato quel programma, che la telefonata è
andata in onda, che si è subito capito ch’ero molto moltissimo incazzato. “Sono un
giovane scrittore,” ho detto io, “un aspirante romanziere che si spacca volentieri i
polpastrelli a furia di scrivere, tagliare, correggere, e salvare, e poi pazienza: dopo
un anno di lavoro tiro fuori una cacchetta, ma sapeste che dolore, sapeste che
dolore, cara la mia scrittrice, caro il mio scrittore, che fitte ai polpastrelli.”
Poi ho chiuso.
“Chi è questo coglione?” ha chiesto l’onanista.
“Chi è questo coglione?” ha chiesto la puttana.
“Che sorpresa,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi schifa, che la
parte della testa che mi apprezza è impegnata a sopportare i suoi dolori, lancinanti,
fulminanti, delle fitte che purtroppo l’han sfiancata in modo folle, quella parte
della testa, credo faccia troppi sforzi per leggere i miei pezzi, non riesce a
concentrarsi, non gli vien più di lodarmi, non mi parla.
“Che sorpresa,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi schifa, “devo
dire che funziona, il tuo progetto di romanzo, il problema è l’intenzione di ficcarci
dentro il giallo, a tutti i costi. Sì, lo so che il giallo è in un momento fortunato. C’è
questa moda del poliziotto che scrive, dell’avvocato che scrive, del questore e del
questurino, ma tutta questa gente, mi dice nella testa quella parte della testa che mi
schifa, tutta questa gente quando cazzo lo trova il tempo di scrivere? Si assenta dal
lavoro, si mette in malattia? Avanti di questo passo l’Italia sarà l’unico paese al
mondo con più commissari finti che veri.”
“Pensaci,” mi dice quella parte della testa che mi schifa, “pensaci, aspirante.
Lascia stare il giallo e osa: scrivi un romanzo per la Letteratura.”
20. Happy.
Sarà che mia madre era molto silenziosa, molto chiusa, niente a che vedere con
Marion Cunningham; sarà che le è sempre interessato stare per ore a martoriare i
grani di un rosario, mai parlare, mai giocare; sarà che mio padre era molto
autoritario, molto duro, niente a che vedere con Howard Cunningham; sarà che
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quando apriva bocca smadonnava, soprattutto su di me…
Non è questo il punto. Il punto è che io, nella mia vita, ho sempre desiderato
avere un padre come Howard, una madre come Marion, e invece mi sono capitati
questi stronzi comatosi che rosicchiano torrone davanti alla tv.
21. Days.
Cinque anni di liceo come fratelli. I film di Dario Argento, il biliardino, il primo
Vasco Rossi, le briscole, gli scacchi, le senza filtro un tiro a testa…
“Quanta gioia, ma ci pensi?”
Ora che ce l’ho davanti, il vecchio Max, scopro che il tempo gli è crollato
addosso come un macigno: gli occhi chiari e lucenti sono ridotti a due fessure, due
luci intermittenti tra macchie e rughe sterminate.
Ora che ce l’ho davanti, il vecchio Max, scopro che ha mollato gli studi di
Teologia per realizzare il contrario di quello che dovrebbe essere il primo dovere
dell’uomo verso Dio. Insomma, mica vivere: crepare.
Un anno fa stava per riuscirci. Sei pacchetti di sigarette al giorno erano diventati
la sua medicina contro la vita, finché una radiografia rivelò un cancro ai polmoni e
successivi esami mostrarono numerose metastasi ai reni.
“Sembrava fatta,” mi dice il vecchio Max, “ma quando si è a culo con i santi,
non è che puoi pregarli di farsi i cazzi loro. Al massimo, combatti: ti lasci andare,
aspetti che anche l’ultima infermiera sia vinta dal sonno, poi ti siedi muto in un
296
angolo del bagno e aspiri la tua razione quotidiana di merda. Ma non basta. C’è
sempre un san del cazzo che ti frega.”
Il vecchio Max non ci teneva a vincere la sua battaglia contro il male, però è
successo. Ora dice che salvarsi è stata...
Dice: “Sfiga. Cruda sfiga.”
Perciò ha raddoppiato il piombo. Perché ha letto che le stime sulle regressioni
spontanee e prolungate di tumore rasentano lo zero. Perché non si accontenta di
spararsi un colpo alla tempia e vuole che la sua fine venga dopo un’agonia
devastante e crudele. Perché a furia di sondare le malvagità dell’animo umano ha
cominciato a pensare alla bellezza di un mondo senza uomini. E allora, prima di
fare cazzate tipo Unabomber, meglio accendersi una sigaretta dietro l’altra, due per
volta, tre per volta.
Se gli chiedo a cosa serve, a cosa serve il suo martirio, mi risponde che lo fa per
ribellarsi, per affermare il… com’è che dice?
“Il dogma dell’autosufficienza umana.”
Se gli chiedo che vuol dire, mi risponde che il suicidio è l’unico strumento di
riscatto da ogni male, e che la morte, ogni morte così desiderata, getta un cono
d’ombra sull’onnipotenza del Grande Orologiaio.
“Dio è al tappeto,” ringhia il vecchio Max, mentre una tosse violenta e rumorosa
gli sbatte fuori tutto: muco e saliva, catarro misto a sangue, fumo.
Basta.
Chiudo gli occhi e lo rivedo, il mio compagno, con lo sguardo sul Bulova e le
dita che percuotono insistentemente il banco. E mi ricordo che fuori ci aspettava
pura vita: pranzare dai miei, la replica di Mister Fantasy, due ore di tennis, il sali e
scendi al Corso per sbirciare qualche minigonna.
Basta.
Volevo chiedergli un parere su Anna Grazia, ma poi ho lasciato stare, ho
salutato.
Non affannatevi a trovare chissà quali sottintesi. Volevo dire ciò che ho detto:
voglia di ammazzare Lillo Schembri, un delitto che ho sognato cento volte, e cento
volte non son valse a cancellare la sua faccia, i suoi tentacoli di merda, la violenza
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delle dita che rovistano nel sesso di Anna Grazia, mentre lei si fa toccare e lascia a
mezzo quelle frasi che preservano la fama, non la passera né il culo, che
preservano la fama di ogni santa pargoletta di paese: “Che vuoi farmi, no, ti prego,
brutto figlio di puttana, lascia stare, vaffanculo…”
La racconto, questa storia, dopo avere lungamente provato a sprofondarla dentro
il fiume dell’oblio, non c’è verso: da lì sguscia, da lì salta come un pesce
indiavolato su dall’acqua.
Un giorno Lillo mi telefona e… un momento: prima voglio dire che io e Lillo
avremo fatto due discorsi, cinque anni a scuola assieme e due discorsi, sulla Juve e
sugli scacchi. Lillo Schembri era il ragazzo più scontroso della classe, più di
Ciccio quando aveva mal di pancia, più di Santo Montalbano ch’era detto
Beccamorto.
Se ci penso, certi suoi comportamenti avrebbero meritato un’attenzione più
profonda, a posteriori voglio dire, tipo il fatto di spalmare le sue caccole sul banco,
sotto il banco. Almeno chiedersi perché.
Un giorno Lillo mi telefona e mi dice: “Sei invitato.”
“Alla tua festa?”
“Alla mia festa.”
Questo già mi parve strano, perché Lillo era soggiogato dalla madre, un’isterica
santocchia col passato da entreneuse che si era presa la clamidia dal marito
bananone e se gli attaccavi la spina, ti diceva che tutte le ragazze…
“Sono infette! Specie quelle che la danno per piacere. Sono infette, e infettive!”
Non mi piace ricordare questa storia, ma quel giorno Lillo compiva sedici anni,
e cosa strana gli avevano concesso d’invitarci a casa sua, d’invitarci a festeggiare,
tutti quanti.
Tutti quanti abbiamo detto: “Ma davvero?”
Lillo ha detto: “Sì, davvero.”
C’ero io, c’era Giusi, c’era Massimo, Anna Grazia, c’era Ciccio… poi chi c’era?
C’era Gerri, c’era Cinzia, c’era Pappi… Pappi Meli che ci spinse a provare
un’esperienza allucinogena che gli era stata raccontata da certi suoi cugini
canadesi. Si trattava di spruzzare il gas di una bomboletta da campeggio in un
sacchetto di plastica, e poi ficcarci dentro il cranio. L’idea, semplice e allettante,
prometteva emozioni a basso costo, e senza il rischio di doversi procurare droghe o
farmaci illegali.
298
Era domenica pomeriggio e, cosa strana, non m’importò una sega di vedere
Novantesimo minuto, di sapere se Domingo Marocchino aveva fatto impazzire il
Comunale.
Alle sei e un quarto, mi ritrovai con la bomboletta tra le mani e tanta voglia di
essere il primo, che poi, a dire il vero, era tutta una manovra per scioccare le
ragazze, per convincerne una a caso a fidanzarsi, e invece niente: alle sei e venti,
non avevo ancora cominciato a inalare ed ero già praticamente liquefatto, pallido
come un torrone, stanco, stanco di spavento, rosso, rosso di vergogna.
Lillo, invece, fu molto coraggioso: non tolse il muso lungo ma spruzzò, ficcò la
testa nel sacchetto, gli venne un ghigno che non gli avevo mai veduto, spruzzò
ancora, ficcò ancora, blaterò parole senza senso e infine piantò le dita dove
capitava.
Nella fica di Anna Grazia, in fondo in fondo.
Un nome. Un nome che continua a pumbussare, bussa e bussa, nella testa, non
mi porta una fattezza, un lineamento, nulla, nulla che m’aiuti a scender giù dalle
montagne, dalle russe dei ricordi, ‘sto Lametta, ‘sto Calogero Lametta detto Rino,
mai sentito.
‘Sto Lametta si è accusato della morte di Anna Grazia. Si è fatto intervistare dal
giornale Fatti Veri, e si ricorda, si ricorda di Anna Grazia come fosse il suo
biografo personale: copertina e quattro pagine per parlare e straparlare dei loro
mille amplessi, di una volta che scoparono in autostrada, lei a seno nudo e
accovacciata su di lui che guidava, che guidava a 180, e quasi quasi sradicavano un
guard-rail… ma che dice? Copertina e quattro pagine per parlare e straparlare di
una vita biricazza, dei suoi duemila amanti, di una volta che il cornuto la scoprì
con una donna, una puttana, puttanella, lesbichella, la scoprì e la minacciò con la
pistola, ma invece che sparare preferì imbrattarla, scoparla sotto gli occhi di
quell’altra, di quell’altra che vociava che Anna Grazia era una santa, che a farsi
eiaculare sulla faccia era una santa… ma che dice ‘sto Lametta?
‘Sto Lametta fancazzista non lo bevo, ‘sto Lametta è tutto fatto, è un mitomane
impazzito, è da cassare.
299
25. Bella Petra.
Bella era bella, porca una gran porca. Dormiva e sognava cazzi. Durante l’ora di
religione la vedevo appisolarsi sul banco e me l’immaginavo già bagnata. Petra ha
corso più dei tempi, si è scopata mezzo mondo, 142 ne ha contati, quando aveva
sedici anni, 81 gli erano venuti in fica, gli altri in bocca, Massimo Spataro sulla
mini e io sulle lenzuola di lino di sua madre, il 7 agosto 1982, data mitica
quest’ultima, perché la bella Petra giurò che mai gli era piombato tra le cosce un
simile cretino, e la cosa più sensata era quella di sparire, l’uno all’altra, di non
vederci più, come un amore alla rovescia, giurarsi assenza per l’eternità.
La mia vita di relazione con Petra Bella è tutta qua: uno schizzo che arriva
troppo presto, e addio.
Venticinque anni dopo, alle sette del mattino, mia madre bussa alla mia porta.
Sto dormendo, alle sette del mattino, sto sognando, alle sette del mattino, di solito
a quell’ora sono solito scopare con Meg Ryan, alle sette del mattino, sto battendo a
viva forza sul bacino di Meg Ryan, alle sette del mattino, e… porco cazzo! Mia
madre bussa alla mia porta, mi urla di correre al telefono, alle sette del mattino.
Chi può rompermi i coglioni alle sette del mattino?
“Pronto?”
“Lamaiola?”
“Sì, chi parla?”
“Franco Lamaiola?”
“Sono io. Chi parla?”
“Petra.”
“Petra… chi?”
“Bella.”
“Cazzo! Scusa. Non mi aspettavo… io… non credevo… dopo tutto questo
tempo… alle sette del mattino… che fine hai fa-fatto?”
“E dài, non balbettare! Non siamo più due ragazzini.”
“Petra… mi fa piacere.”
“Volevo chiederti una cosa. Ho saputo che sei stato a Roma…”
“Io? Chi te l’ha detto?”
“Pappi.”
“Tu e Pappi vi vedete?”
300
“Lascia stare. E’ vero che hai assistito all’autopsia di Anna Grazia?”
“Sì. Che vuoi sapere?”
“Hai notato qualcosa di strano in Pappi, mentre la incideva?”
“Qualcosa di strano… cosa?”
“Se era emozionato, o che ne so, se la guardava in modo particolare…”
“Perché mi fai questa domanda?
“Franco, per favore. Rispondimi senza obiettare.”
Rispondere, pensarci: mi torna in mente Pappi all’obitorio (capitoletto 2). Pappi
che guarda il pube di Anna Grazia e mi chiede se provo eccitazione, se ho mai
visto il sesso di una morta, se ho voglia di scoparla. Molto strano.
“Franco, ci sei?”
“Sì, sì. Stavo riflettendo.”
“E allora?”
“Non mi sono accorto di niente.”
“Ok, grazie.”
“Petra, ti andrebbe di vederci? Magari potremmo andare al cinema.”
…
“Petra?”
…
“Pronto?”
…
“Pronto?”
26. Si ostina.
“Caro Franco,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi schifa, “non
puoi immaginare quanto ho sofferto nello scoprire che non hai capito un cazzo
dello spirito missionario che mi contraddistingue, e che è ben distante dal
leccaculismo che ormai signoreggia nell’altra parte della tua testa, quella parte
della testa che ti apprezza, credi tu, e invece ti sta solo affossando. In questo
delicato momento della tua vita di scrittore, farti un complimento dietro l’altro ha
il solo effetto di offuscare il tuo senso critico, impedendoti di riconoscere quei
limiti che ti sbarrano la strada del successo. Io volevo solo aiutarti, e qual è stato il
tuo ringraziamento? Costringermi a seguire un pallosissimo corso on line per
301
migliorare l’autostima e ottenere il meglio da sé. Costringermi a seguire un corso
on line tenuto da un truffatore imbroglione impostore raggiratore disonesto
furfante ciarlatano e ricchissimo maestro di una setta new age. Costringermi a
seguire un corso on line che hai pagato con la carta di credito di mamma, che
vergogna. Ormai sono convinta di averti perduto. La letteratura ti ha perduto. E
quanto al tuo nuovo materiale, i capitoletti 20, 21, 22, 23, 24 e 25, in particolare il
24, sai che voglio dirti?”
“Non lo so,” ho risposto rassegnato.
“Voglio dirti: QUANDO NON HAI UN CAZZO DA SCRIVERE NON
SCRIVERE UN CAZZO, CHE E’ BEN DIVERSO DALLO SCRIVERE DI
CAZZI, PERCHE’ IN QUEL CASO SCRIVERESTI DI CAZZO. Hai capito?
Prendi i tuoi ultimi capitoletti, strappali foglio per foglio e buttali nel cesso. Quello
è il loro posto.”
27. Elenco di alcuni dei personaggi fin qui trattati (con aggiunta di nuovi
particolari, non indispensabili).
302
perché sospettato dalla Polizia di avere ospitato Anna Grazia sul suo taxi, il giorno
prima che venisse uccisa;
7) La bella con le poppe a pera, Cinzia Picca, una calcolatrice dell’amore che si
è fatta strada di materasso in materasso e ora che è sposata si è rotta di essere la
slave delle perversioni sessuali del suo potentone napolamericano;
8, 9, 10, 11, 12) Il mitomane impazzito, Calogero Lametta detto Rino; il malato
di cancro che vuole suicidarsi, Massimo Messina detto Max; alcuni personaggi
secondari: Giuseppina Albano detta Giusi; Tiziana Coco; Calogero Schembri detto
Lillo.
Tolto Lametta, sono tutti amici miei o miei ex compagni di scuola. Amici miei e
della morta. Coincidenze?
28. Qualche parere raccolto da zia Anna, che ha avuto quel che c'era del mio
libro da mia madre e l’ha letto a una riunione di condominio. Iniziativa non
richiesta, conseguenza: avevo scritto dei capitoletti che parlavano di lei, della sua
vita, la sua vita avventurosa, a Pian della Repubblica è la sola, sola vita
avventurosa, volevo raccontare i suoi anni da groupie di Frank Zappa, gli anni
negli States, volevo e non lo faccio, non la nomino neanche, la cancello dal mio
libro. Elimina, sposta Anna nel Cestino? Sì.
(Raimondo Panepinto, 53 anni, idraulico, int. 1) “Questa Anna Grazia non l’ho
mai sentita. Ma che è, una storia inventata?”
(Rocco Galvano, 43 anni, Meccanico, int. 2) “Dopo averlo letto, io e mia moglie
abbiamo scopato per tre ore di fila. Volevamo toglierci dalla testa le avventure di
quell’esercito di sfigati, ma è stato inutile.”
(Giuliano Campanella, 56 anni, operatore ecologico, int. 3) “Ridicolo. Manzoni
lo schiferebbe. Giorgio Leopardi, poi…”
(Valeria Mancuso, 31 anni, parrucchiera, int. 4) “Signora mia, da suo nipote mi
aspettavo decisamente di più. Ma perché si fa chiamare Lamaiola? Ah, già: forse in
famiglia vi vergognate. E ci credo!”
(Franco Candido, 26 anni, disoccupato, int. 5) “Sconclusionato. E poco
originale.”
(Anna Consiglio e Miciamì, 63 e 4 anni, zia e gatta, int. 6) “Leggerlo non se ne
parla, ma quando mio nipote l’avrà concluso, lo terrò in casa. Poi speriamo non se
303
lo mangino i sorci.”
(Claudio Lombardo, 42 anni, amministratore di condominio e magnaccia, int. 7,
attico) “Puttanazza vaccazza, è un capolavoro!”
304
presunta gravidanza è un giallo nel giallo, poiché nessuno degli amici e parenti di
Anna Grazia ne era a conoscenza, e neppure l’autopsia la conferma.
Mentre andiamo in stampa, l’interrogatorio, che dura ormai da nove ore, sta
contribuendo ad aggravare la posizione del sospettato, a tal punto che il pm Luca
Cammarola si è spinto a dire ai cronisti che il quadro accusatorio, da indiziario, è
diventato probatorio. […]
31. Pronto?
Quando ritrovo un amico che da tempo non vedevo e mi chiede cosa ho fatto,
cosa ho fatto di bello in questi anni, avrei voglia di dire un mucchio di cose, e
nessuna è vera.
Avrei voglia di dire che ho scritto un romanzo, una canzone di successo, che ho
realizzato almeno uno di quei sogni di cui parlavo da ragazzo, e non è vero.
Avrei voglia di dire che ho viaggiato e avuto passioni cosmopolite, che mi sono
tolto lo sfizio di farmi una ragazza per ogni città che ho visitato, e non è vero.
305
Avrei voglia di dire che ho maturato convinzioni spirituali che hanno fatto di me
un uomo saggio, estraneo alle ingiustizie e alla sofferenza del mondo, e non è vero.
Avrei voglia di dire che mi sento libero, finalmente libero dalla schiavitù del
guadagno, dall’obbligo di fare i lavori che normalmente tutti fanno, e non è vero.
Avrei voglia di dire un mucchio di cose, ma il solo pensiero di avere voglia di
dire un mucchio di cose, per non parlare del coraggio che ci vorrebbe a spararle
così grosse, il solo pensiero mi fa balbettare malamente: “Cosa ho fatto, cosa ho
fatto di bello in questi anni? Co-cosa ho fatto? Cosa?”
Io quando mi dicono che dovrei essere più buono, mi viene voglia di ostentare
cattiveria, di raccontare tutte le crudeltà che ho fatto: come quando ero piccolo e
ho murato un gatto vivo, col fango prima e col cemento poi, o come quando
strappavo le zampe ai grilli, e questo l’ho fatto un centinaio di volte, perché mi
faceva ridere l’idea che non potessero scapparmi saltellando, o come quando mio
padre è caduto da una quercia, è successo l’anno scorso, mentre potava, e io ho
pensato che quello fosse il risultato delle mie maledizioni, ho pensato ch’era
giusto, ch’era giusto che scontasse tutto il male che mi aveva provocato
nell’infanzia, meglio tardi che mai, ho pensato che per lui ero stato un ectoplasma,
una presenza evanescente, niente che ci avvicinasse, nessun legame, niente, a me
piaceva il cinema a lui la tv, a lui mangiare e bere davanti alla tv, niente che ci
306
avvicinasse, nessun legame, niente, a me piaceva il calcio a lui le carte, il suo più
grande divertimento era il poker, entrare nel retrobottega di fumosissimi locali con
l’unico scopo di stanare un pollo e ridurlo sul lastrico, che ci potevo fare, che ci
potevo fare se allora e pure oggi penso che la maggior parte delle volte accadeva il
contrario, che il primo portafoglio a incenerirsi era il suo.
Io la domenica alle 14, altro che Domenica In! Io la domenica pomeriggio avrei
voluto andare a vedere la partita, la partita con mio padre, avrei voluto andare a
vedere l’Akragas, che è uno strano nome per una squadra di pallone, e invece è
proprio così che si chiamava, e non giocava mica con… l’Olympiakos e il…
Panathinaikos, ma con il Favara e il Terranova. Ora l’Akragas non esiste più, si è
sciolta per fallimento, e mio padre ha perso l’occasione di portarmi la domenica
allo stadio, una tranquilla domenica allo stadio, allo stadio a vedere la squadra di
una città che Pindaro definì la più bella dei mortali, una squadra che giocava con il
Comiso e il Milazzo, e invece avrebbe dovuto farlo con… l’Aek e il… Panionios,
ma insomma, tutto questo, tutto questo mi scappa dalla bocca perché voglio dire
che il tentativo di difendere Gerri è stato accolto come la burla di un cattivo, una
cosa infame, veramente da cattivo, un colpo di pugnale sulla schiena, un calcio al
basso ventre.
“Come si fa? Come si fa,” ha detto Cinzia, “a sostenere che un assassino abbia
un poco di ragione?”
“Come si fa? Come si fa,” ha detto Max, “a pensare all’omicidio come a una
specie di Rivotril, un ansiolitico?”
“Come si fa? Come si fa,” ha detto... chi lo ha detto non ricordo, “a non capire
che il nostro amico in cella non ha nulla di speciale, è un caso comune, comune e
ripetibile, uno dei tanti casi di frustrazione e inadeguatezza?”
“Come si fa?”
“Come si fa?”
“Come si fa?”
La discussione è andata avanti fino a sera, quando abbiamo deciso di guardare il
Tg5, e dicevano che Gerri si ostinava a dichiararsi innocente. Gerlando Verga
cadeva dalle nuvole e negava, anche se gli indizi, se tutti gli indizi erano contro di
lui.
307
Pappi Meli, che abita a Roma da più di vent’anni, si è meravigliato di come
l’orologio della Storia, a Pian della Repubblica, si sia fermato.
“Inquietante,” dice Pappi, “inquietante per davvero.”
“Inquietante,” penso io, “inquietante per davvero.”
Ricordo che mio padre acquistò una villetta in periferia perché era convinto che
il paese si sarebbe sviluppato, e presto sarebbero arrivati i primi centri
commerciali, le palestre, il cinema, i negozi. E invece nulla: il progresso si è
interrotto con la partenza di Pappi, e c’entra zero, e con l’uccisione mafiosa
dell’onorevole Granatone, Lavinio Granatone, boss in doppiopetto del clientelismo
doroteo e inventore della dottrina secondo cui ogni villetta che nasceva assicurava
il consenso generalizzato di un intero parentato. E ciò voleva dire tanti voti, tante
croci sulle schede elettorali, tante schede che portavano il suo nome. Il successo
elettorale della Democrazia Cristiana a Pian della Repubblica è tutto in quelle
costruzioni. Prima e dopo il paese non è esistito. Nemmeno il saccheggio del
territorio e l’abusivismo edilizio hanno toccato questo rovescio di Pleasantville,
questa Seahaven decadente nella quale nessuno si sognerebbe di realizzare un
Truman show. Con le sue villette a schiera e la sua architettura ordinata e precisa,
un tempo linda, Pian della Repubblica è un piccolo, barboso e puzzolente paesino:
clima soffocante, aria ammorbata dai rifiuti che marciscono all’aperto, poco
traffico, niente attrattive, divertimenti, niente.
“Ogni volta che d’estate ci ritorno,” dice Pappi, “mi sento pervaso da uno strano
senso di religiosità, capisco d’essere uno e trino: io rimango una settimana, a volte
due, a volte un mese; i miei coglioni se ne vanno dopo un’ora.”
“Eccomi, scrittore, e scusami,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi
apprezza. “Se non mi sono fatta viva è perché ho avuto due problemi di seguito
uno all'altro. Una settimana di terribile emicrania che mi ha impedito di occuparmi
di qualsiasi cosa, e un errore del mio, del nostro medico, che mi ha prescritto, ti ha
prescritto delle gocce che ci hanno scombinato il ritmo sonno-veglia. Ad ogni
modo i capitoletti dal 12 al 35 sono riuscita finalmente a rileggerli, e cosa posso
dirti? Bravo.”
308
“Bravo un cazzo.”
“Non dar retta,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi apprezza,
“lascia stare la partaccia che ti schifa. Tu sei bravo, veramente, veramente.”
“Bravo un cazzo.”
“Non dar retta. Tu non hai problemi di scrittura. Le virgole, i punti, le strutture
narrative, sono elementi che riesci a dominare con scioltezza. E poi mi piace, mi
piace da impazzire l’uso furbo che fai del narcisismo: metti specchi dappertutto,
poi li rompi, ti compiaci nel dolore, ma è una finta, un modo di giocare col lettore,
di confonderlo, spiazzarlo, di evitare che si annoi. L’unico pericolo che corri è dar
retta alla tua parte distruttiva. Non lo fare, o finirai per trasformare un’ottima
scrittura in qualcosa di poco interessante per un editore.”
37. Alla fine di questo capitoletto uno dei miei lettori mi dirà che devo trovarmi
una fidanzata.
