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Ildegarde Cabitza
S. BENEDETTO
___________
INDICE
Prefazione pag. 7
Presentazione 13
Cap. I - Contrasti 19
Cap. II - Affile 38
Cap. III - Lo Speco 50
Cap. IV - Esperienze 64
Cap. V - La Valle Santa 81
Cap. VI - L'esodo 103
Cap. VII - Lotta contro il Maligno 118
Cap. VIII - La Scuola del Divino Servizio 138
Cap. IX - Cercatori di Dio. 154
Cap. X - Colui che tiene le veci di Cristo 172
Cap. XI - L'uomo di Dio 191
Cap. XII - La Regola Santa. 216
Cap. XIII - Il giorno eterno. 235
Cap. XIV - L'eredità santa 247
IMPRIMATUR Florentiae, die XX Aprilis MCMLIV Can. Marius Tirapani, Vic. Gen.
7
Prefazione
Per noi, come per tutti, quest'opera, seguita ad altri suoi numerosi scritti, è
come un testamento d'amore e di venerazione filiale di un'anima che si era
totalmente aperta alla dottrina ed alla spiritualità del Patriarca del
Monachesimo occidentale.
Dalla sua giovinezza alla maturità fu questo il suo lavoro unico ed essenziale.
Giovane monaca, Maestra del Noviziato e Priora, non ebbe e non sentì per sé
che un solo compito, che una sola chiamata, quella di conoscere e di
approfondire un ideale dapprima appena
intravisto nella sua seducente bellezza, poi sempre più nitido e chiaro alla sua
percezione interiore.
Si fermò con più amore, con più intensa preghiera, con anelito più ardente a
studiare Benedetto, la sua Regola, la sua spiritualità per assimilarne i
capisaldi ed i valori, per impregnarsene fin nel midollo e poterne, così, donare
il succo più intimo alle anime e alla famiglia monastica che Dio le aveva
affidato.
che ci rivelano così profondamente l'intimo segreto di colei che fu Madre del
nostro Monastero più che millenario, forse la Madre a cui, nella lunga storia,
Dio più donò e più affidò per il tesoro spirituale di questo suo antico Cenobio
che da dodici secoli non ha mai interrotto il suo rapporto spirituale con
Benedetto, non ha mai cessato di essergli figlio, di sentirsi suo, di camminare
per la via tracciata dalla sua Regola santa.
La vita di San Benedetto che la Madre Cabitza concepì ed ideò non è un'arida
storia, un lavoro di pura erudizione, uno studio teorico e culturale.
È un'opera di vita che si legge con interesse e facilità, ma che non nasconde,
sotto uno stile di affascinante semplicità, la seria preparazione, la vasta
cultura, l'eccezionale capacità di espressione della nostra Madre.
Egli è visto come il «vir Dei» che fin dalla prima giovinezza non esita a fare
una scelta coraggiosa e radicale tra le offerte di una agiata e promettente vita
terrena e le supreme esigenze di Dio.
È l'eremita che brama l'assoluto e si nasconde «con Cristo in Dio» per essere
ignorato da tutti e noto solo al suo luminoso ed amoroso sguardo.
Il giovane Benedetto è già l'asceta che non risparmia penitenze e lotte per
vincere l'impulso del male e liberarsi da ogni forza negativa per immergersi in
Dio e lasciarsi trasformare totalmente da lui.
Ma Benedetto è soprattutto il Padre. È l'«Abba» che genera a Dio dei figli, che
li forma, che li accompagna con il suo esempio e con la sua parola, ma ancor
più con la sua donazione e la sua fede.
Benedetto vuole formare delle anime che credano fino in fondo al Vangelo,
che ne realizzino le parole di salvezza con assoluta coerenza di sentimenti e di
vita. Cerca creature che vogliano e sappiano approfondire il mistero della vita
spirituale, di quel miracolo della grazia che fa di poveri e miseri esseri umani
dei figli di Dio, chiamati ad una eternità di gloria.
È il Cristo infatti l'unica realtà della vita. È lui a cui «nulla deve essere
preposto» che deve divenire la forma interiore, il modello su cui si plasma
ogni pensiero ed ogni azione, il centro d'amore a cui tutto converge.
Che egli sia in Coro a cantare le lodi del suo Creatore, che egli sia curvo sul
lavoro faticoso che la sua essenziale povertà gli chiede, che egli offra se stesso
nell'obbedienza amata e desiderata a colui che sulla terra «tiene le veci di
Cristo», che si doni con casto amore
11
ai fratelli che camminano con lui verso il cielo, il monaco non si divide, non si
fraziona, non si scinde.
Che questo libro della Madre Cabitza, ristampato con affetto e gratitudine
sconfinata dalle sue figlie del Monastero di Rosano che l'hanno avuta per
Madre amata e venerata, possa diffondere una rinnovata conoscenza della
figura di Benedetto, possa farne riscoprire i valori più autentici, possa donare
all'umanità accecata e travagliata di questo nostro tempo di così intimi
contrasti, una sicura speranza di luce, un nuovo aiuto per giungere a quella
pace che non conosce tramonto, che non ha confini.
S. Maria di Rosano
13
Presentazione
Ritengo che quest'opera possa portare grande frutto sia per la personalità
dell'autrice, sia per la capacità che ella ha avuto nel presentare la persona e la
missione di Benedetto non solo come evento storico, ma come dono e
impegno profondamente vivi e attuali.
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Credo si possa dire che nella vita di S. Benedetto la Madre Cabitza colse in
trasparenza la sua stessa vita, dall'appassionato desiderio del sapere umano,
alla «fuga mundi», all'ardente slancio nel cammino monastico, fino all'ultima
chiamata di Dio che la portava lontano dal suo monastero di S. Paolo a
Sorrento per farla madre e guida del vetusto cenobio di S. Maria di Rosano
che da milleduecento anni porta avanti il suo rapporto filiale con S.
Benedetto.
Ogni tappa della sua vita vissuta nell' ansia amorosa della ricerca di Dio,
divenne per la Cabitza un ricalcare l'itinerario spirituale di Benedetto,
dapprima a sua stessa insaputa, ma via via con una consapevolezza sempre
più chiara ed una volontà sempre più decisa.
Per S. Benedetto il monastero è soprattutto scuola di preghiera. Giovanni
Paolo II a Montecassino il 18 maggio 1979 affermava: «In sintesi si può dire
che il messaggio di S. Benedetto sia invito all'interiorità. L'uomo deve prima
di tutto abitare con se stesso». E ancora diceva: «Dalla solitudine interiore,
dal silenzio contemplativo ... da questo "abitare con se stessi" nasce il dialogo
con sé e con Dio che porta sino alle vette dell'ascetica e della mistica».
La Madre Cabitza visse nel suo cuore, fin dalla giovinezza, l'«abitare secum»
di Benedetto. Ella scrive: «Abitò con se stesso. In questo veramente Benedetto
è insuperabile maestro, l'uomo che ha la consapevolezza piena della
profondità della vita divina che porta in sé e che possiede l'anima sua con una
vigilanza austera perché niente di questa ricchezza vada disperso e la
percezione di Dio divenga sempre più frequente, più sentita ... Egli è l'uomo
che vive in attesa della visita del suo Signore, tiene l'anima raccolta
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nel desiderio ... fino a che non piaccia a Dio di comunicargli, attraverso una di
quelle esperienze mistiche, intraducibili nel linguaggio umano, la soavità della
sua presenza, l'ebbrezza del possesso ...» (pag. 196-197).
La Cabitza amò Benedetto come "vir Dei": «Superando le forme, ella scrive,
egli andò alla radice della vita cristiana, ai valori essenziali, e nel rapporto di
dipendenza dell'uomo dal Creatore scoprì le ragioni supreme dell'esistenza
che solo raggiunge il suo fine se vissuta in ordine a lui: con logica serrata egli
fu ... per tutta la vita il "vir Dei". S. Gregorio non avrebbe
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E furono proprio le monache del suo monastero la riprova più sicura, per la
M. Cabitza, della vitalità permanente della Regola e della spiritualità
benedettina per la crescita e la maturazione delle anime. La comunità che si
veniva formando dalla sua fede e dal suo zelo avanzava con lei nel cammino
monastico, cresceva con lei, insieme a lei scopriva nel proprio intimo, già
segnati dallo sguardo eterno di Dio, i tratti fondamentali del "padre", capaci
di dare luogo, se sviluppati nell'amore, a quel capolavoro di Dio che è un vero
monaco.
«Le piccole cellule sparse per la montagna (di Subiaco) e capaci di ospitare
una famiglia necessariamente ri-
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L'opera che ora esce nuovamente alle stampe in questa terza edizione
presenta dunque la vita di S. Benedetto e ne studia la spiritualità, ma insieme
descrive la fisionomia e le caratteristiche dei monasteri nati dall'intuizione e
dalla paternità di Benedetto. Rivela anche, sia pure tra le righe, la vita di
quell'Abbazia che da più di dodici secoli ha avuta il suo inizio sulle rive
dell'Arno, da quasi cinquant'anni ha ritrovato la sua giovinezza ad opera della
Madre Cabitza e che ancora nella sua grande comunità porta avanti con
amore e fede il carisma di questa illuminata figlia di S. Benedetto.
Roma, 11-7-1988
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19
CAPITOLO I
Tutta luminosa di sole, sul colle che domina la vasta pianura nella quale come
su un immenso scacchiere il verde, alternandosi in riquadri delle più svariate
tonalità, sfoggia tutta la sua magnificenza, Norcia si apre ospitale a chi con
cuore devoto verso il suo figlio più grande, Benedetto, venga a cercarvi le
memorie di un passato che l'anima vorrebbe ricostruire sino nei minimi
particolari. E, quasi a compenso della inevitabile delusione per la mancanza
assoluta di ricordi monumentali che presentino serie garanzie di autenticità,
offre le glorie della sua storia, e le sue devote tradizioni tenacemente
intrecciate alla leggenda. -
Bisogna quindi che ci contentiamo di sapere che questa cittadina ridente sotto
l'incanto del cielo umbro, era in passato una grande e potente città, gelosa
della sua indipendenza, difesa da una robusta cinta di mura con trentadue
torri, fiera della sua autonomia che Roma stessa volle rispettare, e nemmeno i
barbari, con Odoacre e Teodorico, intaccarono.
20
più intimo, sappiamo però che questa antichissima città della Sabina fu, nei
suoi tempi migliori, un centro popoloso, divisa in otto rioni, ognuno dei quali
aveva la sua porta, la sua piazza, la sua fontana.
Una delle donne di questa città, la cui austera fierezza era proverbiale,
Vespasia Polla, fu madre dell'imperatore Vespasiano, ed è caratteristico il
fatto che altre due sue concittadine, Plauzia e Plotina, furono rispettivamente
scelte in spose dagli imperatori Claudio e Traiano: razza regale più per i valori
spirituali che per nobiltà di sangue, e dalla quale è uscito il grande e
sventurato generale Sertorio.
Questi umbri che Cicerone non esita a definire «severissimi homines»
(uomini austerissimi), sembrano custodire con amore geloso i costumi e
l'anima di Roma, della quale a stento si sarebbero potuti ricostituire i
lineamenti dal viso sfigurato della società decadente che nella capitale
dell'Impero si sentiva grande solo per le glorie del passato.
La vita che si conduceva a Norcia sul finire del V secolo non offre elementi di
particolare rilievo: la città, così in disparte dalle grandi vie di comunicazione,
protetta dalle giogaie dell'Appennino, sull'altipiano che guarda la valle giù a
basso, era, per la sua posizione naturale, in condizioni privilegiate per
difendersi e mantenersi immune dalla decadenza morale che avviliva la stessa
Roma. Possiamo pensare tutta la sua
21
Così pure nel campo civile una sana nobiltà, cosciente del proprio compito
sociale, assicurava il buon governo del popolo fornendo i magistrati, senatori
e curiali, austeri custodi delle leggi e delle tradizioni patrie.
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chiesa di Santa Scolastica viene indicata la località che sarebbe stata occupata
dal palazzo dei Reguardati.
Siamo invece indotti a pensare che per Benedetto si fossero fatti ben altri
piani: intorno a quel figliuolo il cuore dei genitori, che è uguale in tutti i
tempi, avrà intrecciato i suoi sogni di grandezza. L'avvenire potrebbe - chi sa?
- trarre il suo nome dall'ombra, aprirgli una via tra le dignità che tengono in
pugno le sorti dei popoli, senza che fosse condannato a intristire nella
monotonia scolorita della vita provinciale: bisognava dargli una cultura
completa.
23
Fu certo un salto brusco questo passaggio dalla vita raccolta della famiglia,
dall'ambiente religiosamente e moralmente sano di Norcia, alla tumultuosa
vita di Roma, e ci pare di indovinare la trepidazione di un cuore di mamma, di
una buona mamma provinciale, nella determinazione di mandare in città il
ragazzo accompagnato dalla sua nutrice.
La presenza di questa devota creatura che in genere nelle famiglie romane era
circondata di venerazione e di affetto, come una seconda madre, avrebbe fatto
sì che si sentisse meno solo, che fosse meglio curato, che avesse sempre con sé
un più caldo riflesso di tenerezza della famiglia lontana. Benedetto doveva
esser legato da una particolare intimità con questa donna capace di
comprenderlo e di sostenerlo nella crisi più delicata della sua vita spirituale,
ma essa sfugge completamente alle nostre ricerche, e di lei non abbiamo se
non il nome assegnatole dalla tradizione o meglio, dalla leggenda, che volle
chiamarla Cirilla.
La sua missione al fianco del giovane studente non era certo quella di
custodirlo e vigilarlo come avrebbe potuto fare con un fanciullo: l'usanza
comune era allora di assegnare ai giovani, come guida e custode, un
precettore. Orazio stesso, pur di origine abbastanza modesta, poteva vantarsi
di essere stato mandato dalle cure paterne alla capitale col suo precettore.
Sarebbe ingenuo pensare, sul finire del V secolo e per tutto il VI, a una Roma
devastata dai barbari, ridotta a un cumulo di rovine informi dalla violenza
degli invasori: diversi scrittori contemporanei, attraverso le loro opere, o, ciò
che ci dà ancora maggior garanzia di sincerità attraverso il loro epistolario, ci
presentano il quadro grandioso di una città che conservava tutto il suo
splendore, e che pulsava di vita intensa e rumorosa.
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«Egli parla con evidenza straordinaria, quando descrive gli acquedotti i quali
pur sempre da ogni parte conducevano in città fragorosi torrenti sopra i loro
archi giganteschi e massicci. Ci addita le fontane pubbliche ancora intatte, che
spandono frescura e rallegrano l'aspetto della città; quelle grandiose
naumachie che formavano dei mari entro le mura urbane; poi le terme ancora
messe con grande lusso; il circo Massimo con i suoi due obelischi ivi sorgenti
e l'ornamento edilizio più svariato; finalmente la "Sacra via" che passa sul
Foro con gli antichi e già cadenti elefanti di bronzo» 2.
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2 GRISAR, Roma alla fine del mondo antico, vol. I, pag. 114.
25
Aveva ragione il santo monaco Fulgenzio, che più tardi sarebbe stato vescovo
di Ruspe, quando, giungendo a Roma, dalla sua Africa, davanti a tante
meraviglie non poteva contenersi dall'esclamare: «Se tale è lo splendore della
Roma terrena, nella maestà dei suoi monumenti, quale sarà la bellezza della
Gerusalemme celeste!».
Temistio non esita a definire Roma «un mare di bellezza che si sottrae ad ogni
descrizione». Nè, tra i monumenti classici che riflettevano una vita ancora
paganeggiante nonostante il trionfo ufficiale del Cristianesimo, mancavano
grandiosi edifici destinati al culto cristiano; «essi non furono qualcosa di
singolare e nuovo affatto, ma per così dire nacquero organicamente colle
forme loro proprie» essendo in massima parte derivate da un adattamento
alle esigenze religiose di antichi palazzi offerti a servizio della comunità
cristiana da nobili famiglie che ne fecero dono alla Chiesa, e «con la loro
sontuosa presenza e grandiosità presero armonicamente il loro posto fra gli
edifici classici circostanti della cit-tà». Quasi tutte le quattordici «regioni» di
Roma possedevano già allora le loro basiliche, i «titoli» o chiese parrocchiali
alle quali si erano aggiunte cappelle e pubblici oratori, più quelle «diacohie»
che erano focolari di carità aperti a tutte le miserie. Fuori della cinta delle
mura, sulle grandi vie di comunicazione altre basiliche, e non tra le meno
importanti, erano sorte sul sepolcro
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dei martiri insigni, tappe di fede e di gloria per gli uomini pellegrini del cielo.
Il contrasto, per il giovane provinciale che dalla sua città tranquilla scendeva
per la prima volta a contatto con questo mondo di meraviglie dal frastuono
assordante, fu certo profondo.
Benché una tarda tradizione, che non può vantare motivi seri di attendibilità,
voglia fissarne la dimora in Trastevere, nei pressi della basilica di Santa
Cecilia, in realtà noi non sappiamo dove Benedetto abbia abitato, con la
nutrice, durante il soggiorno romano.
Ancor oggi la pietà dei fedeli ama venerarlo nella chiesa di San Benedetto «in
Piscinula», dove addirittura si mostra la stanza che egli avrebbe santificato
con la sua presenza; questa dimora sarebbe poi stata destinata a uso sacro: lo
stesso Mabillon si lasciò affascinare da tale ipotesi che sembrava confermata
dai ruderi di un grandioso edificio che egli poté vedere con i propri occhi e che
sarebbero stati gli avanzi del palazzo paterno di Benedetto. Altri uomini
grandi, accogliendo la tradizione, vennero ad alimentare la loro pietà nella
piccola chiesa, ritenendo custodisse la memoria sicura del Santo adolescente;
in sé la cosa non è assurda, ma, come niente ci impone di escluderla, così
nessun dato sicuro può incoraggiarci a ritenerla certa.
27
Di tanto in tanto la folla si apre per lasciare il passo a una lettiga di squisito
lavoro, sulla quale qualche senatore togato si fa trasportare alla Curia dove le
adunanze si svolgono con tutta la solennità dei tempi aurei di Roma.
Del resto, la foggia stessa del vestire rimane fondamentalmente fedele a quelle
dell'antichità, e il contatto con Bisanzio, che non è riuscito a corromperne gli
elementi tradizionali vale solo ad accentuarne la lussuosità non lesinando la
porpora e l'oro.
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«Se tanto sfarzo e onore circonda già i mortali, quale gloria toccherà un
giorno in sorte nel regno celeste agli eletti che per amore di Cristo e della sua
Chiesa hanno disprezzato le glorie di questo mondo!» esclamava Fulgenzio di
Ruspe in questa occasione, non riuscendo a trattenere l'impeto del suo
entusiasmo di uomo semplice, rapito dall'ammirazione di tante meraviglie.
Niente ci lascia supporre che Benedetto abbia anche per poco ceduto
all'incanto di quella festa perpetua che narcotizzava l'agonia morale di un
popolo che aveva conosciuto la vera grandezza; siamo piuttosto indotti a
pensare che il contrasto si manifestasse stridente, tra la sua anima raccolta e
meditativa e quel violento esteriorizzarsi di sentimenti che si esauriva in un
tumulto irrequieto e senza fine.
Compito arduo, quello di ricondurre al senso della propria dignità e alla stima
dei valori morali le masse avvilite, alle quali non arrida più un ideale
superiore; la scuola avrebbe dovuto preparare gli uomini all'altezza di questa
missione, ma anch'essa inevitabilmente risentiva delle condizioni generali di
vita.
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più quelle dell'età aurea dell'Impero, non perché ne fosse ridotto il numero o
sminuita la dignità, ché anzi Teodorico si adoperava in ogni modo alla
diffusione della cultura, ma perché erano venute meno alla loro funzione
essenziale di plasmare degli uomini ai grandi e forti ideali di vita civica e
morale.
Bisogna riconoscere che non mancavano del tutto, anche in quell'epoca, degli
uomini grandi che con genio e originalità coltivavano gli studi: Boezio e
Cassiodoro ne sono gli esponenti principali se non gli unici, ma essi
rappresentano l'eccezione, sono un fenomeno isolato, non la scuola. Qui
l'importanza preponderante era data all'insegnamento della retorica, secondo
un dato comune a tutte le epoche di decadenza, quando né grandi passioni né
nobili aspirazioni suscitavano lavori di creazione; appariva sufficiente, alla
cultura di questa società mezzo imbarbarita, lo studio dei classici, letti e
commentati con interesse assai vivo, di Virgilio specialmente, che Ruffino
rimproverava a san Girolamo di esporre ai suoi ragazzi nel monastero di
Betleem, insieme con gli altri «autori comici, lirici e storici».
Prestare una lingua elegante all'adulazione per comporre un panegirico ben
connesso poteva già apparire un risultato soddisfacente per i maestri e per gli
scolari.
In una città come Roma, dove san Girolamo trova anche tra il clero degli
elementi tutt'altro che edificanti e di una mondanità che oggi stentiamo a
concepire, e dove Ammiano Marcellino ci attesta che, in tempo di carestia,
dovendosi allontanare da Roma quanti non fossero strettamente necessari,
furono però lasciati indisturbati gli istrioni e non meno di seimila tra ballerine
e cantanti, si può ben capire come la condotta morale degli studenti non
dovesse offrire garanzie di serietà e di morigeratezza.
L'immoralità dilagava del resto senza alcun ritegno, e penetrava nella scuola
stessa, se dobbiamo credere alla testimonianza di sant'Agostino il quale
afferma che «i ragazzi sono costretti dagli anziani a leggere e a imparare, pur
tra gli studi che si dicono nobili e liberali», le turpi produzioni di un teatro che
non conosceva più alcun ritegno di moralità.
Proprio nel IV-V secolo ne aveva fatto l'esperienza tutt'altro che lieta lo stesso
sant'Agostino, quando, illudendosi di trovare una scolaresca più composta,
era partito dall'Africa per venirsene a Roma, e poi da Roma aveva dovuto
emigrare a Milano, per concludere con un rassegnato adattarsi a quella
miseria dei tempi.
Tutto questo non equivale a dire che non si studiasse: sarebbe esagerato e
ingiusto l'affermarlo, e ne dà una smentita il grado stesso di maturità
intellettuale
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Questo l'ambiente col quale venne a trovarsi a contatto, nel periodo della sua
formazione culturale, lo studente umbro maturato nel silenzio della sua terra,
perfettamente cosciente del vero valore dell'esistenza: una maturità precoce,
un abito meditativo che faceva contrasto con la sua giovinezza, lo spingevano
come per istinto a scoprire l'essenza vera di quella vita che si fasciava
d'orpello per nascondere la sua miseria.
Non gli dovette essere ignota la tristezza profonda che ogni anima grande
prova dinanzi alla prodigalità incosciente con la quale si fa getto, con la più
sfrenata spensieratezza, degli anni più belli, più ricchi di energie: la sensualità
divenuta norma e fine dell'esistenza, anziché sedurlo, creava in lui ripugnanza
e disgusto, accentuando il senso di fierezza e di rettitudine morale che era la
sacra eredità della sua gente.
Davanti al dramma di una civiltà che agonizza e sta per essere sommersa dalla
barbarie, come non sentire lo sgomento per la leggerezza, l'incoscienza di
uomini che, avendo un destino di gloria immortale, si abbrutiscono nel vizio,
contenti di rompere la monotonia delle loro giornate distraendosi tra mimi e
ballerine, o appassionandosi alle gare del Circo, come bimbi spensierati ai
quali arrida la vita? L'atmosfera greve del vizio si insinuava dappertutto, e per
la sua ripugnanza al male, per la purezza della sua animà, Benedetto doveva
32
A confronto del problema urgente di una vita ordinata a un fine supremo che
trascende il tempo e la contingenza delle vicissitudini umane, e che anche nei
suoi riguardi puramente terreni ha un valore incommensurabile, che vale
spendere giorni e mesi sulle facezie di dubbio buon gusto dei poeti comici, o
intenerirsi sulle vicende sentimentali di Tibullo, di Catullo, di tutti i classici
dell'amore umano, elevato a motivo quasi unico di ispirazione e di arte?
Ha ragione san Gregorio di dirci di lui che «despexit quasi aridum mundum
cum flore» disprezzò il mondo in fiore quasi fosse inaridito: senza violenza,
senza amarezza, e giudicò il piacere povero fiore avvizzito già nell'atto in cui si
coglie.
33
Morto il pontefice Anastasio II, all'elezione del suo successore, designato nella
persona di Simmaco, per la opposizione di una minoranza determinata da
motivi politici e guadagnata col denaro, Roma ebbe, il 22 novembre 498, lo
strano spettacolo di un Papa e di un Antipapa che nello stesso giorno
ricevevano la consacrazione episcopale, al Laterano il Papa legittimo, nella
chiesa di Santa Maria Maggiore il suo competitore Lorenzo.
La comunità cristiana della città si trovò così divisa in due partiti in attesa che
il re Teodorico, presso il quale ognuno dei due contendenti si era recato per
far prevalere le sue ragioni, decidesse quale delle due elezioni dovesse
ritenersi legittima.
Teodorico si pronunziò in favore della parte che aveva avuto maggior numero
di voti, e Simmaco poté ritenersi ormai sicuro, rientrando in Roma, che tutto
fosse finito, tanto più che al suo avversario, dopo che si fu sottomesso alla
decisione del re, era stata assegnata la sede vescovile di Nocera in Campania.
Si era invece appena all'inizio dei mali. I fautori di Lorenzo, capeggiati dal
senatore Festo che non intendeva rassegnarsi al fallimento del suo candidato,
poco più di un anno dopo accusarono a Teodorico papa Simmaco come reo di
gravi infrazioni alle tradizioni liturgiche nella celebrazione della Pasqua, e,
peggio ancora, di gravi colpe nella sua vita privata e di alienazione illegittima
di beni ecclesiastici.
Il re, che, come nota bene il Grisar «nel diritto canonico non' era così esperto
come nelle armi e nella politica», visto che il Pontefice non aveva accettato di
essere giudicato alla Corte di Ravenna, pensò di far bene mandando a Roma il
vescovo Pietro d'Altino, come visitatore vescovile, per eseguire un'inchiesta
rigorosa sulla realtà e l'entità delle accuse lanciate contro di lui.
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Dopo aver sbagliato una prima volta, Teodorico era troppo abile diplomatico
per ricadere una seconda volta nello stesso errore, e dopo aver dichiarato che
non toccava a lui, laico, di legiferare in materia religiosa, insistette perché
invece giungesse a una conclusione il Concilio, il quale a sua volta comunicava
al sovrano «essere cosa inaudita e senza esempio che il Sommo sacerdote di
quella sede fosse citato e interrogato in giudizio ».
35
del 501 e che abbassava la suprema autorità spirituale alla stregua di tutte le
miserabili ambizioni terrene.
36
La stessa vita di pietà dei semplici fedeli doveva rimanere mortificata davanti
allo spettacolo poco edificante di un clero mondano e scisso in partigianerie
rissose, che portava i suoi antagonismi fin dentro il Santuario, sulle tombe
sacre dei martiri, divenute cittadelle di resistenza in un'atmosfera fremente di
odi e di passioni, alle quali non si sottraevano nemmeno i monaci che
vedevano anch'essi impigliata la loro vita nei limiti angusti delle contese
terrene.
Ben diverso, certo, il clero che aveva imparato a conoscere nell'infanzia e nella
sua prima giovinezza; e che profumo di purezza, che limpidità di rapporti con
Dio, con le creature stesse, negli episodi meravigliosi attraverso i quali
splendeva luminoso l'umile eroismo quotidiano dei monaci che popolavano i
dintorni di Norcia!
