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Madre M.

Ildegarde Cabitza

S. BENEDETTO

Abbazia S. Maria di Rosano

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INDICE

Prefazione pag. 7
Presentazione 13

Cap. I - Contrasti 19
Cap. II - Affile 38
Cap. III - Lo Speco 50
Cap. IV - Esperienze 64
Cap. V - La Valle Santa 81
Cap. VI - L'esodo 103
Cap. VII - Lotta contro il Maligno 118
Cap. VIII - La Scuola del Divino Servizio 138
Cap. IX - Cercatori di Dio. 154
Cap. X - Colui che tiene le veci di Cristo 172
Cap. XI - L'uomo di Dio 191
Cap. XII - La Regola Santa. 216
Cap. XIII - Il giorno eterno. 235
Cap. XIV - L'eredità santa 247
IMPRIMATUR Florentiae, die XX Aprilis MCMLIV Can. Marius Tirapani, Vic. Gen.

Tipolito Nuova Grafica Fiorentina - Firenze MCMLXXXVIII - Printed in Italy

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Prefazione

Insistentemente richiesta, da molti desiderata, giunge finalmente la ristampa


del volume «San Benedetto» scritto negli ultimi anni della sua vita dalla
Madre M. Ildegarde Cabitza, Abbadessa del nostro Monastero di S. Maria di
Rosano.

Per noi, come per tutti, quest'opera, seguita ad altri suoi numerosi scritti, è
come un testamento d'amore e di venerazione filiale di un'anima che si era
totalmente aperta alla dottrina ed alla spiritualità del Patriarca del
Monachesimo occidentale.

Perché la Madre Cabitza fu, prima di tutto, profondamente ed intimamente


«monaca».

La vocazione monastica che fiorì spontaneamente e conseguentemente dalla


sua vocazione cristiana, l'appassionò e la conquistò totalmente, portandola ad
approfondirne gli elementi costitutivi, a conoscerli nella loro essenza, a
meditarli, a viverli soprattutto.

Dalla sua giovinezza alla maturità fu questo il suo lavoro unico ed essenziale.
Giovane monaca, Maestra del Noviziato e Priora, non ebbe e non sentì per sé
che un solo compito, che una sola chiamata, quella di conoscere e di
approfondire un ideale dapprima appena

intravisto nella sua seducente bellezza, poi sempre più nitido e chiaro alla sua
percezione interiore.

E quando la Provvidenza la volle Madre, affidandole la responsabilità


suprema del nostro Monastero, per lei non mutarono che gli aspetti esteriori
del suo lavoro e della sua dedizione, ma nel cuore e nella vita la sua ricerca ed
il movente più profondo di ogni suo istante non cambiarono mai.

Si fermò con più amore, con più intensa preghiera, con anelito più ardente a
studiare Benedetto, la sua Regola, la sua spiritualità per assimilarne i
capisaldi ed i valori, per impregnarsene fin nel midollo e poterne, così, donare
il succo più intimo alle anime e alla famiglia monastica che Dio le aveva
affidato.

Da un tale amore, da una tale conoscenza, da un tale interesse è nato questo


libro.
Esso è stato scritto, lo ripetiamo, negli ultimi tempi della vita della nostra
Madre, quando ormai a lei, ancora nella pienezza della maturità, si stavano
per aprire le porte della luce indefettibile.

Quest'opera che oggi si ristampa è dunque il frutto della sua appassionata


ricerca interiore, l'espressione del suo più vibrante interesse. È nata dalla sua
esperienza personale, dalla conoscenza maturata negli anni in cui fu chiamata
a trasmettere alle anime il messaggio, a farne percepire e gustare le bellezze e
i valori.

Essa è il documento scritto di quello che fu il suo insegnamento, il suo anelito,


la sua esigenza sulle creature che Dio le veniva affidando perché le formasse
alla vita monastica. È la testimonianza della fede suprema con cui ella seppe
credere a quella vita di ritorno a Dio che S. Benedetto aveva concepito sotto la
mozione dello Spirito Santo.

È dunque un'opera spirituale ed esistenziale, manifestazione di un ideale che


plasmò la sua mente ed il suo cuore, che interessò la sua vita intera, il suo
mondo interiore ed esteriore.

Noi leggiamo con commosso interesse queste pagine

che ci rivelano così profondamente l'intimo segreto di colei che fu Madre del
nostro Monastero più che millenario, forse la Madre a cui, nella lunga storia,
Dio più donò e più affidò per il tesoro spirituale di questo suo antico Cenobio
che da dodici secoli non ha mai interrotto il suo rapporto spirituale con
Benedetto, non ha mai cessato di essergli figlio, di sentirsi suo, di camminare
per la via tracciata dalla sua Regola santa.

La vita di San Benedetto che la Madre Cabitza concepì ed ideò non è un'arida
storia, un lavoro di pura erudizione, uno studio teorico e culturale.

È un'opera di vita che si legge con interesse e facilità, ma che non nasconde,
sotto uno stile di affascinante semplicità, la seria preparazione, la vasta
cultura, l'eccezionale capacità di espressione della nostra Madre.

La figura di Benedetto vi è studiata in ogni suo aspetto.

Egli è visto come il «vir Dei» che fin dalla prima giovinezza non esita a fare
una scelta coraggiosa e radicale tra le offerte di una agiata e promettente vita
terrena e le supreme esigenze di Dio.
È l'eremita che brama l'assoluto e si nasconde «con Cristo in Dio» per essere
ignorato da tutti e noto solo al suo luminoso ed amoroso sguardo.

Il giovane Benedetto è già l'asceta che non risparmia penitenze e lotte per
vincere l'impulso del male e liberarsi da ogni forza negativa per immergersi in
Dio e lasciarsi trasformare totalmente da lui.

È il coraggioso e leale seguace del volere divino che sa abbandonare perfino il


programma scelto ed amato di vita solitaria per divenire il maestro che
insegna, la guida che conduce, la luce che rischiara, la forza che sprona e
sostiene.

Ma Benedetto è soprattutto il Padre. È l'«Abba» che genera a Dio dei figli, che
li forma, che li accompagna con il suo esempio e con la sua parola, ma ancor
più con la sua donazione e la sua fede.

Egli è, di conseguenza, l'organizzatore che con sapienza sa cogliere ogni lato


dell'esistenza quotidiana, spirituale e materiale, perché tutto possa divenire
uno strumento d'amore e di pace, un mezzo per sciogliere a Dio il canto
dell'offerta, del sacrificio, della lode, soprattutto dell'amore.

È il legislatore che traccia le norme di un cammino audace e che le fissa per


sempre nelle parole di quella Regola che egli trae dal tesoro del suo cuore per
i figli che gli vivevano accanto e ancor più per quelli che Dio gli avrebbe
donato nei secoli avvenire.

E tutto questo in vista di un fine soprannaturale che deve essere e rimanere


sempre la molla ardita di ogni esistenza e di ogni Comunità.

Benedetto vuole formare delle anime che credano fino in fondo al Vangelo,
che ne realizzino le parole di salvezza con assoluta coerenza di sentimenti e di
vita. Cerca creature che vogliano e sappiano approfondire il mistero della vita
spirituale, di quel miracolo della grazia che fa di poveri e miseri esseri umani
dei figli di Dio, chiamati ad una eternità di gloria.

A tutti egli non propone che un modello, il Cristo.

È il Cristo infatti l'unica realtà della vita. È lui a cui «nulla deve essere
preposto» che deve divenire la forma interiore, il modello su cui si plasma
ogni pensiero ed ogni azione, il centro d'amore a cui tutto converge.

È da questa sequela di Cristo che il monaco diventa l'uomo della semplicità, la


creatura della preghiera e del lavoro, colui che può forse fare tante cose ma
che in realtà non ne compie che una sola, perché nel suo intimo si è creata
l'unità e tutto in lui si trasforma in preghiera ininterrotta, in un inno
incessante di adorazione, di offerta, di impetrazione.

Che egli sia in Coro a cantare le lodi del suo Creatore, che egli sia curvo sul
lavoro faticoso che la sua essenziale povertà gli chiede, che egli offra se stesso
nell'obbedienza amata e desiderata a colui che sulla terra «tiene le veci di
Cristo», che si doni con casto amore

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ai fratelli che camminano con lui verso il cielo, il monaco non si divide, non si
fraziona, non si scinde.

Egli è l'uomo dell'unità perché è «l'uomo di Dio», è colui in cui Cristo è


divenuto il tutto, in cui l'amore è diventato il respiro, in cui Dio si è fatto
l'unico centro e l'unica realtà vitale, per il tempo e per l'eternità.

Che questo libro della Madre Cabitza, ristampato con affetto e gratitudine
sconfinata dalle sue figlie del Monastero di Rosano che l'hanno avuta per
Madre amata e venerata, possa diffondere una rinnovata conoscenza della
figura di Benedetto, possa farne riscoprire i valori più autentici, possa donare
all'umanità accecata e travagliata di questo nostro tempo di così intimi
contrasti, una sicura speranza di luce, un nuovo aiuto per giungere a quella
pace che non conosce tramonto, che non ha confini.

S. Maria di Rosano

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Presentazione

Le molteplici richieste di una terza edizione dell'opera "s. Benedetto" della


Madre M. Ildegarde Cabitza OSB, stanno a dimostrare due cose, l'interesse
cioè che la figura del Padre del monachesimo d'Occidente continua a suscitare
e la validità del lavoro della Madre Cabitza.

È con piacere allora che aderisco all'invito della comunità benedettina di S.


Maria di Rosano e con amore particolare, figlio anch'io di Benedetto, presento
questa nuova edizione della vita del glorioso padre dei monaci.

Ritengo che quest'opera possa portare grande frutto sia per la personalità
dell'autrice, sia per la capacità che ella ha avuto nel presentare la persona e la
missione di Benedetto non solo come evento storico, ma come dono e
impegno profondamente vivi e attuali.

La conoscenza dei valori contenuti nella Regula Benedicti fu conquista


graduale per la Cabitza, che seppe accostarsi ad essa attraverso lo studio delle
fonti a cui Benedetto aveva attinto e soprattutto attraverso una profonda
sintonia d'animo con l'ardore di carità del santo Patriarca e con il suo amore
per l'ordine

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e la saggezza. Quando la Madre Cabitza scrisse l'opera che ci interessa, era


ormai al termine del suo cammino terreno (1905-1959) che si era venuto
concludendo assai rapidamente quando ella era ancora nel pieno del suo
lavoro e della sua missione.

Credo si possa dire che nella vita di S. Benedetto la Madre Cabitza colse in
trasparenza la sua stessa vita, dall'appassionato desiderio del sapere umano,
alla «fuga mundi», all'ardente slancio nel cammino monastico, fino all'ultima
chiamata di Dio che la portava lontano dal suo monastero di S. Paolo a
Sorrento per farla madre e guida del vetusto cenobio di S. Maria di Rosano
che da milleduecento anni porta avanti il suo rapporto filiale con S.
Benedetto.

Ogni tappa della sua vita vissuta nell' ansia amorosa della ricerca di Dio,
divenne per la Cabitza un ricalcare l'itinerario spirituale di Benedetto,
dapprima a sua stessa insaputa, ma via via con una consapevolezza sempre
più chiara ed una volontà sempre più decisa.
Per S. Benedetto il monastero è soprattutto scuola di preghiera. Giovanni
Paolo II a Montecassino il 18 maggio 1979 affermava: «In sintesi si può dire
che il messaggio di S. Benedetto sia invito all'interiorità. L'uomo deve prima
di tutto abitare con se stesso». E ancora diceva: «Dalla solitudine interiore,
dal silenzio contemplativo ... da questo "abitare con se stessi" nasce il dialogo
con sé e con Dio che porta sino alle vette dell'ascetica e della mistica».

La Madre Cabitza visse nel suo cuore, fin dalla giovinezza, l'«abitare secum»
di Benedetto. Ella scrive: «Abitò con se stesso. In questo veramente Benedetto
è insuperabile maestro, l'uomo che ha la consapevolezza piena della
profondità della vita divina che porta in sé e che possiede l'anima sua con una
vigilanza austera perché niente di questa ricchezza vada disperso e la
percezione di Dio divenga sempre più frequente, più sentita ... Egli è l'uomo
che vive in attesa della visita del suo Signore, tiene l'anima raccolta

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nel desiderio ... fino a che non piaccia a Dio di comunicargli, attraverso una di
quelle esperienze mistiche, intraducibili nel linguaggio umano, la soavità della
sua presenza, l'ebbrezza del possesso ...» (pag. 196-197).

Il carattere teocentrico-liturgico della riforma proposta da S. Benedetto è


stato decisivo. Così dice Madre Cabitza: «(Ai monaci) verrà proposto un
modello: il Cristo. Tutto il metodo ascetico nel quale dovranno esercitarsi
potrà ridursi a questo: guardare il Cristo e riprodurne in sé i tratti fino ad
essere configurati perfettamente a lui» (pag. 156). E Giovanni Paolo II ha
scritto nella sua lettera apostolica «Sanctorum altrix» indirizzata nel 1980
all'ordine benedettino in occasione del XV centenario della nascita di S.
Benedetto: «Il lume deifico della contemplazione eccita la fiamma, e sia il
silenzio unito all'ammirazione, sia i canti di esultanza insieme all' alacre
rendimento di grazie, donano all'orazione quella particolare caratteristica che
porta i monaci a celebrare ogni giorno le lodi di Dio nel canto. Allora la
preghiera diventa quasi voce dell'intera creazione e in qualche modo anticipa
l'eccelso canto della Gerusalemme celeste.»

A questo riguardo così si esprime la Cabitza: «La prima occupazione del


monaco, quella "alla quale niente deve essere anteposto", è l'opus Dei, ...
inteso come glorificazione solenne di Dio, culto di adorazione,
ringraziamento, propiziazione, supplica ... Questa solenne liturgia non è una
semplice parte, sia pur importante della vita del monaco ma imprime ad essa
una sua impronta caratteristica trasformandola insensibilmente e adattandola
alla misura delle divine realtà» (pag. 161).

La Cabitza amò Benedetto come "vir Dei": «Superando le forme, ella scrive,
egli andò alla radice della vita cristiana, ai valori essenziali, e nel rapporto di
dipendenza dell'uomo dal Creatore scoprì le ragioni supreme dell'esistenza
che solo raggiunge il suo fine se vissuta in ordine a lui: con logica serrata egli
fu ... per tutta la vita il "vir Dei". S. Gregorio non avrebbe

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potuto adottare espressione più incisiva e sintetica per esprimere questa


donazione suprema dell'uomo che vuole, per un atto di libero amore, farsi
completamente possedere, eliminando ogni resistenza della volontà, da Colui
al quale già appartiene per diritto di creazione e di redenzione» (pag. 193-
194).

La Cabitza, divenuta abbadessa e guida spirituale, imparò da S. Benedetto i


doveri verso le anime che Dio invia nel chiostro e cercò di imparare
direttamente da lui quali siano le vie su cui farle avanzare perché realizzino il
motivo fondamentale che ha portato i loro passi verso la casa di Dio: «I
monaci, ella dice, sono in realtà degli appassionati cercatori di Dio ... anime
che fanno faticosamente la via, in una virile ascesa, di liberazione e di
purificazione per ricongiungersi al principio della loro vita più alta, a Dio, che
aveva creato il primo uomo in una purezza perfetta, così da renderlo capace di
intimità (come di amico ad amico ... Alle anime che vengono a lui ...
Benedetto porrà questo quesito fondamentale: se veramente cerchino Dio ... »
(pag. 155-156).

E furono proprio le monache del suo monastero la riprova più sicura, per la
M. Cabitza, della vitalità permanente della Regola e della spiritualità
benedettina per la crescita e la maturazione delle anime. La comunità che si
veniva formando dalla sua fede e dal suo zelo avanzava con lei nel cammino
monastico, cresceva con lei, insieme a lei scopriva nel proprio intimo, già
segnati dallo sguardo eterno di Dio, i tratti fondamentali del "padre", capaci
di dare luogo, se sviluppati nell'amore, a quel capolavoro di Dio che è un vero
monaco.

E fu sull'esempio e secondo lo stile di Benedetto, che la Madre Cabitza


concepì la rinascita e la strutturazione stessa dell'Abbazia che fu chiamata a
riformare, a guidare, a sostenere con la sua vivissima intelligenza e
soprattutto con il suo cuore di madre.

«Le piccole cellule sparse per la montagna (di Subiaco) e capaci di ospitare
una famiglia necessariamente ri-

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stretta ... dovranno ravvicinarsi e fondersi per formare il grande monastero


dove tutta la comunità monastica possa vivere raccolta e svolgere la sua
complessa attività sotto l'unica e esclusiva direzione dell'abate, il solo
responsabile dei suoi sviluppi spirituali e materiali ... E siccome per il monaco
il monastero non rappresenta un semplice punto di appoggio, un rifugio
contro le intemperie o un luogo di raccolta, ma la "domus Dei", perciò
Benedetto esige che la stessa costruzione si pieghi ad esigenze superiori e si
manifesti in funzione dei fini soprannaturali che la famiglia monastica deve
raggiungere» (pag. 138-139).

L'opera che ora esce nuovamente alle stampe in questa terza edizione
presenta dunque la vita di S. Benedetto e ne studia la spiritualità, ma insieme
descrive la fisionomia e le caratteristiche dei monasteri nati dall'intuizione e
dalla paternità di Benedetto. Rivela anche, sia pure tra le righe, la vita di
quell'Abbazia che da più di dodici secoli ha avuta il suo inizio sulle rive
dell'Arno, da quasi cinquant'anni ha ritrovato la sua giovinezza ad opera della
Madre Cabitza e che ancora nella sua grande comunità porta avanti con
amore e fede il carisma di questa illuminata figlia di S. Benedetto.

Roma, 11-7-1988

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CAPITOLO I

Tutta luminosa di sole, sul colle che domina la vasta pianura nella quale come
su un immenso scacchiere il verde, alternandosi in riquadri delle più svariate
tonalità, sfoggia tutta la sua magnificenza, Norcia si apre ospitale a chi con
cuore devoto verso il suo figlio più grande, Benedetto, venga a cercarvi le
memorie di un passato che l'anima vorrebbe ricostruire sino nei minimi
particolari. E, quasi a compenso della inevitabile delusione per la mancanza
assoluta di ricordi monumentali che presentino serie garanzie di autenticità,
offre le glorie della sua storia, e le sue devote tradizioni tenacemente
intrecciate alla leggenda. -

Bisogna quindi che ci contentiamo di sapere che questa cittadina ridente sotto
l'incanto del cielo umbro, era in passato una grande e potente città, gelosa
della sua indipendenza, difesa da una robusta cinta di mura con trentadue
torri, fiera della sua autonomia che Roma stessa volle rispettare, e nemmeno i
barbari, con Odoacre e Teodorico, intaccarono.

Se non abbiamo i suggestivi particolari che ci aiuterebbero a ricostruire con


sufficiente esattezza l'ambiente

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più intimo, sappiamo però che questa antichissima città della Sabina fu, nei
suoi tempi migliori, un centro popoloso, divisa in otto rioni, ognuno dei quali
aveva la sua porta, la sua piazza, la sua fontana.

E se oggi il paesaggio idilliaco che la circonda, dal piano verde solcato di


acque correnti sulle cui rive stormiscono i pioppi, alla corona austera delle
montagne che accolgono compiacenti la larga curva della strada che valica
l'Appennino, fa pensare solo a un pacifico rifugio dello spirito, la città vide
invece un pulsare intenso di vita, reggendosi sotto la potenza romana, sin dal
292 a.c., a municipio, con leggi e magistrati propri, e sempre risorgendo dalle
ripetute devastazioni dei Goti, dei Longobardi e dei Saraceni, conobbe ancora
una volta la gloria e le passioni dei liberi comuni.

Una delle donne di questa città, la cui austera fierezza era proverbiale,
Vespasia Polla, fu madre dell'imperatore Vespasiano, ed è caratteristico il
fatto che altre due sue concittadine, Plauzia e Plotina, furono rispettivamente
scelte in spose dagli imperatori Claudio e Traiano: razza regale più per i valori
spirituali che per nobiltà di sangue, e dalla quale è uscito il grande e
sventurato generale Sertorio.
Questi umbri che Cicerone non esita a definire «severissimi homines»
(uomini austerissimi), sembrano custodire con amore geloso i costumi e
l'anima di Roma, della quale a stento si sarebbero potuti ricostituire i
lineamenti dal viso sfigurato della società decadente che nella capitale
dell'Impero si sentiva grande solo per le glorie del passato.

La vita che si conduceva a Norcia sul finire del V secolo non offre elementi di
particolare rilievo: la città, così in disparte dalle grandi vie di comunicazione,
protetta dalle giogaie dell'Appennino, sull'altipiano che guarda la valle giù a
basso, era, per la sua posizione naturale, in condizioni privilegiate per
difendersi e mantenersi immune dalla decadenza morale che avviliva la stessa
Roma. Possiamo pensare tutta la sua

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attività polarizzata intorno ai supremi interessi del popolo: la vita religiosa e il


governo della cosa pubblica.

Il fatto stesso dell'epoca relativamente tarda nella quale fu annunziato il


Vangelo agli abitanti di Norcia conferma l'opinione della loro fedeltà ai
costumi antichi, garantita anche da elementi naturali dei quali non si può
trascurare il valore: fu infatti solo intorno al 250 che il vescovo di Foligno
(con ogni probabilità san Feliciano), convertì la città al cristianesimo,
formando una vigorosa cristianità nella quale la grazia avrebbe poi trovato
l'elemento più propizio per plasmare dei santi. Sappiamo con certezza che due
secoli dopo, intorno alla grande e ricca chiesa dedicata a san Lorenzo, ferveva
una vita religiosa intensa, alimentata da un clero ben formato, e nel cui seno
fiorirono numerose vocazioni monastiche che la illuminavano con la luce
della santità.

Così pure nel campo civile una sana nobiltà, cosciente del proprio compito
sociale, assicurava il buon governo del popolo fornendo i magistrati, senatori
e curiali, austeri custodi delle leggi e delle tradizioni patrie.

Ne ricaviamo l'impressione di una esistenza bene ordinata, senza convulsioni


incomposte, dai costumi semplici e fieri, quasi l'austerità solenne delle grandi
montagne silenziose e la limpidezza del cielo imprimessero sulle anime una
loro inconfondibile impronta.
In quest'ambiente provinciale e tranquillo, circa l'anno 480, ci viene per un
istante schiuso uno spiraglio sulla vita intima di una delle famiglie signorili
del paese, della quale però non conosciamo il nome, le abitudini, le
aspirazioni.

La devozione popolare dei secoli posteriori, adattandosi male a queste lacune,


e forse elaborando vaghi ricordi di tradizione, ha supplito con un leggendario
racconto nel quale si segue la vicenda di due nobili giovani, Euprobo Anicio e
Abbondanza dei Reguardati, dal cui amore sarebbe fiorita la gloria più grande
di Norcia.

Anzi, anche oggi, sulla Rocca Sassaria, dove è la

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chiesa di Santa Scolastica viene indicata la località che sarebbe stata occupata
dal palazzo dei Reguardati.

In realtà, attraverso questa fessura aperta sull'ombra di secoli remoti,


assumono contorni ben definiti solo due figure giovanili, fratello e sorella:
Benedetto e Scolastica.

Erano i soli figliuoli in casa? Non ne sappiamo nulla, e anche se fossimo


disposti ad accettare la tradizione che venera nella cripta della chiesa di San
Benedetto, a Norcia, le vestigia della camera ove nacquero i due Santi,
dovremmo pur sempre riconoscere che tutto affonda nell'oscurità. Pare che
ogni altro elemento di ricostruzione ambientale si sia dileguato per dare pieno
risalto a queste due eccezionali creature che hanno in sè tutta la ragione della
loro grandezza. Cosa aggiungerebbe il resto?

Nonostante le disposizioni contrarie emanate a diverse riprese da vari Concilii


e la Costituzione dell'imperatore Teodorico che rafforzava tali decreti con
severe sanzioni, la pietà dei genitori volle che Scolastica fosse dedicata al
Signore quando ancora era quasi una bimba, e la sua vita si sottrarrà al nostro
sguardo, tutta raccolta in questa realtà di grazia.

Siamo invece indotti a pensare che per Benedetto si fossero fatti ben altri
piani: intorno a quel figliuolo il cuore dei genitori, che è uguale in tutti i
tempi, avrà intrecciato i suoi sogni di grandezza. L'avvenire potrebbe - chi sa?
- trarre il suo nome dall'ombra, aprirgli una via tra le dignità che tengono in
pugno le sorti dei popoli, senza che fosse condannato a intristire nella
monotonia scolorita della vita provinciale: bisognava dargli una cultura
completa.

Era ricco, la posizione sociale della famiglia, e so-prattutto il suo ingegno


precoce, esigevano che non ci si contentasse delle nozioni che poteva offrire la
modesta scuola di grammatica frequentata dai ragazzi di Norcia, e fu deciso
che sarebbe andato a Roma a studiarvi l'eloquenza e il diritto.

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Fu certo un salto brusco questo passaggio dalla vita raccolta della famiglia,
dall'ambiente religiosamente e moralmente sano di Norcia, alla tumultuosa
vita di Roma, e ci pare di indovinare la trepidazione di un cuore di mamma, di
una buona mamma provinciale, nella determinazione di mandare in città il
ragazzo accompagnato dalla sua nutrice.

La presenza di questa devota creatura che in genere nelle famiglie romane era
circondata di venerazione e di affetto, come una seconda madre, avrebbe fatto
sì che si sentisse meno solo, che fosse meglio curato, che avesse sempre con sé
un più caldo riflesso di tenerezza della famiglia lontana. Benedetto doveva
esser legato da una particolare intimità con questa donna capace di
comprenderlo e di sostenerlo nella crisi più delicata della sua vita spirituale,
ma essa sfugge completamente alle nostre ricerche, e di lei non abbiamo se
non il nome assegnatole dalla tradizione o meglio, dalla leggenda, che volle
chiamarla Cirilla.

La sua missione al fianco del giovane studente non era certo quella di
custodirlo e vigilarlo come avrebbe potuto fare con un fanciullo: l'usanza
comune era allora di assegnare ai giovani, come guida e custode, un
precettore. Orazio stesso, pur di origine abbastanza modesta, poteva vantarsi
di essere stato mandato dalle cure paterne alla capitale col suo precettore.

La donna fedele doveva piuttosto tenere il posto della mamma lontana,


continuare un po' la famiglia nel nuovo ambiente dove Benedetto avrebbe
potuto trovarsi disorientato.

Sarebbe ingenuo pensare, sul finire del V secolo e per tutto il VI, a una Roma
devastata dai barbari, ridotta a un cumulo di rovine informi dalla violenza
degli invasori: diversi scrittori contemporanei, attraverso le loro opere, o, ciò
che ci dà ancora maggior garanzia di sincerità attraverso il loro epistolario, ci
presentano il quadro grandioso di una città che conservava tutto il suo
splendore, e che pulsava di vita intensa e rumorosa.
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Cassiodoro, il governatore del regno ostrogoto, anima aperta alla


comprensione di ogni espressione di bellezza, non vela la sua sconfinata
ammirazione davanti a questa Roma che gli appare così grande da assommare
in sé e superare di gran lunga le sette meraviglie del mondo.

Egli interpreta certo il pensiero di Teodorico, raccomandando all'architetto


incaricato della custodia della città «la meravigliosa selva di edifici» ognuno
dei quali, se dobbiamo credere a Olimpiodoro «contiene quanto una città
ordinaria può offrire: ippodromo, fori, templi e numerosi bagni»; ma
sentiamo vibrare tutto l'ammirato entusiasmo del grande uomo di stato
romano, quando con compiacenza si attarda a descrivere «le pareti altissime
librate su quelle colonne che si direbbero fuse nella cera pura, per la
delicatezza delle loro scanalature e l'incanto della loro simmetria. I massi
squadrati e sovrapposti con tale arte da parere che la loro mole sia stata
formata dalla natura» e per di più «il suolo della città riempito da un intero
popolo di statue, e la vita trasfusa in queste membra di pietra e di bronzo, tale
da far credere di avere davanti agli occhi uomini veri e reali» e «i cavalli delle
statue, come sprizzanti vita con le nari protese sbuffare, quasi stessero per
slanciarsi al galoppo» 1.

«Egli parla con evidenza straordinaria, quando descrive gli acquedotti i quali
pur sempre da ogni parte conducevano in città fragorosi torrenti sopra i loro
archi giganteschi e massicci. Ci addita le fontane pubbliche ancora intatte, che
spandono frescura e rallegrano l'aspetto della città; quelle grandiose
naumachie che formavano dei mari entro le mura urbane; poi le terme ancora
messe con grande lusso; il circo Massimo con i suoi due obelischi ivi sorgenti
e l'ornamento edilizio più svariato; finalmente la "Sacra via" che passa sul
Foro con gli antichi e già cadenti elefanti di bronzo» 2.

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1 CASSIODORO, Variarum, 7 n. 15.

2 GRISAR, Roma alla fine del mondo antico, vol. I, pag. 114.

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Aveva ragione il santo monaco Fulgenzio, che più tardi sarebbe stato vescovo
di Ruspe, quando, giungendo a Roma, dalla sua Africa, davanti a tante
meraviglie non poteva contenersi dall'esclamare: «Se tale è lo splendore della
Roma terrena, nella maestà dei suoi monumenti, quale sarà la bellezza della
Gerusalemme celeste!».

Un altro contemporaneo, Sidonio Apollinare, con non minore ammirazione ci


traccia nelle sue lettere un quadro vivacissimo della vita che si conduceva
nella città dove egli pensa che possa sentirsi «straniero soltanto colui che
vuole rimanere barbaro». Come nell'epoca imperiale, le Terme, luogo di
ritrovo e di piacere, erano frequentatissime, e la stessa folla si accalcava nel
Circo, affamata di pane, pronta ad appassionarsi fino alla frenesia per le gare
che continuavano mentre l'animo del popolo era teso a seguire gli auriga che,
con i colori tradizionali, disputavano il premio.

Temistio non esita a definire Roma «un mare di bellezza che si sottrae ad ogni
descrizione». Nè, tra i monumenti classici che riflettevano una vita ancora
paganeggiante nonostante il trionfo ufficiale del Cristianesimo, mancavano
grandiosi edifici destinati al culto cristiano; «essi non furono qualcosa di
singolare e nuovo affatto, ma per così dire nacquero organicamente colle
forme loro proprie» essendo in massima parte derivate da un adattamento
alle esigenze religiose di antichi palazzi offerti a servizio della comunità
cristiana da nobili famiglie che ne fecero dono alla Chiesa, e «con la loro
sontuosa presenza e grandiosità presero armonicamente il loro posto fra gli
edifici classici circostanti della cit-tà». Quasi tutte le quattordici «regioni» di
Roma possedevano già allora le loro basiliche, i «titoli» o chiese parrocchiali
alle quali si erano aggiunte cappelle e pubblici oratori, più quelle «diacohie»
che erano focolari di carità aperti a tutte le miserie. Fuori della cinta delle
mura, sulle grandi vie di comunicazione altre basiliche, e non tra le meno
importanti, erano sorte sul sepolcro

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dei martiri insigni, tappe di fede e di gloria per gli uomini pellegrini del cielo.

Il contrasto, per il giovane provinciale che dalla sua città tranquilla scendeva
per la prima volta a contatto con questo mondo di meraviglie dal frastuono
assordante, fu certo profondo.

Benché una tarda tradizione, che non può vantare motivi seri di attendibilità,
voglia fissarne la dimora in Trastevere, nei pressi della basilica di Santa
Cecilia, in realtà noi non sappiamo dove Benedetto abbia abitato, con la
nutrice, durante il soggiorno romano.
Ancor oggi la pietà dei fedeli ama venerarlo nella chiesa di San Benedetto «in
Piscinula», dove addirittura si mostra la stanza che egli avrebbe santificato
con la sua presenza; questa dimora sarebbe poi stata destinata a uso sacro: lo
stesso Mabillon si lasciò affascinare da tale ipotesi che sembrava confermata
dai ruderi di un grandioso edificio che egli poté vedere con i propri occhi e che
sarebbero stati gli avanzi del palazzo paterno di Benedetto. Altri uomini
grandi, accogliendo la tradizione, vennero ad alimentare la loro pietà nella
piccola chiesa, ritenendo custodisse la memoria sicura del Santo adolescente;
in sé la cosa non è assurda, ma, come niente ci impone di escluderla, così
nessun dato sicuro può incoraggiarci a ritenerla certa.

Meglio quindi rinunziare ad ambientarlo in quello piuttosto che in un altro


qualunque dei rioni della città.

Possiamo invece pensare che ben presto, attraverso lo scenario di grandiosità


e di bellezza che abbagliava i suoi visitatori, Roma lasciasse scorgere al
giovane studente umbro il volto doloroso del suo avvilimento morale,
nascosto sotto una maschera di decoro, in una esistenza che si inebriava di
piacere quasi per soffocare il segreto tormento della propria miseria.

Sidonio Apollinare ci fornisce preziosi particolari intorno alla vita quale si


svolgeva nelle vie della città ancora popolata da una folla cosmopolita e
rumorosa

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che le dava un carattere di ininterrotta festività: Teodorico, con molta


accortezza politica, non lesinava nel concedere sempre nuovi spettacoli nel
Circo, e sapeva generosamente rispondere con larghe previdenze al grido
minaccioso del popolo affamato.

Centro della vita cittadina rimangono il Campidoglio e il Fòro Romano, dove


si danno convegno gli uomini d'affari per trattare gli interessi più svariati,
mentre sono esposte, a tentare la cupidigia dei passanti, le merci più rare e
preziose, importate da lontane regioni; in prevalenza stoffe e gemme per la
gioia delle matrone. E tutta questa ricchezza spiega la sua opulenza tra i
banchi dei cambiavalute e il viavai ininterrotto della folla che sembra
avvicendarsi senza fine.

Di tanto in tanto la folla si apre per lasciare il passo a una lettiga di squisito
lavoro, sulla quale qualche senatore togato si fa trasportare alla Curia dove le
adunanze si svolgono con tutta la solennità dei tempi aurei di Roma.
Del resto, la foggia stessa del vestire rimane fondamentalmente fedele a quelle
dell'antichità, e il contatto con Bisanzio, che non è riuscito a corromperne gli
elementi tradizionali vale solo ad accentuarne la lussuosità non lesinando la
porpora e l'oro.

Si può facilmente immaginare, tenendo conto di questi dati, quale dovette


essere la magnificenza dei festeggiamenti con i quali fu accolto il re Teodorico
quando nel 500 fece in Roma il suo ingresso trionfale.

Con ogni probabilità Benedetto vi assisté e gli fu dato vedere l'interminabile


corteo col quale Senatori e Clero, con a capo lo stesso Pontefice, gli mossero
incontro alle porte della città.

La folla plaudente seguiva acclamando questo re barbaro che volle conciliarsi


gli animi andando, ariano com'era, a rendere il primo omaggio a San Pietro, e,
dopo aver piegato il ginocchio sulla tomba dell'Apostolo, tenne nel Foro il
memorando discorso col quale poté dare per un momento l'illusione che la
grandezza di

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Roma imperiale avrebbe conosciuto nuovi giorni di gloria.

«Se tanto sfarzo e onore circonda già i mortali, quale gloria toccherà un
giorno in sorte nel regno celeste agli eletti che per amore di Cristo e della sua
Chiesa hanno disprezzato le glorie di questo mondo!» esclamava Fulgenzio di
Ruspe in questa occasione, non riuscendo a trattenere l'impeto del suo
entusiasmo di uomo semplice, rapito dall'ammirazione di tante meraviglie.

Niente ci lascia supporre che Benedetto abbia anche per poco ceduto
all'incanto di quella festa perpetua che narcotizzava l'agonia morale di un
popolo che aveva conosciuto la vera grandezza; siamo piuttosto indotti a
pensare che il contrasto si manifestasse stridente, tra la sua anima raccolta e
meditativa e quel violento esteriorizzarsi di sentimenti che si esauriva in un
tumulto irrequieto e senza fine.

In quella società, tra qualche anno, completata la sua formazione intellettuale,


egli avrebbe dovuto prendere ufficialmente il suo posto, con una
responsabilità di governo, forse, sempre con una posizione nella quale la dura
necessità del servilismo politico lo avrebbe ridotto a essere uno dei tanti in
mezzo alla massa incolore che affogava nel godimento ogni ideale.
L'energia con la quale parlerà un giorno del servizio da rendersi a Cristo vero
Re, lascia forse trasparire un riflesso della rivolta morale suscitata in lui
dall'opportunismo che piegava folle di popolo dinanzi a un barbaro il quale
aveva eretto il suo trono sulla violenza e sul tradimento.

Compito arduo, quello di ricondurre al senso della propria dignità e alla stima
dei valori morali le masse avvilite, alle quali non arrida più un ideale
superiore; la scuola avrebbe dovuto preparare gli uomini all'altezza di questa
missione, ma anch'essa inevitabilmente risentiva delle condizioni generali di
vita.

A Roma le scuole, sugli inizi del secolo VI, non erano

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più quelle dell'età aurea dell'Impero, non perché ne fosse ridotto il numero o
sminuita la dignità, ché anzi Teodorico si adoperava in ogni modo alla
diffusione della cultura, ma perché erano venute meno alla loro funzione
essenziale di plasmare degli uomini ai grandi e forti ideali di vita civica e
morale.

Il loro compito sembrava esaurirsi nella trasmissione meccanica dell'eredità


letteraria ricevuta dai secoli precedenti, e, più che di stabilire un contatto
spirituale con i grandi del passato, si preoccupavano di analizzarne le
preziosità stilistiche per ritrarne canoni di imitazione non sempre di autentico
buon gusto. È questo amore geloso dei classici voleva forse stabilire un
compenso al vuoto desolante del presente.

Bisogna riconoscere che non mancavano del tutto, anche in quell'epoca, degli
uomini grandi che con genio e originalità coltivavano gli studi: Boezio e
Cassiodoro ne sono gli esponenti principali se non gli unici, ma essi
rappresentano l'eccezione, sono un fenomeno isolato, non la scuola. Qui
l'importanza preponderante era data all'insegnamento della retorica, secondo
un dato comune a tutte le epoche di decadenza, quando né grandi passioni né
nobili aspirazioni suscitavano lavori di creazione; appariva sufficiente, alla
cultura di questa società mezzo imbarbarita, lo studio dei classici, letti e
commentati con interesse assai vivo, di Virgilio specialmente, che Ruffino
rimproverava a san Girolamo di esporre ai suoi ragazzi nel monastero di
Betleem, insieme con gli altri «autori comici, lirici e storici».
Prestare una lingua elegante all'adulazione per comporre un panegirico ben
connesso poteva già apparire un risultato soddisfacente per i maestri e per gli
scolari.

Solo lo studio del diritto offriva ancora garanzie di serietà, ma tutto il


complesso, compreso il metodo tradizionale secondo il quale, soprattutto
nelle scuole giuridiche, le formule divise «in tempi uguali, con
accompagnamento di cantilena, si imparavano a memoria mediante un canto
collettivo», faceva pensare a un organismo senza anima.

Anche se ai classici pagani qua e là si innestava lo studio delle prime


manifestazioni letterarie cristiane, questo era ridotto a tali minime
proporzioni che la prevalenza rimaneva sempre al mondo culturale pagano,
più aderente per sua natura all'anima paganeggiante e sensuale del popolo.

In una città come Roma, dove san Girolamo trova anche tra il clero degli
elementi tutt'altro che edificanti e di una mondanità che oggi stentiamo a
concepire, e dove Ammiano Marcellino ci attesta che, in tempo di carestia,
dovendosi allontanare da Roma quanti non fossero strettamente necessari,
furono però lasciati indisturbati gli istrioni e non meno di seimila tra ballerine
e cantanti, si può ben capire come la condotta morale degli studenti non
dovesse offrire garanzie di serietà e di morigeratezza.

L'immoralità dilagava del resto senza alcun ritegno, e penetrava nella scuola
stessa, se dobbiamo credere alla testimonianza di sant'Agostino il quale
afferma che «i ragazzi sono costretti dagli anziani a leggere e a imparare, pur
tra gli studi che si dicono nobili e liberali», le turpi produzioni di un teatro che
non conosceva più alcun ritegno di moralità.

Tale situazione doveva accentuare la fisonomia scapigliata e gaudente della


popolazione studentesca, che se ovunque godeva fama di indisciplinatezza,
nella Roma di allora si abbandonava sfrenata a ogni licenza.

Proprio nel IV-V secolo ne aveva fatto l'esperienza tutt'altro che lieta lo stesso
sant'Agostino, quando, illudendosi di trovare una scolaresca più composta,
era partito dall'Africa per venirsene a Roma, e poi da Roma aveva dovuto
emigrare a Milano, per concludere con un rassegnato adattarsi a quella
miseria dei tempi.