309
Ieri sera sono andato in bagno, mi sono tirato giù i pantaloni, le mutande, ho
preso il coso, il coso in mano, mi è venuto di pensare al corpo morto, al corpo
morto di Anna Grazia, e addio, finita.
Devo dire che nel corso degli ultimi vent’anni, venticinque, il mio secondo
lavoro, masturbarmi, mi ha creato dei problemi, come la volta che ho provato a
emigrare, andare in fabbrica, a Milano. A Milano avvitavo bulloni, ero addetto allo
stampaggio rullatura filettatura molatura di viti e bulloni. Ora, se c’è una cosa che
mi stanca, che mi sfibra, che mi logora e sfinisce, è lo stampaggio rullatura
filettatura molatura di viti e bulloni, e questa è la ragione per la quale me ne stavo
in bagno a masturbarmi. Nel bagno della fabbrica. Tre giorni di lavoro e mi hanno
licenziato. Ma le seghe pensando ad Anna Grazia, cazzo, quelle, me le son fatte.
Mica come adesso: cazzo, sì, me le son fatte!
38. La più bizzarra delle mail firmate da Gerlando Verga, detto Gerri.
310
amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti
amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti
amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti
amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti
amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo, ti amo.
Allora dimmi: posso essere così stupido da non accorgermi che tu mi detesti?
No che non posso, amore mio.
A presto.
Gerri.
39. Mio Dio, my God, mon Dieu! Quella parte della testa che mi schifa fa
l’offesa.
“Caro Franco,” mi dice nella testa quella parte della testa che mi schifa, “sono
rimasta sorpresa, delusa, quando ho scoperto che hai già un assassino. E’ troppo
presto! Dov’è la suspence? Dov’è lo sviluppo? Non pretendevo che tu imbastissi
un giallo alla Patricia Highsmith, ma che siamo in un film del tenente Colombo?
Mi duole dirlo, ma te lo meriti il tenente Colombo, perché non hai mestiere e non
hai talento. In più, sei testardo. Ti avevo detto di smetterla col giallo, e tu insisti.
Ti avevo detto di ascoltarmi, di chiedermi dei consigli, di lasciarti guidare, e
invece ho scoperto che usi il tuo romanzo per farti beffe di me. Sai che ti dico? Sei
solo uno scribacchino di provincia! Io la chiudo qui.”
Sull’ultima sua frase ho avuto un mancamento. E’ stato angosciante, come se
una parte di me mi abbandonasse. Un’impressione, niente più che un’impressione,
ma brutta per davvero.
40. I giornali.
Io non li compro i giornali, gli do una scorsa su internet, scelgo gli articoli che
mi interessano, li scarico e li stampo, perché leggerli direttamente sullo schermo
mi fa venire il mal di testa, non lo so, sarà che sono miope, sarà che sono presbite,
sarà che a furia di cambiare fuoco dal monitor alla tastiera, dalla tastiera al mouse,
dal mouse al monitor, dopo qualche ora mi viene un bruciore, un prurito, un pianto
che neanche la Madonna delle lacrime sarebbe capace di spargere più acqua, e
311
però: da un lato io non compro i giornali, gli do una scorsa su internet, faccio circa
30 euro di risparmio al mese, ma dall’altro, visto che li scarico, li stampo, li
ritaglio, e sottolineo le frasi più importanti, dall’altro, visto l’uso di carta, forbici,
matita e colla, e il pagamento di 29 euro al mese per l’ADSL, tasse escluse, a volte
penso: dove sta il risparmio? Non lo so. Mi sa che il risparmio è tutto nella testa,
nella soddisfazione di scegliermi le notizie da solo, senza essere obbligato a
portarmi a casa le facce e le storie di gente che non mi frega un cazzo, non mi
frega.
Questo è un periodo che sto raccogliendo e archiviando tutti gli articoli che
parlano di Gerri: quelli a difesa, che sono pochi pochi, e quelli che lo descrivono
come un pazzo criminale. E’ una barba di lavoro, ma c’è una cosa, c’è una cosa
curiosa e bella: c’è la possibilità di chiamare al telefono i miei amici e invitarli a
cena, farsi fare due zucchine al pepe rosa da mia madre, e poi mettersi a leggere di
Gerri, e scoprire tutti insieme che sottilmente si gode, si gode del dolore altrui, del
dolore di cui siamo spettatori, del dolore che ci sfiora, ci sfiora e non ci tocca.
Anna Grazia Diamanti avrebbe una figlia di circa 9 anni, nata da una relazione
segreta. E’ quanto affermato in una lettera anonima inviata al Giornale della Piana.
Lo sconosciuto autore dice di essere a conoscenza del luogo dove la bambina
viene tenuta nascosta, ma che gli è impossibile rivelarlo senza metterne a rischio
l’incolumità.
Poche righe scritte al computer che accendono nuovi interrogativi, riportando
l’attenzione degli inquirenti sulle parole di Gerlando Verga, che in una mail
risalente a dieci anni fa, scrive chiaramente ad Anna Grazia della figlia che le sta
per nascere. Come mai l’unico indagato dell’efferato delitto era a conoscenza di un
fatto così strettamente tenuto nascosto? Verga, che è attualmente recluso, ha detto
che la bambina esiste e verrà presto trovata, ma quando gli è stato chiesto come fa
a esserne sicuro, non ha voluto o potuto suffragare in alcun modo la sua
convinzione.
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(Letta in televisione dall’avvocato Tino Balli, durante la trasmissione ‘Aorta
aorta – medici dietro le sbarre’, ha provocato un vespaio di polemiche per il tono
severo e sprezzante).
Ci sono stati giorni che andavo pazzo per la Margaret Mazzantini, un’attrice
piuttosto algida che aveva scritto un libro straordinario, Non ti muovere si
chiamava il libro, un libro straordinario, tutto scritto da un punto di vista maschile,
mi aveva confuso, spaventato, spaventato in senso… in senso buono voglio dire,
spaventato il suo talento, l’intelligenza di una donna che sapeva scrivere da un
punto di vista maschile, e in maniera tanto vera, coinvolgente.
Così ora che i siti dei giornali sono pieni delle mail che Anna Grazia ha spedito
a Gerri in risposta alle mail che Gerri ha spedito ad Anna Grazia (e quelle di Anna
Grazia sono lettere di addio, vere o false non m’importa, sono lettere struggenti),
così ora che i siti dei giornali sono pieni delle mail che Anna Grazia ha spedito a
Gerri in risposta alle mail che Gerri ha spedito ad Anna Grazia, così ora mi è
venuto in mente un gioco, un gioco letterario per cui ho bisogno di stampare le
lettere, tagliare alcune frasi, e organizzare e archiviare e poi provare a riscriverle.
Il gioco si chiama: “Se fossi stata lei…”, o chiamatelo pure come vi pare,
insomma, il gioco è questo qua:
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, io volevo qualcosa di
313
diverso da un semplice corteggiamento.”
Avrei detto piuttosto: “Mi ero illusa che tu potessi darmi il bene. Mi hai dato il
pene, e certe cose, o certi cosi, si sa che vanno a noia.”
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, di una cosa posso
essere fiera: non ti ho mai mentito.”
Avrei detto piuttosto: “Tutte quelle volte che ho disdetto i nostri appuntamenti e
ti ho spiegato che era a causa di ragioni di lavoro, sono stata contenta che tu non
mi abbia chiesto di che tipo di lavoro si trattava.”
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, vorrei che tu pensassi
che quando il tempo avrà cancellato il rancore, magari tra un anno, o al massimo
tra due, io possa diventare per te una vera amica.”
Avrei detto piuttosto: la stessa cosa, ma concludendo con un… “Però adesso
levati dalle ovaie, che devo rifarmi una vita e ho pure fretta.”
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Dear Gerri, take care of yourself.”
Anche perché non so l’inglese.
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, le mie labbra
conservano ancora il ricordo dei tuoi baci, ma due cuori non possono battere
all’unisono per sempre.”
Avrei evitato che lui mi rispondesse: “Cosa ne sai tu di cardiologia?”
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, salutarsi per l’ultima
volta è una pena così dolce che ti direi addio fino a domani.”
Perché lo ha già detto Shakespeare.
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, temo che il sommelier
del tempo ha dichiarato scaduto il nostro amore, e dunque: addio.”
Avrei detto piuttosto: “Addio.”
Se fossi stata lei… non gli avrei mai detto: “Caro Gerri, all’inizio la nostra
doveva essere una semplice storia. Forse abbiamo corso troppo.”
Avrei detto piuttosto: “Voi uomini pensate che le donne hanno sempre bisogno
d’innamorarsi per fare sesso. Ma chi l’ha deciso che una donna non può prendersi
una scopata e basta?”
Se fossi stata Anna Grazia… io sarei stata infinitamente più cattiva, e questo
lento, lento stillicidio di parole ostili, sarebbe valso come una sorta di omeopatia
dell’addio: un fiele che, somministrato a piccole dosi, avrebbe potenziato lo spirito
di Gerri, convincendolo di aver vissuto con una troia, una grandissima troia per la
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quale non andavano sprecati pensieri, dolori, o sentimenti. Un fiele che mi avrebbe
evitato, forse, il tragico finale: lo scannamento al quale fui sottoposta, lo
scannamento, per l’appunto, che si riserva alle scrofe da macello.
Pur essendo nato nel 1965, nell’aprile del 1965, io ho cominciato la mia attività
sessuale nel 1984, e questo vuol dire che ho scopato tardi, tardissimo se penso che
i ragazzi e le ragazze di oggi lo fanno molto presto, prestissimo per me, per me che
ho debuttato a diciannove anni compiuti, diciannove anni senza fica, pure adesso
che ne parlo mi vergogno.
Io non so come si possa stare così a lungo senza fica, e passi per i primi, per i
primi quindici anni, ma dopo? Non so come ho vissuto, non so come ho potuto
vivere e scansare tutte quelle che potenzialmente avrebbero potuto darmela, ci
vuole un certo genio, perché penso che Cettina Bruccoleri me l’avrebbe data, e
pure Mary, sua sorella, perché era tradizione di famiglia, e Cinzia, e Petra, e Anna
Grazia, e Loredana, Loredana di Bologna, la mia insegnante di filosofia, Loredana
di sicuro, sarebbe bastato dirle che avevo preso le misure del mio uccello, che era
il caso di indossare quei due centimetri in più della media, della media nazionale,
in fondo Loredana, Loredana di Bologna era una tettona di quarant’anni e scopava
con quelli di sedici, ma niente: quando avevo deciso di farmi avanti, di dirle che
avevo preso le misure del mio uccello, che non era da scherzarci, affatto, no,
quando avevo deciso di farmi avanti, e di portarle una tesina su un libro che si
chiamava Voluttà della santa davanti alla cappella, un libro di non mi ricordo chi,
un libro di cui mi era bastato leggere il titolo per capire che faceva al caso mio,
quando avevo deciso di provarci, Loredana è stata sorpresa a farsi palpeggiare e
filmare in super8 con cinque ragazzi di seconda liceo, è stata sorpresa da un
bigotto collotorto bacchettone di bidello, è stata portata in lacrime dal preside e
quindi denunciata per violenza sessuale aggravata e corruzione di minori.
Allora ho dovuto darci un taglio, aspettare qualche giorno, qualche settimana,
qualche mese: aspettare che lei si difendesse, dicesse che i ragazzi erano grandi,
più di quanto scrivevano i giornali, erano cinque ripetenti, le piacevano, vero, ne
era attratta, eccitata, sì, ma solo col pensiero, per il resto hanno fatto tutto loro, e
quel filmino, quel filmino per lei è una sorpresa, non se n’era manco accorta.
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Insomma, è finita che ho aspettato: tre anni dopo, in piena notte, sono andato
sotto casa sua, le ho bussato, le ho detto: “Professoressa, io non mi sarei mai
permesso di arrivare a tanto, ma quando ho assistito al processo e ho saputo che lei
incontrava i miei compagni anche nel suo appartamento, quando ho saputo che
incontrava i miei compagni anche in auto, al cinema, ai cessi pubblici, quando l’ho
saputo sono corso a misurarmi l’uccello, e quei due centimetri in più della media,
mi creda, professoressa, mi creda: erano diventati quattro.”
Mentre le parlavo ho avuto un’erezione, e la cosa divertente è stata questa: che
Loredana non si è affatto infastidita, Loredana che assomigliava a Dita von Teese,
un’attrice del softcore, Loredana di Bologna che era bella, e sfrontata, e seducente,
Loredana ha detto: “Ok, se proprio ci tieni, se proprio ci tieni è ok, però prima devi
fare una cosa per me.”
Ho detto io: “Qualunque cosa.”
Ha detto lei: “Devi leccarmela per bene, per mezz’ora; prima me la lecchi e poi
scopiamo.”
Così ho fatto.
E’ lei? E’ ancora lei? E’ quella parte della testa che mi schifa? E’ lei che bussa
alla mia tempia?
E’ lei, è proprio lei. E’ lei che dice: “A proposito del capitoletto 42, ma cosa
cazzo scrivi? Aorta aorta? Ma che siamo al Bagaglino? Come ti è venuta in mente
una presa per il culo così sgraziata? Io capisco il tuo diritto di sedurre il lettore
provocando in lui qualche risata, ma quando l’ironia è di grana grossa, forse è
meglio lasciar perdere. E con questo ti saluto.”.
316
stranita e poi incazzata, pensavo che finché fossi rimasto, per me era mooolto
piacevole avere Loredana, Loredana di Bologna, era stupendo, rilassante, e in
fondo si trattava del tu dai una cosa a me che io do una cosa a te.
Dopo qualche mese di piacevole routine, ho capito che dovevo impiegare
meglio quel tempo, quel tempo tutto mio del quando la leccavo. Andai in libreria, a
Pian della Repubblica c’era una specie di cartolibreria, un buco sudicio e
disordinato portato avanti dalla signorina Giuseppina Caldonazzo, novant’anni,
dalla signorina che di libri non capiva un cazzo, novant’anni, comprai il Manuale
teorico pratico delle aperture e cominciai a studiare e ripassare le mosse: la Caro
Kann e l’Est Indiana, la Russa e la Francese, era sempre un buon progresso per uno
che a quel punto si sarebbe accontentato di diventare il maggiore scacchista di Pian
della Repubblica, e fu questo il motivo per cui chiesi a Loredana di venire a
leccarla più spesso, così in quel tempo, nel tempo tutto mio del mentre la leccavo,
invece che pensare ai fatti miei, avrei ripassato a memoria le mosse.
Ma quest’ultima frase no, non gliela dissi.
47. Sorpresa.
Quando ho acceso la tv e ho saputo che Gerri era stato scarcerato mi sono messo
a piangere, proprio a piangere, a far gne, a far gne-gne. E dire che io e Gerri non
eravamo così amici, voglio dire: tanto amici da mettersi a far gne, a far gne-gne.
C’era una certa confidenza, questo è vero, c’era il fatto che lui mi aveva messo il
dito nel culo due volte, tre volte, quattro volte, non ricordo quante volte, ma che
c’entra? Quelle sono cose che servono a stabilire una certa confidenza, e c’era,
c’era una certa confidenza tra me e Gerri, ma che c’entra? L’amicizia è un’altra
cosa. Io e Gerri eravamo solo due vecchi compagni di scuola, e comunque la
notizia completa è che lui resta indagato, indagato a piede libero, resta l’unico
indagato, e comunque la notizia più completa è che ho pianto, quando ho saputo
che Gerri era stato scarcerato, mi sono messo a piangere e subito ho telefonato a
Pappi.
“Siete così amici?” si è meravigliato Pappi.
“No che non lo siamo,” ho detto io, “Gerri è un bravo urologo, il mio urologo di
fiducia, ed è per questo che mi ha messo…”
“Che ti ha messo?” ha detto Pappi.
317
“Lascia stare,” ho detto io, ho detto: “Sei pentito? Tu per primo pensavi fosse un
mostro, un assassino, tu l’avevi condannato, e invece vedi vedi che è innocente, chi
può dirlo? C’è una tipa, c’è una tipa che dovrebbe essere il Gip, c’è una tipa che
spacca i bicchieri quando parla, c’è ‘sta tipa brutta brutta che sostiene la mancanza
di indizi sufficienti a mantenere Gerri in carcere. Tu che dici? Sei pentito?”
Son già cinque telefonate, sei persone, sette volte che ho chiesto, stamattina, ho
chiesto a sei persone e alla mia testa, a quella parte della testa che mi schifa, ho
chiesto se per loro Gerri è un assassino, se è colpevole o innocente…
1) “Io non sono né innocentista né colpevolista per partito preso,” mi ha detto
Ciccio, “ma stavolta propendo più per la colpevolezza. E ti spiego perché: circa
due mesi fa, mi pare fosse sera… le sei, le sette… Gerri ha preso il mio taxi per
andare all’aeroporto. Roma-Fiumicino: sono sessanta euro. Quando siamo arrivati,
è impallidito e si è scusato di non avere i soldi per pagarmi. Mi ha giurato che
sarebbe corso al bancomat, e invece non s’è fatto più vedere. Non c’è dubbio che
Gerri è una cattiva persona.”
2) “La mia impressione,” mi ha detto Max, “è che nella vicenda di Gerri
qualcuno si sta prendendo il lusso di non indagare a fondo. Ad esempio, non si
scava abbastanza nella vita della vittima. Perché? Sono sicuro che Anna Grazia
potrebbe raccontarci molte cose, anche da morta. Già ai tempi della scuola si
cacciava in strane complicazioni. Non voglio scomodare la morale, ma prima di
mettersi con Gerri aveva avuto una storia con il padre di Pappi Meli, e poi col
figlio, e prima ancora con Lillo Schembri, che se ne vantava tanto e diceva di
averle fatto provare l’hascish, che a quei tempi era il massimo della trasgressione.
Te lo ricordi Lillo? E’ morto durante una partita di calcio, stroncato da un infarto.
Gli hanno trovato in corpo prodotti tossici che gli stessi medici faticavano a
riconoscere. Scusa, sono andato fuori tema, torno a bomba: non ho capito che ci
faceva Anna Grazia al Plaza, che è un albergo a cinque stelle frequentato da
politici e industriali in viaggio d’affari. S’incontrava con qualcuno, questo è certo,
ma con chi?”
3) “Gerri non avrebbe fatto male a una mosca,” mi ha detto Cinzia. “Io ero
molto amica di Anna Grazia, e sono convinta che la loro storia d’amore sia stata
318
enfatizzata dai giornali. Ti confesso un segreto: quei due non hanno mai fatto
sesso. Gerri soffre di una rara malattia che gli rende impossibile mantenere a lungo
l'erezione, anche durante il rapporto vero e proprio. Scopare con lui è un’opera
buffa, credimi. Ha il cervello di un vizioso, ma questo suo problema l’ha reso
innocuo come un agnellino. Forse ha esagerato a scriverle quelle lettere di gelosia,
ma da lì a pensare che possa averla uccisa c’è un abisso di fantasia sfrenata. Vedrai
che passeranno gli anni e alla fine ci ritroveremo con l’ennesimo delitto irrisolto.
Ah, giustizia di questo mondo, come sei fragile!”
4) Petra era molto occupata, ha voluto chiudere in fretta e mi ha promesso di
richiamarmi appena poteva. Non l’ha fatto, ma mezz’ora dopo mi ha mandato una
mail con alcune frasi in corsivo tratte da un libro che stava leggendo, un libro
intitolato Otello mangia Shakespeare: Quando si entra nel circolo di errori e di
violenza provocati dalla gelosia, uscirne è possibile solo a prezzo della vita. Chi
meglio del moro Otello, generale dell’armata Veneta, ha provato il basso istinto
che ci porta in un attimo a uccidere, e l’attimo dopo a morire di rimorso?
5) La parte della testa che mi schifa è stata zitta, ed è segno che è davvero
incazzata, che non mi parlerà mai più. Meglio così.
6) “Ohi ohi,” mi ha detto Tiziana, “proprio ora che Gerri è libero, sento che
tornerà in prigione. Ho chiesto al mago Ciro che ha chiesto alle sue carte, e sai
qual è stato il responso? Cinque di spade, il più nefasto degli arcani minori: indica
rimorso, nemici, castigo fisico e morale. Tu ci credi, vero? Lo vuoi il numero di
Ciro? Eh, lo vuoi?”
7) Mia madre ha fatto un ragionamento. Mia madre non è brava a fare dei
ragionamenti, e quando ci prova è come se non li facesse, perché sono riflessioni
prive di originalità, ovvie più dell’ovvio, cose tipo: Gerri era un medico di fama,
guadagnava bene, se avesse voluto sposarsi è evidente che poteva permettersi tutte
le donne che voleva (Chiaro: mamma non sa dell’impotenza). Secondo lei è
impossibile, impossibile o improbabile, ha detto una delle due, non mi ricordo,
secondo lei è quasi impossibile, o altamente improbabile, che Gerri abbia buttato
se stesso in pattumiera, uccidendo Anna Grazia in preda a un raptus dettato dalla
gelosia. Mia madre è una donna poco intelligente, ma se deve sintonizzarsi sul
pensiero dell’opinione pubblica, ecco che diventa una donna di talento, di
grandissimo talento. Così ha fatto un secondo discorsetto, ha detto: “Se è vero che
Anna Grazia ha una figlia, se è vero quello che scrivono i giornali, che ha una
319
figlia nascosta chissà dove, allora chi indaga farebbe bene a scoprire le ragioni di
un gesto così sconsiderato, perché non si mette al mondo una creatura per poi
abbandonarla. Questo è un segno che si tratta di una madre snaturata, e quello che
è successo, insomma, quello che è successo se l’è proprio meritato,” ha detto mia
madre. “Dio ci scansi,” ha concluso.
Mio padre mi ha svegliato per dirmi che avevamo i carabi alla porta. Una
vergogna. Mia madre non voleva, non voleva che mio padre mi svegliasse per
dirmi che avevamo i carabi alla porta, era sicura che si fossero confusi, che
avessero sbagliato indirizzo, che stessero cercando qualcun altro, qualcun'altra,
forse forse la polacca che ci abita di fronte, la Karina superzoccola bambina, la
cultrice del bondage che mia madre è più di un anno che vorrebbe denunciare,
denunciarne gli schiamazzi, e invece no: i due carabi alla porta venivano da me,
proprio da me. Quando mia madre l’ha capito, ha capito che non si erano confusi,
che non avevano sbagliato indirizzo, che non cercavano la casa di Karina, quando
ha capito tutto questo, mia madre è morta di vergogna, è quasi morta, il suo cuore
ha quasi cessato di battere, quasi, perché poi ha ripreso a martellare, a martellare, a
martellare, a martellare all’impazzata, e per fortuna che i carabi l’hanno confortata,
per fortuna, che altrimenti, fosse morta, chi li avrebbe asciugati i patologici
sputacchi di mio padre, chi?
I due carabi volevano chiedermi ragione del libro di Chuck Palahniuk che si
trovava nella camera d’albergo dove Anna Grazia era stata accoltellata. Un carabo
mi ha detto che sua moglie era andata dal dentista, e al dentista che riceve solo per
appuntamento aveva trovato una fila, ma una fila, una fila così lunga che per
passare il tempo si era messa a sfogliare le riviste e si era accorta di una foto, di
una foto dell’Espresso che ritraeva la camera d’albergo dove Anna Grazia era stata
accoltellata. Il libro era lì, sulla moquette, tra un paralume rovesciato e una
bottiglia di Perrier sporca di sangue, e sul libro si vedeva la dedica di Chuck, a
Franco nel segno de la peace, a Franco Lamaiola, ma questo, mi ricordo, era
abbastanza fuori fuoco, non si leggeva, e, carabo mio caro…
“Non capisco come tua moglie possa averla decifrata quella firma.”
Ha detto lui: “Noi non guardiamo mica le foto sfocate dell’Espresso, noi non lo
320
compriamo neanche quel giornale comunista, noi siamo andati al RACIS, siamo
andati al Raggruppamento Carabinieri Investigazioni Scientifiche e abbiamo preso
il libro.”
“Oh cazzo,” dico io, “nella vita c’è chi può, sono contento, ma del libro, del mio
libro sulla foto dell’Espresso, ne avevo già parlato nel mio libro (capitoletto 10)
che se il mio libro fosse stato pubblicato, per voi non ci sarebbe stato alcun
bisogno di venire a rompermi i coglioni fino a casa. Ehi, mi state ascoltando?
Chissà se troverò qualcuno che mi pubblica, chissà, non sono da buttare quando
scrivo, è la casta che mi frena, non è che sono paranoico, c’è la casta, una, tante,
troppe caste: quella dei politici, quella dei medici, quella degli avvocati, quella dei
notai, quella degli architetti, quella dei giornalisti e quella degli scrittori. Ehi, mi
state ascoltando?”
N
O
.
Già alla parola coglioni, i due carabi si erano incazzati/sbalorditi e fatti neri,
neri in viso, e appena ho realizzato che potevano arrestarmi (ma potevano
arrestarmi?), ho raccontato di quel giorno in cui (capitoletto 10) Anna Grazia mi
aveva chiesto un libro perché andava a San Giovanni Rotondo con delle zie e
pensava di annoiarsi, e io le avevo dato proprio quello, Invisible Monster le avevo
dato, e difatti nella foto si vede la dedica di Chuck, a Franco nel segno de la peace,
a Franco Lamaiola, mi cullavo del fatto che era abbastanza fuori fuoco, non si
leggeva, e invece sfiga: trovo due carabi scientifici, trovo questi due che vanno al
comecavolosichiama, prendono il libro, leggono la dedica e cominciano a chiedersi
che rapporto può esserci tra un quarantenne aspirante giovane scrittore e una
quarantenne psicologa ammazzata. Così ho scoperto che anche i carabi, come le
stagioni, ah le stagioni, ah i carabi, non sono più quelli di una volta, non sono
quelli delle barzellette.
Epilogo: “La tua storia regge,” ha detto uno mentre usciva, “ma la stanza, la tua
stanza è troppo ordinata, pulita.”
“La tua stanza,” ha detto l’altro, “mi sembra l’esempio perfetto di come
dovrebbe essere la stanza di un maniaco omicida ossessivo.”
“Anche a me,” ho detto io, “anche a me sembra la stanza di un maniaco omicida
ossessivo. Ma io non sono un maniaco omicida ossessivo.”
321
50. Un divertente scambio di opinioni (Quella parte della testa che mi schifa vs.
Quella parte della testa che mi apprezza).