37
Vangelo, e quell'altro che avrebbe voluto sotto il santo segno della croce
giustificare le sue deviazioni, egli si isolò quasi istintivamente.
Prima che le esperienze umane nel succedersi degli anni avessero compiuto la
loro opera di sgretolamento delle illusioni giovanili, la luce dello Spirito al
quale teneva aperta la sua anima, gli scoprì la vanità profonda di tutto
quell'affaccendarsi, quel lottare, quel macchiarsi le mani di sangue: perché, se
tutto deve poi dileguare come un'ombra?
Alla sua anima profondamente seria si imponeva con una specie di necessità
la decisione della scelta tra la città di Dio e la città di Satana; tra l'accettazione
a quel compromesso di vita cristiana nel quale cozzavano gli interessi più
disparati, o l'eroica fedeltà a una attuazione integrale della vita evangelica,
vissuta senza mezzi termini, fino alle conclusioni estreme.
Non sappiamo quanto sia durato questo periodo travaglio intimo, certo
prevalsero i diritti dello spirito. Benedetto non era fatto per le accomodanti
transazioni. In una società nella quale norma suprema del vivere appariva il
godimento e l'ambizione, egli sarebbe sta il «Vir Dei» (l'uomo di Dio), nel
senso assoluto esclusivo della parola.
38
II. Affile
Sarebbe stato uno dei pochi che credono al Vangelo di Cristo con assoluta
coerenza tra la loro vita e la loro fede: ma quali le vie da percorrere?
Una vita cristiana che splenda nel mondo senza lasciarsene contaminare ha
certo una sua dignità e una sua bellezza, ed egli avrebbe potuto viverla non
immischiandosi alle follie di una società depravata, magari tornando alle sue
montagne per condurvi la stessa esistenza serena dei suoi antenati.
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dei parenti che avevano avuto per lui ben altre ambizioni e che, con ogni
probabilità, non avrebbero del tutto compreso la sua risoluzione, senza dir
nulla della piccola società nursina che, per quanto diversa da quella di Roma,
sarebbe stata pronta a riprenderlo tra le sue reti imponendogli delle esigenze
alle quali era assolutamente deciso a sottrarsi.
Non era agevole determinarsi a una scelta qualunque quando l'anima vibrava
tutta come a un segreto richiamo verso l'alto, al disopra di tutti i concilianti
adattamenti ai quali si era piegato anche l'ideale monastico, nello sforzo di
acclimatarsi all'ambiente romano. Ora una cosa soprattutto si imponeva a lui
come necessaria: il silenzio.
Aveva bisogno di tacere, di raccogliersi, per percepire in maniera più distinta
la voce di Dio che dopo averlo già spiritualmente segregato dalla società nella
quale si sentiva ormai un estraneo, avrebbe dovuto indicargli le mete alle
quali un misterioso richiamo lo attirava; ma non era certo Roma che poteva
offrirgli questo rifugio di raccoglimento nella continua dispersione di energie
interiori che le sue esigenze creavano, né, per altri motivi, poteva pensare di
trovarlo a Norcia.
Eppure il comando di Dio era netto; bisognava che fuggisse, isolandosi anche
materialmente da un mondo troppo noto, che spezzasse tutti i legami per
trovare nella piena libertà dello spirito la sua via, il solco tracciato alla sua
esistenza dall'Amore eterno.
40
ragione che per altri avrebbe potuto avere un suo peso non indifferente, a lui
appariva insignificante, dato che quel po' di erudizione classica che i retori
romani avevano ancora da vendergli non valeva per la vita eterna, ma poteva
anzi creare nuovi intralci alla sua anima impaziente di liberazione.
Il suo cuore era soggiogato dallo sguardo divino che creava in lui necessità
sempre più profonde, e a quella luce la scuola gli appariva sempre più
meschina, povera istituzione senz'anima, buona solo a ritardare il suo
cammino: meglio abbandonarne i corsi incompiuti per dedicarsi a quello
studio della verità nel quale l'unico maestro è lo Spirito, e le creature non ne
sono che lo strumento sensibile. E non frequentò più la scuola.
41
Forse questa donna fidata, che amandolo come una madre lo aveva
accompagnato in città, nella sua fede robusta di popolana di buon senso,
aveva intuito qualche cosa della crisi spirituale del giovane e, pregando con
trepidazione, aveva vegliato su di lui in quegli anni difficili; ne ricevette certo
la confidenza più intima, quella della sua vocazione che non contrastò,
riuscendo anzi a farsi accettare come compagna della nuova vita dal figliuolo
adottivo che il suo cuore semplice, è probabile, presentisse chiamato a grandi
cose.
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Benedetto e la sua nutrice si fermarono in questo piccolo paese che, per essere
arrampicato tra i monti, quasi a 700 metri di altezza, non perciò era del tutto
oscuro, ché anzi poteva vantare una sua storia e una vita religiosa e civile
sufficientemente evoluta.
Ci dà però la certezza che il giovane venne ricevuto con viva cordialità dalle
persone più influenti del paese e che gli fu offerta generosamente la facoltà di
sistemarsi con la domestica nella foresteria annessa alla chiesa di San Pietro;
cose tutte che si spiegano male se si vuole insistere sull'opinione di un arrivo
fortuito ad Affile sotto la veste di un oscuro vi andante sconosciuto e di una
vecchia donna, ai quali capiremmo bene venisse concessa ospitalità per
qualche giorno, ma che non vedremmo il motivo di trattenere con tanta
insistenza. Poiché il soggiorno di Benedetto ad Affile fu tutt'altro che breve, e
non ha il carattere di una permanenza
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accidentale presso ospiti cortesi, come giustificare tutto questo se egli non
avesse avuto nessuna relazione precedente con qualcuno del paese?
Cosa precisamente facesse in quel periodo di tempo non sappiamo, nè è facile
indovinarlo; l'unica notizia certa è che aveva organizzato la sua vita
modestissima presso la chiesa di San Pietro dove la nutrice provvedeva a tutte
le sue necessità pratiche, addossandosi il peso delle preoccupazioni materiali
per lasciare a lui piena libertà di attendere alle cose di Dio.
Nel tranquillo ritiro di quell'angolo di terra tagliato fuori dalle grandi strade,
dove molti elementi gli facevano rivivere più intenso il ricordo della sua
Norcia, Benedetto poté approfondire il mistero della propria vita spirituale,
questo miracolo ininterrotto della grazia che di una povera creatura fa un
figlio di Dio eletto a una eternità di gloria, e che a ogni uomo, per virtù di
Spirito Santo, dà di poter gridare al suo Creatore: «Abba! Padre».
Nel commercio intimo con Dio la sua pietà si dilatava, assumeva nuovi
aspetti, raggiungeva insospettate profondità. È inutile tentare di scoprire per
quanto tempo si sia prolungato questo soggiorno ad Affile che apre il campo a
tutte le ipotesi, ma intorno al quale la storia tace; così come dell'azione divina
sull'anima di questo giovane assetato di perfezione nessun indizio ci è
rimasto, a prescindere dall'episodio conclusivo che segna già una fase
culminante nello sviluppo della vita interiore.
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Tra questi due estremi che possono aver racchiuso un periodo di tempo non
eccessivamente lungo, si pone una realtà essenziale: Benedetto si è dato a Dio,
e di questo servo fedele sempre teso in ascolto, sempre docile a eseguire la
parola accolta nel cuore, il Signore ha fatto un amico, un santo; il modo, è il
segreto divino; che vale analizzarne le operazioni con le nostre indagini
curiose?
Dato il carattere provvisorio della sistemazione dei due ospiti romani nei
locali messi a loro disposizione presso la chiesa di San Pietro, non c'è da
stupirsi che molte cose facessero loro difetto in fatto di stoviglie e di utensili
indispensabili; la loro posizione era assai di-versa da quella di un forestiero di
passaggio, che, dopo una buona notte di sonno e il ristoro necessario
offertogli dalla carità dei paesani, riprende il suo cammino, senza troppe
esigenze.
Che anzi questo soggiorno ad Affile non dovesse esser troppo breve lo dice il
fatto che la buona nutrice dovette preoccuparsi di fare il pane, rimediando
alla meglio col chiedere in prestito da qualche vicina di buona volontà quanto
le fosse necessario: un buon vaglio di terracotta, anzitutto, per vagliare il
grano. E senza dubbio la vicina compiacente avrà avuto le più ampie
assicurazioni che, appena ultimata la faccenda, il suo arnese le sarebbe stato
restituito senza ritardo.
Ma accade spesso a questo mondo quello che non si desidera, e così avvenne
che il vaglio, posato forse un po' distrattamente sul tavolo, per una mossa
brusca, andò a finir per terra e andò in pezzi.
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Cose che capitano, si sa, e non ci pare fosse il caso di drammatizzare la scena,
pur riconoscendo che questo contrattempo, per le circostanze che lo
accompagnavano, poteva riuscire imbarazzante; ma ci sono degli stati
d'animo nei quali un nonnulla basta a sconvolgerci, e fu proprio quel che
accadde alla povera nutrice che, nonostante il suo gran cuore, era ben lontana
dalla statura spirituale di Benedetto.
Nel suo turbamento non la finiva di piangere, e ci è lecito pensare che non
siano state lacrime del tutto silenziose.
Ogni volta che la sua anima, nell'orazione, entrava in contatto attuale con Dio,
l'esperienza della divina presenza era in lui così sentita, così penetrante, che
ne vibrava tutto fino a non poter contenere le lacrime, e il
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suo pianto era atto di adorazione, grido di umiltà, abbandono d'amore nelle
mani del Padre che sta nei cieli.
Al termine di quella preghiera, il vaglio, posato a terra vicino a lui, era tornato
perfettamente sano, senza la più lieve incrinatura che potesse lasciar supporre
la disavventura di poc'anzi.
Quell'episodio doveva segnare una svolta decisiva nella vita di Benedetto; tutti
parlavano di lui come di un santo, lo volevano vedere, averne una parola di
conforto, supplicarlo che intercedesse per i bisogni più svariati.
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L'unico che nella vicenda si reputasse tutt'altro che fortunato era proprio
Benedetto che vedeva radicalmente capovolto il suo tenore di vita; non più
solitudine, non più oscuro ritiro tra gente semplice che gli aveva voluto bene
alla buona, con rude schiettezza, lasciandogli piena libertà di dedicarsi alla
preghiera, ignorato da tutti. D'un tratto la fama, nella sua forma più
seducente e pericolosa, lo avvolgeva, lo rendeva oggetto di venerazione per
quelle creature che, abbagliate dalla luce del miracolo, non gli nascondevano
la propria ammirazione; non era questo davvero che egli aveva cercato
lasciando Roma.
Il ritiro di Affile non lo custodiva più, non era più sufficiente per lui, che
invece sentiva aumentare di intensità, sempre più distinta, fino a divenire
ormai irresistibile, la voce interiore che lo chiamava alla solitudine assoluta, al
silenzio più profondo dove poter attendere unicamente a Dio; l'entusiasmo
che lo circondava era ancora la vanità, l'approvazione del mondo che un soffio
disperde, che può dare un istante di dolcezza alla natura, ma che fa poi sentire
più amaro il vuoto della anima se questa ha invece bisogno di vivere nella
verità, vincendo il male, operando il bene, faticosamente, fino a divenir
capace del possesso pieno di Dio.
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luce, fino a che non riuscì a distinguere in quell'incidente del vaglio una
chiara indicazione della Provvidenza, verso quella che gli appariva ora come la
sua vera vocazione: doveva essere monaco, l'uomo dell'unità, nella sua vita
intima, nei rapporti con Dio, il solitario, nella segregazione completa dal
mondo.
divideva con lui tutto il disagio di quella povera vita tanto diversa da quella
alla quale era ormai avvezza, l'ammirazione sommessa e contenuta dapprima,
e ora apertamente entusiasta, dei devoti popolani di Affile, tutto un insieme di
piccole, caste soddisfazioni del cuore e dell'anima dovevano diventare materia
di sacrificio, nell'offerta totale: certo, creature care ne avrebbero sofferto, ed
egli pure, ma bisognava, con un taglio netto, farla finita col passato,
scomparire d'un tratto, far perdere le sue tracce, cosi che nessuno potesse
raggiungerlo nella solitudine alla quale Dio lo invitava per comunicarsi al suo
cuore.
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III. LO SPECO
Uscito da Affile, neanche a dieci chilometri dal paese che aveva abbandonato,
Benedetto dovette imbattersi nel ponte grandioso dal quale erano congiunte
le due sponde dell'Aniene, e che gli apriva la via alla salita del monte Taleo.
Davanti al suo sguardo, gli edifici ancora grandiosi della deliziosa villa di
Nerone, da lungo tempo ormai disabitata, rispecchiavano la loro massa, non
priva di bellezza nonostante lo squallore dell'abbandono, nelle acque del lago
dove l'imperatore Claudio aveva imprigionato l'Aniene, tra le macchie cupe
dei boschi e le balze pietrose spalancate sotto il cielo.
San Gregorio esagera un po', quando ci parla di «deserto», o meglio noi non
dobbiamo essere troppo pedanti nell'ostinarci a voler rivestire quella parola
con tutti i caratteri di una solitudine sconfinata, inaccessibile:
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Il ritiro di Affile aveva maturato gli elementi ancora informi che già lo
avevano spinto ad abbandonare Roma: rinunzia a ogni bene materiale, alle
dolcezze degli affetti stessi del cuore, superamento della natura col dominio
coraggioso delle passioni, liberazione dell'anima dalle incrostazioni residuate
dal peccato, dal rumore che dissipa e divide lo spirito, per vivere di ogni
parola che viene da Dio.
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Era già ormai uno dei pochi per i quali il godimento della bellezza, superando
le cose sensibili, si raccoglie nei beni superiori; svuotato del suo fascino tutto
ciò che è esteriore, sottratto l'alimento alla fiamma dei sensi, si disponeva a
offrire al Signore, nel segreto di una inviolabile intimità, il sacrificio interiore
d'amore e di desiderio che, bruciando come un rogo, avrebbe dovuto
consumare ogni scoria terrena.
La solitudine doveva custodire intanto la sua attesa, poiché Dio che ha modi
misteriosi di unione con i cuori puri, ha promesso di introdurre «alla sua
cena» intimo come l'amico all'amico, lo sposo alla sposa, le anime che al suo
venire troverà vigilanti, con le lampade splendenti rifornite dell'olio di ogni
virtù, protese a Lui in un'attesa che è il richiamo più potente della creatura al
Padre col quale anela di ricongiungersi.
In alto, quasi sulla vetta del monte, tutto solitario, appena raggiungibile con lo
sguardo, il monastero dell'Abate Deodato segnava il posto più avanzato per le
creature in ascesa verso il cielo.
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Camminava sempre tra le rocce, perdendosi nel labirinto delle macchie tra le
quali nessuno si era mai curato di aprire un sentiero, quando, d'un tratto, si
trovò faccia a faccia con un monaco del soprastante monastero.
L'anima del monaco, addestrata alle rudi lotte dello spirito, affinata e
arricchita nella sua potenza di comprensione soprannaturale per l'assiduo
commercio con Dio, accolse le aspirazioni più intime di questo giovane che si
rivelava subito, dalle maniere distinte, poco assuefatto alla montagna, e che,
per una di quelle intuizioni di corrispondenza spirituale non rare nel mondo
della grazia, sentendo di esser compreso, gli scopriva la sua aspirazione più
profonda.
L'anelito alla solitudine, che Benedetto gli confidava, non era tale da stupire il
monaco Romano, uomo maturo, giunto alla pienezza della sua esperienza
monastica, il quale, dopo aver ascoltato a lungo, provò la certezza di non
trovarsi di fronte a una esuberanza di ideale giovanile, ma a una seria,
autentica vocazione, per la quale quell'anima provava la stessa irrequietezza
vigorosa che urge le acque troppo a lungo contenute, nello sforzo di aprirsi
una via.
San Girolamo, nel suo veemente lirismo, non aveva esitato a cantarne la
bellezza:
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«Che fai nel secolo, o fratello, tu che sei più grande del mondo? Sino a quando
ti opprimerà l'ombra dei tetti? Sino a quando ti imprigionerà il carcere
affumicato di queste città?
Mi è di gioia, rigettato il peso del corpo, volare al puro fulgore del cielo.
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Solo con un difficile cammino si giungeva sotto la roccia sulla quale era
costruito il monastero dell'Abate Deodato; lì, nel fianco della montagna che
sotto di essa scendeva a picco, si addentrava una grotta, aperta sulle
profondità del cielo, verso l'alto, mentre di faccia l'orizzonte era chiuso da
monti cupi che limitavano il paesaggio, e a basso, nella valle, solo il
gorgogliare dell'Aniene imprimeva al luogo una vigorosa pulsazione di vita.
Raggiungendo quella grotta, Benedetto poteva sentirsi in verità ormai isolato,
segregato dal mondo, nella attuazione piena di quella vita nascosta con Cristo
in Dio che a lui appariva l'esigenza suprema del suo spirito.
________________________
1 Specie di vestito fatto di pelli d'agnello o di altro animale, usato dagli antichi
eremiti.
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Fargli giungere quel pane era un'impresa tutt'altro che facile; intanto
bisognava spiare il momento opportuno per sfuggire allo sguardo vigile
dell'abate Deodato e alla curiosità dei fratelli, poi, come arrivare a quel nido
d'aquila al quale dal monastero nessun sentiero poteva condurre? Ma la carità
è ingegnosa, e ben presto Romano ebbe tutto organizzato: nei giorni stabiliti,
sporgendosi sulla roccia che sovrastava la grotta, lasciava scivolar giù una
lunghissima fune alla quale era sospeso il cestello della refezione e un
campanello destinato ad avvertire l'eremita che il suo povero cibo era
arrivato.
A Subiaco, nel santuario del Sacro Speco, si mostra anche oggi, conforme a
una pia tradizione, il prezioso campanello infranto dal diavolo.
Per tre anni interi, nel suo antro scuro, o tra le macchie che inselvatichivano lì
intorno, Benedetto vide i giorni succedersi ai giorni, nel solleone estivo o nei
gelidi inverni che assideravano la terra, senza che mai nessun contatto umano
venisse a rompere la sua solitudine.
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Lui non sapeva. Che importa, del resto, all'uomo, scoprire in antecedenza i
disegni di Dio? Ciò che vale è lasciarsi forgiare dallo Spirito, in generosità di
fede, con la duttilità dell'amore che vince ogni resistenza della natura.
Benché non abbiamo che scarsissime notizie, per non dire quasi nulla, su
questo periodo della sua vita, pure non è difficile pensare come l'eremita
ventenne, nascosto «nel cavo della roccia» abbia vissuto quei tre anni;
segregandosi nello speco egli sapeva bene quale vasto programma si
proponesse di attuare.
La vita monastica non ancora regolata da una legge, nelle sue forme esterne,
aveva però, quanto a contenuto spirituale, i suoi canoni ben definiti, dei quali
una mirabile fioritura di anime sante offrivano, per dir così, un'attuazione
pratica di tale generosità da rasentare spesso l'eroismo; essa impegnava a un
lavoro tremendamente serio e che non ammetteva soste di facili riposi per lo
spirito.
E tutto questo già complesso lavoro interiore non era ancora se non l'aspetto
negativo, condizione preliminare che doveva permettere al monaco di elevarsi
fino a quello stato di «ininterrotta orazione» che nel nostro linguaggio
moderno chiameremmo lo «stato d'unione», con le sue intraducibili
esperienze di Dio presente e operante in noi.
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In questa corrente di vita spirituale, Benedetto entrava deciso; non tentava vie
nuove, voleva solo farsi discepolo di una tradizione che aveva avuto una
mirabile fioritura di santità.
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proiettavano sulla vita intima del giovane anacoreta, che acquistava occhi
illuminati per giudicare con ogni verità le cose del mondo, quelle che
appaiono realtà e non sono che miraggi vani.
Il tempo stesso non aveva più valore per Benedetto all'infuori che quello di un
necessario, normale succedersi di fenomeni: ora egli era ancorato all'Eterno,
alla luce senza vicissitudini d'ombra, al Signore per il quale i cieli stellati sono
un magnifico manto e le tempeste paurose annunzio di potenza e di maestà.
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lo ammette solo per coloro che, già esperti nell'arte spirituale e ben radicati
nella virtù, siano in grado, dopo il tirocinio cenobitico, di affrontare le ben più
temibili prove della solitudine.
A tutto ciò aggiungiamo che tanto più elevato è il grado di perfezione al quale
la creatura aspira, e tanto più intenso e profondo in corrispondenza, è il
lavoro di purificazione al quale deve essere sottoposta.
Dio stesso non cessa di martellarla con inesorabile misericordia, fino a che
non l'abbia temprata, forte come l'acciaio, strumento atto a opere grandi;
lascia perciò che acquisti la umiliante esperienza degli istinti meno nobili che
porta in sé, permette che la tentazione, sotto le forme più insinuanti, eserciti
su di essa il suo potere di suggestione, la getta in fondo al crogiuolo dei
contrasti violenti, e, pur sorreggendola con una grazia adeguata, non attenua
sensibilmente l'asprezza della lotta dalla quale l'anima uscirà più ricca di
virtù, più cosciente delle proprie possibilità di male e del valore dell'aiuto
divino.
61
Quel giorno la lettura dei libri santi gli era insipida, la preghiera gli appariva
quasi un arido meccanismo di frasi senz'animo, la volontà intorpidita
sembrava avesse attutito ogni slancio, addormentata da un leggero
fantasticare appena abbozzato, simile a uno stordimento vago; intorno al viso
gli svolazzava insistente un piccolo merlo, tanto basso che, senza alcuno
sforzo, avrebbe potuto prenderlo con la mano.
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Tracciò allora con fede viva un segno di croce, l'arma sicura per dissipare
l'insidia del nemico, e, istantaneamente, l'uccello importuno sparì; solo allora
Benedetto si rese ben conto di quel suo strano, insolito stato spirituale, e
comprendendo che era ingaggiata la lotta col tentatore, cercò di riprendere il
dominio di sé, di spezzare la rete di dolcezza nella quale i suoi ricordi lo
avevano avviluppato, ma d'improvviso questa lo riprese, stringendolo con
violenza ancora maggiore, in modo che non gli riuscì di districarsene.
Ora quella donna, affiorando dal passato gli stava davanti in tutta la
seduzione di una bellezza che appariva al giovane penitente logorato dai
digiuni ricca di un fascino irresistibile per il quale fremiti di passione lo
scotevano tutto, mentre tutta la sua esistenza gli appariva con un volto nuovo.
Per quale strana suggestione aveva rinunziato alla vita, alla lecita
soddisfazione di una famiglia sua, alle sane e sante gioie della casa, per
condannarsi a vivere giorni miserabili in quella tana oscura, segregato dal
consorzio umano, morto a ogni attività buona, mentre nelle sue vene sentiva
bollire rigogliosa la giovinezza?
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IV. ESPERIENZE
Erano passati tre anni, vissuti così, nella più perfetta solitudine; a noi
appaiono lunghi. Per Benedetto rappresentavano semplicemente un tempo,
appena scandito dai giorni e dai mesi, della vigilia d'attesa nella quale aveva
raccolto tutta la sua esistenza preparandosi all'incontro col Signore, quando
questi avesse voluto svelarsi a lui, che si nutriva di meditazione e di desiderio,
fino a che l'anima sua non fosse saziata, finalmente, nel gaudio della visione.
La vigilia poteva anche essere lunga; solo il sorgere del giorno dell'eternità ne
avrebbe segnato il termine.
Intanto era bello vivere sul margine estremo delle possibilità umane di
donazione senza altri limiti all'amore che quelli segnati dalla natura stessa,
lavorata come da fiamma viva, dal bisogno di piegare la carne alle esigenze
dello spirito, vincendone la pesantezza e l'opacità.
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Benedetto aveva voluto essere «Vir Dei» (l'uomo di Dio), che vive unicamente
per Lui, e se ne lascia possedere in maniera assoluta, con esclusione di ogni
altra creatura, e Dio, quando vedrà giunto a maturazione questo processo di
distacco dal creato attraverso la fede, la speranza, l'amore, e sentirà che
questa vita giovanile gli appartiene totalmente, ne farà il «Vir Dei» nel senso
dell'uomo del quale Egli può liberamente disporre, adoperandolo come
strumento docilissimo ad opere grandi.
Dei giorni che passano aveva perduto il computo: che valore avrebbe avuto il
contare i giorni della terra che nascono e muoiono, quando l'anima era
divorata dalla sete ardente di entrare nel regno ove «è pienezza di felicità il
possedere ciò che si ama» e dove «la vita beata si beve alla sua stessa
sorgente»?
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Il buon prete non aveva però preveduto quel che di fatto gli accadde, né mai
forse avrebbe osato sperare la sorte di essere favorito con una visione
soprannaturale; certo è che il Signore volle manifestarsi proprio a lui, e gli
fece udire delle parole quasi severe:
«Tu qui ti preparavi a godere un buon pranzo, e il mio servo in quel luogo è
tormentato dalla fame».
Addio, sereno pranzo pasquale, e atteso riposo dopo le fatiche della notte! Alla
voce di Dio non si può resistere, essa si impone all'anima e la stimola,
implacabile.
D'altra parte il prete di Monte Preclaro era un buon servo del Signore, dal
cuore d'oro, e l'idea del solitario perduto tra le gole dei monti, che pativa la
fame mentre la sua tavola tra breve avrebbe avuto i suoi doni, era tale da
guastargli la gioia della Pasqua.
Perciò, con grande meraviglia dei contadini dei dintorni che non riuscivano a
spiegarsi la cosa, radunato entro un paniere il suo pranzo che sarebbe
comodamente bastato per due persone, proprio verso l'ora in cui tutti stavano
per sedersi a tavola, prese la via della montagna, inerpicandosi tra le rocce,
per sentieri impraticabili, scendendo sino in fondo alla valle per risalire
faticosamente sull'altro versante, nella direzione del luogo che gli era stato
indicato, sempre spiando se per caso tra gli alberi o dietro qualche cespuglio
non gli fosse dato scoprire l'eremita tanto caro a Dio.
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il peso del suo paniere, alla spelonca dove da anni nessun uomo era penetrato
a interrompere la solitudine di Benedetto, e questi senza dubbio fu molto
stupito di vedersi raggiunto nel suo nido d'aquila dallo sconosciuto che
affermava esplicitamente di aver fatto tanto cammino per venire sino a lui.
Ma, forse, un dubbio gli sfiorò l'anima: se fosse ancora un'illusione del
maligno, una nuova insidia per indurlo in tentazione?
Ormai esperto nella dottrina dei Padri, sulla quale era venuto modellando la
sua vita, invitò lo sconosciuto visitatore a una breve preghiera in comune che
avrebbe dissipato ogni suggestione diabolica, se ce ne fosse stato bisogno; ma
no, ecco che sentiva il suo cuore dilatarsi e una gioia nuova invaderlo tutto, e
avvolgere in un senso di dolcissima carità quel fratello che veniva a lui, in
nome di Dio.
Chi era? Chi gli aveva insegnato la via dello speco? Sedettero insieme sui
massi della roccia, sotto il sole mai così luminoso, e le domande si
incrociarono, spontanee, sino a che il prete di Monte Preclaro non ebbe
raccontato per filo e per segno la sua avventura di quella mattina, e come lui,
proprio lui, era stato prescelto per quella missione.
Ma come era possibile per un uomo vivere lassù? E come passava il tempo in
quella solitudine?
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digiuno troppo prolungato, e pensò bene richiamare alla pur necessaria prosa
della vita il suo interlocutore.