Tutto questo non equivale a dire che non si studiasse: sarebbe esagerato e
ingiusto l'affermarlo, e ne dà una smentita il grado stesso di maturità
intellettuale
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raggiunto da Benedetto, che pure abbandonò incompleti i suoi corsi di studio,


ma non si può negare che la compagine scolastica fosse un qualche cosa di
scialbo, affatto inefficace a produrre profonde impressioni o ad eccitare un
ideale superiore che valesse a preservare dalle seduzioni del piacere che la
decadente vita di Roma offriva sotto i colori più smaglianti.

Questo l'ambiente col quale venne a trovarsi a contatto, nel periodo della sua
formazione culturale, lo studente umbro maturato nel silenzio della sua terra,
perfettamente cosciente del vero valore dell'esistenza: una maturità precoce,
un abito meditativo che faceva contrasto con la sua giovinezza, lo spingevano
come per istinto a scoprire l'essenza vera di quella vita che si fasciava
d'orpello per nascondere la sua miseria.

Non gli dovette essere ignota la tristezza profonda che ogni anima grande
prova dinanzi alla prodigalità incosciente con la quale si fa getto, con la più
sfrenata spensieratezza, degli anni più belli, più ricchi di energie: la sensualità
divenuta norma e fine dell'esistenza, anziché sedurlo, creava in lui ripugnanza
e disgusto, accentuando il senso di fierezza e di rettitudine morale che era la
sacra eredità della sua gente.

Al di là di ogni apparenza egli sentiva il bisogno di incontrarsi faccia a faccia,


senza veli, con la realtà vera degli uomini e delle cose, e la realtà di quella
Roma dove tutto appariva splendido, gli si scopriva ogni giorno più come una
miseria senza nome.

Davanti al dramma di una civiltà che agonizza e sta per essere sommersa dalla
barbarie, come non sentire lo sgomento per la leggerezza, l'incoscienza di
uomini che, avendo un destino di gloria immortale, si abbrutiscono nel vizio,
contenti di rompere la monotonia delle loro giornate distraendosi tra mimi e
ballerine, o appassionandosi alle gare del Circo, come bimbi spensierati ai
quali arrida la vita? L'atmosfera greve del vizio si insinuava dappertutto, e per
la sua ripugnanza al male, per la purezza della sua animà, Benedetto doveva

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necessariamente rimanere un isolato, solitario fra i coetanei compagni di


studi con i quali non gli era certo possibile stabilire alcun contatto spirituale.
Nella scuola stessa, il vuoto più sconcertante: al di là della forma nessuna
solidità e profondità di pensiero, intesa com'era a formare il retore, non
l'uomo.

A confronto del problema urgente di una vita ordinata a un fine supremo che
trascende il tempo e la contingenza delle vicissitudini umane, e che anche nei
suoi riguardi puramente terreni ha un valore incommensurabile, che vale
spendere giorni e mesi sulle facezie di dubbio buon gusto dei poeti comici, o
intenerirsi sulle vicende sentimentali di Tibullo, di Catullo, di tutti i classici
dell'amore umano, elevato a motivo quasi unico di ispirazione e di arte?

Nessuna delusione nell'anima fiera di questo studente provinciale, che sfida


l'incanto di Roma e ne giudica la banalità da un suo mondo superiore di
serenità, poiché egli non ha mai subìto la lusinga del vizio, e tanto meno ne ha
cercato l'appagamento senza giungere a esserne soddisfatto: tutt'altro.

Con la vigoria di una convinzione robusta che, come frutto di serena


riflessione, scaturisce dal confronto dei valori, si rafforza in Benedetto il senso
cristiano, divenuto ormai esperienza vissuta della vanità di tutto ciò che passa
e logora l'esistenza, senza avvicinarci individualmente e socialmente a Dio.

Ha ragione san Gregorio di dirci di lui che «despexit quasi aridum mundum
cum flore» disprezzò il mondo in fiore quasi fosse inaridito: senza violenza,
senza amarezza, e giudicò il piacere povero fiore avvizzito già nell'atto in cui si
coglie.

È probabile che la partecipazione a una vita religiosa intensa, come


sembrerebbe ovvio pensarla nel centro della cristianità, avrebbe potuto
impegnare le sue energie spirituali, integrando le deficienze dell'ambiente
scolastico e creando un compenso alle tare della vita

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sociale, ma proprio nel periodo del soggiorno romano di Benedetto la Chiesa e


il Papato vivevano giorni tristissimi.

Morto il pontefice Anastasio II, all'elezione del suo successore, designato nella
persona di Simmaco, per la opposizione di una minoranza determinata da
motivi politici e guadagnata col denaro, Roma ebbe, il 22 novembre 498, lo
strano spettacolo di un Papa e di un Antipapa che nello stesso giorno
ricevevano la consacrazione episcopale, al Laterano il Papa legittimo, nella
chiesa di Santa Maria Maggiore il suo competitore Lorenzo.
La comunità cristiana della città si trovò così divisa in due partiti in attesa che
il re Teodorico, presso il quale ognuno dei due contendenti si era recato per
far prevalere le sue ragioni, decidesse quale delle due elezioni dovesse
ritenersi legittima.

Teodorico si pronunziò in favore della parte che aveva avuto maggior numero
di voti, e Simmaco poté ritenersi ormai sicuro, rientrando in Roma, che tutto
fosse finito, tanto più che al suo avversario, dopo che si fu sottomesso alla
decisione del re, era stata assegnata la sede vescovile di Nocera in Campania.

Si era invece appena all'inizio dei mali. I fautori di Lorenzo, capeggiati dal
senatore Festo che non intendeva rassegnarsi al fallimento del suo candidato,
poco più di un anno dopo accusarono a Teodorico papa Simmaco come reo di
gravi infrazioni alle tradizioni liturgiche nella celebrazione della Pasqua, e,
peggio ancora, di gravi colpe nella sua vita privata e di alienazione illegittima
di beni ecclesiastici.

Il re, che, come nota bene il Grisar «nel diritto canonico non' era così esperto
come nelle armi e nella politica», visto che il Pontefice non aveva accettato di
essere giudicato alla Corte di Ravenna, pensò di far bene mandando a Roma il
vescovo Pietro d'Altino, come visitatore vescovile, per eseguire un'inchiesta
rigorosa sulla realtà e l'entità delle accuse lanciate contro di lui.

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Il peggio fu che la cosa, già in sé deplorevole, divenne ancora più grave,


poiché il visitatore, schierato si con i partigiani dell'Antipapa, ne approvò la
condotta, confermando come legittima la spoliazione delle chiese e della
proprietà ecclesiastica, compiuta dagli avversari di Simmaco, e suscitando
così la reazione decisa di quanti aborrivano dallo scisma e si mantenevano
fedeli al vero capo della Chiesa. Un primo sinodo adunatosi nel maggio del
501 a Santa Maria in Trastevere per decidere della situazione, con l'intervento
di centoquindici vescovi, non giunse a nessun risultato pratico.

Iniziata una nuova sessione a Santa Croce in Gerusalemme il 10 settembre


dello stesso anno, la gente di Festo aggredì lungo la strada papa Simmaco che
vi si recava col suo seguito, e lasciò tutti così malconci da costringerli a
tornare precipitosamente in San Pietro, essendo riusciti a stento ad aver salva
la vita, mentre il Pontefice dichiarava indignato che non si sarebbe ormai più
sottoposto a nessun giudizio umano: facesse di lui il re quel che credesse
meglio.

Dopo aver sbagliato una prima volta, Teodorico era troppo abile diplomatico
per ricadere una seconda volta nello stesso errore, e dopo aver dichiarato che
non toccava a lui, laico, di legiferare in materia religiosa, insistette perché
invece giungesse a una conclusione il Concilio, il quale a sua volta comunicava
al sovrano «essere cosa inaudita e senza esempio che il Sommo sacerdote di
quella sede fosse citato e interrogato in giudizio ».

Intanto a Roma l'esasperazione popolare eccitata dai senatori esponenti dei


due partiti in lotta: Fausto per il Papa, e Festo per l'Antipapa, aveva delle
esplosioni sempre più pericolose per la frequenza degli scontri tra le fazioni
ostili.

Chierici, monaci, e perfino delle monache, persero la vita in questa brutale


contesa che davvero non era fatta per custodire gli animi nella pace: lotta
disgustosa che si prolungò con estrema violenza fino agli ultimi mesi

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del 501 e che abbassava la suprema autorità spirituale alla stregua di tutte le
miserabili ambizioni terrene.

La vittoria rimase finalmente al legittimo papa Simmaco, ma fu trionfo di


principi, meglio che concreta realtà di pace negli animi ben lontani dall'unità.

Si ebbe anzi questa strana situazione di un Papa legittimo costretto a


difendere le sue posizioni, quasi prigioniero in Vaticano, e di un Antipapa che,
abbandonando la sede di Nocera rientra spadroneggiando in Roma proprio
all'indomani della decisione conciliare che reintegrava Simmaco in tutti i suoi
diritti, e tiene occupate con la forza, per circa quattro anni, tutte le chiese
titolari della città. Anche quando però, nel 505, Teodorico si decise a metter
fine con la sua autorità a questo scandalo inaudito e Lorenzo fu costretto a
fuggire e si rifugiò in una villa offertagli da Festo, senza più far parlare di sé, il
fermento della discordia non fu sopito tra il popolo: ci volle tutta l'energia e
l'accortezza di Cassiodoro che solo nel 514, alla morte di Simmaco, poté
costatare con soddisfazione che la pace era finalmente ristabilita a Roma.

In questo ambiente religioso, mentre le basiliche di San Pietro e di San Paolo


erano divenute il centro della resistenza delle fazioni in lotta, Benedetto venne
a contatto con l'anima cristiana di Roma, e non possiamo credere che le
vicende deplorevoli, e spesso tragiche, delle quali era spettatore, lo abbiano
lasciato indifferente o ·del tutto estraneo.

L'avvilimento morale del Papato era già in sé cosa tristissima, ma a questo va


aggiunto un problema di più vaste proporzioni e del quale le sciagure presenti
non erano in fondo che una conseguenza: per l'ostinato sopravvivere dello
scisma Acaciano le stesse questioni dottrinali si dibattevano senza fine e
intrecciandosi agli interessi politici della Corte di Costantinopoli creavano alla
Chiesa sempre rinascenti dolori e preoccupazioni, e trascinavano le
intelligenze in un labirinto di astrusità

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teologiche infinitamente lontane dallo spirito del Vangelo.

La stessa vita di pietà dei semplici fedeli doveva rimanere mortificata davanti
allo spettacolo poco edificante di un clero mondano e scisso in partigianerie
rissose, che portava i suoi antagonismi fin dentro il Santuario, sulle tombe
sacre dei martiri, divenute cittadelle di resistenza in un'atmosfera fremente di
odi e di passioni, alle quali non si sottraevano nemmeno i monaci che
vedevano anch'essi impigliata la loro vita nei limiti angusti delle contese
terrene.

Con l'anima ancora tutta impregnata dall'atmosfera satura di soprannaturale


della sua Norcia, dove il suo spirito si era aperto alle cose di Dio, il giovane
umbro, a contatto con la vita religiosa della capitale del mondo cristiano,
dovette profondamente sentire quella profonda e pericolosa forma di
sofferenza che è provocata dalla delusione.

Ben diverso, certo, il clero che aveva imparato a conoscere nell'infanzia e nella
sua prima giovinezza; e che profumo di purezza, che limpidità di rapporti con
Dio, con le creature stesse, negli episodi meravigliosi attraverso i quali
splendeva luminoso l'umile eroismo quotidiano dei monaci che popolavano i
dintorni di Norcia!

Ne aveva sentito parlare con ammirata devozione, e non è improbabile che


abbia anche avuto qualche contatto con qualcuno di essi anche se non con i
più celebri: il santo Abate Spes, Eutichio, e soprattutto Fiorenzo, il solitario
che aveva amato, a compagno della sua solitudine, un orso, del quale si
asseriva che ogni giorno guidasse e riconducesse dal pascolo il piccolo gregge
dell'eremita.
Tra le immagini un po' primitive, ma così vigorose e caste, di questi ricordi
custoditi dal cuore e la mondana e tempestosa vita della società religiosa di
Roma, il contrasto era stridente, tale da disorientare un'anima meno
profonda di quella di Benedetto: da tutto quel mondo invece, quello
apertamente dimentico del

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Vangelo, e quell'altro che avrebbe voluto sotto il santo segno della croce
giustificare le sue deviazioni, egli si isolò quasi istintivamente.

Prima che le esperienze umane nel succedersi degli anni avessero compiuto la
loro opera di sgretolamento delle illusioni giovanili, la luce dello Spirito al
quale teneva aperta la sua anima, gli scoprì la vanità profonda di tutto
quell'affaccendarsi, quel lottare, quel macchiarsi le mani di sangue: perché, se
tutto deve poi dileguare come un'ombra?

Né i piaceri dei sensi, né la voluttà più raffinata dell'ambizione o la passione


delle contese politiche riuscirono ad adescarlo: libero, ricco, quando ormai
quasi al termine dei suoi studi la vita gli offriva tutte le sue gioie con la lusinga
della felicità, il contatto con una esistenza che sembrava non comprendere i
valori dello spirito nella quale egli stesso sarebbe stato un vinto, e, a voler
resistere, un solitario sognatore, determinò nel nostro giovane un'acuta crisi
interiore.

Alla sua anima profondamente seria si imponeva con una specie di necessità
la decisione della scelta tra la città di Dio e la città di Satana; tra l'accettazione
a quel compromesso di vita cristiana nel quale cozzavano gli interessi più
disparati, o l'eroica fedeltà a una attuazione integrale della vita evangelica,
vissuta senza mezzi termini, fino alle conclusioni estreme.

Non sappiamo quanto sia durato questo periodo travaglio intimo, certo
prevalsero i diritti dello spirito. Benedetto non era fatto per le accomodanti
transazioni. In una società nella quale norma suprema del vivere appariva il
godimento e l'ambizione, egli sarebbe sta il «Vir Dei» (l'uomo di Dio), nel
senso assoluto esclusivo della parola.

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II. Affile

La vocazione di Benedetto era risolta nelle sue linee fondamentali, e niente lo


avrebbe ormai distratto dal proposito irrevocabile di servire a Dio piuttosto
che al mondo: rimanevano adesso da stabilirsi le determinazioni pratiche, il
modo concreto di questa sua donazione al Signore che, ben salda nella sua
essenza, appariva ancora mal definita nei suoi particolari.

Sarebbe stato uno dei pochi che credono al Vangelo di Cristo con assoluta
coerenza tra la loro vita e la loro fede: ma quali le vie da percorrere?

Una vita cristiana che splenda nel mondo senza lasciarsene contaminare ha
certo una sua dignità e una sua bellezza, ed egli avrebbe potuto viverla non
immischiandosi alle follie di una società depravata, magari tornando alle sue
montagne per condurvi la stessa esistenza serena dei suoi antenati.

Non era idea da escludersi a priori, ma in pratica tremendamente difficile per


il cozzo inevitabile con la mentalità dell'ambiente che avrebbe giudicato
codardia quell'astenersi dalla partecipazione attiva alla vita civile. Bisognava
poi tener conto della prevedibile opposizione

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dei parenti che avevano avuto per lui ben altre ambizioni e che, con ogni
probabilità, non avrebbero del tutto compreso la sua risoluzione, senza dir
nulla della piccola società nursina che, per quanto diversa da quella di Roma,
sarebbe stata pronta a riprenderlo tra le sue reti imponendogli delle esigenze
alle quali era assolutamente deciso a sottrarsi.

Più attraente, meglio capace di soddisfare a quel tormento di infinito che si


agitava nel suo cuore, era la vita monastica, ma non quella immiserita nel
groviglio delle passioni politiche, che lì a Roma era una pena a vedersi: una
vita aderente all'ideale, che conducesse veramente a Dio, che fosse
l'espressione più perfetta delle possibilità umane potenziate dalla grazia; i
monasteri non mancavano, ai tempi di Benedetto, e i monaci nemmeno, ma
che povera cosa era in genere la loro esistenza!

Non era agevole determinarsi a una scelta qualunque quando l'anima vibrava
tutta come a un segreto richiamo verso l'alto, al disopra di tutti i concilianti
adattamenti ai quali si era piegato anche l'ideale monastico, nello sforzo di
acclimatarsi all'ambiente romano. Ora una cosa soprattutto si imponeva a lui
come necessaria: il silenzio.
Aveva bisogno di tacere, di raccogliersi, per percepire in maniera più distinta
la voce di Dio che dopo averlo già spiritualmente segregato dalla società nella
quale si sentiva ormai un estraneo, avrebbe dovuto indicargli le mete alle
quali un misterioso richiamo lo attirava; ma non era certo Roma che poteva
offrirgli questo rifugio di raccoglimento nella continua dispersione di energie
interiori che le sue esigenze creavano, né, per altri motivi, poteva pensare di
trovarlo a Norcia.

Eppure il comando di Dio era netto; bisognava che fuggisse, isolandosi anche
materialmente da un mondo troppo noto, che spezzasse tutti i legami per
trovare nella piena libertà dello spirito la sua via, il solco tracciato alla sua
esistenza dall'Amore eterno.

Il corso degli studi letterari non era terminato: questa

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ragione che per altri avrebbe potuto avere un suo peso non indifferente, a lui
appariva insignificante, dato che quel po' di erudizione classica che i retori
romani avevano ancora da vendergli non valeva per la vita eterna, ma poteva
anzi creare nuovi intralci alla sua anima impaziente di liberazione.

Il suo cuore era soggiogato dallo sguardo divino che creava in lui necessità
sempre più profonde, e a quella luce la scuola gli appariva sempre più
meschina, povera istituzione senz'anima, buona solo a ritardare il suo
cammino: meglio abbandonarne i corsi incompiuti per dedicarsi a quello
studio della verità nel quale l'unico maestro è lo Spirito, e le creature non ne
sono che lo strumento sensibile. E non frequentò più la scuola.

Ma era ricco, è le ricchezze accumulate e custodite per lui dalla tenera


previdenza del padre gli creavano dei doveri ai quali non era facile sottrarsi,
divenivano un peso, zavorra che abbassava a terra, mortificando la sua ansia
di divino: ebbene, anche di quelle si sarebbe liberato d'un colpo, senza
esitazione, imponendo silenzio al cuore, ferito negli affetti più cari.

Il piano di Benedetto si veniva ora delineando: interrotti gli studi,


abbandonare la casa rinunziando a ogni diritto sui beni paterni, per ritirarsi
in qualche località appartata, dove, sconosciuto, nell'umiltà di una vita
semplice, attendere alla meditazione, e restituire cosi alla sua anima, dopo il
logorio di quegli anni di vita studentesca a Roma, la vigoria e lo slancio
necessari a seguire le vie che poi la Provvidenza gli avrebbe indicate.
Intorno all'attuazione di questo piano, alle difficoltà che è facile prevedere e
che furono superate, non abbiamo nessun particolare: san Gregorio ci mette
davanti al fatto compiuto e sembra quasi volersi scusare per non poterci
fornire che le poche notizie venute a sua conoscenza.

Dobbiamo quindi rassegnarci alle molte ombre e contentarci di sapere che,


troncati a mezzo gli studi, Benedetto lasciò Roma, dopo aver rinunziato alle
ricchezze

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come aveva rinunziato alla scienza; proviamo però un certo disagio


nell'ammettere che si sia messo in viaggio senza una mèta prefissa, o che,
avendo già chiaro il suo proposito di vita eremitica, si sia mosso ad attuarlo
facendosi accompagnare dalla nutrice e lasciandosi trattenere, prima di
giungere al termine del viaggio, dalle insistenze della buona gente di Affile.

Di solito si parla di una fuga di Benedetto da Roma, ma in realtà niente


giustifica tale asserzione, mentre anzi siamo portati a pensare a una partenza
silenziosa, condotta in modo da non destar rumore, non però a una fuga nel
senso stretto della parola, se del suo piano egli volle partecipe la persona che
più teneramente lo amava, la nutrice fedele che non volle si allontanasse solo,
preferendo seguirlo nelle incognite di quel nuovo genere di vita che egli si
dichiarava deciso a intraprendere.

Forse questa donna fidata, che amandolo come una madre lo aveva
accompagnato in città, nella sua fede robusta di popolana di buon senso,
aveva intuito qualche cosa della crisi spirituale del giovane e, pregando con
trepidazione, aveva vegliato su di lui in quegli anni difficili; ne ricevette certo
la confidenza più intima, quella della sua vocazione che non contrastò,
riuscendo anzi a farsi accettare come compagna della nuova vita dal figliuolo
adottivo che il suo cuore semplice, è probabile, presentisse chiamato a grandi
cose.

Niente ci lascia supporre che Benedetto non gradisse quella compagnia, ed è


chiaro che devono aver parlato insieme del progetto, e la buona donna non
deve aver trovato assurda, nella sua logica paesana, l'idea di abbandonar
Roma per pensar meglio a salvarsi l'anima in un ambiente tranquillo; il
Signore avrebbe pensato un giorno a far conoscere più chiaramente la sua
volontà, intanto lei avrebbe continuato a servire silenziosamente, senza
distrarlo, il padroncino, che amava come un figliuolo.
Così un giorno, inosservati, uscirono da Roma, inoltrandosi

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insieme, con molta verosimiglianza, lungo la via Tiburtina, ma sarebbe per lo


meno assai strano pensare che non si fossero prima chiesti dove
quell'itinerario li avrebbe condotti, e dove, sia pure temporaneamente,
avrebbero stabilito la loro dimora.

Il viaggio durò parecchi giorni, e al Santuario della Mentorella, a mezza strada


tra Roma e Subiaco, la tradizione vuol riconoscere una delle tappe del
cammino, che, dopo un percorso di circa ottanta chilometri, doveva condurre
i due pellegrini in vista di Affile.

Benedetto e la sua nutrice si fermarono in questo piccolo paese che, per essere
arrampicato tra i monti, quasi a 700 metri di altezza, non perciò era del tutto
oscuro, ché anzi poteva vantare una sua storia e una vita religiosa e civile
sufficientemente evoluta.

Niente di strano che durante il suo soggiorno a Roma, Benedetto avesse


conosciuto qualche buona persona di Affile, o magari qualche membro del
clero della chiesa di San Pietro, al quale abbia poi pensato di rivolgersi per
una prima, sia pure provvisoria sistemazione della sua vita. La frase di san
Gregorio che accenna alla carità degli affilani che vollero con insistenza
trattenere i due viaggiatori, non esclude questa ipotesi, come non impone la
necessità di una interpretazione che la circoscriva nel senso di un'opera di
misericordia esercitata verso due viandanti sconosciuti.

Ci dà però la certezza che il giovane venne ricevuto con viva cordialità dalle
persone più influenti del paese e che gli fu offerta generosamente la facoltà di
sistemarsi con la domestica nella foresteria annessa alla chiesa di San Pietro;
cose tutte che si spiegano male se si vuole insistere sull'opinione di un arrivo
fortuito ad Affile sotto la veste di un oscuro vi andante sconosciuto e di una
vecchia donna, ai quali capiremmo bene venisse concessa ospitalità per
qualche giorno, ma che non vedremmo il motivo di trattenere con tanta
insistenza. Poiché il soggiorno di Benedetto ad Affile fu tutt'altro che breve, e
non ha il carattere di una permanenza

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accidentale presso ospiti cortesi, come giustificare tutto questo se egli non
avesse avuto nessuna relazione precedente con qualcuno del paese?
Cosa precisamente facesse in quel periodo di tempo non sappiamo, nè è facile
indovinarlo; l'unica notizia certa è che aveva organizzato la sua vita
modestissima presso la chiesa di San Pietro dove la nutrice provvedeva a tutte
le sue necessità pratiche, addossandosi il peso delle preoccupazioni materiali
per lasciare a lui piena libertà di attendere alle cose di Dio.

Nel tranquillo ritiro di quell'angolo di terra tagliato fuori dalle grandi strade,
dove molti elementi gli facevano rivivere più intenso il ricordo della sua
Norcia, Benedetto poté approfondire il mistero della propria vita spirituale,
questo miracolo ininterrotto della grazia che di una povera creatura fa un
figlio di Dio eletto a una eternità di gloria, e che a ogni uomo, per virtù di
Spirito Santo, dà di poter gridare al suo Creatore: «Abba! Padre».

Nel commercio intimo con Dio la sua pietà si dilatava, assumeva nuovi
aspetti, raggiungeva insospettate profondità. È inutile tentare di scoprire per
quanto tempo si sia prolungato questo soggiorno ad Affile che apre il campo a
tutte le ipotesi, ma intorno al quale la storia tace; così come dell'azione divina
sull'anima di questo giovane assetato di perfezione nessun indizio ci è
rimasto, a prescindere dall'episodio conclusivo che segna già una fase
culminante nello sviluppo della vita interiore.

Lo studente riflessivo e puro che si è allontanato da Roma per rispondere a


una vocazione della quale non abbraccia per ora tutta l'estensione, ma che è
deciso di seguire sino in fondo, è ancora su un piano ordinario di vita; al
termine della dimora ad Affile la sua vitalità soprannaturale ha raggiunto un
grado così intenso, la sua anima è entrata in una così profonda intimità con
Dio da darci già la sensazione di trovarci di fronte a un santo autentico.

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Tra questi due estremi che possono aver racchiuso un periodo di tempo non
eccessivamente lungo, si pone una realtà essenziale: Benedetto si è dato a Dio,
e di questo servo fedele sempre teso in ascolto, sempre docile a eseguire la
parola accolta nel cuore, il Signore ha fatto un amico, un santo; il modo, è il
segreto divino; che vale analizzarne le operazioni con le nostre indagini
curiose?

Quando san Gregorio ci racconta a rapidi tratti l'episodio conclusivo di questo


periodo, dobbiamo tener presente che esso ha un valore solo accidentale:
Benedetto è ormai pronto per rispondere ai disegni della Provvidenza, basterà
un cenno perché egli li abbracci e li faccia suoi, e questo cenno Dio può
compiacersi di dado anche attraverso il miracolo del vaglio di terracotta.

Dato il carattere provvisorio della sistemazione dei due ospiti romani nei
locali messi a loro disposizione presso la chiesa di San Pietro, non c'è da
stupirsi che molte cose facessero loro difetto in fatto di stoviglie e di utensili
indispensabili; la loro posizione era assai di-versa da quella di un forestiero di
passaggio, che, dopo una buona notte di sonno e il ristoro necessario
offertogli dalla carità dei paesani, riprende il suo cammino, senza troppe
esigenze.

Che anzi questo soggiorno ad Affile non dovesse esser troppo breve lo dice il
fatto che la buona nutrice dovette preoccuparsi di fare il pane, rimediando
alla meglio col chiedere in prestito da qualche vicina di buona volontà quanto
le fosse necessario: un buon vaglio di terracotta, anzitutto, per vagliare il
grano. E senza dubbio la vicina compiacente avrà avuto le più ampie
assicurazioni che, appena ultimata la faccenda, il suo arnese le sarebbe stato
restituito senza ritardo.

Ma accade spesso a questo mondo quello che non si desidera, e così avvenne
che il vaglio, posato forse un po' distrattamente sul tavolo, per una mossa
brusca, andò a finir per terra e andò in pezzi.

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Cose che capitano, si sa, e non ci pare fosse il caso di drammatizzare la scena,
pur riconoscendo che questo contrattempo, per le circostanze che lo
accompagnavano, poteva riuscire imbarazzante; ma ci sono degli stati
d'animo nei quali un nonnulla basta a sconvolgerci, e fu proprio quel che
accadde alla povera nutrice che, nonostante il suo gran cuore, era ben lontana
dalla statura spirituale di Benedetto.

Così i pensieri neri si accumulano nella sua fantasia, dando la stura a un


torrente di lacrime e accrescendo il suo malumore; c'era la brutta figura da
fare con la vicina, data l'impossibilità di sostituire lì per lì il vaglio rotto con
uno nuovo, la preoccupazione di non saper come fare in seguito, poiché le
sembrava che, dopo quell'incidente, non avrebbe più avuto il coraggio di
chiedere qualche cosa in prestito, e forse, chissà, non era estranea a quella
disperazione sproporzionata all'entità dell'incidente, una punta di rimpianto e
di dispetto per tutta quella miseria presente, per quella vita da mendicanti che
le creava simili imbarazzi, mentre, nella casa dei suoi padroni, di vagli e
d'altro ancora ne avrebbe avuti da rifornire il paese intero.

Nel suo turbamento non la finiva di piangere, e ci è lecito pensare che non
siano state lacrime del tutto silenziose.

Benedetto assisteva a questa piccola tragedia domestica, in pena anche lui,


ma più per lo sconvolgimento morale di quella povera creatura che amava, e
che per causa sua si sottoponeva a tanti disagi, che non per l'incidente
insignificante del vaglio rotto; avrebbe voluto consolarla, ma capì che sarebbe
stato come gettare olio sul fuoco, e senza dir nulla raccattò da terra le due
parti del vaglio e, portandole con sé, si ritirò in preghiera.

Ogni volta che la sua anima, nell'orazione, entrava in contatto attuale con Dio,
l'esperienza della divina presenza era in lui così sentita, così penetrante, che
ne vibrava tutto fino a non poter contenere le lacrime, e il

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suo pianto era atto di adorazione, grido di umiltà, abbandono d'amore nelle
mani del Padre che sta nei cieli.

Pianse anche quel giorno, presentando al Signore lo sconforto amaro della


vecchia domestica, e forse chiedendo con più insistenza per sé la grazia della
luce per uscire da quel penoso stato di incertezza; era il grido potente di
un'anima che non conosceva tregua alla sete di contemplare il volto
dell'Infinito.

Al termine di quella preghiera, il vaglio, posato a terra vicino a lui, era tornato
perfettamente sano, senza la più lieve incrinatura che potesse lasciar supporre
la disavventura di poc'anzi.

Il seguito del racconto si fa presto a immaginarlo, come non c'è bisogno di


dire che il pianto e le malinconie nere della nutrice si dileguarono per incanto:
era di fronte a un miracolo autentico, e i suoi pensieri correvano ora su ben
altra via.

In un baleno tutto, il paese fu informato del prodigio, fino nei minimi


particolari, e il vaglio miracoloso fornì l'argomento al chiacchiericcio
inesauribile di quella buona gente che non si dette pace fino a che non lo vide
sospeso, bene in vista, sulla porta principale della chiesa, testimonianza
inconfutabile del miracoloso avvenimento.
Rimase lì, difatti, guardato da tutti con ammirazione, e per circa settant'anni
le mamme, additandolo ai figliuoli, raccontarono fedelmente la storia di
quell'umile arnese che per le preghiere di un santo era tornato intero dopo
essere stato ridotto a pezzi: poi vennero i Longobardi a mettere a soqquadro
ogni cosa e il vaglio del miracolo fu distrutto, ma ne rimase il tenace ricqrdo
nella tradizione dei buoni affilani.

Quell'episodio doveva segnare una svolta decisiva nella vita di Benedetto; tutti
parlavano di lui come di un santo, lo volevano vedere, averne una parola di
conforto, supplicarlo che intercedesse per i bisogni più svariati.

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Intanto la sua posizione diventava sempre più imbarazzante, e di giorno in


giorno quasi ormai insostenibile; aveva voluto semplicemente asciugare le
lacrime della sua nutrice, impetrarle conforto per quel danno del quale si era
tanto accorata, ed ecco che invece, a un tratto, per l'entusiasmo di tutta quella
popolazione, diveniva l'eroe del paese e forse anche dei dintorni.

Ad Affile erano orgogliosi di simile fortuna, e se ne rallegravano come di un


bene comune; possiamo immaginare con quanta compiacenza e fierezza ne
avrà goduto la vecchia domestica, alla quale non poteva dispiacere del tutto
che l'orizzonte cominciasse a illuminarsi un po' anche dal lato della terra.

L'unico che nella vicenda si reputasse tutt'altro che fortunato era proprio
Benedetto che vedeva radicalmente capovolto il suo tenore di vita; non più
solitudine, non più oscuro ritiro tra gente semplice che gli aveva voluto bene
alla buona, con rude schiettezza, lasciandogli piena libertà di dedicarsi alla
preghiera, ignorato da tutti. D'un tratto la fama, nella sua forma più
seducente e pericolosa, lo avvolgeva, lo rendeva oggetto di venerazione per
quelle creature che, abbagliate dalla luce del miracolo, non gli nascondevano
la propria ammirazione; non era questo davvero che egli aveva cercato
lasciando Roma.

Il ritiro di Affile non lo custodiva più, non era più sufficiente per lui, che
invece sentiva aumentare di intensità, sempre più distinta, fino a divenire
ormai irresistibile, la voce interiore che lo chiamava alla solitudine assoluta, al
silenzio più profondo dove poter attendere unicamente a Dio; l'entusiasmo
che lo circondava era ancora la vanità, l'approvazione del mondo che un soffio
disperde, che può dare un istante di dolcezza alla natura, ma che fa poi sentire
più amaro il vuoto della anima se questa ha invece bisogno di vivere nella
verità, vincendo il male, operando il bene, faticosamente, fino a divenir
capace del possesso pieno di Dio.

Intensificò la preghiera, implorando la grazia della

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luce, fino a che non riuscì a distinguere in quell'incidente del vaglio una
chiara indicazione della Provvidenza, verso quella che gli appariva ora come la
sua vera vocazione: doveva essere monaco, l'uomo dell'unità, nella sua vita
intima, nei rapporti con Dio, il solitario, nella segregazione completa dal
mondo.

Poiché nemmeno la vita cenobitica gli sembrava capace di estinguere la sua


sete. I monasteri, anche in quella regione, non mancavano, ed è molto
probabile che Benedetto li conoscesse bene e fosse informato della vita che vi
si conduceva, per giungere alla conclusione che essa non rispondeva all'ideale
che gli ferveva in cuore. L'eremo solo lo attraeva quasi con violenza,
offrendogli la possibilità di un'attuazione integrale di quel gran bisogno di
donarsi, di lasciarsi possedere da Dio, che lo bruciava come una febbre.

Non potevano essergli sconosciute le vite mirabili dei monaci dell'Egitto, di


quei giganti di santità i quali, un secolo prima, a Roma, avevano conquistato
le anime più generose alloro austero programma di ascesi e che, attraverso
alla liberazione dal male, sciogliendosi dai legami con le creature, dalle
esigenze disordinate dell'io, miravano a quella «teoria» che è la
contemplazione perfetta, per quanto almeno è compatibile con la vita terrena,
prima che Dio si doni alla sua creatura nel gaudio eterno della visione
beatifica.

Nessun'altra forma di consacrazione religiosa che apparisse inferiore a questa


concezione avrebbe potuto appagarlo, tanto più che tale aspirazione era viva
in lui come un'imperativa chiamata dall'alto, e il paese stesso dove si trovava,
montuoso e solitario, sembrava particolarmente propizio all'attuazione del
suo progetto.

Quando era partito da Roma, Benedetto aveva abbandonato molto, ma non


tutto: un'ondata di tenerezza umana calda e buona lo avvinceva ancora,
avrebbe potuto, in qualunque momento, frapporsi tra lui e Dio; bisognava
svincolarsene, recidendo ogni legame. L'affetto tenace della nutrice, che per
non saperlo solo
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divideva con lui tutto il disagio di quella povera vita tanto diversa da quella
alla quale era ormai avvezza, l'ammirazione sommessa e contenuta dapprima,
e ora apertamente entusiasta, dei devoti popolani di Affile, tutto un insieme di
piccole, caste soddisfazioni del cuore e dell'anima dovevano diventare materia
di sacrificio, nell'offerta totale: certo, creature care ne avrebbero sofferto, ed
egli pure, ma bisognava, con un taglio netto, farla finita col passato,
scomparire d'un tratto, far perdere le sue tracce, cosi che nessuno potesse
raggiungerlo nella solitudine alla quale Dio lo invitava per comunicarsi al suo
cuore.

Un giorno si sparse in paese la voce che Benedetto era fuggito, e nessuno


seppe dir nulla di lui; egli era ormai in possesso della libertà piena, sciolto da
ogni vincolo umano. Poteva dare a se stesso la testimonianza sincera di non
aver niente anteposto all'amore di Cristo.

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III. LO SPECO

Uscito da Affile, neanche a dieci chilometri dal paese che aveva abbandonato,
Benedetto dovette imbattersi nel ponte grandioso dal quale erano congiunte
le due sponde dell'Aniene, e che gli apriva la via alla salita del monte Taleo.

Davanti al suo sguardo, gli edifici ancora grandiosi della deliziosa villa di
Nerone, da lungo tempo ormai disabitata, rispecchiavano la loro massa, non
priva di bellezza nonostante lo squallore dell'abbandono, nelle acque del lago
dove l'imperatore Claudio aveva imprigionato l'Aniene, tra le macchie cupe
dei boschi e le balze pietrose spalancate sotto il cielo.

Il luogo aveva una sua solennità austera, e ne accresceva l'incanto lo sfacelo


del palazzo imperiale, muto nel suo disfacimento, come un richiamo pieno di
potenza al pensiero della vanità di quanto nel mondo appare grande.

San Gregorio esagera un po', quando ci parla di «deserto», o meglio noi non
dobbiamo essere troppo pedanti nell'ostinarci a voler rivestire quella parola
con tutti i caratteri di una solitudine sconfinata, inaccessibile:

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basta che ci contentiamo di darle il senso più modesto di luogo solitario, e


troveremo che essa corrispondeva esattamente alla realtà delle cose.
Raggiungendo infatti le pendici del monte Taleo, nella zona che doveva il
nome di Subiaco alla sua posizione presso il lago, Benedetto non poteva
illudersi di essere giunto al classico deserto che almeno arieggiasse alle
solitudini della Tebaide: vicini e lontani, piccoli borghi agglomerati intorno
alla loro chiesa, case disseminate per le campagne, e una popolazione operosa
di contadini e di pastori che animavano la solitudine senza romperne il
silenzio profondo, dove la voce più alta era ancora quella delle acque che giù
in fondo alla valle rumoreggiavano nella loro corsa senza fine.

Ci è giunta memoria di diversi monasteri sorti proprio lì, tra i monti


Simbruini, che offrivano all'anima la loro bellezza un po' selvaggia, per
aiutarla nelle sue ascensioni, ma Benedetto non si dirigeva verso nessuno di
essi, guardando alle montagne impervie, tanto più solitarie quanto più alte sul
piano dove cantava la vita.

Un vecchio anacoreta, un giorno, per rispondere al suo discepolo che gli


chiedeva dove avrebbe potuto più facilmente trovar Dio, dopo averlo condotto
nel cuore di un eremo sconfinato: «Ecco», gli disse «dove è Dio». E Benedetto
cominciava a sperimentare quanta realtà ci fosse per lui in questa parola.
Vedeva che nessun'altra condizione di vita all'infuori di quella eremitica,
distogliendolo dalle creature per votarlo alla solitudine, sarebbe stata capace
di dargli la possibilità di vivere per i valori dello spirito.

Il ritiro di Affile aveva maturato gli elementi ancora informi che già lo
avevano spinto ad abbandonare Roma: rinunzia a ogni bene materiale, alle
dolcezze degli affetti stessi del cuore, superamento della natura col dominio
coraggioso delle passioni, liberazione dell'anima dalle incrostazioni residuate
dal peccato, dal rumore che dissipa e divide lo spirito, per vivere di ogni
parola che viene da Dio.

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Era già ormai uno dei pochi per i quali il godimento della bellezza, superando
le cose sensibili, si raccoglie nei beni superiori; svuotato del suo fascino tutto
ciò che è esteriore, sottratto l'alimento alla fiamma dei sensi, si disponeva a
offrire al Signore, nel segreto di una inviolabile intimità, il sacrificio interiore
d'amore e di desiderio che, bruciando come un rogo, avrebbe dovuto
consumare ogni scoria terrena.

La solitudine doveva custodire intanto la sua attesa, poiché Dio che ha modi
misteriosi di unione con i cuori puri, ha promesso di introdurre «alla sua
cena» intimo come l'amico all'amico, lo sposo alla sposa, le anime che al suo
venire troverà vigilanti, con le lampade splendenti rifornite dell'olio di ogni
virtù, protese a Lui in un'attesa che è il richiamo più potente della creatura al
Padre col quale anela di ricongiungersi.

Saliva faticosamente i fianchi del monte Taleo, aprendosi con pena il


cammino nella quiete del silenzio, con lo spirito teso alle realtà divine. In quel
luogo nessuna voce, nessun incontro con qualche suo simile, nessun discorso
più o meno ozioso lo avrebbe turbato, gli avrebbe impedito di essere una di
quelle «anime insonni» per le quali tutto ormai si assomma in un fine unico e
supremo, vivere in Dio, riconducendo a Lui «strenuamente» secondo la bella
parola di Cassiano, la turba instabile dei pensieri, tenendo Lui al centro della
propria vita, principio e fine di ogni attività umana.

In alto, quasi sulla vetta del monte, tutto solitario, appena raggiungibile con lo
sguardo, il monastero dell'Abate Deodato segnava il posto più avanzato per le
creature in ascesa verso il cielo.