“Cara Parte della testa che lo apprezzi,” ha detto nella testa quella parte della
testa che mi schifa, “non ho la pretesa di essere un’esperta di letteratura, anzi, ti
confesso che l’unico libro che sono riuscita a sopportare è Va dove ti porta il cuore
di Susanna Tamaro, e se tu mi chiedi cosa mi è rimasto di quella storia, rispondo:
nulla, nulla. Tuttavia ho una certa propensione per i conti, e ho scoperto che nel
romanzo eternamente in progress del nostro Franco, la parola ‘cazzo’ ricorre 29
volte, la parola ‘coglioni’ 7 volte, ‘stronzo’ 11, ‘merda’ 4, ‘vaffanculo’ 4. Io dico
che non esiste un solo motivo per cui valga la pena eccedere in volgarità. E’
un’abitudine da comico di bassa lega, una cosa che disturba, offende persino, e a
lungo andare annoia. Capisco che il suo stile narrativo è preso dal parlato, con frasi
che potrebbe pronunciare anche il nostro macellaio, ma sei sicura che un editore
abbia interesse a pubblicargli questa roba? E se lo fa, sarà mica a pagamento?”
“Cara Parte della testa che lo schifi,” ha risposto nella testa quella parte della
testa che mi apprezza, “sei davvero una stronza (12). Smettila di romperci i
coglioni (8) con questi discorsi del cazzo (30). Torna ai tuoi razionalissimi pensieri
di merda (5) e non occuparti di arte e letteratura, cose che, per tua stessa
ammissione, non sei mai riuscita né riuscirai mai a comprendere. Detto questo, ti
saluto: vaffanculo (5).”
51. Un ricordo estivo di cinque anni fa: in un bar di Ischia Porto, Camillo Rea,
autore del best-seller Come diventare uno scrittore di successo, cerca di
dissuadermi dall’idea di diventare uno scrittore di successo. E dice:
“Tu vuoi scrivere romanzi. Perché li vuoi scrivere? Credi che non ce ne siano
abbastanza? Le librerie sono piene di romanzi che nessuno legge. Vuoi metterci
anche il tuo? Padronissimo di farlo, ma lo sai quanto guadagna uno scrittore? Da
noi un esordiente, con una casa editrice che si possa definire tale, si prende al
massimo 5.000 euro. Qua siamo al Terzo Mondo delle Lettere, siamo mica in
America, dove uno scrittore di successo arriva a guadagnare 5 milioni di dollari a
322
romanzo. Ma lo sai quanti sono gli scrittori italiani che possono vantarsi di trarre
guadagno dal loro lavoro? Ah, non lo sai? C’è Bevilacqua, Camilleri, c’è De Carlo,
c’è Baricco, Busi non lo so. Qual è il tuo modello di scrittore? Paolo… chi?
Lasciamo stare. Quello campa con il suo lavoro di traduttore dal russo, lo ha detto
lui stesso, lui traduce, e ogni tanto, tra una pausa e l’altra, gli capitano delle cose
normalissime che mette nei romanzi con un tono che non è drammatico né buffo,
né cinico né sentimentale, così non si capisce mai bene dove va a parare. Caro mio,
tu non hai ancora scritto un romanzo. Ah, già: sei fermamente deciso a scrivere un
romanzo. Ma per chi? Cerchi un pubblico che ti legga, sì, d’accordo, ma perché
dovrebbe farlo? Ne ha bisogno? Certo che se uno fa il panettiere può ben dire che
il suo pubblico ha bisogno di lui; se uno fa l’elettricista; se uno fa il carrozziere; se
uno fa il medico può dire che il suo pubblico ha bisogno di lui, anche se il suo
pubblico non lo vorrebbe, anche se nessuno vorrebbe ammalarsi, però arriva il
momento che tutti abbiamo bisogno di un medico. Tu invece non hai ancora
cominciato a scrivere il tuo primo romanzo e già sogni un pubblico che ha bisogno
di te. Adagio, adagio. Per diventare uno scrittore devi rodare le tue dita per almeno
quattromila chilometri avanti e indietro sulla tastiera. Sei capace di farlo, vuoi
provarci? Il solo fatto che ne parliamo qui, a Ischia Porto, vuol dire che non sei
ancora pronto per una vita di penitenza, di sacrificio e privazioni. Perché questa è
la vita dello scrittore, specie se aspirante, peggio se italiano: giocarsi gli occhi
davanti al pc per ore e lunghe ore, indurirsi il culo e i polpastrelli e poi rileggere
quello che si è riusciti a produrre, e quando lo si è letto, provare un certo schifo,
cestinare e ricominciare daccapo. Tu non hai lo sguardo di chi sa rinunciare ai
piaceri della vita, piuttosto sembri uno che è venuto all’acque calde e spera solo
che non piova. Allora dimmi: perché vuoi scrivere?”
Alla fine di questa lunga malinconica e frustrante tirata, io, Franco Lamaiola, ho
pensato che se spaccavo la bottiglia di minerale sul tavolo e la conficcavo in
pancia allo scrittore Camillo potevo ottenere una grande pubblicità, e una volta in
galera, anche il tempo necessario a finire il mio romanzo, il romanzo di un
esordiente che ormai conoscevano tutti, uno famoso.
323
52. Tutti i luoghi del peccato.
53. Mistero.
324
Telefono a Gerri, ma Gerri non risponde. Volevo congratularmi con lui per il
sangue freddo dimostrato in prigione, mentre i giornali e la televisione lo
descrivevano come un brutale assassino. Telefono a Gerri, ma Gerri non risponde.
Un’altra volta. Un’altra volta ancora. Faccio squillare per tre lunghissimi minuti,
poi per quattro, poi per cinque, ma Gerri non risponde. Strano, penso io, più che
strano per uno che ha l’obbligo di non allontanarsi dalla propria abitazione, più che
strano, penso io, strano per uno che ha la polizia giudiziaria pronta a controllare
ogni suo passo.
Finisce che vado a casa sua, via Palestro 88. Provo a citofonare, lo chiamo dal
cellulare, poi a voce, a squarciagola, ma Gerri non risponde. Strano, penso io, più
che strano per uno che dev’esserci per forza, a meno che… no, non è possibile che
sia fuggito; non è possibile che sia morto e nessuno ne sappia niente. Strano, penso
io, più che strano per uno che dev’esserci per forza, a meno che… sì, è probabile
che non risponde perché sa che il suo telefono è spiato; è probabile che il giudice
gli abbia vietato di comunicare con persone diverse da quelle che lo assistono. Ma
chi l’assiste? Gerri abita da solo. Boh.
Torno a casa camminando a passi svelti, con il cuore che mi scoppia. Strano,
penso io, più che strano, perché è vero che io e Gerri avevamo una certa
confidenza, ma non troppa, voglio dire: da giustificare questo cuore che fa bum,
che fa bum bum. Io e Gerri eravamo solo due vecchi compagni di scuola, e
comunque la prima cosa che faccio è accendere la tv, perché ho un presentimento,
un brutto presentimento, brutto.
325
Ha sempre il colpo in canna, mio padre, questa volta è la cartuccia che sarei un
invidioso, dice che m’incazzo per invidia, dice che sto nero contro Gerri perché
avrei voluto essere uno scrittore e non ci sono riuscito, perché mi sarei
accontentato di essere un urologo-scrittore e non ci sono riuscito, perché avrei pure
accettato di essere un imputato-urologo-scrittore e non ci sono riuscito, perché per
certe cose, dice mio padre, anche per uccidere, ci vogliono le palle.
Mio padre come al solito si sbaglia. Non è il mio fallimento a rendermi nervoso,
non è la mia dimensione sociale, inesistente, e neppure quella personale, parecchio
disastrata, non sono queste cose a rendermi nervoso, è una questione di principio,
di morale, è che bisogna smetterla con queste storie di imputati che sfruttano il
dolore degli altri per farsi i milioncini con un libro, che poi chissà chi glielo scrive,
chi corregge gli errori di sintassi e ortografia. Gerri era una frana, a scuola aveva
scarso, scarso nello scritto e insufficiente nell’orale, Gerri di sicuro non scriverà
una pagina, ci metterà il suo nome, tutto lì: Gerlando Verga e quello che si porta
dietro: morbosità, sospetti, curiosità dell’opinione pubblica.
Comunque grazie, papà, mi vuoi far credere che avresti preferito avere un figlio
assassino, un figlio buono a niente, tanto meno a quel lavoro che tu credi
deficiente, a quel lavoro di scrittore. Eh già, tu pensi che scrivere romanzi non è
una professione, è il sogno di un ragazzo mai cresciuto, ne sei convinto e mi
assicuri che un panettiere di nome Carmine, chissà cosa vuol dire, un panettiere di
nome Carmine non c’è, non c’è mai stato.
Riflessione: in queste sue parole, cazzo, in queste sue parole dettate
dall’ignoranza, mio padre ha un poco di ragione. Penso a molti scrittori del passato
che, per mantenersi, hanno dovuto lavorare. Penso a Kafka, che faceva
l’assicuratore, io non mi ci vedo a fare l’assicuratore; penso a Orwell, che era un
agente della Polizia Birmana, io non mi ci vedo a fare l’agente della Polizia
Birmana; penso a Jack London, che faceva il fiociniere sulle baleniere dell’Artico,
io non mi ci vedo a fare il fiociniere sulle baleniere dell’Artico. Soffro troppo il
freddo, io.
Però sono sicuro che se riuscissi a mantenermi scrivendo, potrei fare un
lavoretto, sì, per hobby, potrei farlo o fingere di farlo, e non perché ne ho voglia:
per chiudere la bocca a quello stronzo di mio padre, a quello stronzo sempre pronto
a impallinarmi con critiche che bruciano come piombo e sale.
326
56. Breve appunto su pulizia e ninfomania.
Quando non si disponeva nella sua solita posizione supina, col cuscino sotto il
culo e le gambine ben aperte, Loredana di Bologna se ne stava stracci in mano,
tutto il giorno con gli stracci a lustrare pavimenti già splendidi e splendenti, a
guerreggiare con eserciti di acari fantasma, a lavare e strofinare e sgrassare
piastrelle, cucine, lavelli, bagni che brillavano e odoravano di pino. Aveva un gran
bel dire che lo sporco è malattia, a me sembrava che l’industria dei detersivi le
avesse fatto il lavaggio del cervello, a Loredana di Bologna.
Pure nel bianco delle mie mutande, nel bianco che più bianco non si poteva, in
quel bianco che lei stessa aveva contribuito a creare, non essendo mai contenta del
bucato di mia madre, in quel bianco abbacinante Loredana distingueva
microscopiche macchiette che tutti, si allarmava e mi allarmava, tutti avrebbero
notato. Tutti chi? A Pian della Repubblica non è che si parlasse delle mie mutande,
nient’affatto. Al centro della chiacchiera di piazza c’era lei: tutto il casino che
aveva combinato, la sua fame di sesso, quel buffo soprannome che le avevano
affibbiato: Loredana Lupacchiu la chiamavano, per lupo e pacchiu, che a Pian della
Repubblica usavano per fica, stu gran pezzu di pacchiu, dicevano.
E la voce che il gran pezzo se la facesse con me, era una voce col detonatore,
voce bomba che sarebbe presto esplosa nelle orecchie di mio padre.
327
mia madre. Sarà perché l’ho vista piangere, non so, ma ho deciso di riprendere a
curarmi. Ora è da tre giorni che butto giù di tutto, anche la merda, ed ecco il
risultato. Coi prezzi di ‘sti farmaci, un’allergia per il denaro è il minimo che
potesse capitarmi.”
Provo a comprenderti, vecchio Max, ci provo. E già che ci sentiamo ti racconto
l’ultimissima sul caso Gerri Verga. Scrive un libro, il furbacchione, ma ci pensi?
328
quando il mio uccello voleva ripiegare le ali e un poco riposava, spossatissimo e
inerte, ma sempre rimanendo nella bocca di quella… “Buttaaanaaa!!!” (Qui le
versioni coincidevano).
Mio padre rimase impressionato, impressionato è dire poco: scioccato,
tramortito. Le cose che gli raccontavano i suoi amici le aveva lette da ragazzo, in
giornaletti tipo Jacula, Zora o Vampirella. Mai pensava che potessero accadere per
davvero, e accadere per davvero a quella minchiacruda di suo figlio, a quel mezzo
alloppiato.
Dopo avere appreso e metabolizzato il fattaccio, mio padre era confuso, non
sapeva se darmi un calcio nei coglioni o farmi i complimenti. Mia madre no: aveva
già deciso che non mi avrebbe rivolto la parola per settimane, mesi, forse un anno.
Alla prima occasione d’incontro, a pranzo, io tenevo gli occhi incollati sul
piatto e, in silenzio, pregavo: papà, non farmi i complimenti, potrei restarci secco.
A certe cose, alla sorpresa di un elogio, bisogna esserci abituati.
Alla seconda occasione d’incontro, a cena, io non avevo il coraggio di alzare gli
occhi dal piatto e, in silenzio, pregavo. Poi mi son fermato, mi son fermato e ho
smesso di pregare. Poi ho ricominciato, ho smesso di fermarmi e ho ricominciato:
papà fammi un complimento, potrei volerti bene.
Io non so se mio padre si accorse del groviglio che mi cresceva in testa, non lo
so. So solo che affogò nel brodo, mandò giù il brodo di gallina e bofonchiò: “Puoi
dire alla tua ragazza che, se vuole, domani sera è invitata a mangiare da noi. Anzi,
che lo voglia o no, dille che deve. Ho d-e-s-i-d-e-r-i-o di conoscerla.”
Sono passati ventun anni da quella sera, ma io ci penso ancora, ci penso e mi
convinco che è vero che ero un mezzo alloppiato, che ci arrivavo e non ci arrivavo
alle parole, al loro senso. Così in quel… d-e-s-i-d-e-r-i-o di mio padre non ci lessi
proprio nulla, proprio nulla di male.
Avrebbe dovuto spaventarmi, e invece mi rallegrò.
E’ proprio un bel periodo, dice Gerri (oh no che non lo dice, lo direbbe, sono
certo, lo direbbe se solo si degnasse di rispondermi al telefono). Da quando sono
fuori, dice Gerri (oh no che non lo dice, lo direbbe), da quando sono fuori la mia
vita precedente l’ho capito che cos’era, una rottura di coglioni: alzarsi presto la
329
mattina, macchina, strada provinciale Pian della Repubblica-Agrigento,
circonvallazione all’ora di punta ore 8, ospedale, visitare, operare, firmar carte,
ancora macchina, circonvallazione all’ora di punta ore 14, strada provinciale
Agrigento-Pian della Repubblica, casa, mangiare un precotto, divano, tv,
addormentarsi, risvegliarsi, macchina, strada provinciale Pian della Repubblica-
Agrigento, circonvallazione ore 17, studio, visitare, visitare, visitare, macchina,
circonvallazione, strada provinciale Agrigento-Pian della Repubblica,
circonvallazione ore 21, casa, divano, tv, addormentarsi, risvegliarsi, andare a
letto, neanche forza di lavarsi. Ora invece, dice Gerri (oh no che non lo dice, lo
direbbe), guarda ora la mia vita: mi alzo tardi la mattina, resto in casa tutto il
giorno, parlo con il mio press agent per decidere quanti soldi chiedere a chi vuole
intervistarmi, ho un consulente d’immagine e un team di visagisti che mi preparano
al collegamento in diretta con i talk show. Arriva sera che non sono per niente
stanco e ho tempo e voglia di mettermi al pc e scrivere il memoriale che mi farà
straricco. Questa vita è una bellezza, dice Gerri (oh no che non lo dice, lo direbbe).
330
Sentire il crash e poi lo splash della sua pancia che si squaglia sotto il peso delle
ruote, sentire lo whoosh e poi il tonf delle interiora che atterrano qua e là.
Questo è un capitoletto che mi andava di rimestare nel letame, senza alcuna
compassione, mi andava di rimestare nel letame dei miei neuroni, e non solo per
impressionare, non solo per spaventare i miei lettori, quanto per introdurli a un
certo mio comportamento che non so, non sono certo uno psichiatra, ma ‘sto mio
comportamento comincia a preoccuparmi.
Sono alcune notti che prendo la Brava di mio padre con la voglia di tornare alle
emozioni di quella irripetibile età, ma, quasi fosse un meccanismo inconscio, mi
ritrovo sotto casa di Gerri, Gerri solitario come un gatto che lo chiamo e non
risponde, Gerri un cane di scrittore che lo pagano milioni, Gerri stronzo che,
porcaccia la miseria, io ci ho pianto quando l’hanno scarcerato, e invece lui, ora
che scrive il suo libraccio, o che qualcuno per denaro glielo scrive, Gerri ha pronto
un editore e se ne frega degli amici.
Sono alcune notti che prendo la Brava di mio padre, e invece di partire per
l’antica mattanza, finisco sotto casa di Gerri. E’ un meccanismo inconscio, è come
se qualcuno guidasse al posto mio, mi obbligasse a fermarmi proprio là, a rimanere
a luci spente ma col motore acceso, non è che sto perdendo la ragione, preferisco
pensare d’essere impegnato in un esercizio buono per il mio romanzo, per i miei
riferimenti a persone e fatti conosciuti che dovrebbero essere puramente casuali.
Non è spersonalizzazione, non è follia: è solo un esercizio di… come si dice…
immedesimazione, immedesimazione stani… stanislav… stanislavcschi…
stanislavcchia….na. Cazzo, insomma, quella roba lì.
331
pure i sessanta euro. Sessanta euro per un taxi da Fiumicino Aeroporto a Roma
Centro. Potevo lamentarmi. Potevo lamentarmi e non l’ho fatto, e invece ho detto:
“Ma vedi che traffico, ma vedi, ma come fate a vivere in questo caos, come fate?”
Lui non mi ha risposto, e io gli ho detto ancora: “Ma senti che rumore, ma senti,
ma come fate a vivere in questo parapiglia, come fate?”
Lui non mi ha risposto, e io gli ho detto ancora, ancora: “Ma non sei curioso,
non mi chiedi che ci son venuto a fare nella capitale, che ci son venuto a fare? Te
lo dico: ci son venuto a scrivere il mio libro, caro Ciccio, un libro sulla povera
Anna Grazia, un libro che mi è stato chiesto da un grandissimo editore, il più
grande qua in Italia, pensa tu: con tutti gli scrittori, famosi e non famosi, con tutti i
giornalisti, con tutte le persone che si credono scrittori e cercano di farsi
pubblicare, con tutto ‘sto bordello di scriventi, il più grande editore italiano si è
rivolto proprio a me, mi ha telefonato e mi ha promesso un sacco di denaro,
fortuna che ero in casa, fortuna che ho risposto, non ci credi? Non mi chiedi del
mio libro? Il libro segue passo passo la vicenda che tu sai, dalla scoperta del
cadavere all’arresto di Gerri, alla sua scarcerazione, a quello che verrà. E’ un libro
in divenire, un giallo, certo, ma anche la storia di un’aspirante esordiente narratore
quarantenne che, scrivendo un romanzo che ha per spunto l’omicidio di una sua
compagna di liceo, finisce, più o meno volontariamente, per parlare di se stesso,
della giovinezza, di quell’età che ci ha ingannato tutti con la sua bellezza. Ciccio,
ti ricordi? Ti capita mai di rimpiangere le partite di pallone? Tu giocavi
centravanti, ti ricordi?”
Ciccio è assorto nella guida, va piuttosto forte.
Dico io: “Non c’è nessuna fretta.”
Dice lui: “C’è fretta. Oggi è il mio turno di riposo. Se mi beccano, so’ cazzi. Mi
gioco la licenza.”
Dico io: “Ma almeno vuoi sapere che ci vado a fare all’hotel Plaza, vuoi saperlo
oppure no?”
Dice lui: “Indifferente.”
Dico io: “Stanotte ho intenzione di dormire nella camera dove Anna Grazia è
stata uccisa.”
Dice lui: “E i sigilli del sequestro giudiziario? Ma lo sai che rischi l'arresto se
solo metti piede in quella stanza?”
Dico io: “No, non lo sapevo.”
332
Ciccio ride. “Siamo arrivati,” dice sghignazzando. “Sessanta euro,” dice Ciccio.
E ride, ride.
Io scendo e quasi sbando, faccio in tempo a pagarlo e quasi svengo. Ma non per
la figura da coglione: no, non è per quello che mi crolla il mondo addosso, che mi
tremano le gambe; è che fare la figura del coglione con se stessi è sopportabile, ma
fare la figura del coglione che si crede uno scrittore investigativo e viene
smascherato da un tassista, è un altro conto: è un calcio all’entusiasmo, al morale,
alla speranza.
Entro al Plaza. Hanno camere di lusso da 400 euro, con tv satellitare a schermo
piatto, connessione internet ad alta velocità, angolo bar, climatizzatore autonomo,
vasca idromassaggio. Penso che Anna Grazia si trattava bene, troppo bene per una
che affermava di mantenersi col suo impiego di psicologa presso una struttura
pubblica.
Ma è proprio vero che la parola ‘amore’ nel titolo fa vendere più copie? Ho fatto
una ricerca sul web e ho scoperto che nelle librerie italiane ci sono 3244 libri con
la parola ‘amore’ nel titolo. 3244 libri con la parola ‘amore’ nel titolo sono tanti, se
pensiamo ai soli 129 che contengono la parola ‘odio’. L’editore di Gerri (che sia
chiaro: io lo schifo l’editore di Gerri) ha detto che il mercato librario (che sia
chiaro: io lo schifo il mercato librario), accoglie con favore la parolina magica, et
voilà, ecco il titolo dell’opera prima dell’imputato-urologo-scrittore: Il coraggio
dell’amore non è pazzia, ma che c’entra? C’entra niente. La verità è che un titolo è
solo un espediente per vendere di più. Io il libro di Gerri l’avrei chiamato Una
botta di culo. Ho fatto una ricerca sul web e ho scoperto che nelle librerie italiane
non c’è nessun libro con quel titolo. Fa ancora in tempo, Gerri.
Quanto al mio, di libro, avevo pensato a un titolo come Piccoli delitti del cazzo,
ma ho scoperto che è già un libro di Jason Star, allora ho pensato a un titolo come
Bisogna avere i coglioni per prenderlo nel culo, ma ho scoperto che è già un libro
di Aldo Busi, allora ho pensato a un titolo come Vita, morte e miracoli di un pezzo
di merda, ma ho scoperto che è già un libro di Paolo Villaggio. Io a farmi fregare il
titolo da Paolo Villaggio ci sono rimasto male, malissimo. Di merda son rimasto.
333
64. E’ la stampa, bello.
Singolare svolgimento della conferenza stampa che doveva fare il punto sulle
indagini per l’omicidio di Anna Grazia Diamanti. Il procuratore capo di Roma
Gigio Romeo ha subito ammonito i giornalisti presenti a non azzardare domande
sulle voci apparse sui giornali e riguardanti un duro alterco intercorso tra il pm
titolare dell'inchiesta Luca Cammarola e il gip Giuseppina Starace, che decidendo
il rilascio di Gerlando Verga, ha di fatto demolito l'impianto accusatorio della
Procura. Di fronte alla reazione indignata di un cronista del quotidiano ‘Fatti Veri’,
il procuratore Romeo ha precipitosamente lasciato la sala. I motivi di tale
deprecabile atteggiamento rimangono al momento imprecisati. La Procura si è
limitata a emettere una breve nota del pm Cammarola che dichiara: “Le indagini
sono complicate dal fatto che non c'è una pista sola. Io e i miei colleghi stiamo
lavorando congiuntamente, in perfetta armonia e a 360 gradi.”
334
cosa pensa, il suo movente. Ma che succede se il detective privato, dopo aver illuso
il mondo intero, e in ultimo se stesso, comincia a brancolare? Entra in scena un
nuovo personaggio: il medium; di solito è la madre della vittima che si fa prendere
dallo sconforto e si rivolge a un medium, a un paragnosta, a un paraculo che si
vanta di avere un filo diretto con l'aldilà e di aver viaggiato oltre il tempo e lo
spazio per collaborare con la Scotland Yard del 1888 e scoprire la vera identità di
Jack lo squartatore. Ma che succede se il medium comincia a sparare certezze di
cazzo che vengono puntualmente smentite dai fatti? A questo punto i carabi
nerissimi si rassegnano alla conclusione che non vi sono prove sufficienti per
continuare l’indagine.
THE END.
Intanto Gerri Verga, o chi per lui, avrà finito di scrivere il suo libro, mentre io,
tapino e derelitto, rimarrò senza un finale, un finale in cui possa finalmente
trionfare la giustizia, rimarrò senza finale, un qualsiasi finale, ma che sia un finale
secco.
Non l’avrò.
VENERDÌ
Maggio
27
_______________________________________________
T E L E F O N A R E !!!
DEVO PARLARGLI DEL MIO ODIO PER GERRI.
QUEL CAZZONE ROTTO IN CULO MI STA ROVINANDO
335
LA VITA. IERI HO SOGNATO DI MACIULLARGLI LA
A diciannove anni, undici mesi e sedici giorni, dopo 253 scopate e 321
slurpatine, sempre con la stessa donna (sono numeri che al comune di Lecco mi
avrebbero fatto sindaco), ho finalmente capito che tutto quel chiavare e quel
leccare, quel gemere, bagnarsi, venire, eiaculare, non valeva quasi nulla: uno
schizzo d’acqua fresca in piena arsura, uno schizzo dagli effetti troppo, troppo
passeggeri. Forse è per questo che Loredana pretendeva prestazioni continue, al
ritmo di due al giorno, e se mi rifiutavo era l’inferno, in un meno di un minuto mi
sentivo dire che:
a) ero frocio (falso);
b) avevo il pene piccolo (falso: il mio blackedecker in erezione misurava 17,2
cm e aveva un diametro di circa 4,6. Secondo le tabelle del Kinsey Institute, erano
valori superiori alla norma);
c) baciavo troppo velocemente e con lo spirito d’un lavapiatti (non poteva
essersene accorta, altrimenti perché mi desiderava tanto? Difficile pensare che
avesse esaurito le scorte: a Pian della Repubblica c’erano almeno 1500 maschi
abili, e non conto quelle orde assatanate di minorenni che la giustizia le aveva tolto
dalla fica);
d) non avevo nessun amico da presentarle per ripassare un po’ di geometria, ma
di quella che diceva lei (falso e un poco vero: a chiedere ai miei amici sarebbe
venuta fuori una lista lunga quanto il mio pene, ma non ero mentalmente pronto ad
affrontare un triangolo amoroso senza macerarmi in gelosie di tipo paranoide);
e) Grunt!...
f) Argh!...
g) Grr!...
E via all’infinito.