- Levati, mangiamo, oggi è Pasqua. - Benedetto era però molto lontano dal
poter dare un valore reale a tali parole, e, dominato dalla gioia di
quell'incontro fraterno, inatteso dono di Dio, accolto con riconoscenza
nell'asprezza della durissima rinunzia dei tre anni di inesorabile segregazione
da ogni sia pur santo contatto umano, parve non aver nemmeno sentito la
prima parte della frase, per sottolineare con amabilità le ultime parole:
Benedetto era giunto troppo in alto, e viveva troppo vicino a Dio per
trincerarsi nei rigidi schemi di una inviolabile norma di ascetismo e farsene
giustificazione a un ostinato rifiuto; partecipò dunque con semplicità,
benedicendo il Signore, al pranzo del suo cordiale visitatore, e insieme
continuarono a parlare delle misericordie del Padre che sta nei cieli e veglia
con infinito amore su ognuna delle sue creature, e insieme della felicità di
vivere per Lui, amato sopra ogni cosa.
Era sera quando i parrocchiani di Monte Preclaro videro tornare il loro prete
col suo paniere diventato ormai più leggero; appariva assorto, come per un
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pensiero che lo dominasse tutto, e certo non ci volle gran fatica a farlo parlare,
e a strappargli il segreto della sua gita pasquale, e dell'esistenza del santo
eremita.
Sia per questo, sia che per puro caso venisse scoperto il sentiero della grotta,
rimane il fatto che da quel giorno in poi fu finita la solitudine di Benedetto. Di
lì a poco infatti alcuni pastori che girovagavano per la montagna credettero di
scorgere tra le macchie una grossa bestia che si moveva; desiderosi di
impossessarsene si accostarono con precauzione ed ebbero così la sorpresa di
trovarsi faccia a faccia con l'eremita che rivestito della melote di pelle caprina
li accolse con affabile familiarità.
Dopo quel primo incontro, attratti forse dalla curiosità o dal desiderio di
rompere le interminabili ore di solitudine, i pastori tornarono, finirono col
diventargli amici, ad aver bisogno dei colloqui col solitario, col quale si
trattenevano a lungo, spesso riparati da una grotta appena al disotto di quella
abitata da lui, mentre il gregge si sparpagliava tranquillo tra i cespugli.
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con parola semplice l'eremita parlò loro di Dio, dei doveri che ogni creatura
ha verso il suo Signore, della dolcezza che si prova nell'obbedire alla sua santa
legge, nel rivolgersi a Lui come un figliuolo al padre. Fece intravedere lo
splendore di quell'altra vita, alla quale questa non è che una preparazione, e
dove non ci sarà più ingiustizia, né violenza, né pianto, se qui avremo
consentito a vivere amandoci, perdonando, facendo il bene per amore di quel
Gesù che, proprio per aprirci le porte del Paradiso, è morto per noi sulla
croce.
Gente rozza, dall'anima incolta come gli spettinati cespugli spinosi del Taleo,
ma fondamentalmente buona, si raccontavano nei loro incontri le
conversazioni avute con l'eremita della grotta, le commentavano, spingendo
anche gli altri ad arrampicarsi fino allo speco, divulgando per tutta la
campagna la fama di quell'uomo di Dio, al quale dicevano poi la loro
gratitudine con i rustici doni delle cose da essi giudicate più elementari alla
vita.
Non era più necessario, ora, che Romano, su dall'eremo di Deodato, dividesse
ancora il pane del suo digiuno; la sua missione di carità era finita, mentre
cominciava per Benedetto una missione nuova di carità spirituale verso le
anime - ed erano tante - che inerpicandosi fino alla grotta per essere da lui
sollevate nei loro bisogni spirituali, ne ripartivano ristorate nello spirito da
una parola capace, una volta che si fosse udita, di mutare i lineamenti delle
più spinose realtà quotidiane.
Appena tre anni avanti, Benedetto, nel primo fervore della sua conversione,
era rimasto sgomento dell'entusiasmo
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popolare suscitato ad Affile dal miracolo del vaglio da lui compiuto; ora
questo pellegrinaggio di anime non lo sgomenta più, sembra esservi disposto
con tutta naturalezza.
L'ascesi austerissima, alla quale aveva condannato il suo corpo in quegli anni,
aveva avuto il valore di mezzo, non di fine, e questo valore conservava intatto
nella sua essenza di mortificazione e di rinunzia: rinunzia alla solitudine
totale ora che era per lui tanto dolce, come al conforto delle relazioni più care
prima, quando era necessario sradicare dal cuore il fascino dei rapporti con le
creature per imparare a conoscere il sapore della parola intima del Creatore.
Dappertutto ormai, tra quelle montagne, nei paesi, tra i crocchi dei contadini
che sostavano un poco dal lavoro, si parlava dell'eremita Benedetto, e la sua
fama si spinse fino al lembo più basso dei Simbruini, dove si riposano in
morbide collinette, giù verso Tivoli.
C'era laggiù, sulla riva destra dell'Aniene, presso il Vicum Varronis (l'odierna
Vicovaro), un monastero,
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uno come i tanti di cui era allora ricca la regione, ma più degli altri
disordinato e decaduto nella stima popolare per la fama della vita poco
esemplare che vi conducevano i monaci. Non si sa se questi si fossero
preoccupati di questa disistima per le conseguenze materiali che ne potevano
derivare, o per un vago residuo di volontà buona rimasto a sopravvivere in
fondo al loro povero cuore.
Credettero in ogni modo di aver avuto una buona idea quando, morto il loro
abate, pensarono di mettere a capo del monastero l'eremita del Taleo che tutti
reputavano un santo, e dal quale da vicino e da lontano si accorreva per
ammaestramento e consiglio; senza dubbio con un tale abate ben presto
sarebbero state dimenticate le deficienze dei monaci e con la buona fama essi
avrebbero riacquistato le non meno ambite elemosine dei fedeli, cosa che
aveva pure, per loro, il suo valore.
Non ci deve far meraviglia una simile mentalità; la vita monastica non era
stata ancora disciplinata da un codice di leggi ben definito, ma in ogni
monastero l'attuazione dei principii tradizionali ai quali essa avrebbe dovuto
informarsi erano lasciati alla discrezione dell'abate e alla buona volontà dei
religiosi. Questi, dedicandosi al servizio di Dio, non sempre trovavano quei
sussidi spirituali indispensabili a dar loro una formazione rispondente
all'altezza dell'ideale al quale aspiravano, e, non temprati alla lotta contro se
stessi, contro il mondo, e contro il demonio, finivano con lo scivolare in una
miserabile esistenza, alla quale di veramente religioso rimaneva spesso poco
più dell'abito.
Senza aver avuto ancora con essi un contatto intimo, Benedetto aveva certo
saputo, già prima di ritirarsi nella solitudine, di questi disgraziati che
disonoravano la santità dello stato monastico facendosene facile pretesto a
giustificazione di una vita al disotto della mediocrità, e che, orgogliosi e
turbolenti, creavano non di rado lamentevoli disordini nella Chiesa.
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fama della loro vita rilassata era di scandalo ai fedeli che avevano portato fino
a lui, più di una volta, l'eco del loro malumore e di una indignazione anche
troppo ben giustificata.
Perciò un giorno fu grande il suo stupore nel vedere inerpicarsi su per la
costa, faticosamente, non i suoi soliti fedelissimi clienti dell'umile gente dei
dintorni, ma un gruppo di monaci che venivano decisamente incontro a lui.
Doveva fare uno strano contrasto l'eremita emaciato, dallo sguardo profondo
e tranquillo, nella nudità della spelonca, appena protetto da una tunica di
pelli, di fronte a quegli uomini che non davano l'impressione di detestare poi
troppo le comodità della vita.
Eppure venivano per chiedergli una cosa appena credibile: che abbandonasse
quella sua vita solitaria, e mettesse a frutto i doni di Dio, scendendo nel loro
monastero, a Vicovaro, e accettando di divenire il loro abate. Lo avevano
scelto unanimi come padre e maestro, e a bella posta erano venuti fin lassù,
per ricondurlo, non più orfani, alla casa di Dio che, sotto la sua direzione,
avrebbe avuto un nuovo fiorire di vita.
Mentre parlavano con tanto calore, Benedetto li esaminava, con quel suo
occhio penetrante che sembrava leggere in fondo ai cuori, poi, gravemente,
con una certa tristezza, tentò ancora di convincerli che, quando anche si fosse
deciso a cedere non li avrebbe certo accontentati; la convivenza sarebbe stata
fonte di reciproco
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Le insistenze ricominciarono più incalzanti che mai. A sentir loro, questa era
proprio la ragione principale di quella scelta, un desiderio sincero di cambiar
vita, di tendere seriamente alla perfezione, facendo un taglio col passato, e
assumendo, sotto una guida esperta, nuove abitudini più conformi alla
professione che il loro abito indicava al mondo.
Nessuno dà prova di carità maggiore di colui che dà la vita per gli amici. Per
quei suoi figli, per quelle anime che chiedevano di essere accolte e guidate
verso Dio, Benedetto sacrificava qualche cosa che gli era più caro della vita
stessa; servo buono e fedele, non cercava la sua felicità, ma unicamente la
gloria del suo Signore e il bene dei fratelli. Lasciò lo speco e scese a Vicovaro.
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da molte grotte vicine, scavate nel tufo, alcune delle quali servivano di celle ai
monaci, mentre altre, di maggiori dimensioni, erano capaci di accogliere tutta
la comunità, e venivano adibite a oratorio e a refettorio.
Benedetto era troppo unito a Dio e troppo intelligente per non rendersi conto
fin dal primo momento della necessità di non isolarsi rigidamente da quella
famiglia di deboli, chiudendosi in un ascetismo per loro irraggiungibile, scese
al loro livello, fece come loro in tutto quanto era possibile senza tradire la
propria vocazione, per elevarli poi con sè gradatamente, quasi
insensibilmente, verso le vette della perfezione.
Per questo, egli che da anni si era attenuto alla più rigida disciplina del
digiuno, contentandosi per sostentarsi di erbe e del poco pane che gli forniva
la carità di Romano, condiscese a sedere a mensa con i fratelli, a dividere il
loro pasto, a bere con essi il vino al quale non avrebbero saputo rinunziare.
Ma sui principi fondamentali di vita monastica, sugli elementi che ne
costituiscono il nerbo, così che, se mancassero, di vita monastica non si
potrebbe più parlare, fu intransigente: l'umiltà, la carità, l'obbedienza, la
separazione affettiva ed effettiva dal mondo in vista della adesione più
completa a Dio, e soprattutto la lotta inesorabile contro il passato e le sue
radici profonde, vennero proposte ai monaci come esigenze di doverosa e
imprescindibile attuazione.
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Sarebbe stato l'ideale, ma importava rinunzia e lotta contro troppe cose alle
quali proprio di rinunziare i monaci non si sentivano, e prima fra tutte, la
libertà; quel sentirsi impediti continuamente nella soddisfazione dei loro più
o meno leciti desideri, quell'ostacolo regolarmente e spesso energicamente
frapposto alla loro volontà sfrenata nel volere a ogni costo appagare le proprie
voglie, cominciò ben presto a sembrare un giogo insopportabile.
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E allora? Un'idea, dapprima vaga e forse respinta con orrore, cominciò pian
piano a farsi strada, affacciandosi in un primo momento nei conciliaboli
segreti come uno scherzo assurdo, poi perdendo, nella luce dell'odio e
dell'esasperazione, i suoi contorni più ripugnanti per assumerne altri più
ammissibili, quasi giustificabili, ai loro occhi, con ragione di assoluta
necessità. Quella vita era un inferno anticipato, meglio, considerato che non
c'era altra via d'uscita, sopprimere l'uomo che era la cagione di
quell'intollerabile stato di cose.
La colpa? Già, in sé era grave, ma siccome nessuno la sentiva tutta sua, così il
rimorso, diviso un po' fra tutti, finiva col non pesar troppo su quelle coscienze
ottuse per l'abitudine del male e non affinate dalla grazia; e fu deciso, con
generale soddisfazione, che si sarebbe provveduto, sopprimendo l'abate, a
riconquistare la perduta libertà.
Un giorno, riuniti che furono in refettorio, secondo l'uso del monastero, uno
dei monaci presentò a Benedetto l'ampolla di vetro ricolma di vino del quale,
dopo averlo benedetto, egli avrebbe bevuto per primo; era quello il giorno
prescelto per la consumazione del delitto, e il primo bicchiere di vino
avvelenato avrebbe rapidamente portato a compimento il disegno di quei
malvagi. C'era nei visi un'aria misteriosa di aspettazione, l'indefinibile senso
di sgomento che precede sempre il male, quando non è provocato da un
improvviso impeto di passione.
Stesa la mano, come al solito, l'abate tracciò sull'anfora sorretta dal monaco
profondamente inchinato davanti a lui, col consueto senso di religiosità, un
segno
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Benedetto sollevò lo sguardo sui monaci atterriti che gli facevano corona, e in
un attimo intuì, leggendo attraverso i loro occhi cupi e terrorizzati, quello che
era avvenuto: l'ampolla contenente il vino avvelenato non aveva resistito alla
potenza del segno della vita. La pozza scura del vino sparso a terra
testimoniava la miracolosa protezione di Dio che, con cuore retto, egli serviva.
Che cosa sarebbe accaduto? I monaci dovevano domandarselo con gli occhi,
incapaci di proferire una parola, nel vedere il loro abate levarsi in piedi,
maestoso, e, uscendo dal refettorio far loro cenno di radunarsi intorno a lui.
Quando se li vide davanti, povere creature umane schiave della carne e delle
passioni, incapaci di percepire il gusto delle cose dello spirito, e ora in odio a
Dio per quel delitto già consumato nel desiderio anche se reso vano in atto,
una profonda pietà dovette invadergli l'anima; aveva cercato con tutti i mezzi
di aprire in quei poveretti un varco alla luce, senza riuscirvi, e la sua parola, il
suo esempio, la sua carità ardente erano caduti come il seme sulla roccia
arida, ora li avrebbe abbandonati col dolore di non esser riuscito a
riconquistarli al Signore.
Senza ira, col viso tranquillo, ma con voce accorata e vibrante, disse a quei
disgraziati parole che uscivano dal cuore:
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Ripresa la via della montagna, non tardò a raggiungere il Taleo e la sua
spelonca.
Ma qualche cosa era mutato nel suo spirito. L'esperienza infelice di Vicovaro
gli aveva offerto il mezzo di entrare in contatto diretto con le deplorevoli
condizioni nelle quali, fatte poche eccezioni, si trascinava la vita monastica
dell'epoca; povera vita svuotata
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V. LA VALLE SANTA
La notizia del ritorno del nostro eremita, che non dovette tardare a
diffondersi nei dintorni, riaccese quei desideri, ponendo un problema al quale
urgeva trovare la soluzione conveniente.
Non era infatti spento tra i fedeli l'ideale di una vita di perfezione da condursi
attraverso l'esercizio dell'ascesi, nella consacrazione piena di se stessi a Dio;
esso si affermava anzi vigoroso, nonostante il livello spirituale tutt'altro che
elevato, e lo spettacolo davvero non edificante di gruppi di monaci sempre in
giro per il mondo, immischiati a tutti gli affari pubblici o privati, molto spesso
impaniati in correnti eretiche e turbolente, per ignoranza o per interesse.
L'abito monastico e la tonsura per troppi ormai erano divenuti facile pretesto
a carpire le elemosine dei devoti, ma le più detestabili passioni umane,
l'orgoglio, la cupidigia, la gola, sopravvivevano intatte sotto apparenze
religiose e penitenti.
Il fenomeno di questa persistente attrattiva alla vita monastica, mai
scoraggiata per le umilianti degradazioni alle quali la miseria dell'uomo può
trascinare uno stato in sé così santo, trova la sua unica spiegazione nel fatto
che essa non è il risultato di semplici considerazioni ed esperienze naturali,
ma trascende l'elemento puramente affettivo e intellettuale e si risolve in un
appello intimo e personale di Dio alla creatura.
L'anima sente nascere e affermarsi in sé, per una misteriosa e pur reale
elezione della carità divina, tendenze e aspirazioni a un genere di vita che può
apparire un assurdo, ma è in realtà l'affermazione più elevata dello spirito che
si impone alla materia.
Nei fratelli che salivano a lui pieni di speranza, Benedetto riviveva la sua
vocazione. Anch'essi, in una intuizione vivida di luce e d'amore, avevano visto
le mete ideali della vita riassunte nel Cristo, e chiedevano di potersi dedicare
alla sua imitazione, a ricopiarne in sé con fedeltà ogni tratto, per configurarsi
a Lui, e in Lui e con Lui tendere al Padre.
Ascoltando loro gli sembrava di riudire la storia della propria anima, lo stesso
senso di insofferenza, di insuperabile disagio dato da tutto ciò che, fuori del
Cristo e del suo mistero, appare come un ostacolo, e che anch'egli aveva
provato quando la vita sociale con i suoi rapporti obbligati, le occupazioni
molteplici, le gioie stesse, gli erano divenute motivo di sofferenza, e gli si era
imposta la necessità di fuggire, solo, libero, nella nudità del deserto.
Nell'amore la sua vita aveva obbedito a un'unica legge: cercare le vie che
conducono a Dio e correre in esse senza soste, sempre più avido di infinito,
sforzandosi di eliminare quanto avrebbe potuto ritardargli il cammino.
Molte persone erano venute dopo la visita del prete di Monte Preclaro, dal
mattino di quel giorno di
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Pasqua che aveva segnato il termine del suo nascondimento assoluto; senza
chiedere niente al mondo non gli aveva però mai negato la carità della sua
preghiera e della sua parola. E quando, nel corteo dei visitatori attirati dalla
fama della sua santità che sembrava convalidata dal racconto di fatti
prodigiosi dei quali molti asserivano di essere stati testimoni, cominciarono a
venire alcuni, i migliori, non per necessità contingenti, ma per chiedergli che
insegnasse loro le vie che conducono in alto, egli non se ne stupì.
Ormai fuori della mischia del mondo, sereno nel giudizio per la lunga
abitudine di valutare le cose in Dio, capace di comprensione per ogni segreto
bisogno dello spirito, era già, nella scienza della perfezione, un Maestro, e non
appare che sia stato còlto di sorpresa quando ai suoi fedeli ben presto non
bastarono più i colloqui intimi, per quanto frequenti; qualcuno si azzardò a
chiedergli qualche cosa di più, di poter dividere con lui la solitudine, di vivere
sotto il suo sguardo, perché la comunicazione di vita soprannaturale fosse più
continuata e profonda, e più efficace il suo insegnamento.
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l'eroismo non è mai per le masse, difatti la rapida diffusione della vita
monastica anche nell'Occidente, dove penetrò tutti gli ambienti sociali, non
tornò certo a vantaggio della sua vigoria interiore; l'adattamento necessario
dei principi che la reggevano, lasciato alla prudenza dei singoli, non fu sempre
molto felice, e ai primi fervori ben presto era venuta a succedere una
inevitabile e quasi generale condizione di rilassamento.
Fra tutti quei discepoli di buona volontà che venivano a lui desiderosi di una
robusta disciplina di vita interiore, forse nessuno avrebbe potuto affrontare la
asprezza dell'eremo, soprattutto sotto l'aspetto di un reale ed efficace mezzo
di sviluppo dello spirito, in una ascensione sostenuta dalla grazia divina,
certo, ma pure con l'indispensabile concorso della volontà, senza una
conveniente preparazione, che li allenasse alla lotta nella solitudine, la più
ardua, la più dura fra tutte.
Sembrava da preferirsi, quindi, una forma di vita associata, una «scuola» per
le anime desiderose - ed erano già molte - di dare a Dio un servizio perfetto, in
spirito e verità. Questo ideale esigeva però tutta una organizzazione materiale
ed economica non indifferente, in proporzione allo sviluppo che il monastero
avrebbe avuto. Da tale necessità non si poteva prescindere a garantire il
normale sviluppo del monastero stesso.
Forse l'ambiente, nel quale da anni ormai Benedetto viveva, non fu del tutto
estraneo all'organizzazione geniale che, separando i suoi figli dal mondo, non
li avrebbe però completamente astratti da quanto nella vita è attività buona e
capace di essere elevata a intelligente atto di culto reso a Dio attraverso
l'esercizio dei doni suoi.
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Sarebbe però assurdo pensare che edificio e terreni circostanti fossero ormai
divenuti beni di dominio pubblico così che il primo venuto potesse occuparli e
sfruttarli senza suscitare nessuna reazione: è piuttosto da ritenersi che essi
fossero ancora proprietà demaniale, e, come tali, tutelati da leggi severe
destinate a impedire soprusi e devastazioni da parte di privati; ché, se poi
vogliamo pensarli divenuti dominio di qualche famiglia particolare, le
difficoltà si presentano assai più gravi.
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Ritrovandolo ora, sentivano di non essere davanti a uno dei tanti mercanti di
parole che a Roma abbondavano, ma a un uomo dominato da un'idea
poderosa, alla quale, in mirabile armonia, faceva convergere ogni risorsa del
suo spirito.
Ben presto gli aspiranti alla vita monastica si moltiplicarono in tal numero
che quel monastero non bastò più a contenerli e bisognò farne sciamare un
primo gruppo, poi un altro e un altro ancora, fino a dodici, che andarono a
popolare la zona.
Si formarono così dodici piccoli monasteri con dodici monaci ognuno. Tre in
alto, sulla montagna: Santa Maria di Primerano, nel piano sotto Morabotte;
San Gerolamo su una collina un po' a sud; San Giovanni Battista a nord in
campo Arcu, tutti e tre verso Jenne, come pure, ma più in basso, su un poggio
presso le sponde dell'Aniene, Sant'Andrea, denominato anche col nome
suggestivo di «Vita eterna». Il monastero di San Biagio, sopra lo speco, si
mise anch'esso sotto la paternità spirituale di Benedetto, il quale, nella stessa
località, ma più giù, nel cuore della montagna, stabilì San Michele.
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Della maggior parte di questi monasteri, per i quali la valle dell'Aniene poté
essere denominata la Valle Santa, oggi non rimane più traccia; solo l'antico
cenobio dei Santi Cosma e Damiano sopravvive nell'attuale abbazia di Santa
Scolastica; però i monumenti preziosi che gli scavi hanno restituito alla luce
in Valle Puceia, mentre ci danno la certezza che anche questo monastero,
come quello di San Clemente, fu ricavato da qualche edificio della villa
imperiale ivi preesistente, ci inducono a domandarci se più o meno la cosa
non dovette ripetersi anche per gli altri monasteri.
L'idea che alle familiae rusticae alle quali era affidato lo sfruttamento delle
risorse naturali del luogo siano venute a sostituirsi queste «famiglie di Dio»
cementate nella carità, e che del lavoro facevano elemento di ascesi e offerta
degna e grata al Signore, è quanto mai suggestiva, ma, ciò che più conta, si
inquadra perfettamente nella concezione monastica di Benedetto.
Un episodio ci dice che dei motivi seri e ben ponderati debbono aver
determinato il Santo nell'ubicazione dei monasteri, in maniera che tutto in
essi concorresse all'attuazione più perfetta possibile dell'ideale religioso che
era la legge di quella colonia di anime in cerca di perfezione. Egli continuava a
esserne il padre e il maestro, pur avendo messo a capo di ogni comunità un
abate che ne avesse la immediata direzione e responsabilità, per riservare a
sé, in San Clemente, la formazione dei più giovani o di quelli per i quali si
esigessero cure particolari.
Non tutti i monaci però, ed è naturale, potevano essere capaci di una adeguata
comprensione del piano
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Ne erano convinti, e a loro appariva chiaro fino alla evidenza che Benedetto si
sarebbe subito arreso alle loro ragioni, accettando senza difficoltà la proposta
di abbandonare quella posizione eccessivamente scomoda, per collocare i
monasteri più in basso, dove almeno l'acqua fosse a portata di mano.
Vennero dunque tutti a San Clemente, dove il Padre li accolse con molta
comprensione, ascoltò le loro lamentele, seguì l'argomentazione che a fil di
logica non faceva una grinza:
- È per noi una fatica insopportabile il dover scendere ogni giorno fino al lago
per attingere l'acqua, dunque si impone la necessità di trasferire i monasteri. -
La logica dei santi ha però dei canoni che non si accordano, molto spesso, con
quelli degli uomini comuni, e così avvenne che a Benedetto la conseguenza
non parve proporzionata alla premessa, e, dopo aver compatito le loro fatiche
e averli incoraggiati a una maggior generosità, li rimandò senza concedere
quanto gli
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Benedetto li ascoltò ancora, forse con una certa pena, erano anime deboli, alle
quali non si poteva richiedere l'eroismo dell'obbedienza, e che, in fondo, si
dichiaravano disposti ad obbedire, sì, ma senza abbandonare le regole del
buon senso, un po' come abitualmente pensiamo tutti noi, stabiliti nella
mediocrità. Il Signore li avrebbe illuminati un giorno; a certe altezze un
raziocinio puramente umano non può giungere. Perciò, senza entrare in
nuove discussioni, per tutta risposta dette un ordine che sonava abbastanza
strano:
- Andate, e scavate un po' quella roccia sulla quale troverete appoggiate tre
pietre. Per liberarvi dalla fatica di una strada tanto lunga da fare, Dio
onnipotente può infatti far scaturire l'acqua anche da quel picco di montagna.
-
Può darsi che qualcuno abbia abbozzato un sorriso, scotendo il capo a una
simile proposta assurda: l'acqua sulla sommità della montagna, tra quelle
rocce? ...
Il comando però era reciso e non ammetteva repliche, quindi, benché forse
intimamente poco persuasi di esser giunti a qualche cosa di conclusivo, non
osarono ribattere e ripresero la via della montagna. Del resto, Benedetto era
un santo, avrebbe potuto anche aver ragione lui, cose prodigiose ne aveva
operate tante!
Cercando dunque con curiosità un po' febbrile la roccia, come era stato loro
indicato, con emozione scoprirono che lasciava filtrare un po' d'umidità. Vi fu
subito scavata a colpi nervosi di piccone una piccola conca che i monaci
videro in un attimo riempirsi di acqua limpida sotto i loro occhi stupefatti.
Ben presto la sorgente cominciò a lasciar scorrere una vena cristallina e ben
nutrita che anche oggi ride tra le rocce, presso la cappella di San Giovanni
Battista eretta «in campo Arcu» nel luogo dove sorgeva l'antico monastero.
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È quindi, per la natura stessa della chiamata con la quale è stato favorito,
l'uomo della rinunzia e della lotta: rinunzia a quanto può costituire un
impedimento alla sua ascesa, lotta contro tutti gli elementi capaci di
contrastare l'attuazione piena del regno di Dio nella sua anima. E questo è
così inerente all'essenza del suo stato, che, nell'istante in cui venisse a
mancare simile inesauribile slancio verso la perfezione con le necessarie
conseguenze di rinunzia e di lotta, il monaco cesserebbe di esistere, nella sua
realtà spirituale, per rimanere un poveruomo ricoperto di una divisa ridotta di
per sé a una menzogna.
Gli stessi mezzi da adottarsi nell'ascesa verso la santità erano ormai
consacrati dalla tradizione, né Benedetto si preoccupa di scoprire nuovi
metodi ascetici; l'originalità della sua opera consiste tutta nell'inserire in
maniera vitale nell'anima occidentale i principi già noti, adeguandoli alle
possibilità reali, in maniera da conferir loro la massima efficacia.
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Il resto contava poco, niente anzi, come niente conta agli occhi di Dio che
scruta le anime nella loro nudità, e le pesa secondo il peso del loro amore,
poiché «servi liberi siamo una cosa sola in Cristo».