L'eremo, lassù, poteva essere un punto di richiamo spirituale per Benedetto,


nella solitudine che diventava più completa ed era capace di dare un senso di
sgomento: là avrebbe trovato anime accese del suo stesso ideale di perfezione,
insegnamenti e guida, un minimo almeno di assistenza materiale, nella
compagine

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fraterna. Ma sarebbe stato ancora un punto d'appoggio sulla terra, ed egli


sentiva che la sua donazione doveva oltrepassarlo, che doveva esser solo,
senza intermediari umani, sotto l'azione divina.

Camminava sempre tra le rocce, perdendosi nel labirinto delle macchie tra le
quali nessuno si era mai curato di aprire un sentiero, quando, d'un tratto, si
trovò faccia a faccia con un monaco del soprastante monastero.

La prima impressione fu quasi certamente un moto di contrarietà in


Benedetto, di stupore nel solitario che sapeva quanto poco, in genere, gli
uomini amassero pellegrinare fin lassù; comunque rimane il fatto che si
fermarono, scambiarono qualche parola, finirono presto con l'intendersi.

L'anima del monaco, addestrata alle rudi lotte dello spirito, affinata e
arricchita nella sua potenza di comprensione soprannaturale per l'assiduo
commercio con Dio, accolse le aspirazioni più intime di questo giovane che si
rivelava subito, dalle maniere distinte, poco assuefatto alla montagna, e che,
per una di quelle intuizioni di corrispondenza spirituale non rare nel mondo
della grazia, sentendo di esser compreso, gli scopriva la sua aspirazione più
profonda.

L'anelito alla solitudine, che Benedetto gli confidava, non era tale da stupire il
monaco Romano, uomo maturo, giunto alla pienezza della sua esperienza
monastica, il quale, dopo aver ascoltato a lungo, provò la certezza di non
trovarsi di fronte a una esuberanza di ideale giovanile, ma a una seria,
autentica vocazione, per la quale quell'anima provava la stessa irrequietezza
vigorosa che urge le acque troppo a lungo contenute, nello sforzo di aprirsi
una via.

Il proposito di vita eremitica non aveva del resto in sé nulla di eccezionale;


era, tra le forme di donazione a Dio, semplicemente, la più perfetta.

San Girolamo, nel suo veemente lirismo, non aveva esitato a cantarne la
bellezza:

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«O deserto smaltato dei fiori di Cristo! O solitudine dove nascono quelle


pietre con le quali nell'Apocalisse si costruisce la città del gran re! O eremo
che godi della familiarità con Dio!

«Che fai nel secolo, o fratello, tu che sei più grande del mondo? Sino a quando
ti opprimerà l'ombra dei tetti? Sino a quando ti imprigionerà il carcere
affumicato di queste città?

«Credimi: io non so quale luce più intensa io goda.

Mi è di gioia, rigettato il peso del corpo, volare al puro fulgore del cielo.

«Tu temi la povertà? Ma Cristo chiama beati i poveri.

«Ti spaventi della fatica? Ma nessun atleta è incoronato se non si è affaticato.

«Ti preoccupi del cibo? Ma la fede non sente la fame.

«Temi di ammaccare sulla nuda terra le membra esauste dal digiuno? Ma il


Signore riposa con te.

«Ti ripugna la chioma incolta del capo disordinato?


Ma il tuo capo è Cristo.

«Ti spaventa la sconfinata vastità del deserto? Ma tu percorri col pensiero il


Paradiso: ogni volta che meditando ascenderai lassù non sarai più
nell'eremo...».

L'intensità stessa di questo richiamo vibrante al giovane Eliodoro ancora


incerto, dice con quale vigore fosse sentito e vissuto l'ideale monastico
anacoretico.

Non abbiamo elementi per determinare con sufficiente probabilità se i


contatti spirituali tra il monaco Romano e Benedetto si siano prolungati per
qualche tempo, o se, ciò che è difficile ad ammettersi, un solo incontro fu loro
sufficiente per intendersi a pieno; in ogni modo fu conservato il segreto più
assoluto e nessuno seppe della presenza del giovane, sul quale il monaco, con
delicato senso di paternità, continuò discretamente a vegliare, fornendogli
tutti gli aiuti possibili e indispensabili.

Lo orientò forse un po' nei primordi di quel nuovo

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genere di vita, fino a dargliene l'iniziazione ufficiale rivestendolo dell'abito


monastico.

La tradizione sublacense ha conservato la memoria del luogo dove avvenne il


fatto, e lo ha consacrato erigendovi un oratorio detto di Santa Crocella dove,
ancor oggi, viene imposto l'abito religioso ai novizi del monastero di Santa
Scolastica, a ricordare appunto l'imposizione della melote 1 al santo Padre
avvenuta in quel luogo.

Ci è lecito pensare che, compiuta questa vestizione dalla quale Benedetto


veniva consacrato monaco, sia stato ancora Romano, ben esperto dei luoghi, a
suggerirgli l'impenetrabile rifugio dove nessuno, girovagando per la
montagna, si sarebbe certo inerpicato, né avrebbe potuto scoprirlo.

Solo con un difficile cammino si giungeva sotto la roccia sulla quale era
costruito il monastero dell'Abate Deodato; lì, nel fianco della montagna che
sotto di essa scendeva a picco, si addentrava una grotta, aperta sulle
profondità del cielo, verso l'alto, mentre di faccia l'orizzonte era chiuso da
monti cupi che limitavano il paesaggio, e a basso, nella valle, solo il
gorgogliare dell'Aniene imprimeva al luogo una vigorosa pulsazione di vita.
Raggiungendo quella grotta, Benedetto poteva sentirsi in verità ormai isolato,
segregato dal mondo, nella attuazione piena di quella vita nascosta con Cristo
in Dio che a lui appariva l'esigenza suprema del suo spirito.

Neanche Romano, dal suo monastero, che dall'alto sembrava vegliare a


protezione, avrebbe potuto giungere facilmente fino a lui, ma non per questo
il buon monaco rinunziò a continuare, in qualche modo, la sua missione di
ministro della Provvidenza; sottraendo quanto poteva alla sua refezione, che
possiamo pensare non troppo abbondante, in determinati giorni assunse
l'impegno di far arrivare un po’ di pane a quel suo

________________________

1 Specie di vestito fatto di pelli d'agnello o di altro animale, usato dagli antichi
eremiti.

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figliuolo che laggiù, nella spelonca, si consumava nel digiuno austerissimo.

Fargli giungere quel pane era un'impresa tutt'altro che facile; intanto
bisognava spiare il momento opportuno per sfuggire allo sguardo vigile
dell'abate Deodato e alla curiosità dei fratelli, poi, come arrivare a quel nido
d'aquila al quale dal monastero nessun sentiero poteva condurre? Ma la carità
è ingegnosa, e ben presto Romano ebbe tutto organizzato: nei giorni stabiliti,
sporgendosi sulla roccia che sovrastava la grotta, lasciava scivolar giù una
lunghissima fune alla quale era sospeso il cestello della refezione e un
campanello destinato ad avvertire l'eremita che il suo povero cibo era
arrivato.

Il demonio ne fu infastidito; l'assiduità del monaco scompigliava i suoi piani,


e la sua silenziosa presenza, togliendo qualche cosa all'orrore della solitudine,
era per Benedetto un conforto che gli impediva di cadere nella disperazione,
come avrebbe desiderato il nemico d'ogni bene. E un giorno avvenne che una
pietra, lanciata con mira sicura da una mano invisibile, spezzò il campanello
in modo che non se ne udì più la voce discreta all'orlo della grotta; cosa che,
naturalmente, non impedì a Romano di continuare nel suo ministero di
carità, né a Benedetto di ricevere ancora quel pane provvidenziale.

A Subiaco, nel santuario del Sacro Speco, si mostra anche oggi, conforme a
una pia tradizione, il prezioso campanello infranto dal diavolo.
Per tre anni interi, nel suo antro scuro, o tra le macchie che inselvatichivano lì
intorno, Benedetto vide i giorni succedersi ai giorni, nel solleone estivo o nei
gelidi inverni che assideravano la terra, senza che mai nessun contatto umano
venisse a rompere la sua solitudine.

Eppure non furono tre anni di abbrutimento o di deplorevole inerzia morale:


li dobbiamo anzi pensare come gli anni più intimamente fecondi di tutta la
sua vita,

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quelli nei quali fermentava nell'anima, travagliata dalla grazia, il lievito di un


rinnovamento interiore che avrebbe un giorno investito il mondo.

Lui non sapeva. Che importa, del resto, all'uomo, scoprire in antecedenza i
disegni di Dio? Ciò che vale è lasciarsi forgiare dallo Spirito, in generosità di
fede, con la duttilità dell'amore che vince ogni resistenza della natura.

Benché non abbiamo che scarsissime notizie, per non dire quasi nulla, su
questo periodo della sua vita, pure non è difficile pensare come l'eremita
ventenne, nascosto «nel cavo della roccia» abbia vissuto quei tre anni;
segregandosi nello speco egli sapeva bene quale vasto programma si
proponesse di attuare.

La vita monastica non ancora regolata da una legge, nelle sue forme esterne,
aveva però, quanto a contenuto spirituale, i suoi canoni ben definiti, dei quali
una mirabile fioritura di anime sante offrivano, per dir così, un'attuazione
pratica di tale generosità da rasentare spesso l'eroismo; essa impegnava a un
lavoro tremendamente serio e che non ammetteva soste di facili riposi per lo
spirito.

Bisognava risarcire le ferite aperte nell'anima dal peccato originale:


sensualità, amore eccessivo dei beni terreni, orgoglio; stabilire un robusto
dominio sulle passioni, mediante l'atto volontario illuminato e diretto
dall'intelletto; addestrarsi nella lotta contro lo spirito del male per giungere a
smascherarne le insidie e a vincerle; divincolarsi dal mondo rifacendosi,
attraverso il contatto diretto con la Verità, una coscienza cristiana schietta,
senza imposture e senza incoerenze.

E tutto questo già complesso lavoro interiore non era ancora se non l'aspetto
negativo, condizione preliminare che doveva permettere al monaco di elevarsi
fino a quello stato di «ininterrotta orazione» che nel nostro linguaggio
moderno chiameremmo lo «stato d'unione», con le sue intraducibili
esperienze di Dio presente e operante in noi.

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Anche i mezzi per l'attuazione di questo ideale erano ormai tradizionali, e si


potevano ridurre alla meditazione assidua dei libri santi, alla mortificazione
che abbracciava tutti gli esercizi dell'ascesi, alla preghiera.

Tale la poderosa visione di santità che, dopo aver conquistato in Oriente


reclute innumerevoli, da più di un secolo sant'Atanasio aveva portato a Roma,
dove ne erano rimaste affascinate le anime migliori che, gareggiando nei loro
palazzi in austerità con gli asceti della Tebaide, o cedendo al richiamo del
deserto, avevano divulgato per tutto l'Occidente l'ideale monastico,
espressione suprema della carità, così come nei secoli precedenti ne era stata
sublime espressione la testimonianza del martirio.

In questa corrente di vita spirituale, Benedetto entrava deciso; non tentava vie
nuove, voleva solo farsi discepolo di una tradizione che aveva avuto una
mirabile fioritura di santità.

Sciolto da ogni preoccupazione terrena, nello speco solitario aperto verso il


cielo e l'anima spalancata ad accogliere la luce divina, poteva spingere lo
sguardo sino al fondo della sua coscienza, lasciare che ne fossero
spietatamente illuminate le oscurità, scoperto il pullulare incomposto di
desiderii, di sentimenti, di tutte le tendenze diverse che turbano o
disorientano, tutto quel complesso umiliante che san Tommaso, con
un'espressione comprensiva, ha chiamato il «fomite del peccato» e che
raggiunge in certe ore violenza di bufera, capace di squassare e di sconvolgere
l'anima.

Al riparo dal cozzo di interessi divergenti, ogni elemento di vita interiore,


visto in una luce più alta, riacquistava il suo valore vero, riassumendo
funzione di mezzo in ordine al fine che solo dà un senso e una dignità alla vita
stessa dell'uomo. Nella meditazione pacata della Sacra Scrittura, fatta in
umiltà di creatura cosciente di acquistare la sapienza solo nella misura in cui
giungerà ad assimilare la parola del Signore e a fame forma del suo pensiero,
fasci di luce divina si

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proiettavano sulla vita intima del giovane anacoreta, che acquistava occhi
illuminati per giudicare con ogni verità le cose del mondo, quelle che
appaiono realtà e non sono che miraggi vani.

Ma soprattutto la sua anima si impregnava di preghiera nel colloquio assiduo.


con Dio, l'Unico presente in quella solitudine che permetteva di percepirne la
voce nella profondità dello spirito; nella natura stessa, espressione plastica e
magnifica della sua potenza creatrice; nell'irresistibile attrazione verso di Lui,
che mentre misteriosamente la saziava, sembrava comunicarle nuove,
inesauribili capacità di possesso e di godimento.

Il tempo stesso non aveva più valore per Benedetto all'infuori che quello di un
necessario, normale succedersi di fenomeni: ora egli era ancorato all'Eterno,
alla luce senza vicissitudini d'ombra, al Signore per il quale i cieli stellati sono
un magnifico manto e le tempeste paurose annunzio di potenza e di maestà.

Nella contemplazione ardente della natura i Salmi ripetevano il grido


ammirato e sempre nuovo dello spirito in cammino verso l'infinito, verso
sempre nuove esperienze di conoscenza e di amore.

Sarebbe però molto ingenuo pensare a una vita di estasi, quasi


un'anticipazione di Paradiso; se è condizione imprescindibile della nostra
esistenza terrena la prova, tanto più dobbiamo ammetterla necessaria in un
programma ascetico come quello che Benedetto aveva fatto suo, e che non si
attua senza lotte violente e lo sforzo eroico della volontà.

Anche a voler prescindere da qualunque altra considerazione, è sufficiente a


darcene una prova la testimonianza stessa della Regola e la posizione da essa
assunta nei confronti della vita eremitica: il Santo, che nello scriverla era
ormai giunto al termine della sua missione, vi raccoglie il frutto di una dura
esperienza vissuta, e ripensando agli anni dello speco non ne dissimula le
lotte e i pericoli, a tal punto che, pur riconoscendo l’alto valore dell'eremo, lo
vuole precluso ai principianti, e

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lo ammette solo per coloro che, già esperti nell'arte spirituale e ben radicati
nella virtù, siano in grado, dopo il tirocinio cenobitico, di affrontare le ben più
temibili prove della solitudine.

Se infatti l'isolamento assoluto sotto un certo aspetto libera da molti pericoli e


favorisce l'attenzione dell'anima a Dio, d'altra parte, per gli uomini deboli o
non ancora temprati alle lotte dello spirito, rappresenta un terreno quanto
mai propizio agli stati d'animo più insidiosi.

Niente può uguagliare, quanto a efficacia deprimente, la noia di una vita


sempre uguale, mai interrotta da un elemento di novità capace di destare
interesse, l'apparente sterilità di un'esistenza nella quale fremono energie
rigogliose che chiedono impetuosamente di espandersi e sono invece
mantenute costrette nel più austero regime di mortificazione, i ricordi che,
nella solitudine, affiorano più insinuanti e vivaci, la fantasia che si agita
irrequieta, le tentazioni violente, e, su tutto questo, più amara di ogni altra
prova, quella dei lunghi silenzi di Dio nelle notti dell'anima nelle quali tutto
sembra perduto.

A tutto ciò aggiungiamo che tanto più elevato è il grado di perfezione al quale
la creatura aspira, e tanto più intenso e profondo in corrispondenza, è il
lavoro di purificazione al quale deve essere sottoposta.

Dio stesso non cessa di martellarla con inesorabile misericordia, fino a che
non l'abbia temprata, forte come l'acciaio, strumento atto a opere grandi;
lascia perciò che acquisti la umiliante esperienza degli istinti meno nobili che
porta in sé, permette che la tentazione, sotto le forme più insinuanti, eserciti
su di essa il suo potere di suggestione, la getta in fondo al crogiuolo dei
contrasti violenti, e, pur sorreggendola con una grazia adeguata, non attenua
sensibilmente l'asprezza della lotta dalla quale l'anima uscirà più ricca di
virtù, più cosciente delle proprie possibilità di male e del valore dell'aiuto
divino.

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A Benedetto non fu risparmiato l'aspro tirocinio, e un giorno fu tale la


veemenza dell'assalto che sembrò per un istante travolgerlo. Era solo nella
grotta che doveva sembrargli più scura e più gelida del solito; forse
attraversava una di quelle ore di stanchezza nelle quali l'anima avverte
bisogni indefiniti, e la massa dei ricordi che salgono dal passato la sfiorano
con un nuovo sapore di dolcezza, mentre il cuore sente più intenso il bisogno
dell'affetto, di essere accarezzato dalla gioia di un amore umano.

Quel giorno la lettura dei libri santi gli era insipida, la preghiera gli appariva
quasi un arido meccanismo di frasi senz'animo, la volontà intorpidita
sembrava avesse attutito ogni slancio, addormentata da un leggero
fantasticare appena abbozzato, simile a uno stordimento vago; intorno al viso
gli svolazzava insistente un piccolo merlo, tanto basso che, senza alcuno
sforzo, avrebbe potuto prenderlo con la mano.

L'ondata delle memorie, satura di dolcezza, saliva dal passato, e, strappandolo


all'orrore di quella natura selvaggia, lo riconduceva nella sua casa, tra persone
amate, gli ripeteva le parole tante volte udite, lo invadeva lentamente senza
che egli quasi se ne rendesse conto; la roccia brulla e sterile, quella montagna
solitaria sulla quale da anni non giungeva alcuna voce umana, lo speco
profondo che gli offriva riparo dalle intemperie, avevano a mano a mano
perduto i loro contorni, e davanti alla fantasia dell'eremita, sonora di voci,
tutta luminosa di colori, era la casa, la compagnia degli amici, Roma, vibrante
di una vita multiforme e piena di incanti.

L'uccelletto nero continuava a svolazzare sempre più vicino, quasi a sbattergli


le ali sul viso, così insistente e fastidioso che Benedetto ne fu scosso dal suo
fantasticare; dove era andato, lasciandosi trascinare dai sogni? Senti che quel
merlo gli dava noia, gli metteva addosso un certo disagio; era irrequieto per
qualche cosa

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che sembrava gli si fosse insinuata nell'anima, dandogli un turbamento


inesplicabile.

Tracciò allora con fede viva un segno di croce, l'arma sicura per dissipare
l'insidia del nemico, e, istantaneamente, l'uccello importuno sparì; solo allora
Benedetto si rese ben conto di quel suo strano, insolito stato spirituale, e
comprendendo che era ingaggiata la lotta col tentatore, cercò di riprendere il
dominio di sé, di spezzare la rete di dolcezza nella quale i suoi ricordi lo
avevano avviluppato, ma d'improvviso questa lo riprese, stringendolo con
violenza ancora maggiore, in modo che non gli riuscì di districarsene.

Da un passato che sembrava morto per sempre, risorgeva il piccolo mondo di


persone care, e fra tutte, insistente, il viso femminile di una creatura che un
giorno aveva trattenuto il suo sguardo e per la quale erano fioriti nel suo
cuore i primi sogni casti di un amore umano: ma poi la fiamma dello Spirito
aveva consumato quel sogno, e l'amore di Dio, assoluto, aveva imposto il
sacrificio di ogni dolcezza terrena.

Ora quella donna, affiorando dal passato gli stava davanti in tutta la
seduzione di una bellezza che appariva al giovane penitente logorato dai
digiuni ricca di un fascino irresistibile per il quale fremiti di passione lo
scotevano tutto, mentre tutta la sua esistenza gli appariva con un volto nuovo.

Per quale strana suggestione aveva rinunziato alla vita, alla lecita
soddisfazione di una famiglia sua, alle sane e sante gioie della casa, per
condannarsi a vivere giorni miserabili in quella tana oscura, segregato dal
consorzio umano, morto a ogni attività buona, mentre nelle sue vene sentiva
bollire rigogliosa la giovinezza?

L'ideale per il quale aveva desiderato di nascondersi nell'eremo gli appariva


ora, in un istante, come un'aberrazione inumana della quale si sentì pieno di
disgusto, inorridito: continuare ad avvilire così le sue energie, a mortificare
l'amore era un assurdo inammissibile.

Il gigantesco duello raggiungeva la sua fase

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culminante; la vittoria sarebbe dunque stata del maligno?

Nello scatenamento di quella bufera di passione, fra le tenebre dello spirito


sconvolto, Dio ebbe pietà del suo servo e proiettò sulla sua anima un raggio di
quella luce che restituisce al nostro occhio la capacità di tornare a vedere le
cose nella verità. Bastò un attimo. Benedetto intuì istantaneamente l'abisso
nel quale stava per cadere, vittima dell'insidia diabolica dalla quale non si era
saputo difendere, e, riacquistato l'equilibrio della volontà, siccome la
tempesta della carne non accennava a calmarsi, ebbe uno di quegli impulsi
sublimi che fanno, in un attimo, d'un uomo un eroe.

Proprio sotto la grotta, su un piccolo spiazzo della roccia, un roveto spinoso


intrecciava i suoi rami, impenetrabile. In pochi passi lo raggiunse, e spogliato
si della rozza melote, si gettò nudo, arditamente, nel folto di quel viluppo di
spine e di ortiche. Il dominio vigoroso della volontà sulle altre facoltà
inferiori, frutto di quegli anni di ascesi e di preghiera, riprendeva il
sopravvento. Nella piena consapevolezza del tormento che imponeva al suo
corpo, Benedetto si voltò e rivoltò lentamente, a lungo, su quel groviglio
spinoso, lasciando che la sua carne ne fosse martoriata. Quando, macchiato di
sangue, spasimando di dolore si decise a uscirne, la sofferenza acuta aveva
ormai vinto la lusinga della tentazione: il disordine momentaneo era stato
duramente espiato, la sfida diabolica trionfalmente vinta. Mai più nella sua
vita, per dono di Dio, sarebbe stato sfiorato da alcuna tentazione dei sensi.
Sette secoli più tardi Francesco d'Assisi si fermerà pensoso davanti al
cespuglio pieno ancora di selvaggia vitalità, e, con sentimento gentile, vorrà
innestare sui rovi le rose che anche oggi fioriscono su quel ritaglio di roccia;
ma le foglie, a guardarle bene, mostrano nel centro una ondulata macchia
ferrigna che ricorda la figura di un serpente, e la pietà dei fedeli vi scopre il
prodigioso ricordo dell'eroica vittoria dello spirito di Benedetto sulla carne
tentata.

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IV. ESPERIENZE

Erano passati tre anni, vissuti così, nella più perfetta solitudine; a noi
appaiono lunghi. Per Benedetto rappresentavano semplicemente un tempo,
appena scandito dai giorni e dai mesi, della vigilia d'attesa nella quale aveva
raccolto tutta la sua esistenza preparandosi all'incontro col Signore, quando
questi avesse voluto svelarsi a lui, che si nutriva di meditazione e di desiderio,
fino a che l'anima sua non fosse saziata, finalmente, nel gaudio della visione.

La vigilia poteva anche essere lunga; solo il sorgere del giorno dell'eternità ne
avrebbe segnato il termine.

Intanto era bello vivere sul margine estremo delle possibilità umane di
donazione senza altri limiti all'amore che quelli segnati dalla natura stessa,
lavorata come da fiamma viva, dal bisogno di piegare la carne alle esigenze
dello spirito, vincendone la pesantezza e l'opacità.

Rasentare, mentre ancora l'anima è trattenuta da un corpo mortale, la vita


stessa degli spiriti angelici, in una attività perfetta d'amore e di conoscenza,
era già stato l'ideale consacrato dalla tradizione dei padri del deserto, ed era
tale, in sé, da appagare le aspirazioni più ardite dell'eremita del Taleo.

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Non furono questi i disegni di Dio.

Dopo la lunga e austera disciplina di robusta formazione interiore alla quale


lo aveva spinto nello speco solitario, voleva ora restituirlo alla società da lui
abbandonata, perché vi fosse segno di quel che possa un'anima che crede alla
parola divina e si lascia lavorare dalla grazia, senza mai sfuggire a nessuna
delle sue operazioni.
Questa grazia, penetrando una volontà buona e un cuore puro, vi aveva acceso
una fiaccola capace di illuminare le schiere senza numero delle creature
disorientate nelle vie buie del mondo, degli stessi fratelli che, tormentati dalla
nostalgia della santità, andavano a tastoni, e spesso, smarrito il cammino,
desistevano dalla impresa di ritentare l'ascesa al monte arduo della
perfezione.

Benedetto aveva voluto essere «Vir Dei» (l'uomo di Dio), che vive unicamente
per Lui, e se ne lascia possedere in maniera assoluta, con esclusione di ogni
altra creatura, e Dio, quando vedrà giunto a maturazione questo processo di
distacco dal creato attraverso la fede, la speranza, l'amore, e sentirà che
questa vita giovanile gli appartiene totalmente, ne farà il «Vir Dei» nel senso
dell'uomo del quale Egli può liberamente disporre, adoperandolo come
strumento docilissimo ad opere grandi.

Benedetto aveva allora circa ventitré anni, una matura giovinezza


sovrabbondante di energie fisiche e spirituali.

Dei giorni che passano aveva perduto il computo: che valore avrebbe avuto il
contare i giorni della terra che nascono e muoiono, quando l'anima era
divorata dalla sete ardente di entrare nel regno ove «è pienezza di felicità il
possedere ciò che si ama» e dove «la vita beata si beve alla sua stessa
sorgente»?

Così quell'anno poté avvenire che, nonostante il trionfo della primavera e la


festa delle rondini nel cielo, l'eremita non si accorgesse che era giunta la
Pasqua. Intervenne

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però il Signore determinando, con un avvenimento impensato, una svolta


decisiva nella sua vita.

Assai lontano dalla grotta di Benedetto, forse a Monte Preclaro, se vogliamo


credere alla tradizione, il prete che officiava la chiesa, dopo la lunga veglia
notturna godeva in casa sua della pace festosa di quella mattina di Pasqua,
nella quale anche la mensa, meno sobria del solito, doveva esprimere la gioia
cantata nella sinassi pasquale e ripetuta senza fine dagli alleluia della liturgia.

Il buon prete non aveva però preveduto quel che di fatto gli accadde, né mai
forse avrebbe osato sperare la sorte di essere favorito con una visione
soprannaturale; certo è che il Signore volle manifestarsi proprio a lui, e gli
fece udire delle parole quasi severe:

«Tu qui ti preparavi a godere un buon pranzo, e il mio servo in quel luogo è
tormentato dalla fame».

Addio, sereno pranzo pasquale, e atteso riposo dopo le fatiche della notte! Alla
voce di Dio non si può resistere, essa si impone all'anima e la stimola,
implacabile.

D'altra parte il prete di Monte Preclaro era un buon servo del Signore, dal
cuore d'oro, e l'idea del solitario perduto tra le gole dei monti, che pativa la
fame mentre la sua tavola tra breve avrebbe avuto i suoi doni, era tale da
guastargli la gioia della Pasqua.

Perciò, con grande meraviglia dei contadini dei dintorni che non riuscivano a
spiegarsi la cosa, radunato entro un paniere il suo pranzo che sarebbe
comodamente bastato per due persone, proprio verso l'ora in cui tutti stavano
per sedersi a tavola, prese la via della montagna, inerpicandosi tra le rocce,
per sentieri impraticabili, scendendo sino in fondo alla valle per risalire
faticosamente sull'altro versante, nella direzione del luogo che gli era stato
indicato, sempre spiando se per caso tra gli alberi o dietro qualche cespuglio
non gli fosse dato scoprire l'eremita tanto caro a Dio.

Giunse finalmente, stanco morto, ansante, trascinando

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il peso del suo paniere, alla spelonca dove da anni nessun uomo era penetrato
a interrompere la solitudine di Benedetto, e questi senza dubbio fu molto
stupito di vedersi raggiunto nel suo nido d'aquila dallo sconosciuto che
affermava esplicitamente di aver fatto tanto cammino per venire sino a lui.

Ma, forse, un dubbio gli sfiorò l'anima: se fosse ancora un'illusione del
maligno, una nuova insidia per indurlo in tentazione?

Ormai esperto nella dottrina dei Padri, sulla quale era venuto modellando la
sua vita, invitò lo sconosciuto visitatore a una breve preghiera in comune che
avrebbe dissipato ogni suggestione diabolica, se ce ne fosse stato bisogno; ma
no, ecco che sentiva il suo cuore dilatarsi e una gioia nuova invaderlo tutto, e
avvolgere in un senso di dolcissima carità quel fratello che veniva a lui, in
nome di Dio.
Chi era? Chi gli aveva insegnato la via dello speco? Sedettero insieme sui
massi della roccia, sotto il sole mai così luminoso, e le domande si
incrociarono, spontanee, sino a che il prete di Monte Preclaro non ebbe
raccontato per filo e per segno la sua avventura di quella mattina, e come lui,
proprio lui, era stato prescelto per quella missione.

Ma come era possibile per un uomo vivere lassù? E come passava il tempo in
quella solitudine?

A Benedetto sembrava di sognare, nel poter effondere in un'altra anima la


traboccante pienezza dell'anima sua e godeva per quello scambio di
sentimenti, nel sentire una creatura umana vibrare con lui benedicendo il
Signore, partecipare con comprensione ammirata a quella ricchezza di vita
che gli colmava lo spirito, accogliere i suoi entusiasmi santi, le esperienze più
buone.

Il sole lentamente piegava sull'orizzonte, e il paniere era sempre lì, ma il prete


cominciava a sentire gli effetti della stanchezza della notte, del lungo
cammino, del

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digiuno troppo prolungato, e pensò bene richiamare alla pur necessaria prosa
della vita il suo interlocutore.

- Levati, mangiamo, oggi è Pasqua. - Benedetto era però molto lontano dal
poter dare un valore reale a tali parole, e, dominato dalla gioia di
quell'incontro fraterno, inatteso dono di Dio, accolto con riconoscenza
nell'asprezza della durissima rinunzia dei tre anni di inesorabile segregazione
da ogni sia pur santo contatto umano, parve non aver nemmeno sentito la
prima parte della frase, per sottolineare con amabilità le ultime parole:

«Certo, è Pasqua, oggi, perché ho meritato di veder te».

Questa volta però il prete era deciso a mantenere a tutti i costi la


conversazione su un terreno molto pratico; in fondo, poi, il Signore lo aveva
mandato proprio con la missione di far ristorare l'eremita così astratto dalle
cose della terra da non aver neanche raccolto nel cielo, per tutta quella
mattina, il tripudio delle rondini che sembravano annunziare l'alleluja.

Insistette dunque con tono convincente:


- Dico per davvero, oggi è la solennità pasquale della resurrezione del Signore.
Sarebbe cosa affatto inopportuna che tu digiunassi, poiché io sono stato
mandato a te precisamente perché prendiamo insieme i doni di Dio
onnipotente.

Benedetto era giunto troppo in alto, e viveva troppo vicino a Dio per
trincerarsi nei rigidi schemi di una inviolabile norma di ascetismo e farsene
giustificazione a un ostinato rifiuto; partecipò dunque con semplicità,
benedicendo il Signore, al pranzo del suo cordiale visitatore, e insieme
continuarono a parlare delle misericordie del Padre che sta nei cieli e veglia
con infinito amore su ognuna delle sue creature, e insieme della felicità di
vivere per Lui, amato sopra ogni cosa.

Era sera quando i parrocchiani di Monte Preclaro videro tornare il loro prete
col suo paniere diventato ormai più leggero; appariva assorto, come per un

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pensiero che lo dominasse tutto, e certo non ci volle gran fatica a farlo parlare,
e a strappargli il segreto della sua gita pasquale, e dell'esistenza del santo
eremita.

Sia per questo, sia che per puro caso venisse scoperto il sentiero della grotta,
rimane il fatto che da quel giorno in poi fu finita la solitudine di Benedetto. Di
lì a poco infatti alcuni pastori che girovagavano per la montagna credettero di
scorgere tra le macchie una grossa bestia che si moveva; desiderosi di
impossessarsene si accostarono con precauzione ed ebbero così la sorpresa di
trovarsi faccia a faccia con l'eremita che rivestito della melote di pelle caprina
li accolse con affabile familiarità.

Dopo quel primo incontro, attratti forse dalla curiosità o dal desiderio di
rompere le interminabili ore di solitudine, i pastori tornarono, finirono col
diventargli amici, ad aver bisogno dei colloqui col solitario, col quale si
trattenevano a lungo, spesso riparati da una grotta appena al disotto di quella
abitata da lui, mentre il gregge si sparpagliava tranquillo tra i cespugli.

Benedetto non li respinse; lasciò che venissero, ne ascoltò i discorsi, si


interessò alla loro vita, rimettendosi così, attraverso quegli umili, a contatto
con la società che vedeva ora da un superiore piano di luce dove la sua anima
si era stabilita e nel quale le innumerevoli miserie degli uomini non lo
stupivano, né lo disorientavano più.
Rimaneva intatta la sua fondamentale vocazione di vivere unicamente per
Dio, separato dall'intrigo delle passioni del mondo, difeso dalla solitudine, ma
non in maniera così esclusiva da rifiutare ogni contatto con i fratelli, figli dello
stesso Padre, che brancolavano nel buio; avevano il cuore ispessito dalla
consuetudine con la materia, grossolano per una animalità di vita che
sembrava impenetrabile alla luce dello spirito, ma erano pur essi anime create
per un destino di gloria.

In quei colloqui che divenivano sempre più frequenti,

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con parola semplice l'eremita parlò loro di Dio, dei doveri che ogni creatura
ha verso il suo Signore, della dolcezza che si prova nell'obbedire alla sua santa
legge, nel rivolgersi a Lui come un figliuolo al padre. Fece intravedere lo
splendore di quell'altra vita, alla quale questa non è che una preparazione, e
dove non ci sarà più ingiustizia, né violenza, né pianto, se qui avremo
consentito a vivere amandoci, perdonando, facendo il bene per amore di quel
Gesù che, proprio per aprirci le porte del Paradiso, è morto per noi sulla
croce.

I pastori ascoltavano con rispetto, quasi con ammirazione, il sant'uomo che


parlava, poi nel loro lungo camminare solitario sotto il cielo ripensavano alle
parole udite, e sentivano come una fibra nuova vibrare, intenerirsi, nella
ruvidezza consueta del cuore, e sentimenti mai provati affiorare nell'anima,
trasformarla, darle fiducia e gioia nel rivolgersi a Dio con la preghiera, nel
trattare con bontà gli uomini.

Gente rozza, dall'anima incolta come gli spettinati cespugli spinosi del Taleo,
ma fondamentalmente buona, si raccontavano nei loro incontri le
conversazioni avute con l'eremita della grotta, le commentavano, spingendo
anche gli altri ad arrampicarsi fino allo speco, divulgando per tutta la
campagna la fama di quell'uomo di Dio, al quale dicevano poi la loro
gratitudine con i rustici doni delle cose da essi giudicate più elementari alla
vita.

Non era più necessario, ora, che Romano, su dall'eremo di Deodato, dividesse
ancora il pane del suo digiuno; la sua missione di carità era finita, mentre
cominciava per Benedetto una missione nuova di carità spirituale verso le
anime - ed erano tante - che inerpicandosi fino alla grotta per essere da lui
sollevate nei loro bisogni spirituali, ne ripartivano ristorate nello spirito da
una parola capace, una volta che si fosse udita, di mutare i lineamenti delle
più spinose realtà quotidiane.

Appena tre anni avanti, Benedetto, nel primo fervore della sua conversione,
era rimasto sgomento dell'entusiasmo

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popolare suscitato ad Affile dal miracolo del vaglio da lui compiuto; ora
questo pellegrinaggio di anime non lo sgomenta più, sembra esservi disposto
con tutta naturalezza.

In questi tre anni la sua anima ha acquistato un vigore nuovo, ed egli ha


soprattutto raggiunto la consapevolezza piena della sua miseria e della
potenza della grazia: la lunga abitudine di fissare l'occhio in Dio, di dipendere
da Lui, l'assimilazione profonda dei libri santi, della dottrina ascetica dei
Padri del deserto, hanno elevato la sua vita interiore fino a quel grado nel
quale è possibile effondersi senza depauperarsi.

La grotta rimane rifugio di gioia dello spirito che si abbandona all'intimità


cuore a cuore col suo Signore: il contatto con le anime sarà espansione di
carità spontanea quasi necessaria, come la luce che illumina senza per questo
esaurirsi, ma la sua vita vera, la più profonda, la più intima, è quella della sua
attuale, totalitaria donazione a Dio, per la quale ogni forma di servizio
compiuto in spirito di adorazione segna un arricchimento di vita spirituale.

L'ascesi austerissima, alla quale aveva condannato il suo corpo in quegli anni,
aveva avuto il valore di mezzo, non di fine, e questo valore conservava intatto
nella sua essenza di mortificazione e di rinunzia: rinunzia alla solitudine
totale ora che era per lui tanto dolce, come al conforto delle relazioni più care
prima, quando era necessario sradicare dal cuore il fascino dei rapporti con le
creature per imparare a conoscere il sapore della parola intima del Creatore.

Dappertutto ormai, tra quelle montagne, nei paesi, tra i crocchi dei contadini
che sostavano un poco dal lavoro, si parlava dell'eremita Benedetto, e la sua
fama si spinse fino al lembo più basso dei Simbruini, dove si riposano in
morbide collinette, giù verso Tivoli.

C'era laggiù, sulla riva destra dell'Aniene, presso il Vicum Varronis (l'odierna
Vicovaro), un monastero,

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uno come i tanti di cui era allora ricca la regione, ma più degli altri
disordinato e decaduto nella stima popolare per la fama della vita poco
esemplare che vi conducevano i monaci. Non si sa se questi si fossero
preoccupati di questa disistima per le conseguenze materiali che ne potevano
derivare, o per un vago residuo di volontà buona rimasto a sopravvivere in
fondo al loro povero cuore.

Credettero in ogni modo di aver avuto una buona idea quando, morto il loro
abate, pensarono di mettere a capo del monastero l'eremita del Taleo che tutti
reputavano un santo, e dal quale da vicino e da lontano si accorreva per
ammaestramento e consiglio; senza dubbio con un tale abate ben presto
sarebbero state dimenticate le deficienze dei monaci e con la buona fama essi
avrebbero riacquistato le non meno ambite elemosine dei fedeli, cosa che
aveva pure, per loro, il suo valore.

Non ci deve far meraviglia una simile mentalità; la vita monastica non era
stata ancora disciplinata da un codice di leggi ben definito, ma in ogni
monastero l'attuazione dei principii tradizionali ai quali essa avrebbe dovuto
informarsi erano lasciati alla discrezione dell'abate e alla buona volontà dei
religiosi. Questi, dedicandosi al servizio di Dio, non sempre trovavano quei
sussidi spirituali indispensabili a dar loro una formazione rispondente
all'altezza dell'ideale al quale aspiravano, e, non temprati alla lotta contro se
stessi, contro il mondo, e contro il demonio, finivano con lo scivolare in una
miserabile esistenza, alla quale di veramente religioso rimaneva spesso poco
più dell'abito.

Senza aver avuto ancora con essi un contatto intimo, Benedetto aveva certo
saputo, già prima di ritirarsi nella solitudine, di questi disgraziati che
disonoravano la santità dello stato monastico facendosene facile pretesto a
giustificazione di una vita al disotto della mediocrità, e che, orgogliosi e
turbolenti, creavano non di rado lamentevoli disordini nella Chiesa.

Quelli di Vicovaro, poi, li conosceva bene, tanto la

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fama della loro vita rilassata era di scandalo ai fedeli che avevano portato fino
a lui, più di una volta, l'eco del loro malumore e di una indignazione anche
troppo ben giustificata.
Perciò un giorno fu grande il suo stupore nel vedere inerpicarsi su per la
costa, faticosamente, non i suoi soliti fedelissimi clienti dell'umile gente dei
dintorni, ma un gruppo di monaci che venivano decisamente incontro a lui.

Doveva fare uno strano contrasto l'eremita emaciato, dallo sguardo profondo
e tranquillo, nella nudità della spelonca, appena protetto da una tunica di
pelli, di fronte a quegli uomini che non davano l'impressione di detestare poi
troppo le comodità della vita.

Eppure venivano per chiedergli una cosa appena credibile: che abbandonasse
quella sua vita solitaria, e mettesse a frutto i doni di Dio, scendendo nel loro
monastero, a Vicovaro, e accettando di divenire il loro abate. Lo avevano
scelto unanimi come padre e maestro, e a bella posta erano venuti fin lassù,
per ricondurlo, non più orfani, alla casa di Dio che, sotto la sua direzione,
avrebbe avuto un nuovo fiorire di vita.

A quella proposta così inaspettata, Benedetto oppose, senza esitare, un rifiuto


netto. Per niente al mondo si sarebbe allontanato dalla via tracciata dal
Signore alla sua anima, dalla sua solitudine cercata e custodita con amore
geloso. Tornassero indietro, cercassero persona più adatta al compito
gravoso, lui no, non sarebbe venuto.