Loredana menava i suoi fendenti, dall’alto delle sue ragioni al basso della mia
umiliazione, e guai a contraddirla, guai a reggerne lo sguardo, quello sguardo
336
mezzo e mezzo tra minaccia e disprezzo. A ogni insulto, i suoi toni diventavano più
accesi, caldissimi, roventi, fino a mutarsi in urla isteriche simili a zaffate di vento,
di scirocco odoroso di letame.
Inutile dire che per farla stare zitta dovevo inginocchiarmi e chiuderle aprirle le
labbra.
Il giorno che mi sono messo in testa di essere uno scrittore di gialli, e il giorno
che mi sono messo in testa di scrivere questo libro, e il giorno che ho cominciato a
scriverlo per davvero questo libro, in tutti questi giorni ho avuto due paure, sempre
quelle: che non ce l’avrei fatta a finirlo, la prima; che seppure ce l’avessi fatta le
case editrici lo avrebbero respinto, la seconda.
Ho sempre avuto due paure, due paure e un sospettuccio: che scrivere è un
mestiere faticoso, faticoso, troppo. Non c’è nulla di salutare nello starsene seduti
davanti al pc per ore e lunghe ore. E’ impossibile passare notti bianche senza
ammalarsi di pensieri anomali e morbosi. E’ impossibile scrivere di notte, dormire
poco o niente e vivere di giorno, vivere fingendo: parlare con la gente, sopportare
la monotonia delle vite comuni senza avere il desiderio di spezzarle.
Ho sempre avuto due paure, due paure e un secondo sospettuccio: che bisogna
essere veramente soli, per fare gli scrittori. Bisogna essere veramente negati alla
vita, non avere davanti un destino, solo la certezza che nascere non serve, non ha
senso.
Entra un tipo con una busta di libri, una busta della Feltrinelli. Un tipo che entra
all’Hotel Plaza con la sua busta di libri è una buona occasione per capire che
clienti ha questo posto.
Entra un tipo con la sua busta di libri, un tipo che puzza di politica, un tipo che
puzza di denaro, disonestà e denaro. Che faccio? Non resisto, guardo obliquo e
sbircio dentro, sbircio dentro nella busta, lo so che non dovrei, ma sbircio dentro:
c’è un saggio su etica, politica e psicoanalisi, c’è l’ultimo di Vespa, c’è un dvd
che… aspetta, mi avvicino… un dvd, come si chiama? Sadiche scopate.
337
Oh merda! Il tizio con la busta si è accorto che mi sto interessando alla sua
spesa, si è accorto e non mi sembra sia contento, mi chiede perché spio nella busta,
e non è solo, si sono avvicinati quattro tizi, quattro tizi senza busta, ma con il
doppiopetto gonfio e i capelli col codino, una gran puzza di bodyguard, e tutti
insieme mi chiedono perché spio nella busta.
Dico io: “C’è una splendida hall, qui al Plaza, una splendida hall in marmo,
meraviglia delle meraviglie, è tutta colpa della hall, del marmo che riflette sul
pavimento lucido, di un riverbero che mi ha colpito gli occhi costringendomi a
deviare lo sguardo, e lo sguardo mi è finito sulla busta, poi la cosa, la cosa è
accentuata dal fatto che io sono… vi sembrerà strano, io sono leggermente
strabico, perciò dovete credermi: non spiavo nella busta, vi è sembrato, vi è
sembrato che spiavo nella busta, non è vero.”
Intanto che parlo, mento, biascico, provo a difendermi e balbetto, intanto viene
avanti un altro tizio, un tizio in guanti rossi e in livrea, non faccio in tempo a
sbalordirmi che i tizi sono tre, tre tizi in guanti rossi e livrea, tre specie di portieri,
e tutti insieme, i cinque in doppiopetto e i tre in livrea, tutti insieme mi chiedono
scontrosi perché spiavo nella busta.
“Ehm… sono... sono un regista, mi chiamo Joe Lussuria. Sono un regista e mi è
caduto l’occhio sulla busta, sul dvd del mio ultimo film, mi ha fatto un gran
piacere, ok? Sono un regista.”
“Palle,” sbotta il primo tizio, quello con la busta, il doppiopetto e i capelli
impomatati, quello che puzza di politica, quello che puzza di denaro, di disonestà e
denaro.
“Palle,” ringhiano i quattro tizi senza busta, ma con il doppiopetto e i capelli col
codino, quelli che puzzano di bodyguard.
“Palle,” fanno eco i tre tizi in guanti rossi e la livrea con lo stemma dell’hotel,
quelli che l’hotel li costringe a farsi un bagno nella canfora, prima di mettersi al
lavoro.
“Palle,” penso io, mentre colgo gli otto musi, i brutti musi di sorpresa e scappo
via, un vico dietro l’altro e scappo via. In questo schifo di città non ci dovevo
venire. Quasi quasi chiamo Ciccio e mi faccio riportare in aeroporto. Quasi quasi
chiamo Ciccio…
No. Meglio di no. E’ vero che la mia attività di scrittore investigativo non è
cominciata sotto i migliori auspici, ma qualcosa di buono ho combinato. Intanto so
338
che il Plaza è frequentato da almeno una persona con un sacco di soldi che guarda
film porno e sadici. La mia prossima mossa è conoscere il suo nome. La seconda:
cercare di capire che tipo di relazione potrebbe esserci tra lui e Anna Grazia. La
terza: trovarsi un altro albergo. Sono stato un giorno al Plaza, nella peggiore
camera del Plaza, ho cenato, ho fatto un bagno rilassante, ho preso un succo
d’ananas dal frigo, ho visto un documentario su naturismo e scambismo, mi sono
fatto due seghe, ho dormito, ho spazzolato 260 euro dalla carta di credito di mia
madre. Terza mossa: trovarsi un alberghetto.
339
Riga sedicesima, pagina 1: la sua tragica morte è stata, per me, un colpo al
cuore…
Riga nona, pagina 2: una tragica vicenda sulla quale non finiremo mai
d’interrogarci…
Riga tredicesima, pagina 3: un’inutile e spaventosa tragedia…
Io sono andato in Feltrinelli, e quando sono uscito è stato perché mi hanno
costretto, che in Feltrinelli avevano abbassato le serrande. Sono uscito e al primo
bar ho deciso di ubriacarmi.
71. Due minuti di un lunedì bestiale all’albergo Arcobaleno (500 mt. dal Plaza,
prezzo singola: 60 euro).
340
72. Chi ne dice bene, chi ne dice male.
Cinzia Picca chiama tutti, dice a tutti che il libro di Gerri le è piaciuto
moltissimo. Che ha cominciato a leggerlo e non è riuscita a smettere fino a che non
l’ha finito. E’ un peccato, dice Cinzia, che siano solamente 111 pagine.
111 di troppo, penso io.
Cinzia Picca mi ha telefonato, mi ha telefonato a casa per dirmi che il libro di
Gerri le era piaciuto moltissimo, mi ha telefonato per sapere se anch’io lo avevo
letto, e per fortuna che non c’ero, per fortuna che ha risposto mia madre, ha detto
ch’ero a Roma. Che culo che c’ha avuto Cinzia Picca, perché se fosse riuscita a
parlarmi, se fosse riuscita a dirmi che il libro di Gerri le era piaciuto moltissimo, io
l’avrei invitata a cena, Cinzia Picca, l’avrei invitata a cena per spingerle la faccia
dentro un brodo, dentro un brodo caldo caldo.
Mia madre mi ha raccontato che lei e Cinzia si sono dette belle frasi, e allora,
penso io, allora è stata una fortuna, è stata una fortuna ch’ero a Roma. Che culo
che c’ha avuto mia madre: ha scoperto che lei e Cinzia hanno un sacco di cose in
comune, ha scoperto che anche Cinzia ha una passione smisurata per il Maresciallo
Rocca, ha scoperto che anche Cinzia non sopporta Berlusconi, ha scoperto che
anche Cinzia ha un marito che ama il gioco, ha scoperto che anche Cinzia ha un
figlio in casa.
Ha detto mamma, ha detto: “Cinzia, il mio Francesco ha quarant’anni.”
Ha detto Cinzia: “Il mio Gabriele ha dodici anni.”
Ha detto mamma: “Il mio più grande sogno è diventare nonna.”
Quando mia madre mi ha confessato d’averle detto quella frase, io ho pensato
che stava avendo culo, che culo stava avendo mia madre, perché se avesse detto
quella frase in faccia a me, se non fossi stato a Roma, se avesse detto in faccia a
me che il suo più grande sogno era quello di diventare nonna, io non avrei avuto
neanche bisogno d’invitarla a cena, mia madre, io avrei dovuto solo aspettare che
lei apparecchiasse per spingerle la faccia dentro il brodo, dentro il brodo caldo
caldo, il suo brodino.
341
Luca (in attesa di autorizzazione del Gip).
Conversanti: Meli Pasquale, Bella Petra.
“Pronto?”
“Pappi…”
“Petra, sei tu?”
“Sì.”
“Ti avevo detto di non chiamarmi a casa.”
“Io devo assolutamente darti una notizia.”
“Cristo, non a questo numero! Poteva esserci mia moglie.”
“Ti prego, è importante. Non puoi sapere che cosa provo in questo momento…”
“Petra, che è successo?”
“Accendi la tv.”
“Non posso. Sto pisciando.”
“Hanno arrestato Gerri.”
“Un’altra volta?”
“Non ci crederai, ma ora è indagato per detenzione di materiale
pedopornografico.”
“Per carità, non raccontarmi balle.”
“Ti dico che è così. Secondo le nuove accuse quel bastardo conservava in casa
due dvd che lo ritraevano nell’atto di… di… insomma, con una bambina.”
“Oh cazzo! Ho appena finito di leggere il suo libro.”
“Anch’io. Sembrava sincero. E invece…”
“Hai chiamato gli altri?”
“No, ma sono certa che ormai lo sanno tutti.”
“Per Franco sarà un colpo.”
“Franco Lamaiola?”
“Lui. Pensa che quando hanno scarcerato Gerri, quel pirlone si è messo a
piangere di felicità.”
“Davvero? Erano così amici?”
“Boh, può darsi. Comunque ora devo lasciarti. Torno a letto. Domani sarò in
paese. Ci vediamo.”
“Pomeriggio?”
“Appena posso.”
342
“Pappi…”
“Devo andare. Che c’è ancora?”
“Ti amo.”
“Ok, a domani.”
343
prestazioni canoniche: una banale posizione del missionario, una scontata
chiavatina dell’amazzone, una semplice pecorina, mentre le pennellate erano messe
in calendario per il sabato sera, e i loro effetti perduravano un’intera settimana.
Miracolo, miracolo. A corollario di tanta normalità, l’idea di un figlio si era infilata
nel novero dei nostri discorsi, e quelli sono stati i momenti in cui mia madre si è
avvicinata di più a diventare nonna, ma poi le cose, poi è successo che le cose sono
drasticamente cambiate, le cose che ho scoperto hanno cambiato tutto. La solita
storia, il solito sbaglio di Loredana che ragionava come un uomo che ragiona con il
cazzo. In un giorno di novembre, durante una di quelle cene a quattro che mia
madre aveva imparato ad accettare e che erano diventate una piacevole abitudine
della nostra famiglia, Loredana ci ha fatto credere di avere un chicco d’uva
bloccato nella gola, ha raschiato qualche frase, e… cos’ha detto? Ha chiesto aiuto,
con un filo di voce ha chiesto d’essere portata in ospedale. Mio padre si è fatto
avanti, l’ha presa in spalla e si è fiondato in garage, salendo in macchina senza
neppure avermi chiesto se volevo accompagnarli. E allora, improvvisamente, la
trama delle nostre vite mi è parsa avere un filo conduttore, un filo che legava
Loredana e mio padre, un filo che aveva cominciato a serrarmi il collo.
Mi ricordo quella scena pietosa di me e mia madre che arrivavamo a piedi
all’ospedale, e trafelati, boccheggianti, sinceramente preoccupati, scoprivamo che
Loredana in ospedale non l’avevano mai vista.
344
all’aeroporto. Quasi quasi chiamo Ciccio…
No. Meglio di no. Quasi quasi vado sotto casa dello scrittore Camillo. Abita a
Roma, lo scrittore Camillo. Abita in via Piave 37 scala B interno 9, lo scrittore
Camillo. Quasi quasi lo invito al ristorante siciliano che sta sulla Flaminia e dopo
averlo stordito con una caponata di melanzane gli scrocco una lezione sul da farsi,
su come diventare uno famoso. Ha scritto un libro, lo scrittore Camillo, dopo avere
scritto Come diventare uno scrittore di successo, ha scritto un altro libro, un libro
che si chiama Dritte per l’aspirante scrittore di successo, un libro che ha pure un
sottotitolo: Consigli d’amore sull’arte dello scrivere. Un libro che è secondo nelle
vendite, secondo solo a Gerri. Quasi quasi vado sotto casa…
No. Meglio di no. Quasi quasi la smetto di strizzare i miei neuroni e mi concedo
un bagno rilassante nella grande e magnifica Jacuzzi che ho in camera. Quasi quasi
la smetto di strizzare i miei neuroni…
Sì. Mi ricordo di mio nonno che diceva: “Se non sai che minchia fare, non fare
una minchia.”
Molto zen, il nonno. Peccato che sia morto.
Siamo tornati dall’ospedale, io e mia madre, siamo tornati con una rabbia che ci
scoppiava dentro, con una rabbia che a lei spuntavano le lacrime, che almeno
quelle lacrime servivano a sfogarsi, a me sembrava invece di stracciarmi, di avere i
topi nella pancia, le budella morsicate, le budella sbrindellate, i crampi così forti
che pensavo alla mia vita e alla mia fine: accasciarmi su una strada e vomitare
sangue, accomiatarmi tra le braccia di mia madre rimpiangendo di non essere un
finocchio, anche solo in quel momento, un finocchio occasionale, giusto il tempo
d’ignorare quale specie di schifezza era diventata la mia donna, Loredana di
Bologna, la mia Lory che avevo tanto amato.
Sono morto? No. Mi sono trascinato fino a casa, sono entrato, mezzo vivo, una
vergogna. Pisciandomi nelle mutande, ho buttato i vestiti per terra e sono andato a
letto senza dire una parola, tanto lo sapevo che i due fuggitivi non si sarebbero fatti
vivi per qualche giorno, qualche mese, forse un anno, forse mai.
Non ho dormito, è naturale. Ho preso una compressa di Prazene, è naturale, due
compresse, è naturale, ho sperato di mettere a tacere il batticuore, inutilmente. Ho
345
pensato che mia madre avrebbe dato la colpa a me, mi avrebbe accusato di essere
stato la rovina della nostra famiglia. Avrebbe detto: “Si vedeva ch’era troia. Si
vedeva: una bagascia.”
E come darle torto? Io dico solo che potevano evitare la commedia, Loredana
soprattutto, da lei mi sarei aspettato più sincerità, ma d’altra parte, come si fa a
confessare al proprio ragazzo di diciannove anni che hai voglia di farti
schiumazzare da suo padre?
Anche oggi il tizio con la busta della Feltrinelli è rientrato al Plaza con la busta
della Feltrinelli piena di libri e dvd. Quella busta non c’entra un cazzo con la
Feltrinelli, quella busta è un suo travestimento, come il saggio su etica, politica e
psicoanalisi, come il saggio che è di nuovo nella busta, come l’ultimo di Vespa,
che è di nuovo nella busta. Ma che compra, il tizio con la busta, ma che compra,
tutti i giorni gli stessi libri?
Io, perché ho fiuto, sono andato alla Feltrinelli e ho chiesto se avevano quel
dvd, quel dvd che il tizio con la busta nascondeva nella busta, quel dvd chiamato
Sadiche scopate, e una commessa della Feltrinelli, una molto sadicamente
scopabile commessa della Feltrinelli mi ha risposto che ero proprio un maleducato
a chiedere quel film, che loro certi film non li vendono, e se volevo acquistare roba
sconcia c’erano le bancarelle di via Stanazza, le bancarelle di fumetti, libri usati e
dvd per maniaci sessuali.
Io, perché ho stile, la volevo ringraziare, la commessa della Feltrinelli, perché
grazie a lei ho scoperto che il tizio con la busta usa la busta della Feltrinelli come
un suo travestimento. La verità è che cerca di nascondere il suo interesse per il
porno.
Mi servirà a qualcosa questa nuova informazione? Non lo so.
Io, perché ho stile, la volevo ringraziare, la commessa della Feltrinelli, ma poi
mi sono vergognato, e penso che per qualche tempo cambierò libreria, ed è un
peccato, perché alla Feltrinelli mi trovavo più che bene, mi ero pure fatto qualche
sega pensando alle commesse.
Io, perché ho gratitudine, le volevo chiedere il nome, alla commessa della
Feltrinelli, la volevo mettere nel libro, nel mio libro col suo nome, ma poi mi sono
346
vergognato, e penso che alla fine parlerò di una commessa senza nome, però mi
piacerebbe che una volta pubblicato, il mio libro avesse un gran successo, un
grandissimo successo almeno tra commesse, tra le molto sadicamente scopabili
commesse della Feltrinelli.
Punto primo, mi son chiesto: è il tizio con la busta che mi farà capire qualche
cosa? La domanda è di quelle che può farsi un mio lettore. Ma ce l’ho? Ce l’ho un
lettore? Che ne so. A questo punto della storia, sarebbe davvero triste se scoprissi
di essere rimasto solo, solo a chiedermi: è il tizio con la busta che mi farà capire
qualche cosa? E’ il tizio con la busta? No. Il tizio con la busta è solo un abituale
consumatore di porno offline, e non è detto che un abituale consumatore di porno
offline debba andarsene in giro con la spesa sotto il braccio, non è detto. Un
abituale consumatore di porno offline è più normale che s’imboschi, è più normale
che s’incazzi se qualcuno punta gli occhi sulla busta.
Che poi se ce l’avessi, un mio lettore, il mio lettore me l’immagino incazzato, a
questo punto del romanzo, me l’immagino che sclera, me l’immagino che dice, che
mi dice, che mi urla: “MI PRENDI PER IL CULO A RACCONTARE QUESTA
STORIA DEL TIZIO CON LA BUSTA? MI PRENDI PER IL CULO A
SCASSARMELA PER PAGINE E PAGINE, E POI CONCLUDERE CHE IL
TIZIO CON LA BUSTA NON TI FARÀ CAPIRE NIENTE? MI PRENDI PER IL
CULO?”
La verità è che io, come scrittore, ho un sacco di lacune: sono lento, caotico,
fumoso, invento personaggi e poi non so che farne, e a parte qualche volta che
scrivo senza indugi, il resto è sacrificio: a buttare giù un capitoletto ci metto anche
due giorni, anche tre giorni. La verità è che io, come scrittore, non sono certo
Hemingway, non sono certo Chuck, non sono Palahniuk. Non sono Paolo Nori. La
verità è che io, come scrittore, io non lo so mica come scrivere un racconto, come
scrivere un romanzo, come scrivere un romanzo poliziesco. E i trucchi letterari, io
mica li conosco.
347
Punto due, mi son chiesto: ma che ci son venuto a fare al Plaza se neppure tento
di entrare nella stanza del delitto? Che ci son venuto a fare? Torno a casa? No.
Faccio qualcosa? Sì. Ma cosa? Entro nella stanza del delitto. Ci vuole un gran
coraggio, ma lo faccio. Rompo i sigilli.
Stanotte entro nella stanza del delitto.
O domani?
Ecco, domani. Non è che penso di non avere abbastanza coraggio, ma temo che
potrebbe anche venirmi quel pensiero, potrebbe anche mancarmi quel coraggio, e
allora meglio darsi un giorno ancora, un giorno ancora per farlo maturare quel
coraggio, per non farselo mancare.
Domani entro nella stanza del delitto.
Domani?
Giorni dopo, mentre ancora pensavo se entrare o non entrare nella stanza del
delitto, mentre ancora pensavo che l’unica cosa da fare era smettere di pensare se
entrare o non entrare nella stanza del delitto, mentre ancora pensavo che l’unica
cosa da fare era entrarci per davvero, mentre ancora pensavo tutti questi
profondissimi pensieri, mi è capitato di leggere sul sito del Messaggero che ad
alcuni clienti del Plaza erano offerte lucciole di alto bordo, così hanno scritto,
lucciole di alto bordo, che poi è chiaro che si trattava di puttane pirotecniche,
giovani puttane pronte a soddisfare le fantasie erotiche di facoltosi uomini d’affari,
così hanno scritto, facoltosi uomini d’affari, che poi è chiaro che si trattava di
calciatori, trafficanti d’armi, artisti televisivi, spacciatori, mafiosi e furbetti del
quartierino. A me il pensiero, il pensiero mi è subito andato al tizio con la busta, al
tizio con la busta della Feltrinelli, ma lasciamo stare. La cosa più importante è che
Tano La Frangetta, il giornalista, l’autore dello scoop, ha fatto il nome di Anna
Grazia, ha scritto: Anna Grazia Diamanti, 40 anni, incensurata ma nota come
prostituta, era stata massacrata con quindici coltellate in una camera del Plaza.
Tano La Frangetta ha scritto: nota come prostituta. Nota a chi? Per me Anna Grazia
era una psicologa, una psicologa impiegata temporaneamente presso il servizio di
Continuità Assistenziale di Porta Romana.
Quello che mi dispiace è non averci capito un cazzo: cento pagine di romanzo e
348
non ci avevo capito un cazzo, spremiture di cervello e non ci avevo capito un
cazzo. Quello che mi stupisce è che anche i carabi non ci avevano capito un cazzo:
mesi di indagini e non ci avevano capito un cazzo. Quello che mi fa piacere è che
anche Gerri non ci aveva capito un cazzo: dal suo libro è chiaro che non ci aveva
capito un cazzo. Anna Grazia non era solamente una psicologa, una psicologa
impiegata temporaneamente presso il servizio di Continuità Assistenziale di Porta
Romana. Anna Grazia era una squillo, una squillo impegnata assiduamente presso
il servizio di Fellatio Assistenziale all’Hotel Plaza.
Penso io: aveva cominciato a fare quelle cose per denaro? Per curiosità? Per
noia? Per piacere? Aveva cominciato a fare quelle cose per comprarsi un gioiello?
Un abito firmato? Un’auto? Una casa? Aveva cominciato a fare quelle cose per
denaro? Ma sì, certo: per denaro. La tariffa media di una lucciola di alto bordo,
scrive il Messaggero, scrive Tano La Frangetta, è cinquecento euro a notte.
Cinquecento euro a notte, scrive il Messaggero, scrive Tano La Frangetta, fanno
quindicimila euro al mese. Quindicimila o quindicimilacinquecento euro al mese,
dico io, fanno centottanta… centottantaduemilacinquecento euro l’anno.
Centottantatremila, se è bisesto.
Io non credo che dovrei essere qui a scrivere romanzi.
349
una bionda mozzafiato con sguardo azzurro cielo, labbra carnose, nasino alla
francese e seno e culo in bella mostra.
“Sono Tana,” mi ha detto.
“Franco,” gli ho risposto. “Franco Lamaiola.”
“Mi cercavi?”
“Sì, a proposito di quell’articolo sulle squillo del Plaza.”
“Sai qualcosa?”
“A dire il vero, no. Sono… ero un amico di Anna Grazia Diamanti.”
“La donna uccisa?”
“Prostituta, l’hai chiamata.”
“Infatti. E tu vorresti chiedermi come faccio a esserne sicura?”
“Esattamente.”
“Che t’importa?”
“Ecco, io… sto lavorando a un libro…”
“Sei uno scrittore?”
“Sì.”
“Strano, non ho mai sentito parlare di te. Eppure ho tanti amici che fanno il tuo
mestiere.”
“Ho scritto tanto, ma senza metterci la firma.”
“Un ghostwriter, wow! Non mi era mai capitato di conoscere uno che si
vantasse di essere un fantasma. Vorrei scriverci un pezzo, ti va?”
“Io veramente ero venuto per sapere di Anna Grazia…”
“E vabbè, comunque sia, la soffiata sulla tua amica non è stata fatta a me, ma a
Roberto.”
“Chi è Roberto?”
“Il più grande giornalista investigativo che l’Italia abbia mai avuto. Roberto
detiene un record che non sarà battuto facilmente: da quando lavora al Messaggero,
ha ricevuto più di mille telefonate di minaccia, centododici lettere minatorie,
duecentosei proiettili dentro buste col suo nome. Duecentosei, capisci? Sono anni
che è costretto a vivere blindato. E prima o poi lo ammazzeranno. Vuoi parlarci?”
“Non ho scelta.”
350
Io sono uno che a furia di pensare e immaginare e farsi delle seghe mentali
piuttosto esagerate, sono uno che a furia di giocare con la testa, finisce che gli
scoppia, la testa. Esattamente come nella scena più famosa di Scanners, quella del
cronista a cui scoppia la testa. Bellissima la scena del cronista a cui scoppia la
testa.
Io sono uno che mentre sto seguendo il culo di Tana, un culo bello e sodo che
mi porta lungo un lungo corridoio, un culo meraviglia che sculetta e che mi porta
in una stanza piena di fumo, io, per esempio, sono uno che si mette a sfidare se
stesso a indovinare che aspetto può avere la persona che sto per incontrare, un
cronista della nera, e i cronisti della nera sono solito vedermeli così: con la barba
di tre giorni, la giacca sgualcita e una sigaretta spenta all’angolo della bocca. Sono
solito vedermeli così: con due tazze di caffè sul tavolino e gli occhi luccicanti per
troppa esposizione allo schermo di un pc.
E invece no.
Roberto Rocco è più, molto di più: il più grande giornalista investigativo che
l’Italia abbia mai avuto è un uomo senza sonno, magro e allucinato, con la barba
lunga e grigia, con la camicia sporca, col sigaro fumante che gli pende dalle labbra
e rende l’aria irrespirabile.
Appena Tana comincia a esporgli il mio problema, intervallando una parola e
l’altra con dei profondi respiri, Roberto Rocco, che è il più grande, inizia a farsi
piccolino: si stringe nelle spalle, s’incassa con la testa, si nega con lo sguardo, poi
si alza, di scatto, all’improvviso, come un pupazzo caricato a molla.
“C’è un motivo per il quale dovrei rivelare le mie fonti al primo tizio che mi
capita davanti?”
“Ero amico di Anna Grazia,” dico io.
“Della troia,” dice lui.
“Di Anna Grazia,” dico io.
“Scusa,” dice lui, “per gentilezza: ho modo di rispondere evitando di mandarti a
fare in culo?”
“Ho capito,” dico io.