Poté così avvenire che una volta si presentasse a Benedetto un povero Goto,
un'anima semplice nella quale la luce della grazia si era aperta un varco,
facendo fiorire sulla selvatica rusticità della natura l'aspirazione a una vita
spirituale superiore e la volontà generosa di acquistarla a qualunque prezzo.
Il Santo accolse con gioia profonda quell'uomo ancora primitivo che, nella
semplicità del suo cuore, veniva a chiedere di essere ammaestrato nel servizio
divino, e lo tenne con sé per poterlo meglio formare alla vita monastica.
Era una primizia. La carità di Cristo cominciava così a fondere in una nuova
fraternità razze divise e odii implacabili per la lotta ormai secolare tra i popoli
giovani e incivili che si rovesciavano come una fiumana sulla decrepita civiltà
dell'Impero, travolgendo con la violenza, alloro passaggio, tutto un passato di
grandezza e le reliquie della gloria di Roma.
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Per amore di Dio prese dunque anch'egli il suo falcetto e conobbe il sapore
dell'aspra gioia spirituale che si rivela all'anima quando, con cuore generoso e
contrito, si assoggetta alla penitenza fondamentale imposta all'uomo come
espiazione del suo peccato, sforzandosi di strappare il suo pane «fra triboli e
spine» alla terra divenuta ostile.
Il poveretto si mise all'opera con tutto lo zelo di cui era capace, ma nella foga
del lavoro, fosse eccessivo ardore, fosse la resistenza opposta dai cespugli
intricati, sul più bello il falcetto volò via e andò a finire nell'acqua, lasciando
molto male il monaco maldestro che, interdetto, guardava desolato ora il
manico che gli era rimasto stretto in pugno, ora l'acqua profonda che aveva
inghiottito il suo strumento. Che fare?
Corse sgomento dal monaco Mauro che aiutava l'abate nel governo del
monastero, e si accusò del malanno
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Intanto il falcetto non c'era più, e non si sapeva come rimediare per condurre
a termine il lavoro incominciato; a San Clemente l'abbondanza degli
strumenti non doveva essere troppa davvero e questo spiega come Mauro si
trovò costretto a ricorrere subito a Benedetto per esporgli l'accaduto e, in
conseguenza, l'imbarazzo nel quale ora si trovavano.
Sentito il piccolo incidente, l'uomo di Dio venne sul posto, dove il Goto, più
mortificato che mai, continuava a stringere tutto confuso il legno del manico.
Glielo tolse di mano e lo immerse nell'acqua, e tosto risalendo a galla dal
fondo del lago, la lama tornò a innestarsi sul manico stesso dal quale era
sfuggita. Il barbaro era sbalordito per quanto vedeva accadere sotto i suoi
occhi, e non credeva a se stesso, quando Benedetto, dopo avergli rimesso in
mano il suo falcetto, lo rimandò incoraggiandolo:
La frase che il Santo rivolse al povero Goto assume valore programmatico per
la vita dei suoi monaci, curvi alla fatica del lavoro, sì, ma con l'anima colma
della gioia dei figli di Dio, mai imprigionata dalle contingenze umane, perché
stabilita ormai nella fede, nella speranza, nell'amore.
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Esso non tardò a rivelare una così rigogliosa vitalità che la fama ne giunse
anche a Roma, suscitando in molte anime il desiderio di entrare in quella che
appariva già la «fortissima schiatta» dei cenobiti, per cercarvi con più
sicurezza, stretti nella compagine fraterna, le vie che conducono a Dio.
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Tra i giovani che egli veniva così formando alla vita monastica, san Gregorio
ne ricorda con singolare compiacenza due, che i genitori, il patrizio Tertullo
ed Eutichio, da computarsi tra gli uomini «nobili e religiosi», gli avevano
portato sottraendoli alla vita di Roma con generoso coraggio, e che sarebbero
poi diventati i discepoli prediletti del Santo.
Il piccolo Placido, che Tertullo offriva al Signore, era ancora un bimbo, e forse
per questo godette di una tenerissima predilezione da parte di Benedetto, e,
dopo di lui, di tutta la tradizione monastica; è rimasto per noi come
circondato dalla stessa luce del Maestro, al fianco del quale veniva
acquistando il senso delle cose di Dio, in quel singolare ambiente tutto
impregnato di mistica religiosità. Possiamo supporre che il miracolo
dell'acqua scaturita dalla roccia per la misteriosa potenza della preghiera, nel
silenzio di una notte indimenticabile, non sia stato l'unico a incidere tracce
profonde sulla sua anima infantile.
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- Fratel Mauro, corri, poiché quel bambino che era andato ad attingere
dell'acqua è caduto nel lago, e già la corrente se lo trascina lontano -.
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- Mentre venivo tratto fuori dall'acqua io vedevo sul mio capo la melote
dell'abate, e pensavo fosse lui a liberarmi dalle onde -.
Mauro che corre sulle acque è già il tipo compiuto di quei perfetti obbedienti
«che non stimano a sé niente più caro di Cristo» e traduce mirabilmente in
questo quadretto sublacense, fino ai minimi particolari, la dottrina
dell'obbedienza alla quale Benedetto informava l'anima dei suoi figli prima
ancora di fissarla nel quinto capitolo della sua Regola, quella stessa Regola
che si piegherà a indulgenze materne verso i gruppi vivaci di fanciulli che
metteranno una nota di gaiezza nella vita austera del chiostro, e dei quali il
piccolo Placido, seguito con vigile amore dal cuore del Santo, rimane
l'esponente pieno di freschezza e di candore.
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Su tutta la sua grande famiglia il Santo vigila, abbracciando ognuno dei figli
nella sua alta paternità, attiva e presente sempre, perché la loro vita non si
cristallizzi in forme esteriori, ma conservi e intensifichi il moto ascensionale
che deve condurli a quell'ideale di perfetta carità che ha determinato la loro
rinunzia a ogni bene inferiore. E se un'anima rallenta il passo, o è vinta nella
lotta d'ogni giorno, egli è pronto a sventare l'insidia del nemico,
riconducendola, con decisa energia, se è necessario, entro gli argini di quella
disciplina esteriore che è custodia necessaria al retto sviluppo della vita dello
spirito.
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Passati due giorni appena, le cose erano tornate al punto di partenza, poiché il
monaco riprendeva le antiche abitudini, scovando sempre nuovi pretesti per
assentarsi dall'orazione, mentre l'abate, tra scoraggiato e irritato, non
riuscendo a mettere riparo a quel disordine, tornava a chiedere aiuto al Santo.
Quelli però non vedevano nulla, il loro occhio non aveva ancora ricevuto la
potenza di percepire le invisibili
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realtà del mondo degli spiriti, e per questo il Padre suggerì:
- Preghiamo, affinché anche voi possiate vedere chi è colui che questo monaco
segue -.
Per due giorni interi insistettero tutti e tre nella preghiera, ma solo Mauro
ebbe la grazia di poter vedere, nella sua espressione sensibile, il fondo vero di
quella tentazione che sembrava impossibile a vincersi.
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VI. L’ESODO
Non si poteva sfuggire alla certezza che esisteva una forza soprannaturale,
capace di strappare violentemente al mondo e di trasformare quegli uomini
che, fino a ieri, erano stati come tutti, che con gli altri avevano diviso la stessa
meschina vita ingombra di interessi terreni, e che ora, venissero dal patriziato
o dalla più umile plebe, accomunati nell'ideale e resi fratelli dalla carità, erano
impegnati nella rude battaglia per la liberazione totale della creatura nuova
nata dalla grazia, dalle pastoie del vecchio uomo di peccato, impigliato nelle
sue passioni.
Per i frequentatori dei monasteri sublacensi il Vangelo non sonava più come
qualche cosa di astratto, irrimediabilmente lontano dalla vita, ma appariva
attuato in tutta la sua santità dai monaci di Benedetto
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Quella muta lezione, che senza strepito di parole affermava la veracità sempre
nuova delle divine promesse, esperimento vissuto delle beatitudini
evangeliche, si imponeva alle anime.
Dagli anni ormai lontani della segregazione nello speco, il pellegrinaggio delle
anime più bisognose verso l'uomo di Dio non aveva mai conosciuto soste, ed
egli non si era mai stancato di accogliere tutti, senza deludere la fiducia che
induceva a cercare in lui rimedio e conforto per ogni pena del corpo o dello
spirito, rimandando i fratelli sempre più illuminati, consolati di speranze
eterne.
Molti, sotto l'influsso di quella parola, allo spettacolo di un lavoro che non era
più incentivo a maledire chi ne imponesse il peso opprimente, ma mezzo di
redenzione e di elevazione, compiuto in spirito di penitenza e di adorazione,
avevano l'intuizione che solo
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In fondo ne andava del suo prestigio: non era lui il padre autentico di quelle
anime affidate alle sue cure, e che ora gli sfuggivano di mano come pecore
matte, senza dar peso ai suoi richiami? Forse che Benedetto annunziava un
Vangelo diverso da quello che per tanti anni egli aveva insegnato al popolo? E
che senso aveva quella infatuazione per degli esaltati che, riscaldando il
cervello degli ignoranti, gli sottraevano il concorso dei fedeli?
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anime che venivano a supplicare di essere ammesse sotto la guida dell'uomo
di Dio.
Sarebbe stato assili più vantaggioso per Fiorenzo partecipare a quel plebiscito
di generale ammirazione abbracciando anche lui una vita santa, tale da
renderlo esempio e tipo di santità pastorale agli occhi del suo popolo che
dimostrava una così acuta percezione dei valori spirituali; ma di rinunziare al
suo comodo tenore di vita prete Fiorenzo non aveva la minima intenzione, e
continuava a struggersi d'invidia nel vedersi ormai quasi completamente
messo da parte.
Pensa e ripensa, si accorse ben presto che la 'cosa non era facile, e presentava
dei rischi gravi, ma finalmente alla sua povera anima accecata dall'odio si
presentò suggestiva la soluzione radicale, che avrebbe senza strepito risolto
tutti i problemi: sopprimerlo, avvelenandolo.
Già i monaci di Vicovaro erano, molti anni prima, giunti alla stessa
conclusione, ma sull'uomo di Dio vegliava il Signore.
107
e quando, secondo il solito, giunta l'ora della refezione, un corvo della vicina
foresta gli volò vicino per ricevere come ogni giorno la sua porzione di pane,
egli, gettandogli davanti quello poco prima ricevuto dal prete sciagurato, gli
ordinò:
- In nome del Signore Gesù Cristo, prendi questo pane e gettalo in un luogo
tale che nessun uomo lo possa trovare. -
- Portalo via, portalo via tranquillo, e gettalo in un luogo dove non sia
possibile trovarlo. -
Visto che non gli era riuscito di togliere la vita a Benedetto, maturò un piano
diabolico, che se, come sperava, avesse raggiunto lo scopo, avrebbe ferito al
cuore l'opera del suo presunto rivale, gettando il discredito una volta per
sempre su quei fanatici abitatori della montagna, e in primo luogo, così
almeno egli pensava, su colui che ne era il Padre e che tutti li sosteneva con la
sua forza morale.
108
Stando nel monastero il Santo si rese conto di quanto accadeva, e non tardò a
scoprire chi avesse ordito quella trama malvagia che mirava direttamente alla
rovina delle anime. Ne fu angosciato, e temette per i suoi figli le imprevedibili
conseguenze di quella persecuzione assurda.
La sofferenza più viva gli veniva al pensiero del prete disgraziato, collocato
cosi, in alto dalla divina elezione, il quale avrebbe dovuto essere luce che
illumina in mezzo ai fedeli, e trascinava invece nel fango la sua anima
macchiandosi della colpa orrenda di distogliere da Dio, inducendole alla
colpa, giovinezze consacrate, la cui caduta sarebbe stata un disonore per la
Chiesa e motivo di scandalo, forse irreparabile, per i semplici fedeli.
Resistere ancora di fronte a Fiorenzo, per Benedetto, forte della sua virtù e dei
suoi diritti, equivaleva a ingaggiare una lotta poco edificante, ed esporre i suoi
discepoli a ogni sorta di pericoli, poiché non poteva sfuggirgli che l'odio del
prete si accaniva soprattutto contro di lui, mentre c'era da aspettarsi ogni
sorpresa da un individuo giunto a tal punto di esasperazione.
109
costringere in una vita troppo densa di uomini quelli già esistenti e per i quali
appariva impossibile una più adeguata espansione territoriale.
Né, inoltre, possiamo trascurare il fatto che, in più di venticinque anni da che
aveva avuto principio l'organizzazione sublacense, il Santo aveva maturato le
sue esperienze, rendendosi conto dei miglioramenti desiderabili e degli
inconvenienti che sarebbe stato bene eliminare, e soprattutto, aveva avuto
modo di studiare quali avrebbero potuto essere le condizioni ambientali più
propizie a favorire il massimo rendimento spirituale delle anime.
Poté così lentamente nel suo spirito assumere tratti precisi e ben definiti
l'ideale sempre più chiaro dell'unico grande monastero, capace di accogliere
tutti i monaci, uniti sotto la direzione dell'abate per formare una robusta e
compatta compagine familiare, capace di provvedere ai molteplici bisogni
dello spirito, e alle stesse legittime necessità materiali della comunità.
Se ora la persecuzione di prete Fiorenzo fosse· un segno di quella divina
volontà cercata con umile insistenza, una indicazione provvidenziale per
battere nuove vie e condurre la sua opera al grado di perfezione già intravisto?
110
Eppure l'allontanarsi di là, abbandonando quei luoghi cari, gli appariva ora
come qualche cosa di ineluttabile. L'odio del prete aveva semplicemente ai
suoi occhi valore di mezzo strumentale, e se, in apparenza, Benedetto poteva
far pensare che cedeva all'ingiustizia per evitare nuovi pericoli e non mettere
a rischio di perdersi l'anima dei suoi monaci, in realtà, al disopra delle
contingenze umane, egli sapeva di obbedire a Dio.
Ancora una volta siamo privi di informazioni che sarebbero per noi preziose, e
dobbiamo ricorrere a nuove ipotesi che, per quanto appaiono non lontane
dalla realtà, non possono tuttavia aver valore di certezza.
111
donatore dice poco - certo questa tradizione deve avere un fondo di verità, se
il pensiero di Benedetto si fermò su quella località a preferenza di altre.
Sulla vetta del monte, nell'acropoli, era ancora in piena efficienza il culto delle
divinità pagane, e Giove divideva con Apollo gli onori che la folla idolatra dei
dintorni non lesinava loro davvero.
La salda costruzione cinta di mura e ben difesa dovette apparire quanto mai
adatta all'uomo di Dio per essere trasformata in un grande e comodo
monastero, e le leggi vigenti rendevano non solo possibile, ma relativamente
facile la cessione da parte dello Stato dei luoghi di culto pagani per essere
destinati a templi cristiani. Lassù molti monaci avrebbero potuto adunarsi,
traendo possibilità di sostentamento e di lavoro dalla fertile campagna
circostante, e un'altra casa di Dio sarebbe sorta così, dando origine a un
nuovo centro di vita spirituale.
Ma, non si sa come sia andata, mentre sulla terrazza della propria casa
manifestava senza reticenze la sua soddisfazione per sentirsi finalmente
sciolto dall'incubo di quella vicinanza insopportabile, e forse già elaborava in
cuor suo dei piani ingegnosi per riconquistarsi il favore del popolo, il
pavimento crollò fragorosamente, travolgendolo fra le macerie dalle quali
rimase schiacciato.
113
Subiaco che dieci miglia di cammino, quando Mauro, che aveva divorato la
strada, raggiungendolo, gli comunicò con gioia impetuosa la fine sciagurata di
Fiorenzo e le speranze di tutti.
- Torna, torna indietro, poiché il prete che ti perseguitava è morto! -
A tornare tra i suoi, non pensò nemmeno. Partendo da Subiaco egli intendeva
semplicemente obbedire al Signore, riconoscendo nelle difficoltà che la sua
presenza aveva creato un invito provvidenziale al quale si era arreso con cuore
docile. Non aveva ceduto alla violenza del suo persecutore per viltà o per
stanchezza; nessuna forza umana avrebbe potuto allontanarlo dalla valle
dell'Aniene se avesse avuto la certezza che quello
114
era ancora il suo posto, la sua missione, e non ritornò perché la sua partenza
non era una fuga, ma un cosciente cammino di conquista verso la nuova mèta
segnata da Dio.
Di qui, oltrepassata Veroli e raggiunta la valle del Liri, non restava che
imboccare la via Latina, proseguendo verso la mèta del viaggio, nel cuore di
quella fertile Campania che si offriva al suo sguardo ricca di promesse, fino a
raggiungere il monte dominatore aperto con compiacenza ad accogliere sul
suo fianco l'antica Casinum.
La città aveva avuto i suoi giorni di splendore, e vantava origini remote, ma,
all'arrivo della minuscola colonia monastica, era ridotta nelle condizioni di
estrema decadenza alla quale l'avevano portata le devastazioni barbariche di
Genserico e di Ricimero. I barbari non erano riusciti a distruggere tutti i
monumenti,
115
Non era in ogni modo della città che Benedetto si preoccupava, dirigendosi
verso la sommità del monte, chiusa dalla doppia cinta delle mura ciclopiche
strette a proteggere i templi degli dèi e la fortezza romana che vi si era
annidata.
116
Prima di iniziare la sua missione Benedetto volle per la sua anima un più
profondo e prolungato contatto con Dio nella solitudine. Era il principio della
Quaresima e la tradizione monastica non era estranea all'usanza di una
segregazione assoluta, nella quale lo spirito, rinnovandosi in un lavacro di
lacrime e di penitenza purificatrice, potesse meglio disporsi ad attendere «con
gioia di Spirito Santo, la Pasqua». Tanto più questa Pasqua, che per l'uomo di
Dio rappresentava ed era «passaggio» ad una nuova fase di vita che avrebbe
dovuto condurre alla perfezione l'opera sua, e consumare la sua santificazione
nella carità.
117
E rimandati i suoi devoti inconsolabili, vinta questa nuova battaglia, forse una
delle più delicate, temprato nel più profondo contatto con Cristo, celebra la
sua prima Pasqua cassinese, e più che mai essa sarà per lui in quell'anno
«dies in qua reflorent omnia» il giorno nel quale ogni cosa torna a fiorire.
Era l'8 aprile del 529. Benedetto aveva raggiunto la pienezza della sua virilità,
e una maturità spirituale che ne faceva l'operaio fedele, pronto ad affrontare
l'ultima fase della sua missione terrena.
118
Appare strano il dover ammettere che, a poca distanza da Roma, nel secolo
VI, urgesse ancora la preoccupazione della lotta contro il paganesimo, eppure,
benché Cassino si vantasse di aver ricevuto direttamente da san Pietro la
predicazione della fede, e non più di quaranta anni avanti, sul finire del V
secolo, fosse governata dal santo vescovo Severo, sta di fatto che, quando san
Benedetto giunse in quella regione, il culto degli idoli, di nuovo vigoreggiante
nel marasma morale provocato dalle invasioni barbariche, vi era in piena
efficienza, e turbe di popolo, attraverso l'erta scarpata, raggiungevano la
sommità del monte sovrastante la città per offrirvi sacrifici nei templi degli
dèi.
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Tutto ci lascia supporre che il fenomeno non abbia sorpreso Benedetto, siamo
anzi indotti a pensare che lo abbia determinato a dare la preferenza a quel
luogo, soprattutto se, conforme alla tradizione, si trattava di terre divenute
per donazione dominio monastico. In ogni caso era evidente la necessità
preliminare di distruggere quel focolare d'empietà per sostituirvi la casa di
Dio, alta sul monte, segno di raduno per gli uomini smarriti, centro
irradiatore di luce e di verità per tutte le anime.
Era quello il dono che l'uomo di Dio offriva a chiunque, per un qualsiasi
motivo, venisse a contatto con la sua famiglia monastica: una comunicazione
di verità, tranquilla come il dilagare incontenibile e poderoso di un corso
d'acqua che gli argini non valgono più a costringere.
120
Ognuno, partendo, portava in sé una nuova ricchezza che, a sua volta, quasi
senza avvedersene, comunicava ad altri, e attraverso questa silenziosa
irradiazione il bene arrivava lontano, disponeva i cuori ad accogliere il regno
di Cristo. Ad affrettarne l'avvento sradicando fin le ultime tracce di
paganesimo, Benedetto stesso evangelizzava instancabilmente la zona
circostante, perché ovunque fosse un villaggio, un nucleo per quanto esiguo di
popolazione, ivi le anime fossero illuminate sulla dignità e la grandezza della
vita cristiana e rendessero a Dio il «rationabile obsequium» che solo è degno
di Lui.
Egli lavorava ad accendere sulla vetta del Cassino un gran rogo di carità, che
fosse sacrificio gradito a Dio, certo, ma tale nel tempo stesso da comunicare
luce e calore a tutti i fedeli ai quali potesse giungere l'influsso.
121
Erano un canto di speranza, un atto di fede nella vita, mentre intorno gravava
l'incubo della desolazione.
Il monaco Marco, l'ingenuo poeta che, discepolo del Santo, dopo la sua morte
effonde in distici vibranti di affetto una devota e calda tenerezza verso il
Maestro, non sa rinunziare a lasciarci il ricordo delle opere grandiose da lui
compiute e che mutarono l'aspetto della montagna.
«Spianata la vetta, livella il suolo scosceso, affinché tu, o Santo, possa dar
frutti rigogliosi sulla sua sommità.
«È giusto che questo stesso monte ti renda tale onore, poiché ha meritato
tanto bene, essendo da te abbellito.
«Tu ne orni le rocce aride di ameni orti, e ricopri le rupi nude di alberi
verdeggianti.
122
disboscata vigoreggia non più dei suoi frutti selvatici, ma di alberi fruttiferi.»
In realtà esso non è, però, se non l'ossatura di un ben più ardito piano
spirituale.
Benedetto ha ormai la visione netta della potenza del monachesimo del quale
l'esperienza vissuta, ma più la luce dello Spirito Santo, gli hanno dato
un'intelligenza profonda, con la percezione esatta di quanto esso richieda e
delle possibilità che racchiude qualora non devii dalla sua essenza che sola ne
determina l'efficacia in proporzione del grado col quale venga attuata in
concreta realtà di vita.
Non gli sfugge certo l'influsso sociale della pacifica armata che egli ordina
perché combatta sotto lo stendardo di «Cristo vero Re», ma sa che questo
influsso è legato alla condizione che il monaco consenta a esser tale nel senso
pieno della parola, e si preoccupa di armarlo contro le potenze collegate del
male: il demonio, il mondo, la carne.
123
spiriti del male che «si accalca» secondo l'espressione di Cassiano, intorno a
noi, e non è davvero una moltitudine tranquilla e oziosa, così che «la divina
Provvidenza molto vantaggiosamente la sottrae ai nostri sguardi».
Egli stesso a Subiaco, nel rude tirocinio dello speco, e più tardi nella direzione
dei suoi monaci, aveva ripetutamente fatto l'esperienza di quanto importasse
di vigoria e di prudenza l'impegno di resistere al nemico.
L'assalto non coglierà mai Benedetto alla sprovvista, perché egli veglia e
prega, né varrà a terrorizzarlo, perché è perfettamente, sicuramente cosciente
di essere già, in quanto innestato vitalmente a Cristo, un vincitore, ma il Santo
vuole che i suoi figli sappiano che il
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Nel trattato Intorno alla in temperanza ed alle virtù Esichio aveva insegnato
che al primo accorgersi della presenza del nemico bisognava reagire
violentemente, «iracunde», ricorrendo a parole ingiuriose, fino a «sferrare un
pugno in faccia all'assalitore» senza venire a patti con lui nemmeno per un
attimo. Benedetto, non meno vigoroso quanto alla sostanza, e con non meno
vivace realismo d'espressione, vuole che i suoi figli siano coscienti di essere
stabiliti sulla roccia, che è il Cristo, e se il maligno tenterà di insinuarsi
insidiosamente nei loro pensieri, ordina che essi, illuminati dalla luce
dell'alto, ne distolgano con disgusto lo sguardo, e senza turbarsi ne sfracellino
contro la base granitica della loro fede vivificata d'amore i «malefici
rampolli».
Il monaco deve sapere di avere a che fare con questa potenza occulta e stare in
guardia, ma non temerla eccessivamente, poiché sa anche che il suo potere è
limitato né potrà mai eccedere la possibilità di resistenza della natura umana
sorretta dalla grazia, ciò che gli permette
______________________________
125
126
La grossa pietra non oppone più alcuna resistenza e il lavoro riprende più
intenso di prima, nella calma ristabilita.
Non era però passato molto tempo, e il demonio, sconfitto, volle prendersi
una rivincita.
Proprio in quel medesimo luogo, mentre, per ordine del Santo, si scavava a
una certa profondità il terreno,
127
sotto i colpi del piccone, fra altri rottami, venne alla luce un idoletto di bronzo
che, non destando alcun particolare interesse, fu gettato in cucina, e nessuno
ci pensò più.
Il tramestio fu tale che non tardò a giungere agli orecchi dell'abate, il quale,
stupito per l'insolito frastuono, e forse un po' preoccupato, si affrettò a
scendere in mezzo ai suoi figli. Li trovò ansanti, scalmanati nella vana fatica,
ma poiché la potenza del maligno era paralizzata dalla sua presenza, ed egli,
intimamente unito a Dio, la dominava con tutta la vigoria della sua forza
spirituale, ai suoi occhi si mostrò senza veli l'allucinazione assurda della quale
i monaci erano zimbello, affaticandosi senza risultato nello spengere un fuoco
inesistente.
128
In questo violento duello con lo spirito del male, si rivela con rilievo ben
marcato la fisionomia morale di san Benedetto, mentre diviene evidente la
sua profonda coscienza della propria potenza spIrituale, o meglio, della
potenza di Dio che opera in lui.
Guarda dall'alto, quasi con commiserazione, i vani sforzi del nemico, senza
turbarsene, e, con più ragione, senza esserne spaventato. Di una cosa sembra
preoccupato, ed è unicamente di sanare lo scompiglio che le trovate
diaboliche gettano fra i suoi monaci presi alla sprovvista e ancora inesperti
della tattica di questa lotta.
Forse per questa sua indifferenza pare che il demonio voglia sfogare contro i
figli la sua rabbia impotente a colpire il Padre.
129
L'impresa non è facile perché i grossi massi del muro, cadendo, lo hanno
sfigurato e schiacciato al punto da ridurlo una orribile massa informe che, per
essere trasportata, si deve raccogliere in una coperta e fa raccapriccio a
vedersi. Alla fine se ne viene a capo, e il piccolo corteo, con molte precauzioni,
riesce a portare il fardello sanguinante fino alla cella dell'abate. Egli lo fa
deporre sulla stuoia sulla quale è solito raccogliersi per la preghiera, e vuole
che tutti escano. C'è qualche cosa di misterioso nella sua condotta, ed è
naturale che i monaci, quando vedono la porta chiudersi dietro di loro, si
domandino cosa stia per succedere, ma l'attesa è breve. Non passa molto e
Benedetto ricompare, e ha al fianco il monachetto pieno di vita, che non
chiede se non di poter correre a ricominciare e condurre finalmente a termine
il muro rovinato dalla malizia diabolica.
Ancora una volta l'insidia studiata con astuzia, anche per i prevedibili
imbarazzi che avrebbe potuto creare al monastero la morte, avvenuta in simili
circostanze, del figlio del curiale, è stata sventata, e il vincitore è il Santo.