Ma quelli insistevano, decisi a non cedere, combattendo e rovesciando una


per una le ragioni opposte dall'eremita a giustificare il suo rifiuto.

Mentre parlavano con tanto calore, Benedetto li esaminava, con quel suo
occhio penetrante che sembrava leggere in fondo ai cuori, poi, gravemente,
con una certa tristezza, tentò ancora di convincerli che, quando anche si fosse
deciso a cedere non li avrebbe certo accontentati; la convivenza sarebbe stata
fonte di reciproco

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motivo di sofferenza, poiché i suoi criteri di vita monastica troppo differivano


da quelli ai quali fino allora erano state ispirate tutte le loro azioni.

Parlava con tanta convinzione che, c'era da sperare, si sarebbero finalmente


persuasi. Nient'affatto.

Le insistenze ricominciarono più incalzanti che mai. A sentir loro, questa era
proprio la ragione principale di quella scelta, un desiderio sincero di cambiar
vita, di tendere seriamente alla perfezione, facendo un taglio col passato, e
assumendo, sotto una guida esperta, nuove abitudini più conformi alla
professione che il loro abito indicava al mondo.

Quel desiderio buono avrebbe dunque dovuto naufragare, ed essi avrebbero


dovuto languire e forse perdersi scivolando dalla mediocrità ancora più giù,
nel male, perché colui che avevano scelto per abate non consentiva a tender
loro la mano per guidarli e sorreggerli sulla via che conduce a Dio?

Così posto il problema, Benedetto non ebbe più possibilità di resistenza.


Erano anime che chiedevano la carità della luce, affamati in cerca del pane
della vita; sotto quelle apparenze di mondanità poteva ancora esserci una
scintilla di amore sincero custodita dalla misericordia del Signore.

Non sarebbe stato lui a spegnere il lucignolo ancora fumigante, a spezzare la


canna già fessa, e superando il disagio indefinibile che gli veniva da qualche
cosa di insincero che gli sembrava di cogliere nello sguardo, nel tono della
voce pure così supplichevole di quegli uomini, finì con l'accettare.

Nessuno dà prova di carità maggiore di colui che dà la vita per gli amici. Per
quei suoi figli, per quelle anime che chiedevano di essere accolte e guidate
verso Dio, Benedetto sacrificava qualche cosa che gli era più caro della vita
stessa; servo buono e fedele, non cercava la sua felicità, ma unicamente la
gloria del suo Signore e il bene dei fratelli. Lasciò lo speco e scese a Vicovaro.

Il monastero, dedicato a San Cosimato, era formato

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da molte grotte vicine, scavate nel tufo, alcune delle quali servivano di celle ai
monaci, mentre altre, di maggiori dimensioni, erano capaci di accogliere tutta
la comunità, e venivano adibite a oratorio e a refettorio.

Benedetto era troppo unito a Dio e troppo intelligente per non rendersi conto
fin dal primo momento della necessità di non isolarsi rigidamente da quella
famiglia di deboli, chiudendosi in un ascetismo per loro irraggiungibile, scese
al loro livello, fece come loro in tutto quanto era possibile senza tradire la
propria vocazione, per elevarli poi con sè gradatamente, quasi
insensibilmente, verso le vette della perfezione.

Per questo, egli che da anni si era attenuto alla più rigida disciplina del
digiuno, contentandosi per sostentarsi di erbe e del poco pane che gli forniva
la carità di Romano, condiscese a sedere a mensa con i fratelli, a dividere il
loro pasto, a bere con essi il vino al quale non avrebbero saputo rinunziare.
Ma sui principi fondamentali di vita monastica, sugli elementi che ne
costituiscono il nerbo, così che, se mancassero, di vita monastica non si
potrebbe più parlare, fu intransigente: l'umiltà, la carità, l'obbedienza, la
separazione affettiva ed effettiva dal mondo in vista della adesione più
completa a Dio, e soprattutto la lotta inesorabile contro il passato e le sue
radici profonde, vennero proposte ai monaci come esigenze di doverosa e
imprescindibile attuazione.

Rispondeva così al desiderio che avevano espresso eleggendolo: se la loro


buona volontà fosse stata sincera, egli disponeva l'ambiente, insegnava,
ordinava, così che tutto, nel monastero, conducesse a Dio.

Senza deviazioni, senza facili accomodamenti di una morale compiacente, ma


in coerenza perfetta col tenore di vita di cui facevano professione, i monaci di
San Cosimato avrebbero potuto rinnovare se stessi, lasciando che si stabilisse,
tra loro e l'abate, quella comunicazione intima di vita che è necessaria
condizione di ogni paternità.

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Sarebbe stato l'ideale, ma importava rinunzia e lotta contro troppe cose alle
quali proprio di rinunziare i monaci non si sentivano, e prima fra tutte, la
libertà; quel sentirsi impediti continuamente nella soddisfazione dei loro più
o meno leciti desideri, quell'ostacolo regolarmente e spesso energicamente
frapposto alla loro volontà sfrenata nel volere a ogni costo appagare le proprie
voglie, cominciò ben presto a sembrare un giogo insopportabile.

Ne nacque dapprima un malessere ben presto degenerato in aperto


malcontento, e che trovò la sua espressione in parole mormorate tra i denti,
irosamente, o in lunghi concitati colloqui non appena i monaci pensavano di
esser sicuri che non li raggiungesse lo sguardo indagatore dell'abate.

Ognuno credeva di poter rigettare sui confratelli un poco almeno della


responsabilità di quell'opprimente schiavitù alla quale si erano
spontaneamente sottoposti andando a cercare quel selvaggio che poteva far
fortuna tra i pastori, ma non tra loro, gente civile; e così i dissensi si
allargavano, riassumendosi e sfociando poi in un sentimento comune di odio
verso colui che appariva a tutti come un tiranno.

Su una cosa erano d'accordo: liberarsene. Ma come?

La faccenda si presentava tutt'altro che agevole.


Non era facile, data la chiara e precisa legislazione della. Chiesa, sbarazzarsi
di un abate legittimamente posto a capo di una comunità, se non ci fossero
stati, a giustificare simile provvedimento, dei motivi proporzionati.

Indurlo ad andarsene rendendogli la vita impossibile con una sistematica


opposizione, era pure cosa che presentava i suoi inconvenienti, data la stima
dalla quale era circondato Benedetto, e il conseguente disonore che sarebbe
derivato al monastero se si fosse risaputo che la cattiva condotta dei monaci lo
aveva messo nella necessità di doverli abbandonare, dopo che, con tante
insistenze, lo avevano trascinato a Vicovaro.

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E allora? Un'idea, dapprima vaga e forse respinta con orrore, cominciò pian
piano a farsi strada, affacciandosi in un primo momento nei conciliaboli
segreti come uno scherzo assurdo, poi perdendo, nella luce dell'odio e
dell'esasperazione, i suoi contorni più ripugnanti per assumerne altri più
ammissibili, quasi giustificabili, ai loro occhi, con ragione di assoluta
necessità. Quella vita era un inferno anticipato, meglio, considerato che non
c'era altra via d'uscita, sopprimere l'uomo che era la cagione di
quell'intollerabile stato di cose.

Un pizzico di veleno somministrato accortamente, senza scendere ad atti


brutali, lo avrebbe presto mandato all'altro mondo, senza rumore; quanto a
loro avrebbero poi provveduto a fargli degni funerali e a piangerlo con i
devoti, mantenendone la memoria in venerazione.

La colpa? Già, in sé era grave, ma siccome nessuno la sentiva tutta sua, così il
rimorso, diviso un po' fra tutti, finiva col non pesar troppo su quelle coscienze
ottuse per l'abitudine del male e non affinate dalla grazia; e fu deciso, con
generale soddisfazione, che si sarebbe provveduto, sopprimendo l'abate, a
riconquistare la perduta libertà.

Un giorno, riuniti che furono in refettorio, secondo l'uso del monastero, uno
dei monaci presentò a Benedetto l'ampolla di vetro ricolma di vino del quale,
dopo averlo benedetto, egli avrebbe bevuto per primo; era quello il giorno
prescelto per la consumazione del delitto, e il primo bicchiere di vino
avvelenato avrebbe rapidamente portato a compimento il disegno di quei
malvagi. C'era nei visi un'aria misteriosa di aspettazione, l'indefinibile senso
di sgomento che precede sempre il male, quando non è provocato da un
improvviso impeto di passione.
Stesa la mano, come al solito, l'abate tracciò sull'anfora sorretta dal monaco
profondamente inchinato davanti a lui, col consueto senso di religiosità, un
segno

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di croce, e subito il recipiente andò in frantumi come se un sasso lanciato con


violenza l'avesse colpito in pieno.

Benedetto sollevò lo sguardo sui monaci atterriti che gli facevano corona, e in
un attimo intuì, leggendo attraverso i loro occhi cupi e terrorizzati, quello che
era avvenuto: l'ampolla contenente il vino avvelenato non aveva resistito alla
potenza del segno della vita. La pozza scura del vino sparso a terra
testimoniava la miracolosa protezione di Dio che, con cuore retto, egli serviva.

Che cosa sarebbe accaduto? I monaci dovevano domandarselo con gli occhi,
incapaci di proferire una parola, nel vedere il loro abate levarsi in piedi,
maestoso, e, uscendo dal refettorio far loro cenno di radunarsi intorno a lui.
Quando se li vide davanti, povere creature umane schiave della carne e delle
passioni, incapaci di percepire il gusto delle cose dello spirito, e ora in odio a
Dio per quel delitto già consumato nel desiderio anche se reso vano in atto,
una profonda pietà dovette invadergli l'anima; aveva cercato con tutti i mezzi
di aprire in quei poveretti un varco alla luce, senza riuscirvi, e la sua parola, il
suo esempio, la sua carità ardente erano caduti come il seme sulla roccia
arida, ora li avrebbe abbandonati col dolore di non esser riuscito a
riconquistarli al Signore.

Senza ira, col viso tranquillo, ma con voce accorata e vibrante, disse a quei
disgraziati parole che uscivano dal cuore:

- Dio onnipotente abbia misericordia di voi, fratelli.

Perché, perché mai avete voluto compiere contro di me un'azione di questo


genere? Non vi avevo forse fin da prima predetto che il mio tenore di vita non
avrebbe potuto accordarsi col vostro? Andate, e cercatevi un padre che si
confaccia alle vostre esigenze, poiché dopo quel che è successo non è più
possibile che io rimanga tra voi. -

E senza che nessuno osasse trattenerlo si allontanò.

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Ripresa la via della montagna, non tardò a raggiungere il Taleo e la sua
spelonca.

Vi tornava arricchito di questa nuova e tragica esperienza delle possibilità di


malizia che possono continuare a sussistere in cuori ai quali pure non è
rimasta del tutto ignota la bellezza austera di una vocazione di santità, e che
hanno percepito la nullità delle cose umane, senza però riuscire a svincolarsi
dalla loro schiavitù.

Quanto più preziosa la solitudine con le sue austerità liberatrici, e


l'ininterrotto commercio con Dio, e l'inesauribile affondare nella luce fino a
esserne quasi compenetrati!

San Gregorio di Nazianzio aveva tradotto, in un lirismo esuberante di


ammirazione, la grandezza della vita solitaria, nella quale, raffrenati i sensi, il
monaco, posto ormai fuori del mondo e della carne, senza più nessuna
strettoia di contingenze umane, può trascorrere la vita con se stesso e con Dio,
più in alto delle cose sensibili, sempre più indipendente dalle limitate
concezioni terrene, fino a divenire quasi specchio trasparente di Dio e delle
divine realtà, rendendosi capace di sempre nuova luce e di maggior chiarezza
interiore, fino a che, raggiunta finalmente la stessa sorgente della; luce della
quale a noi giunge solo qualche raggio, non abbia insieme, nella visione
svelata, conseguito il fine beato della stessa sua vita.

Inserita in questo ideale ascetico, ci appare perfettamente aderente allo stato


d'animo di Benedetto, l'espressione dei Dialoghi di san Gregorio che ci dicono
del suo ritorno al luogo della diletta solitudine, per abitarvi «solo con se
stesso, sotto lo sguardo di colui che tutto vede dall'alto».

Ma qualche cosa era mutato nel suo spirito. L'esperienza infelice di Vicovaro
gli aveva offerto il mezzo di entrare in contatto diretto con le deplorevoli
condizioni nelle quali, fatte poche eccezioni, si trascinava la vita monastica
dell'epoca; povera vita svuotata

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di ogni alto ideale, immeschinita in miserie e grettezze senza numero, spesso


divenuta motivo di scandalo ai fedeli offesi nel loro senso religioso da quella
falsificazione dell'ascetismo autentico.
Il pontefice Ormisda, che da questa genia di monaci irrequieti e turbolenti
aveva avuto non pochi fastidi, poteva, qualche anno più tardi, caratterizzarli
cosi: «Di monaci non hanno che l'abito, mentre delle fondamentali virtù del
monaco, l'umiltà e l'obbedienza, mancano interamente».

L'attentato di Vicovaro era stato un episodio, sintomatico fin che si vuole, ma


nulla più che un episodio di un male diffuso che si stendeva come una
cancrena, intaccando la parte migliore del gregge di Cristo.

Nella solitudine riconquistata, attraverso le lunghe meditazioni, la grazia


schiudeva intanto nell'anima di Benedetto il germe della sua vocazione vera,
facendogli sentire la pena cocente per la miseria di tanti fratelli che avrebbero
dovuto essere nella Chiesa testimonianza vissuta dell'ideale cristiano nella sua
espressione più alta, e vagavano invece su tutte le vie del mondo, dispersi
come pecore senza pastore, dimentichi dell'elemento essenziale a ogni
autentica professione monastica: la purezza integrale del cuore, per il
possesso della vita eterna, attraverso la conoscenza e l'amore.

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V. LA VALLE SANTA

Già prima che Benedetto si decidesse a lasciare lo speco per scendere a


Vicovaro, molte anime erano venute a lui, attratte dalla sua santità, per
chiedergli di esser guidate e sorrette nell'attuazione pratica della loro decisa
volontà di lasciare il mondo per dedicarsi al servizio di Dio.

La notizia del ritorno del nostro eremita, che non dovette tardare a
diffondersi nei dintorni, riaccese quei desideri, ponendo un problema al quale
urgeva trovare la soluzione conveniente.

Non era infatti spento tra i fedeli l'ideale di una vita di perfezione da condursi
attraverso l'esercizio dell'ascesi, nella consacrazione piena di se stessi a Dio;
esso si affermava anzi vigoroso, nonostante il livello spirituale tutt'altro che
elevato, e lo spettacolo davvero non edificante di gruppi di monaci sempre in
giro per il mondo, immischiati a tutti gli affari pubblici o privati, molto spesso
impaniati in correnti eretiche e turbolente, per ignoranza o per interesse.

L'abito monastico e la tonsura per troppi ormai erano divenuti facile pretesto
a carpire le elemosine dei devoti, ma le più detestabili passioni umane,
l'orgoglio, la cupidigia, la gola, sopravvivevano intatte sotto apparenze
religiose e penitenti.
Il fenomeno di questa persistente attrattiva alla vita monastica, mai
scoraggiata per le umilianti degradazioni alle quali la miseria dell'uomo può
trascinare uno stato in sé così santo, trova la sua unica spiegazione nel fatto
che essa non è il risultato di semplici considerazioni ed esperienze naturali,
ma trascende l'elemento puramente affettivo e intellettuale e si risolve in un
appello intimo e personale di Dio alla creatura.

L'anima sente nascere e affermarsi in sé, per una misteriosa e pur reale
elezione della carità divina, tendenze e aspirazioni a un genere di vita che può
apparire un assurdo, ma è in realtà l'affermazione più elevata dello spirito che
si impone alla materia.

Nei fratelli che salivano a lui pieni di speranza, Benedetto riviveva la sua
vocazione. Anch'essi, in una intuizione vivida di luce e d'amore, avevano visto
le mete ideali della vita riassunte nel Cristo, e chiedevano di potersi dedicare
alla sua imitazione, a ricopiarne in sé con fedeltà ogni tratto, per configurarsi
a Lui, e in Lui e con Lui tendere al Padre.

Ascoltando loro gli sembrava di riudire la storia della propria anima, lo stesso
senso di insofferenza, di insuperabile disagio dato da tutto ciò che, fuori del
Cristo e del suo mistero, appare come un ostacolo, e che anch'egli aveva
provato quando la vita sociale con i suoi rapporti obbligati, le occupazioni
molteplici, le gioie stesse, gli erano divenute motivo di sofferenza, e gli si era
imposta la necessità di fuggire, solo, libero, nella nudità del deserto.

Nell'amore la sua vita aveva obbedito a un'unica legge: cercare le vie che
conducono a Dio e correre in esse senza soste, sempre più avido di infinito,
sforzandosi di eliminare quanto avrebbe potuto ritardargli il cammino.

Molte persone erano venute dopo la visita del prete di Monte Preclaro, dal
mattino di quel giorno di

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Pasqua che aveva segnato il termine del suo nascondimento assoluto; senza
chiedere niente al mondo non gli aveva però mai negato la carità della sua
preghiera e della sua parola. E quando, nel corteo dei visitatori attirati dalla
fama della sua santità che sembrava convalidata dal racconto di fatti
prodigiosi dei quali molti asserivano di essere stati testimoni, cominciarono a
venire alcuni, i migliori, non per necessità contingenti, ma per chiedergli che
insegnasse loro le vie che conducono in alto, egli non se ne stupì.
Ormai fuori della mischia del mondo, sereno nel giudizio per la lunga
abitudine di valutare le cose in Dio, capace di comprensione per ogni segreto
bisogno dello spirito, era già, nella scienza della perfezione, un Maestro, e non
appare che sia stato còlto di sorpresa quando ai suoi fedeli ben presto non
bastarono più i colloqui intimi, per quanto frequenti; qualcuno si azzardò a
chiedergli qualche cosa di più, di poter dividere con lui la solitudine, di vivere
sotto il suo sguardo, perché la comunicazione di vita soprannaturale fosse più
continuata e profonda, e più efficace il suo insegnamento.

Forse in lui, soprattutto dopo la vicenda di Vicovaro, era venuto assumendo


contorni sempre più precisi il sogno di una famiglia di monaci dallo spirito
robustamente temprato, degni della loro vocazione, capaci di essere, per
santità di vita, sale della terra e luce del mondo.

Il monachesimo orientale era stato un movimento di proporzioni gigantesche,


e a diecine di migliaia i monaci avevano popolato i deserti dell'Egitto,
addestrandosi nella solitudine ad una ascesi di rigore inaudito; il mondo ne fu
colpito di ammirazione entusiastica, e Roma stessa se ne lasciò affascinare,
offrendo all'ideale monastico delle reclute che, per splendore di santità e di
rinunzia, potevano gareggiare con gli asceti dell'Oriente.

A Benedetto però non poteva sfuggire il fatto che

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l'eroismo non è mai per le masse, difatti la rapida diffusione della vita
monastica anche nell'Occidente, dove penetrò tutti gli ambienti sociali, non
tornò certo a vantaggio della sua vigoria interiore; l'adattamento necessario
dei principi che la reggevano, lasciato alla prudenza dei singoli, non fu sempre
molto felice, e ai primi fervori ben presto era venuta a succedere una
inevitabile e quasi generale condizione di rilassamento.

Il problema fondamentale si riduceva quindi a inserire in maniera vitale e


feconda i canoni tradizionali dell'ascesi monastica nel temperamento, nella
mentalità, nelle abitudini di vita, negli stessi postulati naturali del mondo
occidentale.

Fra tutti quei discepoli di buona volontà che venivano a lui desiderosi di una
robusta disciplina di vita interiore, forse nessuno avrebbe potuto affrontare la
asprezza dell'eremo, soprattutto sotto l'aspetto di un reale ed efficace mezzo
di sviluppo dello spirito, in una ascensione sostenuta dalla grazia divina,
certo, ma pure con l'indispensabile concorso della volontà, senza una
conveniente preparazione, che li allenasse alla lotta nella solitudine, la più
ardua, la più dura fra tutte.

Sembrava da preferirsi, quindi, una forma di vita associata, una «scuola» per
le anime desiderose - ed erano già molte - di dare a Dio un servizio perfetto, in
spirito e verità. Questo ideale esigeva però tutta una organizzazione materiale
ed economica non indifferente, in proporzione allo sviluppo che il monastero
avrebbe avuto. Da tale necessità non si poteva prescindere a garantire il
normale sviluppo del monastero stesso.

Forse l'ambiente, nel quale da anni ormai Benedetto viveva, non fu del tutto
estraneo all'organizzazione geniale che, separando i suoi figli dal mondo, non
li avrebbe però completamente astratti da quanto nella vita è attività buona e
capace di essere elevata a intelligente atto di culto reso a Dio attraverso
l'esercizio dei doni suoi.

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È bene non dimenticare che, proprio sotto i suoi occhi, si stendeva la


grandiosa tenuta della villa di Nerone, su, fino all'altipiano di Arcinazzo, con
un complesso di edifici che non dovevano poi essere ancora ridotti all'estrema
rovina, e con vaste possibilità di lavoro agricolo e di conseguente rendimento.

Qualcuna di queste dipendenze, con giudiziosi adattamenti, avrebbe potuto


bene ospitare la famiglia dei monaci, e offrir loro il modo di equilibrare con
una sana e feconda attività le energie spirituali troppo tese nello sforzo
ascetico e nell'applicazione alla preghiera. Avrebbero lavorato come tutta
l'umile gente dei dintorni, ma con lo spirito in alto, col cuore distaccato da
ogni interesse puramente materiale, guadagnandosi il pane con la santa e
benedetta fatica delle proprie mani, in umiltà, in penitenza.

Doveva venire spontaneo a Benedetto il volgere lo sguardo al piano di Vigna


Colombaia dove, con tutta probabilità, non lo stesso palazzo imperiale, ma
verosimilmente una sua appendice, offriva ancora col suo saldo fabbricato
sulla riva destra dell'Aniene, a specchio del lago che avrebbe permesso di
irrigare comodamente le adiacenze campestri, il sito più desiderabile per
l'impianto del nuovo monastero.

Sarebbe però assurdo pensare che edificio e terreni circostanti fossero ormai
divenuti beni di dominio pubblico così che il primo venuto potesse occuparli e
sfruttarli senza suscitare nessuna reazione: è piuttosto da ritenersi che essi
fossero ancora proprietà demaniale, e, come tali, tutelati da leggi severe
destinate a impedire soprusi e devastazioni da parte di privati; ché, se poi
vogliamo pensarli divenuti dominio di qualche famiglia particolare, le
difficoltà si presentano assai più gravi.

Nell'un caso e nell'altro si imponeva la necessità di affrontare decisamente il


complesso delle pratiche indispensabili per poter occupare la località.

D'altra parte l'erezione di un monastero non poteva farsi da parte di


chiunque, senza l'intervento dell'autorità

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ecclesiastica, né, tanto meno, quella di chiese o oratori, determinati a seconda


di norme giuridiche ben definite, e per nessuna ragione lasciata all'arbitrio di
persone private. Benché dunque san Gregorio non faccia menzione della cosa,
è chiaro che Benedetto dovette rimettersi in contatto con quella società
romana che molti anni prima aveva fuggito, riallacciando con essa dei
rapporti divenuti indispensabili; vi tornava però nella pienezza della sua
virilità, capace di una equilibrata valutazione degli uomini e delle loro
vicende, dopo che la sua anima si era temprata attraverso la lunga parentesi
di vita eremitica.

Il commercio intimo con Dio, l'esperienza diretta della malizia umana, la


somma di amarezze e di dolori che fluivano incessanti al suo speco per
trovarvi consolazione, avevano determinato in lui una comprensiva e
soprannaturale simpatia verso ogni forma di miseria dello spirito, perciò nella
storia della sua vita intima questa ripresa dei contatti con la città non lascia
traccia, vale appena la spesa di essere ricordata: nei pecorari imbestialiti dei
borghi tra le montagne, o nella decadente raffinatezza dei patrizi romani, egli
non percepisce più che il grido delle anime in cerca di luce.

La sua missione potrà imporgli necessità pratiche fastidiose e imprescindibili,


lo costringerà a riannodare relazioni che si pensavano troncate per sempre,
ma tutta questa attività è cosa superficiale e non arriverà a incidere sul suo
spirito, né avrà risonanze sull'opera che ha il suo fulcro nel cuore delle giogaie
simbruine dove affonda le sue radici, silenziosa e profonda, in Dio.

Molti, però, a Roma, salutarono con gioia il ricomparire di Benedetto nella


vita sociale; forse quelli stessi che avevano scosso il capo, disapprovando,
quando si era sparsa la voce di quella sua partenza misteriosa dopo aver
lasciato incompiuti gli studi giunti ormai quasi al termine, e fatto getto di una
fortuna, d'un nome, degli affetti più cari, per andare a condurre una vita
insignificante in un paesucolo perduto tra i monti.

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Ritrovandolo ora, sentivano di non essere davanti a uno dei tanti mercanti di
parole che a Roma abbondavano, ma a un uomo dominato da un'idea
poderosa, alla quale, in mirabile armonia, faceva convergere ogni risorsa del
suo spirito.

Appariva, nella volubilità chiassosa della società mondana del tempo, un


romano dei giorni antichi, sobrio e semplice nella illuminata profondità del
pensiero, capace di dare a chi lo avvicinasse la sensazione di qualcuno che ha,
finalmente, trovato il senso vero della vita, al disopra e al difuori di un mondo
in tumulto, avvilito nell'ossequio servile, o vanamente ribelle.

Inutile sforzo, per noi, quello di tentare un rifacimento fantastico dei


particolari con i quali si svolsero queste trattative con le gerarchie
ecclesiastiche e civili; meglio raccoglierne i risultati e star paghi di sapere che
l'edificio della villa imperiale, con gli adattamenti indispensabili, fu ridotto a
monastero sotto il titolo di San Clemente e poté accogliere i primi discepoli
del Santo.

Ben presto gli aspiranti alla vita monastica si moltiplicarono in tal numero
che quel monastero non bastò più a contenerli e bisognò farne sciamare un
primo gruppo, poi un altro e un altro ancora, fino a dodici, che andarono a
popolare la zona.

Si formarono così dodici piccoli monasteri con dodici monaci ognuno. Tre in
alto, sulla montagna: Santa Maria di Primerano, nel piano sotto Morabotte;
San Gerolamo su una collina un po' a sud; San Giovanni Battista a nord in
campo Arcu, tutti e tre verso Jenne, come pure, ma più in basso, su un poggio
presso le sponde dell'Aniene, Sant'Andrea, denominato anche col nome
suggestivo di «Vita eterna». Il monastero di San Biagio, sopra lo speco, si
mise anch'esso sotto la paternità spirituale di Benedetto, il quale, nella stessa
località, ma più giù, nel cuore della montagna, stabilì San Michele.

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La Valle Puceia accolse il monastero dei Santi Cosma e Damiano, al quale


bisogna ancora aggiungere Sant'Angelo, posto sulla rupe di Mora-Casca; un
altro Sant'Angelo nei pressi di Subiaco; San Donato, nella pianura di
Collelungo, e finalmente, alle radici di Monte Preclaro, San Vittorino.

Della maggior parte di questi monasteri, per i quali la valle dell'Aniene poté
essere denominata la Valle Santa, oggi non rimane più traccia; solo l'antico
cenobio dei Santi Cosma e Damiano sopravvive nell'attuale abbazia di Santa
Scolastica; però i monumenti preziosi che gli scavi hanno restituito alla luce
in Valle Puceia, mentre ci danno la certezza che anche questo monastero,
come quello di San Clemente, fu ricavato da qualche edificio della villa
imperiale ivi preesistente, ci inducono a domandarci se più o meno la cosa
non dovette ripetersi anche per gli altri monasteri.

L'idea che alle familiae rusticae alle quali era affidato lo sfruttamento delle
risorse naturali del luogo siano venute a sostituirsi queste «famiglie di Dio»
cementate nella carità, e che del lavoro facevano elemento di ascesi e offerta
degna e grata al Signore, è quanto mai suggestiva, ma, ciò che più conta, si
inquadra perfettamente nella concezione monastica di Benedetto.

Un episodio ci dice che dei motivi seri e ben ponderati debbono aver
determinato il Santo nell'ubicazione dei monasteri, in maniera che tutto in
essi concorresse all'attuazione più perfetta possibile dell'ideale religioso che
era la legge di quella colonia di anime in cerca di perfezione. Egli continuava a
esserne il padre e il maestro, pur avendo messo a capo di ogni comunità un
abate che ne avesse la immediata direzione e responsabilità, per riservare a
sé, in San Clemente, la formazione dei più giovani o di quelli per i quali si
esigessero cure particolari.

Non tutti i monaci però, ed è naturale, potevano essere capaci di una adeguata
comprensione del piano

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pratico seguìto da Benedetto, soprattutto quando l'attuarlo importava una


somma di sacrifici che alla loro limitata mentalità dovevano apparire
irragionevoli, e perciò anche più intollerabili. E un bel giorno, forse attenuato
il primo fervore, quelli che abitavano i monasteri della montagna, in alto, tra
le rocce, cominciarono a rendersi conto che l'essere costretti a fare tutti i
giorni un lungo e malagevole tratto di strada per andare ad attingere l'acqua
al lago, sotto il solleone d'estate, o sferzati dalla bufera, tra la neve, d'inverno,
era cosa niente affatto comoda, anche a prescindere dal reale pericolo
presentato, soprattutto nella discesa, dalla scarpata ripida della costa del
monte.

Si scambiarono le loro considerazioni, e, con accordo perfetto, giunsero alla


conclusione che non era possibile vivere lassù; bello e suggestivo finché si
vuole il luogo, ma assolutamente inadatto per potervi abitare in maniera
stabile.

Ne erano convinti, e a loro appariva chiaro fino alla evidenza che Benedetto si
sarebbe subito arreso alle loro ragioni, accettando senza difficoltà la proposta
di abbandonare quella posizione eccessivamente scomoda, per collocare i
monasteri più in basso, dove almeno l'acqua fosse a portata di mano.

Vennero dunque tutti a San Clemente, dove il Padre li accolse con molta
comprensione, ascoltò le loro lamentele, seguì l'argomentazione che a fil di
logica non faceva una grinza:

- È per noi una fatica insopportabile il dover scendere ogni giorno fino al lago
per attingere l'acqua, dunque si impone la necessità di trasferire i monasteri. -

La logica dei santi ha però dei canoni che non si accordano, molto spesso, con
quelli degli uomini comuni, e così avvenne che a Benedetto la conseguenza
non parve proporzionata alla premessa, e, dopo aver compatito le loro fatiche
e averli incoraggiati a una maggior generosità, li rimandò senza concedere
quanto gli

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avevano chiesto. Forse suggerì in tale occasione il principio consacrato più


tardi nella sua Regola: che di fronte a cose in apparenza impossibili, esposte le
proprie difficoltà, se il Superiore persiste nel comando, i monaci «ex charitate
oboediant» obbediscano per amore di Dio, con l'intima persuasione che così
conviene all'anima loro.

Ma all'abate non poteva sfuggire quale grave inconveniente, e come reale,


costituisse quella assoluta mancanza d'acqua per le tre comunità, e quale
fermento di malumore ne sarebbe potuto derivare, a tutto svantaggio della
vita interiore e della stessa disciplina. Con tutto ciò, considerazioni senza
dubbio di maggior peso gli imponevano di non consentire alla richiesta dei
monaci.
Il problema era, in verità, umanamente insolubile; ragione di più per
attenderne la soluzione dal Padre che sta nei cieli e non rimane estraneo a
nessun minimo particolare della vita dei suoi figli.

A notte fonda, quando tutte le famiglie monastiche riposavano in pace


attendendo l'ora di sorgere a cantare le lodi del Signore, Benedetto, preso con
sè il monachetto Placido, un fanciullo che egli stesso veniva formando alla vita
religiosa, uscì con lui da San Clemente, e insieme si inerpicarono sulla
montagna, su, su, fino a raggiungere il monastero di San Giovanni Battista,
tra le rocce aride.

Si fermò allora, silenziosamente, e si trattenne a lungo in preghiera, dicendo a


Dio la necessità di quei suoi poveri figliuoli, poi, quando ebbe finito, poste in
quel luogo tre pietre come segnale, riprese col piccolo compagno il sentiero in
discesa, giù, fino al lago, rientrando in monastero senza che nessuno si fosse
accorto della passeggiata notturna.

Il giorno dopo, di buon'ora, un folto gruppo di monaci rifacevano la stessa


strada, concitati, più decisi che mai, questa volta, a non desistere fino a che
non avessero

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ottenuto quanto pensavano di chiedere con così evidente ragionevolezza. Ci


avevano ripensato a fondo; no, così proprio non si poteva andare avanti,
urgeva provvedere.

Benedetto li ascoltò ancora, forse con una certa pena, erano anime deboli, alle
quali non si poteva richiedere l'eroismo dell'obbedienza, e che, in fondo, si
dichiaravano disposti ad obbedire, sì, ma senza abbandonare le regole del
buon senso, un po' come abitualmente pensiamo tutti noi, stabiliti nella
mediocrità. Il Signore li avrebbe illuminati un giorno; a certe altezze un
raziocinio puramente umano non può giungere. Perciò, senza entrare in
nuove discussioni, per tutta risposta dette un ordine che sonava abbastanza
strano:

- Andate, e scavate un po' quella roccia sulla quale troverete appoggiate tre
pietre. Per liberarvi dalla fatica di una strada tanto lunga da fare, Dio
onnipotente può infatti far scaturire l'acqua anche da quel picco di montagna.
-
Può darsi che qualcuno abbia abbozzato un sorriso, scotendo il capo a una
simile proposta assurda: l'acqua sulla sommità della montagna, tra quelle
rocce? ...

Il comando però era reciso e non ammetteva repliche, quindi, benché forse
intimamente poco persuasi di esser giunti a qualche cosa di conclusivo, non
osarono ribattere e ripresero la via della montagna. Del resto, Benedetto era
un santo, avrebbe potuto anche aver ragione lui, cose prodigiose ne aveva
operate tante!

Cercando dunque con curiosità un po' febbrile la roccia, come era stato loro
indicato, con emozione scoprirono che lasciava filtrare un po' d'umidità. Vi fu
subito scavata a colpi nervosi di piccone una piccola conca che i monaci
videro in un attimo riempirsi di acqua limpida sotto i loro occhi stupefatti.
Ben presto la sorgente cominciò a lasciar scorrere una vena cristallina e ben
nutrita che anche oggi ride tra le rocce, presso la cappella di San Giovanni
Battista eretta «in campo Arcu» nel luogo dove sorgeva l'antico monastero.

92

Nessun documento ci ha conservato i particolari della vita che si conduceva


nei monasteri sublacensi, ma i Dialoghi di san Gregorio ce ne danno degli
episodi suggestivi, e non è per noi impossibile formarcene un'idea
sufficientemente esatta, tenendo presente che esisteva, legata alla concezione
di professione monastica, una tradizione stabile e quanto mai autorevole, che
Benedetto non solo ha accolta, ma ha assimilato in tutta la sua sostanza, e in
virtù della quale il monaco può essere implicitamente definito come un'anima
che tende per divina vocazione all'unione con Dio, e si applica
coraggiosamente ai mezzi che lo condurranno alla mèta.

È quindi, per la natura stessa della chiamata con la quale è stato favorito,
l'uomo della rinunzia e della lotta: rinunzia a quanto può costituire un
impedimento alla sua ascesa, lotta contro tutti gli elementi capaci di
contrastare l'attuazione piena del regno di Dio nella sua anima. E questo è
così inerente all'essenza del suo stato, che, nell'istante in cui venisse a
mancare simile inesauribile slancio verso la perfezione con le necessarie
conseguenze di rinunzia e di lotta, il monaco cesserebbe di esistere, nella sua
realtà spirituale, per rimanere un poveruomo ricoperto di una divisa ridotta di
per sé a una menzogna.
Gli stessi mezzi da adottarsi nell'ascesa verso la santità erano ormai
consacrati dalla tradizione, né Benedetto si preoccupa di scoprire nuovi
metodi ascetici; l'originalità della sua opera consiste tutta nell'inserire in
maniera vitale nell'anima occidentale i principi già noti, adeguandoli alle
possibilità reali, in maniera da conferir loro la massima efficacia.

La preoccupazione che trasparirà più tardi da diverse pagine della Regola,


quella cioè di dare anzitutto ai suoi figli una salda e illuminata coscienza
cristiana sulla quale appoggiare, con buone garanzie di riuscita, l'edificio della
perfezione, non gli dovette essere estranea neanche in quei primordi nei quali
il contatto intimo con le anime gli rivelò certo lacune profonde, così da

93

suggerirgli di mettere in testa agli esercizi monastici la pratica esatta dei


comandamenti di Dio.

Senza dubbio quello di Subiaco fu tempo di esperienze, di adattamento


pratico e intelligente di tutto il materiale, che l'Oriente aveva raccolto e la
santità autenticato, a questi uomini dell'Occidente, rottami di una civiltà in
dissoluzione, o conquistatori prepotenti, ignoranti di ogni valore che non si
riassuma nella forza materiale e nel godimento.

Il reclutamento dei monaci, infatti, nella Valle Santa, non conosceva


esclusivismi umani e meschini. Ai nuovi venuti, piuttosto che la condizione
sociale o la razza d'origine, si chiedeva solo che avessero fame e sete di
giustizia, che fossero di quelli ai quali l'amore di Dio si impone, ragione
suprema della vita, e li rende capaci del dono totale di sé.

Il resto contava poco, niente anzi, come niente conta agli occhi di Dio che
scruta le anime nella loro nudità, e le pesa secondo il peso del loro amore,
poiché «servi liberi siamo una cosa sola in Cristo».

Poté così avvenire che una volta si presentasse a Benedetto un povero Goto,
un'anima semplice nella quale la luce della grazia si era aperta un varco,
facendo fiorire sulla selvatica rusticità della natura l'aspirazione a una vita
spirituale superiore e la volontà generosa di acquistarla a qualunque prezzo.

Il Santo accolse con gioia profonda quell'uomo ancora primitivo che, nella
semplicità del suo cuore, veniva a chiedere di essere ammaestrato nel servizio
divino, e lo tenne con sé per poterlo meglio formare alla vita monastica.
Era una primizia. La carità di Cristo cominciava così a fondere in una nuova
fraternità razze divise e odii implacabili per la lotta ormai secolare tra i popoli
giovani e incivili che si rovesciavano come una fiumana sulla decrepita civiltà
dell'Impero, travolgendo con la violenza, alloro passaggio, tutto un passato di
grandezza e le reliquie della gloria di Roma.

94

Nessuna forza umana poteva raggiungere la vittoria in quel duello tra la


barbarie e la civiltà: solo la grazia, attraverso secoli di lenta evoluzione
spirituale, avrebbe avuto ragione della ferocia dei popoli nuovi. Ma già quel
miracolo si annunziava nel Goto rozzo, che per amore di Dio e per possederlo
con maggior pienezza, consentiva a piegare il capo sotto il giogo
dell'obbedienza, a vivere in umiltà, a sottoporre alla disciplina del lavoro la
tendenza innata a una vita nomade e libera.

Per amore di Dio prese dunque anch'egli il suo falcetto e conobbe il sapore
dell'aspra gioia spirituale che si rivela all'anima quando, con cuore generoso e
contrito, si assoggetta alla penitenza fondamentale imposta all'uomo come
espiazione del suo peccato, sforzandosi di strappare il suo pane «fra triboli e
spine» alla terra divenuta ostile.

È appunto in un episodio riguardante questo monaco così caro al Santo che


troviamo già tradotte alla lettera le prescrizioni fissate più tardi nella Regola
per chi avrà danneggiato o perduto qualche cosa del monastero.

Si era pensato di sistemare un buon orto per la comunità su un tratto di


terreno assai adatto, in riva al lago. Bisognava però liberarlo prima da una
fitta vegetazione di pruni e di rovi che ne facevano uno sterpeto, e l'impresa fu
affidata al Goto che, con le sue braccia nerborute, se la sarebbe cavata a
meraviglia.

Il poveretto si mise all'opera con tutto lo zelo di cui era capace, ma nella foga
del lavoro, fosse eccessivo ardore, fosse la resistenza opposta dai cespugli
intricati, sul più bello il falcetto volò via e andò a finire nell'acqua, lasciando
molto male il monaco maldestro che, interdetto, guardava desolato ora il
manico che gli era rimasto stretto in pugno, ora l'acqua profonda che aveva
inghiottito il suo strumento. Che fare?

Corse sgomento dal monaco Mauro che aiutava l'abate nel governo del
monastero, e si accusò del malanno
95

provocato dalla sua sbadataggine, accettandone con umiltà la penitenza.

Intanto il falcetto non c'era più, e non si sapeva come rimediare per condurre
a termine il lavoro incominciato; a San Clemente l'abbondanza degli
strumenti non doveva essere troppa davvero e questo spiega come Mauro si
trovò costretto a ricorrere subito a Benedetto per esporgli l'accaduto e, in
conseguenza, l'imbarazzo nel quale ora si trovavano.