Ho capito che ancora una volta ho fatto un buco nell’acqua. Mentre esco dalla
stanza del più grande giornalista investigativo e stronzo che l’Italia abbia mai
avuto, Tana dice di sentirsi un poco in colpa, cioè praticamente in colpissima, per
essere rimasta in silenzio mentre Roby mi trattava in quel modo, un brutto modo,
351
penso io. Tana dice che il collega fa una parte, che recita la parte del cattivo, e
mica vero, mica vero che è cattivo, è solo affetto da sindrome da stress, da stress
lavorativo, si capisce. Tana dice che non ha motivo per credere di avere scritto una
cazzata, che secondo lei Anna Grazia era una squillo, perché e per come non lo sa,
la soffiata non è stata fatta a lei, ma a Roberto.
Tana è proprio bella e mi sono innamorato.
Ma proprio innamorato.
Cotto.
“Allora ciao,” le dico, “e grazie lo stesso.”
“Ciao,” mi dice lei. “Auguri per il libro.”
Non so perché o quando ho cominciato a contare le donne delle quali sono stato
innamorato senza farglielo sapere. Non so perché o quando ho cominciato, ma
posso dire con certezza che è un metodo che vale. Concentrarsi sulle rose che non
colsi è un’occupazione piuttosto dolorosa per il cervello che, di fronte al ricordo
degli amori che potevano essere e non sono stati, cede al richiamo, ben più
confortevole, del sonno.
Buonanotte allora: Rosaria Bulone, Mariella Minelli, Anna Grazia Diamanti,
Angela Lattuca, Annalisa Ciranni, Sara Angeloni, Cristina Donizetti, Rossana
Sciortino, Tana La Frangetta…
E’ apparso sulla porta, con le chiavi in mano, la faccia distesa, la stessa giacca
di velluto a coste e gli stessi jeans che aveva il giorno che è scappato. Ha sorriso e
mi ha guardato negli occhi, senza vergogna, senza nessunissima vergogna, senza
rispetto per le lacrime che a stento trattenevo, per la bocca che tremava, per la
mente che diceva, mi diceva: non urlare, non ora, non bestemmiare, non ora, non
insultarlo, non ora, non aggredirlo, non ora.
E’ apparso sulla porta, con le chiavi in mano e col solito sorriso, quel sorriso
strafottente che vuol dire ognun per sé, ognun per sé e Dio per tutti. Con quel
solito sorriso strafottente mi ha guardato negli occhi, senza rispetto, senza
352
nessunissimo rispetto, senza vergogna per la mia bocca che tremava e ribolliva di
silenzio, che tremava e ribolliva come trema e come bolle la lava di un vulcano.
E’ tornato una mattina che pioveva, sì, è tornato: due mesi di non so che cazzo
cosa ed è tornato: è apparso sulla porta, con le chiavi e tutto il resto. Ha sorriso e
mi ha detto: “La sola cosa che devi sapere è che quella tua Loredana è una
bagascia. Mi ha fottuto il cervello, mi ha fatto fare cose che non avrei mai
immaginato di poter fare, e quando ho provato a suggerirle di darsi una calmata, mi
ha mandato a fare in culo e si è messa a sbavare per la minchia di uno zingaro. E’
una fortuna che, grazie a me, tu puoi finalmente capire che tipo di femmina era. A
proposito: dove sta tua madre?”
Ho pensato che ucciderlo era poco. Che andarmene di casa era inutile, era
niente. Ho pensato al male che quell’uomo aveva fatto, un male inaspettato,
soprattutto per mia madre, un male che non poteva essere scontato in un secondo,
in un botto di fucile. Ho pensato che era giusto far vendetta, ma in maniera più
ingegnosa, più crudele. Adesso aspetta, mi son detto, subisci ancora, una decina
d’anni, fino a quando la morte non comincerà a camminargli accanto. Settantasette
anni, più o meno, è l’aspettativa di vita di un uomo. Da allora in poi, prega che Dio
gli risparmi l’infarto, la morte improvvisa per eccellenza, regalandogli invece
l’agonia del tumore, la morte lenta, la lenta disarmante consunzione. Da allora in
poi, ogni giorno sarà buono per sentirlo agonizzare, per accorrere al suo letto e,
guardandolo negli occhi, finalmente sorridere, sorridere di gusto.
Adesso aspetta, mi son detto, subisci ancora, e digli pure che la mamma è in
ospedale, a farsi ricucire qualche taglio dell’anima.
Sono andato a Roma per investigare, stabilirmi al Plaza ed entrare nella camera
dove Anna Grazia era stata uccisa. Ma il mio amico tassista Ciccio Scerni mi ha
fatto notare che la camera era ancora sotto sequestro, e per entrarci avrei dovuto
rimuovere i sigilli.
Sono andato al Plaza e ho messo gli occhi su un uomo dall’aria sospetta che
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nascondeva in una busta un dvd chiamato Sadiche scopate, ma l’uomo con la busta
ha chiamato quattro guardaspalle. Così me la sono data a gambe e non sono
riuscito a capire se quell’uomo e quella busta c’entravano qualcosa con la morte di
Anna Grazia.
Sono andato alla Feltrinelli e ho chiesto se avevano un dvd chiamato Sadiche
scopate, ma una molto sadicamente scopabile commessa della Feltrinelli mi ha
risposto che ero proprio un maleducato a chiedere quel film, e se volevo acquistare
roba sconcia c’erano le bancarelle di via Stanazza, le bancarelle di fumetti, libri
usati e dvd per maniaci sessuali.
Sono tornato al Plaza e ho deciso fermamente di rompere i sigilli ed entrare
nella stanza del delitto. Ma tre giorni dopo aver deciso di rompere i sigilli ed
entrare nella stanza del delitto, ero ancora al tira e molla se rompere o non
rompere, se entrare o non entrare. Poi non sono entrato.
Ho navigato sul sito del Messaggero e ho letto che Anna Grazia era stata
coinvolta in un giro di squillo che lavoravano al Plaza. Non ci avevo mai pensato.
Per me Anna Grazia era una psicologa, impiegata temporaneamente presso il
servizio di Continuità Assistenziale di Porta Romana.
Sono andato al Messaggero e ho chiesto di parlare con chi aveva scritto il pezzo.
Ma la giornalista che aveva scritto il pezzo mi ha portato dal giornalista che le
aveva fatto la soffiata, e il giornalista che le aveva fatto la soffiata mi ha mandato a
fare in culo.
E questo è lo stato delle mie personali indagini: un disastro.
Non frega un cazzo a nessuno dei problemi che ho avuto con mio padre? O dei
problemi che ho avuto con mia madre, quando lei lo ha perdonato? O dei problemi
che ho avuto con mia madre e con mio padre, quando sono tornati a vivere sotto lo
stesso tetto, come se nulla fosse accaduto? Non frega un cazzo a nessuno dei
problemi che ho avuto col cervello? O dei problemi che ho avuto con il pene,
quando ho visto azzerarsi la media degli orgasmi? O dei problemi che ho avuto con
il pene e col cervello, quando ho capito che Loredana non sarebbe più tornata?
Forse io e Loredana non avevamo molto da condividere, amore fisico, quello
avevamo, forse un giorno non saremmo più riusciti a riempire i vuoti tra una
354
scopata e l’altra, forse un giorno se ne sarebbe andata ugualmente, forse era così
ch’era destino, forse Loredana non era adatta a una lunga convivenza, forse
Loredana era malata, malata nella testa, forse Loredana era una pazza, forse
Loredana era mignotta, mignotta nella testa, ninfomane, invasata, ma lo era con
me, e questo cambiava il mio modo di giudicarla.
Una cosa che succede agli scrittori, una cosa che succede è che gli prende la
paura di non scrivere i romanzi. Questo io non lo sapevo, ma è successo, mi è
successo: una paura travolgente. Ero andato a Santa Marinella, ero sdraiato sulla
spiaggia e leggevo un gran bel libro, un libro del mio Chuck, leggevo Portland
souvenir. Ero sdraiato sulla spiaggia e cercavo di scordare i fallimenti, le mie
indagini maldestre, i giri a vuoto. Ero sdraiato a pancia sotto e ho pensato ai tanti
modi accidentali di morire, di lasciare incompiuto il mio romanzo: andare al mare,
per esempio, scivolare sugli scogli e battere la testa, per esempio, scivolare sugli
scogli e affogare, per esempio, trattenere il respiro fino a quando l’acqua non entra
nei polmoni, e addio romanzo. Devo ricordarmi di non andare al mare, ho pensato.
Ho pensato ai tanti modi accidentali di morire, di lasciare incompiuto il mio
romanzo: guidare in autostrada ascoltando le notizie, per esempio, guidare e non
accorgermi di uno che prova a sorpassarmi e mi tampona col jeeppone, per
esempio, col jeeppone che mi spinge contro un tir dell’Italgas, contro un tir che
prende fuoco, prende fuoco e mi arrostisce, per esempio, e addio romanzo. Devo
ricordarmi di evitare l’autostrada, ho pensato. Ho pensato a nuovi modi accidentali
di morire, di lasciare incompiuto il mio romanzo: mettersi a pensare di non essere
più in grado di scrivere una riga, per esempio, morire per le conseguenze di una
crisi creativa, per un’aritmia maligna causata dall’eccesso di stress, per esempio.
Morire di troppa adrenalina, e addio romanzo. Ho pensato ai tanti modi accidentali
di morire, di lasciare incompiuto il mio romanzo: addormentarmi con tante belle
idee, per esempio, addormentarmi immaginando di avere un mio fan club, un sito
come quello del mio Chuck, con il forum, con la chat, addormentarmi un pizzico
contento, addormentarmi e non svegliarmi più. Ho pensato ai tanti modi che avevo
di morire, e ora posso dirvi cos’è il panico: una cosa che ti arriva nella testa e ti
butta via i pensieri, ti arriva nella testa, da dove non si sa, ti arriva nella testa e la
355
rovescia, e ti rovescia, ti vien da vomitare, ti vengono i dolori, gli spaaaaasmi
muscolari, ti batte forte il cuore, ti batte così forte, un attimo e ti scoppia, cominci
a delirare, pensare: è tutta merda, è merda il mio romanzo, è merda letteraria, la
merda di un cretino, la trama non si segue, le storie son banali, i salti temporali
confondono il lettore, è merda e solo merda, è merda il mio romanzo, è merda
letteraria, la merda di un cretino, lo stile è artificiale, nessuna idea geniale.
Io mica ci pensavo che potesse capitarmi una cosa del genere, però mi è
capitata.
87, che è già finito, e non ancora 88. Di pensieri ho un bel cestello… chi mi
credo, il Pirandello?
356
“Venire a Roma non ti è servito a niente?”
“A un cazzo, mi è servito.”
“Mi dispiace.”
“Anche a me.”
357
“Scusami, ti ho detto.”
“E poi, di che favore parli?”
“Un giorno ho dovuto ospitare una bambina a casa mia.”
“Una bambina?”
“Anna Grazia mi ha fatto giurare che non ne avrei parlato con nessuno. Credo
fosse sua figlia. Aveva nove anni.”
“E ha dormito da te?”
“In garage, chiusa dentro il taxi. Mia moglie avrebbe fatto troppe domande. Non
te l’ho detto che ho una moglie?”
“No.”
“Si chiama Svetlana. Comunque sia, il mattino dopo, ho riportato la piccola alla
madre.”
“Al Plaza?”
“Alla pensione Nada, in via della Suburra. Là ho trovato Anna Grazia che ci
aspettava con un uomo. La bambina si è mostrata contenta di vederlo, e non ha
fatto storie quando Anna Grazia le ha detto di andare in macchina con lui.”
“Sapresti riconoscerlo?”
“Sì. Penso fosse il fratello.”
“Sei sicuro?”
“L’ho rivisto in televisione.”
358
“Cosa?”
“Ferma questo cazzo di macchina, ti ho detto!”
“Non vorrai scendere qua, in mezzo alla strada?”
“Addio.”
Lo so che avrei dovuto resistere e chiedere a Ciccio più particolari, tutto quello
che sapeva, ma ero nervosissimo e ho tirato avanti. Non mi importava di
camminare al centro della strada come un pazzo, sfidando i clacson e le urla degli
automobilisti.
Ho perso il volo, naturalmente. E non è stata una gran perdita, perché appena
arrivato a Fiumicino ho saputo che il Roma-Catania delle 18 si era schiantato al
suolo poco prima di atterrare. 62 persone erano morte.
Assurdo, no?
90. Segni.
Dopo è successo che non ho avuto pena, nessuna pena per i morti, mi dispiace,
mi dispiace ma ero stanco, solo stanco per la lunga camminata, molto stanco ma
tranquillo, sono rimasto tranquillo anche quando un idiota del check-in mi ha fatto
notare che avevo una faccia di culo a chiedere il rimborso del biglietto. Che poi
non si poteva, era un low cost.
Sono andato al bar, ho preso un latte e menta e ho chiamato mia madre.
Prima cosa, le ho detto: “Mamma, ho perso l’aereo.”
Prima cosa mi ha detto: “Franco sei vivo?”
Seconda cosa le ho detto: “No, ti sto chiamando dall’oltretomba.”
Seconda cosa, è scoppiata a piangere e a dire che mi ero salvato per merito di
Padre Pio.
Terza cosa, le ho detto: “Mamma, e gli altri 62 che sono morti?”
Terza cosa, mi ha detto: “E ora Padre Pio vuole che fai il buono con me e con
papà.”
Quarta cosa, le ho detto: “Non siete mica i Cunningham.”
Quarta cosa, mi ha detto: “E’ Padre Pio che vuole questa pace, è Padre Pio.”
359
Quinta cosa, le ho detto: “Mamma, se non la smetti mi verrà uno di quegli
attacchi d'ira che poi rompo qualsiasi oggetto mi trovo davanti, e sai cosa mi
trovo? Un regalo per te: un pupazzo di Papa Wojtyla che benedice con la sua
voce.”
A questo punto mia madre è stata zitta, a questo punto sono stato zitto anch’io,
forse perché un ricordo mi ha distratto, il ricordo di un articolo che avevo letto sul
mensile Focus, o sul mensile Newton, o sul mensile Io ci credo, non ricordo, il
ricordo di un articolo in cui alcuni sopravvissuti a vari incidenti raccontavano la
grandissima fortuna che gli era capitata. C’era un tizio di Baltimora che sosteneva
di essere scampato a un disastro aereo aggrappandosi a un sedile che era caduto in
mezzo a un bosco, era caduto lentamente, miracolosamente, planando con la stessa
lentezza di una foglia che si posa sul terreno. C’era uno di Calcutta che aveva
passato dodici ore da naufrago in mezzo alla tempesta, dodici ore nelle quali aveva
solo pregato e fatto il morto, perciò si era salvato, per volere di una dea, o forse
no: perché con i polmoni pieni d’aria, il corpo stesso è un salvagente, un
salvagente naturale. C’era uno di Parma che era stato colpito da un fulmine e si era
dovuto ricomprare il cappotto di astrakan. C’era una studentessa di Chattanooga
che si era finta morta mentre un matto scaricava una calibro 22 sui suoi compagni
di college, una studentessa di criminologia di Chattanooga che si era finta morta
perché in un corso insegnavano quel trucco, e quando il matto si era accorto della
sua furbata e voleva assassinarla, era arrivato Jesus Christ Superstar e gli aveva
fatto sparire i proiettili.
Tutte queste persone avevano vissuto gli anni successivi allo scampato pericolo
in uno stato di euforia, trovando la forza di raddrizzare le loro vite e realizzare i
sogni più ambiziosi. Tre di loro, tre su cinque, avevano scritto un libro di successo.
“Mamma, che ne pensi? A vederla dal tuo punto di vista, anche la mia salvezza è
un segno,” le ho detto (sesta cosa). “Forse è la volta buona che lo scrivo, questo
libro.”
Settima cosa, poi, le ho detto: “Mamma, mi stai ascoltando?”
Ottava cosa, niente. Aveva riattaccato.
Mi sono ripromesso di non pensare a quello che mi ha detto Ciccio, per due o
360
tre giorni, di non pensarci più, che se ci penso, mi monta su un nervoso che non lo
so che faccio, vado sotto casa sua, gli rigo il taxi.
361
si chiamava Toni Sorcio, e questo Toni Sorcio era il fratello minore di un
bigliettaio delle Ferrovie dello Stato, e il bigliettaio delle Ferrovie dello Stato si
chiamava Giovanni Sorcio, ma a Pian della Repubblica era noto con l’ingiuria, era
noto Gian Cacchione, e questo Gian Cacchione non poteva sopportare che Toni, a
sedici anni, fosse ancora vergine, non poteva sopportarlo, lui che si vantava di
avere fatto l’amore mille volte, non poteva digerirlo, lui che si vantava di averlo
fatto in treno, mille volte, che in treno la donna è più puttana, sosteneva, che il
treno la corrompe, forse perché il treno è tutto un dondolare, un su e giù della
carrozza sul binario.
Io conoscevo un ragazzo molto timido, soprattutto con le donne, un ragazzo che
si chiamava Toni Sorcio, e questo Toni Sorcio un pomeriggio è salito sul regionale
che da Pian della Repubblica portava a Porta Pecorelli, e si è nascosto nel bagno. Il
viaggio in treno da Pian della Repubblica a Porta Pecorelli sono trentadue minuti, e
in trentadue minuti non è detto che a qualcuno gli venga da pisciare, però è
successo: una donna è entrata in bagno e ha avuto la sorpresa di trovarci Toni
Sorcio, di trovarci un sedicenne con lo sguardo kamikazzo, con lo sguardo della
serie ti trombo e poi t’ammazzo. Quando la donna ha provato a scappare, Toni
Sorcio non ci ha capito niente e l’ha colpita con dei pugni, sul naso e sulla pancia.
Poi l’ha presa per i capelli e le ha spinto la faccia nella tazza del water. Poi ha
scaricato. Poi le ha tolto gonna e slip e l’ha inculata.
Io conoscevo un ragazzo che sembrava molto timido, soprattutto con le donne,
un ragazzo che si chiamava Toni Sorcio, e questo Toni Sorcio si è fatto tre anni di
riformatorio, e quand’è uscito, mi ricordo, dopo un mese ha violentato un’altra
donna, e quando i carabi l’han preso, mi ricordo, era distrutto, piangeva come un
bimbo e tirava calci all’aria, piangeva e diceva ch’era stato suo fratello a rovinargli
la vita.
A Pian della Repubblica, la prima cosa che hanno detto è che Anna Grazia non
poteva avere fatto quelle porcherie che scrivevano i giornali, perché i giornali le
sparano sempre grosse e se c’è da scrivere una minchiata per farci credere che
siamo tutti delinquenti, i giornali la scrivono quella minchiata, e se ne fottono di
calpestare la dignità delle persone. Questa è l’opinione che a Pian della Repubblica
362
hanno dei giornali.
La televisione invece no, dice sempre la verità, perché la televisione è dello
Stato, anche quella commerciale è dello Stato, e poiché lo Stato siamo noi
cittadini, se c’è da dire una minchiata distruttiva, la televisione non ce la dice
quella minchiata, e se qualcuno, un giornalista, un conduttore, vuole dircela a tutti
i costi, allora è giusto che arrivi un dirigente e lo prenda a calci in culo,
chiudendogli il programma. Questa è l’opinione che a Pian della Repubblica hanno
della televisione.
Allarmante, penso io: mio padre e mia madre aspettano l’ultima puntata di A
Cena con la Nera per capire qual è il loro pensiero sul delitto.
STIPSI CREATIVA ?
96. A CENA CON LA NERA. Trascrizione della prima parte della puntata del 16
settembre 2005. Ospiti in studio: Tino Balli e don Angelo Ricotta.
363
Orso Caramellana, conduttore: “Amici della nera, buonasera! Stiamo per
iniziare una puntata eccezionale. Sicuramente la cosa che dovete fare è mandare a
letto i vostri figli e buttare via il telecomando, perché oggi vi metteremo al
corrente degli ultimi clamorosi sviluppi delle indagini sul delitto Diamanti. Un
delitto a cui abbiamo dedicato la nostra attenzione di giornalisti con passione e
puntiglio, ma soprattutto con l’intento di capire come una donna apparentemente
normale sia riuscita a nascondere un’esistenza parallela fatta di appuntamenti e
incontri nel giro della prostituzione d’alto bordo, un mondo nel quale il potere e la
ricchezza sono considerati valori superiori e inalienabili. Ma chi era veramente
Anna Grazia Diamanti? Lo scopriremo tra pochi minuti, adesso… Sigla!”
364
…che coglion!
Al funerale vestirò
nero fumè
mi dona tanto quel Ferrè
magari è troppo sexy,
sì, però
lo metterò per gioco
e sfilerò…
365
perderà!
Al funerale vestirò
nero fumè
mi dona tanto quel Ferrè
magari è troppo sexy,
sì, però
lo metterò per gioco
e sfilerò…
(Applausi)
366
inebriato dal fatto di trovarsi in prima pagina, quando invece è chiaro che la cattiva
popolarità di cui è oggetto può stroncargli la carriera.”
Caramellana: “Forse contro di lui ha giocato anche una certa spregiudicatezza di
carattere. Gran parte dell’opinione pubblica è convinta che il Verga si sia mostrato
troppo cinico nello sfruttare la morte di Anna Grazia per realizzare il suo sogno di
scrittore.”
Balli: “Ha avuto fiuto, è vero. Ma non dimentichiamo che la stesura di quei libri
ha rappresentato per lui una valvola di sfogo e un ultimo disperato tentativo di
reagire al violento attacco mediatico che lo ha colpito. C’è molta tenerezza nella
scrittura di Gerri: egli impugna la penna perché non è capace di usare un’arma
vera.”
Caramellana: “Ora però si parla di altre accuse, anche queste molto gravi. Di
pedofilia…”
Balli: “Il mio assistito ha confermato davanti al gip di avere scaricato dal web
diversi file di contenuto erotico. Ma è bene precisare che solo in minima parte si
trattava di foto di bambini, che, a suo dire, sarebbero incidentalmente finite nel pc
durante le operazioni di download. Al contrario di quanto riportato dai giornali,
non esiste una sola immagine che lo ritragga impegnato in deprecabili pratiche
sessuali, né si può parlare di suoi incontri fisici con minorenni. Quel poco che può
venirgli addebitato riguarda attività, di certo discutibili, ma svolte esclusivamente
via computer.”
Caramellana: “Torniamo ad Anna Grazia. Secondo un importante quotidiano,
sarebbe stata coinvolta in un giro di prostituzione d’alto bordo. Un quadro
differente da quello che era emerso all’inizio dell’iter investigativo. Questa sera
abbiamo il piacere di ospitare Don Angelo Ricotta, che è il parroco della chiesa di
Santa Febbronia a Pian della Repubblica, dove Anna Grazia è nata e ha vissuto fino
a diciott’anni. Don Angelo, che cosa crede di tutto quello che abbiamo letto in
questi giorni?”
Don Angelo Ricotta: “I giornali esagerano sempre. Parlare di prostituzione
senza il supporto di verità provate, mi sembra un modo piuttosto cinico di fare
giornalismo, ignorando il dolore ancora vivo dei genitori, dei parenti e degli amici
di Anna Grazia. E’ anche vero che, se quelle che al momento mi sembrano pure
congetture si dimostrassero fatti reali, allora la storia di Anna Grazia Diamanti
assurgerebbe a simbolo di una sessualità che non rispetta i valori dell’amore e
367
rischia di diventare droga, come ha giustamente affermato il Santo Padre.”
Caramellana: “Ringraziamo Don Angelo e andiamo avanti. A questo punto mi
corre l’obbligo di fare una precisazione: nelle oltre cento puntate del programma,
io e i miei collaboratori abbiamo sempre evitato di assecondare quel bisogno
morboso e voyeuristico che si scatena attorno a casi di questo genere, anche
quando eravamo ben coscienti che una scelta meno rispettosa ci avrebbe fatto
guadagnare diversi punti di share. Abbiamo deciso di rispettare le persone più
sensibili e ne siamo orgogliosi, ma ora l’urgenza della cronaca ci obbliga a
mostrare delle foto che oserei definire raccapriccianti. Foto che sono state scattate
sul tavolo dell’autopsia, e ritraggono un dettaglio del seno nudo di Anna Grazia.”
Voce fuori campo: “Ah, Romolo, vai con la tetta!”
Caramellana: “Ehm… ecco: quei segni sul seno destro di Anna Grazia sembrano
delle bruciature, e… Possiamo stringere l’immagine?”
Voce fuori campo: “Strizza, Ro!”
Caramellana: “Vedete? Sembra la bruciatura di una sigaretta. E più in alto,
proprio sul capezzolo, eccone un’altra.”
Don Angelo: “Queste sono immagini crude. La loro messa in onda è un’offesa
alla sensibilità del pubblico.”
Caramellana: “Pregherei don Angelo di avere pazienza. Sono anch’io molto
turbato, ma il dovere professionale m’impone di scavare nei fatti e interrogarmi su
ciò che vedo, senza censure. E allora, cari amici della nera, la domanda che vi
faccio, è la seguente: quelle bruciature sono la conseguenza di un gioco erotico o
qualcosa di più grave, il prodotto di una sevizia alla quale è stata sottoposta Anna
Grazia prima di essere uccisa? Via col sondaggio! Tra pochi minuti avremo i
risultati, adesso… Pubblicità!”
O dici a papà di stare zitto, ho detto a mia madre, o dici a papà di smettere di
russare, ho detto a mia madre, o è inutile che guardiamo la televisione per non
capirci niente, per poi sentire te che dici: Parlano difficile. Per poi sentire te che
dici: Che lo paghiamo a fare, il canone? Per poi sentire te che spari a salve, quando
invece lo sai bene che il problema è quel trombone che copre le parole, e col
trombone si fa dura seguire dei discorsi, una fatica cane, pensa tu, pensa io che
368
devo annotarmi tutto.
Io non credevo che mia madre, dopo quello che ha passato, fosse in grado di
ribellarsi alla propria quotidiana demolizione. Così mi sono meravigliato, mi sono
meravigliato un poco quando le ho visto dare una manata sulla spalla di mio padre.
Io non credevo che mia madre, dopo quello che ha passato, fosse in grado di dare
una manata sulla spalla di mio padre e dirgli: “O stai zitto o è inutile che dici di
volere vedere la televisione e poi ti addormenti, cominci a russare e non ci fai
capire niente.”
Mi sono meravigliato molto meno quando lui si è smosso e le ha urlato: “Non
dormivo. Avevo gli occhi chiusi ma sentivo benissimo. E tu mi hai rotto la
minchia. Tu non mi hai fatto capire una minchia. Adesso spegniamo questo
televisore di minchia. E andiamo a letto.”