Con la consapevolezza serena di questa lotta che non ammette tregua, e pur
sapendo che non c'è da temere, fino a che siamo uniti a Cristo, vincitore della
morte e dell'inferno, perché il demonio è un vinto, Benedetto vigila
instancabile affinché le sue insidie non giungano a staccare i monaci da Dio,
ché allora egli riacquisterebbe il suo impero sull'anima.
130
Saliva una volta sulla vetta del monte, verso l'oratorio di San Giovanni
Battista, e si trovò faccia a faccia col nemico che, camuffato da medico, con gli
strumenti dell'arte, discendeva la china in senso contrario.
E quello:
- Vado tra i monaci a dar loro una medicina. - E via come il lampo.
Contro la potenza malefica dello spirito del male sono inutili tutti gli
accorgimenti umani, perciò il Santo continuò la sua strada fino all'oratorio
dove compì le consuete preghiere, invocando, certo, quel giorno, con più
intensità, l'aiuto divino che sventasse ogni insidia del maligno, poi, rapido,
tornò sui suoi passi.
Non dovette stentare a scoprire gli effetti dell'azione diabolica, vedendo uno
dei suoi monaci più anziani contorcersi violentemente per terra, in preda a
convulsioni strazianti: faceva pietà vedersi, e nessuno sapeva come
soccorrerlo, meno ancora riusciva a spiegarsi l'origine di quel male.
131
Questi assalti violenti, del resto, erano anche i più inoffensivi, e se riuscivano
a suscitare talvolta un certo scompiglio, e miravano a sgomentare gli inesperti
e a terrorizzarli facendoli così desistere dal proposito della vita monastica, in
realtà, essendo facilmente individuabili, rimanevano affatto innocui, tanto più
controbilanciati come erano dalla santità dell’abate che era per tutti pegno di
protezione e di difesa.
Ben più pericolose erano le suggestioni sottili tese alle anime per farle
scivolare insensibilmente nel male, distogliendole dai loro buoni propositi o
addirittura facendo loro apparire il peccato sotto l'aspetto più insinuante, fino
a spogliarlo di ogni apparenza di colpa.
Questo sì, era da temersi, poiché l'anima, tratta in inganno, avrebbe potuto
facilmente cedere e dare il suo consenso allontanandosi dalla via retta. Ma
Benedetto vegliava. Il male era per lui l'offesa di Dio, la diserzione vile dal suo
servizio per venire a patti con Satana, ai danni del regno di Cristo. Bisognava
combatterlo senza tregua, sventarne le trame, renderlo quasi impossibile
mediante una custodia assidua nella vigilanza e nella preghiera.
Egli sentiva intorno ai suoi figli, a ognuna delle anime che doveva custodire
per la vita eterna, questo ruggito del «leone che gira intorno cercando chi
divorare» (1Pt 5,8) e avrebbe voluto che tutti giungessero a vedere con
132
Ma non tutti avevano come lui gli occhi dell'anima aperti alla luce divina nella
quale si coglie anche l'ombra più tenue che appanni lo sguardo; purtroppo per
molti, per il maggior numero, era anche troppo facile che, nella consuetudine
accarezzata di segrete compiacenze con le creature, si insinuasse la tentazione
per sedurre il cuore.
Benedetto, che conosceva a fondo quel suo povero figliolo, e lo sapeva capace
di bene, tentava dissipare l'illusione funesta che, sotto l'apparenza di
necessità, e forse con pretesti di bene, lo spingeva fuori del chiostro.
Ragionamenti, rimproveri, lo sforzo assiduo e pieno d'amore del Padre per
ricondurlo alla verità e a una più serena valutazione dei suoi veri interessi
spirituali a nulla valsero.
Quello tornava sempre alla carica con importunità crescente; non ragionava
più ormai, dominato dall'unico pensiero di abbandonare il monastero, e a tale
intento faceva convergere tutti i suoi sforzi, vedendo in questa sognata
liberazione dalla vita monastica l'unica possibile sorgente di felicità.
Lui insisteva, e Benedetto teneva duro, nella speranza che la grazia avrebbe
illuminato quell'anima disgraziata, divenuta zimbello delle astuzie del
tentatore.
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Durarono così per un pezzo, fino a che un giorno il Santo, stanco di quelle
continue insistenze, pieno di sdegno, lo cacciò dal monastero, lasciandolo
libero di tornare a quel mondo che tanto sognava.
La sua preghiera però lo seguiva. Avrebbe permesso il Signore che una delle
pecorelle affidate alle sue cure andasse smarrita e che egli non potesse
renderla a Lui, nell'ultimo giorno della vita, felice di poterla riconsegnare al
Buon Pastore dalle cui braccia più nessuno avrebbe potuto strapparla?
I monaci si slanciarono fuori per vedere cosa mai accadesse, ma per quanto
guardassero, non riuscirono a scoprire nessuna traccia della belva che aveva
suscitato tanto terrore, e si trovarono invece davanti, in mezzo alla strada, il
loro confratello mezzo morto dallo spavento.
La preghiera del suo santo abate aveva rotto l'incanto diabolico, e, attraverso
il miraggio della felicità, i suoi occhi erano riusciti a discernere la vera
fisonomia del maligno che, certo ormai della sua vittoria su quell'anima
incauta, stava per farla sua.
Non c'è bisogno di dire che fin da quel momento il monaco custodì la propria
stabilità con inviolabile attaccamento.
L'episodio sembra il commento pratico, attraverso una paurosa esperienza,
delle parole che il Santo, a monito degli spiriti superficiali o imprudenti, ha
voluto
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inserire nella sua Regola, quando contempla il caso che si debba giungere
all'espulsione del monaco che «per persuasione diabolica» si sia lasciato
sedurre a consentire l'apostasia dalla vita monastica.
Non è questo del resto il solo caso nel quale da certe precauzioni che la Regola
impone come preventivo contro le insidie di Satana, siamo ricondotti
istintivamente al pensiero di episodi riferiti nella vita del Santo, i quali ci
offrono la migliore giustificazione delle sue preoccupazioni.
Per non essersi premunito così, e forse per non aver prestato troppa fede a
questa invisibile presenza dello spirito del male, sempre vigile a cogliere ogni
occasione buona per distogliere l'uomo dal servizio fedele del suo Signore, era
cascato in tentazione anche un buon amico del monastero, il fratello del
monaco Valentiniano.
Era un uomo di singolare virtù che, pur non avendo abbracciato la vita
monastica, nutriva una profonda venerazione per il santo abate di
Montecassino, e ogni anno faceva il lungo cammino che dalla sua abitazione
conduceva al monastero, a piedi, a digiuno, perché mediante questa penitenza
l'anima sua fosse meglio preparata a ricevere il frutto della preghiera del
Santo, ed era tale l'intima attesa di questo annuale convegno che, forse,
superava quella stessa di poter riabbracciare in quella circostanza il fratello
Valentiniano.
A questa, divenuta ormai una consuetudine, per niente al mondo egli avrebbe
rinunziato.
135
Il compagno gentile, data una sbirciatina al pellegrino e visto che non aveva
con sé niente da mangiare, insinuò con garbo:
Il tono della voce era cosi reciso che il discorso fini li, e si continuò a
camminare abbandonando quell'argomento.
Il buon uomo cominciava a pensare che mai la strada gli era sembrata lunga
come quella volta, e che proprio non ce la faceva più: che male ci sarebbe
stato, in fondo, a prendere un po' di respiro, a mangiare qualche cosa, e, cosi
ristorato, riprendere il cammino?
Erano giunti intanto a un luogo delizioso: un bel prato verde con una fonte
d'acqua che gorgogliava limpida tra i sassi, e, nell'arsura meridiana, un ciuffo
d'alberi che offrivano un riparo ombreggiato contro il sole bruciante.
136
potremmo ristorarci e riposare un po'; riprenderemo poi il cammino fino al
termine, con nuova vigoria. -
Arrivò al monastero che era l'ora del tramonto, ma quando fu alla presenza
dell'abate ebbe la poco piacevole sorpresa di non vedersi accolto con la
consueta patema benevolenza.
L'occhio del Padre ancora una volta era penetrato al di là del sensibile, nel
mondo degli spiriti, a smascherare le insidie, mettendo le anime faccia a
faccia con questo malefico potere delle tenebre che fa convergere ogni sforzo
nello strappare un'anima al regno di Dio.
Con molta abilità, passando ai fatti, nascose in luogo sicuro uno dei due
barilotti, e, diminuito il carico della metà, svelto e fresco si presentò al Santo
consegnandogli a nome del suo padrone il barilotto rimasto.
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rallegrava che il tiro fosse riuscito così bene, trasecolò nel sentirsi fare questo
discorso:
- Figliuolo mio, bada bene di non bere da quel barilotto che hai nascosto;
rovescialo con precauzione, e vedrai cosa c'è dentro. -
Fu un momento imbarazzante, quello, per il poveretto che non vedeva più
ormai se non l'ora di fuggire dalla presenza del Santo.
Non ci volle altro perché il male commesso gli apparisse in tutta la sua
gravità, e fu breve il passo per rendersi conto che era stato trastullo del
demonio, il quale si era servito di quel vino come di un amo per trarlo al
peccato.
Un giorno, per questo volle combattere Cristo: perché dietro a Lui anche noi
combattessimo.
138
Molti anni erano passati dal tempo in cui il giovane eremita dello speco,
accettando da Dio una nuova vocazione di paternità spirituale, aveva raccolto
intorno a sé le prime anime desiderose di perfezione.
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140
Sempre per questo stesso motivo possiamo pensare che una delle prime
preoccupazioni del Santo sia stata quella di stabilire presso l'ingresso del
monastero, in un locale adatto e convenientemente fornito del necessario,
141
Dalla torre centrale dove aveva scelto la sua dimora, come da una vedetta,
Benedetto poteva seguire con lo sguardo l'arrivo degli ospiti, ma perché
nessuno, bussando alla porta del monastero avesse ad attendere, il monaco
portinaio, scelto con prudenza tra i più saggi e maturi di vita interiore, ebbe la
sua cella vicino all'ingresso, in modo da essere così sempre a disposizione dei
visitatori, per accoglierli con quella premura che è traduzione pratica del
profondo atto di fede che nel fratello vede il Signore.
A fianco della torre, e collegato con essa, e quindi con la cella dell'abate, il
dormitorio dei fratelli. Non ne conosciamo le dimensioni e con ogni
probabilità non fu l'unico, se la comunità ebbe, come pare, rapido sviluppo, e
la Regola già contempla il caso che, se il numero lo richiederà, i monaci
dormano a dieci o a venti, sotto la sorveglianza dei decani.
Dal lato opposto, e appena dentro l'ingresso, l'oratorio al quale l'antico tempio
di Apollo aveva ceduto le sue linee di distinzione architettonica; non distante,
a terreno, il refettorio, e, benché non ne conosciamo nemmeno
approssimativamente l'ubicazione, la cucina, le dipendenze varie, tutti i locali
indispensabili allo svolgersi ordinato della vita comune, soprattutto quando in
essa deve essere eliminato ogni motivo di confusione e di inutile agitazione.
In alto, lontano dai locali di abitazione, l'edicola di San Giovanni Battista, sul
luogo occupato dall'ara di Apollo, e intorno, a cielo scoperto, tra gli alberi, il
piccolo cimitero dei fratelli, che era facile raggiungere mediante una breve
salita.
142
In questa cittadella ben munita, la pacifica armata del Signore vive la sua vita
ordinata e intensa, addestrandosi alla lotta più ardua, per il trionfo dello
spirito sulla carne.
All'ottava ora della notte, in media circa le due dopo mezzanotte, quando il
buio è ancora denso, e gli uomini dormono le ore più benefiche di un sonno
ristoratore, sulla vetta del monte incomincia la vita. Un monaco incaricato
della sveglia desta i fratelli, che balzando giù dal letto duro di povera gente
che ha rinunziato a ogni agio per seguire più da vicino il Cristo povero, si
affrettano verso l'oratorio per l'ufficio notturno.
Il canto dei salmi si alterna alla lettura dei testi sacri e dei venerandi dottori
che li commentano, e la lode si snoda continua salendo al cielo in nome
dell'umanità
143
Ognuno lavora per soddisfare alla legge imposta da Dio all'uomo peccatore
per espiare la sua colpa, e vede in questa estrinsecazione di energie un nuovo
modo di glorificare il Padre che sta nei cieli, mentre il canto delle opere si
fonde con la salmodia e la prolunga durante la giornata.
A mezzogiorno il lavoro sarà interrotto per il canto dell'ora di Sesta, così come
era stato sospeso per Terza, verso le nove del mattino. Scandendo le ore della
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Nei giorni festivi, quando le ore della mattinata sono occupate dalla
celebrazione solenne della Messa, e negli altri giorni nei quali non si pratica il
digiuno, dopo Sesta, ma per la maggior parte dell'anno dopo Nona, e quindi
circa le tre pomeridiane, sospesa la fatica prolungata fin dal mattino, i fratelli
si radunano per la refezione comune.
La famiglia di Dio, dopo aver implorato la benedizione del Padre celeste che
distribuisce ai figli i doni della sua Provvidenza, siede, con religioso rispetto, a
mensa, in un silenzio assoluto di parole e di movimenti, nel quale risuona alta
solo la voce del lettore che suggerisce alle menti pensieri di vita eterna,
mentre il corpo si concede il necessario ristoro. Mensa frugale di lavoratori ai
quali incombe il dovere di sostenere le loro energie, ma che con deciso e
prolungato atto di volontà hanno, per amore, rinunziato a quanto potrebbe
essere appagamento dei sensi attraverso la soddisfazione della gola. Mensa di
poveri che sanno di non poter niente pretendere perché hanno venduto ogni
bene proprio per acquistare la gemma preziosa della divina unione, e
accettano con umile riconoscenza quel che la Provvidenza offre loro
attraverso le disposizioni dell'abate. Berranno un po' di vino, se c'è, e
gusteranno i frutti saporiti, nell'arsura dell'estate, se ci sono, ché, se
mancassero, sanno bene che non per questo dovranno trarne motivo di
mormorazione.
145
La faticosa giornata sta per finire, forse le anime pensano che nei necessari
contatti con i fratelli vi è stata qualche cosa di meno buono, ombre che velano
la luce piena della carità, «spine di scandali» pungono il cuore, ma su questo
doloroso fermento di miseria umana, al termine dell'ufficio vespertino, san
Benedetto vuole che discenda il perdono di Dio, implorato nella maniera e
secondo la misura che Gesù stesso ci ha insegnato, e perciò in nome di tutti,
l'abate cantando ad alta voce il Pater noster supplicherà: «rimetti a noi i
nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».
Se non si digiuna, i fratelli fanno una piccola refezione, che servirà loro di
cena, prima che l'ombra abbia invaso il monastero, poi, radunandosi per
ascoltare in comune una lettura di edificazione intanto che giungono anche
quelli che diverse occupazioni trattengono più a lungo impediti, tornano a
riunirsi per la preghiera della sera, la «Compieta».
Anche fuori, con l'attenuarsi della luce, i rumori si sono venuti a mano a mano
spegnendo. Nel tardo crepuscolo, per l'ultima volta, sulla vetta del monte, si
leva verso Dio, a implorare protezione e difesa contro ogni pericolo, per tutti i
fratelli, la preghiera dei monaci.
Sulle casette che si stringono l'una accanto all' altra giù nella valle, o che si
staccano chiare, come sperdute tra il verde, si diffonde il canto che abbraccia
tutti gli uomini senza escludere nessuno:
146
Poi il canto tace, ombre silenziose affondano negli ambienti divenuti bui, il
silenzio domina assoluto, la giornata è finita.
Ogni giorno così, con regolarità perfetta, si snoda una vita che, attraverso una
stasi apparente, una specie di fissità gelosamente difesa dall'imprevisto che
potrebbe turbarne il ritmo sempre uguale, custodisce il massimo del
dinamismo interiore.
Non è un uomo, per quanto grande, ma è un'idea che vive e si impone senza
rumore. Il monaco, chiunque sia, ne è l'espressione concreta, e i valori dello
spirito che in lui hanno ripreso il predominio sulle voci della carne, esercitano
un fascino al quale è difficile sottrarsi, e che anche i più refrattari finiscono col
subire loro malgrado.
Perciò il monastero, casa di Dio, è la mèta alla quale tutti si volgono con
fiducia piena in ogni bisogno, perché i servi di Dio che lo abitano sapranno,
volta a volta, farsi i ministri della sua carità, della sua misericordia, della sua
giustizia.
147
Accolto con venerazione, come Cristo stesso, circondato di premure per la sua
anima e per il corpo, non tardava a sentire che poteva considerarsi, in un
certo senso, come nella propria casa, che era tra fratelli, dai quali riceveva il
dono di poter gustare, forse per la prima volta, l'esperienza soavissima della
carità di Cristo tradotta in vita vissuta.
Per togliere ogni disagio all'ospite, l'abate stesso, che lo faceva sedere alla sua
mensa, sospendeva il digiuno, in segno di festa, certo, ma anche con la
delicata preoccupazione di non metterlo in imbarazzo.
Per quegli ospiti che arrivavano a tutte le ore e che in monastero non
mancano mai, san Benedetto esige che siano sempre pronti dei letti
comodamente forniti di tutto, e che i loro pasti siano preparati da fratelli «che
sappiano compiere bene il loro ufficio». Non si tratta quindi di una ospitalità
sciatta e affrettata, ma di un vero esercizio di squisita carità, del quale il Santo
trova la giustificazione nella parola di Cristo che, venendo a noi nella persona
di ogni fratello, potrà dirci un giorno: «Io fui vostro ospite e voi mi avete
accolto».
Tra i vari precetti di vita spirituale che Benedetto lascerà ai suoi figli perché
servano loro di norma in ogni più svariata circostanza della propria esistenza,
molti riguardano le opere di misericordia da esercitare verso chiunque soffre
nel corpo e nello spirito, perché il monaco, isolandosi dal mondo, non chiude
il suo cuore alla voce del dolore umano, ma anzi lo allarga a consolarlo con
tutte le risorse di una carità che, nel contatto con Dio, raggiunge la sua
massima potenzialità.
Come un giorno nel suo speco, come poi sempre, il Santo non respinge
nessuno di coloro che salgono al
148
monastero col cuore pieno di speranza perché sanno che ivi abita l'uomo di
Dio, e anzi, interponendo la potenza della sua preghiera, ottiene spesso che
venga miracolosamente premiata la fede di quell'umile gente devota, come
accadde al servo del padre del nobile Antonio, che, deformato da
un'elefantiasi e non sapendo più a qual rimedio ricorrere, fu dal suo padrone
mandato a Montecassino perché il Santo gli ottenesse quella guarigione che
umanamente appariva impossibile; cosa che difatti avvenne.
A Benedetto si potevano affidare tutte le proprie pene, nessuno meglio di lui
sapeva comprenderle e sollevarle.
Con l'animo oppresso dall'angustia, senza riuscire a trovare un aiuto tra i suoi
conoscenti che lo sfuggivano per evitare di soccorrerlo, pensò di affidare la
sua pena al Santo. Andò a trovarlo, e gli espose la situazione disperata nella
quale si trovava, abbandonato com'era alle angherie del suo creditore, che
quasi gli rendevano la vita impossibile.
- Va', - gli aveva detto l'abate - e torna tra due giorni, perché oggi non ho
quanto ti occorre. -Il Santo non sapeva da che parte gli sarebbe giunto
149
Al terzo giorno qualcuno dei monaci gli venne a dire, con un certo stupore,
che sul cassone del grano si erano trovati tredici soldi d'oro, senza che si
potesse capire chi ve li avesse messi.
Scendendo dal monte col cuore gonfio di riconoscenza, la casa del Signore,
dove i suoi figli lo servono in fede e in carità, dovette apparire a quel
diseredato più che mai luminosa sotto il sole.
San Gregorio ci parla di un assiduo lavoro di evangelizzazione compiuto dal
Santo nella zona circostante a Cassino, e in due episodi dei Dialoghi lascia
intravedere alcuni monaci i quali erano stati mandati fuori del monastero per
motivi di assistenza spirituale alle popolazioni che si agglomeravano nei
borghi dei dintorni; evidentemente però sono casi sporadici di fronte ai quali
si impone l'atteggiamento costante della Regola la quale, sottolinea con
marcata severità, che il monaco deve evitare con ogni cura di uscire dal
monastero, e che, dentro il recinto monastico, egli deve svolgere tutta la sua
attività benefica.
150
monaco, ché anzi la mancanza di ogni norma al riguardo induce a credere che
essa esulasse, in linea di massima, dalle attribuzioni monastiche.
Lo stesso san Gregorio racconta del poco piacevole incidente occorso al santo
abate Eutizio che incappò in un serio processo da parte dell'autorità
ecclesiastica, proprio per aver voluto esercitare funzioni di ministero che a lui,
in quanto monaco, non competevano.
Meglio che proteso verso il mondo, ci riesce facile immaginarlo, pieno dello
spirito di tutti i giusti, raccolto in Dio, e, nella perfezione stessa della carità,
per virtù intrinseca di questa unione, imprimere la
151
Il brav'uomo non aveva il minimo dubbio che l'uomo di Dio avrebbe avuto
potere sufficiente per restituire la vita al suo bambino, purché lo volesse,
perciò, quando gli fu risposto che era assente, essendo andato a lavorare nel
campo, senza esitazione, deposto il figlioletto morto davanti all'ingresso del
monastero, corse concitato, stravolto, alla ricerca del Santo.
Non c'era da sbagliare, veniva verso l'abate, e ora erano chiare le sue parole:
152
La sua voce pacata, piena di serenità, sembrò calmare il dolore dell'uomo, per
lo meno lo rese più ragionevole, in modo da permettergli di spiegar meglio il
suo pensiero.
- Mio figlio è morto; vieni e risuscitalo, - e metteva nella sua richiesta quella
violenza decisa a non lasciarsi né piegare né convincere che è propria dei
contadini.
Il Santo fini con l'esserne commosso; quel dolore era cosi sincero e profondo,
e la fede di quell'uomo tanto viva, che pensò avrebbe potuto giungere fino a
Dio per strappargli il miracolo.
- Il suo cadavere è alla porta del monastero, - indicò l'uomo già rianimato
dalla speranza, e si uni al gruppo dei monaci per fare più rapidamente che
fosse possibile il tratto di strada che ancora restava da percorrere.
Quando si trovarono di fronte al corpicino irrigidito, sostarono tutti. Gli animi
erano sospesi, nell'attesa di qualche cosa di misterioso. Che cosa sarebbe
accaduto?
153
- Signore, non guardare i miei peccati, ma tieni conto della fede di quest'uomo
che implora gli venga risuscitato il figliuolo, e fa rientrare in questo corpicino
l'anima che ne avevi richiamata. -
La preghiera era appena finita che il cadavere del ragazzo cominciò a essere
scosso da un fremito, e, sotto lo sguardo attonito di quanti erano presenti, si
riebbe, palpitando, come al contatto misterioso di una forza sovrumana.
Benedetto allora, presolo per mano, lo restituì vivo e perfettamente sano al
povero padre.
Servire, nel compimento quotidiano della divina volontà, nella lode, «l'opera
di Dio», «ufficio nostro di servitù» per eccellenza; nel lavoro, umile e
riconoscente accettazione della nostra condizione di povere creature che
hanno peccato e devono espiare; nella carità, superando il velo opaco della
carne, per sovvenire al Cristo che si nasconde in ogni fratello.
154
IX. Cercatori di Dio.
Lo schema della giornata monastica, e la vita dai lineamenti così ben definiti
da dar quasi un'impressione di fissità, come si svolge a Montecassino, non è
che l'ossatura indispensabile a reggere l'attuazione coraggiosa e concreta
dell'ideale più alto che all'uomo sia dato porsi sulla terra: il raggiungimento
dell'unione col suo Dio, nella maniera più intima e reale possibile, sia pure
attraverso il velo della fede dal quale, finché siamo viatori, ci è vietata la
visione beatifica, la consumazione dell'unione nel possesso pieno e perfetto
della carità increata.
155
Ogni vita cristiana racchiude in sé, in potenza, questa capacità di ascesa fino
alla restaurazione dei più intimi rapporti con Dio, attraverso i gradi e le forme
diverse della santità, che tutte implicano però rinunzia al male e adesione al
bene, in un cammino senza soste che ha per termine Dio stesso.
In atto, pochi uomini, nella massa immensa, si impegnano per questa via, e
quelli che consentono ad
156
Alle anime che vengono a lui, e gli chiedono di essere formate alla vita
monastica, Benedetto porrà questo quesito fondamentale: se veramente
cerchino Dio «si revera Deum quaerant». Se abbiano cioè ben chiara nel
pensiero la mèta da raggiungere: il possesso di Dio, l'unione a Lui, attuata
progressivamente attraverso una carità ardente e inesauribile nelle sue
esigenze, e, insieme, una volontà tesa al conseguimento di questo ideale,
pronta a dar tutto per il Tutto, a tutte le rinunzie in misura totalitaria, senza
mezzi termini. Una volontà, in una parola, che è decisa a non contentarsi di
nessun bene intermedio, ma vuole, in maniera assoluta ed esclusiva, il Bene
per essenza, Dio.
San Benedetto concepisce la vita del monaco come un'attività somma, lotta,
corsa, ascesa faticosa. Non è
157
infatti senza sforzo rude che si compie nell'anima questo lavoro che implica
operazioni varie di eliminazione del male e di assimilazione del bene, lavoro
che dura quanto la vita, e che deve proseguire senza interruzione pur negli
inverni gelidi dell'anima, quando tutto vi sembra morto, attraverso la violenza
di suggestioni contrarie, nella deprimente costatazione di una miseria della
quale non giungiamo mai a toccare il fondo.
Il monastero sul monte di Cassino non potrà essere un comodo rifugio per
anime fiacche che sognano una pace idilliaca nella quale poter vivere al riparo
dalle molestie della vita. Benedetto lo ha concepito come una palestra dove, in
schiere compatte, ci si addestra alla lotta; una fucina dell'arte spirituale dove
si impara a forgiare la vita secondo le esigenze di un ideale supremo,
consentendo a essere battuti sotto il maglio, attuando in sé una morte
quotidiana nella gioiosa consapevolezza di dar così alla vita il suo valore più
alto.
L'atto della rinunzia introduce però in uno stato nel quale bisogna custodirsi
contro gli elementi che vorrebbero ritrarne il monaco, elementi esteriori ed
elementi intimi i quali impongono un doppio ordine di barriere, quella
esterna della clausura monastica,
158
Della separazione materiale dal mondo, Benedetto è geloso, con un rigore che
potrebbe, a prima vista, apparire eccessivo: il monaco non appartiene più al
mondo, deve con ogni cura eliminare i contatti che potrebbero mantenere o
far rinascere in lui una mentalità alla quale ha rinunziato per stabilire la sua
vita su un piano superiore, e regolarla esclusivamente in vista del possesso
pieno del regno di Dio.
E non solo fuori del monastero, ma anche nel chiostro, dovrà essere con
vigilanza austera eliminato quanto può divenire nell'anima elemento di
divisione, o può in qualche modo offuscare lo sguardo interiore volto alla
contemplazione di Dio, e del suo Cristo.
Vietati quindi i contatti con gli ospiti; che pure sono accolti con un così
squisito senso soprannaturale; vietato, a chi per qualunque motivo sia dovuto
uscire, riferire al ritorno le novità del di fuori; vietato rice-
159
vere lettere senza il controllo dell'abate; è la polvere del mondo che deve
essere eliminata perché non offuschi la purezza del cuore, e sia praticamente
resa possibile una vita conforme all'ideale, nel silenzio che lasci percepire la
voce divina, nella limpidità dell'occhio interiore aperto ad accogliere la luce
deifica.