Sentito il piccolo incidente, l'uomo di Dio venne sul posto, dove il Goto, più
mortificato che mai, continuava a stringere tutto confuso il legno del manico.
Glielo tolse di mano e lo immerse nell'acqua, e tosto risalendo a galla dal
fondo del lago, la lama tornò a innestarsi sul manico stesso dal quale era
sfuggita. Il barbaro era sbalordito per quanto vedeva accadere sotto i suoi
occhi, e non credeva a se stesso, quando Benedetto, dopo avergli rimesso in
mano il suo falcetto, lo rimandò incoraggiandolo:

- Ecco, lavora, e non esser più triste. -

Parole rivelatrici, per noi, di una convinzione profonda, basata su acute


osservazioni psicologiche, che la Regola accoglierà per illuminarne molti
modesti particolari di vita quotidiana: l'anima votata al divino servizio deve,
per quanto è possibile, vivere in un'atmosfera di serenità intima ed esteriore;
nessuna tristezza ne deve appesantire lo slancio verso l'alto, o favorirne i
ripiegamenti nei quali il fermento delle passioni umane potrebbe soffocare i
germi della grazia, e trattenere il libero espandersi della vita soprannaturale.

La frase che il Santo rivolse al povero Goto assume valore programmatico per
la vita dei suoi monaci, curvi alla fatica del lavoro, sì, ma con l'anima colma
della gioia dei figli di Dio, mai imprigionata dalle contingenze umane, perché
stabilita ormai nella fede, nella speranza, nell'amore.

96

L'organismo monastico concepito da Benedetto, con i gruppi di dodici monaci


per famiglia, alle dipendenze immediate di un superiore, ma sottoposti poi
tutti alla sua autorità, e orientati da lui con un'unica direzione spirituale allo
stesso fine soprannaturale, pur arieggiando lo schema pacomiano non lo
ricopiava però servilmente.

Esso non tardò a rivelare una così rigogliosa vitalità che la fama ne giunse
anche a Roma, suscitando in molte anime il desiderio di entrare in quella che
appariva già la «fortissima schiatta» dei cenobiti, per cercarvi con più
sicurezza, stretti nella compagine fraterna, le vie che conducono a Dio.

Tutto ci induce a pensare, anzi, che Benedetto, nel monastero di San


Clemente dove egli risiedeva, curasse con ogni serietà e profonda intelligenza
i bisogni delle anime, e la formazione non solo spirituale, ma anche
intellettuale dei futuri monaci, soprattutto dei più giovani, poiché molti,
anche nelle famiglie patrizie, giudicandolo degno di ricevere in custodia i
propri figliuoli, li portavano a lui, affinché li educasse a quel servizio divino al
quale intendevano consacrarli.

Perché il pensiero, nelle lunghe ore di salmodia, potesse mantenersi in intima


armonia con le parole che si snodavano nel canto, o perché fosse possibile
nutrire la propria vita interiore alle opere poderose dei «santi e cattolici
Padri» era necessaria una preparazione tutt'altro che superficiale o affrettata,
soprattutto quando si pensi che, se le brighe teologiche nelle quali i monaci
orientali così spesso si lasciavano irretire potevano fare tanta presa sul loro
animo, la cosa era da attribuirsi principalmente a una profonda ignoranza.

Proprio negli anni dell'esperimento sublacense, papa Ormisda, a Roma, aveva


avuto non pochi fastidi da un gruppo di monaci sciti che pretendevano
l'approvazione pontificia dei loro errori, e non era questo il primo caso,
purtroppo; nè Benedetto poteva ignorare tale stato di cose, o eludere la
necessità di mettervi rimedio.

97

Tra i giovani che egli veniva così formando alla vita monastica, san Gregorio
ne ricorda con singolare compiacenza due, che i genitori, il patrizio Tertullo
ed Eutichio, da computarsi tra gli uomini «nobili e religiosi», gli avevano
portato sottraendoli alla vita di Roma con generoso coraggio, e che sarebbero
poi diventati i discepoli prediletti del Santo.

Il piccolo Placido, che Tertullo offriva al Signore, era ancora un bimbo, e forse
per questo godette di una tenerissima predilezione da parte di Benedetto, e,
dopo di lui, di tutta la tradizione monastica; è rimasto per noi come
circondato dalla stessa luce del Maestro, al fianco del quale veniva
acquistando il senso delle cose di Dio, in quel singolare ambiente tutto
impregnato di mistica religiosità. Possiamo supporre che il miracolo
dell'acqua scaturita dalla roccia per la misteriosa potenza della preghiera, nel
silenzio di una notte indimenticabile, non sia stato l'unico a incidere tracce
profonde sulla sua anima infantile.

Il figliuolo di Eutichio, invece, Mauro, era già adolescente; natura generosa,


aperta, dimostrò ben presto doti singolari per la vita monastica, e una virtù
così matura ed equilibrata, che Benedetto ne fece un suo collaboratore,
servendosene con fiducia piena, poiché aveva riconosciuto in lui «uno di
coloro con i quali l'abate può con sicurezza dividere i suoi pesi».

Un delizioso episodio tramandatoci dai Dialoghi ci socchiude uno spiraglio di


vita intima, attraverso il quale irrompe un torrente di luce, tutta la luce della
santità. Un giorno il piccolo Placido era uscito come il solito con la sua brocca
per attingere acqua dal lago, a due passi dal monastero.

Non era certo la prima volta, e non abbiamo da stupirei se fu tentato di


giocherellare un po', di fare qualche esperienza nuova, chissà? L'acqua è
sempre tentatrice per i ragazzi. Ma, calata giù l'anfora abbastanza capace,
questa, riempiendosi d'un tratto, trascinò col suo peso

98

il bambino che, nello sforzo di sorreggerla, si era imprudentemente spinto


troppo avanti.

La corrente impetuosa se ne impadronì e lo portava sempre più lontano dalla


riva, nonostante il fanciullo si dibattesse disperatamente, tentando di
resistere alla violenza delle onde, mentre lì intorno non c'era nessuno che
potesse rispondere alle sue invocazioni di aiuto.

Nella sua cella, l'uomo di Dio ebbe la percezione immediata di quanto


avveniva, e chiamò in gran fretta Mauro.

- Fratel Mauro, corri, poiché quel bambino che era andato ad attingere
dell'acqua è caduto nel lago, e già la corrente se lo trascina lontano -.

La scena che seguì è fulminea. Senza un attimo di esitazione, ma con un senso


di fede così attuale che non gli fa giudicare perduto il tempo di inginocchiarsi
per chiedere e ricevere la benedizione del Padre, Mauro va in tutta fretta verso
il lago. Vede che il piccolo non ha quasi più la forza di resistere all'impeto
delle acque e, dominato dalla preoccupazione di raggiungerlo per salvarlo e
dal timore di far troppo tardi, senza rendersi conto delle sue azioni, si slancia
correndo sulla superficie del lago, afferra Placido per i capelli e lo riconduce
alla riva.
Tutto si era svolto in maniera così rapida, che solo quando, ormai al sicuro
tutti e due, Mauro riordinò le idee, si rese conto di quanto era avvenuto in
maniera tanto meravigliosa da apparire appena credibile. Eppure erano lì,
non c'era da dubitarne, il bambino ancora tremante e bagnato come un
pulcino, lui, attore principale di un prodigio senza nemmeno essersene
accorto.

Volarono verso il monastero dove Benedetto li attendeva, e ancora ansanti,


concitati, presero a raccontargli il fatto al quale non sapevano trovare nessuna
spiegazione umana.

Il Santo ascoltava senza dimostrare nessuno stupore; sapendo il Signore


sempre presente alle sue creature, egli vedeva, nel miracolo, nient'altro che un
suo

99

misericordioso intervento per premiare l'obbedienza pronta di Mauro. Questi


protestava che non era possibile venisse così premiato un atto compiuto senza
averne nessuna coscienza, attribuendo esclusivamente il prodigio alla virtù
del comando ricevuto dall'abate.

Intervenne alla fine, a troncare quella gara d'umiltà, il piccolo salvato,


portando come ragione decisiva la sua testimonianza che non ammetteva
replica:

- Mentre venivo tratto fuori dall'acqua io vedevo sul mio capo la melote
dell'abate, e pensavo fosse lui a liberarmi dalle onde -.

Mauro che corre sulle acque è già il tipo compiuto di quei perfetti obbedienti
«che non stimano a sé niente più caro di Cristo» e traduce mirabilmente in
questo quadretto sublacense, fino ai minimi particolari, la dottrina
dell'obbedienza alla quale Benedetto informava l'anima dei suoi figli prima
ancora di fissarla nel quinto capitolo della sua Regola, quella stessa Regola
che si piegherà a indulgenze materne verso i gruppi vivaci di fanciulli che
metteranno una nota di gaiezza nella vita austera del chiostro, e dei quali il
piccolo Placido, seguito con vigile amore dal cuore del Santo, rimane
l'esponente pieno di freschezza e di candore.

C'era evidentemente qualche elemento capace di imporsi, in questa


concezione monastica di Benedetto, che faceva le sue prove a Subiaco, e
tendeva a impegnare in una intelligente glorificazione di Dio l'uomo tutto
intero, facendo di tutta la sua attività un atto di culto. Se così non fosse stato,
che assurda idea avrebbe indotto dei genitori patrizi a relegare i loro figliuoli
tra le gole dei monti Simbruini, dato che di monasteri davvero non c'era
penuria, e se molti erano caduti nel rilassamento, alcuni però davano bagliori
di autentica santità?

Questa preferenza data a Subiaco fa pensare a un'idea grande che si viene


affermando, e, poiché risponde a un reale bisogno della Chiesa e delle anime,
ha la silenziosa

100

potenza di attrazione che è caratteristica delle opere di Dio.

Su tutta la sua grande famiglia il Santo vigila, abbracciando ognuno dei figli
nella sua alta paternità, attiva e presente sempre, perché la loro vita non si
cristallizzi in forme esteriori, ma conservi e intensifichi il moto ascensionale
che deve condurli a quell'ideale di perfetta carità che ha determinato la loro
rinunzia a ogni bene inferiore. E se un'anima rallenta il passo, o è vinta nella
lotta d'ogni giorno, egli è pronto a sventare l'insidia del nemico,
riconducendola, con decisa energia, se è necessario, entro gli argini di quella
disciplina esteriore che è custodia necessaria al retto sviluppo della vita dello
spirito.

C'era, in uno dei dodici monasteri sublacensi - è difficile poter determinare


con sufficiente probabilità se in quello di Sant'Angelo o in quello di San
Michele Arcangelo - un monaco dal temperamento irrequieto, che non
riusciva a star fermo, e per questo bastava che, terminata la salmodia, i suoi
confratelli si raccogliessero nell'orazione perché a lui quell'immobilità e quel
silenzio provocassero nella mente il germogliare di mille idee.

Niente di male, s'intende: ora lo assaliva la preoccupazione assillante di un


lavoro rimasto sospeso ed esposto quindi chissà mai a quali inconvenienti, ora
ripensava a una dimenticanza alla quale rimediare senza indugio, ora gli
accendeva la fantasia una bella sorpresa da fare ai confratelli, e così,
immancabilmente, ogni mattina, appena dato il segnale dell'orazione, egli
scivolava inosservato fuori dell'oratorio, forse persuaso di obbedire a una vera
necessità.

Il suo abate, Pompeiano, osservando l'insistente ripetersi di tale abuso,


cominciò a esserne preoccupato, e, chiamatolo da parte, cercava di indurlo a
riflettere sulla sconvenienza e sul pericolo che l'anima sua poteva trovare in
quella abituale trasgressione alla disciplina che aveva come risultato
immediato di lasciarlo privo del così necessario contatto con Dio nella
preghiera

101

personale: tutto inutile. Buone ragioni, rimproveri, castighi, si dimostrarono


volta a volta inefficacia produrre l'effetto desiderato. Non sapendo più allora a
qual mezzo ricorrere, si attaccò all'unica speranza che ancora gli rimanesse e
condusse il colpevole da Benedetto; lui almeno sarebbe riuscito a rimetterlo
sulla buona strada.

Com'era da aspettarsi, il girandolone dissipato si prese una buona lavata di


capo dall'uomo di Dio, che era intransigente quando si trattava di combattere
ogni forma di leggerezza colpevole o di superficialità, e, ancora sotto
l'impressione del suo sguardo severo, se ne tornò mogio mogio al monastero
seguendo Pompeiano, tutto soddisfatto in cuor suo per la speranza che questa
volta la correzione avrebbe dato i suoi frutti. Macché! L'effetto fu di breve
durata.

Passati due giorni appena, le cose erano tornate al punto di partenza, poiché il
monaco riprendeva le antiche abitudini, scovando sempre nuovi pretesti per
assentarsi dall'orazione, mentre l'abate, tra scoraggiato e irritato, non
riuscendo a mettere riparo a quel disordine, tornava a chiedere aiuto al Santo.

- Verrò io, - disse deciso Benedetto - e lo curerò da me -.

Preso con sé Mauro, raggiunse il monastero e, seguendo la comunità nell'


oratorio senza perdere di vista l'incorreggibile, si accorse che, conclusa la
salmodia, appena i monaci si erano disposti all'orazione, un negretto
minuscolo si avvicinava a quel povero fratello, e, tirandolo per un lembo della
tonaca, lo trascinava fuori senza che egli opponesse resistenza. L'uomo di Dio
si volse allora a Mauro e a Pompeiano, silenziosi al suo fianco, e accennando
al monaco che, come se niente fosse, aveva raggiunto la porta, disse sottovoce:

- Non vedete chi è che trascina fuori questo monaco? -

Quelli però non vedevano nulla, il loro occhio non aveva ancora ricevuto la
potenza di percepire le invisibili

102
realtà del mondo degli spiriti, e per questo il Padre suggerì:

- Preghiamo, affinché anche voi possiate vedere chi è colui che questo monaco
segue -.

Per due giorni interi insistettero tutti e tre nella preghiera, ma solo Mauro
ebbe la grazia di poter vedere, nella sua espressione sensibile, il fondo vero di
quella tentazione che sembrava impossibile a vincersi.

Bisognava ora correre ai ripari, e al mattino seguente, quando, come al solito,


il monaco del quale il demonio si faceva zimbello scivolò fuori dell'oratorio,
Benedetto, che lo aveva seguito, in pochi passi lo raggiunse all'aperto, e lo
bastonò di santa ragione per quella sua stoltezza di cuore per la quale con
tanta facilità cedeva alla seduzione del nemico, anziché resistergli, forte nella
sua fedeltà al Signore.

L'effetto di quella lezione fu prodigioso: come se si fosse rotto un incanto, il


monaco da quel giorno in poi fu fedelissimo all'orazione, al suo posto, tra i
fratelli.

Pochi episodi, appena tratteggiati da san Gregorio, ma da essi già traspare


nelle sue linee fondamentali l'ossatura della Regola. Il ritmo che alterna
armoniosamente preghiera e lavoro nell'esercizio generoso delle virtù
cristiane e monastiche, è segnato e non avrà che da arricchirsi di nuove
esperienze, nel lungo contatto con le anime, per aprire a generazioni
innumerevoli di monaci la via della santità che sola avrà la potenza di
rinnovare un mondo in apparenza votato a un irrimediabile sfacelo.

103

VI. L’ESODO

La colonia monastica organizzata da Benedetto a Subiaco, nucleo operoso di


intensa attività spirituale, non tardò a manifestare un singolare potere di
attrazione. Anche i più lontani, i distratti, i superficiali, forse senza ancora
approfondirne il senso vero, erano indotti a riflettere sul fenomeno che era lì,
aperto allo sguardo di tutti, e che assumeva proporzioni sempre più vaste.

Non si poteva sfuggire alla certezza che esisteva una forza soprannaturale,
capace di strappare violentemente al mondo e di trasformare quegli uomini
che, fino a ieri, erano stati come tutti, che con gli altri avevano diviso la stessa
meschina vita ingombra di interessi terreni, e che ora, venissero dal patriziato
o dalla più umile plebe, accomunati nell'ideale e resi fratelli dalla carità, erano
impegnati nella rude battaglia per la liberazione totale della creatura nuova
nata dalla grazia, dalle pastoie del vecchio uomo di peccato, impigliato nelle
sue passioni.

Per i frequentatori dei monasteri sublacensi il Vangelo non sonava più come
qualche cosa di astratto, irrimediabilmente lontano dalla vita, ma appariva
attuato in tutta la sua santità dai monaci di Benedetto

104

che, come lui, «avevano creduto all'Amore» e si erano impegnati a riprodurre


in sé, nella maniera più perfetta, l'immagine del Cristo povero, umile,
obbediente, fatto uomo per offrirsi a noi Via per la Vita.

Quella muta lezione, che senza strepito di parole affermava la veracità sempre
nuova delle divine promesse, esperimento vissuto delle beatitudini
evangeliche, si imponeva alle anime.

La buona gente dei dintorni non era più trascinata all'ammirazione di un


uomo solo, dotato di doni e di virtù fuori dell'ordinario da venerarsi come un
santo, ma sempre nella categoria delle eccezioni, ora molti potevano
considerare nella luce di questa vita nuova i propri figli, i propri fratelli, nati e
cresciuti sotto i loro occhi, senza indizi che facessero presagire niente di
speciale, e che un giorno, gioiosamente, con semplicità, avevano lasciato ogni
cosa per seguire la chiamata del Signore.

Il pensiero di Dio e della realtà delle cose celesti si imponeva proprio


malgrado, in quella atmosfera impregnata di santità, e, attraverso i necessari
contatti, nelle più banali contingenze, nelle conversazioni, insensibilmente
filtrava un po' della luce, del calore, della pace anche, di cui erano ricchi i
monaci, e ne veniva tutto un promettente fermento di fervore religioso.

Dagli anni ormai lontani della segregazione nello speco, il pellegrinaggio delle
anime più bisognose verso l'uomo di Dio non aveva mai conosciuto soste, ed
egli non si era mai stancato di accogliere tutti, senza deludere la fiducia che
induceva a cercare in lui rimedio e conforto per ogni pena del corpo o dello
spirito, rimandando i fratelli sempre più illuminati, consolati di speranze
eterne.

Molti, sotto l'influsso di quella parola, allo spettacolo di un lavoro che non era
più incentivo a maledire chi ne imponesse il peso opprimente, ma mezzo di
redenzione e di elevazione, compiuto in spirito di penitenza e di adorazione,
avevano l'intuizione che solo

105

sottoponendosi a quella disciplina la vita avrebbe acquistato il suo senso


pieno, e chiedevano, sempre più numerosi, di abbracciarla integralmente,
mentre altri tentavano di trasfonderne lo spirito nelle loro quotidiane
occupazioni.

La paternità di Benedetto si estendeva su tutte quelle anime che, vicine o


lontane, ricorrevano a lui e da lui imparavano a purificare il loro sguardo
spesso offuscato dalla polvere del mondo, e sentivano, dopo essere state dal
Santo, di essere divenute più buone.

Tutto questo movimento spirituale non poteva passare inosservato al prete


titolare della chiesa vicina, Fiorenzo, che, vedendo sempre più deserte le sue
funzioni per quel correre dei fedeli presso i monaci, cominciò ad esserne
seriamente infastidito.

In fondo ne andava del suo prestigio: non era lui il padre autentico di quelle
anime affidate alle sue cure, e che ora gli sfuggivano di mano come pecore
matte, senza dar peso ai suoi richiami? Forse che Benedetto annunziava un
Vangelo diverso da quello che per tanti anni egli aveva insegnato al popolo? E
che senso aveva quella infatuazione per degli esaltati che, riscaldando il
cervello degli ignoranti, gli sottraevano il concorso dei fedeli?

E poi, ecco, non poteva tollerare di venir così posposto a Benedetto. E


cominciò una lotta sorda di frizzi, di insinuazioni maligne, di aperta
denigrazione, per tentare di far deviare verso la sua chiesa quella corrente di
simpatie che andava continuamente ingrossando e si manteneva
ostinatamente orientata verso i monasteri.

Tentò tutte le vie, ma per quanto si adoperasse con le lusinghe, con le


minacce, con lo sforzo di scoraggiare le vocazioni, il risultato fu esattamente
l'opposto di quello sperato, poiché quel poco di stima che il popolo ancora gli
conservava, in questa ignobile campagna andò perdendosi del tutto. Cresceva
al contrario la venerazione per Benedetto e per i suoi figli e la fama della loro
santità, spargendosi lontano, moltiplicava le

106
anime che venivano a supplicare di essere ammesse sotto la guida dell'uomo
di Dio.

Sarebbe stato assili più vantaggioso per Fiorenzo partecipare a quel plebiscito
di generale ammirazione abbracciando anche lui una vita santa, tale da
renderlo esempio e tipo di santità pastorale agli occhi del suo popolo che
dimostrava una così acuta percezione dei valori spirituali; ma di rinunziare al
suo comodo tenore di vita prete Fiorenzo non aveva la minima intenzione, e
continuava a struggersi d'invidia nel vedersi ormai quasi completamente
messo da parte.

Il rancore verso Benedetto degenerava insensibilmente in odio. La sola idea di


quell'uomo lì, nelle vicinanze, che attirava la venerazione di tutti, gli divenne
insopportabile, tanto da trascinarlo a una conclusione che gli appariva ormai
l'unica possibile: sbarazzarsene, trovare il modo di non avere più l'incubo
opprimente di quella vicinanza.

Pensa e ripensa, si accorse ben presto che la 'cosa non era facile, e presentava
dei rischi gravi, ma finalmente alla sua povera anima accecata dall'odio si
presentò suggestiva la soluzione radicale, che avrebbe senza strepito risolto
tutti i problemi: sopprimerlo, avvelenandolo.

Già i monaci di Vicovaro erano, molti anni prima, giunti alla stessa
conclusione, ma sull'uomo di Dio vegliava il Signore.

Un giorno Fiorenzo, simulando insoliti sentimenti di carità fraterna, mandò a


Benedetto un pane come eulogia.

L'uso di mandare, in segno di particolare benevolenza, il pane benedetto a


qualche persona con la quale ci fossero particolari vincoli d'affetto, era
comune, quindi la cosa, a voler prescindere dai rapporti palesemente ostili tra
Fiorenzo e i monaci, in sé non aveva niente di strano.

Il Santo accolse ringraziando quel segno di benedizione, ma seppe subito che


il pane era avvelenato,

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e quando, secondo il solito, giunta l'ora della refezione, un corvo della vicina
foresta gli volò vicino per ricevere come ogni giorno la sua porzione di pane,
egli, gettandogli davanti quello poco prima ricevuto dal prete sciagurato, gli
ordinò:
- In nome del Signore Gesù Cristo, prendi questo pane e gettalo in un luogo
tale che nessun uomo lo possa trovare. -

Ma avvenne un fenomeno strano: al comando del Santo il suo piccolo cliente


pennuto con le ali tese e col becco spalancato cominciò a volteggiare
gracchiando intorno al pane avvelenato, come se una forza misteriosa,
respingendolo, gli impedisse di afferrarlo, tanto che Benedetto dovette
insistere per la seconda e per la terza volta:

- Portalo via, portalo via tranquillo, e gettalo in un luogo dove non sia
possibile trovarlo. -

Allora finalmente, dopo aver esitato a lungo, il corvo lo prese e, sollevatolo, lo


portò via fuggendo lontano, tanto lontano che fu di ritorno solo dopo tre ore,
quando venne a beccare dalle mani del servo di Dio la sua ben meritata
razione di cibo.

Il piano di Fiorenzo era fallito, ma l'evidente intervento miracoloso del


Signore non valse a far penetrare un raggio di luce in quell'anima devastata
dall'odio, e che era ormai decisa a servirsi di tutti i mezzi pur di raggiungere il
suo intento.

Visto che non gli era riuscito di togliere la vita a Benedetto, maturò un piano
diabolico, che se, come sperava, avesse raggiunto lo scopo, avrebbe ferito al
cuore l'opera del suo presunto rivale, gettando il discredito una volta per
sempre su quei fanatici abitatori della montagna, e in primo luogo, così
almeno egli pensava, su colui che ne era il Padre e che tutti li sosteneva con la
sua forza morale.

Messosi all'opera, gli riuscì un giorno di far penetrare di soppiatto nell'orto


del monastero di San Clemente, sette sfacciate ragazze che, tenendosi per
mano,

108

cominciarono a ballare oscenamente proprio sotto lo sguardo dei monaci; la


danza indegna durò a lungo, col premeditato disegno di accendere di passione
gli animi di coloro che incautamente vi avessero fermato lo sguardo.

Stando nel monastero il Santo si rese conto di quanto accadeva, e non tardò a
scoprire chi avesse ordito quella trama malvagia che mirava direttamente alla
rovina delle anime. Ne fu angosciato, e temette per i suoi figli le imprevedibili
conseguenze di quella persecuzione assurda.
La sofferenza più viva gli veniva al pensiero del prete disgraziato, collocato
cosi, in alto dalla divina elezione, il quale avrebbe dovuto essere luce che
illumina in mezzo ai fedeli, e trascinava invece nel fango la sua anima
macchiandosi della colpa orrenda di distogliere da Dio, inducendole alla
colpa, giovinezze consacrate, la cui caduta sarebbe stata un disonore per la
Chiesa e motivo di scandalo, forse irreparabile, per i semplici fedeli.

Resistere ancora di fronte a Fiorenzo, per Benedetto, forte della sua virtù e dei
suoi diritti, equivaleva a ingaggiare una lotta poco edificante, ed esporre i suoi
discepoli a ogni sorta di pericoli, poiché non poteva sfuggirgli che l'odio del
prete si accaniva soprattutto contro di lui, mentre c'era da aspettarsi ogni
sorpresa da un individuo giunto a tal punto di esasperazione.

D'altra parte, quella esplosione di odio satanico si verificava proprio in un


momento in cui gravi perplessità dovevano tenere sospesa l'anima del Santo.
A Subiaco i monaci erano ormai più di centocinquanta, e per la sua presenza
continuavano ad affluire sempre nuove reclute, e in tal numero da giustificare
ben legittime preoccupazioni per il mantenimento di una così vasta famiglia,
date le limitate possibilità offerte dall'ubicazione dei monasteri.

Doveva apparire logica e naturale l'idea di fondare un altro monastero e dargli


ampio sviluppo, anziché

109

costringere in una vita troppo densa di uomini quelli già esistenti e per i quali
appariva impossibile una più adeguata espansione territoriale.

Né, inoltre, possiamo trascurare il fatto che, in più di venticinque anni da che
aveva avuto principio l'organizzazione sublacense, il Santo aveva maturato le
sue esperienze, rendendosi conto dei miglioramenti desiderabili e degli
inconvenienti che sarebbe stato bene eliminare, e soprattutto, aveva avuto
modo di studiare quali avrebbero potuto essere le condizioni ambientali più
propizie a favorire il massimo rendimento spirituale delle anime.

Poté così lentamente nel suo spirito assumere tratti precisi e ben definiti
l'ideale sempre più chiaro dell'unico grande monastero, capace di accogliere
tutti i monaci, uniti sotto la direzione dell'abate per formare una robusta e
compatta compagine familiare, capace di provvedere ai molteplici bisogni
dello spirito, e alle stesse legittime necessità materiali della comunità.
Se ora la persecuzione di prete Fiorenzo fosse· un segno di quella divina
volontà cercata con umile insistenza, una indicazione provvidenziale per
battere nuove vie e condurre la sua opera al grado di perfezione già intravisto?

Davanti a lui si ergeva la montagna da più di vent'anni santificata dalla


preghiera e dal lavoro dei suoi figli; in riva al lago, San Clemente, il centro
della colonia monastica, dove al cuore del Padre affluivano gioie, lotte,
speranze, e di dove rifluiva una sempre rinnovata corrente di interiorità;
c'erano i luoghi cari ai quali la storia della sua vocazione era intimamente
legata: lo speco, il roveto della tentazione, la grotta dove, dopo i tre anni di
solitudine, aveva ripreso contatto col mondo, cominciando a tracciare agli
umili pastori dei dintorni la via della vita. Conosceva tutti i segreti del monte,
gli orizzonti familiari attraverso i quali il suo sguardo si era spinto lontano,
cercando di entrare in contatto con i cieli.

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Eppure l'allontanarsi di là, abbandonando quei luoghi cari, gli appariva ora
come qualche cosa di ineluttabile. L'odio del prete aveva semplicemente ai
suoi occhi valore di mezzo strumentale, e se, in apparenza, Benedetto poteva
far pensare che cedeva all'ingiustizia per evitare nuovi pericoli e non mettere
a rischio di perdersi l'anima dei suoi monaci, in realtà, al disopra delle
contingenze umane, egli sapeva di obbedire a Dio.

Caratteristico, sotto questo aspetto, il fatto che il monaco Marco,


contemporaneo del Santo e suo discepolo a Cassino, non ricorda affatto
Fiorenzo con le sue male arti, ma si limita a parlare di un avvertimento celeste
che avrebbe determinato l'esodo da Subiaco. Nella vita di Benedetto i
protagonisti rimarranno sempre Dio e lui; gli altri, gli uomini, gli eventi,
passano e si dileguano, senza che egli quasi li avverta. Bisognava, intanto,
concretare praticamente la grande decisione.

Ancora una volta siamo privi di informazioni che sarebbero per noi preziose, e
dobbiamo ricorrere a nuove ipotesi che, per quanto appaiono non lontane
dalla realtà, non possono tuttavia aver valore di certezza.

La tranquilla indipendenza con la quale Benedetto, per non scostarsi dal


racconto gregoriano, opera a Montecassino, ci induce necessariamente a
pensare che egli dovesse sentirsi sicuro, in linea di diritto, di agire con
perfetta legittimità, e da questo risaliamo col pensiero a quei «nobili e
religiosi uomini» che, nella loro ammirazione per il Santo, non esitavano ad
affidargli i loro figliuoli, e, a ben più forte ragione, possiamo pensare, le loro
sostanze, perché egli se ne servisse a gloria di Dio.

La tradizione ha voluto che, tra le altre donazioni, il patrizio Tertullo, padre di


Placido, abbia offerto ai monaci anche un suo possedimento nella Campania,
e precisamente il monte sopra Cassino.

Sia in realtà stato lui o un altro - il nome del

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donatore dice poco - certo questa tradizione deve avere un fondo di verità, se
il pensiero di Benedetto si fermò su quella località a preferenza di altre.

Sulla vetta del monte, nell'acropoli, era ancora in piena efficienza il culto delle
divinità pagane, e Giove divideva con Apollo gli onori che la folla idolatra dei
dintorni non lesinava loro davvero.

La salda costruzione cinta di mura e ben difesa dovette apparire quanto mai
adatta all'uomo di Dio per essere trasformata in un grande e comodo
monastero, e le leggi vigenti rendevano non solo possibile, ma relativamente
facile la cessione da parte dello Stato dei luoghi di culto pagani per essere
destinati a templi cristiani. Lassù molti monaci avrebbero potuto adunarsi,
traendo possibilità di sostentamento e di lavoro dalla fertile campagna
circostante, e un'altra casa di Dio sarebbe sorta così, dando origine a un
nuovo centro di vita spirituale.

Come già nella valle dell'Aniene, l'esempio, irraggiando, avrebbe influito su


altre anime, conquistandole a un ideale di perfezione, o anche semplicemente
educandole a un'esistenza informata a schietti principi cristiani.

Il disegno appariva ora nitido all'anima di Benedetto, e senza più esitare,


certo della sua via, egli si dette con impegno all'attuazione di questo suo
definitivo progetto di fondazione monastica. Compiute le formalità legali alla
Corte di Ravenna, e presi a Roma, dove non era ormai uno sconosciuto, gli
opportuni accordi con le autorità ecclesiastiche, non dovette durare fatica a
ottenere pieni poteri spirituali e temporali per la nuova missione alla quale si
sapeva destinato dalla Provvidenza.

Riordinati i dodici monasteri sublacensi sotto la direzione di superiori che ne


garantissero la continuazione del tranquillo ritmo di vita, sul finire
dell'inverno del 529, senza rumore, prese con sé pochi monaci, lasciò il paese
che aveva visto fiorire la sua santità e
112

dove le anime avevano così generosamente risposto all'invito della grazia.

Il monaco Marco ci parla di angeli che accompagnarono la piccola comitiva


segnandole il cammino, del pianto delle selve, della fedele compagnia dei
corvi che non vollero staccarsi dal Santo. Traduzione lirica di un dolore che
doveva stringere i cuori pur sottomessi nell'accettare la divina volontà.

La notizia di quella partenza non tardò a giungere agli orecchi di prete


Fiorenzo e non è da dire se questi fu trionfante per la vittoria attribuita senza
dubbio alle sue industrie sagaci, e che, in ogni modo, lo liberava dalla
presenza di un rivale detestato, lasciandogli libero il terreno per ricondurre
all' ovile il suo gregge.

Ma, non si sa come sia andata, mentre sulla terrazza della propria casa
manifestava senza reticenze la sua soddisfazione per sentirsi finalmente
sciolto dall'incubo di quella vicinanza insopportabile, e forse già elaborava in
cuor suo dei piani ingegnosi per riconquistarsi il favore del popolo, il
pavimento crollò fragorosamente, travolgendolo fra le macerie dalle quali
rimase schiacciato.

Niente poteva lasciar sospettare o spiegare il disastro, e poiché i sentimenti


del disgraziato erano noti a tutti, quella improvvisa rovina colpi
profondamente quanti ne vennero a conoscenza, senza poter evitare
l'impressione che si trattasse di un evidente intervento della giustizia di Dio.

Anche i monaci la pensarono così; e ne dedussero, con una logica molto


affrettata, che una volta scomparso il nemico, niente più si opponesse al
ritorno del Padre tra loro, anzi, senza perder tempo, eccitati dalla gioia di
questa luminosa speranza, spedirono subito il monaco Mauro con l'incarico di
raggiungerlo lungo il viaggio e di indurlo, ormai che Fiorenzo era spacciato, a
tornare su suoi passi. Loro attendevano, impazienti.

Benedetto, col piccolo gruppo dei discepoli prescelti come compagni di


viaggio, non si era allontanato da

113

Subiaco che dieci miglia di cammino, quando Mauro, che aveva divorato la
strada, raggiungendolo, gli comunicò con gioia impetuosa la fine sciagurata di
Fiorenzo e le speranze di tutti.
- Torna, torna indietro, poiché il prete che ti perseguitava è morto! -

E sperava forse di cogliere un moto di soddisfazione sul viso del Maestro, al


quale la gelosia assurda di quel disgraziato era stata motivo di tanta
sofferenza; sarebbe stato umano, del resto. Ma Benedetto viveva troppo in
alto, ed era troppo preoccupato degli interessi di Dio, per fermarsi a gustare
certe meschine soddisfazioni. Sentì piuttosto, attraverso le parole di Mauro,
con pena viva, che un'anima, per quella morte così improvvisa da lasciar poco
adito alla speranza di un ravvedimento, si era forse perduta per tutta
l'eternità, e non meno dolorosamente costatò che un suo figliuolo, uno di
quelli ai quali aveva cercato di inculcare con tutto il suo amore la legge della
carità secondo il precetto di Cristo, anziché affliggersi per quella sventura, con
leggerezza invece ne godeva.

Di fronte a così poco zelo per la gloria di Dio, a quell'assenza di compassione


per la sorte tanto dubbia dell'infelice Fiorenzo, il Santo non poté trattenersi
dal manifestare il suo dolore in termini che rasentavano lo sdegno, e rimandò
il messaggero poco fortunato, non con la sospirata promessa del ritorno, ma
con una salutare penitenza destinata a incidergli nell'anima, indelebile, la
lezione evangelica del generoso perdono verso i nemici.

A tornare tra i suoi, non pensò nemmeno. Partendo da Subiaco egli intendeva
semplicemente obbedire al Signore, riconoscendo nelle difficoltà che la sua
presenza aveva creato un invito provvidenziale al quale si era arreso con cuore
docile. Non aveva ceduto alla violenza del suo persecutore per viltà o per
stanchezza; nessuna forza umana avrebbe potuto allontanarlo dalla valle
dell'Aniene se avesse avuto la certezza che quello

114

era ancora il suo posto, la sua missione, e non ritornò perché la sua partenza
non era una fuga, ma un cosciente cammino di conquista verso la nuova mèta
segnata da Dio.

La tradizione ha voluto rintracciare le tappe principali del viaggio di


Benedetto verso la Campania, ricostruendone l'itinerario che, superato
l'altipiano di Arcinazzo, lo avrebbe condotto a Torre, dove un monastero di
monache Benedettine doveva più tardi testimoniare della graziosa leggenda la
quale racconta che il bastone del Santo, da lui conficcato nel suolo, vi mise
radici e crebbe in un grande albero dalla ricca fioritura.
Dopo Torre, Guercino, nel territorio di Frosinone: il paese ne rivendica la
gloria conservando a san Benedetto una devozione ardente, alimentata nel
volgere dei secoli dai due monasteri, maschile e femminile, che ivi erano stati
fondati. Seguendo poi il corso del fiume Cosa, la piccola comitiva sarebbe
giunta in vista di Alatri, senza entrare in città, ma dirigendosi verso il
monastero di San Sebastiano, che ne distava appena qualche chilometro, e
dove ricevette larga ospitalità dal santo diacono Servando allora abate, che
una profonda amicizia terrà poi avvinto a Benedetto.

Di qui, oltrepassata Veroli e raggiunta la valle del Liri, non restava che
imboccare la via Latina, proseguendo verso la mèta del viaggio, nel cuore di
quella fertile Campania che si offriva al suo sguardo ricca di promesse, fino a
raggiungere il monte dominatore aperto con compiacenza ad accogliere sul
suo fianco l'antica Casinum.

La città aveva avuto i suoi giorni di splendore, e vantava origini remote, ma,
all'arrivo della minuscola colonia monastica, era ridotta nelle condizioni di
estrema decadenza alla quale l'avevano portata le devastazioni barbariche di
Genserico e di Ricimero. I barbari non erano riusciti a distruggere tutti i
monumenti,

115

ma avevano talmente terrorizzato le popolazioni, che la vita non vi aveva più


ripreso il suo svolgimento di intensa e operosa attività, rimanendo quasi
paralizzata.

Non era in ogni modo della città che Benedetto si preoccupava, dirigendosi
verso la sommità del monte, chiusa dalla doppia cinta delle mura ciclopiche
strette a proteggere i templi degli dèi e la fortezza romana che vi si era
annidata.

Per raggiungere l'acropoli bisognava inerpicarsi sulla ripida mulattiera la


quale dopo circa tre miglia conduceva, attraverso la porta aperta nella torre
centrale, al tempio di Giove che, secondo la testimonianza di Marco poeta,
ospitava compiacentemente un po' tutte le divinità dell'Olimpo, e all'altro di
Apollo, ricordato da san Gregorio, e circondato da boschetti sacri, dove, tra i
mirti e i lauri, anche la dea Venere aveva i suoi adoratori.

Dall'alto dello spiazzo si scorgeva un orizzonte ben differente da quello di


Subiaco: qui non valli profonde incassate tra le montagne a ridosso, in fondo
alle quali le acque avevano nel loro impeto qualche cosa di violento, né l'irta
barriera di rocce con le quali la natura stessa sembrava cingere a difesa il
solitario rifugio dei monaci.

Il paesaggio, dalla vetta di Montecassino, era tutt'altro, e l'occhio poteva


spaziare lontano, attraverso la luminosità del cielo, e raggiungere lo
sconfinato orizzonte, riposandosi nell'intreccio armonioso di tutte le tonalità
del verde e del marrone che vestivano di letizia una tra le più fertili terre
d'Italia, nella vallata che i fiumi irrigavano scorrendo placidi, mentre il nastro
d'argento delle loro acque si snodava tranquillo tra i campi lavorati.

In fondo, lontano, l'Appennino con i suoi ultimi contrafforti raggiungeva le


montagne d'Abruzzo, ma sulla pianura la mole poderosa di Montecassino,
non articolata con essi, si ergeva dominatrice, e la sua acropoli, come la
posizione più avanzata di un itinerario ideale

116

verso il cielo, sembrava aprirsi ad abbracciare il mondo.

Prima di iniziare la sua missione Benedetto volle per la sua anima un più
profondo e prolungato contatto con Dio nella solitudine. Era il principio della
Quaresima e la tradizione monastica non era estranea all'usanza di una
segregazione assoluta, nella quale lo spirito, rinnovandosi in un lavacro di
lacrime e di penitenza purificatrice, potesse meglio disporsi ad attendere «con
gioia di Spirito Santo, la Pasqua». Tanto più questa Pasqua, che per l'uomo di
Dio rappresentava ed era «passaggio» ad una nuova fase di vita che avrebbe
dovuto condurre alla perfezione l'opera sua, e consumare la sua santificazione
nella carità.