Io penso che mio padre lo sta facendo apposta a diventare una macchietta. E’ il
suo modo di rovinarmi il romanzo. Come si dice: muoia Sansone e crepino i
barbieri.
98. A CENA CON LA NERA. Trascrizione della seconda parte della puntata del
16 settembre 2005. Ospiti in studio: Tino Balli e don Angelo Ricotta.
369
X: “La figlia, cazzo! Non faccia finta di non aver capito!”
Caramellana: “Signore, con calma perché non sento bene.”
X: “Devono cercare la figlia.”
Caramellana: “Sì, d’accordo.”
X: “E lei, Caramellana, deve farglielo capire!”
Caramellana: “Ma io… noi facciamo quello che possiamo…”
X: “Dovete fare di più.”
Caramellana: “Va bene. Credo che comunque, dopo la sua telefonata, qualcosa
si farà.”
X: “Devono cercare…”
Caramellana: “Sì, ho capito: la figlia.”
X: “E’ una cosa che sarebbe da indagarci, io non posso dirvi altro, ma voi potete
mettere pressione ai carabi… nieri, ok?”
Caramellana: “Posso farle una domanda?”
X: “Nessuna domanda.”
Caramellana: “Non attacchi…”
X: “Non posso dirvi altro. Buonasera.”
Caramellana: “Ha attaccato il telefono. Non so, chiedo alla regia se c’è modo di
rintracciare questo signore… No, non credo sia possibile. Intanto rimettiamo in
ordine le idee… Pubblicità! Anzi no, mi dicono che non è il momento. Scusate,
sono molto confuso.”
Tino Balli: “Se posso esprimere la mia opinione…”
Caramellana: “Avvocato Balli, certo.”
Balli: “Anch’io penso che gli inquirenti hanno tralasciato alcune piste
d’indagine, concentrandosi su quella più probabile, ma non per questo scontata.”
Don Angelo Ricotta: “Le forze dell’ordine bisogna lasciarle lavorare…”
Balli: “Suvvia, che banalità! Mi perdoni, don Angelo, ma mi sembra evidente
che le indagini sono viziate fin dal principio da un assai discutibile teorema
giudiziario. Mi riferisco all’idea che Gerri Verga, per il solo fatto di avere un
movente, sia stato considerato l’unico possibile assassino. Anche la questione della
figlia segreta: capisco che quando si tratta di un minore bisogna andarci cauti, ma
continuo a domandarmi perché ci sia questa riluttanza a parlarne.”
Caramellana: “Lei crede che la telefonata che abbiamo appena ascoltato servirà
a qualcosa?”
370
Balli: “Temo che gli inquirenti rimarranno ancora ciechi. Certo, se si riuscisse a
risalire all’autore…”
Caramellana: “Questa speranza l’abbiamo tutti, ma non credo che il nostro
mister X sia stato così ingenuo da telefonare da casa.”
Io non li compro i giornali, questo l’ho già detto (capitoletto 40), e se lo dico
un’altra volta è perché da quando a Pian della Repubblica hanno arrestato il
sindaco per concorso esterno in associazione mafiosa, da quando a Pian della
Repubblica hanno arrestato il sindaco e il comandante dei vigili urbani, da quando
a Pian della Repubblica hanno sciolto il consiglio comunale, è arrivato un
bergamasco che di mestiere fa il commissario straordinario, e la cosa straordinaria
non è che a Pian della Repubblica è arrivato un bergamasco, la cosa straordinaria è
che il bergamasco si è fatto un giro del paese e ha detto subito una cosa, ha detto:
“Basta fare i meridionali, da domani raccolta differenziata obbligatoria.”
Il bergamasco ha fatto mettere una serie di cassonetti, tanti cassonetti: gialli,
verdi, rossi, bianchi, azzurri, marroncini. Tanti cassonetti colorati, che uno non ci
371
pensa, ma prima di quei cassonetti la gente di Pian della Repubblica sembrava
triste, sembrava abbattuta, e ora meno, molto meno.
Io mi sono affezionato al terzo cassonetto che sta in via Achille Starace, il terzo
se arrivo da via Roma, da via Riina è il quinto. Io mi sono affezionato a un
cassonetto di colore azzurro, di quelli con la scritta: CARTA E CARTONI
(PRESSATI E LEGATI). E’ sempre pieno di scatole alimentari, quel cassonetto lì,
ma se ci frughi dentro, è facile che trovi dei giornali.
Io non li compro i giornali, questo l’ho già detto, e se lo dico un’altra volta è
perché da quando a Pian della Repubblica hanno messo i cassonetti, è come se mi
avessero dato una ragione in più per non comprarli, è come se il commissario
straordinario mi avesse detto questa cosa straordinaria, mi avesse detto di prenderli
dal cassonetto, i miei giornali, di portarli a casa, leggerli e, dopo qualche giorno,
riportarli giù, nel cassonetto. Che poi arriva qualcun altro che li prende, quei
giornali, che li legge e poi li porta giù, nel cassonetto. E questo è veramente
risparmiare: Repubblica e Gazzetta fanno 3 euro, fanno più di 1000 euro l’anno,
senza contare gli Espresso e i Panorama, fanno un sacco di soldi. E questo è
veramente riciclare, è ridistribuire la cultura, è una cosa veramente nobile.
Anche se un poco mi vergogno, perché l’ho detto a mia madre e mia madre ha
detto che sto facendo tornare il comunismo, ha detto: “Attento.”
Primo affondo.
Un carabo mi dice: “Cos’è sta novità che se uno sa qualcosa su un delitto che
sono mesi che ci rodono i marroni…”
Un altro carabo precisa: “Che ci gonfiano i coglioni…”
E il carabo di prima: “Cos’è sta novità che se uno sa qualcosa la va a dire alla
tv?”
Un terzo carabo sta zitto. Il terzo carabo è più giovane degli altri. Il terzo carabo
ha vent’anni, a occhio e croce, sta zitto e guarda storto, ma è come se parlasse, è
come se dicesse, mi dicesse: “Hai il doppio dei miei anni e il cervello di un
bambino, chissà com’eri quando avevi la mia età.”
Io un’umiliazione simile non l’avevo mai subita, una vergogna simile non
l’avevo mai provata, o forse sì, forse una volta che in prima elementare non ero
372
riuscito a rispondere a una domanda del maestro, non ero riuscito a dire di che
colore fosse il cavallo bianco di Garibaldi. Mi ero pisciato nei pantaloni e avevo
fatto ridere tutta la classe, ma da grande, un’umiliazione simile non l’avevo mai
subita.
Secondo affondo.
Un carabo mi dice: “Perché cazzo…”
Un altro carabo precisa: “Perché minchia…”
E il carabo di prima: “Perché hai sentito il bisogno di telefonare al quel cazzo di
minchia di trasmissione? Perché hai voluto sputtanarci in diretta accusandoci di
non cercare la figlia di Anna Grazia?”
E il terzo carabo, il più giovane, continua a stare zitto, ma è come se parlasse, è
come se dicesse, mi dicesse: “Tu sei solo un casinaro che voleva insegnarci il
mestiere, e siccome non ci sei riuscito, ora cerchi il modo di svelare qualche
informazione senza essere coinvolto.”
Così ho scoperto che i carabi, specie se si muovono in gruppo, i carabi hanno
una logica stringente.
“E’ un’idea di mia madre,” mi difendo.
Un carabo sorpreso mi fa una mezza eco: “Di tua madre?”
“Ma certo,” dico io. “Mia madre pensa che se è vero quello che scrivono i
giornali, che Anna Grazia ha una figlia nascosta chissà dove, allora chi indaga
farebbe bene a scoprire le ragioni di un gesto così sconsiderato, perché non si
mette al mondo una creatura per poi abbandonarla” (capitoletto 48).
Il carabo domanda: “E’ così, signora?”
“Sì,” dice mia madre. “Sono stata io a mettergli in testa quelle cose, ma della
telefonata non ne sapevo nulla.”
“Non ne sapeva nulla,” dico io.
“Era andata a dormire,” brontola mio padre.
A questo punto, il primo e il terzo carabo si dicono qualcosa, mormorando. Il
giovane mi fissa e si avvicina. La sua faccia da universitario si fa sotto, e una
vocina lieve lieve mi parla nell’orecchio: “Comunque tu vieni in caserma. Adesso.”
373
piangere? Non ho neppure un giornale per coprirmi la faccia. Mentre salivo sulla
macchina dei carabi, mi è venuto da pensare: che cosa c’è di più artificioso di un
uomo che, dopo essere stato arrestato, si copre la faccia col giornale? Che cosa c’è
di più artificioso di un uomo che ha ucciso, stuprato, corrotto, ha fatto queste cose
senza vergognarsi, e poi il giorno che lo arrestano sente il bisogno di coprirsi la
faccia col giornale?
Che mi verrebbe voglia di chiedergli: “L’onore, dov’è finito? La dignità, dov’è
finita?”
Che mi verrebbe voglia di chiedergli: “Ma quel giornale, lo leggi per davvero?”
Che mi verrebbe voglia di chiedergli: “Oppure lo hai comprato nell’eventualità
di essere arrestato?”
C’è da pensarci. Intanto non ho mai visto qualcuno coprirsi la faccia con la
Gazzetta dello Sport o il Corriere dello Sport. Con il Giornale di Sicilia, sì. Con il
Corriere della Sera, sì.
Mi ricordo una statistica dell’Audiopress che riportava il numero dei lettori di
quotidiani divisi per categorie sociali. C’erano tutti: agricoltori, intellettuali,
docenti, operai, braccianti, pensionati, casalinghe, impiegati, negozianti, artigiani.
Ladri, no. Mafiosi, no. Stupratori, pedofili, maniaci sessuali, no. Terroristi, no.
Cosa vuol dire? Che all’Audiopress sono razzisti? Che all’Audiopress ci vogliono
convincere che i criminali non sono gente colta? E come si permettono?
Ho detto queste cose a un carabo e il carabo nemmeno mi ha risposto.
E se mi metto a piangere?
374
mese 4 del 1965, ho cominciato subito a gravare su mia madre che faceva la
maestra supplente elementare e guadagnava 80.000 lire al mese, quando la
chiamavano a insegnare, oppure molto meno, oppure zero. Le mie prime cento lire,
mi ricordo, me le diede nonna, che faceva niente tutto il giorno e guadagnava
30.000 lire di pensione, che allora mi sembrava un bel mestiere e bei soldini. Le
mie prime cento lire, mi ricordo pure il giorno che mia nonna me le diede: giorno
11 del mese 4 del 1971, le mie prime cento lire, due spicci da cinquanta,
veramente, mi ricordo pure il tempo, bello, mi ricordo pure la parte del giorno, una
mattina, mi ricordo pure l’ora, le sette, o tra le sette e le sette e un quarto, perché
subito dopo ho preso il bussino, il bussino tutto giallo che mi portava a scuola, e
poi è successo che al ritorno dalla scuola, saranno state le tredici, o tra le tredici e
le tredici e un quarto, mia nonna mi chiamò e mi disse: “Franco, vieni, facciamo
vedere a mamma e papà quanto sei ricco!”
Che vergogna. Io le cento lire le avevo perse a testa o croce con un mio
compagno di scuola, con Massimo Spataro, col quale avevo fatto a testa o croce
per vincergli dei soldi, e invece avevo perso. Da allora è cominciata una mia storia
col denaro, che definirla brutta non si può: si dovrebbe dire peggio, ma non trovo
le parole, per dir peggio.
375
probabilmente criminali... non posso ripensarci… che i carabi non mi stavano
portando alla caserma… non posso ripensarci senza fremere.
Ho bisogno di una pausa.
105. I vertibili.
376
veloce 11418, quello che parte da Bologna alle 18 e 33 arriva a Parma alle 19 e
25 lo chiamavo Daniil Charms.
Subito dopo ho aggiunto il mio pezzo sui treni che hanno il nome, che si chiama
92. Cazzeggio, ma non devo mica scusarmi: sto in treno, e parla solo dei treni che
hanno il nome. L’ho aggiunto affinché il lettore capisca che anche se l’ispirazione
è la stessa, il mio pezzo e quello di Paolo Nori non sono proprio identici.
Il viaggio in treno da Roma a Pian della Repubblica sono quindici ore e
ventidue minuti, e il treno si chiama Freccia del Sud.
Quindici ore e ventidue minuti sono un sacco di tempo, un tempo che,
involontariamente, mi da tempo di pensare, per esempio, a chi è quel genio che
mette i nomi ai treni. Perché io non posso credere che esiste una persona che gli
chiedo: Di mestiere, cosa fai?
E lui risponde: I nomi ai treni.
E io gli chiedo: Cosa serve per arrivare così in alto?
E lui risponde: Serve una laurea.
E io gli chiedo: mi prendi per il culo?
E lui risponde: No.
E io penso che ormai c’è una laurea per tutto, c’è una laurea in
Amministrazione del golf e degli sport su prato, c’è una laurea in Arti marziali e
turismo avventuroso, c’è una laurea in Psicologia Equina, c’è una laurea in
Metodologia e scrittura dei nomi dei treni.
Quindici ore e ventidue minuti sono un sacco di tempo, un tempo che, seppure
mi metto a ricordare tutti i treni che ho conosciuto: il Campidoglio, il
Michelangelo, il Rossini, il Meneghino, il Treno del Sole, il Mongibello, il Piepoli,
il Bellini, il Conca d'Oro, seppure mi metto a ricordare tutti i treni che ho
conosciuto, mi rimane lo stesso un sacco di tempo, un tempo che,
involontariamente, mi da modo di pensare, per esempio, a chi è quel genio che gli
è venuto in mente di chiamare Freccia del Sud un treno che percorre novecento
chilometri in quindici ore e ventidue minuti.
Bisogna aver studiato per fare certe cose.
Però è un guaio che questa idea di scrivere un pezzo sui treni che hanno il nome
sia venuta a Paolo Nori, che noi ci somigliamo nello stile, io e Paolo Nori, e difatti
questo libro avrebbe potuto intitolarsi ‘Un libro di Paolo Nori’. Che se il pezzo sui
nomi dei treni l’avesse scritto Alberto Bevilacqua, nessuno ci avrebbe fatto caso.
377
106. Ciak, gulp!
Dopo mezz’ora di sali e scendi su sterrati di campagna, il finto carabo alla guida
svolta su un cancello, una stradina sabbiosa che conduce a un casolare
abbandonato. La finta macchina dei finti carabi divora... sì, buonasera! La finta
macchina dei finti carabi pilucca il terreno con la potenza di 50 cavalli zoppi, poi
s’inchioda.
Scendiamo? No.
Il primo finto carabo mi punta una pistola sulla tempia. Il primo finto carabo mi
dice: “E’ una Colt Python.”
Il secondo finto carabo mi punta una pistola sulla pancia. Il secondo finto
carabo mi dice: “Sono tre Colt Python.”
Tre?
Il terzo finto carabo mi punta una pistola sulla bocca. Il terzo finto carabo
stavolta non sta zitto. Il terzo finto carabo mi dice: “Ce ne serviamo nelle occasioni
speciali.”
“Io sarei… un’occasione speciale?”
“Yes,” dice il primo finto carabo.
“Yes,” dice il secondo finto carabo. E precisa: “Yes vuol dire sì, che sei fottuto.”
E il terzo finto carabo, il più giovane, sta nuovamente zitto e guarda storto, ma è
come se parlasse, è come se dicesse, mi dicesse: “Hai il doppio dei miei anni e il
coraggio di un bambino, sono certo che ti stai pisciando addosso.”
“Yes.”
Note dell’autore.
378
ma avendo telefonato da casa, sono stato facilmente smascherato; poi: ho ricevuto
la visita di tre carabi che mi hanno ordinato di seguirli in caserma; poi: sono salito
in macchina con loro, salvo accorgermi che non mi stavano portando in caserma
ma in questo casolare che ho davanti agli occhi, e giuro, giuro: mai visto prima
d’ora.
A parte il fatto che un capitoletto come questo è il sintomo che lo scrivente si è
scolato troppa cola con il rhum, a parte il fatto, ugualmente mi domando:
1) Perché i tre finti carabi agiscono come personaggi di un fumetto di Mickey
Spillane?
2) Perché i tre finti carabi parlano come personaggi di un fumetto scritto da un
cattivo imitatore di Mickey Spillane?
3) Perché tutto quello che accade mi sembra innaturale?
4) Perché improvvisamente non sento più il bisogno di mettermi a piangere e a
urlare?
Visto che probabilmente sarò ucciso, non so come né perché, voglio dirvi che io,
nella mia vita, ho fatto almeno una cosa per cui varrà la pena ricordarmi. Ho
inventato il tennis con le targhe.
Quando ho inventato questo sport, nel 1979, le targhe delle auto erano composte
esclusivamente da numeri, con l’eccezione di due lettere indicanti la provincia, che
risultavano però assolutamente ininfluenti ai fini del gioco.
Io e il mio amico Elia Zukowski ci sedevamo al bordo della strada, lungo la
Statale che da Pian della Repubblica porta ad Agrigento, e tiravamo a sorte per
aggiudicarci il diritto di leggere la prima targa. Se toccava a me, e passava un’auto
targata 567462, allora, con mio grande disappunto, Zukowski conduceva 6-7 4-6 6-
2 e aspettava la prossima auto per provare a chiudere l’incontro, che solitamente si
svolgeva con la regola del tre su cinque (se non avete dimestichezza con il
punteggio tennistico, saltate pure questo capitoletto. Sto per essere ucciso e non ho
voglia di perdermi in astruse spiegazioni). Vi faccio un altro esempio, più
semplice: con il passaggio di un’auto targata 606476, le dimensioni della mia
vittoria sarebbero state facilmente deducibili: 6-0 0-6 6-4 7-6.
Come la maggior parte degli sport minori, il tennis con le targhe non ha ottenuto
379
quegli spazi televisivi che potevano favorirne la diffusione. I giornali sportivi non
ne hanno mai parlato, nonostante le 132 lettere che, tra il settembre 1979 e il
giugno 1982, io e Zukowski abbiamo spedito alla Gazzetta dello Sport (77), al
Corriere dello Sport (32), a Tuttosport (12) e al Guerin Sportivo (11).
La pratica del tennis con le targhe presenta numerosi benefici: migliora i riflessi
e la capacità visiva, favorisce l'accettazione della sorte, e, se praticato sotto la
canicola, fa sudare e perdere peso.
Quando sarò morto, spero che qualcuno di voi lettori prenda a cuore la mia
causa e s’impegni a diffondere questo meraviglioso sport.
108. Pulp!
380
“Una volta gli è capitato tra le mani uno stronzo di cinese che si è messo a fare
il pesce.”
“Sì, il pesce. Vuol dire che non voleva confessare il perché di certi traffici.”
“Non voleva. Si ostinava. E il capo, sai che ha fatto? Gli ha tagliato i pollici con
le cesoie.”
“E quello non parlava.”
“E il capo, sai che ha fatto? Gli ha strappato un orecchio a morsi.”
“E quello non parlava.”
“E il capo, sai che ha fatto? Gli ha spruzzato la benzina in faccia.”
“E quello non parlava.”
“E il capo, sai che ha fatto? Gli ha dato fuoco.”
“E quello non parlava.”
Quando il capo si è accorto che quel figlio di puttana era muto dalla nascita, non
ha fatto una piega. Non si è pentito. Ha detto solo: “Se aveva questo cazzo di
problema doveva fare un altro mestiere.”
Io che sono stato uno sportivo praticante del divano e della tele, io ho pensato,
pensa pensa: Moser-Saronni, ero per Saronni, il più giovane. Borg-McEnroe, ero
per McEnroe, il più giovane. Lauda-Prost ero per Prost, il più giovane.
Poi una domenica pomeriggio mi sono scoperto a imprecare contro Valentino
Rossi che umiliava Max Biaggi. E Max Biaggi era il più vecchio.
Da allora ho capito che la giovinezza si stava allontanando. Ho capito di essere
inevitabilmente condannato a tifare per il campione più anziano, per chi non vuole
arrendersi all’ineluttabile declino, per chi teme che l’ultimo traguardo potrebbe
essere quello appena attraversato.
Aveva piovuto tutta la domenica, quella domenica che mi ero addolorato per
Max Biaggi. E in tutte quelle che seguirono fu come se piovesse ancora. Fu come
se la pioggia si portasse via una maschera immutabile che avevo indossato troppo a
lungo. E dietro quella maschera c’erano due palpebre cadenti, il grigio della barba,
qualche ruga. Dietro quella maschera disfatta c’erano le ragioni di un ex ragazzo
che tra Schumacher e Alonso, avrebbe solamente urlato, solamente potuto urlare: Il
vecchio Schumi! Tutta la vita, il vecchio Schumi!
381
110. No smoking.
In attesa del gran capo, i finti carabi cominciano a fumare. Tutti e tre. In una
mano tengono le Colt, nell’altra sigarette, corte e tozze. Io non lo sopporto, dico:
“Il fumo mi fa venire gli occhi gonfi, mi fa venire le palpitazioni. Non potreste
scendere dalla macchina?”
“Ci credi scemi?” dicono tutti e tre.
“No.”
“Ci prendi per il culo?”
“No.”
“Ci credi scemi o ci prendi per il culo?”
“Nessuna delle due. Ma il fumo mi fa male: mi vengono due occhioni come
quelli di una rana.”
Il primo finto carabo mi guarda come fossi un verme alieno. Dice: “Non lo
capisci che queste sono sigarette alle erbe? Non lo senti, il mentolo?”
“No.”
“Non vuoi sentirlo?”
“No.”
“E perché?”
“Il fumo fa venire il cancro.”
“Ma allora sei proprio una testa di gnu,” dice il finto carabo. Dice proprio così:
una testa di gnu.
Il secondo finto carabo sorride: “E’ inutile che fai il naturalista della minchia.
Avvelenati, che almeno muori contento…”
Su questa frase, che a rileggerla è uno scherno, ma lì lì mi è sembrata avere un
senso, su questa frase i finti carabi si lanciano un’occhiata spaventata, e il primo
finto carabo, il primo finto carabo lo vedo che toglie la sicura, apre lo sportello,
scende giù e si mette sull’attenti, quasi sull’attenti.
Penso io: ma che succede?
Succede che succede un gran casino. Il secondo finto carabo mi afferra per un
braccio, mi spezza quasi un braccio, mi tira a forza fuori e si mette sull’attenti, mi
mette sull’attenti, quasi sull’attenti.
E lo stesso fa il più giovane, il terzo finto carabo.
382
Insomma, le chiacchiere son zero: c’è il gran capo.
Il gran capo è un tipo anziano con il naso gonfio e rosso, le palpebre a
mezz’asta, una pancia mongolfiera e i capelli laterali per coprire la calvizie.
Il gran capo è un tipo anziano con la voce di metallo: “Cos’è questa puzza di
fumo?”
“E’ menta, capo,” risponde un finto carabo, risponde sull’attenti.
“E’ fumo, coglione. Lo sai che mi fa tossire.”
Concordo, vorrei dire, ma sto zitto. Ho l’impressione d’essere in un film del tipo
Piccoli gangster, del tipo Pallottole su Broadway, del tipo… no. Del tipo Franco e
Ciccio, due mafiosi contro Al Cafone.
Sto zitto e aspetto.
Break. Sbuffando come sbuffa, come un mantice sfiatato, il gran capo tira fuori
dalla tasca della giacca un… cos’è? Un pugno di ferro con le punte. Lo indossa, e
383
stringendosi una mano dentro l'altra, mi fa venire un’ansia da restarci quasi secco.
Poi mi dice: “Sei simpatico. Somigli a quell’attore, come si chiama…
Pieraccioni. Sarebbe un peccato romperti la faccia.”
“Condivido.”
“Dov’è la bambina?”
“Ve l’ho già detto: non lo so.”
“Non prendermi per il culo. Non ti conviene. Se hai telefonato a quel cazzo di
trasmissione è perché sapevi qualche cosa.”
“Ma no, era stata mia madre a dirmi della bambina.”
“Che ti ha detto?”
“Cose che aveva letto sui giornali.”
“E cioè?”
“Che Gerri Verga aveva scritto delle lettere. Che in una di queste diceva che
Anna Grazia aspettava una bambina. Tutto qui.”
“E tu sei corso a Roma. Perché?”
“Ero andato per fare delle ricerche. Sono uno scrittore.”
“Tu? Uno scrittore? Oh, Dio del cielo, sei famoso?”
“No.”
“Una volta mi ero messo in testa di leggere un libro, si chiamava… La profezia
di zio Peppino… il titolo me lo ricordo bene.”
“La profezia di Celestino.”
“Cosa?”
“Il libro. Si chiamava La profezia di Celestino.”
“Vuoi offendermi? Ti ho detto che il titolo me lo ricordo bene. Comunque ne
avrò letto dieci pagine. Alla fine ero tutto sudato. Non fa per me.”
“Ci vuole pazienza.”
“Ma quella io ce l’ho. Altrimenti tu saresti già con la faccia a terra. E invece
puoi ancora parlare. Parlare è un dono che il Signore ci ha dato per salvarci la vita.
E tu lo sprechi.”
“Ma io voglio parlare, voglio aiutarvi. Faccio del mio meglio.”
“Non mi sembra.”
“Non posso mica inventarmi le cose.”
“Sei stato al Plaza. Ti hanno visto.”
“Chi mi ha visto?”
384
“Amici. Ti hanno visto al Plaza, in Feltrinelli, al Messaggero. Ti hanno visto
parlare col ciccione.”
“Il tassista? E’ un amico.”
“Ciccio Scerni.”
“Sapete il suo nome. Sapete tutto.”
“Secondo te perché il tuo amico ti ha raccontato di avere accompagnato la
bambina all’aeroporto?”
“Non lo so. Ma voi siete stati da Ciccio! Che gli avete fatto?”
“A lui? Un trattamento speciale. A sua moglie, le più sentite condoglianze.”
“L’avete ucciso?”
“Ottima deduzione.”
“Ma è terribile!”
“Se l’è cercata. Prima ci ha confessato di avere accompagnato la bambina
all’aeroporto, poi ha cominciato a fare il pesce. Proprio sul più bello, quando gli ho
chiesto su che volo era salita. Ha cominciato a fare il pesce. Non è una buona
mossa, fare il pesce.”
“Ucciderlo, però…”
“Non stare troppo in pena. Ciccio Scerni non teneva in gran conto l’amicizia.”
“Che vi ha detto?”