160
una maggiore pienezza di vita nella quale la carità riassuma in sé ogni altra
attività interiore comunicandole luce e ardore.
Cosi a santa Brigida apparve in una visione san Benedetto, sotto l'aspetto di
un gran rogo fiammeggiante, al quale si accendono altri fuochi, né Dante
seppe concepire altrimenti il Patriarca dei monaci d'Occidente, e i monaci in
genere: «Questi altri fochi tutti contemplanti uomini fuoro». 1
___________________
161
«Ogni fine del monaco, e tutta la perfezione del cuore tende alla continua e
ininterrotta perseveranza nell'orazione, e, per quanto è concesso all'umana
fragilità, egli si sforza all'immobile tranquillità della mente e a una perpetua
purezza, in vista della quale cerchiamo senza stancarci e continuamente
esercitiamo sia ogni fatica del corpo, sia la contrizione dello spirito». 1
Per chi non riesca a penetrare al di là del velo delle apparenze, la vita
monastica assume un carattere di deprimente monotonia, dividendo, con
ritmo sempre uguale, le giornate nelle tre grandi occupazioni che devono
assorbire tutte le energie fisiche e intellettuali del «cercatore di Dio»: il
lavoro, la «lectio divina», l'«Opus Dei», con una parte preponderante per
queste due ultime che più immediatamente si ordinano al fine.
La prima occupazione del monaco, quella «alla quale niente deve essere
anteposto», è l'Opus Dei: l'Ufficiatura sacra alla quale sono dedicate parecchie
ore del giorno che, per questo suo essere intramezzato di preghiera, viene a
riuscirne come impregnato di santità.
___________________________
162
San Benedetto non offre ai suoi figli i salmi e i testi della Sacra Scrittura come
una qualunque formula di preghiera della quale essi si possano servire per
tradurre in qualche modo i loro sentimenti personali. Qui è invertito l'ordine:
non è la parola che deve essere piegata a significare ed esprimere l'idea
dell'individuo, ma questa idea particolare deve adeguarsi alla parola, che ha in
sé un valore assoluto, e, essendo parola di Dio, deve informare, trasfigurare,
impregnandolo di verità, il caotico e opaco complesso delle nostre misurate
esperienze umane.
Considerato così, l'Ufficio divino, l'Opus Dei, non è solo un atto di culto che
esaurisca in sé il suo valore, ma ha una potente efficacia formativa sull'anima
del monaco, la plasma, le imprime una sua caratteristica fisionomia di
profondità e di universalità, viene abbozzando quasi insensibilmente in essa i
tratti che dovranno farlo riconoscere tra i «figli del Padre».
D'altra parte, la parola di Dio è parola viva, «penetrante come una spada a
due tagli» e, nella misura in cui il cuore sarà purificato da ogni nebbia di cose
terrene, essa vi penetrerà con tutto lo splendore della Verità, fissandolo nella
contemplazione delle realtà eterne delle quali solo lo Spirito Santo può dare
l'intelligenza intima e personale, capace di tradursi in opere di vita,
comunicandogli il «sapore», il gusto delle cose di Dio.
163
È tale il valore che nella concezione di san Benedetto ha l'Opus Dei e che
sempre ad esso ha dato la tradizione monastica. Anche nel pensiero dei
profani l'idea di monaco è inscindibile da quella delle fastose celebrazioni
liturgiche. C'è in questo un aspetto di verità, in quanto il valore essenziale
dell'ufficiatura è stato costantemente messo in rilievo da uno splendido
complesso di colori, di suoni, di forme, quasi a unire l'omaggio delle cose a
quello dello spirito, ma solo un aspetto, in quanto ben altro è il senso e la
funzione della divina lode nella vita individuale del monaco, e, con una più
larga risonanza, nella stessa vita sociale.
Ma l'Opus Dei non basta. Per il suo stesso carattere di preghiera pubblica,
ufficiale, lascia sussistere nell'anima, anzi spesso acuisce il bisogno di qualche
cosa di più intimo, in cui, libera da ogni esigenza di forma esteriore, essa
possa, nel silenzio, ascoltare e parlare al suo Dio, alimentando la sua pietà
nella conoscenza, nella meditazione, nel gaudio della verità.
Ed ecco che san Benedetto vuole lunghe ore nella giornata, due in media
durante l'anno, molto di più nella Quaresima, quasi l'intera giornata nelle
domeniche, dedicate a quella che, con un'espressione densa di significato e
intraducibile nella sua bellezza, egli chiama «lectio divina»: un esercizio che
potremmo paragonare, per formarcene un'idea, a una lettura meditata, dalla
quale sia esclusa ogni curiosità intellettuale, e che sia unicamente un nuovo
aspetto di ricerca di Dio.
164
La lettura è uno dei mezzi più ordinari attraverso i quali Dio comunica
all'uomo la sua parola: ebbene, chinarsi con amore sui testi dei quali la grazia
può fare veicolo di comunicazioni intime, cercare di percepire, attraverso le
parole offerte a tutti, la parola personale che è tutta e solo per noi, e poi
chiuderla nel cuore perché vi maturi e germogli in fecondità di opere, ecco lo
scopo della «lectio divina».
La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri, opere profonde di sicura dottrina, le
vite dei Santi, offriranno all'anima del monaco un largo campo; che cosa
legga, in fondo, importa poco, ciò che conta è che egli non trasformi la «lectio
divina» in un pio divertimento o in uno studio arido, ma che con umiltà, con
amore, con ardore, leggendo cerchi Dio.
165
sia, rimangono a regolare gli scopi della «lectio divina» due motivi superiori
«aedificare et aedificari»: ossia penetrarsi della verità per comunicarla agli
altri in un intento di carità spirituale, oppure per illuminare la propria anima
avvicinandola a Dio, in modo che ne sia eliminata ogni oscurità, vinta
l'accidiosa indifferenza per le realtà soprasensibili.
Ma forse nessuno meglio del monaco medioevale autore della Scala del
Paradiso ha penetrato e tradotto, in uno schema limpidissimo, lo sviluppo
intimo completo che è racchiuso in embrione nella «lectio divina», che egli
svolge in quattro gradi successivi: lettura, meditazione, preghiera,
contemplazione.
Prima di tutto la lettura, ossia il primo contatto con la verità, poi lo sforzo di
penetrare, di assimilare questa verità, di farla diventare elemento vitale, forza
direttrice per la propria attività, e, a sorreggere questo sforzo, l'implorazione
del soccorso di Dio attraverso un complesso di sentimenti di riconoscenza, di
desiderio, di amore, per riposare finalmente nel gaudio del possesso, tregua
per l'intelligenza paga dell'Infinito, pace per la volontà che aderisce senza
limitazioni al Bene che solo può quietarla nella insaziabilità delle sue
esigenze: è la contemplazione.
San Benedetto esige che si porti alla «lectio divina» un'applicazione seria,
sostenuto; essa non è un facile
___________________
Non sarà quindi il leggere molto, il sapere tante cose, che per lui conta, ma
piuttosto lo stabilire in sé le condizioni di silenzio interiore, di docilità, di
desiderio, che renderanno possibile alla grazia il compimento della sua opera.
San Benedetto riserva al lavoro una media di sei ore al giorno. Una misura
non eccessiva per non opprimere lo spirito, ma sufficiente a impegnare il
monaco in un'attività seria, disciplinata, produttiva.
Più che il fatto in sé, è interessante il valore e l'ufficio assegnato al lavoro nella
concezione del Santo che sembra trascurare completamente le necessità
materiali che praticamente lo impongono, per farne un fattore tutto spirituale
della vita del monaco.
167
Due sono i grandi motivi del lavoro monastico. Il primo in quanto esso entra,
come parte preponderante, nella legge penitenziale imposta da Dio all'uomo
peccatore. Il monaco, membro anch'egli di questa razza prevaricatrice che
peccò in Adamo e al primo peccato ne aggiunse altri personali innumerevoli,
e, per di più, penitente per la sua professione, non può legittimamente
sottrarsi alla condanna che grava sui fratelli, e dalla quale nessuno è fatto
esente, sino alla fine dei tempi: «Col sudore della tua fronte ti procaccerai il
pane» (Gen. 3,19).
Per questo la cura che il lavoro riempia tutto il tempo che non è in maniera
più diretta speso nel servizio divino o nella lettura, e questo non solo per i
sani, ma anche, nelle debite proporzioni, per i più deboli e perfino per gli
ammalati, per non dire di quelli che, non essendo capaci di dedicarsi nei
giorni festivi a un più prolungato sforzo intellettuale nella «lectio divina»,
dovranno tenersi impegnati in qualche occupazione conveniente, come verrà
determinata dall'abate.
San Benedetto non ha voluto legare i suoi figli a una particolare ed esclusiva
forma di attività: purché non si tratti di attività che esorbitino dai fini e dai
limiti della vita monastica, purché sia rispettato l'equilibrio nella
168
distribuzione delle ore di ogni giorno, per il rimanente, una norma dal largo
respiro:
«Se ci sono degli artefici esercitino pure le loro arti,» (Regola c. 57) perché
ogni forma di operosità umana, in sé, vivificata dalla carità, può divenire
glorificazione di Dio, mezzo di espiazione e di redenzione per l'uomo.
169
reso possibile solo perché chi lo compiva guardava non tanto al fine
immediato e terreno quanto a un altro, segnato da san Benedetto stesso, e
proprio nei riguardi del lavoro monastico: «ut in omnibus glorificetur Deus»
(che in ogni cosa si dia gloria a Dio).
170
171
non anteporre assolutamente niente all'amore di Cristo, e che esige per Dio
l'amore totale, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze.
L'amore di Cristo! La frase che ritorna attraverso i vari capitoli della Regola
con una frequenza che non ha niente di studiato, come la spiegazione
suprema delle esigenze spirituali più austere, a tal punto, che parlando
dell'obbedienza monastica, il Santo potrà dirla la virtù che conviene «a coloro
che non stimano di avere niente che per essi sia più caro di Cristo»; gli altri,
quelli che non amano, come potrebbero comprendere il valore di questo
olocausto che è il dono più alto che una creatura possa fare a Dio?
Ed è così che al culmine dei dodici gradi di umiltà, che racchiudono un rude
cammino ascensionale di perfezione, la mèta, il compenso che giustifica ogni
sforzo sarà il raggiungimento della carità perfetta, la gioia dell'esercizio della
virtù, il possesso pieno di Dio.
Nel pensiero di san Benedetto, per il quale il monastero ha, come lineamenti
essenziali, il doppio carattere di famiglia e di scuola, è naturale che l'abate,
padre e maestro, venga ad assumere un influsso morale di importanza
decisiva nei confronti delle anime che Dio chiama alla vita monastica.
Per san Benedetto l'idea della paternità viene ad essere l'idea madre che
determina ogni manifestazione dell'abate, e imprime una specie di carattere
sulla sua anima stessa.
173
ma il Padre invisibile che sta nei cieli ha un suo rappresentante visibile nel
capo del monastero, al quale incombe il dovere di tenerne le veci più
degnamente che sia possibile, e che ha d'altra parte, per logica conseguenza,
diritto a un onore e a un amore unico da coloro per i quali, al disopra di ogni
valore terreno, egli è «colui che tiene le veci di Cristo».
Esercizio di fede che deve tener tesa l'anima del monaco verso la realtà
superiore velata dalle contingenze umane, variabili e relative, portandolo a
mantenere, attraverso le necessarie relazioni con una creatura, attuale e vivo
il contatto con Dio.
E se uno dei figli, per un momento poco vigilante, lascia che si offuschi il
lucido sguardo dell'occhio interiore, fermandosi sull'uomo, egli lo riconduce,
inesorabile, alla verità superiore che sola deve essere norma di pensiero e di
vita.
Si era fatto tardi, una sera, e il crepuscolo inoltrato riempiva ormai d'ombra il
refettorio, quando Benedetto poté pensare a prendere un po' di cibo, per cui
fu necessario rischiarare l'ambiente con una lucerna.
Evidentemente l'incarico avuto gli seccava; con molta probabilità a casa sua
aveva visto adempierlo dai servitori, senza che vi avesse badato chissà mai
quante volte, ma solo ora si rendeva conto che era una cosa sinceramente
fastidiosa, e la noia, trovando un alleato nell'orgoglio,
174
- Traccia un segno di croce sul tuo cuore, fratello; cosa vai rimuginando?
Segnati il cuore. -
E subito comandò ad altri che erano presenti di togliergli la lucerna dalle
mani, ingiungendo al colpevole, liberato ormai da quel fastidio, di andarsene
a sedere indisturbato, senza repliche.
La scenetta rapidissima mise addosso ai monaci, che per caso erano lì, una
incredibile curiosità, e non ebbero pace fino a che non si furono fatti
raccontare dal monacello tutto sbalordito e mortificato come fossero andate le
cose.
E fu per tutti una profonda lezione che li aiutò certo a capire come Benedetto
non considerasse alcuna gloria più alta di quella di esser stimato degno di
servire Cristo in chi lo rappresenta.
175
Egli non ignora certo che il santificatore è uno: lo Spirito di verità che Cristo
ha mandato all'uomo per trasformarlo, e, da un pugno di fango sfigurato dalle
passioni, fare un figlio di Dio, ma sa anche che questo spirito opera attraverso
altre creature scelte come canali ordinari di verità e di luce.
Non compie quindi un'opera sua personale, ma l'opera del Signore, e perciò
non pretenderà di modellare le anime su un unico stampo rispondente al
proprio ideale, ma si contenterà di «spargere il fermento della divina
giustizia» (Regola c. 2) nella mente dei discepoli.
176
su ogni episodio della vita, in quanto esso non può esser considerato qualche
cosa di sporadico, di chiuso in sé, ma come uno degli innumerevoli elementi
che tutti devono convergere al conseguimento pieno dell'unico fine comune:
la ricerca di Dio per l'unione perfetta con Lui.
E se per alcuni individui la parola finisce col perdere il suo iniziale valore, e il
suo effetto è quasi neutralizzato dalla tiepidezza di certe anime che sono
venute a patti con la natura, consentendo a una mentalità fatta di transazioni,
di interpretazioni, di adattamenti, l'abate dovrà vigilare, ricorrendo a più
efficaci lezioni, servendosi come alleate delle circostanze più svariate, che
potranno rendergli possibile di imprimere una verità in maniera indelebile
anche nei cuori più assonnati.
Che un monaco debba obbedire, per esempio, non è cosa che si possa
dimenticare, tanto più che a chiunque avesse chiesto di entrare a far parte
della famiglia monastica, san Benedetto cominciava col chiedere, non tanto se
fosse disposto a obbedire, quanto se avesse la «sollicitudo», la premura, la
soprannaturale passione dell'obbedienza, e non possiamo certo pensare che il
Santo abbia poi trascurato di inculcarla e di esigerla incondizionata dai suoi
figli. Un'obbedienza che abbraccia tutto, senza esclusione, perfino le cose che
a prima vista appaiono impossibili.
Ma siccome siamo uomini, e può accadere che in certi momenti anche le idee
più luminose si appannino, così avvenne che una volta il cellerario di
Montecassino ne fece una grossa, in questa materia.
Era tempo di gran carestia, e i poveri affluivano da tutte le parti per attingere
alla inesauribile carità del Santo che, incapace di un rifiuto, aveva finito col
dare quasi completamente fondo alle riserve della dispensa monastica.
Possiamo pensare che il cellerario guardasse con una certa malinconia, del
resto comprensibilissima, poche misure d'olio rimaste in fondo a un
recipiente di vetro, e
177
che avrebbe dovuto essere sufficiente ai bisogni dei fratelli chissà mai fino a
quando!
Il buon cellerario avrà pensato senza dubbio che la generosità dei santi è
davvero commovente, ma che ha bisogno di essere temperata con un po' di
buon senso umano, perché non degeneri in esagerazione, e, per parte sua, si
adoperò a mettercelo, facendo orecchi da mero cante all'ordine dell'abate.
Senza discussioni, senza replicare, dopo aver ascoltato con deferenza, scivolò
via giudicando che, proprio al lume della carità, considerati da un lato i
bisogni del suddiacono Agapito, e dall'altro quelli della comunità, la
preferenza doveva darsi a quest'ultima. Si sa, il più vince il meno!
Dopo poco, infatti, Benedetto andò a informarsi dal cellerario se quella carità
fosse stata fatta, e questi, colto alla sprovvista, dovette confessare di non
averne fatto niente, tentando di giustificarsi con quella che a lui appariva una
ragione di evidenza intuitiva. Come obbedire se dando via l'olio non ne
sarebbe rimasta nemmeno una goccia per i fratelli? Il padre abate doveva
capire ... e invece, niente affatto, dl quel discorso che avrebbe voluto essere
eloquente, il Santo capì solo una cosa, che
178
In una vita che pone tra i fini più necessari da raggiungersi la purificazione
dal male, il peccato acquista una sua specifica gravità, determinandosi una
specie di incompatibilità morale tra di esso e la professione monastica. Le
anime la percepiscono in proporzione della loro sensibilità spirituale, e in
Benedetto questa era acutissima.
L'oggetto stesso della colpa gli apparve come qualche cosa di impuro, di
intollerabile, e, con un accento di autorità al quale non era possibile resistere,
ingiunse a un monaco che per caso era presente di scaraventare giù dalla
finestra il boccione col poco olio che vi era rimasto. Egli non poteva
ammettere che si conservasse in monastero assolutamente niente che fosse
frutto di disobbedienza.
Qualcuno andò più tardi a spiare che fine avesse fatto quel disgraziato
boccione e, con molto stupore, fu riferito al padre abate che il recipiente,
nonostante il volo fatto, era rimasto intatto, e del prezioso olio non si era
versata nemmeno una goccia.
E non finì lì. La colpa era stata grave, si imponeva la necessità di punire e
guarire insieme, ridando a un'anima la visione esatta del valore
soprannaturale dell'obbedienza.
179
superiore, e soprattutto, era stato infedele alla promessa d'obbedienza fatta
solennemente davanti a tutta la comunità che ora veniva resa consapevole
della sua infedeltà. Bisognava ora che lui e tutti imparassero, per non
dimenticarlo mai più, che Dio si fa giuoco, nella sua onnipotenza, di tutte le
meschine precauzioni della nostra egoistica prudenza terrena. E, nella stessa
dispensa dove tutti erano raccolti, si prostrò in preghiera in mezzo ai suoi
figliuoli che pregavano con lui, ancora impressionati e addolorati
dell'accaduto.
C'era in un angolo un grande orcio vuoto, ben chiuso, ed ecco che d'un tratto
si vede il coperchio del recipiente sollevarsi come alzato da una mano
misteriosa e l'olio traboccare lentamente, e scivolando lungo i fianchi
dell'orcio, allargarsi per terra, ricoprendo il pavimento, sotto gli occhi
trasognati dei monaci che erano rimasti senza parola.
Se ne accorse anche il Santo, che desistette dalla sua preghiera, e nello stesso
istante l'olio cessò di scorrere. Gli fu facile allora, di fronte all'evidenza del
miracolo, completare le sue ammonizioni sullo spirito di fede e di umiltà, e il
povero cellerario, certo, non l'avrà dimenticato per tutta la vita.
180
missione quanto mai scabrosa e delicata, che non può esaurirsi nel
mantenimento della disciplina o nella buona amministrazione del monastero,
ma che si risolve in un servizio tale da esigere l'impiego di tutte le energie
migliori per il bene del suo gregge.
La personalità dell'abate quasi scompare, nell'esercizio di questa sua
paternità, che importa un lavoro continuo di adattamento alle possibilità delle
singole anime, condotte con ogni mezzo al raggiungimento del loro pieno
sviluppo e dell'impiego migliore del talento loro affidato.
Non sarà mai il «suo» ideale per quanto altissimo, che egli dovrà sforzarsi di
vedere attuato nei propri figli, ma unicamente l'ideale di Dio, scoprendo il
piano della Provvidenza per ognuno di essi, e conformandosi ad esso, al di
fuori di ogni soddisfazione personale.
181
Ma anche senza lasciarsi sedurre fino a cadere in una colpa così grave, si
dovette verificare, in una misura ben più larga, quel senso di malessere, di
angustia per le privazioni imposte, e forse più per quelle temute, quei
fenomeni di ripiegamento e di tristezze pessimistiche che si compendiano poi
tutte, anche se con sfumature diverse, in un comune difetto di sfiducia nella
Provvidenza.
Eppure Benedetto vuole che il monaco viva di fede; tutto il suo insegnamento
e la sua vita riposano su uno spirito di fede attiva, operante, che deve
informare ogni atto, ogni relazione con i fratelli, che deve garantire quella
pace senza la quale l'anima, turbata, non può perfettamente unirsi a Dio.
Un bel giorno si giunse a tal punto che, venuta l'ora della refezione, non fu
possibile radunare se non cinque pani: ben poca cosa per tutta la comunità,
tanto più se si pensa che non sappiamo se il resto del pranzo fosse molto
abbondante. Saremmo indotti a pensare di no, meditando su quella
«pusillanimitatem» di cui parla san Gregorio riferendo il fatto, e che ci mette
davanti una serie di facce lunghe con degli occhi sgomenti sui quali anche un
non esperto psicologo avrebbe potuto leggere un: «Come faremo?», o «Come
si vivrà?».
182
Quel giorno san Benedetto non si sdegnò: aveva davanti dei deboli, non dei
disobbedienti.
Non li rimproverò, erano troppo oppressi e forse irritati per poter sopportare
una correzione severa, e si limitò per quella volta a mostrare la poca coerenza
di un contegno semplicemente illogico per chi abbia fatto della parola del
Vangelo il fondamento della propria vita, e proprio appoggiandosi alle
promesse evangeliche abbia rinunziato a quanto potrebbe considerarsi una
specie di garanzia terrena.
Li voleva forti nella fede, incoraggiandoli a sperare che domani Dio avrebbe
saputo compensare la scarsità dell'oggi: «Perché il vostro animo è pieno di
tristezza per la scarsità del pane? Oggi è insufficiente, ma domani ne avrete in
abbondanza».
Un po' sollevati, ma forse non ancora del tutto tranquilli, passarono quel
giorno attendendo il domani, e difatti il giorno appresso si trovarono
ammucchiati davanti alla porta del monastero dei sacchi per ben duecento
moggi di farina, senza che mai nessuno riuscisse a scoprire per opera di chi la
Provvidenza avesse accumulato tutto quel ben di Dio.
Era la risposta del cielo alla fede del Santo, la prodigiosa conferma che niente
verrà a mancare a coloro che temono il Signore, e fidandosi di Lui, non si
lasciano sopraffare dalle difficoltà e dalla soverchia preoccupazione delle
necessità materiali.
183
occupazione, egli rimane il padre che non perde mai di vista i suoi figli, vicini
o lontani, e ne custodisce l'anima, spesso ancora non matura nella virtù, con
una premura di madre.
Ne aveva mandati due, un giorno, per affari del monastero, non molto
lontano: in giornata avrebbero dovuto essere di ritorno, quindi, secondo la
Regola, non dovevano per nessuna ragione permettersi di mangiar fuori.
Su questo punto tutti conoscevano il rigore dell'abate e si sarebbero guardati
bene dal trasgredire l'ordine.
Ma quel giorno, non sappiamo bene come sia andata, tra una cosa e l'altra si
fece tardi, e, stanchi com'erano, pensarono di riposarsi un po' presso una
buona donna che conoscevano bene.
184
fecero un buon pranzetto e poi ripresero, ben ristorati, la via del ritorno.
A mano a mano che salivano il monte, le ragioni che a loro erano sembrate
così evidenti poco prima, incominciavano a traballare nella loro coscienza, e
sentivano qualcosa che divenne senz'altro sgomento, quando, arrivati molto
tardi al monastero, e andati secondo il solito a prendere la benedizione
dell'abate, si sentirono domandare a bruciapelo:
Ma non avevano fatto i conti con quel mirabile dono che scopriva al Santo,
come fossero presenti, anche le cose lontane, e furono addirittura terrorizzati,
quando sentirono raccontarsi per filo e per segno la loro piccola avventura.
La voce del Padre, nella quale c'era forse più dolore che sdegno, scendeva sul
loro cuore, bruciante:
- Perché mentite in tal modo? Forse che non siete entrati in casa di quella tal
donna? E non avete forse mangiato, questo, quello e quell'altro cibo? E non
avete bevuto tanti bicchieri di vino? -
E giù, come se fosse stato presente, nella più minuziosa descrizione dei
minimi particolari. I due colpevoli si buttarono ai suoi piedi sgomenti,
confessando la propria colpa, e mostrarono un dolore così sincero che il Santo
non esitò a perdonarli, ingiungendo loro di non consentire mai più a fare, lui
assente, quel che in nessun modo si sarebbero permessi di fare alla sua
presenza.
Non era egli, del resto, il riflesso dell'occhio di Dio sempre aperto sulle sue
creature, e al quale niente sfugge, in cielo e sulla terra?
185
degli idoli alla vera fede, grazie alla predicazione del Santo.
Certo è che, sia il pensiero gli riuscisse gradito, sia i fazzoletti gli facessero
veramente comodo, sia per levarsi dattorno quelle sante anime, o, com'è
probabile, per tutte queste tre ragioni insieme, prese i fazzoletti e se li cacciò
in seno senza pensarci più.
- Come mai l'iniquità è entrata nel tuo seno? - Il monaco era al colmo dello
stupore, tanto più che, avendo completamente dimenticato l'episodio dei
fazzoletti, non si sapeva spiegare il motivo della riprensione nonostante
frugasse rapidamente nella sua coscienza.
186
Forse che io non ero presente, quando hai ricevuto i fazzoletti dalle serve del
Signore, e li hai riposti in seno? -
Non c'è da dire che i poveri fazzoletti furono immediatamente gettati lontano,
mentre il monaco, prostrato ai piedi del suo abate, manifestava tutto il suo
dolore per avere agito con tanta inconsideratezza.
Particolari che ci mettono a contatto, nella vita di ogni giorno, con l'intimità
della famiglia monastica, e nei quali l'elemento miracoloso non si sovrappone
al-l'umano fino ad assorbirlo, ma gli imprime piuttosto una sua singolare
suggestività, pur lasciandogli un tono di immediatezza e di spontaneità che ci
rende familiari con l'ambiente del Santo.
Tra i dati più caratteristici della funzione formatrice di san Benedetto è il suo
modo di mettersi in contatto con le anime.
Ben altra è la sua concezione. Sapendo che ogni anima è creata da Dio in
relazione a un misterioso ma reale disegno di santità, con attitudini, tendenze,
possibilità, che variano all'infinito, e che il fine di ognuna è il
187
raggiungimento del termine ideale assegnatole, in questo mirabile piano di
santificazione, capisce che nessuna creatura ha il diritto di sovrapporre un
proprio piano a quello divino, e assume discretamente il suo posto mettendosi
egli stesso, con dimenticanza piena di sé, a servizio di Dio, per il bene dei
fratelli.
Questo spiega l'immagine, ripetuta con insistenza, del Buon Pastore che deve
custodire le pecorelle del suo Signore, e vegliare a che ognuna di esse dia il
massimo rendimento, ché se questo non si verificasse, la responsabilità
ricadrebbe su di lui, inesorabilmente.
Perciò l'abate dovrà essere dotto nella sacra dottrina, per saper trarre a tempo
opportuno, dalle inesauribili ricchezze della rivelazione, quanto può meglio
rispondere alle esigenze più svariate dei suoi monaci, di tutti quelli che si
affidano a lui, nel loro bisogno di ricerca di Dio, perché egli li aiuti a liberarsi
dal groviglio delle passioni e a camminare più speditamente verso la mèta.