Entrò sicuro nell'acropoli, senza che nessuna testimonianza lasci supporre


difficoltà alcuna, prendendone pacificamente possesso con quei pochi
discepoli che lo avevano seguìto e che certo con lui si disponevano a passare la
Quaresima in solitudine, estranei ancora a quelle popolazioni, alla loro stessa
missione, con l'anima aperta all'azione divina.

A Subiaco intanto la buona gente campagnuola non aveva tardato a rendersi


conto della partenza del Santo, e nessuno si mostrava disposto ad accettarne
inerte la perdita. Folle desolate, affrontando il lungo cammino, ricalcate le sue
tappe riuscirono a raggiungerlo a Cassino, supplicandolo di voler tornare tra
loro.
La devozione di quella gente umile che stringeva di un assedio insistente il
cuore di Benedetto non dovette lasciarlo indifferente, se il monaco Marco,
dandoci relazione del fatto, ne chiama a testimone il Santo stesso, e ci lascia
così supporre di averne avuto notizia dalla sua stessa bocca. Ma egli non cede,
non può cedere, perché la sua partenza è stata un atto di obbedienza a Dio che
lo manda a dissodare un altro tratto della sua vigna, dove il terreno è ancora
incolto e tutto è da fare. Come potrebbe obbedire al proprio cuore, alle più
insinuanti persuasioni umane, anziché alla voce del suo Signore?

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E rimandati i suoi devoti inconsolabili, vinta questa nuova battaglia, forse una
delle più delicate, temprato nel più profondo contatto con Cristo, celebra la
sua prima Pasqua cassinese, e più che mai essa sarà per lui in quell'anno
«dies in qua reflorent omnia» il giorno nel quale ogni cosa torna a fiorire.

Era l'8 aprile del 529. Benedetto aveva raggiunto la pienezza della sua virilità,
e una maturità spirituale che ne faceva l'operaio fedele, pronto ad affrontare
l'ultima fase della sua missione terrena.

118

VII. Lotta contro il Maligno

L'opera di ricostruzione materiale e spirituale che si delineava al pensiero di


Benedetto, e alla quale egli si disponeva a dedicarsi, era imponente.

Appare strano il dover ammettere che, a poca distanza da Roma, nel secolo
VI, urgesse ancora la preoccupazione della lotta contro il paganesimo, eppure,
benché Cassino si vantasse di aver ricevuto direttamente da san Pietro la
predicazione della fede, e non più di quaranta anni avanti, sul finire del V
secolo, fosse governata dal santo vescovo Severo, sta di fatto che, quando san
Benedetto giunse in quella regione, il culto degli idoli, di nuovo vigoreggiante
nel marasma morale provocato dalle invasioni barbariche, vi era in piena
efficienza, e turbe di popolo, attraverso l'erta scarpata, raggiungevano la
sommità del monte sovrastante la città per offrirvi sacrifici nei templi degli
dèi.

L'ignoranza, un superstizioso terrore della divinità, sopravvivenze latenti di


un paganesimo non del tutto sopraffatto, e forse più che altro l'assenza di una
robusta e illuminata fede cristiana, capace di resistere al cozzo delle sventure
senza nome causate dalla marea barbarica che passava sull'Italia portando la
desolazione

119

e la morte, tenevano le anime schiave nell'idolatria e moltiplicavano i


frequentatori assidui dei templi di Giove e di Apollo, non lasciando mai
deserti di devoti i boschi sacri che li cingevano di una verdeggiante corona.

Tutto ci lascia supporre che il fenomeno non abbia sorpreso Benedetto, siamo
anzi indotti a pensare che lo abbia determinato a dare la preferenza a quel
luogo, soprattutto se, conforme alla tradizione, si trattava di terre divenute
per donazione dominio monastico. In ogni caso era evidente la necessità
preliminare di distruggere quel focolare d'empietà per sostituirvi la casa di
Dio, alta sul monte, segno di raduno per gli uomini smarriti, centro
irradiatore di luce e di verità per tutte le anime.

Abbattuto l'idolo e demolitone l'altare, il tempio di Apollo poté, senza troppa


fatica, essere trasformato in una chiesa decorosa che, dedicata a San Martino,
doveva servire di oratorio monastico, mentre più in alto, proprio sulla
sommità del monte, sul luogo dove era stata l'ara del dio, non tardò a sorgere
un altro piccolo oratorio, dedicato a San Giovanni Battista. Anche in questo il
Santo si mantenne fedele all'uso della Chiesa che, senza niente distruggere,
sostituiva alle superstizioni pagane il culto del vero Dio, non mortificando, ma
illuminando ed elevando il sentimento religioso del popolo.

Alle folle che continuavano ad affluire per compiere le consuete pratiche


idolatriche, Benedetto, vincendo la loro sorpresa e forse l'irritazione per tutte
quelle novità, annunziava il Vangelo, e con la stessa potenza di persuasione
con la quale aveva attratto al bene i pastori della Val d'Aniene, ora insinuava
la luce in quelle anime semplici, facili per temperamento all'entusiasmo
religioso, così che molti, rifacendo la strada verso il piano, se ne partivano col
cuore rinnovato.

Era quello il dono che l'uomo di Dio offriva a chiunque, per un qualsiasi
motivo, venisse a contatto con la sua famiglia monastica: una comunicazione
di verità, tranquilla come il dilagare incontenibile e poderoso di un corso
d'acqua che gli argini non valgono più a costringere.

120
Ognuno, partendo, portava in sé una nuova ricchezza che, a sua volta, quasi
senza avvedersene, comunicava ad altri, e attraverso questa silenziosa
irradiazione il bene arrivava lontano, disponeva i cuori ad accogliere il regno
di Cristo. Ad affrettarne l'avvento sradicando fin le ultime tracce di
paganesimo, Benedetto stesso evangelizzava instancabilmente la zona
circostante, perché ovunque fosse un villaggio, un nucleo per quanto esiguo di
popolazione, ivi le anime fossero illuminate sulla dignità e la grandezza della
vita cristiana e rendessero a Dio il «rationabile obsequium» che solo è degno
di Lui.

Egli lavorava ad accendere sulla vetta del Cassino un gran rogo di carità, che
fosse sacrificio gradito a Dio, certo, ma tale nel tempo stesso da comunicare
luce e calore a tutti i fedeli ai quali potesse giungere l'influsso.

Con molta probabilità, più che contro un paganesimo convinto e tenace, il


Santo dovette combattere contro quelle ibride forme, così facili a riscontrarsi
tra il popolo più ignorante che, senza nessuna ripugnanza, sa confondere
superstizione e religione, ed è incline a propendere verso le espressioni più
tangibili e sensibili, e che, in quanto tali, gli appaiono più capaci di appagare
la sua devozione. Opera paziente di persuasione condotta di pari passo agli
importanti lavori di adattamento dell'acropoli a dimora monastica, e che,
anche essi, non dovettero essere né troppo rapidi né troppo semplici.

Attraverso la lunga esperienza sublacense, Benedetto aveva costruito


idealmente il progetto di un unico monastero, di tale vastità da poter
accogliere tutti i monaci senza imporre frazionamenti in tante piccole
comunità autonome, ma articolato attraverso il sistema delle decanie, e
capace di contenere quanto sia richiesto dalla necessità della vita, acqua,
mulino, orto, forno, e altre eventuali dipendenze indispensabili a garantire
una piena efficienza alla famiglia monastica, eliminando così l'inconveniente,
grave per i monaci, di doversene allontanare

121

con frequenza per provvedere ai bisogni più elementari. Nella nuova


concezione l'edificio materiale dovrà piegarsi a garantire una delle esigenze
fondamentali perché il monaco possa raggiungere il fine della sua vocazione:
la separazione dal mondo, mediante l'eliminazione dei più legittimi pretesti a
contatti col di fuori che inevitabilmente sarebbero a danno dell'anima.
I lavori compiuti, soprattutto in contrasto allo stato di desolata incuria che
presentavano le campagne circostanti, di dove, per un senso di sfiducia in un
avvenire sempre incerto a motivo delle continue devastazioni barbariche, si
cercava di ricavare appena il necessario a una miserabile esistenza, dovettero
colpire profondamente i contemporanei.

Erano un canto di speranza, un atto di fede nella vita, mentre intorno gravava
l'incubo della desolazione.

Il monaco Marco, l'ingenuo poeta che, discepolo del Santo, dopo la sua morte
effonde in distici vibranti di affetto una devota e calda tenerezza verso il
Maestro, non sa rinunziare a lasciarci il ricordo delle opere grandiose da lui
compiute e che mutarono l'aspetto della montagna.

«Sono sparite le rocce e i roveti, e l'arida terra ha rivelato una meravigliosa


ricchezza di acque: certo questo è il monte di Cristo, perché domina gli altri
monti: ecco che la montagna abbassa il capo sotto i tuoi piedi.

«Spianata la vetta, livella il suolo scosceso, affinché tu, o Santo, possa dar
frutti rigogliosi sulla sua sommità.

«E affinché non si stanchino coloro che cercano di te, o Benedetto, piega


dolcemente tutt'intorno il fianco serpeggiando.

«È giusto che questo stesso monte ti renda tale onore, poiché ha meritato
tanto bene, essendo da te abbellito.

«Tu ne orni le rocce aride di ameni orti, e ricopri le rupi nude di alberi
verdeggianti.

«Gli scogli guardano stupiti le mèssi, e la foresta

122

disboscata vigoreggia non più dei suoi frutti selvatici, ma di alberi fruttiferi.»

Abbiamo così la visione di un potente complesso di opere agrarie che lascia


trasparire un piano organico ben connesso e definito in tutti i suoi particolari,
attuato con intelligente e inflessibile tenacia attraverso ogni difficoltà.

In realtà esso non è, però, se non l'ossatura di un ben più ardito piano
spirituale.

Benedetto ha ormai la visione netta della potenza del monachesimo del quale
l'esperienza vissuta, ma più la luce dello Spirito Santo, gli hanno dato
un'intelligenza profonda, con la percezione esatta di quanto esso richieda e
delle possibilità che racchiude qualora non devii dalla sua essenza che sola ne
determina l'efficacia in proporzione del grado col quale venga attuata in
concreta realtà di vita.

Non gli sfugge certo l'influsso sociale della pacifica armata che egli ordina
perché combatta sotto lo stendardo di «Cristo vero Re», ma sa che questo
influsso è legato alla condizione che il monaco consenta a esser tale nel senso
pieno della parola, e si preoccupa di armarlo contro le potenze collegate del
male: il demonio, il mondo, la carne.

E non ci deve apparire strana la preoccupazione che egli mostra, e si compiace


anzi di sottolineare, quasi a farne convinti anche noi, per la lotta che i suoi
figli dovranno inevitabilmente sostenere contro i demoni. Benedetto è la
figura tipica del giusto che vive di fede, e quand'anche la sua esperienza
personale non dovesse fornirgliene dei dati sufficienti, basterebbe per lui
l'ammonimento dell'Apostolo: «poiché non è la nostra lotta col sangue e colla
carne, ma contro i Principati e le Podestà, contro i dominatori del mondo
delle tenebre, contro gli spiriti maligni dell'aria» (Ef 6,12).

Egli crede e sa presente la innumerevole schiera degli

123

spiriti del male che «si accalca» secondo l'espressione di Cassiano, intorno a
noi, e non è davvero una moltitudine tranquilla e oziosa, così che «la divina
Provvidenza molto vantaggiosamente la sottrae ai nostri sguardi».

Sant'Atanasio, nella sua Vita di Antonio ne aveva trattato a lungo, scoprendo


le astuzie di questi invisibili nemici e insegnando la tattica della lotta
singolare che siamo costretti a ingaggiare contro di essi.

In realtà la grande battaglia contro le potenze infernali è stata vinta da Cristo


che sulla croce ne ha infranto il potere, ma, in atto, le fasi di questo gigantesco
duello, il cui esito è già fissato, si devono svolgere nel tempo, combattute da
tutte le generazioni umane, alle quali è lasciata la terribile libertà di inserirsi
per tutta l'eternità nella vittoria di Cristo, fatta propria mediante l'adesione a
Lui e la conformità alla sua legge, o di disertare il campo, consentendo alla
propria perdizione, sotto la suggestione di un piacere immediato che esima
dallo sforzo e secondi le tendenze della natura corrotta dal peccato originale.
La dottrina dei Padri del deserto e l'insegnamento vitalmente assimilato
attraverso lo studio religioso della loro santità, avevano certamente reso
familiare il Santo con l'idea basilare di questa decisiva battaglia impegnata tra
l'uomo e il demonio, battaglia che può raggiungere inaudita violenza quando
quest'uomo è un monaco, ossia, nell'ordine dei valori spirituali, un capo, una
delle guide dell'umanità nel suo cammino ascensionale verso Dio.

Egli stesso a Subiaco, nel rude tirocinio dello speco, e più tardi nella direzione
dei suoi monaci, aveva ripetutamente fatto l'esperienza di quanto importasse
di vigoria e di prudenza l'impegno di resistere al nemico.

L'assalto non coglierà mai Benedetto alla sprovvista, perché egli veglia e
prega, né varrà a terrorizzarlo, perché è perfettamente, sicuramente cosciente
di essere già, in quanto innestato vitalmente a Cristo, un vincitore, ma il Santo
vuole che i suoi figli sappiano che il

124

demonio, «istigatore e autore del peccato, ha riposto nella menzogna tutta la


sua forza, e trae da questa velenosissima fonte della sua arte ogni genere di
frode, per escludere da quel bene che egli stesso per la propria superbia aveva
perduto, la speranza della devozione umana, e trascinare a condividere la
propria dannazione» 1 i disgraziati da lui tratti in inganno. Il monaco quindi,
nel momento dell'assalto, non si dovrà sgomentare, né, tanto meno, stupire.

Nel trattato Intorno alla in temperanza ed alle virtù Esichio aveva insegnato
che al primo accorgersi della presenza del nemico bisognava reagire
violentemente, «iracunde», ricorrendo a parole ingiuriose, fino a «sferrare un
pugno in faccia all'assalitore» senza venire a patti con lui nemmeno per un
attimo. Benedetto, non meno vigoroso quanto alla sostanza, e con non meno
vivace realismo d'espressione, vuole che i suoi figli siano coscienti di essere
stabiliti sulla roccia, che è il Cristo, e se il maligno tenterà di insinuarsi
insidiosamente nei loro pensieri, ordina che essi, illuminati dalla luce
dell'alto, ne distolgano con disgusto lo sguardo, e senza turbarsi ne sfracellino
contro la base granitica della loro fede vivificata d'amore i «malefici
rampolli».

Il monastero, nel pensiero del Santo, è un campo d'addestramento a questa


lotta contro il potere delle tenebre, né alcuno dei monaci potrà avere il
permesso di uscirne per dedicarsi a una forma di vita più perfetta, nell'eremo,
se non avrà prima dato prova di essere ormai esperto e allenato alla battaglia
contro il demonio, che più tardi dovrebbe affrontare corpo a corpo, solo,
senza il conforto e il sostegno dell'assistenza fraterna.

Il monaco deve sapere di avere a che fare con questa potenza occulta e stare in
guardia, ma non temerla eccessivamente, poiché sa anche che il suo potere è
limitato né potrà mai eccedere la possibilità di resistenza della natura umana
sorretta dalla grazia, ciò che gli permette

______________________________

1 S. LEONE MAGNO, Serm. IX, c. I.

125

di affrontarlo con la certezza di vincerlo in nome di Dio.

Questo spirito malvagio potrà qualche volta servirsi di elementi sensibili, la


figura e il suono, allo scopo di conseguire meglio il suo intento, ma tali
espedienti non ce lo devono rendere più temibile; sono la maschera
grossolana con la quale cerca di sfruttare l'impressionabilità degli spiriti
deboli.

A Montecassino il duello tra Satana e il Santo, del quale avrebbe voluto in


ogni modo impedire l'opera, assunse una violenza paurosa, ed ebbe delle
manifestazioni che, per l'impeto della loro furibonda impotenza, rasentano il
grottesco.

L'acropoli cassinese era stata fino a quel momento dominio incontrastato


delle potenze diaboliche, ma ora veniva esorcizzata, purificata, resa sacra dal
segno della croce eretto dovunque, mentre il canto della lode divina, e la
stessa santa vita di quei monaci generosi, e, più che tutti, dell'uomo di Dio, le
incatenavano, paralizzando il loro malefico potere.

Cominciò quindi ad accadere che, mentre ferveva il lavoro, o nelle ore


silenziose di raccoglimento e di preghiera, si scatenasse, improvviso come una
raffica, un tumulto di voci urlanti «Benedetto, Benedetto» e poiché nessuno
rispondeva, mentre i monaci con l'animo sospeso si stringevano più forte a
Dio nella implorazione, la voce riprendeva tra un sibilare assordante:
«Maledetto, non Benedetto, cos'hai contro di me? Perché mi perseguiti?», e le
imprecazioni piene d'odio sembrava non dovessero più aver fine.
I monaci erano tutti testimoni di questi assalti infernali e percepivano
nettamente le parole, una per una, ma non riuscivano mai a vedere niente,
benché il Santo assicurasse loro che a lui era invece ben visibile il nemico: gli
appariva sotto forme mostruose, con gli occhi fiammeggianti, minacciandogli
ogni violenza.

Egli sembrava non provarne la minima commozione, dominava dall'alto


l'ondata paurosa del livore diabolico

126

che veniva a infrangersi, fiaccata, contro la sua imperturbabile fede.

Ma la lotta era continua. La costruzione che si veniva elevando con ordine


eccitava il furore di Satana.

Viene un giorno in tutta fretta un monaco a chiamare l'abate: lo hanno


mandato i suoi confratelli, con la raccomandazione di non perdere un minuto,
e di raccontare il caso molto strano di fronte al quale si trovano e che li lascia
non poco imbarazzati.

Erano andati, secondo gli ordini ricevuti, al lavoro loro assegnato,


impegnandosi di lena alla costruzione di un muro per il quale, utilizzando
tutto il materiale disponibile, avevano posto l'occhio anche su un masso che
era lì a terra, proprio sotto mano. Si accingono a prenderlo, ma, contro le
apparenze, il masso è in realtà straordinariamente pesante. Provano a
sollevarlo in due, in tre, chiamano ancora degli altri in aiuto, e insieme
rinnovano gli sforzi: peggio che mai; sudano e si affaticano senza venire a
capo di niente perché il macigno sembra radicato a terra e nessuna forza
umana appare capace di smuoverlo. Una certa esperienza di fatti simili li
induce a sospettare che si tratti di un nuovo maleficio diabolico, per il quale
ritengono indispensabile l'intervento del Santo; egli è abbastanza potente per
vincerlo e permettere loro di continuare il lavoro sospeso.

Benedetto ascolta, pensieroso, poi segue il monaco fino al luogo


dell'incidente. Mentre ognuno vuole spiegargli meglio come sia andata la
cosa, o ritiene necessario aggiungere un particolare, egli si raccoglie per
qualche istante in preghiera, poi lentamente traccia sul masso un segno di
croce, e invita i suoi figli a sollevarlo.

La grossa pietra non oppone più alcuna resistenza e il lavoro riprende più
intenso di prima, nella calma ristabilita.
Non era però passato molto tempo, e il demonio, sconfitto, volle prendersi
una rivincita.

Proprio in quel medesimo luogo, mentre, per ordine del Santo, si scavava a
una certa profondità il terreno,

127

sotto i colpi del piccone, fra altri rottami, venne alla luce un idoletto di bronzo
che, non destando alcun particolare interesse, fu gettato in cucina, e nessuno
ci pensò più.

Pochi istanti dopo, all'improvviso, i monaci ebbero la sorpresa di veder


divampare un incendio così violento da far temere che avrebbe ridotto in
cenere tutto l'edificio, sbigottiti e pieni di spavento, benché non si sapessero
dar ragione dell'incidente, ebbero la sola preoccupazione di arrestare e
domare le fiamme, perciò, radunatisi in un baleno, più numerosi che fosse
possibile, si impadronirono di qualunque arnese potesse sembrare atto alla
bisogna, e giù, ad attingere acqua per lanciarla sul fuoco che, continuando a
bruciare, sembrava inestinguibile.

Il tramestio fu tale che non tardò a giungere agli orecchi dell'abate, il quale,
stupito per l'insolito frastuono, e forse un po' preoccupato, si affrettò a
scendere in mezzo ai suoi figli. Li trovò ansanti, scalmanati nella vana fatica,
ma poiché la potenza del maligno era paralizzata dalla sua presenza, ed egli,
intimamente unito a Dio, la dominava con tutta la vigoria della sua forza
spirituale, ai suoi occhi si mostrò senza veli l'allucinazione assurda della quale
i monaci erano zimbello, affaticandosi senza risultato nello spengere un fuoco
inesistente.

La scena gli appariva in tutta la sua innegabile comicità, ma come


convincerne coloro che vedevano con i propri occhi, e sentivano sul viso la
vampata bruciante delle fiamme? Senza proferir parola, chinò il capo in
preghiera, e supplicò il Signore che dissipasse ogni illusione con la forza della
sua virtù onnipotente. D'un tratto i monaci stupefatti si ritrovarono l'uno in
faccia all'altro, estenuati per la lunga fatica, nella cucina dove tutto era intatto
e non appariva nessuna traccia dell'incendio pauroso che li aveva tanto
spaventati. Dovettero rassegnarsi e riconoscere che il demonio si era fatto
beffe di loro.

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In questo violento duello con lo spirito del male, si rivela con rilievo ben
marcato la fisionomia morale di san Benedetto, mentre diviene evidente la
sua profonda coscienza della propria potenza spIrituale, o meglio, della
potenza di Dio che opera in lui.

Guarda dall'alto, quasi con commiserazione, i vani sforzi del nemico, senza
turbarsene, e, con più ragione, senza esserne spaventato. Di una cosa sembra
preoccupato, ed è unicamente di sanare lo scompiglio che le trovate
diaboliche gettano fra i suoi monaci presi alla sprovvista e ancora inesperti
della tattica di questa lotta.

Forse per questa sua indifferenza pare che il demonio voglia sfogare contro i
figli la sua rabbia impotente a colpire il Padre.

Un giorno Benedetto è solo nella sua cella, e prega.

I monaci sono al lavoro, impegnati, in gran parte, nell'edificare faticosamente


il loro monastero.

Ma la preghiera del Santo viene bruscamente interrotta dall'apparizione di


Satana che gli annunzia sghignazzando la sua intenzione di andare a fare una
visitina agli instancabili operai. Poiché un simile annuncio non lascia
presagire niente di buono, l'abate manda in tutta fretta ad avvertire:

- State bene in guardia, perché viene a voi il maligno. -

Ma il messaggero ha appena potuto trasmettere l'avvertimento, ed ecco che il


muro al quale tutti stanno lavorando, come spinto da una potenza invisibile,
crolla fragorosamente, e travolge tra le macerie il monachetto Severo.

Davanti a quella rovina c'è un momento di costernazione generale, poi tutti si


danno febbrilmente a rimuovere i materiali, nella speranza di poter ancora
salvare la vita al ragazzo, ma il giovane confratello è ridotto a un ammasso
irriconoscibile e sanguinolento; bisogna correre ad avvertire l'abate di questa
sciagura insospettata.

Glielo dicono con tanta pena: Severo, il figlio del

129

curiale, è rimasto sfracellato nella rovina del muro. Si aspettano forse di


cogliere sul suo volto un'espressione di angoscia - ne hanno già tanta loro! - di
vederlo correre sul luogo della sciagura, e invece, senza mostrarsi sorpreso,
con una serenità che appare quasi una stonatura, egli non si muove e ordina
tranquillo che portino immediatamente davanti a lui il cadavere del ragazzo.

L'impresa non è facile perché i grossi massi del muro, cadendo, lo hanno
sfigurato e schiacciato al punto da ridurlo una orribile massa informe che, per
essere trasportata, si deve raccogliere in una coperta e fa raccapriccio a
vedersi. Alla fine se ne viene a capo, e il piccolo corteo, con molte precauzioni,
riesce a portare il fardello sanguinante fino alla cella dell'abate. Egli lo fa
deporre sulla stuoia sulla quale è solito raccogliersi per la preghiera, e vuole
che tutti escano. C'è qualche cosa di misterioso nella sua condotta, ed è
naturale che i monaci, quando vedono la porta chiudersi dietro di loro, si
domandino cosa stia per succedere, ma l'attesa è breve. Non passa molto e
Benedetto ricompare, e ha al fianco il monachetto pieno di vita, che non
chiede se non di poter correre a ricominciare e condurre finalmente a termine
il muro rovinato dalla malizia diabolica.

Ancora una volta l'insidia studiata con astuzia, anche per i prevedibili
imbarazzi che avrebbe potuto creare al monastero la morte, avvenuta in simili
circostanze, del figlio del curiale, è stata sventata, e il vincitore è il Santo.

Con la consapevolezza serena di questa lotta che non ammette tregua, e pur
sapendo che non c'è da temere, fino a che siamo uniti a Cristo, vincitore della
morte e dell'inferno, perché il demonio è un vinto, Benedetto vigila
instancabile affinché le sue insidie non giungano a staccare i monaci da Dio,
ché allora egli riacquisterebbe il suo impero sull'anima.

In questa vigilanza lo soccorre il suo mirabile potere di vedere l'invisibile.

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Saliva una volta sulla vetta del monte, verso l'oratorio di San Giovanni
Battista, e si trovò faccia a faccia col nemico che, camuffato da medico, con gli
strumenti dell'arte, discendeva la china in senso contrario.

Benedetto lo apostrofò senza tanti preamboli: - Dove vai? -

E quello:

- Vado tra i monaci a dar loro una medicina. - E via come il lampo.

Contro la potenza malefica dello spirito del male sono inutili tutti gli
accorgimenti umani, perciò il Santo continuò la sua strada fino all'oratorio
dove compì le consuete preghiere, invocando, certo, quel giorno, con più
intensità, l'aiuto divino che sventasse ogni insidia del maligno, poi, rapido,
tornò sui suoi passi.

Non dovette stentare a scoprire gli effetti dell'azione diabolica, vedendo uno
dei suoi monaci più anziani contorcersi violentemente per terra, in preda a
convulsioni strazianti: faceva pietà vedersi, e nessuno sapeva come
soccorrerlo, meno ancora riusciva a spiegarsi l'origine di quel male.

Lo raccontarono anche all'abate, tentando di descrivere l'accaduto. Il fratello


era venuto alla fontana, lì sotto gli occhi di tutti, per attingere acqua, e stava
benissimo, d'un tratto aveva cominciato a dibattersi da far pietà al solo
vederlo, perché certo doveva orribilmente soffrire.

San Benedetto guardò con commiserazione il disgraziato sul quale Satana


sfogava così il suo odio. La diagnosi del male per lui non aveva misteri, e con
l'anima ancora impregnata di preghiera per il recente colloquio con Dio, non
trovò motivo di turbarsene, cosciente com'era della sua unione attuale col
Signore in virtù della quale si sapeva più forte dello spirito del male.

Avvicinatosi al monaco, divenuto un groviglio di membra, colpì con una


guanciata il poveretto invasato che si dibatteva sempre più furiosamente, e
questi tutto

131

a un tratto fu liberato, né ebbe più a soffrire il minimo inconveniente.

Il duello continua a svolgersi così, con manifestazioni sempre nuove, e il suo


frequente rivestirsi di forme sensibili rendeva più facile scoprirne la trama,
rendendo più evidente, sperimentale, per tutti, il tranquillo e inesorabile
dominio di Dio su tutte le potenze del male.

Questi assalti violenti, del resto, erano anche i più inoffensivi, e se riuscivano
a suscitare talvolta un certo scompiglio, e miravano a sgomentare gli inesperti
e a terrorizzarli facendoli così desistere dal proposito della vita monastica, in
realtà, essendo facilmente individuabili, rimanevano affatto innocui, tanto più
controbilanciati come erano dalla santità dell’abate che era per tutti pegno di
protezione e di difesa.

Ben più pericolose erano le suggestioni sottili tese alle anime per farle
scivolare insensibilmente nel male, distogliendole dai loro buoni propositi o
addirittura facendo loro apparire il peccato sotto l'aspetto più insinuante, fino
a spogliarlo di ogni apparenza di colpa.

Questo sì, era da temersi, poiché l'anima, tratta in inganno, avrebbe potuto
facilmente cedere e dare il suo consenso allontanandosi dalla via retta. Ma
Benedetto vegliava. Il male era per lui l'offesa di Dio, la diserzione vile dal suo
servizio per venire a patti con Satana, ai danni del regno di Cristo. Bisognava
combatterlo senza tregua, sventarne le trame, renderlo quasi impossibile
mediante una custodia assidua nella vigilanza e nella preghiera.

Egli sentiva intorno ai suoi figli, a ognuna delle anime che doveva custodire
per la vita eterna, questo ruggito del «leone che gira intorno cercando chi
divorare» (1Pt 5,8) e avrebbe voluto che tutti giungessero a vedere con

132

chiarezza, a percepire l'intrusione di Satana, non appena avessero sentito


determinarsi nel cuore un moto contrario alla legge divina, che fossero pronti
a resistere forti nella fede.

Ma non tutti avevano come lui gli occhi dell'anima aperti alla luce divina nella
quale si coglie anche l'ombra più tenue che appanni lo sguardo; purtroppo per
molti, per il maggior numero, era anche troppo facile che, nella consuetudine
accarezzata di segrete compiacenze con le creature, si insinuasse la tentazione
per sedurre il cuore.

Fu quel che accadde a un suo monaco, buon ragazzo, ma irrequieto e preso


dalla smania di viaggiare, di fare l'esperienza di cose nuove, a tal punto che la
monotona vita del monastero, sempre uguale, con le identiche osservanze
ripetute senza fine di giorno in giorno, giunse fino a diventargli
insopportabile.

Il diavolo soffiava su quel focherello eccitato dalla fantasia giovanile e non


ebbe tregua fino a che non riuscì a farlo diventare un incendio.

Benedetto, che conosceva a fondo quel suo povero figliolo, e lo sapeva capace
di bene, tentava dissipare l'illusione funesta che, sotto l'apparenza di
necessità, e forse con pretesti di bene, lo spingeva fuori del chiostro.
Ragionamenti, rimproveri, lo sforzo assiduo e pieno d'amore del Padre per
ricondurlo alla verità e a una più serena valutazione dei suoi veri interessi
spirituali a nulla valsero.
Quello tornava sempre alla carica con importunità crescente; non ragionava
più ormai, dominato dall'unico pensiero di abbandonare il monastero, e a tale
intento faceva convergere tutti i suoi sforzi, vedendo in questa sognata
liberazione dalla vita monastica l'unica possibile sorgente di felicità.

Lui insisteva, e Benedetto teneva duro, nella speranza che la grazia avrebbe
illuminato quell'anima disgraziata, divenuta zimbello delle astuzie del
tentatore.

133

Durarono così per un pezzo, fino a che un giorno il Santo, stanco di quelle
continue insistenze, pieno di sdegno, lo cacciò dal monastero, lasciandolo
libero di tornare a quel mondo che tanto sognava.

La sua preghiera però lo seguiva. Avrebbe permesso il Signore che una delle
pecorelle affidate alle sue cure andasse smarrita e che egli non potesse
renderla a Lui, nell'ultimo giorno della vita, felice di poterla riconsegnare al
Buon Pastore dalle cui braccia più nessuno avrebbe potuto strapparla?

Il fuggitivo, lieto di aver finalmente ottenuto la facoltà d'andarsene, doveva


essersi di poco allontanato, quando, improvvisamente, dalla strada si udirono
delle grida angosciose che imploravano aiuto:

- Correte, correte, c'è un mostro che mi vuol divorare! -

I monaci si slanciarono fuori per vedere cosa mai accadesse, ma per quanto
guardassero, non riuscirono a scoprire nessuna traccia della belva che aveva
suscitato tanto terrore, e si trovarono invece davanti, in mezzo alla strada, il
loro confratello mezzo morto dallo spavento.

Senza rendersi bene conto dell'accaduto lo riportarono tutto tremante in


monastero, di dove poco prima era uscito baldanzoso per la riconquistata
libertà. Grazie a quella brutta avventura il poveretto era guarito per sempre.

La preghiera del suo santo abate aveva rotto l'incanto diabolico, e, attraverso
il miraggio della felicità, i suoi occhi erano riusciti a discernere la vera
fisonomia del maligno che, certo ormai della sua vittoria su quell'anima
incauta, stava per farla sua.

Non c'è bisogno di dire che fin da quel momento il monaco custodì la propria
stabilità con inviolabile attaccamento.
L'episodio sembra il commento pratico, attraverso una paurosa esperienza,
delle parole che il Santo, a monito degli spiriti superficiali o imprudenti, ha
voluto

134

inserire nella sua Regola, quando contempla il caso che si debba giungere
all'espulsione del monaco che «per persuasione diabolica» si sia lasciato
sedurre a consentire l'apostasia dalla vita monastica.

Non è questo del resto il solo caso nel quale da certe precauzioni che la Regola
impone come preventivo contro le insidie di Satana, siamo ricondotti
istintivamente al pensiero di episodi riferiti nella vita del Santo, i quali ci
offrono la migliore giustificazione delle sue preoccupazioni.

Nel capitolo squisitamente cristiano e monastico nel quale san Benedetto


tratta del modo di ricevere gli ospiti, per esempio, troviamo la prescrizione
che, al giungere del forestiero, pure accolto con ogni manifestazione d'onore,
si abbia cura di non scambiare con lui il bacio di pace se non dopo averlo
introdotto nell'oratorio per una breve preghiera comune «propter illusiones
diabolicas», e questo affinché, se il maligno sotto apparenze innocue o
amichevoli tentasse di sedurre i fratelli, la preghiera valesse a dissipare
l'inganno.

Per non essersi premunito così, e forse per non aver prestato troppa fede a
questa invisibile presenza dello spirito del male, sempre vigile a cogliere ogni
occasione buona per distogliere l'uomo dal servizio fedele del suo Signore, era
cascato in tentazione anche un buon amico del monastero, il fratello del
monaco Valentiniano.

Era un uomo di singolare virtù che, pur non avendo abbracciato la vita
monastica, nutriva una profonda venerazione per il santo abate di
Montecassino, e ogni anno faceva il lungo cammino che dalla sua abitazione
conduceva al monastero, a piedi, a digiuno, perché mediante questa penitenza
l'anima sua fosse meglio preparata a ricevere il frutto della preghiera del
Santo, ed era tale l'intima attesa di questo annuale convegno che, forse,
superava quella stessa di poter riabbracciare in quella circostanza il fratello
Valentiniano.

A questa, divenuta ormai una consuetudine, per niente al mondo egli avrebbe
rinunziato.
135

Ma un anno, mentre faceva di buon passo il cammino, non si sa come, si trovò


a fianco un compagno di viaggio ben provvisto di vettovaglie, e pieno di
premura. Facendo strada insieme, parlarono del più e del meno, e intanto il
tempo passava e la fame cominciava a farsi sentire.

Il compagno gentile, data una sbirciatina al pellegrino e visto che non aveva
con sé niente da mangiare, insinuò con garbo:

- Fratello mio, vieni e ristoriamoci un po', affinché non rimaniamo troppo


sfiniti durante il viaggio. -Ma l'altro protestò:

- Per carità, fratello, non lo farò davvero. Ho avuto sempre l'abitudine di


venire digiuno a trovare il venerabile padre Benedetto. -

Il tono della voce era cosi reciso che il discorso fini li, e si continuò a
camminare abbandonando quell'argomento.

Il sole alto rendeva la strada sempre più faticosa.

Cammina, cammina, non si arrivava mai; non sarebbe stato giudizioso


prendere un po' di cibo? L'invito cortese fu ripetuto con insistenza, ma il
devoto di san Benedetto, fedele al suo proposito, non cedeva.

Camminarono in silenzio, l'uno a fianco dell'altro, per un buon tratto ancora.


La stanchezza rendeva il passo pesante smorzando la vivacità della
conversazione.

Il buon uomo cominciava a pensare che mai la strada gli era sembrata lunga
come quella volta, e che proprio non ce la faceva più: che male ci sarebbe
stato, in fondo, a prendere un po' di respiro, a mangiare qualche cosa, e, cosi
ristorato, riprendere il cammino?

Erano giunti intanto a un luogo delizioso: un bel prato verde con una fonte
d'acqua che gorgogliava limpida tra i sassi, e, nell'arsura meridiana, un ciuffo
d'alberi che offrivano un riparo ombreggiato contro il sole bruciante.

Il compagno questa volta si fermò risoluto.

- Ecco l'acqua, il prato, un luogo ombroso, nel quale

136
potremmo ristorarci e riposare un po'; riprenderemo poi il cammino fino al
termine, con nuova vigoria. -

A una così garbata insistenza come resistere ancora senza mostrarsi


scompiacenti? E, complice la stanchezza e l'amenità del luogo, il pellegrino
sedette e partecipò con piacere al desinare che gli veniva offerto con tanta
bontà.

Arrivò al monastero che era l'ora del tramonto, ma quando fu alla presenza
dell'abate ebbe la poco piacevole sorpresa di non vedersi accolto con la
consueta patema benevolenza.

Il Santo, col suo sguardo severo, sembrava frugarlo in fondo all'anima.

- Che è successo, fratello? Il nemico ti ha sedotto parlandoti attraverso il tuo


compagno di viaggio, la prima e la seconda volta non ti ha potuto convincere,
ma alla terza è riuscito, e ti ha indotto a fare quello che ha voluto. -

L'occhio del Padre ancora una volta era penetrato al di là del sensibile, nel
mondo degli spiriti, a smascherare le insidie, mettendo le anime faccia a
faccia con questo malefico potere delle tenebre che fa convergere ogni sforzo
nello strappare un'anima al regno di Dio.

Più caratteristico quel che avvenne a un ragazzo intraprendente, il giovane


Esilarato, che il suo padrone aveva mandato a Montecassino con due barilotti
di vino da offrire in dono a san Benedetto. Cammin facendo era venuto
maturando un suo piano secondo il quale avrebbe potuto alleggerirsi di un po'
di peso e provvedere a rinfrescarsi la gola al ritorno.

Con molta abilità, passando ai fatti, nascose in luogo sicuro uno dei due
barilotti, e, diminuito il carico della metà, svelto e fresco si presentò al Santo
consegnandogli a nome del suo padrone il barilotto rimasto.

L'abate lo accolse con l'affabilità consueta e con molti ringraziamenti, ma


quando il ragazzo, chiedendo la sua benedizione si disponeva a partire, e forse
già si

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rallegrava che il tiro fosse riuscito così bene, trasecolò nel sentirsi fare questo
discorso:

- Figliuolo mio, bada bene di non bere da quel barilotto che hai nascosto;
rovescialo con precauzione, e vedrai cosa c'è dentro. -
Fu un momento imbarazzante, quello, per il poveretto che non vedeva più
ormai se non l'ora di fuggire dalla presenza del Santo.

Scendendo dal monte rimuginava l'accaduto e cresceva la vergogna e il


dispetto di essere stato scoperto, ma insieme anche la curiosità di verificare
quanto gli era stato detto e perciò, arrivato al luogo dove aveva nascosto il
barilotto, volle rovesciarlo con precauzione, e quasi si senti venir meno dallo
spavento nel vederne uscire un serpente.

Non ci volle altro perché il male commesso gli apparisse in tutta la sua
gravità, e fu breve il passo per rendersi conto che era stato trastullo del
demonio, il quale si era servito di quel vino come di un amo per trarlo al
peccato.

Pochi episodi che non vanno considerati isolatamente, ma che bisogna


inquadrare nella più vasta concezione del dramma che forma il substrato
della vita cristiana, e che ha per base la fede e la consapevolezza profonda di
questa lotta senza tregua alla quale l'uomo è impegnato contro Satana,
soprattutto se quest'uomo è un monaco che, votandosi a un più perfetto
servizio di Dio, entra quasi in uno stadio dove si gareggia in opere sante.
Dovrà allora essere pronto alla prova delle tentazioni, convinto che, quanto
maggior zelo impegnerà per la propria salvezza, tanto più dovrà aspettarsi di
essere assalito dal nemico.

Un giorno, per questo volle combattere Cristo: perché dietro a Lui anche noi
combattessimo.

E Cristo vinse perché con Lui anche noi fossimo vincitori.

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VIII. La Scuola del Divino Servizio

Molti anni erano passati dal tempo in cui il giovane eremita dello speco,
accettando da Dio una nuova vocazione di paternità spirituale, aveva raccolto
intorno a sé le prime anime desiderose di perfezione.

Il lungo cammino percorso con questi figli, primizie di una posterità


innumerevole, nel quotidiano contatto di vita con essi, attraverso esperienze
forse non tutte felici, doveva fornire allo spirito riflessivo di Benedetto largo
campo di osservazione, e condurlo, attraverso successivi arricchimenti, quasi
insensibilmente, a una nuova visione della organizzazione della vita di
comunità.
La sua concezione monastica, nei dati costitutivi essenziali, rimane quella
tradizionale, ma egli la vede ora, nella sua espressione più perfetta, risolversi
in un organismo unitario, saldamente connesso, al quale dovrà concorrere e
non in minima parte, anche lo sforzo edilizio che si viene compiendo.