“Che fai troppo il ficcanaso.”
“Quel bastardo, figlio di puttana…”
“Ehi, non eravate amici?”
“Era solo un vecchio compagno di scuola. Non lo vedevo da vent’anni.”
“Come cambiano in fretta le opinioni!”
Break. Sto per perdere il controllo. Sta per perdere il controllo. Ecco, tra un
minuto io scoppierò a piangere, e lui mi colpirà.
“Che ci facevi a Roma?”
“L’ho già detto: sono uno scrittore.”
“Sì, le tue ricerche. Su che cosa?”
“Io…”
“Su Anna Grazia?”
“N-no…”
“Lurido figlio di troia, cosa cazzo andavi cercando? Cos’hai scoperto? Cosa?”
385
Break. Inevitabilmente, prenderò una raffica di pugni. L’acciaio del gran capo si
stamperà sul mio zigomo, sul petto, sulla pancia. Mi farà sputare sangue. Roba da
svenire, di dolore o di spavento.
Infatti svengo.
Ho sognato tre carabi che bussavano alla mia porta. Tre carabi veri.
Ho sognato lo sguardo stupito, sconcertato e poi angosciato di mia madre.
Ho sognato lo sguardo teso e poi incazzato di mio padre.
Ho sognato i tre carabi che giuravano di non avermi mai portato in caserma.
Ho sognato mia madre che implorava tutti i santi.
Ho sognato mio padre che offendeva tutti i santi.
Ho sognato i tre carabi che si fiondavano in macchina e partivano sgommando.
Ho sognato i tre carabi che mi venivano a cercare.
Ho sperato che la mia immaginazione, per una volta almeno, ci prendesse.
Ho sognato e ho sperato.
Inutilmente.
Mi gira la testa. Mi alzo a fatica. Mi pesa la testa. Mi sento morire ogni volta
che il capo mi grida, mi grida a un orecchio, mi grida con foga, una foga
inquietante: “Dov’è la bambina? Dov’è la bambina? Dov’è?”
“Non lo so.”
“Basta con le stronzate. Taglia i ‘non lo so’ e comincia a parlare. Io non voglio
farti del male. Anche se ti sei ficcato in un affare che non ti appartiene, ho già
detto che non ti ucciderò. Ma tu devi collaborare, non hai scelta.”
“Che posso fare?”
“Devi dirmi dove tengono nascosta la bambina.”
Siamo a bomba, penso io. Penso a un’ultima risorsa: mi faccio forza e piango,
piango come un bimbo, piango come un disperato, piango come un agnellino,
piango e supplico in ginocchio: “Perdonatemi. Sono finito in una storia più grande
386
di me. Non posso aiutarvi, non so come fare, non posso! Io volevo scrivere un
libro, solamente scrivere un libro!”
Il capo sorride divertito, comincia a battere le mani, dice: “Non ho mai visto un
uomo così privo d’orgoglio. Non può esistere. Per me stai recitando. Perciò ti
meriti un applauso.”
“Non è vero! Lasciatemi andare, per pietà!”
“Lasciarti andare? Tu pensi che sia semplice. E io ti dico che non lo è: le tue
lacrime non servono a fregarmi.”
“Che si fa?” chiede un finto carabo.
Il capo non risponde, sputa in terra, fa una smorfia, non risponde.
Io penso: guarda guarda, c’è ancora un finto carabo.
E il secondo finto carabo? C’è ancora. Il secondo finto carabo gli dice, dice:
“Capo, e se portassimo la sua puzza di latte dal chimico? Lui saprebbe cosa fare.”
“Zitto,” dice il capo.
Ma il finto non lo sente, non l’ascolta, tiene duro: “Sono convinto che dalla
bocca di questo stronzo non riusciremo a cavare niente.”
Ringhia il capo: “Sei convinto? Chi ti ha dato il diritto di avere delle
convinzioni? Sono stato io?”
“Capo, no.”
“E allora chiudi il becco.”
Io penso: guarda guarda, c’è un primo finto carabo, un secondo finto carabo… e
il terzo? C’è pure il terzo finto carabo? C’è pure, ma non parla. Guarda storto, ma
è come se parlasse, è come se dicesse, mi dicesse: “Se ti portano dal chimico, sei
fritto.”
E io penso: questa storia ha già troppi personaggi. Chi è il chimico?
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115. Che fanno?
116. Due cose che ho capito, e una terza e una quarta che mi restano da capire.
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Ho capito che i finti carabi hanno un capo, detto il capo, prima cosa che ho
capito, che l’avevo già capita. Ho capito che il capo dei finti carabi ha un capo,
detto il chimico, che, in attesa di vederci chiaro, chiamerò il capo del capo dei finti
carabi, e questa è la seconda delle cose che ho capito, che l’ho capita dopo, dopo
qualche riflessione e dopo tanto arrovellarsi.
Terza cosa, ho pensato, mi resta da capire: chi è il chimico?
Quarta cosa, ho pensato, mi resta da capire: che vuol farmi?
Ma vi siete accorti? Nel capitoletto precedente, dico di stare stretto stretto sul
sedile posteriore della macchina dei finti carabi, e scrivo esattamente: con un finto
carabo alla destra, con un finto carabo a sinistra, con un finto carabo a sinistra del
finto carabo a sinistra.
Vi domando: Chi c’è alla guida? Ammesso che sia il capo, e già sarebbe strano
che un capo fa l’autista, ma ammesso che sia il capo, vi domando: Perché dietro
siamo in quattro e nessuno occupa il posto accanto al guidatore?
Insomma, ho scherzato. Ho provato a cogliervi in castagna, a capire se leggete e
siete attenti. Perché se non lo siete, se non siete attenti, che leggete a fare?
Un trabocchetto come questo è da vent’anni che volevo farlo, da quando ho letto
una frase in un romanzo, ho letto: Jessie aveva due pistole nelle mani e il fucile
nell’altra.
Ho letto: Jessie aveva due pistole nelle mani e il fucile nell’altra.
Giuro.
Un giallo rimasto insoluto per mesi sembra essere arrivato a una soluzione. I
carabinieri hanno individuato il presunto assassino di Anna Grazia Diamanti: si
tratta di un imprenditore palermitano di 53 anni, Gennaro Bellavia, conosciuto
negli ambienti malavitosi come ‘il chimico’. Bellavia, attualmente residente a
Monaco di Baviera, ha diversi precedenti penali, essendo stato inquisito per
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associazione mafiosa e traffico di scorie nucleari.
In un primo momento, gli inquirenti avevano concentrato la loro attenzione su
Gerlando Verga, un urologo che era stato l’amante della donna. Poi le indagini si
erano arenate, e il Verga, nonostante si trovi ancora in carcere con l’accusa di aver
posseduto materiale pedopornografico, era risultato estraneo al delitto. E' stato un
articolo di una nostra collaboratrice a dare la svolta: la scoperta di un giro di
prostituzione che aveva luogo al Plaza Hotel ha indirizzato le ricerche tra i
possibili clienti della Diamanti.
Gli investigatori non hanno ancora reso noto il movente dell’omicidio. Gennaro
Bellavia è latitante, ma a detta del pm titolare dell'inchiesta, Luca Cammarola, la
sua cattura sarebbe questione di ore.
Sembra tutto risolto, ma non è così. A ritrovarsi al centro dell’indagine è un
nuovo personaggio, Franco Lamaiola, un disoccupato che risiede a Pian della
Repubblica, lo stesso paese della vittima. La figura di Lamaiola è avvolta nel
mistero, così come il motivo che lo ha spinto a telefonare in diretta al programma
‘A cena con la nera’, cercando goffamente di celare la propria identità e invitando
a indagare su una bambina che risulterebbe essere la figlia di Anna Grazia. La cosa
più sconcertante è il racconto dei suoi genitori, secondo i quali, subito dopo la
trasmissione, tre finti carabinieri si sono presentati alla loro abitazione e hanno
rapito il figlio.
Vi dico solo che mi hanno fatto viaggiare con la testa tra le gambe di un carabo,
vi dico solo che ho contato: da quando hanno deciso ch’era meglio non farmi
guardar fuori a quando mi hanno fatto scendere dalla macchina ho contato 3392
secondi, ormai mi conoscete, sapete che amo essere preciso. Dopo 3392 secondi
(56 minuti e 32 secondi) mi sono ritrovato in una cava abbandonata. Mi sono
ritrovato con i carabi, è normale, mi sono ritrovato con il capo, è normale. Mi sono
ritrovato con il chimico, e quell’uomo, a dire il vero, aveva poco di normale, aveva
un viso butterato rosa porco, aveva un naso devastato da una lunga cicatrice, aveva
un labbro leporino e una bocca che emetteva suoni acuti e molto buffi, neanche
fosse Paperino.
Il chimico mi ha visto, mi ha squadrato, si è voltato verso gli altri e li ha
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sgridati: “E il cappuccio?”
“Cosa?”
“Cosa?”
“Cosa?”
“Non ha il cappuccio in testa!”
“Merda!”
“Merda!”
“Merda!”
“Ben detto,” ringhia il chimico. “Ci siete dentro fino al collo. E pure lui.”
Io… che fare? Mi son sentito morto, ho chiuso gli occhi, e intanto il capo,
intendo il vicecapo, ha biascicato: “Scusaci, questo tipo ci ha mandato in
confusione, ci ha fatto veramente incazzare, noi… ci siamo dimenticati di coprirgli
la faccia.”
“E bravi gli stronzi! Non siete riusciti a farlo parlare, e questo era prevedibile.
Ma poi me lo portate qui senza cappuccio! Così mi costringete ad ammazzarlo!”
Ammazzarmi? penso io. La situazione non è buona. Ci vorrebbe ispirazione,
un’idea illuminante. Ci vorrebbe, e pure in fretta.
Grido: “Cazzo, non ci vedo! Non ci vedo più! E’ un miracolo! Prima ci vedevo e
ora sono cieco! Ora? No… no… è così da un paio d’ore, da tre ore, da
quattr’ore…”
“Troppo tardi,” dice il chimico, e sghignazza.
“Chi mi parla? Chi ho davanti? Dove sono?”
“Zitto, pagliaccio! Smettila di tenere gli occhi chiusi, o te li cavo!”
I finti carabi, che pena. Fanno un lavoro che non so, si rischia anche parecchio a
fare quel lavoro, andare in giro a minacciare, andare in giro a sequestrare, andare
in giro a sminuzzare qualche osso, fanno un lavoro che non so, secondo me
guadagnano anche poco, secondo me quando si dice che la vita criminale è
avventurosa, che la vita criminale è redditizia, secondo me sono bugie, pure
attorno al Vallanzasca c’era molto meno di quel turbine di soldi, di quel turbine di
pelo che scrivevano i giornali, e dico il Vallanzasca, mica queste tre macchiette.
I finti carabi, che pena, che pena mi hanno fatto, e pure il capo, che pena, che
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pena che mi ha fatto, quando è arrivato il chimico, il chimico fumava, il chimico
era fatto e gli ha fatto un cazziatone, gli ha fatto molto male, secondo me, gli ha
fatto male all’anima del capo, all’anima dei carabi e del capo, gli ha detto che non
sanno fare un cazzo, il loro cazzo di mestiere, così gli ha detto: “Il vostro cazzo di
mestiere, fare il culo alle persone, non lo sapete fare.”
Io ho pensato ch’era triste andare in giro a minacciare, andare in giro a
sequestrare, andare in giro a sminuzzare qualche osso, e non avere in cambio
neppure un complimento.
Il capo, il vicecapo, chiamiamolo così, ha fatto verso di scusarsi, ha detto:
“Questo testa di minchia, invece di raccontarci quello che sa, si è messo a piangere
come una femmina. Una cosa difficile da sopportare. Che dovevamo fare,
strappargli la lingua? Ho avuto paura d’incazzarmi, di non riuscire a portartelo
vivo, perciò mi sono fermato. Ma se vuoi me lo riprendo. Lo spacco, questo
stronzo.”
“Sparisci,” ha detto il chimico, gli ha detto… anzi no: gli ha dato due schiaffi,
gli ha fatto molto male, secondo me, gli ha fatto male all’anima del capo, poi ha
detto… anzi no: si è lanciato contro i carabi e gli ha dato due calcioni, tre calcioni,
gli ha fatto molto male, secondo me, gli ha fatto male all’anima dei carabi, poi ha
detto: “Di voi quattro, non ce n’è uno che si salva, ma che vi pago a fare? Alzate il
culo, tutti, andate via!”
La discussione è morta lì.
Siamo rimasti soli, io e l’uomo che, probabilmente, da lì a poco, mi avrebbe
fatto la pelle.
Pensa pensa, come sarebbe sorprendente se questo romanzo non finisse, cioè,
meglio: se fosse uno di quei romanzi che appena si giunge a capire qualche cosa, il
romanzo s’interrompe, senza dare spiegazioni, forse perché l’autore si è stufato,
forse perché ha trovato un lavoro che lo fa campare, forse perché è malato o si è
ammazzato, poverino, o trattandosi di un giallo, forse perché è stato qualcun altro a
farlo fuori, pensa pensa: la letteratura è piena di grandi romanzi incompiuti: c’è Il
Processo di Kafka, c’è America di Kafka, c’è Il Castello di Kafka, chissà perché mi
vengono in mente solo dei romanzi di Kafka, io Kafka non è che lo conosco, l’ho
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conosciuto poco e grazie alla tv, grazie a un programma di Mike Bongiorno, grazie
a… Scommettiamo, si chiamava quel programma, a Scommettiamo c’era un
astrofisico, mi pare, o un astronomo, mi pare, Paolini si chiamava,
quell’astronomo, o astrofisico, Paolicchi, si chiamava, comunque mi ricordo che
Paolini, che Paolicchi rispondeva a domande sul grande scrittore praghese nato a
Praga il 3 luglio 1883 e morto a Kierling il 3 giugno 1924, mi ricordo che Paolini,
che Paolicchi era un vero esperto della materia Kafka Franz.
Io avevo letto Metamorfosi, mi pare, La metamorfosi, mi pare, quel racconto
dell’insetto ripugnante che si trasforma in impiegato, o è il contrario, è
l’impiegato, un impiegato ripugnante che diventa un grosso insetto, avevo letto
Metamorfosi, La metamorfosi di Kafka, l’avevo letto a sedici anni, e quando mi
chiedevano chi era il mio cantante preferito, specialmente le ragazze, io non
rispondevo Alberto Camerini, io non rispondevo i Rockets o Lio, Franz Kafka
rispondevo, e la cosa funzionava, specialmente le ragazze restavano a guardarmi
come fossi un grande esperto musicale, come fossi un grande esperto di new wave,
e difatti le ragazze a Pian della Repubblica non è che capissero molto di letteratura,
specialmente di Franz Kafka, le ragazze a Pian della Repubblica avevano una
conoscenza del mondo che partiva dal Tempo delle mele e arrivava a Discoring.
Pensa pensa, ho ripensato, come sarebbe sorprendente, a un certo punto, che il
romanzo, il mio romanzo, trovasse un editore disposto a pubblicarlo, e però questo
editore mi dicesse: “A patto che il romanzo abbia un finale.”
Pensa pensa, come sarebbe sorprendente, a un certo punto, se io dicessi
all’editore: “Non capisci. Questo è un grande romanzo proprio perché è
incompiuto, perché la gente che lo legge poi si chiede: Perché non c’è una fine?
Perché l’autore si è stufato? Perché ha trovato un lavoro che lo fa campare? Perché
è malato? Perché è morto?”
Ecco che direi all’editore, gli direi: “E’ da domande come queste che nasce il
pour parlè. La forza del romanzo, del mio romanzo sta nella sua incomp
Mi dice che non posso immaginarle le cose che ha da dirmi, non posso
immaginarle, dice il chimico, mi dice che non devo fare il pesce, e ci risiamo, che
se non faccio il pesce sarò ricompensato, mi dice che non posso immaginarlo il
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modo in cui sarò ricompensato, non posso immaginarlo, dice il chimico, mi dice
che non devo fare il pesce, e ci risiamo ci risiamo, poi mi chiede: “E’ vero che sei
uno scrittore?”
“Uno scrittore? No.”
Mi sa che sbaglio, che sbaglio la risposta. Il chimico mi sgrana gli occhi
addosso. Non grugnisce, ma spaventa, mi spaventa: in quel momento, in quel
preciso spaventoso momento, nessuna faccia da porco può essere più faccia da
porco della sua. Dice: “Io non voglio farti del male, non vorrei, ma tu devi
promettermi una cosa…”
“Cosa?”
“Che risponderai sinceramente, ok?”
“Ok.”
“Allora, ricominciamo: sei uno scrittore?”
“E’ il mio più grande desiderio. Ci sto provando.”
“Stai scrivendo dell’omicidio di Anna Grazia, giusto?”
“Devo smettere?”
“Rispondi sinceramente e basta.”
“Sto scrivendo sull’omicidio di Anna Grazia, sì.”
“Con quali risultati?”
“Letterari? Non lo so. Spero di trovare un editore.”
“Non intendevo quello. Hai delle novità?”
“Che novità?”
“Informazioni riservate, fatti che i carabinieri non conoscono…”
“No, no.”
“Rispondi sinceramente.”
Il chimico m’incalza e la mia mente corre, corre. Corre a dirmi che non sa che
cazzo fare, bell’aiuto. Corre a dirmi che non sono certo un genio, che scoperta.
Corre a dirmi che è inutile che penso, penso a vuoto. Nessuna intuizione, tra
parlare e stare zitto vedo poca differenza. Se sto zitto, gli do un motivo per
gassarmi. Se parlo, lo farà ugualmente, per qualche sua ragione o non lo so, perché
l’ho visto in faccia. Allora…
Parlo, in un fiato: “Ho saputo dai giornali che Anna Grazia ha una figlia. Non
conosco il padre, ma sospetto che si tratti di un poco di buono, perché Anna Grazia
ha cercato di nascondere la bambina, e questo me l’ha detto Ciccio Scerni, il mio
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amico tassista, che in cambio di una scopata gratuita, ha aiutato Anna Grazia a far
sparire la figlia da Roma, imbarcandola su un aereo che non lo so dove portava,
questo Ciccio non l’ha detto, e ha fatto bene. Tenendosi il segreto, ha protetto la
bambina, povero Ciccio. Pace all’anima sua.”
“All’anima del pesce palla. Sai nient’altro?”
“No.”
A questo punto, mi domando, lui che fa? M’ammazza? O non m’ammazza? Mi
aveva parlato di una ricompensa. Mi aveva detto che se non facevo il pesce sarei
stato ricompensato, mi aveva detto che non potevo immaginarlo il modo in cui
sarei stato ricompensato, non potevo immaginarlo.
A questo punto, mi domando, lui che fa? Il pesce non l’ho fatto. Lui che dice?
Dice: “Mettiti a sedere. Continuo io.”
Continua lui, continua il chimico, che botta: “La bambina si chiama Stella, ha
nove anni ed è mia figlia,” dice il chimico.
E tonf, mi atterra, mi sotterra, mi fa ba, mi fa ba, mi fa balbettare: “Co-come?”
Dice il chimico: “Io e Anna Grazia siamo stati amanti fino al giorno della sua
morte. Lei non voleva avere figli, ma quando ha scoperto di essere incinta, ha
deciso di non abortire e provare a crescere la bambina da sola,” dice il chimico.
E shthunk, mi sotterra sotto chili di stupore. Io mastico parole senza senso: “Co-
do-co… me… ve… sa…”
Dice il chimico: “Lo so a cosa stai pensando, ma il padre sono io. Anna Grazia
aveva una paura folle delle malattie: non scopava mai senza preservativo, neanche
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quando un cliente le prometteva più soldi. A me invece permetteva tutto. A letto
era un animale selvaggio, una femmina fantastica, insaziabile. E così è successo
che è rimasta incinta,” dice il chimico.
E pshhhhh. Faccio voto di silenzio. Ascolto attonito, allibito.
Dice il chimico: “Io sono di Palermo, ma da quindici anni vivo a Monaco, in
Germania, dove ho un’azienda specializzata nello smaltimento di rifiuti tossici. Un
paio di volte l’anno vengo in Italia per affari. Di giorno vedo gente, prendo
accordi, tratto, faccio business. La notte mi assale la malinconia, non riesco a stare
solo. E Anna Grazia mi aiutava a non sentirla, tutta quella solitudine. Avevamo
trovato una sintesi perfetta: soldi e sesso. A lei piacevano i soldi, a me piaceva la
fica. Diventare amanti è stato inevitabile. Quando è nata la bambina, ho proposto
ad Anna Grazia di seguirmi, ma lei si è rifiutata, dicendo che io ero solo il genitore
biologico, cazzo, e nulla più. Ma come? Io le davo gli euro, migliaia di euro! Con
me sarebbe stata ricca e avrebbe potuto fare tutto quello che voleva. E invece no:
la sua vocazione era la zoccola. Ma ti rendi conto? Una pazza. Ho provato a
convincerla in tutti i modi: le ho comprato un appartamento a Grünwald, il
quartiere di lusso di Monaco. Ma quella testa dura continuava a dirmi che non
aveva intenzione di cambiare vita. Voglio sentirmi libera, diceva, non dipendere da
nessuno. E che cazzo mi significa, la libertà? Con quella fissazione, con quell’idea
balorda lei sputava su tutto: su se stessa, su di me, sull’avvenire di nostra figlia, e
in cambio cosa otteneva? La libertà di fare la zoccola. Ma che è, libertà, fare la
zoccola?”
Dico no, ma con la testa. Il chimico abbozza un sorriso e fa un cenno di
approvazione.
Poi continua: “Un anno fa ero riuscito a convincerla: per un mese lei e Stella
hanno vissuto con me, a Monaco. La bimba era contenta, e io, mi devi credere,
avevo cominciato a pensare al matrimonio. Ma sì: chi se ne fotteva se Anna Grazia
era stata una puttana, chi l’avrebbe saputo? Ero felice: la mia mente camminava,
correva, volava! Avevo iscritto Stella a un corso di danza, in una scuola
prestigiosa, la migliore, dove insegnavano i ballerini del Nationaltheater. Conosci
il Nationaltheater? Non conosci? Cazzo, che ignoranza. E’ un teatro famoso in
tutto il mondo.”
Dico sì, ma con la testa. Il chimico abbozza un risolino e fa un cenno di
commiserazione.
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Poi continua: “Avevo avuto molto dalla vita, tanti soldi, tanto potere, più di
quanto meritassi, eppure la mia felicità dipendeva completamente dalla presenza di
Stella. Senza di lei, ogni incanto sarebbe svanito.”
Io sospiro. Comincio a capire com’è andata e quell’uomo mi fa pena, perciò
dico: “Se l’è portata via?”
“Eh già, un colpo duro da digerire. Una sera, tornando a casa dal lavoro, ho
scoperto che Anna Grazia era fuggita, scrivendomi una lettera d’addio nella quale
mi pregava di lasciare in pace lei e la bambina. Che potevo fare? Il giorno dopo ho
preso il primo aereo e sono tornato a Roma, deciso a fargliela pagare. Lei aveva
ripreso la sua camera al Plaza. Si comportava come se nulla fosse accaduto, e
quando ho preteso di sapere dov’era nostra figlia, mi ha guardato con una faccia
che mi invitava a sparire, a togliermi dai piedi. Cosa posso dirti? Ero furioso. Non
ci ho visto più e l’ho presa a schiaffi, le ho gridato: Vai pure a farti fottere, puttana.
Ma dimmi dove tieni la bambina, o ti farò a fettine. Prendendola da dietro, le ho
puntato un coltello alla gola. Lei ha fatto per indietreggiare e la lama le è entrata
nel collo. Quando ho visto il sangue scenderle sul petto, mi sono quasi pentito di
quel gesto. Ho giurato che volevo solo minacciarla, ch’era stato un incidente, ma
lei urlava, urlava e m’implorava di chiamare un medico, mi accusava di volerla
fare morire dissanguata. Con il cuore che martellava, ho provato a tranquillizzarla:
a prima vista, la ferita era un taglietto. Amore mio, le ho sussurrato, ti ho amato
tanto, e voglio continuare a farlo. L’ho abbracciata con forza, baciandole i capelli,
chiedendole anche scusa, ma quando ha cercato nuovamente di fuggire, mi è
montata la rabbia e l’ho colpita, nella pancia. Anna Grazia è caduta sul pavimento
e ha cominciato a contorcersi, come se avesse le convulsioni. Allora non lo so cosa
mi è preso, ero accecato, le sono andato addosso e ho continuato a pugnalare. E
mentre il coltello affondava nella carne, pensavo che la sua morte mi avrebbe
privato di Stella. Per sempre,” dice il chimico.
Mi vien da chiedergli perché, perché mi racconta queste cose, perché non teme
che io vada a spifferarle.
?
Se mi racconta queste cose allora è chiaro che m’ammazza, allora è chiaro, son
sicuro che m’ammazza.
!
Mi prende la paura, mi sento addosso la paura, tante punturine di spilli,
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irrequietezza, la paura.
Lui conclude: “Io non volevo ucciderla, ma l’ho fatto, e se dovessi giudicarmi
moralmente, mi assolverei. Tu che dici? Una figlia fa cambiare tante cose. Una
figlia è per sempre, è per quando saremo vecchi, per quando moriremo. Ma Anna
Grazia queste cose non è mai riuscita a capirle: voleva continuare a essere se stessa
e tenersi la bambina, senza intromissioni.”
E adesso?
Mi asciugo due gocce di sudore dalla fronte e guardo il chimico negli occhi, e
pure gli occhi, se li guardo attentamente, occhi miei negli occhi suoi, pure gli occhi
sono rosa, rosa porco, porchissimo demonio, e ora che è commosso, ricordare l’ha
turbato, il rosa porco è quasi rosso, rossissimo demonio.
E adesso?
Si è sfogato, confessato, ora aspetta di colpirmi, son sicuro, di colpirmi e
sciogliermi nell’acido, nell’acido, lo so. Non c’è ragione di salvarmi, risparmiarmi
poi, perché? Per vedermi raccontare tutto ai carabi, ai veri carabi, alla stampa? Per
vedermi diventare un personaggio da talk show, uno famoso, in barba a lui? Non
c’è ragione di salvarmi, proprio no.
E adesso?
Mentre rumino pensieri su pensieri, mentre ammazzo la speranza, mentre
rumino pensieri assai comuni ai condannati, mi succede qualche cosa che non è che
mi succede, mi travolge: le mie mani se ne vanno per i cazzi, cazzi loro, non
rispondono al cervello, le mie mani cercano veloci, cercano nel petto, vorrebbero
sentire tra le dita qualche cosa, ma che cosa? Un talismano.