188
E tutto questo è vissuto dal Santo in maniera così intima e vitale, che non è
possibile più scindere la paternità con i relativi doveri e responsabilità, dalla
sua stessa vita spirituale. Davanti a Dio stesso egli sente di dover render
conto, non solo del gregge nella sua integrità di massa, ma del maggiore o
minore rendimento spirituale degli individui, uno per uno, e «dell'obbedienza
dei discepoli» in quanto, s'intende, dipenda da lui, dal suo impegno nel
mettere a contatto non solo la collettività in quanto tale, ma ogni monaco, con
la verità, dandogliene l'intelligenza e il gusto.
189
Nello stesso giorno nel quale giunse a casa, non sappiamo come, morì.
Avvenne allora un fatto quanto mai strano. Sepolto infatti, come di consueto,
il giorno seguente fu ritrovato il suo cadavere fuori della tomba. Per quanto la
cosa avesse dello straordinario, non sapendosene rendere ragione, lo
ricomposero nel sepolcro, ma il giorno appresso, daccapo.
190
La fama del prodigio si era diffusa in un baleno, e anche ai monaci non era
difficile trarre le conclusioni dell'accaduto; la lezione durissima aveva
prodotto il suo effetto.
Secondo l'uso del tempo si seppellivano i morti ponendo loro sul petto un
frammento dell'Eucarestia:
Benedetto staccò con le proprie mani una particella del Pane consacrato, e la
consegnò ai parenti, perché, posto il corpo del Signore sul petto del fanciullo,
a significare che era stato spiritualmente riammesso nella comunione della
famiglia monastica, lo seppellissero e stessero tranquilli.
Così il monachetto poté dormire in pace sotto la terra tornata buona per lui.
Forse perciò la Chiesa ha amato fissare in una inscindibile unità, nella sua
liturgia, il padre e i figli dell'anima sua «ecco con me i miei figli, tutti quelli
che mi ha dato il Signore, in signum» (Is.8,18).
191
Secondo la testimonianza di san Gregorio Magno la Regola ha, per una più
profonda conoscenza dell'anima di san Benedetto, un valore autobiografico di
primissimo ordine, che gli episodi dei Dialoghi illuminano, imprimendo quasi
un palpito di vita ai lineamenti già nettamente tracciati della fisonomia
morale del Santo.
Temperamento riflessivo, serio, volitivo, egli ci appare, anche dal lato umano,
magnificamente dotato per la sua missione.
192
E se si desse il caso di qualche monaco che trovando un po' lunga la via della
santità, volesse procacciarsi la soddisfazione di essere già stimato perfetto in
grazia di un certo atteggiamento esteriore, il Santo gli suggerisce con benevola
arguzia che non conviene «voler essere chiamato santo prima di esserlo, ma
prima bisogna esser tale, affinché poi lo si dica con maggior verità» (Regola c.
4).
193
Nello stesso affetto che lega i monaci al loro abate deve essere impresso
questo carattere di lealtà, gli dovranno perciò esser devoti «con umile e
sincero amore»: nient'altro, ma si raggiunge qui l'essenza stessa della carità
filiale.
Superando le forme andò alla radice stessa della vita cristiana, ai valori
essenziali, e nel rapporto di dipendenza dell'uomo dal Creatore scoprì le
ragioni supreme dell'esistenza che solo raggiunge il suo fine se vissuta in
ordine a Lui: con logica serrata, fu, fin da quell'istante, per tutta la vita, il «Vir
Dei»(l'uomo di Dio).
San Gregorio non avrebbe potuto adottare espressione più incisiva e sintetica
per esprimere questa donazione suprema dell'uomo che vuole, per un atto di
194
195
Tutta l'esistenza del Santo ha un carattere unitario che si impone anche agli
osservatori più distratti. Ogni decisione, ogni attività, sia nell'ambito
materiale che in quello spirituale, è vista sotto una luce unica, ordinata a un
fine, per lui il solo che giustifichi e dia dignità alla vita dell'uomo: che in ogni
cosa sia glorificato Dio, ma soprattutto attraverso la manifestazione delle
meraviglie operate dalla grazia in un'anima che si apra alla sua azione e la
secondi.
I tre anni passati nello speco, inaccessibile rifugio per una «vita nascosta con
Cristo in Dio», gli hanno rivelato, attraverso la meravigliosa azione del dono
del «santo timore», così evidente e profonda nel senso di adorazione che gli è
connaturale, l'essenziale della santità, che consiste nell'acquistare la coscienza
di appartenere a Dio e nell'agire in conseguenza, con sottomissione, meglio,
con adesione perfetta alla sua volontà, in quella intimità d'anima con Lui che
è un preludio del possesso pieno nella vita eterna, e che solo può essere
impedita dal male, sotto qualunque forma.
In Dio, la vita di Benedetto è completa. Gli uomini vi dovranno, volta a volta,
entrare con le esigenze più svariate, con l'esperienza amara di ogni miseria,
ma la loro presenza rimarrà ai margini dell'attività interiore del Santo.
196
Chiuso l'episodio, torna, in pace, al rifugio della «di letta solitudine» e ivi
«solo, sotto lo sguardo di colui che vede dall'alto, abita con se stesso» 1.
C'è qui tutto il programma intimo della vita del Santo: questa passione di
solitudine che non è odio del mondo, ma insopprimibile attrattiva ad
appartarsene, a immergersi nel silenzio come in un lavacro di purificazione, a
estraniarsi da una mentalità che è in contrasto con i pensieri, con i gusti, con
la volontà di Dio. Affiora, insieme, l'insostituibile dolcezza che egli gusta nel
vivere sotto lo sguardo del Signore davanti al quale ogni essere è presente
nella sua nudità assoluta, e quest'occhio divino riempie la sua vita solitaria
non di un'opprimente minaccia, ma della confortante, attuale certezza di un
vigile e inesorabile amore.
Se la vita è tutta in questo germe di grazia che fiorirà nella gloria della visione,
nella misura esatta dello sviluppo che le avremo dato di raggiungere quaggiù,
perché disperdersi nell'accidentale, nel contingente, nella vanità, e non
ancorarsi all'essenziale, che dà di poter attuare fin da ora, sia pure attraverso
il velo della fede, qualche cosa della beatitudine del cielo?
Egli è l'uomo che vive in attesa della visita del suo Signore, tiene l'anima
raccolta nel desiderio, le potenze
___________________________
197
E con Dio, che gli è sempre presente, egli parla con intimità, veramente vive
in Lui, con una immediatezza e una spontaneità di fede che è uno dei lati più
incantevoli della sua fisionomia spirituale.
Poiché vuole essere il servo che cerca sempre la volontà del Signore, una volta
che ne abbia acquistato coscienza non esita più sui mezzi per attuarla: è
l'esecutore che sa di poter disporre degli strumenti dell'onnipotenza, e se ne
serve con tranquilla sicurezza.
198
trattenerlo: «sopporti, non si dia per vinto, non torni sui suoi passi»
insegnerà al monaco posto in una situazione difficile; ogni impedimento
dovrà cedere alla sua decisione, perché la grazia non annienta la volontà
umana, ma, liberandola dalle contraffazioni e dalle deformazioni, le rende la
sua massima potenzialità.
Perciò, pur tenendo lo sguardo volto alle minime indicazioni della volontà
divina, Benedetto è un volitivo dal carattere netto, che conserva un fondo di
impetuosità, se pur contenuta da una inesorabile disciplina interiore: ne
fanno fede, oltre certi episodi della sua vita, alcuni incisi che si trovano con
frequenza nella regola e che sono espressione spontanea, incontrollata, della
sua potente personalità.
C'è qui tutto il Santo che non è nemmeno sfiorato dall'idea che si possa
adattare la Regola all'individuo, deformandola, ma che esige una dedizione
piena e cosciente alle esigenze dell'ideale determinate dalla Regola.
199
la grazia già per tanto tempo chiesta, e il chierico è liberato, però a una
condizione: che si astenga d'ora in avanti dal mangiar carne, e non ardisca
accedere agli ordini sacri. Se avrà avuto la temerità di farsi ordinare, subito
ricadrà in potere del demonio.
Il chierico se ne va sano e felice, e per un certo tempo è fedele a quanto il
Santo gli ha imposto poiché rimane ancora vivo in lui lo spavento dello stato
pietoso nel quale si trovava.
Passarono gli anni. Tutti i sacerdoti più anziani di lui, nella chiesa di Aquino,
a uno a uno morivano, ed egli vedeva con un certo malumore che venivano
ordinati alcuni inferiori a lui di età; la predizione di Benedetto era ormai
lontana, tanti anni erano passati! L'orgoglio irritato aiutò ad attenuarne il
valore nella sua coscienza, e si fece ordinare. Secondo la parola del Santo, ciò
gli valse di essere nuovamente invasato dallo spirito maligno che lo tormentò
fino a che ebbe vita.
Ma nobili e monache fin che si voglia, le due donne avevano conservato tutta
la loro sprezzante alterigia nel trattare con persone che ancora stimavano di
condizione inferiore, e, per di più, non conoscevano ritegno nello snodar la
lingua, in modo che la pazienza del pover'uomo, messa a dura prova dalle loro
impertinenze, finiva ogni tanto col traballare, e un bel giorno, stanco di
attendere che le cose si volgessero in meglio e di sopportare le continue
invettive delle padrone, andò diritto a sfogare le sue pene da san Benedetto,
200
Il Santo mandò infatti una severa riprensione alle poco amabili serve di Dio,
minacciandole della scomunica se non si fossero corrette. Quelle sentirono, e
continuarono come se niente fosse.
Sepolte nella chiesa, la loro nutrice, che era solita presentare a Dio l'oblazione
in suffragio delle padrone defunte, ebbe ripetutamente una strana visione.
201
dotta. La vita spirituale è cosa seria, non ci si balocca con Dio. Perciò egli
circonda di tanta solennità l'atto della irrevocabile donazione che il monaco fa
di sé al Signore, e lo ammonisce che deve attendersi la dannazione, se,
mancando di fede al suo giuramento, si sarà fatto beffe di Lui.
Non vuole dei superficiali nella vita spirituale, ma delle anime serie che si
impegnino a una milizia, e ne accettino in tutto il rigore la disciplina.
Uomo di vita interiore profonda nel commercio abituale con Dio, Benedetto
non ha però inaridito il cuore alla dolcezza dei rapporti umani con altre
creature capaci di comprenderlo e alle quali lo legano relazioni di intima
amicizia, quasi fraterne.
C'è, per esempio, il nobile Teoprobo, che la sua parola ha staccato dall'amore
del male e ha convertito a una vita più alta; un'anima generosa che vive con
serietà l'ideale cristiano, e al quale il Santo concede piena confidenza, tanto da
permettergli di entrare senza complimenti nella sua cella tutte le volte che ne
abbia bisogno.
202
Teoprobo rispetta quel dolore e attende, prima di farsi notare, che la crisi sia
sciolta, ma inutilmente. Il suo santo amico continua a gemere tra i singhiozzi,
in una supplica accorata. Allora si fa avanti e chiede con una certa esitazione
cosa mai sia successo, tanto gli appare insolita e profonda quella desolazione.
Forse la presenza dell'amico gli è di conforto, poiché Dio gli ha rivelato una
cosa terribile: quel suo monastero costruito con tanto amore, al quale è così
intimamente legata la sua vita, la casa destinata ad accogliere e a custodire le
anime votate al divino servizio, sarà distrutta; l'accurata organizzazione
materiale, studiata nei minimi particolari perché non frapponga ostacolo al
libero volo dello spirito, scompigliata per mano dei barbari, in balla dei quali
tutto sarà dato per decreto di Dio onnipotente.
Il suo pianto, la sua preghiera insistente sono appena riusciti, questa volta, a
ottenere che almeno la vita dei fratelli, in quel giorno d'angoscia, sia salva.
203
204
creazioni dello spirito, sfugge alle vicende degli elementi e alla ferocia degli
uomini.
Affiorano, nella vita del Santo, delle amicizie tenerissime, nelle quali
l'elemento umano affettivo è quasi impercettibile, mentre predomina quel che
nell'amicizia, perché sia veramente tale, deve rimanere l'essenziale: il contatto
intimo di due anime, nella reciproca comprensione della comune sete di
ascesa, delle esigenze della ricerca, del possesso di Dio, nella gioia della
fruizione di Lui, quando la carità sovrabbonda e la luce penetra, fino a
trasfigurarla, ogni manifestazione della vita.
Tutta una folla di anime, dai Vescovi ai chierici dei vari ordini, ai monaci che
vuole sempre accolti con particolari riguardi, alle persone delle categorie
sociali più svariate, si polarizza verso il monastero, viene a chiedere una
parola di vita, un viatico di forza a questa sorgente di interiorità che rifluisce,
inesauribile, su tutte le anime affaticate, mentre avanzano con pena lungo le
vie aride, troppo battute, del mondo.
Di tanto in tanto, per l'uomo di Dio, la gioia di un incontro più desiderato, una
sosta riposante nell'intimità con qualche fratello legato a lui con una di quelle
misteriose affinità che non sono rare tra i santi, tra questi intimi, il diacono
Servando.
Era abate del monastero di San Sebastiano, presso Alatri, a trenta miglia da
Cassino, e si concedeva ogni tanto una breve tregua di riposo spirituale per
andare à trovare il suo venerando amico. Spirito aperto all'azione della grazia,
ricco di interiorità, egli era fatto per comprendere Benedetto, e mentre si
comunicavano le dolci esperienze della vita soprannaturale, almeno
«nell'ardore del desiderio cercavano di gustare il soave cibo
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della patria celeste che ancora non potevano perfettamente gustare nella
gioia» 1.
Con l'anima tesa verso l'eternità, era facile perdere la nozione del tempo, e un
giorno, parlando del cielo, giunsero fino a sera, senza accorgersi che le ore
passavano. Di tornare ad Alatri non era più il caso, e Benedetto offrì all'amico
ospitalità nel piano inferiore della torre dove egli risiedeva abitualmente,
occupando la cella in alto, alla quale si accedeva per una ripida scaletta;
nell'ampio dormitorio attiguo i monaci avrebbero fatto posto ben volentieri
per i confratelli di San Sebastiano che l'ora tarda tratteneva a Montecassino
col loro abate.
Salo a vegliare, secondo una consuetudine che gli era cara, avendo prevenuto
l'ora dell'ufficiatura notturna, Benedetto stava in piedi davanti alla finestra,
assorto in preghiera, e il suo sguardo sembrava ancorato al di là degli astri in
una fissità estatica. D'un tratto il cielo si venne illuminando d'un chiarore
diffuso che fioriva dagli abissi dello spazio e, diffondendosi, investiva le
tenebre, inghiottiva le stelle, diveniva sempre più luminoso, fino a
raggiungere una tale intensità da superare la stessa luce del giorno.
In questo mare di splendore egli vide raccogliersi un fascio di luce più intensa,
come un raggio di sole, per esprimersi con le parole sbiadite del linguaggio
umano, e quel raggio racchiudeva in maniera reale e pur tanto misteriosa, il
mondo tutto intero. Il Santo, senza distogliere lo sguardo dalla marea di luce
che aveva sommerso l'azzurro cupo del firmamento, poté distinguere l'anima
del vescovo di Capua, Germano, che, in un globo di fuoco, gli angeli
trasportavano in cielo.
_____________________________
206
di sé, Benedetto volle fame parte all'amico, e con insistenza continuò a
chiamare a gran voce, senza muoversi, Servando, fino a che questi, spaventato
per l'insolito gridare in quell'ora notturna dell'abate, che conosceva rigido
custode della disciplina del silenzio, non si precipitò su per la scala, e, entrato
nella cella, fu ancora in tempo a vedere dalla finestra il bagliore che si
dileguava, lasciandosi sommergere dall'ombra.
Non avrebbe potuto rendersi conto del fenomeno, se il Santo non gli avesse
raccontato tutti i particolari della visione, preoccupandosi insieme di spedire
senza frapporre indugio qualcuno giù in città, a Cassino, per pregare
Teoprobo di correre sull'istante, prima che spuntasse l'alba, a Capua, e, dopo
essersi informato delle condizioni di salute del vescovo Germano, di venire a
riportargliene subito notizie.
207
Questo ci aiuta a capire quel senso di pacata bontà, di compassione per ogni
forma di miseria, di tranquilla indifferenza per ogni gloria umana, che è una
delle più decise caratteristiche della fisonomia morale di san Benedetto, e ci
spiega anche il sicuro tono di voce che egli usa nel rivolgersi agli uomini,
chiunque essi siano. Non è più, interiormente, uno che contende con i fratelli
per affermare una propria convinzione, o per
208
Le condizioni del popolo italiano erano, in questa prima metà del VI secolo,
veramente tragiche; le invasioni e le guerre avevano ridotto il popolo in uno
stato di vero squallore, e le prepotenze dei vincitori ne aggravavano la
situazione.
Figura tipica di barbaro spavaldo e violento quel goto ariano, di nome Zalla,
che sotto il governo di Totila, e col pretesto di zelo religioso, diffondeva il
terrore con una persecuzione spietata contro i cattolici, usando tale ferocia
che non avrebbe potuto sperare di uscirne vivo qualunque monaco o chierico
si fosse imbattuto in lui.
Ma non era solo lo zelo religioso a dar pretesto alla sua malvagità, possiamo
anzi esser convinti che le cose della terra lo attirassero e lo stimolassero non
meno delle sue convinzioni ariane, se un giorno, spinto dalla cupidigia di
dissanguare gli sventurati campagnuoli già ridotti alla miseria, non esitò a
metter le mani addosso a un ma1capitato contadino e a sottoporlo a feroci
tormenti, variati con ogni raffinatezza di supplizi, per indurlo a consegnargli
vere o supposte ricchezze.
Il pover’uomo, vistosi ridotto a mal partito, finì col dichiarare che aveva
affidato tutti i suoi beni al servo di Dio Benedetto. Sperava così che, se quel
selvaggio avesse prestato fede alle sue parole e sospesa la tortura, gli sarebbe
stata concessa qualche ora di tregua.
Non si era ingannato infatti, perché Zalla, forse pregustando la gioia di una
doppia preda, smise subito di
209
tormentarlo, ma, legategli le braccia con cinghie robuste, senza por tempo in
mezzo, cominciò a spingerlo avanti al suo cavallo, affinché lo conducesse
immediatamente a questo tale Benedetto che custodiva le sue sostanze.
Zalla era trionfante. Pieno di furore e deciso ad agire con la violenza consueta,
guardando il monaco che nemmeno sembrava essersi accorto della sua
presenza, incominciò a urlare scompostamente, forse irritato da quella
noncuranza e perché c'era chi non mostrava affatto di tremare alla sua
presenza.
210
Gli erano state raccontate cose che gli apparivano appena credibili sul conto
di Benedetto, e ciò spiega come, quando gli fu riferito che sarebbe stato bene
accolto a Montecassino, gli sia balenata alla mente l'idea di mettere alla prova
i tanto decantati doni taumaturgici del Santo.
211
onore alla sua dignità regale. Chiamato un suo scudiero, Riggo, lo fece
rivestire da capo a piedi dei suoi sontuosi abiti da sovrano e gli ingiunse di
recarsi dall'uomo di Dio fingendosi egli stesso il re, poi, perché niente
mancasse alla singolare commedia, gli mise al fianco, come scorta, tre conti,
Vulto, Ruderico e Blindino, che costituendo la sua guardia personale,
dovevano confermare il servo di Dio nella convinzione che si trattasse del re
Totila in persona.
Entrano nel recinto del monastero deve tutto è calmo, né si nota alcun
affaccendarsi per quella visita regale. Solo, al suo posto di vedetta, sulla loggia
davanti all'ingresso della torre, sedeva il Santo, che, al solito, non si mosse,
ma vedendo avanzare quella mascherata irriverente, gridò da lontano, ma così
da essere sentito:
Fu tale lo sgomento che nessuno osò fare un passo avanti per avvicinarsi al
Santo, e il povero re da burla, molto depresso e svergognato sotto la porpora
che gli doveva sembrare odiosa, non ebbe che da tornare in tutta fretta sui
suoi passi per dare a Totila il resoconto della ingloriosa impresa.
212
Era questo tutto quello che il Santo poteva dire a un re la cui anima si sarebbe
trovata, un giorno non troppo lontano, a faccia a faccia con Dio.
213
Che si senta onorato di queste visite illustri, no, esse rimangono al di fuori di
ciò che costituisce l'interesse vitale della sua anima e della vita della
comunità; si sente che egli vive più in alto, in una sfera dalla quale si può
contemplare senza agitazione il fluire delle persone e delle cose, si sente ancor
più in lui la percezione netta di questa realtà, che Dio è il padrone assoluto di
ogni vicenda, sia nella vita individuale che in quella sociale, e gli uomini non
possono danneggiare i fratelli se non nella misura da Lui consentita, e lo
servono loro malgrado nell'attuazione dei suoi disegni di giustizia e di infinita
sapienza.
È un giorno rigido d'inverno, sul finire del 546. Nel refettorio Benedetto
divide la mensa col suo ospite Sabino, vescovo di Canosa, alla presenza di
qualche fratello, e insieme parlano della situazione politica del momento con
tutte le sue incognite, ma già pregna di elementi tali da lasciar adito alle più
pessimistiche previsioni. È imminente, se pure non già avvenuta, la catastrofe
militare che avrà come conseguenza l'ingresso dei Goti a Roma e la inevitabile
devastazione della città. Chi potrebbe mettere un argine alla ferocia armata di
quei barbari? Anche senza atteggiarsi a profeta, Sabino crede di poter
prevedere che Roma sarà ridotta dai soldati di Totila a un tal cumulo di
macerie da non poter più essere abitata.
Benedetto vede più lontano. Forse gli passa attraverso la mente il ricordo del
suo singolare colloquio col re, un pover uomo anche lui, che non potrà
spostare una pietra al di là di quel che Dio non abbia consentito.
214
Di fronte ai presentimenti angosciati dell'amico, sereno come se leggesse nel
futuro, afferma che non avverrà a Roma niente di quanto si teme, poiché non
è suo destino che sia sterminata dai barbari. La sua grandezza verrà invece
sgretolandosi, in un progressivo disgregamento di quello che ne ha costituito
la pompa terrena, sotto gli assalti delle tempeste, dei terremoti, degli altri
accidenti naturali, ai quali, come oppressa da stanchezza, non sarà più capace
di opporre una reazione efficace.
Si è creata intorno alla figura di san Benedetto tutta una letteratura che, pur
essendo sempre ispirata a un sincero entusiasmo, non è forse sempre stata,
purtroppo, altrettanto illuminata, e ne ha, pur con le migliori intenzioni,
sfigurati i lineamenti, rappresentandocelo, volta a volta, come il Santo del
lavoro, il civilizzatore della società imbarbarita, il salvatore della cultura
classica, l'appassionato cultore della liturgia.
215
A questo fine, che potremmo dire esclusivo, della vita del Santo, sono
subordinati tutti gli altri valori, e ogni attività che ne deriva, determinata dai
contingenti, se pure inevitabili rapporti con i fratelli, ha il suo senso vero solo
nella misura in cui rientra in questa concezione unitaria che ci dà tutto san
Benedetto in profondità. Egli è il «Vir Dei», e solo questo, e nient'altro che
questo, l'uomo che tutta la sua vita potrebbe riassumere in una parola
semplice e immensa, detta ogni giorno a Dio in umiltà di cuore: «Tu sei il mio
Signore, io la creatura tua, il tuo servo».
216
217
Anche se non avesse avuto cura di metterci in guardia san Gregorio, non
avremmo tardato a scoprire che chi ha scritto questi capitoli senza drappeggio
di frasi, scavalcando con passo deciso i canoni della retorica, non è un
ignorante, se pure avesse potuto trarci in inganno il ricordo degli studi
troncati a metà, nei lontani anni di Roma.
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San Benedetto ha intuito questa legge necessaria della vita che, senza
sciogliersi dal passato, si apre a nuove esperienze. A ogni pagina della Regola
noi possiamo rintracciare le fonti alle quali il suo pensiero si è alimentato, le
assonanze, non solo d'idee, ma spesso perfino di frasi, di periodi interi, con i
suoi maestri; eppure un simile lavoro, per quanto minuzioso e ricco
d'interesse,
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219
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Fede viva nella quale l'azione del santo timore si fonde con la carità più
ardente e determina quell'atteggiamento pratico di adorazione che non si
esaurisce nella solennità della liturgia ufficiale, ma custodisce l'anima in una
sottomissione perfetta alla divina volontà, insegnandole il segreto di questa
vita in Dio che ha come fondamento il bisogno della lode, della gratitudine,
della donazione nell'amore, per amore.
Questa visione così netta, questa potenza interiore che dà un soffio di vita
anche alle prescrizioni più banali, spiega certi scatti appena traditi da incisi
rivelatori, abbastanza frequenti del resto, quasi espressione dell'impazienza
della carità ritardata nella sua corsa dall'ostacolo previsto, o anche solo
temuto.
Rapido, nervoso, torna sotto la penna di Benedetto un «quod absit» (non sia
mai), che sembra voler respingere anche solo la possibilità del male, e ci
scopre insieme la nota di decisione, di energia volitiva che gli è così
caratteristica e che egli con rara potenza ha
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La Regola, che non ha niente di cupo, che non propone ardite acrobazie
spirituali, esige però, con una intransigenza che sembra dettata dalla gelosia
appassionata dei diritti e della gloria di Dio, serietà assoluta, cosciente, negli
atti che il monaco compie: nessuna leggerezza potrà offrire giustificazione per
la colpa.
Proprio perché è una cosa seria l'impegno di vita monastica che si assume con
Dio, egli esige lunga prova, riflessione prudente, conoscenza minuziosa degli
obblighi liberamente accettati, e può minacciare, qualora si manchi ad essi, la
condanna da parte «di Colui del quale ci si fa beffe»; perciò l'obbedienza
promessa non avrà altri limiti che quelli stessi della vita, e la povertà avrà
esigenze di distacco talmente austere e universali che il Santo non esita a
ricordare come nemmeno più possiamo disporre «del nostro corpo o della
nostra volontà»,
Egli non si rivolge a dei dilettanti di vita spirituale,
222
ma parla ad anime serie; queste lo sapranno capire, e sarà dovere del maestro
scrutare se il novizio possiede questa «serietà», che poi equivale alla sincerità
nella ricerca di Dio. Che se non l'avesse, il Santo è esplicito: è meglio che
«libero parta».
Egli pensa al decoro degli abiti, soprattutto se si debba uscire; alla cucina
degli ospiti, perché sia più accurata; ai monaci che, dovendo servire a mensa,
avranno bisogno di un leggero ristoro prima di prendere il loro pasto.
L'identica cura dell'ordine esige anche negli altri: in chi legge, in chi ha una
qualunque responsabilità nell'ufficiatura o in un servizio che interessi
comunque la comunità, nella stessa disposizione con la quale i fratelli si
seguiranno trovandosi insieme, perché l'ordine è condizione di pace, e la pace,
anche esteriore, è condizione necessaria al contatto dell'anima con Dio.
223
Eppure questa minuziosa cura dei particolari non giunge a irrigidire, in forme
invecchiate, la disciplina spirituale che la Regola impone, e questa è cosa
mirabile.
A questo si deve se il colore degli abiti, la misura del cibo, l'attività specifica di
ogni monastero, il criterio da seguirsi nei digiuni durante l'estate, la stessa
disposizione dell'Ufficio divino, hanno avuto delle determinazioni pratiche
molto diverse attraverso i secoli e in regioni diverse, pur senza intaccare
l'unità spirituale della famiglia monastica che, proprio per la sua fisonomia
singolare, può attuare il medesimo ideale unico e immutabile attraverso le
forme accidentali più svariate, integrando nella sua osservanza elementi
determinati dalle particolari condizioni storiche o ambientali.