Le piccole cellule sparse per la montagna e capaci di ospitare una famiglia


necessariamente ristretta, arieggianti al sistema di san Pacomio, dovranno
ravvicinarsi e fondersi per formare il grande monastero dove tutta la

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comunità monastica possa vivere raccolta e svolgere la sua complessa attività


sotto l'unica ed esclusiva direzione dell'abate, il solo responsabile dei suoi
sviluppi spirituali e materiali.

Le singole attività potranno specializzarsi ed esser seguite mediante una


saggia articolazione resa possibile con il concorso degli ufficiali e dei decani,
ma il fulcro vivo e operante, che regge il monastero, e che imprime un
impulso deciso verso una direzione unica, rimarrà l'abate, attraverso il quale
ogni manifestazione di vita monastica si deve fondere in un ben compatto
organismo con quella salda e pure snodata unità che non è uno dei lati meno
mirabili della struttura benedettina codificata nella Regola.

E siccome per il monaco il monastero non rappresenta un semplice punto


d'appoggio, un rifugio contro le intemperie, o un luogo di raccolta, ma la
domus Dei (la casa di Dio), perciò Benedetto esige che la stessa costruzione
materiale dell'edificio si pieghi ad esigenze superiori e si manifesti in funzione
dei fini soprannaturali che la famiglia monastica deve raggiungere. In esso
tutto deve armoniosamente concorrere a che le anime, ivi radunate dalla
grazia perché vi compiano il lungo e arduo lavoro della loro santificazione,
trovino, anche nelle condizioni esteriori d'ambiente, un valido sussidio di
ascesi.

Nella concezione del Santo, il monastero è infatti l'«officina dell'arte


spirituale», «la scuola del divino servizio» dove l'ordine esteriore deve
riflettere e custodire la pace interiore, e fino i minimi particolari, studiati e
previsti con cura quasi minuziosa, devono essere regolati «con sapienza da
uomini sapienti».

È anzi qualche cosa di più: la robusta custodia entro la quale il monaco


racchiude il tesoro della propria vita perché, sottratto a ogni dispersione
funesta, sia reso fruttifero al cento per uno prima di essere riconsegnato al
Signore, nel cielo. È perciò indispensabile che vi sia garantita la doverosa
soddisfazione delle necessità insopprimibili della vita individuale e associata,
senza imporre

140

che si moltiplichino i contatti col mondo, veicolo di inevitabile dissipazione, e


in opposizione diretta, quindi, con l'ideale monastico, a tal punto che san
Benedetto non esita a stigmatizzarli «plurima destructio» (immensa rovina).

Ed è di tale valore la funzione edilizia del monastero, e così intimamente


connessa alla stessa disciplina monastica, che quando uno sciame di monaci
di Montecassino raggiungerà Terracina, il Santo, con un intervento
miracoloso, avrà cura di segnar loro la traccia della nuova costruzione alla
quale dovranno metter mano.

Qualche indicazione topografica impreziosita dalla conferma data dalla


tradizione e più dalle scoperte archeologiche, ci permette di rappresentarci,
almeno nelle sue grandi linee, i tratti essenziali del monastero cassinese,
quale Benedetto con i suoi figli lo venne costruendo in rispondenza perfetta al
nuovo tipo di compagine monastica da lui vagheggiato.

Le robuste mura dell'acropoli cingevano le nuove costruzioni di un saldo


riparo, determinando sulla vetta del monte l'area di separazione dal mondo
sulla quale Benedetto non transige ritenendola condizione connaturale allo
stato monastico; basterebbe a darcene la certezza la dichiarazione esplicita
che nella Regola egli ne fa, affermando i motivi per i quali esige che quanto
può occorrere alla comunità, orto, mulino, acqua, sia racchiuso «intra claustra
monasterii» (nell'ambito del monastero), così da eliminare radicalmente ogni
vera o presunta necessità «vagandi foras» di andar vagando all'esterno.

Separazione esteriore che, mentre delimita i confini materiali, è segno e


garanzia di un'altra separazione ben più profonda ed efficace che il monaco
deve imporre a se stesso per attuare la sua piena dedicazione a Dio.

Sempre per questo stesso motivo possiamo pensare che una delle prime
preoccupazioni del Santo sia stata quella di stabilire presso l'ingresso del
monastero, in un locale adatto e convenientemente fornito del necessario,

141

la foresteria, aperta agli ospiti e ai pellegrini; essi vi avrebbero sempre trovato


ristoro materiale, ma più benefica al cuore, la calda accoglienza
soprannaturale dei monaci che, vedendo Cristo in ogni forestiero che bussa
alla porta, avrebbero fatto a gara a circondarlo di ogni più delicata attenzione.

Dalla torre centrale dove aveva scelto la sua dimora, come da una vedetta,
Benedetto poteva seguire con lo sguardo l'arrivo degli ospiti, ma perché
nessuno, bussando alla porta del monastero avesse ad attendere, il monaco
portinaio, scelto con prudenza tra i più saggi e maturi di vita interiore, ebbe la
sua cella vicino all'ingresso, in modo da essere così sempre a disposizione dei
visitatori, per accoglierli con quella premura che è traduzione pratica del
profondo atto di fede che nel fratello vede il Signore.

A fianco della torre, e collegato con essa, e quindi con la cella dell'abate, il
dormitorio dei fratelli. Non ne conosciamo le dimensioni e con ogni
probabilità non fu l'unico, se la comunità ebbe, come pare, rapido sviluppo, e
la Regola già contempla il caso che, se il numero lo richiederà, i monaci
dormano a dieci o a venti, sotto la sorveglianza dei decani.

Dal lato opposto, e appena dentro l'ingresso, l'oratorio al quale l'antico tempio
di Apollo aveva ceduto le sue linee di distinzione architettonica; non distante,
a terreno, il refettorio, e, benché non ne conosciamo nemmeno
approssimativamente l'ubicazione, la cucina, le dipendenze varie, tutti i locali
indispensabili allo svolgersi ordinato della vita comune, soprattutto quando in
essa deve essere eliminato ogni motivo di confusione e di inutile agitazione.

In alto, lontano dai locali di abitazione, l'edicola di San Giovanni Battista, sul
luogo occupato dall'ara di Apollo, e intorno, a cielo scoperto, tra gli alberi, il
piccolo cimitero dei fratelli, che era facile raggiungere mediante una breve
salita.

Qualche cosa di completo, insomma, e capace di

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soddisfare a tutti i bisogni della familia, in quanto trasportava su un piano


soprannaturale i criteri non estranei davvero alla mentalità del tempo la
quale, nella «villa» romana, trovava raccolti tutti gli elementi di sufficienza
per la vita della colonia di dipendenti che l'abitavano.

Questa cura di ogni particolare anche materiale, l'impostazione della vita, e la


stessa struttura interna della famiglia, contribuivano potentemente a rendere
sempre più salda la compagine della comunità, anche nel suo elemento
umano, e conducevano alla necessità di considerarla non come un
raggruppamento di individui l'uno estraneo all'altro, e coabitanti per una
esigenza estrinseca e accidentale, ma come una reale e soprannaturale entità,
connessa con vincoli assai più profondi di quel che non fosse un semplice
impegno giuridico; il monaco infatti, che un voto di stabilità lega al suo
monastero, trovando in esso il campo dove poter esplicare la sua attività, il
termine al quale convergono e dal quale hanno origine i suoi disparati
interessi, viene insensibilmente a fondersi col monastero stesso, a sentirlo
«suo», ad amarlo con una forza non di rado più potente di quella che viene
dagli stessi vincoli del sangue.

In questa cittadella ben munita, la pacifica armata del Signore vive la sua vita
ordinata e intensa, addestrandosi alla lotta più ardua, per il trionfo dello
spirito sulla carne.

All'ottava ora della notte, in media circa le due dopo mezzanotte, quando il
buio è ancora denso, e gli uomini dormono le ore più benefiche di un sonno
ristoratore, sulla vetta del monte incomincia la vita. Un monaco incaricato
della sveglia desta i fratelli, che balzando giù dal letto duro di povera gente
che ha rinunziato a ogni agio per seguire più da vicino il Cristo povero, si
affrettano verso l'oratorio per l'ufficio notturno.

Il canto dei salmi si alterna alla lettura dei testi sacri e dei venerandi dottori
che li commentano, e la lode si snoda continua salendo al cielo in nome
dell'umanità

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la quale riposa protetta da quell'ondata di preghiera e che pochi, col cuore di


tutti i fratelli che non sanno, non possono o non vogliono, presentano a Dio.

Per gran parte dell'anno l'ufficiatura notturna si conclude quando ancora è


buio fitto, e le ore tranquille che seguono la veglia vengono impiegate dai
monaci nella meditazione della parola di Dio, affinché essa penetri l'anima e
le comunichi tutto il tesoro di verità che vi è racchiuso.

Ma quando l'alba comincia a schiarire il cielo, i fratelli si trovano ancora


riuniti nell'oratorio per il canto gioioso delle Laudi e nel sole che sorge
salutano ogni giorno il simbolo della resurrezione di Cristo, e a Lui offrono il
sacrificio della lode mattutina che, attraverso le labbra dell'uomo, assomma
l'inno di glorificazione che dal creato sale al Creatore. Appena più tardi,
mentre la luce investe la terra e il quotidiano ingranaggio di fatica riprende il
mondo, si leva la supplica che implora la liberazione dal male e la grazia di
poter usare santamente delle proprie facoltà, così che, al termine della
giornata vissuta in interiore purezza, tutti siano degni di poter ancora
glorificare il Signore.

Solo quando l'anima è così nutrita di preghiera e l'occhio interiore si è a lungo


fissato in Dio, comincia il lavoro del monaco. Il silenzio profondo che fin dalla
sera precedente è stato rigorosamente custodito, si anima di una corrente di
vita che, senza trasformarlo in tumore, lascia però subito trasparire l'attività
intensa di tutto il monastero.

Ognuno lavora per soddisfare alla legge imposta da Dio all'uomo peccatore
per espiare la sua colpa, e vede in questa estrinsecazione di energie un nuovo
modo di glorificare il Padre che sta nei cieli, mentre il canto delle opere si
fonde con la salmodia e la prolunga durante la giornata.

A mezzogiorno il lavoro sarà interrotto per il canto dell'ora di Sesta, così come
era stato sospeso per Terza, verso le nove del mattino. Scandendo le ore della

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giornata in tal modo, la famiglia monastica torna a raccogliersi per lodare il


Signore con cuore unanime, e se talvolta gruppi di monaci si trovano lontani
dall'oratorio, anch'essi dovranno deporre gli arnesi della loro fatica e
presentare a Dio il sacrificio di lode sul luogo stesso dove il lavoro li trattiene.

Nei giorni festivi, quando le ore della mattinata sono occupate dalla
celebrazione solenne della Messa, e negli altri giorni nei quali non si pratica il
digiuno, dopo Sesta, ma per la maggior parte dell'anno dopo Nona, e quindi
circa le tre pomeridiane, sospesa la fatica prolungata fin dal mattino, i fratelli
si radunano per la refezione comune.

La famiglia di Dio, dopo aver implorato la benedizione del Padre celeste che
distribuisce ai figli i doni della sua Provvidenza, siede, con religioso rispetto, a
mensa, in un silenzio assoluto di parole e di movimenti, nel quale risuona alta
solo la voce del lettore che suggerisce alle menti pensieri di vita eterna,
mentre il corpo si concede il necessario ristoro. Mensa frugale di lavoratori ai
quali incombe il dovere di sostenere le loro energie, ma che con deciso e
prolungato atto di volontà hanno, per amore, rinunziato a quanto potrebbe
essere appagamento dei sensi attraverso la soddisfazione della gola. Mensa di
poveri che sanno di non poter niente pretendere perché hanno venduto ogni
bene proprio per acquistare la gemma preziosa della divina unione, e
accettano con umile riconoscenza quel che la Provvidenza offre loro
attraverso le disposizioni dell'abate. Berranno un po' di vino, se c'è, e
gusteranno i frutti saporiti, nell'arsura dell'estate, se ci sono, ché, se
mancassero, sanno bene che non per questo dovranno trarne motivo di
mormorazione.

Terminata la refezione, ognuno riprenderà il suo lavoro o si dedicherà allo


studio delle cose di Dio, mentre il sole volge al tramonto e si avvicina l'ora in
cui l'oratorio tornerà a risonare della voce dei monaci adunati per il canto
solenne del «Vespro».

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La faticosa giornata sta per finire, forse le anime pensano che nei necessari
contatti con i fratelli vi è stata qualche cosa di meno buono, ombre che velano
la luce piena della carità, «spine di scandali» pungono il cuore, ma su questo
doloroso fermento di miseria umana, al termine dell'ufficio vespertino, san
Benedetto vuole che discenda il perdono di Dio, implorato nella maniera e
secondo la misura che Gesù stesso ci ha insegnato, e perciò in nome di tutti,
l'abate cantando ad alta voce il Pater noster supplicherà: «rimetti a noi i
nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori».

Se non si digiuna, i fratelli fanno una piccola refezione, che servirà loro di
cena, prima che l'ombra abbia invaso il monastero, poi, radunandosi per
ascoltare in comune una lettura di edificazione intanto che giungono anche
quelli che diverse occupazioni trattengono più a lungo impediti, tornano a
riunirsi per la preghiera della sera, la «Compieta».

Anche fuori, con l'attenuarsi della luce, i rumori si sono venuti a mano a mano
spegnendo. Nel tardo crepuscolo, per l'ultima volta, sulla vetta del monte, si
leva verso Dio, a implorare protezione e difesa contro ogni pericolo, per tutti i
fratelli, la preghiera dei monaci.

Essi conoscono il sottile senso di sgomento che l'oscurità comunica all'anima,


sentono la fiacchezza fisica dopo una giornata di lavoro estenuante, e sanno
quanto, in queste condizioni, la tentazione divenga più pericolosa; ripetono
perciò i salmi della fiducia, che cullano l'anima e la dispongono a riposare
sicura come un bimbo tra le braccia della mamma: «In pace in idipsum
dormiam et requiescam» (Mi addormenterò e riposerò tranquillo, in Lui).

Sulle casette che si stringono l'una accanto all' altra giù nella valle, o che si
staccano chiare, come sperdute tra il verde, si diffonde il canto che abbraccia
tutti gli uomini senza escludere nessuno:
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«Ti benedica da Sion il Signore, Egli che ha creato il cielo e la terra».

«Custodiscici, o Signore, come la pupilla dell'occhio».

«Proteggici sotto l'ombra delle tue ali».

Poi il canto tace, ombre silenziose affondano negli ambienti divenuti bui, il
silenzio domina assoluto, la giornata è finita.

Ogni giorno così, con regolarità perfetta, si snoda una vita che, attraverso una
stasi apparente, una specie di fissità gelosamente difesa dall'imprevisto che
potrebbe turbarne il ritmo sempre uguale, custodisce il massimo del
dinamismo interiore.

Da quell'austera disciplina di silenzio, di indefesso lavoro, di completa


subordinazione di ogni attività umana a un fine soprannaturale, emana una
potenza di attrazione umanamente inesplicabile.

L'individuo col suo influsso personale, le sue doti, la sua personalità,


scompare, per fondersi nella collettività, e così contribuire a fare del
monastero il centro irradiato re di misteriose energie spirituali.

Non è un uomo, per quanto grande, ma è un'idea che vive e si impone senza
rumore. Il monaco, chiunque sia, ne è l'espressione concreta, e i valori dello
spirito che in lui hanno ripreso il predominio sulle voci della carne, esercitano
un fascino al quale è difficile sottrarsi, e che anche i più refrattari finiscono col
subire loro malgrado.

Perciò il monastero, casa di Dio, è la mèta alla quale tutti si volgono con
fiducia piena in ogni bisogno, perché i servi di Dio che lo abitano sapranno,
volta a volta, farsi i ministri della sua carità, della sua misericordia, della sua
giustizia.

Doveva essere incancellabile l'impressione ricevuta da chi, ignaro delle usanze


monastiche, stanco dal disagio di un lungo cammino, incerto della strada da
percorrere in paese sconosciuto, avesse bussato,

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chiedendo ricovero per qualche ora, alla porta di Montecassino.

Accolto con venerazione, come Cristo stesso, circondato di premure per la sua
anima e per il corpo, non tardava a sentire che poteva considerarsi, in un
certo senso, come nella propria casa, che era tra fratelli, dai quali riceveva il
dono di poter gustare, forse per la prima volta, l'esperienza soavissima della
carità di Cristo tradotta in vita vissuta.

Per togliere ogni disagio all'ospite, l'abate stesso, che lo faceva sedere alla sua
mensa, sospendeva il digiuno, in segno di festa, certo, ma anche con la
delicata preoccupazione di non metterlo in imbarazzo.

Per quegli ospiti che arrivavano a tutte le ore e che in monastero non
mancano mai, san Benedetto esige che siano sempre pronti dei letti
comodamente forniti di tutto, e che i loro pasti siano preparati da fratelli «che
sappiano compiere bene il loro ufficio». Non si tratta quindi di una ospitalità
sciatta e affrettata, ma di un vero esercizio di squisita carità, del quale il Santo
trova la giustificazione nella parola di Cristo che, venendo a noi nella persona
di ogni fratello, potrà dirci un giorno: «Io fui vostro ospite e voi mi avete
accolto».

Il monastero è del resto aperto a confortare ogni stanchezza, quella fisica


come quella, ben più estenuante, delle anime.

Tra i vari precetti di vita spirituale che Benedetto lascerà ai suoi figli perché
servano loro di norma in ogni più svariata circostanza della propria esistenza,
molti riguardano le opere di misericordia da esercitare verso chiunque soffre
nel corpo e nello spirito, perché il monaco, isolandosi dal mondo, non chiude
il suo cuore alla voce del dolore umano, ma anzi lo allarga a consolarlo con
tutte le risorse di una carità che, nel contatto con Dio, raggiunge la sua
massima potenzialità.

Come un giorno nel suo speco, come poi sempre, il Santo non respinge
nessuno di coloro che salgono al

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monastero col cuore pieno di speranza perché sanno che ivi abita l'uomo di
Dio, e anzi, interponendo la potenza della sua preghiera, ottiene spesso che
venga miracolosamente premiata la fede di quell'umile gente devota, come
accadde al servo del padre del nobile Antonio, che, deformato da
un'elefantiasi e non sapendo più a qual rimedio ricorrere, fu dal suo padrone
mandato a Montecassino perché il Santo gli ottenesse quella guarigione che
umanamente appariva impossibile; cosa che difatti avvenne.
A Benedetto si potevano affidare tutte le proprie pene, nessuno meglio di lui
sapeva comprenderle e sollevarle.

Un pover’uomo penava per un grosso debito non sapendo proprio come


levarselo; quanto più il creditore diveniva insistente nell'esigere la
restituzione, e tanto più ogni via di scampo sembrava sbarrarsi davanti a lui.

Con l'animo oppresso dall'angustia, senza riuscire a trovare un aiuto tra i suoi
conoscenti che lo sfuggivano per evitare di soccorrerlo, pensò di affidare la
sua pena al Santo. Andò a trovarlo, e gli espose la situazione disperata nella
quale si trovava, abbandonato com'era alle angherie del suo creditore, che
quasi gli rendevano la vita impossibile.

Benedetto capì che in circostanze simili non ci vogliono soltanto buone


parole, l'unica consolazione efficace sarebbe stata quella di mettergli tra le
mani le dodici monete d'oro indispensabili per pagare il debito e rimandarlo
in pace, ma dove trovare una somma così considerevole? Il brav'uomo si
dovette quindi contentare delle parole più consolanti e di una speranza che, in
quel momento, rappresentava per lui la salvezza, certo com'era che non
sarebbe stata delusa.

- Va', - gli aveva detto l'abate - e torna tra due giorni, perché oggi non ho
quanto ti occorre. -Il Santo non sapeva da che parte gli sarebbe giunto

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il soccorso sufficiente per mantenere la sua promessa, ma, secondo il solito, si


raccolse in profonda preghiera, attendendo da Dio che gli concedesse ancora
una volta di poter essere ministro della sua misericordia.

Al terzo giorno qualcuno dei monaci gli venne a dire, con un certo stupore,
che sul cassone del grano si erano trovati tredici soldi d'oro, senza che si
potesse capire chi ve li avesse messi.

In quel momento arrivava, puntualissimo, il poveretto, al quale l'abate fece


subito consegnare la somma così misteriosamente scoperta, tredici monete in
tutto: dodici per soddisfare al debito, e una per i suoi bisogni più urgenti.

Scendendo dal monte col cuore gonfio di riconoscenza, la casa del Signore,
dove i suoi figli lo servono in fede e in carità, dovette apparire a quel
diseredato più che mai luminosa sotto il sole.
San Gregorio ci parla di un assiduo lavoro di evangelizzazione compiuto dal
Santo nella zona circostante a Cassino, e in due episodi dei Dialoghi lascia
intravedere alcuni monaci i quali erano stati mandati fuori del monastero per
motivi di assistenza spirituale alle popolazioni che si agglomeravano nei
borghi dei dintorni; evidentemente però sono casi sporadici di fronte ai quali
si impone l'atteggiamento costante della Regola la quale, sottolinea con
marcata severità, che il monaco deve evitare con ogni cura di uscire dal
monastero, e che, dentro il recinto monastico, egli deve svolgere tutta la sua
attività benefica.

Potrà certo uscire quando l'abate glielo comandi, ma allora è circondato di


cautele, e, prima che esca, e al suo ritorno, la preghiera fraterna fatta in
comune, nell'oratorio, dovrà quasi immunizzarlo dai pericoli del contatto col
mondo.

È un'osservazione caratteristica, che non viene mai considerata l'attività


apostolica propriamente detta, né la predicazione, come una delle occupazioni
abituali del

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monaco, ché anzi la mancanza di ogni norma al riguardo induce a credere che
essa esulasse, in linea di massima, dalle attribuzioni monastiche.

La cosa si spiega senza difficoltà se si tiene presente che il Concilio di


Calcedonia vietava recisamente ai monaci il ministero della predicazione,
riservato in maniera esclusiva ai Vescovi e ai sacerdoti quando ne avessero da
questi avuto la facoltà.

Lo stesso san Gregorio racconta del poco piacevole incidente occorso al santo
abate Eutizio che incappò in un serio processo da parte dell'autorità
ecclesiastica, proprio per aver voluto esercitare funzioni di ministero che a lui,
in quanto monaco, non competevano.

È probabile che Benedetto avesse ricevuto particolari facoltà al riguardo, forse


dal Vescovo stesso di Capua, quel Germano col quale dovevano poi annodarsi
così intimi legami spirituali; in ogni modo, anche se in realtà egli, come ci
afferma san Gregorio, predicò il Vangelo alle popolazioni circostanti per
ricondurle alla vera fede, non fu mai questo il lato più appariscente della sua
personalità.
Il monaco Marco che celebra con enfasi le benemerenze del Santo, e che si
attarda a descrivere la meravigliosa trasformazione operata a Montecassino
dalla operosità dei monaci guidati da Benedetto, non accenna affatto a
quest'opera di evangelizzazione, ed è sintomatico il fatto che, tra i molti
episodi raccolti nei Dialoghi di san Gregorio, neppure uno si svolga fuori del
monastero che appare come il teatro naturale della sua attività. Abbiamo
invece l'impressione che l'uomo di Dio, mentre afferma la sua personalità
monastica con le virtù che le sono essenziali, giunga a estendere il suo
influsso anche fuori della cinta del chiostro, attirando le anime a sé per
condurle in alto.

Meglio che proteso verso il mondo, ci riesce facile immaginarlo, pieno dello
spirito di tutti i giusti, raccolto in Dio, e, nella perfezione stessa della carità,
per virtù intrinseca di questa unione, imprimere la

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massima potenzialità all'efficacia della sua azione sulle anime.

E sarà questa ancora, attraverso i secoli, la forma di apostolato quasi


connaturale a ogni monastero benedettino, istituito come scuola di santità, e
al quale, per una specie di istinto soprannaturale, si rivolgono le anime, come
a una ricca sorgente capace di soddisfare la sete del divino che, presto o tardi,
si impone a ogni uomo che non sia imbestialito nella carne.

Benedetto non si sottrae al comune lavoro della famiglia monastica, anche se


questo esige che si esca nel campo per la coltivazione della terra. Anzi, fu
proprio mentre un giorno era occupato a qualche distanza dal monastero, in
campagna, che venne a cercare di lui un povero contadino quasi fuori di sé.
Aveva fatto in tutta fretta la ripida via del monte, stringendo tra le braccia il
cadaverino del figlio appena morto, e reclamava di veder subito l'abate.

Il brav'uomo non aveva il minimo dubbio che l'uomo di Dio avrebbe avuto
potere sufficiente per restituire la vita al suo bambino, purché lo volesse,
perciò, quando gli fu risposto che era assente, essendo andato a lavorare nel
campo, senza esitazione, deposto il figlioletto morto davanti all'ingresso del
monastero, corse concitato, stravolto, alla ricerca del Santo.

Proprio in quel momento il gruppo dei monaci lavoratori, con l'abate,


ritornavano lentamente, in silenzio, verso casa, attraverso i sentieri aperti tra
le colture bene ordinate. Furono investiti da un gridare scomposto, che sulle
prime rendeva difficile distinguere le parole, o per lo meno lasciar capire cosa
mai volesse quell'uomo che, scalmanato, correva verso di loro.

Non c'era da sbagliare, veniva verso l'abate, e ora erano chiare le sue parole:

- Restituiscimi mio figlio! ... Restituiscimi mio figlio! -

Benedetto lo guardò, fermandosi stupito, mentre i monaci gli facevano corona


intorno.

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Forse che io ti ho preso tuo figlio? -

La sua voce pacata, piena di serenità, sembrò calmare il dolore dell'uomo, per
lo meno lo rese più ragionevole, in modo da permettergli di spiegar meglio il
suo pensiero.

- Mio figlio è morto; vieni e risuscitalo, - e metteva nella sua richiesta quella
violenza decisa a non lasciarsi né piegare né convincere che è propria dei
contadini.

Non valsero quindi le proteste di Benedetto che cercava in tutti i modi di


dissuadere quel padre disperato, né alcun suo sforzo per fargli accettare la
convinzione che egli non aveva il potere di consolare il suo dolore restituendo
la vita al piccolo morto.

A ogni ragionamento quello opponeva più insistente la propria richiesta,


perentoria come un comando: - Vieni e risuscitalo! -

E giurava che non se ne sarebbe andato prima di essere esaudito.

Il Santo fini con l'esserne commosso; quel dolore era cosi sincero e profondo,
e la fede di quell'uomo tanto viva, che pensò avrebbe potuto giungere fino a
Dio per strappargli il miracolo.

Interrompendo quindi una discussione che minacciava di diventare


interminabile, domandò senz'altro: - Dov'è il ragazzo?

- Il suo cadavere è alla porta del monastero, - indicò l'uomo già rianimato
dalla speranza, e si uni al gruppo dei monaci per fare più rapidamente che
fosse possibile il tratto di strada che ancora restava da percorrere.
Quando si trovarono di fronte al corpicino irrigidito, sostarono tutti. Gli animi
erano sospesi, nell'attesa di qualche cosa di misterioso. Che cosa sarebbe
accaduto?

Il Santo si inginocchiò chinandosi sul piccolo cadavere, poi, risollevatosi, con


le mani al cielo, supplicò mettendo tutta l'anima nella sua implorazione:

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- Signore, non guardare i miei peccati, ma tieni conto della fede di quest'uomo
che implora gli venga risuscitato il figliuolo, e fa rientrare in questo corpicino
l'anima che ne avevi richiamata. -

La preghiera era appena finita che il cadavere del ragazzo cominciò a essere
scosso da un fremito, e, sotto lo sguardo attonito di quanti erano presenti, si
riebbe, palpitando, come al contatto misterioso di una forza sovrumana.
Benedetto allora, presolo per mano, lo restituì vivo e perfettamente sano al
povero padre.

E fu quella, senza dubbio, una delle forme di predicazione più efficaci


sull'animo delle popolazioni dei dintorni, per indurle a credere nel Dio vero
che il Santo serviva.

Così il monastero diveniva scuola per le anime di buona volontà, insegnava la


più semplice e insieme la più ardua realtà della vita: conoscere, amare, servire
Dio, ché per questo ogni uomo riceve il dono prezioso dell'esistenza.

Conoscere, attraverso la meditazione della parola ispirata con la quale Dio


stesso si manifesta a noi, attraverso la contemplazione appassionata del
Cristo, il magistero intimo dello Spirito Santo che si rivela ai puri di cuore.

Amare, nell'ansia dell'unione, divenuta sforzo concreto di perfezione,


eliminazione di quanto può dividere, impedire, o ritardarne l'ascesa, anelito
di configurazione positiva a Gesù, Vita, Verità, Via che sola conduce al Padre.

Servire, nel compimento quotidiano della divina volontà, nella lode, «l'opera
di Dio», «ufficio nostro di servitù» per eccellenza; nel lavoro, umile e
riconoscente accettazione della nostra condizione di povere creature che
hanno peccato e devono espiare; nella carità, superando il velo opaco della
carne, per sovvenire al Cristo che si nasconde in ogni fratello.

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IX. Cercatori di Dio.

Lo schema della giornata monastica, e la vita dai lineamenti così ben definiti
da dar quasi un'impressione di fissità, come si svolge a Montecassino, non è
che l'ossatura indispensabile a reggere l'attuazione coraggiosa e concreta
dell'ideale più alto che all'uomo sia dato porsi sulla terra: il raggiungimento
dell'unione col suo Dio, nella maniera più intima e reale possibile, sia pure
attraverso il velo della fede dal quale, finché siamo viatori, ci è vietata la
visione beatifica, la consumazione dell'unione nel possesso pieno e perfetto
della carità increata.

Quegli uomini che, piegandosi alla inflessibile e squisitamente paterna


disciplina di Benedetto, sul monte di Cassino, protetti dalla clausura che ne fa
dei segregati dal mondo, lavorano e pregano, racchiudono nel loro silenzio un
potente dinamismo di vita interiore, che li tiene protesi con tutto l'essere a
una mèta soprannaturale, nella quale trovano il principio e il termine della
loro esistenza, in apparenza incomprensibile, assurda, se ci lasciamo prendere
dalla tentazione di valutarla con le nostre meschine unità di misura, fatte per
le cose della terra.

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Essi sono, in realtà, degli appassionati cercatori di Dio. Anime che,


consapevoli dello stato di miseria profonda al quale il peccato ha ridotto
l'uomo, depravandone i sensi spirituali così da rappresentargli insipide le
gioie divine per renderlo famelico dei godimenti terreni a tal punto da ridurlo
schiavo di essi, hanno percepito la voce dello Spirito che ha dato loro
l'intuizione di un mondo superiore di Verità e di Bontà, e impegnano tutte le
loro energie per districarsi dall'umiliante e fascinoso groviglio delle voci della
carne. Fanno faticosamente la via, in una virile ascesa di liberazione e di
purificazione, per ricongiungersi al Principio della loro vita più alta, a Dio, che
aveva creato il primo uomo in una purezza perfetta, così da renderlo capace di
intimità «come di amico ad amico».

A sanare questa miseria senza nome, nella quale si assommano tutte le


miserie umane, e che noi chiamiamo «peccato», è intervenuta la Redenzione,
operata attraverso il mistero dell'Incarnazione, Passione e Morte del Figlio di
Dio, il Cristo.

Ma quest'opera redentrice, di una potenza e di un'efficacia infinita in sé, è, per


una provvidenziale disposizione divina, limitata nei suoi effetti dal grado della
nostra cooperazione ad essa, perché, secondo la bella espressione di
sant'Agostino, il Dio che ci ha creato senza di noi non ci vuol salvare senza di
noi, elevandoci, conforme la nostra dignità di creature intelligenti, al grado di
suoi cooperatori nell'opera di ricostruzione interiore che, dalle rovine create
dalla colpa, può condurci fino agli splendori della santità.

Ogni vita cristiana racchiude in sé, in potenza, questa capacità di ascesa fino
alla restaurazione dei più intimi rapporti con Dio, attraverso i gradi e le forme
diverse della santità, che tutte implicano però rinunzia al male e adesione al
bene, in un cammino senza soste che ha per termine Dio stesso.

In atto, pochi uomini, nella massa immensa, si impegnano per questa via, e
quelli che consentono ad

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attuare in sé con pienezza la Redenzione, secondando le esigenze dello spirito


in perpetuo contrasto con la carne, rimangono solitari su una via poco
battuta, guardati dagli altri con una specie di stupore misto a pietà.

Alle anime che vengono a lui, e gli chiedono di essere formate alla vita
monastica, Benedetto porrà questo quesito fondamentale: se veramente
cerchino Dio «si revera Deum quaerant». Se abbiano cioè ben chiara nel
pensiero la mèta da raggiungere: il possesso di Dio, l'unione a Lui, attuata
progressivamente attraverso una carità ardente e inesauribile nelle sue
esigenze, e, insieme, una volontà tesa al conseguimento di questo ideale,
pronta a dar tutto per il Tutto, a tutte le rinunzie in misura totalitaria, senza
mezzi termini. Una volontà, in una parola, che è decisa a non contentarsi di
nessun bene intermedio, ma vuole, in maniera assoluta ed esclusiva, il Bene
per essenza, Dio.

Se un'anima ha questa disposizione iniziale, si può tentare la prova, altrimenti


sarebbe inutile. La vita monastica non offre un clima adatto per gli ideali
attenuati, per le mezze volontà disposte a trovarsi soddisfatte di molti beni
raggiungibili con minor sforzo e con una più immediata soddisfazione: esige
dei forti.

A questi verrà proposto un modello: il Cristo. Tutto il metodo ascetico nel


quale dovranno esercitarsi, potrà ridursi a questo: guardare il Cristo e
riprodurne in sé i tratti fino ad essere configurati perfettamente a Lui, fino a
rendere conformi ai suoi i loro pensieri, e amare ciò che Egli ha amato, a
parlare, ad agire, come ha insegnato.
I gradi di questa configurazione, vivificata dalla carità, segneranno i gradi
dell'unione, fino a raggiungere, con aderenza perfetta, il grido dell'Apostolo:

«Vivo non più io, ma vive in me Cristo». (Gal 2,20)

San Benedetto concepisce la vita del monaco come un'attività somma, lotta,
corsa, ascesa faticosa. Non è

157

infatti senza sforzo rude che si compie nell'anima questo lavoro che implica
operazioni varie di eliminazione del male e di assimilazione del bene, lavoro
che dura quanto la vita, e che deve proseguire senza interruzione pur negli
inverni gelidi dell'anima, quando tutto vi sembra morto, attraverso la violenza
di suggestioni contrarie, nella deprimente costatazione di una miseria della
quale non giungiamo mai a toccare il fondo.

Il monastero sul monte di Cassino non potrà essere un comodo rifugio per
anime fiacche che sognano una pace idilliaca nella quale poter vivere al riparo
dalle molestie della vita. Benedetto lo ha concepito come una palestra dove, in
schiere compatte, ci si addestra alla lotta; una fucina dell'arte spirituale dove
si impara a forgiare la vita secondo le esigenze di un ideale supremo,
consentendo a essere battuti sotto il maglio, attuando in sé una morte
quotidiana nella gioiosa consapevolezza di dar così alla vita il suo valore più
alto.

Si impongono, come è logico, delle condizioni preliminari, e prima fra tutte la


rinunzia radicale e definitiva a qualunque bene inferiore che potrebbe essere
di impedimento alla esclusiva ricerca di Dio, o anche solo ritardarne
l'impulso. Rinunzia progressiva che investe i beni materiali, le ricchezze, i
beni del corpo con le soddisfazioni anche legittime che vi sono connesse, i
beni stessi dello spirito, compendiati nella volontà, ciò che è più nostro, più
intimo, che Dio stesso rispetta.

Queste tre rinunzie mettono il monaco in uno stato di segregazione perfetta,


recidendo ogni legame terreno fra lui e il mondo, dandogli, nell'atto stesso in
cui si compiono, il bene di una libertà che è condizione imprescindibile per il
suo pellegrinaggio verso l'Assoluto.

L'atto della rinunzia introduce però in uno stato nel quale bisogna custodirsi
contro gli elementi che vorrebbero ritrarne il monaco, elementi esteriori ed
elementi intimi i quali impongono un doppio ordine di barriere, quella
esterna della clausura monastica,

158

quella tutta interiore dell'esercizio generoso delle virtù. Esse mirano a


neutralizzare razione della triplice concupiscenza inerente alla nostra
condizione di natura decaduta, sempre in agguato per riassoggettare a sé
l'uomo che le sfugge, attraverso questo poderoso superamento di sé per il
quale lo spirito, sorretto dalla grazia, si impone su tutti i valori della carne.

Della separazione materiale dal mondo, Benedetto è geloso, con un rigore che
potrebbe, a prima vista, apparire eccessivo: il monaco non appartiene più al
mondo, deve con ogni cura eliminare i contatti che potrebbero mantenere o
far rinascere in lui una mentalità alla quale ha rinunziato per stabilire la sua
vita su un piano superiore, e regolarla esclusivamente in vista del possesso
pieno del regno di Dio.

Egli deve impegnarsi a superare la molteplicità che ne disperde le energie


spirituali, tendendo all'unità, all'adesione totale all'«unum necessarium».
Ogni voce del mondo, suscitando in lui ricordi, interessi, sogni, tempeste di
passioni regolate ma non estinte, ritarda il suo cammino, può talora giungere
a impedirlo del tutto.

Saranno quindi ridotti al minimo indispensabile i bisogni che possano


giustificare l'uscita dal monastero, e quando questa dovrà effettuarsi, che
protezione di preghiera intorno al fratello, prima che si allontani, e poi, al
ritorno, perché si cancelli dalla sua anima ogni traccia del contatto con una
vita che non è più la sua vita!

E non solo fuori del monastero, ma anche nel chiostro, dovrà essere con
vigilanza austera eliminato quanto può divenire nell'anima elemento di
divisione, o può in qualche modo offuscare lo sguardo interiore volto alla
contemplazione di Dio, e del suo Cristo.

Vietati quindi i contatti con gli ospiti; che pure sono accolti con un così
squisito senso soprannaturale; vietato, a chi per qualunque motivo sia dovuto
uscire, riferire al ritorno le novità del di fuori; vietato rice-

159

vere lettere senza il controllo dell'abate; è la polvere del mondo che deve
essere eliminata perché non offuschi la purezza del cuore, e sia praticamente
resa possibile una vita conforme all'ideale, nel silenzio che lasci percepire la
voce divina, nella limpidità dell'occhio interiore aperto ad accogliere la luce
deifica.

Il silenzio è l'altro elemento caratteristico della vita monastica. Un silenzio di


cose, di suoni, di parole, che pervade tutto il monastero, disponendo in esso
l'atmosfera propizia a questo contatto dell'anima col suo Dio che è
l'aspirazione profonda e insopprimibile di ogni autentica vocazione
monastica; silenzio che non è una legge disciplinare rigida e opprimente, ma
un bisogno dell'anima, e che è pervaso di adorazione, di attesa, di un
religioso, intraducibile senso di intimità.

Questi elementi esteriori rimangono nel pensiero di san Benedetto una


premessa necessaria, ma sempre in funzione di condizione al lavorio intimo di
purificazione e di ascesa che il monaco, cercatore di Dio, deve attuare in sé,
fino a giungere ad aderire perfettamente alle realtà del suo essere, miscuglio
strano di santità in potenza e di miseria in atto: ed ecco l'umiltà; deve poi
diffidare della volontà propria che, in questo labirinto di passioni, di
tendenze, di peccato, affonda le sue radici, così da non veder altra via di
salvezza che nel conformarla alla volontà di Dio, fatta oggetto del proprio
volere: ed ecco l'obbedienza; ma soprattutto deve sviluppare la carità, nella
corrispondenza fedele alla grazia, nell'abbandonare ad essa la propria vita,
come a un torrente di luce e di forza, che, travolgendo ogni ostacolo, la renda
capace dell'esperienza di Dio.

Nella concezione di san Benedetto, conforme del resto, a tutta la tradizione, il


monaco è un penitente, e la disciplina del corpo e dell'anima gli si impone
come una imprescindibile necessità di purificazione, ma questo elemento
negativo è sempre ordinato al conseguimento di

160

una maggiore pienezza di vita nella quale la carità riassuma in sé ogni altra
attività interiore comunicandole luce e ardore.

Cosi a santa Brigida apparve in una visione san Benedetto, sotto l'aspetto di
un gran rogo fiammeggiante, al quale si accendono altri fuochi, né Dante
seppe concepire altrimenti il Patriarca dei monaci d'Occidente, e i monaci in
genere: «Questi altri fochi tutti contemplanti uomini fuoro». 1

Cercatore di Dio, il monaco è, in virtù della sua vocazione, un contemplativo


che vive di adorazione e di desiderio, sempre proteso al possesso del Bene
che, nella misura nella quale è posseduto, gli dilata l'anima a una nuova
capacità di comprensione e gli comunica lo spirito di lode per questa
meravigliosa glorificazione della divina potenza che è il creato intero, l'azione
della grazia nell'anima sua.