Un crocifisso?
Digressione: se penso al mio rapporto con la fede, c’è da ridere. Da piccolo
credevo a Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, credevo a Gesù
Cristo, a Maria piena di grazia, all’Angelo di Dio che era il mio custode, a Babbo
Natale, alla Befana, credevo al topolino che mi dava mille lire per ogni dente che
perdevo, credevo che le nuvole fossero zucchero filato, non credevo nella cicogna
ma credevo che i bambini nascevano dall’ombelico, credevo che la luna aveva
occhi, naso e bocca, credevo di riuscire a svuotare il mare con il mio secchiello.
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Poi sono cresciuto, sono passati gli anni, e già intorno agli otto, di tutte quelle
fantastiche credenze mi era rimasta solo l’affezione per un crocifisso in cristallo
colorato, un crocifisso azzurro che mi era stato regalato da mia nonna, da mia
nonna Lella.
Quel crocifisso l’ho avuto al collo dai sette agli undici anni, poi l’ho tolto, l’ho
tolto il 16 maggio 1976, quando il Torino si aggiudicò lo scudetto con 45 punti,
due di vantaggio sulla mia Juve, l’ho tolto all’ultima giornata di campionato,
quando il Torino pareggiò con il Cesena e i bianconeri furono sconfitti dal Perugia.
L’ho tolto e l’ho rimesso, un mese dopo, e un mese dopo ho detto, ho detto nel mio
cuore, ho detto: Gesù mio, Gesù Cristo, per stavolta ti perdono, forse volevi dirmi
che il calcio non è tutto nella vita, forse volevi dirmi che Dino Zoff non è un santo
protettore che veglia su di me, forse volevi aprirmi gli occhi, e allora dài, per
stavolta ti perdono e lo rimetto al collo, lo rimetto il crocifisso di cristallo colorato,
il crocifisso tutto azzurro.
Poi l’ho tolto, l’ho tolto il 12 settembre 1979, quando ho perso l’undicesima
partita su undici al mio primo e unico torneo regionale di scacchi, a Bagheria
(capitoletto 15), quando ho preso matto in 13 mosse da un bambino di sei anni,
quando mio padre mi ha schiaffeggiato e mi ha dato del coglione di fronte a una
platea di un centinaio di genitori sghignazzanti. L’ho tolto e l’ho rimesso, due mesi
dopo, e due mesi dopo ho detto, ho detto nel mio cuore, ho detto: Gesù mio, Gesù
Cristo, per stavolta ti perdono, forse volevi dirmi che il successo negli scacchi non
è tutto nella vita, forse volevi dirmi che avrei potuto fare bene in tante cose, nello
studio per esempio, non farmi rimandare per esempio, diventare medico o avvocato
per esempio, forse volevi solo aprirmi gli occhi, e allora dài, per stavolta ti
perdono e lo rimetto al collo, lo rimetto il crocifisso di cristallo colorato, il
crocifisso tutto azzurro.
Poi l’ho tolto, l’ho tolto il 24 agosto 1982, quando Rossana Sciortino mi disse
che era appena uscita da una storia d’amore disgraziata e l’ultima cosa che voleva
al mondo, ma proprio l’ultima l’ultima era innamorarsi, anche se io gli sembravo
diverso dagli altri ragazzi e conoscevo quel cantante, Franz Kafka, di cui nessuno
dei suoi amici aveva mai sentito parlare. Il corpo tondo di Rossana evaporava dai
miei sogni, non dico dal reale, ma pure dai miei sogni, e il crocifisso, il crocifisso
di cristallo colorato, il crocifisso tutto azzurro non serviva. Via, l’ho tolto. L’ho
tolto e l’ho rimesso, sei mesi dopo, e sei mesi dopo ho detto, ho detto nel mio
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cuore, ho detto: Gesù mio, Gesù Cristo, per questa volta ti perdono, forse volevi
dirmi che la fica non è tutto nella vita, sì, d’accordo, però Rossana somigliava a
un’attrice ch’era il mio attizzatoio, somigliava a Daniela Poggi, Rossana era più
bella, più che bella, era un incanto, e allora dài, comunque dài, per stavolta ti
perdono e lo rimetto, lo rimetto il crocifisso che non serve, che non ne vuol sapere
d’aiutarmi, però bada, però senti, Gesù mio, è inutile che provi a ostacolarmi ogni
volta che cerco di sedurre una ragazza, senti bene, Gesù Cristo: io prete non ci
voglio diventare, non ci divento mica, e manco frocio.
Metti e togli, metti e togli, mi ero scordato di averlo al collo, il crocifisso, che
ormai non ci credevo alle virtù miracolose della croce, ormai non ci speravo, e
pure quando le mie mani andarono a cercarlo, ed eccolo che c’era, pure allora il
crocifisso di cristallo colorato mi sembrò del tutto inutile, mi venne voglia di
strapparmelo dal collo, e invece no, invece no, a un tratto pensai a nonna Lella, a
nonna che mi aveva regalato il crocifisso, il crocifisso tutto azzurro, un crocifisso
come tanti che aveva la normale virtù di non fare miracoli.
Nonna Lella, ho detto, ho detto nella mente, nonna Lella, avvicinati a questa
faccia rosa porco. Ti fa schifo? Avvicinati lo stesso e fagli dire qualche cosa che mi
salvi, al chimico fai dire: Non ti ci vedo a fare il pesce. Secondo me non sai una
minchia.
“Non ti ci vedo a fare il pesce. Secondo me non sai una minchia.”
“Sono ore che cerco di farvelo capire! Voglio tornare a casa.”
“Impossibile.”
“Perché?”
“Mi hai visto in faccia, andresti a denunciarmi.”
“Dimentico in fretta, io.”
“Non fare lo spiritoso. Piuttosto aiutami a trovare una ragione per non
scioglierti nell’acido.”
Ho paura. Sono un fascio di nervi, un fascio duro di muscoli contratti.
Chiudo gli occhi.
Nonna Lella, aiutami.
Nonna Lella non la vedo, ma so che si avvicina, perché guardando il cielo mi
sono accorto che la luna ha occhi, naso e bocca. Nonna non la vedo, ma so che si
avvicina, fa dire al chimico: “Vuoi lavorare per me?”
“I-io?”
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“Ragazzo, hai un solo modo per salvarti…”
“Entrare nella banda? Quanto pensate di offrirmi?”
“Tremila euro per…”
“Possono bastare, ma sia chiaro: io non ammazzo nessuno. Al massimo posso
picchiare, minacciare, torturare blandamente, sparare solo per intimidire.”
“Tremila euro per scrivere un romanzo.”
“Cosa?”
“Quando hai detto che sei uno scrittore, eri sincero?”
“Sì, e con questo?”
“Hai ascoltato la mia storia, e sai che ho ragione da vendere. Non mi va d’essere
trattato come un semplice assassino, perciò voglio raccontare in un libro la mia
vita, per spiegare le ragioni, soprattutto morali, che mi hanno spinto a fare ciò che
ho fatto. E vedrai che, una volta letto il libro, la gente starà dalla mia parte, e io,
ammesso pure che mi portino in galera, vivrò contento, e magari ogni tanto potrò
vedere mia figlia.”
“Nonna ti ringrazio!” mi scappa, ad alta voce.
Il chimico s’inquieta: “Con chi parli?”
“Oh, niente, niente. Per il libro dico sì.”
“Lo scriverai?”
“Lo scriverò.”
Rosica, Gerri Verga, rosica. Che questo culo di fare lo scrittore, questo culo di
lasciare il tuo mestiere per fare lo scrittore, questo culo che hai avuto di potere
approfittare della morte di Anna Grazia, questo culo immeritato, questo culo di
essere indagato per errore, sospettato e incarcerato, questo culo di trovare un
editore morbosone, questo culo di lasciare il tuo mestiere e diventare uno scrittore
di bestseller, che non sono mai riuscito a capire cosa ci trovasse, il popolo lettore,
cosa ci trovasse nei tuoi libri, questo culo che hai avuto è destinato a terminare, e
pure in fretta. Dammi il tempo di scrivere, un mesetto, dammi il tempo di
pubblicare la mia bomba, e poi vedrai, vedrai chi è lo scrittore e chi
l’imbrattacarte.
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127. La sfortuna.
Quella stessa notte che i tre carabi finti avevano bussato alla mia porta, quella
stessa notte tre carabi veri hanno suonato alla mia porta.
E drin! Mia madre si è stupita.
E drin! Mio padre si è incazzato.
Quella stessa notte tre carabi apparentemente veri erano venuti a portarmi via.
Questi che volevano?
Sono entrati, hanno chiesto di me, hanno giurato di non essere già stati a casa
mia.
Un carabo si è stupito: “Stanotte?”
Un altro si è incazzato: “Se vi dico di no, è no!”
Il terzo è stato zitto. Lo sanno tutti che il terzo di tre carabi sta zitto. Di solito è
il più giovane, sta lì per imparare, sta come un fantasmino, pochissimi si
accorgono di lui, pochissimi, davvero, se chiedi alle persone ti dicono che i carabi
fan coppia, che i carabi son due, son sempre due, i due carabi neri, i due carabi neri
2, son sempre due.
Andiamo avanti.
Mia madre ha implorato tutti i santi. Ha detto che tre carabi con i pennacchi mi
avevano portato in caserma, due ore prima, tre carabi con i pennacchi e con le
armi, o forse no, i pennacchi no, le armi sì, le armi sì, le avevano, sembravano
vere, verissime.
Mio padre ha bestemmiato. Ha detto che lui, da cittadino, si sente preso per il
culo da uno Stato che non gli insegna a distinguere un carabo falso da uno vero. Ha
detto che lui, alle prossime elezioni, o vota a destra, o a votare non ci va, non ci va
più.
Andiamo avanti.
I tre carabi veri si sono fiondati in macchina e sono partiti sgommando.
Sono venuti a cercarmi, e mannaggia all’efficienza, mi han trovato nella cava.
Per loro, è stato culo. Per me, un’inculata.
Il chimico mi aveva promesso che avrebbe aspettato l’uscita del mio libro, poi si
sarebbe consegnato.
Grande idea, grande lancio editoriale.
E invece no.
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Sono arrivati tre carabi del cazzo ad arrestarlo, e lui non ha neppure fatto in
tempo a estrarre la pistola. Ce l’aveva una pistola? E che ne so. La verità, per
quanto inverosimile, è che lui non è scappato, ha visto i carabi arrivare e gli è
quasi corso incontro, alzando mani e braccia, gli è quasi corso incontro e ha detto:
“Bravi, vi aspettavo, così presto forse no, ma vi aspettavo. Devo dirvi tante cose,
spiegarvi tante cose, non sono un criminale, sono un padre disperato, devo dirvi
tante cose.”
Poi mi ha salutato, un cenno della mano, ha detto: “Insieme avremmo scritto un
grande libro, che peccato.”
E che sfortuna, penso io, la mia solita sfortuna.
I carabi si sono pure offesi, con me si sono offesi, mi hanno raccontato di avere
bussato alla mia porta, mi hanno raccontato tutto il resto e si sono pure offesi
perché continuavo a guardarli con l’espressione del cane bastonato, non dicevo
neanche grazie, sembravo amareggiato.
Ma che ne sanno tre carabi del cazzo, che ne sanno di editoria e di marketing?
128. Ci sono!
Mi sono alzato presto, alle sette, non mi sono lavato, non ho pisciato, non ho
fatto colazione, mi sono alzato presto, alle sette, alle sette e cinque ero in strada,
alle sette e dieci ero al chiosco di via Achille Starace, alle sette e dodici avevo
comprato il Corriere della Sera, il Messaggero, La Stampa, la Repubblica, L’Unità,
il Giornale della Piana, La Sicilia. Io non li compro i giornali, questo l’ho già detto
(capitoletti 40 e 100), li prendo dai cassonetti, questo l’ho già detto (capitoletto
100), ma stavolta avevo un desiderio di comprarli, un desiderio così forte, e
sorprendente, che a Pian della Repubblica non si era mai visto qualcuno che
comprasse il Corriere della Sera, il Messaggero, La Stampa, la Repubblica,
L’Unità, il Giornale della Piana, La Sicilia, tutti in una volta. Io quando ho chiesto
quella pila di giornali, quando ho chiesto pure il Manifesto, che a Pian della
Repubblica non si era mai visto qualcuno che chiedesse il Manifesto, quando ho
chiesto il Manifesto, il giornalaio, il giornalaio che si chiama, che si chiama, che si
chiama… non ricordo, il giornalaio mi ha guardato con gli occhi di un
paleontologo che incontra un dinosauro vivo, mi ha detto: “Non l’abbiamo, il
Manifesto, ma è successo qualche cosa? E’ morto Berlusconi? Che è successo?”
403
“Niente è successo,” ho detto io, “prova a leggerli i giornali, oltre che venderli,
ignorante.”
Alle sette e venti ero in camera, a vedere se il Corriere della Sera, il
Messaggero, La Stampa, L’Unità, la Repubblica, il Giornale della Piana e La
Sicilia parlavano di me. Alle sette e ventiquattro ero l’uomo più felice della terra,
perché avevo appena letto che il Giornale della Piana mi definiva ‘scrittore’. Eh
già: era stato il chimico a dirgli che la mia presenza nella cava non era frutto di un
sequestro, che ero lì perché dovevo scrivere la storia della sua vita. Una scusa
affascinante, ma i carabi non gli avevano creduto. Il Corriere della Sera, il
Messaggero, La Stampa, La Repubblica, L’Unità e La Sicilia non gli avevano
creduto. Il Giornale della Piana, sì.
Il Giornale della Piana aveva scritto:
Franco Lamaiola, ma chi è questo curioso personaggio? Secondo le prime
dichiarazioni dell’arrestato, Lamaiola non risulterebbe coinvolto nel delitto, e la
presenza accanto al Bellavia troverebbe spiegazione nella sua attività di biografo
scrittore.
Alle sette e ventotto ero nuovamente in strada, ho cominciato a far dei giri,
andando su, andando giù, in lungo e in largo, senza meta, con lo scopo di scoprire
che si prova a essere famosi, perché da quando il Giornale della Piana mi ha
definito uno scrittore, a Pian della Repubblica, secondo me, non si dovrebbe
parlare d’altro, a Pian della Repubblica.
Andiamolo a scoprire, ho pensato.
Ho fatto finta di avere voglia di un caffè, che a me il caffè fa schifo, non
importa, sono entrato al Bar Pupillo, al Bar Pupillo non mi ha riconosciuto
nessuno, voglio dire: hanno riconosciuto Franco, Franco Lamaiola, quello solito,
non quello famoso. E grazie, ho riflettuto, il Bar Pupillo è sempre stato frequentato
da gentaglia illetterata, è sempre stato un bar di contadini e camionisti, che
pretendo.
Andiamolo a scoprire in un altro posto, ho pensato.
Ho fatto finta di avere della spesa da fare e sono entrato al Doria Supermarket,
che sorpresa, ho incontrato Cinzia Picca (capitoletti 3 e 9), Cinzia Picca si era
separata dallo stronzo con i soldi, non aveva più lo skipper personale, non faceva
più vacanze nel Mar Rosso, Cinzia Picca era tornata a Pian della Repubblica, si era
comprata il Doria Supermarket, Cinzia Picca mi ha guardato, mi ha guardato
404
sbalordita, io ho pensato: sì, ci siamo: ecco il noto scrittore Franco Lamaiola che
non riesce a far la spesa senza essere riconosciuto.
Ho chiesto: “Cinzia, perché quella faccia stupita?”
Cinzia Picca mi ha risposto: “Non m’aspettavo di vederti così presto. A far la
spesa poi, tua mamma sta male?”
Torno a casa, ho pensato, forse è meglio, torno a casa.
Poi ho pensato che le sette e trenta, le sette e trenta le otto non erano un orario
molto adatto per scoprire se ero diventato famoso.
129. Le baruffe.
Si è fatta viva quella parte della testa che mi schifa, e mi ha detto, e mi ha detto
con un tono disgustoso: “Gli ultimi capitoletti mi sembrano forzati, come se li
avessi inseriti nel romanzo solo per trovare un finale.”
“Non mi sembra,” ho detto io, “non mi sembra, ma con te io non ci parlo, sai
che faccio? Un giudizio sul finale lo domando all’altra parte della testa, a quella
parte della testa che mi apprezza.”
E quella parte ha detto: “No. Nessuna forzatura.”
“Nessuna?” ho detto io.
“Nessuna,” ha detto lei. “Mi sembra un buon finale, un buon lavoro, un buon
romanzo. Difficile sarà trovare un editore.”
“Difficile? Impossibile!”
“Chi parla?” ho detto io. “Chi s’impiccia?”
Ancora lei! Quella parte della testa che mi schifa, ancora lei, ancora ha detto: “I
grandi editori non lo leggeranno mai il tuo libro, il libro di un perfetto sconosciuto,
è inutile che speri, non lo leggono, sicuro.”
Stavo quasi per reagire, rispondere e mandarla a fare in culo, ma ho sentito nella
testa l’altra parte della testa, quella parte della testa che mi apprezza, quella parte
che diceva: “Un editore ha tutto l’interesse a scoprire nuovi talenti.”
“Detto bene,” ho detto io.
E la schifata: “E chi sarebbe il talentuoso? Il nostro Franco Lamaiola?”
“Perché no?”
“Tu saresti il talentuoso?”
“Perché no?”
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“Ma fammi il piacere! L’editoria è una lobby, un mondo chiuso che non ha
nessuna intenzione di accogliere un rompipalle isterico e nervoso.”
Siamo alle solite. Io non riesco a discutere con la parte della testa che mi schifa.
La parte della testa che mi schifa non riesce a discutere con la parte della testa che
mi apprezza. E insieme, non riusciamo a risparmiarci dispetti, derisioni,
rappresaglie che mi fanno scoppiare l’emicrania.
E’ una cosa, finire di scrivere un romanzo, una cosa che mi sembra sia stupenda
questa cosa: avere finalmente il tempo per guardare una partita in tv senza sentirsi
in colpa (in casa mia non se ne parla: la tv è appannaggio esclusivo dei miei
genitori); avere finalmente il tempo per andare a vedere il film appena uscito di
Manoj Night Shyamalan (a Pian della Repubblica l’ultima sala ha chiuso nel 1972,
chiaro che non sanno chi è Manoj Night Shyamalan); avere finalmente il tempo per
fare shopping culturale tra librerie e negozi di cd (ho provato ad acquistare il
nuovo libro di Chuck, ma la carta di credito di mia madre aveva raggiunto la
somma limite spendibile); avere finalmente il tempo per cercarmi una ragazza
(dopo il tradimento e il disonore che ho subito, il solo pensiero di ritrovarmi con
un pelo pubico sulla lingua mi fa vomitare); avere finalmente il tempo per giocare
di più a scacchi (sarebbe una pazzia: mi serve invece uno psichiatra che mi liberi
dall’ossessione di quel gioco maledetto); e comunque avere tempo è una cosa che
mi sembra sia angosciante se mi accorgo che di tutto questo tempo non so che
cazzo farne.
E’ stata una cosa, finire di scrivere il romanzo, una cosa che alla fine mi son
chiesto: Ci sarà mica dell’altro da scrivere?
E’ stata una cosa che alla fine mi son detto: Forse potrei interessarmi alla sorte
futura dei personaggi, i miei personaggi.
La prima differenza, tra me e Francesco Scerni detto Ciccio detto Hulk, la prima
differenza è la seguente: Ciccio è nella fossa e io son qui che scrivo, che mi sudano
le mani se ci penso, che fatico a respirare se ci penso, ma son qui che sono vivo,
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son qui che vivo e scrivo le mie solite cazzate.
La seconda differenza, tra me e Francesco Scerni detto Ciccio detto Hulk, la
seconda differenza è la seguente: a Ciccio hanno chiesto di rivelare il luogo dove
Anna Grazia teneva nascosta la figlia. Se l’avesse detto, il nome di quel posto, se
l’avesse detto sarebbe ancora vivo, ma lui non ha parlato, ha fatto il coraggioso, e
il capo dei tre finti l’ha ammazzato. Anche a me hanno chiesto di rivelare il luogo
dove Anna Grazia teneva nascosta la figlia. Se l’avessi saputo, il nome di quel
posto, se l’avessi saputo l’avrei detto subito, perché la seconda differenza, tra me e
Francesco Scerni detto Ciccio detto Hulk, la seconda differenza è che io sono un
cacasotto.
La terza differenza è che io mi caco sotto con più sincerità. Perciò quando ho
detto al chimico che non sapevo quasi un cazzo, sono stato convincente. Mi ha
creduto e sono vivo, e Ciccio invece no.
Loredana non l’ho vista, mai più vista. A Pian della Repubblica nessuno l’ha più
vista, che poi, a dire il vero, non so se l’hanno vista, non è che vado a chiedere di
lei, ci mancherebbe, di lei non parlo proprio, ci penso e mi vergogno, ma tanto mi
vergogno, che a farmela montare da mio padre ho fatto la figura più di merda che
ho fatto nella vita, e allora è meglio non la nomino neppure, Loredana di Bologna.
Però…
Penso che in fondo si stava così bene, io e Loredana, si stava così bene quando
si stava insieme, che a volte mi prendono i rimpianti, penso che in fondo abbiamo
scopato tante di quelle volte, io e Loredana, che mi è dispiaciuto non essere mai
riuscito a sburrarle in gola. Mai riuscito, che peccato. Forse perché da bambino mi
sono pinzato il cazzo nella zip, forse è per quello che appena sento un dente mi
ritraggo, non lo so, non ce la faccio a venire coi pompini. Però…
Se la rivedo, Loredana di Bologna, questo sforzo devo farlo.
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già noto alle cronache per essere stato ingiustamente accusato dell’omicidio di
Anna Grazia Diamanti, era incriminato per il possesso di file di contenuto erotico
in cui compariva assieme ad alcuni minorenni.
Lo scrittore 43enne, che ha sempre respinto le accuse affermando di non essere
lui l'uomo delle foto, rischiava una condanna a 15 anni di carcere, ma dopo sei ore
di camera di consiglio la giuria lo ha dichiarato non colpevole per tutti i capi
d’imputazione.
Appena scarcerato, Verga ha dichiarato che non vede l’ora di lavorare al suo
nuovo libro, un romanzo verità su Franco Lamaiola, il disoccupato di Pian della
Repubblica il cui ruolo nella vicenda dell’omicidio di Anna Grazia Diamanti è
ancora velato dal mistero.
Mia madre è ritornata a martoriare i grani del suo rosario, silenziosa, molto
chiusa, niente a che vedere con quel modello di mamma perfetta che io ho
identificato in Marion Cunningham. Mio padre ha ripreso la sua lotta contro di me,
ritenendomi, forse non a torto, il suo più infido e spietato e personale menagramo.
Ma le sue invettive diventano ogni giorno più flebili. Per uno strano morbo, la sua
pelle si è riempita di segni tipo bruciature, e io ho cominciato a evitare qualunque
cosa lui tocchi. Non mi avvicino più alla tazza del cesso, e se devo pisciare o
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cacare vado a infrattarmi nel giardino, tra le carcasse arrugginite degli
elettrodomestici.
Mio padre e mia madre non parlano più tra loro, non dicono che le mezze
stagioni sono scomparse, che i politici sono tutti ladri, che i giovani non rispettano
gli anziani, che gli extracomunitari rubano il lavoro agli italiani, che è sempre più
difficile fare i genitori.
Mio padre e mia madre sono ritornati a passare un sacco di tempo a rosicchiare
torrone davanti alla tv. Una sera, durante una trasmissione di Maria De Filippi,
sono stato per mezz’ora dietro alle loro poltrone, fermo e muto, con un coltello da
macellaio stretto in pugno.
Giratevi, per favore!
I miei sospetti sull’uomo con la busta della Feltrinelli sono stati certamente
influenzati dal contenuto della busta: un saggio su etica, politica e psicoanalisi che
nascondeva un libro di Bruno Vespa che nascondeva un dvd chiamato Sadiche
scopate. I miei sospetti sull’uomo con la busta della Feltrinelli sono stati un errore.
Tutto quello che ho pensato su di lui è stato un errore. Tutto, quasi tutto: l’uomo
con la busta della Feltrinelli è davvero un politico, l’ho visto in tv, l’ho visto
inginocchiato, l’ho visto con il Papa. L’uomo con la busta della Feltrinelli si
chiama Alfonso Lorco, è il sottosegretario alla Famiglia e alle Pari Opportunità.
Il 23 luglio 2007, subito dopo aver appreso della morte di sua madre, stroncata a
novant’anni da un’estate troppo calda, il vecchio Max decise di interrompere la
chemio e lasciare che il cancro polmonare facesse il suo lavoro.
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139. Personaggi del romanzo: Rino Lametta.
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Lo so che non ci crederete, ma è la verità: la piccola Stella è scomparsa, rapita,
morta, come fosse mai esistita, chi lo sa. L’ultima persona con la quale è stata
vista, Carletto Diamanti, lo zio materno, si è reso irreperibile ed è indagato dalla
procura di Roma per sottrazione di minore.
Che m’importa? Sono sopra tutto questo. Il romanzo l’ho concluso, e perciò,
Stella o non Stella, in tutta la mia vita non mi sono mai sentito così bene.
Certo è strano che in Italia ogni anno scompaiono 1.000 bambini.
E 30.000 cani, e 100.000 gatti .
143. Eccetera
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Eccetera.
TRE RECENSIONI
Se stai per metterti a leggere qualsiasi libro che non sia quello di Franco
Lamaiola, evita.
Tra un paio di pagine, ti sembrerà di SOFFOCARE. Sentirai l’impulso
irresistibile di comprare il libro di Franco Lamaiola. Perciò non perdere altro
tempo. Vai in libreria. Vacci, finché sei ancora vivo.
Un romanzo che non vale una minchia. Quello stronzo di mio figlio mi ha
descritto in un modo schifoso. E’ una fortuna che a Pian della Repubblica non
gliene fotte a nessuno di leggere libri, altrimenti sarei rimasto sputtanato per tutta
la vita.
La mia recensione.
Un brutto libro è un brutto libro, e questo è un brutto libro, però l’ho scritto io, e
allora non riesco, non riesco a stroncarlo senza dire che si tratta di un libro
ambizioso, un disperato tentativo di dar forma a un progetto interessante, ma
troppo troppo sopra le mie capacità. Un fallimento, ma un libro che va letto, fosse
solo per capire che la cattiva letteratura è a volte lastricata di buonissime
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intenzioni.
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