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225
cercare il motivo nel fatto che, accentuando l'uno o l'altro degli elementi della
vita monastica insuperabilmente fusi dal Santo, si sono allontanati da quel
criterio di equilibrio soprannaturale e insieme squisitamente umano nel quale
egli «ripieno dello spirito di tutti i giusti» ha saputo contenere la sua
legislazione.
226
dopo aver percorso, per una tacita connivenza col male, una lunga via in
discesa, ora deve sforzarsi di rifare il cammino in salita, impegnandosi a
quella fatica purificatrice che sola può permettergli il ritorno a Dio dal quale si
era allontanato.
Ma c'è anche un altro aspetto della Regola che vale a spiegarne la perennità,
ed è la sua aderenza ai libri santi, così evidente che Bossuet ha potuto
definirla «sommario del Cristianesimo, dotto e misterioso compendio di tutta
la dottrina del Vangelo».
Lo stesso san Benedetto del resto non ha alcun programma spirituale che si
sovrapponga al Vangelo, poiché vede nel monaco un cristiano perfetto nella
generosa imitazione del Cristo, il Modello unico, l'unico Amore; traccerà
perciò una via lineare: «sotto la guida del Vangelo, battiamo le sue vie», le vie
di Gesù, da Betlemme al Calvario, alla gloria nel seno del Padre.
La Regola sovrabbonda nelle citazioni della parola divina, quasi voglia con
essa determinare una specie di necessità per le sue prescrizioni, espressione
di una volontà che Dio stesso ha comunicato all'uomo e che il monaco dovrà
vivere con fedeltà e con intensità tutta particolare, poiché egli è, per
professione e per vocazione, l'operaio, il servo, il soldato del suo Signore. E
proprio perché dalla divina parola trae la sua forza, ne partecipa insieme la
freschezza e l'attualità nell'ininterrotto fluire delle generazioni umane.
227
C'è per lui un grado di perfezione religiosa che è inerente alla professione di
monaco, così che a non praticarlo si dimostrerebbe di non possederne
neanche i primi rudimenti, ed è al raggiungimento di questo che provvede la
Regola, in modo da dimostrare «di possedere onorabilità di costumi, e un
principio di vita monastica». È una prima tappa, suscettibile di ulteriori
sviluppi, che nella corsa dell'anima verso la santità apre l'adito, una volta che
sia stata generosamente superata, a quelle vette sublimi di perfezione sulle
quali proietteranno la loro luce le dottrine e gli esempi dei Padri, chiamati da
Dio a tale altezza che non può proporsi alla massa, inguaribilmente malata di
accidia, e ancora troppo esposta al fascino delle cose terrene.
228
Ben diverso l'atteggiamento del Santo nei riguardi della preghiera ufficiale,
pubblica, che egli cura fin nei minimi particolari, disponendone lo
svolgimento con così sapiente accuratezza, che l'ordinamento da lui stabilito
avrà un influsso decisivo e stabile anche sull'ufficiatura della stessa Chiesa
Romana.
229
missione, in virtù della quale si diffonde sulla terra un'eco del Sanctus eterno
che i Serafini, velandosi il viso, cantano nel cielo all'Onnipotente.
Le preferenze di san Benedetto, che pure, per averla vissuta, conosce la vita
eremitica, sono decisamente per quella cenobitica, e in vista di questa egli ha
scritto la Regola, traducendo in essa una meditata esperienza, affinché in
schiera serrata i fratelli marcino decisi, forti della loro compattezza, verso
l'ideale.
230
Saranno eliminati a tal fine tutti i motivi di divisione per eventuali differenze
sociali. Una volta abbracciata la vita monastica «schiavi o liberi siamo una
sola cosa in Cristo, e sotto un unico Signore compiamo la stessa milizia».
Per la prima volta nella storia del monachesimo, san Benedetto esige, agli
inizi della vita monastica, una vera e propria professione religiosa, sotto
forma di contratto bilaterale, che il monaco in maniera esplicita, pubblica e
solenne, stipula con la comunità alla quale chiede di appartenere, secondo un
rigido procedimento giuridico la cui testimonianza, racchiusa nel documento
da lui scritto e firmato e deposto sull'altare, sarà conservato negli archivi del
monastero.
231
delle giovani reclute che essi si sforzano di condurre alla più alta perfezione di
questa virtù.
232
Per il Santo non esiste nessuna situazione che meriti di essere considerata tale
da giustificare un volontario allontanamento del monaco dalla sua famiglia
d'elezione; non la salute, perché anzi agli ammalati i fratelli serviranno come
si servirebbe al Cristo, ed essi, dal canto loro, avranno cura di esercitare
durante l'infermità le virtù monastiche delle quali hanno fatto professione;
non la vera o presunta mediocrità dei superiori che non conformino la loro
vita agli insegnamenti che trasmettono senza attuarli in sé, ché basterà allora
«fare ciò che essi dicono e non fare ciò che essi fanno»; e nemmeno, se vi si
dovesse giungere, la subdola persecuzione di falsi fratelli, o quella, aperta e
violenta, di persone costituite in autorità, per il semplice motivo che prima di
assumere un impegno definitivo davanti a Dio e alla comunità, tutti questi
casi sono stati previsti e considerati e si è accettato di perseverare nel
monastero «usque ad mortem» (fino alla morte).
La ragione profonda di tutto questo è evidente: il monaco non chiede alla vita
religiosa un rifugio pacifico che lo esoneri dalla sofferenza, egli anzi, per una
più chiara conoscenza della potenza redentrice della croce, aspira a inserirsi
nella maniera più vitale nel mistero di salvezza che non opera «sine sanguinis
effusione» (senza spargimento di sangue).
233
234
Nessuna rigidità per tutto ciò che è contingente. Figlio del suo secolo, il
monaco ne assimilerà quanto vi può essere di buono, comprendendone a
fondo le esigenze, senza negare la sua opera dove essa sia necessaria, con un
adattamento costante, attraverso i tempi, e a seconda dei paesi dove la
Provvidenza lo ha posto; ma intimamente, nella sua realtà più segreta e più
vera, i suoi lineamenti rimangono immutati, e tanto più sarà feconda la sua
vita, quanto più compiutamente tradurrà in sé i tratti della Regola;
avvicinandosi all'ideale perfetto che il Santo ha voluto tracciare, esso trova la
sua espressione nelle condizioni lineari che egli pone all'anima prima di
ammetterla nella scuola del divino servizio: se veramente cerchi Dio, se abbia
in cuore il bisogno ardente della lode di Dio, il segreto tormento di ridiventare
puro attraverso l'obbedienza e l'umiliazione.
Per quest'anima la Regola santa sarà magistero di salvezza lungo «la via della
vita», fino a quel regno eterno dove il Signore attende di manifestarsi ai suoi
eletti; sarà guida ricca di soprannaturale sapienza per tutti i pellegrini del
cielo che compiono nel tempo il loro cammino di ritorno alla casa del Padre.
235
XIII. Il giorno eterno
I tempi si facevano sempre più tristi. Mentre Totila con i suoi Goti si
avvicinava ormai a Roma per stringerla d'assedio, un ordine dell'imperatore
Giustiniano ne aveva allontanato il pontefice Vigilio, chiamandolo a
Costantinopoli nel novembre del 545, proprio quando più urgente appariva il
bisogno della sua presenza tra il popolo minacciato e affamato.
A Roma la gente moriva di fame per le vie, né quelli che riuscivano a evadere
dalla città trovavano in genere sorte migliore, sperduti nella campagna, tra
pericoli di ogni specie.
236
tragico frangente aveva preso in mano le sorti del popolo, era andato fino al
campo nemico a supplicare il re Totila di concedere un breve armistizio agli
assediati, i quali ne avrebbero avuto un po' di sollievo, ma non ottenne che
uno spietato e inesorabile rifiuto.
Per un anno la città si difese contro il nemico, fino a che un gruppo di soldati
isaurici, stanchi di quel lento morire, aprirono a tradimento, durante la notte,
la porta Asinaria, lasciando entrare i Goti che, schierati davanti al Laterano,
attesero lo spuntar del giorno, mentre la popolazione terrorizzata si accalcava
nelle chiese implorando salvezza.
Questa volta Pelagio riuscì a ottenere da Totila la vita dei cittadini e il rispetto
delle donne, ma la città fu saccheggiata avidamente, parte delle mura
smantellate, il popolo fatto evacuare a viva forza e disperso, mentre i cittadini
delle classi più elevate, imprigionati, vennero trascinati attraverso la
Campania dal re che, partendo a precipizio verso l'Italia meridionale, secondo
l'autorevole testimonianza dello storico Procopio, lasciava Roma deserta.
Forse, rasentando Cassino, gli tornò alla mente l'incontro col santo abate e la
sua predizione che gli incombeva sull'anima, tra l'ebbrezza di ogni vittoria,
come una minaccia inesorabile. Era entrato in Roma, ma intanto gli anni
passavano, senza che niente valesse a trattenerli, e quel suo correre incontro a
nuovi trionfi verso il mezzogiorno, poteva equivalere, se Benedetto aveva
detto giusto, a un correre incontro alla morte.
237
Né meno penosi dovevano giungergli gli echi delle vicende che si svolgevano a
Costantinopoli, dove il Papa era tenuto in una larvata ma autentica prigionia
dall'Imperatore, deciso con tutti i mezzi a piegarlo alla sua volontà, mentre
intanto divampavano violente discussioni tra greci e latini.
Benedetto aveva speso tutta la sua vita nel più generoso servizio del Signore;
sentiva ora che la sua giornata di opere era compiuta. Prima di declinare in
una stanca vecchiaia, Cristo, il suo vero, il suo unico Re, non l'avrebbe
chiamato a godere «i giorni buoni» che sono poi il grande giorno unico
dell'eternità?
Ma già i suoi ultimi mesi di vita terrena ci appaiono illuminati da una luce
tranquilla che è come un riflesso di quella del cielo.
Durante tutta la sua esistenza, la figura del Santo ci era apparsa solitaria,
completamente e volontariamente segregata dalla famiglia naturale, per
rendere più effettiva e profonda la sua dedicazione a Dio.
Eppure al limite estremo della sua esistenza terrena, si schiude uno spiraglio
su questa zona dei suoi affetti tenuta gelosamente chiusa a ogni indiscreta
238
investigazione, e compare, per una deliziosa scena conclusiva, che nella sua
brevità ci rivela molto più di quel che le parole non esprimano, il profilo di
una sorella teneramente amata, unita al Santo non meno strettamente per
identità di ideali che per fraternità di sangue.
Quel che sappiamo con certezza è che l'anima pensosa, fiorita nel rigore
ascetico di una consacrazione verginale che l'aveva votata a Dio fin
dall'infanzia, dovette essere vivamente colpita dalla vocazione monastica del
fratello che trovò una risonanza profonda nel suo spirito.
239
fedeli alla rigida disciplina tradizionale secondo la quale non era lecito alle
donne varcare le porte di un monastero, l'incontro avveniva fuori del recinto
monastico, in una piccola dipendenza abbastanza vicina, dove il Santo,
accompagnato da qualche discepolo, scendeva a incontrarla.
Ora quel Dio cercato con perseveranza e con fedeltà attraverso le vie dure e
aspre della rinunzia, si comunicava a loro con una inebriante esperienza
soprannaturale che prorompeva nella lode, fondendo gli spiriti in una
intimità superiore a quella possibile a qualunque vincolo di carne e di sangue.
Furono forse quelli che erano con loro, e che ancora non erano divenuti
insensibili agli imperativi delle esigenze terrene, a richiamarli alla necessità di
prendere un po' di cibo.
240
colloqui. Scolastica si rese conto per la prima che ormai si era fatto tardi e che
sarebbe stato necessario separarsi, eppure la sua sete di trattenersi ancora a
parlare di Dio sembrava, anziché placarsi, farsi più violenta, quasi che
l'anima, ancora nell'impossibilità di slanciarsi verso la visione eterna, cercasse
un compenso nei riflessi della gran luce che investiva Benedetto, attraverso le
cui parole le sembrava di cogliere la traduzione in parole umane di
quell'inesprimibile che ormai trionfava nella sua vita e le dava strane
impazienze di cielo.
- Che dici mai, sorella? Non è assolutamente possibile che io rimanga fuori del
monastero. -
Non insisté, non discusse, sarebbe stato inutile. In silenzio intrecciò le mani
sul tavolo e, reclinato il capo, disse il suo dolore a Dio, mentre dagli occhi
scaturiva un torrente di lacrime; non era un capriccio sentimentale il suo, ma
l'esigenza di un amore violento che sembrava nel suo impeto poderoso voler
infrangere la fragile diga della carne per gettarsi nella Carità infinita. Non
capiva dunque Benedetto che c'è un grado
241
Questa volta Scolastica ebbe una vittoria completa e il Santo, visto inutile ogni
tentativo di sfidare la bufera che imperversava più violenta che mai, si
rassegnò
242
a consentire per necessità al dono di quella nottata che non aveva creduto di
poter concedere all'affetto fraterno.
Vegliarono così tutta la notte, dissetando le loro anime all'unica fonte d'acqua
viva che per entrambi era l'amore supremo, la sola ragione dell'esistenza.
Fu una festa dello spirito, fino all'alba, che li trovò ancora intenti ai loro
deliziosi colloqui. Quando si separarono e percorrendo vie opposte sul terreno
molle per la pioggia recente, tornarono lui sulla vetta del monte, lei alla sua
cella verginale, sembrava li unisse una nuova intimità che faceva pensare a
quella degli spiriti beati che la visione e il possesso dell'unico Dio fonde in una
superiore unità di intelletto e di volontà.
Erano passati appena tre giorni, e l'uomo di Dio, stando in piedi davanti alla
finestra della sua cella sulla torre, quella stessa della mirabile visione che gli
aveva rivelato le creature tutte raccolte nella luce del Creatore, mentre, con un
movimento che gli doveva essere abituale, affondava lo sguardo nel cielo,
vide, in una luce abbagliante, una colomba candida volare diritta, con le ali
tese, verso l'alto, e scomparire, quasi luce nella luce, nelle profondità
dell'azzurro.
Ebbe l'intuizione immediata che quella fosse l'anima della sorella nell'atto in
cui, rotto l'involucro corporeo si slanciava verso Dio, ed egli stesso si sentì
trascinato da un torrente di gioia.
Nessuna ombra di tristezza in questa visione di moro te che era il trionfo della
vita, dell'amore, della felicità perfetta, nel termine beatificante al quale era
volto ogni anelito della laboriosa esistenza terrena. Scolastica lo aveva
preceduto, la carità che la struggeva aveva affrettato l'invito dello Sposo, la
vigilia nuziale piena di attesa e di desiderio era ormai compiuta, e nella festa
eterna si consumava l'unione in un gaudio senza fine.
Dal suo posto di vedetta sulla torre il Santo cercava di partecipare a quella
gioia, benedicendo il Signore
243
Rimaneva sulla terra una ricchezza sola: l'involucro di carne che aveva
sostenuto l'anima e le era stato compagno fedele, e che ora doveva attendere,
per dividerne la gloria, l'annunzio della Risurrezione.
Benedetto pensò che sarebbe stato dolce attendere insieme, nel sonno dei
secoli, nella pace di un sepolcro comune, e mandò in fretta alcuni dei suoi
monaci a prendere il cadavere della vergine sorella per portarlo in monastero
e deporlo nella tomba che egli aveva preparata per sé.
Il Santo era giunto ormai alla pienezza della sua maturità spirituale, una
lunga esperienza di uomini e di cose, valutati in una luce superiore, gli davano
il senso esatto del valore della vita dell'uomo; breve parentesi di battaglia,
dove tutto è mezzo per il raggiungimento del fine, di quel consumante ardore
di carità che solo può placarsi, sempre sazio pur senza mai esaurirsi, nel
tranquillo e beatificante possesso di Dio.
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I richiami verso l'al di là si facevano più insistenti, già l'anima sua vi era
stabilita col desiderio e con l'affetto, mentre attendeva che si chiudesse la
giornata terrena.
Cominciò a parlare di morte con i suoi figli con la gioia di chi, compiuto un
cammino faticoso vede ormai imminente la mèta e prende commiato dai
compagni di viaggio che ritroverà più tardi, quando anch'essi ne avranno
compiuto le tappe.
Sul principio del 547, forse subito dopo la morte di santa Scolastica,
Benedetto annunziò con sicurezza ai più intimi il giorno nel quale sarebbe
morto, anzi ad alcuni di essi che dimoravano lontano, volle aggiungere
l'indizio dal quale avrebbero potuto avere la certezza che la sua anima aveva
lasciato il corpo, a tutti però ingiungendo il più rigoroso silenzio.
Il 15 marzo volle che si aprisse la tomba già da tempo preparata per sé, e dove
riposava e sembrava attenderlo il corpo verginale della sorella. In quello
stesso giorno fu assalito da febbri violentissime che lo ridussero presto in uno
stato di estrema spossatezza.
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la cella del loro santo Padre col cielo. Su di essa, un uomo dall'aspetto nobile e
venerando chiese loro che via fosse quella, e avendo essi risposto che non lo
sapevano, spiegò:
La visione si dileguò, ma, anche quando il cadavere del Santo fu sceso nel
sepolcro che egli stesso si era scelto nell'oratorio di san Giovanni Battista,
proprio dove aveva distrutto l'ara di Apollo, un riflesso di quella scia di luce
tornò a illuminare il cammino di quanti, attraverso i secoli, avrebbero voluto
farsi cercatori di Dio.
L'arte cristiana, ispirata dalla pietà e dalla riconoscenza, non si è mai stancata
di rappresentarci il santo patriarca di Montecassino, ma, purtroppo, noi non
abbiamo nessun dato che ci aiuti a ricostruirne, con una certa
verosimiglianza, i tratti fisici. Una tradizione molto antica, e custodita con
devota cura dagli abitanti di Roiate, vicino a Subiaco, vorrebbe almeno darci
la certezza della sua statura, davvero poco ordinaria.
246
E come in tante figurazioni artistiche che lo hanno reso caro ai fedeli, egli ci
apre ancora, invitante, la sua Regola: «Ascolta, o figlio ...» e ne segna il
termine, con lo sguardo che conosce l'esperienza intraducibile del divino: «...
Deo protegente, pervenies» (con l'aiuto di Dio, toccherai la mèta).
247
Alla morte di san Benedetto rimanevano tre centri almeno di vita monastica,
ordinati secondo la sua Regola, e impregnati del suo spirito: Subiaco,
Montecassino, Terracina.
248
Una terza volta il monastero, che appariva ai contemporanei «il più bello della
cristianità», sembrò votato alla distruzione, e tornò a divenire un ammasso di
macerie.
L'alba del secolo XVI portò nuove devastazioni a causa della guerra tra
spagnuoli e francesi che appunto si decise alla fine del 1503 nella battaglia del
Garigliano, e «per la veneranda casa di san Benedetto i danni della guerra,
combattuta nei suoi chiostri e conchiusasi alle sue porte, sarebbero rimasti
forse inguaribili, se la Provvidenza non fosse di nuovo intervenuta pronta al
suo soccorso in una maniera fuor dell'usato, ma più consona ai tempi e tale da
segnare una svolta nella sua ormai millenaria storia ». 1
Giorni tristi si conobbero ancora sotto il dominio francese, e poi durante tutto
il secolo XIX per le vicende politiche d'Italia, ma dopo ogni raffica la vita
tornava a scaturire più rigogliosa, fino a che, mentre
___________________________
249
Qualunque sia il valore che noi vogliamo dare alla tradizione la quale lega alla
memoria di san Mauro l'introduzione della Regola benedettina in Francia,
non si può però dubitare che essa vi si stabilisse molto presto, benché
dapprima in genere insieme a quella di san Colombano, che finì poi
rapidamente col soppiantare del tutto, così che nel 630 lo stesso monastero di
Lureuil, considerato come la roccaforte del monachismo celtico, adottava in
pieno la Regola di san Benedetto.
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3 Idem.
250
La seconda metà del secolo VII vede i monaci benedettini nel Belgio, mentre
altri confratelli più arditi, dalle coste dell'Anglia sbarcano nella Frisia per
muovere di lì alla conversione del mondo germanico; impresa audace dagli
ampi sviluppi, che culminerà nel 754, quando ormai il cristianesimo avrà
messo salde radici nella Germania, col martirio di san Bonifacio, massacrato
con i suoi compagni mentre si accingeva a conquistare alla fede la Frisia del
Nord.
Sul principio del secolo IX moriva san Ludgero, l'apostolo della Westphalia, e
contemporaneamente penetrava nella Catalogna la Regola di san Benedetto,
forse già da prima stabilita nelle altre parti della Spagna. Fu questa stessa
prima metà del IX secolo che vide gli sforzi di sant' Anscario per la
conversione della Scandinavia e della Danimarca, operata tra difficoltà d'ogni
genere e sigillata col martirio del Santo.
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254
Non doveva però limitarsi a questo l'influsso sociale dei monaci, ché esso ebbe
risonanze non meno profonde anche nel campo intellettuale, e si poté senza
esagerare attribuire ad essi la salvezza del patrimonio culturale del mondo
antico, tra le distruzioni operate dalle invasioni barbariche.
Accanto alla scuola, e strettamente connesso con essa, ogni monastero ebbe lo
«scriptorium» ossia un laboratorio di copiatura e trascrizione dei codici;
organo silenzioso nel quale il lavoro paziente degli amanuensi moltiplicava i
libri, facilitandone la conoscenza e lo studio,
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e con esso l'amore della cultura classica e delle grandi opere religiose
dell'antichità.
«Se tu preghi parli allo Sposo, ma quando leggi è Lui che parla a te.»
I libri erano la loro luce, la loro forza. Molte biblioteche si sono compiaciute di
scrivere sulla porta d'ingresso: «Claustrum sine armario quasi castrum sin e
armamentario» espressione tradotta in un proverbio medievale francese:
«Monastero senza libri, fortezza senz'armi». 1
Questi testi, ricopiati con cura e amorosamente studiati nei monasteri hanno
permesso che si salvasse quanto a noi è giunto degli autori latini e greci.
Largo sviluppo ebbe sempre il genere storico, a partire dagli Annali che ci
hanno tramandato una miniera di preziose informazioni, per estendersi ad
altri scritti occasionali come gli obituari e le cronache, e giungere fino alle
opere poderose compiute dai maurini in Francia con vero senso critico.
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1 SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 71. Ediz. Maredsous,
1942.
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Molto curata fu pure l'agiografia. Vite di santi raccolte con amore devoto,
resoconti di miracoli o di traslazioni, martirologi, mettono a nostra
disposizione un materiale di valore eccezionale che può molto spesso essere
integrato con i dati ricavati dagli archivi, dai «cartolari», dagli epistolari difesi
dalla distruzione come beni preziosi di famiglia.
«Molte ragioni vi spingevano i monaci. San Benedetto nella sua Regola insiste
con energia sulle cure da prestare ai fratelli ammalati. L'ospitalità che si
doveva esercitare verso i viaggiatori, i pellegrini, i poveri, importava di
necessità il dovere di soccorrerli nelle loro malattie o miserie corporali. La
maggior parte delle abbazie manteneva degli ospedali. Tutto questo
supponeva infermieri esperti della medicina pratica, infermerie ben corredate
e provviste di rimedi. I benedettini non son venuti meno a quest'opera
eminente di carità e di misericordia corporale verso i loro fratelli e verso le
persone del mondo» 1.
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1 SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 193. Ediz.
Maredsous, 1942.
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di medicina, d'avere, nei piccoli ospedali annessi ai monasteri, nei giardini dei
chiostri, nello studio tranquillo dei manoscritti, raccolto il tesoro dell'antica
sapienza, e di aver curato umilmente e caritatevolmente, con un amore
insieme fervente e devoto, il Cristo nei poveri, nei malati, negli infermi.» 1
Una operosità così varia e intensa non distolse i monaci dal culto della
bellezza, concepita nelle sue varie manifestazioni come uno dei mezzi più atti
alla glorificazione di Dio.
«Proprio nel cuore dell'alto Medio Evo, mentre sembrava che la barbarie
dovesse sommergere l'umanità, i monaci benedettini hanno prodotto opere
artistiche. Essi avevano capito che l'arte ha la sua missione e che, secondo
l'espressione dantesca "a Dio quasi è nepote". 2 Essa è certo il fiore della
civiltà, e si dimostra inseparabile dalla religione alla quale offre una
espressione figurata e insieme i luoghi di raccolta: a questo doppio titolo essa
si imponeva ai monasteri.» 3
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Ogni oggetto destinato al culto, dai vasi sacri dell'altare ai grandi reliquiari
destinati a racchiudere i corpi dei santi, era curato con impegno così
minuzioso di bellezza che a noi appare quasi un prodigio.
Una parola ancora va detta del contributo non indifferente che i monaci
portarono allo studio e alla cultura della musica, strettamente connessa con
l'ufficiatura divina, e quindi considerata tra le arti necessarie a insegnarsi ai
giovani destinati alla vita monastica.
Non fa meraviglia che questa stima religiosa del canto portasse alla
formazione di vere scuole musicali monastiche, alcune delle quali raggiunsero
una autentica celebrità. Tra i vari cultori di scienze musicali merita un
particolare ricordo il monaco Guido d'Arezzo, al quale
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si deve l'invenzione del rigo musicale che doveva poi tanto facilitare lo studio
della musica.
A ragione Ugo Riemann poteva affermare che «quasi tutti gli uomini dei quali
la storia musicale del Medio Evo ha conservato il nome, fecero parte
dell'Ordine di San Benedetto ... La storia e la teoria della musica devono in
gran parte le loro scoperte e lo sviluppo che ebbero durante il Medio Evo
all'Ordine dei Benedettini». 1
Ogni secolo, ogni paese, quasi ogni abbazia commemora i suoi santi. Diversi
tra di loro per temperamento, hanno tuttavia una comune fisonomia, quel
carattere che li fa riconoscere figli di uno stesso Padre, di una voca-
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zione che rimane in tutti identica nei suoi lineamenti essenziali. Apostoli
infaticabili nell'evangelizzazione dei fratelli pagani, come san Bonifacio,
sant'Ascario, sant'Adalberto, studiosi e Vescovi della statura morale di
sant'Anselmo, uomini esperti nell'arte difficile di consigliare i potenti, come
sant'Ugo di Cluny, eremiti affamati solo di solitudine e di nascondimento,
sono tutti, nella parte più intima della loro anima, semplicemente «cercatori
di Dio».
Le grandi mistiche di Helfta, Gertrude e Metilde, non sono delle solitarie nei
campi della santità benedettina dove alle monache, in genere meno implicate
nelle vicende esteriori, è riservato in larga parte, se non in maniera esclusiva,
il privilegio di una vita d'unione con Dio illuminata da doni di ordine mistico
che sembrano avvicinare la terra al cielo; e questo non solo nei secoli remoti
dell'Alto Medio Evo, ma più vicino a noi, fino ai nostri giorni, con una
stupenda continuità di grazie, in risposta al dono continuamente rinnovato di
anime generose che hanno consentito a «vendere ogni cosa propria per fare
acquisto della gemma preziosa» della divina unione.
Oggi ancora la vita benedettina ha una sua parola profonda da dire alle
anime. Diversa nei suoi aspetti
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1 Regola, prologo.
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Fonti
Gregorii Magni Dialoghi libri IV, a cura di Umberto Moricca Istituto Storico
Italiano. Roma, 1924.