Il monastero, «scuola di servizio divino», che è quanto dire scuola di santità,


deve garantire al monaco il complesso di condizioni esterne e spirituali atte al
conseguimento pieno del suo ideale, e tutto vi è ordinato a questo fine, che
rimane l'essenziale al quale si subordina ogni altro interesse e attività pratica.

La stessa disciplina monastica, in tutto il suo rigore, non è più così


considerata una coartazione estrinseca, ma diviene atto dell’amore che,
consapevole della sua debolezza, chiede di essere sostenuto e custodito contro
quanto potrebbe diminuirne l'intensità.

In questo orientamento spirituale la preghiera non è un esercizio della


giornata monastica, ma si confonde con la vita stessa del monaco, con ogni
suo atto, con i suoi pensieri, che, tutti, per l'impulso dell'inesauribile
desiderio, perdono il loro significato di particolari e contingenti per assumere
un valore unico di elevazione dell'anima a Dio, giungendo casi senza sforzo,
più per un bisogno incoercibile che non per un arduo dovere, -

___________________

1 Par. XXII, 46 e seg.

161

a quella «indisrupta oratio» (orazione continua), all'abituale contatto col


soprannaturale che costituisce l'incanto e la forza della vita del monaco,
riassunta da Cassiano in espressioni divenute poi classiche:

«Ogni fine del monaco, e tutta la perfezione del cuore tende alla continua e
ininterrotta perseveranza nell'orazione, e, per quanto è concesso all'umana
fragilità, egli si sforza all'immobile tranquillità della mente e a una perpetua
purezza, in vista della quale cerchiamo senza stancarci e continuamente
esercitiamo sia ogni fatica del corpo, sia la contrizione dello spirito». 1

Per chi non riesca a penetrare al di là del velo delle apparenze, la vita
monastica assume un carattere di deprimente monotonia, dividendo, con
ritmo sempre uguale, le giornate nelle tre grandi occupazioni che devono
assorbire tutte le energie fisiche e intellettuali del «cercatore di Dio»: il
lavoro, la «lectio divina», l'«Opus Dei», con una parte preponderante per
queste due ultime che più immediatamente si ordinano al fine.

La prima occupazione del monaco, quella «alla quale niente deve essere
anteposto», è l'Opus Dei: l'Ufficiatura sacra alla quale sono dedicate parecchie
ore del giorno che, per questo suo essere intramezzato di preghiera, viene a
riuscirne come impregnato di santità.

Almeno cinque ore al giorno erano riservate all'Ufficio, inteso come


glorificazione solenne di Dio, culto di adorazione, di ringraziamento, di
propizi azione, di supplica, che culmina e trova il suo centro nel sacrificio
della Messa, posto al centro di questa solenne liturgia che non è una semplice
parte, sia pure importante della vita del monaco, ma che su di essa imprime
una sua impronta caratteristica, trasformandola insensibilmente, adattandola
alla misura delle divine realtà.

Durante il servizio liturgico il monaco sa di essere nel cuore della sua


vocazione, ha coscienza del valore sociale dell'atto che compie in nome
dell'umanità della quale è

___________________________

1 CASSIANO, Conferenze, IX, 2.

162

costituito rappresentante autorizzato; traduce la sua gioia, il suo dolore, il suo


anelito verso l'Infinito, che sono poi le gioie, i dolori, gli aneliti confusi
dell'umanità, nelle parole che Dio stesso ha dettate all'uomo perché in
maniera meno inadeguata potesse parlare con Lui; tutto ciò che è egoistico,
gretto, troppo personale, si fonde in questo coro immenso, nel quale la voce
del monaco compendia in sé la voce di tutti i fratelli, e la sua anima riposa
nella contemplazione di Dio che è semplicità per essenza, e di cui le labbra
cantano i meravigliosi attributi.

San Benedetto non offre ai suoi figli i salmi e i testi della Sacra Scrittura come
una qualunque formula di preghiera della quale essi si possano servire per
tradurre in qualche modo i loro sentimenti personali. Qui è invertito l'ordine:
non è la parola che deve essere piegata a significare ed esprimere l'idea
dell'individuo, ma questa idea particolare deve adeguarsi alla parola, che ha in
sé un valore assoluto, e, essendo parola di Dio, deve informare, trasfigurare,
impregnandolo di verità, il caotico e opaco complesso delle nostre misurate
esperienze umane.

Considerato così, l'Ufficio divino, l'Opus Dei, non è solo un atto di culto che
esaurisca in sé il suo valore, ma ha una potente efficacia formativa sull'anima
del monaco, la plasma, le imprime una sua caratteristica fisionomia di
profondità e di universalità, viene abbozzando quasi insensibilmente in essa i
tratti che dovranno farlo riconoscere tra i «figli del Padre».

D'altra parte, la parola di Dio è parola viva, «penetrante come una spada a
due tagli» e, nella misura in cui il cuore sarà purificato da ogni nebbia di cose
terrene, essa vi penetrerà con tutto lo splendore della Verità, fissandolo nella
contemplazione delle realtà eterne delle quali solo lo Spirito Santo può dare
l'intelligenza intima e personale, capace di tradursi in opere di vita,
comunicandogli il «sapore», il gusto delle cose di Dio.

I suoni, i gesti assumono così un interesse secondario,

163

sono l'involucro attraverso il quale si stabilisce questo misterioso e ineffabile


contatto della creatura col Creatore: colloquio del cielo con la terra,
dell'Infinito con un piccolo essere, e del quale la parola non è se non un segno
che lo renda percepibile ai sensi, ma la cui realtà vera è nel profondo, dove la
parola si comunica da spirito a spirito, senza l'intermediario di nessun suono.

È tale il valore che nella concezione di san Benedetto ha l'Opus Dei e che
sempre ad esso ha dato la tradizione monastica. Anche nel pensiero dei
profani l'idea di monaco è inscindibile da quella delle fastose celebrazioni
liturgiche. C'è in questo un aspetto di verità, in quanto il valore essenziale
dell'ufficiatura è stato costantemente messo in rilievo da uno splendido
complesso di colori, di suoni, di forme, quasi a unire l'omaggio delle cose a
quello dello spirito, ma solo un aspetto, in quanto ben altro è il senso e la
funzione della divina lode nella vita individuale del monaco, e, con una più
larga risonanza, nella stessa vita sociale.

Ma l'Opus Dei non basta. Per il suo stesso carattere di preghiera pubblica,
ufficiale, lascia sussistere nell'anima, anzi spesso acuisce il bisogno di qualche
cosa di più intimo, in cui, libera da ogni esigenza di forma esteriore, essa
possa, nel silenzio, ascoltare e parlare al suo Dio, alimentando la sua pietà
nella conoscenza, nella meditazione, nel gaudio della verità.
Ed ecco che san Benedetto vuole lunghe ore nella giornata, due in media
durante l'anno, molto di più nella Quaresima, quasi l'intera giornata nelle
domeniche, dedicate a quella che, con un'espressione densa di significato e
intraducibile nella sua bellezza, egli chiama «lectio divina»: un esercizio che
potremmo paragonare, per formarcene un'idea, a una lettura meditata, dalla
quale sia esclusa ogni curiosità intellettuale, e che sia unicamente un nuovo
aspetto di ricerca di Dio.

164

La lettura è uno dei mezzi più ordinari attraverso i quali Dio comunica
all'uomo la sua parola: ebbene, chinarsi con amore sui testi dei quali la grazia
può fare veicolo di comunicazioni intime, cercare di percepire, attraverso le
parole offerte a tutti, la parola personale che è tutta e solo per noi, e poi
chiuderla nel cuore perché vi maturi e germogli in fecondità di opere, ecco lo
scopo della «lectio divina».

La Sacra Scrittura, gli scritti dei Padri, opere profonde di sicura dottrina, le
vite dei Santi, offriranno all'anima del monaco un largo campo; che cosa
legga, in fondo, importa poco, ciò che conta è che egli non trasformi la «lectio
divina» in un pio divertimento o in uno studio arido, ma che con umiltà, con
amore, con ardore, leggendo cerchi Dio.

In un'epoca nella quale era affatto sconosciuto l'esercizio della meditazione


nelle forme sotto le quali è divenuto tanto familiare alla pietà moderna, la
«lectio divina» aveva il compito di illuminare l'intelligenza, di accendere il
cuore, di creare convinzioni profonde, attraverso un insistente impegno di
assimilazione della verità, alla scuola dei Padri, ai quali ci si affidava come a
guide esperte nel proprio itinerario verso Dio.

Esercizio compiuto senza fretta, dedicando ad esso, dopo l'Ufficiatura, le ore


migliori della giornata, e sorvegliato con cura affinché l'accidia, cattiva
consigliera, non ne distraesse, sotto facili pretesti, i monaci.

Esercizio compiuto con gioia, «libenter», dirà san Benedetto: la gioia


dell'amore che si effonde nella ricerca del Bene amato e desiderato.

La tradizione monastica si è conservata fedelissima al concetto genuino di san


Benedetto intorno alla «lectio divina» considerata come insostituibile
strumento di perfezione, e san Bernardo, facendosene eco fedele, ne segnerà i
canoni in modo che non abbia a deformarsi, svuotando si del suo valore
fondamentale.
Esclusa la lettura fatta a scopo di curiosità, la scienza ricercata in vista di un
vantaggio umano, qualunque esso

165

sia, rimangono a regolare gli scopi della «lectio divina» due motivi superiori
«aedificare et aedificari»: ossia penetrarsi della verità per comunicarla agli
altri in un intento di carità spirituale, oppure per illuminare la propria anima
avvicinandola a Dio, in modo che ne sia eliminata ogni oscurità, vinta
l'accidiosa indifferenza per le realtà soprasensibili.

Ne deriverà come conseguenza naturale l'ordine di preferenza da assegnarsi


dal monaco alle sue letture: «Id prius quod maturius ad salutem, id ardentius
quod vehementius ad amorem». 1 Innanzi tutto ciò che più efficacemente ci
guida alla salvezza, con più ardore, quel che con maggior veemenza ci spinge
all'amore.

Ma forse nessuno meglio del monaco medioevale autore della Scala del
Paradiso ha penetrato e tradotto, in uno schema limpidissimo, lo sviluppo
intimo completo che è racchiuso in embrione nella «lectio divina», che egli
svolge in quattro gradi successivi: lettura, meditazione, preghiera,
contemplazione.

Si tratta di una riduzione in parole del movimento psicologico che diviene


quasi connaturale all'anima che si accosta al libro religioso dominata
dall'ardore della ricerca del suo Dio.

Prima di tutto la lettura, ossia il primo contatto con la verità, poi lo sforzo di
penetrare, di assimilare questa verità, di farla diventare elemento vitale, forza
direttrice per la propria attività, e, a sorreggere questo sforzo, l'implorazione
del soccorso di Dio attraverso un complesso di sentimenti di riconoscenza, di
desiderio, di amore, per riposare finalmente nel gaudio del possesso, tregua
per l'intelligenza paga dell'Infinito, pace per la volontà che aderisce senza
limitazioni al Bene che solo può quietarla nella insaziabilità delle sue
esigenze: è la contemplazione.

San Benedetto esige che si porti alla «lectio divina» un'applicazione seria,
sostenuto; essa non è un facile

___________________

1 SAN BERNARDO, Serm. 36 sul Cantico dei cantici.


166

passatempo per persone affrancate dalle più urgenti preoccupazioni materiali


dell'esistenza, ma un aspetto, una forma, e non sempre la più facile, della
ricerca di Dio. Impone quindi che, intrapresa la lettura di un'opera, essa sia
proseguita «ex integro», «per ordinem», senza sorvolare, senza lasciarsi
sopraffare dalla mania di conoscere con superficialità il pensiero di un autore
per slanciarsi all'esplorazione di un nuovo libro.

Il monaco non deve mai abbandonarsi a questa tendenza. Nella «lectio


divina» egli è unicamente teso ad ascoltare la voce di Dio, ogni parola che egli
scorre può essere veicolo della parola personale che il Verbo dice alla sua
anima - perché affrettarsi? - ogni frase può essere un seme di grazia.

Non sarà quindi il leggere molto, il sapere tante cose, che per lui conta, ma
piuttosto lo stabilire in sé le condizioni di silenzio interiore, di docilità, di
desiderio, che renderanno possibile alla grazia il compimento della sua opera.

Lo scopo della «lectio divina» non è di formare degli eruditi, ma dei


contemplativi. Perciò ha una così larga parte e una funzione così vitale nella
giornata monastica nella quale inserisce la sua linfa di pensieri soprannaturali
e di desideri santi.

Ultimo elemento dell'attività monastica, ma che, per essere il più


appariscente, si è imposto all'attenzione di chi è abituato a guardare le cose
dal di fuori: il lavoro.

San Benedetto riserva al lavoro una media di sei ore al giorno. Una misura
non eccessiva per non opprimere lo spirito, ma sufficiente a impegnare il
monaco in un'attività seria, disciplinata, produttiva.

Più che il fatto in sé, è interessante il valore e l'ufficio assegnato al lavoro nella
concezione del Santo che sembra trascurare completamente le necessità
materiali che praticamente lo impongono, per farne un fattore tutto spirituale
della vita del monaco.

167

Due sono i grandi motivi del lavoro monastico. Il primo in quanto esso entra,
come parte preponderante, nella legge penitenziale imposta da Dio all'uomo
peccatore. Il monaco, membro anch'egli di questa razza prevaricatrice che
peccò in Adamo e al primo peccato ne aggiunse altri personali innumerevoli,
e, per di più, penitente per la sua professione, non può legittimamente
sottrarsi alla condanna che grava sui fratelli, e dalla quale nessuno è fatto
esente, sino alla fine dei tempi: «Col sudore della tua fronte ti procaccerai il
pane» (Gen. 3,19).

Il secondo motivo, che san Benedetto ricorda esplicitamente, è che l'ozio è


nemico dell'anima, e da ciò viene di conseguenza che deve essere escluso dalla
vita del monaco il quale vuole eliminare tutti gli elementi negativi capaci di
ritardare, nel suo ritorno a Dio, l'incontro col Padre, o anche addirittura di
distoglierlo dalla mèta.

Per questo la cura che il lavoro riempia tutto il tempo che non è in maniera
più diretta speso nel servizio divino o nella lettura, e questo non solo per i
sani, ma anche, nelle debite proporzioni, per i più deboli e perfino per gli
ammalati, per non dire di quelli che, non essendo capaci di dedicarsi nei
giorni festivi a un più prolungato sforzo intellettuale nella «lectio divina»,
dovranno tenersi impegnati in qualche occupazione conveniente, come verrà
determinata dall'abate.

Lavoro in funzione di esercizio ascetico, quindi, e conseguenza pratica della


povertà che si è abbracciata rinunziando ai beni della terra; intima gloria del
monaco, che si sentirà veramente monaco quando dovrà vivere col proprio
lavoro, povero effettivamente come il Cristo, come gli Apostoli, come i grandi
padri e maestri del monachesimo.

San Benedetto non ha voluto legare i suoi figli a una particolare ed esclusiva
forma di attività: purché non si tratti di attività che esorbitino dai fini e dai
limiti della vita monastica, purché sia rispettato l'equilibrio nella

168

distribuzione delle ore di ogni giorno, per il rimanente, una norma dal largo
respiro:

«Se ci sono degli artefici esercitino pure le loro arti,» (Regola c. 57) perché
ogni forma di operosità umana, in sé, vivificata dalla carità, può divenire
glorificazione di Dio, mezzo di espiazione e di redenzione per l'uomo.

La Regola pone un solo impedimento, ma questo decisivo: se si dia il caso di


qualche esperto che tragga motivo dalla sua arte per inorgoglirsi e giungere a
credere di essere di qualche utilità, forse indispensabile al monastero. Questo
tale dovrà subito essere tolto dall'esercizio di un lavoro che non ha più ragione
d'essere, che è anzi un danno in quanto il monastero non è una corporazione
di artisti che si propongono il conseguimento di un fine umano, ma una
scuola di servizio divino, nella quale tutto assume il suo valore dalla
proporzione con la quale si ordina al fine.

Il monaco è proprietà di Dio, al quale si è spontaneamente dato, con tutte le


sue facoltà e le sue possibilità, delle quali solo potrà usare secondo le
indicazioni dell'obbedienza, come di un bene che più non gli appartiene, ma
che è bene di Dio, per la sua gloria.

Nella concezione benedettina il genere del lavoro da compiersi non ha


nessuna importanza: prevalentemente intellettuale o manuale a seconda delle
esigenze dei tempi e delle circostanze, circondato sempre dalla stessa stima,
non in quanto al frutto che se ne ricava o all'esercizio di facoltà che esso
imponga, ma in quanto è semplicemente lavoro.

È innegabile che in tutti i campi dell'attività umana il lavoro benedettino ha


compiuto opere grandiose, e di tale valore e fecondità che ancora la società ne
gode i frutti, forse senza più nemmeno pensare alle origini che li hanno
prodotti; ma questo lavoro anonimo, spesso continuato con perseveranza da
generazioni e generazioni, in armonia perfetta di volontà e di intenti, è stato

169

reso possibile solo perché chi lo compiva guardava non tanto al fine
immediato e terreno quanto a un altro, segnato da san Benedetto stesso, e
proprio nei riguardi del lavoro monastico: «ut in omnibus glorificetur Deus»
(che in ogni cosa si dia gloria a Dio).

Missionari, dotti, artisti, coltivatori, i monaci rimangono i grandi lavoratori


che nella loro multiforme e poderosa attività vedono essenzialmente uno dei
grandi mezzi che li aiuteranno nella ricerca di Dio, e daranno perciò la
preferenza, per una specie di istinto soprannaturale inerente alla loro
vocazione, a quelle forme di lavoro che meglio permettano di non
abbandonare i «chiostri del monastero» e meglio siano capaci di garantire i
caratteri di silenzio e di ritiratezza che ne costituiscono l'immateriale
protezione.

Un lavoro compiuto in questo spirito ha una sua risonanza di gioia interiore


che imprime una inconfondibile fisionomia a tutta la vita, in quanto non è
accettazione subita di una necessità estrinseca, ma attuazione di energia in
piena libertà di spirito, con adesione spontanea della volontà.

San Benedetto, che restituendo al povero goto di Subiaco il suo falcetto


affondato nel lago gli aveva detto una parola che è tutto un programma:
«Lavora e non essere triste», ha percepito il valore intrinseco di questa gioia
del lavoro, e si sente nella sua Regola la preoccupazione che essa non venga
soffocata da elementi deprimenti, soprattutto con la insistente
raccomandazione che il lavoro sia sempre proporzionato alle forze di
ciascuno; l'intento è chiaro, un lavoro eccessivo assorbe energie e crea
preoccupazioni che certo non favoriscono la vita dello spirito alla quale, come
a ragione ultima, tutto deve essere ordinato.

Necessario per ristabilire l'equilibrio fisico e spirituale dopo le lunghe ore


dell'Ufficio e della «lectio divina», il lavoro deve fornire una distensione
perché, con nuovo slancio, si possa poi tornare a un'applicazione diretta e
sostenuta a Dio, in un intreccio di diverse attività,

170

mirabile per discrezione e per esperienza delle possibilità umane che la


tradizione ha consacrato nel motto: «Ora et labora», ma che con più esattezza
potrebbe definirsi un'unica preghiera nella quale ogni facoltà umana canta a
Dio la sua lode e il suo desiderio, come nell'inno di Terza, ogni giorno, i
monaci ripetono al loro Signore: «Os, lingua, mens, sensus, vigor,
confessionem personent» (le labbra, la lingua, la mente, i sensi, le energie
tutte facciano risonare la lode).

Un giorno fu riferito a san Benedetto che l'eremita Martino, celebre nei


dintorni per la singolare santità della sua vita, per costringersi a non uscire
dalla spelonca che aveva scelto per sua dimora, dopo essersi legato un piede
con una catena ne aveva fissato l'altra estremità alla roccia, costituendosi così
in una rude, per quanto volontaria prigionia.

Tra i santi ci sono delle intimità ardite, qualche volta, e l'abate di


Montecassino mandò un suo discepolo all'eremita di Monte Marsico con una
singolare raccomandazione:

- Se sei servo di Dio, o Martino, non ti trattenga una catena di ferro, ma la


catena di Cristo. -
C'è in queste parole rivelatrici tutta l'anima di Benedetto, lo spirito
riformatore della sua vita, della Regola che ha scritto per i suoi figli.

Egli li concepisce fondamentalmente «cercatori di Dio», uomini che hanno


intuito nella luce della grazia, un bene, anzi, il Bene, al quale tendono con
tutte le loro energie, che sono, in altre parole, dominati da un grande amore.

L'intensità di questo amore segna la profondità e la serietà dello sforzo nella


ricerca, e garantisce da sola la fedeltà ai mezzi che devono condurre al fine;
senza amore, a volerla misurare con le nostre banali unità di misura, la vita
che Benedetto propone ai suoi figli, quella che egli stesso ha vissuto, è un
assurdo. Uno dei suoi precetti più profondi è quello che chiede al monaco di

171

non anteporre assolutamente niente all'amore di Cristo, e che esige per Dio
l'amore totale, con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze.

Il motivo ultimo dell'obbedienza più assoluta, persino nelle cose che


potrebbero apparire impossibili, è uno solo: l'amore di Dio.

Questo stesso amore che insegnerà al monaco a pregare per i nemici, ad


abbracciare con generosità e con slancio, anzi a «custodire» la sua Regola, a
prestare all'abate una umile e devota riverenza, non per le sue qualità umane,
ma «amore Christi».

L'amore di Cristo! La frase che ritorna attraverso i vari capitoli della Regola
con una frequenza che non ha niente di studiato, come la spiegazione
suprema delle esigenze spirituali più austere, a tal punto, che parlando
dell'obbedienza monastica, il Santo potrà dirla la virtù che conviene «a coloro
che non stimano di avere niente che per essi sia più caro di Cristo»; gli altri,
quelli che non amano, come potrebbero comprendere il valore di questo
olocausto che è il dono più alto che una creatura possa fare a Dio?

Ed è così che al culmine dei dodici gradi di umiltà, che racchiudono un rude
cammino ascensionale di perfezione, la mèta, il compenso che giustifica ogni
sforzo sarà il raggiungimento della carità perfetta, la gioia dell'esercizio della
virtù, il possesso pieno di Dio.

Come la vera forza vincolatrice del monaco, che lo lega indissolubilmente al


suo monastero, sarà la «catena Christi» l'amore che trascende ogni altro
amore, la gioia e la inesauribile forza della sua vita di cercatore di Dio.
172

X. Colui che tiene le veci di Cristo

Nel pensiero di san Benedetto, per il quale il monastero ha, come lineamenti
essenziali, il doppio carattere di famiglia e di scuola, è naturale che l'abate,
padre e maestro, venga ad assumere un influsso morale di importanza
decisiva nei confronti delle anime che Dio chiama alla vita monastica.

Ed è caratteristica in Benedetto questa fisionomia, dalla quale non possiamo


prescindere, nell'accostarci a lui, tanto essa è quasi connaturata alla sua
anima, e domina, come principio informatore, tutta la sua attività.

Le pagine di singolare profondità attraverso le quali egli ha delineato nella


Regola il tipo dell'abate, sono per noi preziose come elementi autobiografici di
valore unico, in quanto controllati e commentati dagli episodi della sua vita
che san Gregorio ci ha tramandati nel libro secondo dei Dialoghi.

Per san Benedetto l'idea della paternità viene ad essere l'idea madre che
determina ogni manifestazione dell'abate, e imprime una specie di carattere
sulla sua anima stessa.

La famiglia monastica è la famiglia di Dio, unita da vincoli spirituali che


trascendono ogni legame umano,

173

ma il Padre invisibile che sta nei cieli ha un suo rappresentante visibile nel
capo del monastero, al quale incombe il dovere di tenerne le veci più
degnamente che sia possibile, e che ha d'altra parte, per logica conseguenza,
diritto a un onore e a un amore unico da coloro per i quali, al disopra di ogni
valore terreno, egli è «colui che tiene le veci di Cristo».

Questo senso di dignità soprannaturale, che trascende l'uomo e trova la sua


giustificazione in Dio, è vivissimo nel Santo che pure dell'umiltà ha fatto il
fondamento della vita monastica e insieme il compendio della perfezione
religiosa, ed egli esigerà perciò il titolo di signore e abate, con la riverenza
intima ed esteriore che vi è connessa «non per sua usurpazione, ma per onore
e amore di Cristo» che egli rappresenta.

Esercizio di fede che deve tener tesa l'anima del monaco verso la realtà
superiore velata dalle contingenze umane, variabili e relative, portandolo a
mantenere, attraverso le necessarie relazioni con una creatura, attuale e vivo
il contatto con Dio.

E se uno dei figli, per un momento poco vigilante, lascia che si offuschi il
lucido sguardo dell'occhio interiore, fermandosi sull'uomo, egli lo riconduce,
inesorabile, alla verità superiore che sola deve essere norma di pensiero e di
vita.

Si era fatto tardi, una sera, e il crepuscolo inoltrato riempiva ormai d'ombra il
refettorio, quando Benedetto poté pensare a prendere un po' di cibo, per cui
fu necessario rischiarare l'ambiente con una lucerna.

Per reggere la lampada davanti alla mensa dell'abate fu scelto un giovane


monaco che non aveva ancora dimenticato del tutto le sue origini signorili,
era infatti figlio di un avvocato, e si sentiva «qualcuno».

Evidentemente l'incarico avuto gli seccava; con molta probabilità a casa sua
aveva visto adempierlo dai servitori, senza che vi avesse badato chissà mai
quante volte, ma solo ora si rendeva conto che era una cosa sinceramente
fastidiosa, e la noia, trovando un alleato nell'orgoglio,

174

cominciò a far mulinare nella sua mente un certo malumore.

Dapprima qualcosa di vago, che veniva sempre più determinandosi, fino a


mettergli l'anima in tempesta. Lo indispettiva lo star lì a far lume, come un
palo, mentre l'abate pranzava, e dentro di sé mormorava:

«Chi è costui, che io devo servire mentre mangia, e stare a guardare,


reggendogli la lucerna? Uno come me, servire a questo tale?»

L'atteggiamento esterno non lasciava trasparire il minimo segno di


ribollimento interiore, ma all'occhio del Santo non sfuggiva il fermento
cattivo che veniva guadagnando l'anima di quel povero figliuolo: la
suggestione dell'orgoglio lo aveva vinto, ed egli cedeva senza opporre
resistenza. Lo fissò con i suoi occhi che sembravano scrutare tutte le
profondità, e che avevano un lampo di severità, mentre il giovane monaco si
sentì investire quasi con violenza:

- Traccia un segno di croce sul tuo cuore, fratello; cosa vai rimuginando?
Segnati il cuore. -
E subito comandò ad altri che erano presenti di togliergli la lucerna dalle
mani, ingiungendo al colpevole, liberato ormai da quel fastidio, di andarsene
a sedere indisturbato, senza repliche.

La scenetta rapidissima mise addosso ai monaci, che per caso erano lì, una
incredibile curiosità, e non ebbero pace fino a che non si furono fatti
raccontare dal monacello tutto sbalordito e mortificato come fossero andate le
cose.

E fu per tutti una profonda lezione che li aiutò certo a capire come Benedetto
non considerasse alcuna gloria più alta di quella di esser stimato degno di
servire Cristo in chi lo rappresenta.

Ma la nota essenziale della paternità è la trasmissione della vita. Vita fisica o


vita soprannaturale, conta poco; o meglio, conta in quanto non meno reale,
ma d'ordine

175

più elevato, è la paternità spirituale di chi trasmette la vita della grazia


generando le anime a Dio.

San Benedetto sente potentemente questa funzione che compenetra il suo


pensiero e la sua attività, e ne fa il dovere centrale dell'abate, al quale compete
tale faticosa generazione delle anime a Dio, attraverso la comunicazione
integrale della dottrina di perfezione, proposta e resa intelligibile con le
parole e con l'esempio, messa a portata di ogni volontà buona che se ne faccia
viatico per il proprio cammino.

Egli non ignora certo che il santificatore è uno: lo Spirito di verità che Cristo
ha mandato all'uomo per trasformarlo, e, da un pugno di fango sfigurato dalle
passioni, fare un figlio di Dio, ma sa anche che questo spirito opera attraverso
altre creature scelte come canali ordinari di verità e di luce.

Non compie quindi un'opera sua personale, ma l'opera del Signore, e perciò
non pretenderà di modellare le anime su un unico stampo rispondente al
proprio ideale, ma si contenterà di «spargere il fermento della divina
giustizia» (Regola c. 2) nella mente dei discepoli.

Il fermento! Una potenza, un principio, che si attuerà poi singolarmente nelle


forme e nella misura stabilita dalla Provvidenza, mentre l'abate dovrà vegliare
con cura assidua a questo sviluppo di vita, favorirlo, dimenticando
completamente se stesso, preoccupato solo della gloria di Dio attraverso la più
alta santità di ognuno dei suoi figli.

Il suo insegnamento sarà la limpida e vivente traduzione della parola del


Signore, al quale dovrà rendere conto della purezza integrale con la quale la
trasmette, e insieme della cura adoperata nel farla accettare dalle anime,
come del loro maggiore o minore rendimento spirituale egli dovrà
considerarsi il principale responsabile.

Quindi un complesso e sapiente lavoro che non si esaurisce in appropriate


esortazioni, ma che si riflette

176

su ogni episodio della vita, in quanto esso non può esser considerato qualche
cosa di sporadico, di chiuso in sé, ma come uno degli innumerevoli elementi
che tutti devono convergere al conseguimento pieno dell'unico fine comune:
la ricerca di Dio per l'unione perfetta con Lui.

E se per alcuni individui la parola finisce col perdere il suo iniziale valore, e il
suo effetto è quasi neutralizzato dalla tiepidezza di certe anime che sono
venute a patti con la natura, consentendo a una mentalità fatta di transazioni,
di interpretazioni, di adattamenti, l'abate dovrà vigilare, ricorrendo a più
efficaci lezioni, servendosi come alleate delle circostanze più svariate, che
potranno rendergli possibile di imprimere una verità in maniera indelebile
anche nei cuori più assonnati.

Che un monaco debba obbedire, per esempio, non è cosa che si possa
dimenticare, tanto più che a chiunque avesse chiesto di entrare a far parte
della famiglia monastica, san Benedetto cominciava col chiedere, non tanto se
fosse disposto a obbedire, quanto se avesse la «sollicitudo», la premura, la
soprannaturale passione dell'obbedienza, e non possiamo certo pensare che il
Santo abbia poi trascurato di inculcarla e di esigerla incondizionata dai suoi
figli. Un'obbedienza che abbraccia tutto, senza esclusione, perfino le cose che
a prima vista appaiono impossibili.

Ma siccome siamo uomini, e può accadere che in certi momenti anche le idee
più luminose si appannino, così avvenne che una volta il cellerario di
Montecassino ne fece una grossa, in questa materia.
Era tempo di gran carestia, e i poveri affluivano da tutte le parti per attingere
alla inesauribile carità del Santo che, incapace di un rifiuto, aveva finito col
dare quasi completamente fondo alle riserve della dispensa monastica.

Possiamo pensare che il cellerario guardasse con una certa malinconia, del
resto comprensibilissima, poche misure d'olio rimaste in fondo a un
recipiente di vetro, e

177

che avrebbe dovuto essere sufficiente ai bisogni dei fratelli chissà mai fino a
quando!

Non era una preoccupazione da poco, lo si capisce bene.

Ed ecco che arriva al monastero un suddiacono dei dintorni, un certo Agapito,


e prega e supplica che gli diano per carità almeno un misurino d'olio, proprio
l'indispensabile per tirare avanti.

L'abate conosceva bene le condizioni della dispensa, e non poteva ignorare


che non c'erano più ormai se non quelle due dita d'olio in fondo alla bottiglia,
ma siccome, ci assicura san Gregorio, «aveva stabilito di distribuir tutto sulla
terra per mettere tutto al sicuro nel cielo», ordinò senz'altro che venisse dato
in elemosina anche quell'ultimo rimasuglio.

Il buon cellerario avrà pensato senza dubbio che la generosità dei santi è
davvero commovente, ma che ha bisogno di essere temperata con un po' di
buon senso umano, perché non degeneri in esagerazione, e, per parte sua, si
adoperò a mettercelo, facendo orecchi da mero cante all'ordine dell'abate.

Senza discussioni, senza replicare, dopo aver ascoltato con deferenza, scivolò
via giudicando che, proprio al lume della carità, considerati da un lato i
bisogni del suddiacono Agapito, e dall'altro quelli della comunità, la
preferenza doveva darsi a quest'ultima. Si sa, il più vince il meno!

Ma la cosa non andò liscia.

Dopo poco, infatti, Benedetto andò a informarsi dal cellerario se quella carità
fosse stata fatta, e questi, colto alla sprovvista, dovette confessare di non
averne fatto niente, tentando di giustificarsi con quella che a lui appariva una
ragione di evidenza intuitiva. Come obbedire se dando via l'olio non ne
sarebbe rimasta nemmeno una goccia per i fratelli? Il padre abate doveva
capire ... e invece, niente affatto, dl quel discorso che avrebbe voluto essere
eloquente, il Santo capì solo una cosa, che

178

quel suo figliuolo aveva mancato cadendo in una colpa di disobbedienza, e ne


fu sdegnato.

In una vita che pone tra i fini più necessari da raggiungersi la purificazione
dal male, il peccato acquista una sua specifica gravità, determinandosi una
specie di incompatibilità morale tra di esso e la professione monastica. Le
anime la percepiscono in proporzione della loro sensibilità spirituale, e in
Benedetto questa era acutissima.

L'oggetto stesso della colpa gli apparve come qualche cosa di impuro, di
intollerabile, e, con un accento di autorità al quale non era possibile resistere,
ingiunse a un monaco che per caso era presente di scaraventare giù dalla
finestra il boccione col poco olio che vi era rimasto. Egli non poteva
ammettere che si conservasse in monastero assolutamente niente che fosse
frutto di disobbedienza.

Questa volta nessuno pensò a scansare il comando, e il recipiente, disegnato


un bell'arco nell'azzurro del cielo, precipitò giù per la balza scoscesa andando
a battere contro la roccia in fondo al dirupo. Ed erano le ultime gocce d'olio
che rimanevano in casa!

Qualcuno andò più tardi a spiare che fine avesse fatto quel disgraziato
boccione e, con molto stupore, fu riferito al padre abate che il recipiente,
nonostante il volo fatto, era rimasto intatto, e del prezioso olio non si era
versata nemmeno una goccia.

Egli non ne sembro affatto meravigliato. Bene, lo raccogliessero per decidersi


finalmente a consegnarlo al povero suddiacono ancora in paziente attesa, e
che certo non sospettava di essere stato causa di tanto scompiglio.

E non finì lì. La colpa era stata grave, si imponeva la necessità di punire e
guarire insieme, ridando a un'anima la visione esatta del valore
soprannaturale dell'obbedienza.

Radunò quindi tutti i fratelli e rimproverò con severità esemplare il colpevole.


Era stato orgoglioso e superbo, anteponendo il suo giudizio a quello del

179
superiore, e soprattutto, era stato infedele alla promessa d'obbedienza fatta
solennemente davanti a tutta la comunità che ora veniva resa consapevole
della sua infedeltà. Bisognava ora che lui e tutti imparassero, per non
dimenticarlo mai più, che Dio si fa giuoco, nella sua onnipotenza, di tutte le
meschine precauzioni della nostra egoistica prudenza terrena. E, nella stessa
dispensa dove tutti erano raccolti, si prostrò in preghiera in mezzo ai suoi
figliuoli che pregavano con lui, ancora impressionati e addolorati
dell'accaduto.

C'era in un angolo un grande orcio vuoto, ben chiuso, ed ecco che d'un tratto
si vede il coperchio del recipiente sollevarsi come alzato da una mano
misteriosa e l'olio traboccare lentamente, e scivolando lungo i fianchi
dell'orcio, allargarsi per terra, ricoprendo il pavimento, sotto gli occhi
trasognati dei monaci che erano rimasti senza parola.

Se ne accorse anche il Santo, che desistette dalla sua preghiera, e nello stesso
istante l'olio cessò di scorrere. Gli fu facile allora, di fronte all'evidenza del
miracolo, completare le sue ammonizioni sullo spirito di fede e di umiltà, e il
povero cellerario, certo, non l'avrà dimenticato per tutta la vita.

Le anime ricevevano così un'impronta profonda sotto la mano poderosa e


dolcissima di questo insuperabile forgiatore di coscienze, che perfino il dono
dei miracoli faceva convergere a rendere feconda la sua missione di dare a Dio
adoratori schietti in spirito e verità.

Benedetto aveva il dono non comune di comprendere le anime, valorizzando


ogni energia buona, reprimendo decisamente il male, soprattutto quando è
avvertito e manifesta un consapevole allontanamento della creatura dal suo
Dio, ma con la debolezza, l'ignoranza, la fragilità di qualunque specie, fu
sempre infinitamente pietoso.

Egli si rende conto che l'abate, in funzione di padre, ha intrapreso, accettando


di dirigere le anime, una

180

missione quanto mai scabrosa e delicata, che non può esaurirsi nel
mantenimento della disciplina o nella buona amministrazione del monastero,
ma che si risolve in un servizio tale da esigere l'impiego di tutte le energie
migliori per il bene del suo gregge.
La personalità dell'abate quasi scompare, nell'esercizio di questa sua
paternità, che importa un lavoro continuo di adattamento alle possibilità delle
singole anime, condotte con ogni mezzo al raggiungimento del loro pieno
sviluppo e dell'impiego migliore del talento loro affidato.

Non sarà mai il «suo» ideale per quanto altissimo, che egli dovrà sforzarsi di
vedere attuato nei propri figli, ma unicamente l'ideale di Dio, scoprendo il
piano della Provvidenza per ognuno di essi, e conformandosi ad esso, al di
fuori di ogni soddisfazione personale.

E che delicatezza si impone in questo contatto, in questo «servizio», che non


può limitarsi a impedire il detrimento delle anime, ma che vuole di ognuna di
esse fare una perfetta lode al Signore!

Perciò si preoccupa che, trasportato dallo zelo, e dimenticando le reali


possibilità dei monaci, l'abate, nel desiderio di radere troppo la ruggine non
giunga invece a forare il vaso, o che volendo far camminare troppo le sue
pecorelle, non gli avvenga di farle morire tutte in un giorno.

Incoraggiamenti, esortazioni, rimproveri, castighi, saranno a tal fine nelle sue


mani gli strumenti dei quali, volta a volta, si servirà per conquistare all'amore
della verità e della perfezione le anime che si affidano a lui. Vie diverse per le
quali tutte saranno condotte verso la mèta comune, che è poi il comune ideale
per il quale si è formata e vive la famiglia di questi generosi soldati di Cristo.

La carestia che circa il 537 riempì di desolazione tutta l'Italia, e fu


particolarmente sentita nella Campania, ebbe le sue inevitabili ripercussioni
anche a Montecassino, mettendo alla prova parecchie virtù non ancora

181

ben temprate, e scoprendo molte debolezze in anime non ancora


completamente sciolte da ogni preoccupazione terrena per vivere di fede sulla
parola di Cristo.

L'episodio del cellerario disobbediente, che va riportato a questo periodo, ne è


una conferma.

Ma anche senza lasciarsi sedurre fino a cadere in una colpa così grave, si
dovette verificare, in una misura ben più larga, quel senso di malessere, di
angustia per le privazioni imposte, e forse più per quelle temute, quei
fenomeni di ripiegamento e di tristezze pessimistiche che si compendiano poi
tutte, anche se con sfumature diverse, in un comune difetto di sfiducia nella
Provvidenza.

Eppure Benedetto vuole che il monaco viva di fede; tutto il suo insegnamento
e la sua vita riposano su uno spirito di fede attiva, operante, che deve
informare ogni atto, ogni relazione con i fratelli, che deve garantire quella
pace senza la quale l'anima, turbata, non può perfettamente unirsi a Dio.

Neanche a Montecassino tutti i monaci possedevano questa pienezza di fede.


Il fatto dell'olio ne dà la conferma, e la minaccia persistente della fame, le
molte limitazioni imposte, e la quasi impossibilità di provvedere il necessario,
anziché sviluppare la fiducia nell'aiuto della Provvidenza, immiserivano le
anime curvandole verso la terra.

Un bel giorno si giunse a tal punto che, venuta l'ora della refezione, non fu
possibile radunare se non cinque pani: ben poca cosa per tutta la comunità,
tanto più se si pensa che non sappiamo se il resto del pranzo fosse molto
abbondante. Saremmo indotti a pensare di no, meditando su quella
«pusillanimitatem» di cui parla san Gregorio riferendo il fatto, e che ci mette
davanti una serie di facce lunghe con degli occhi sgomenti sui quali anche un
non esperto psicologo avrebbe potuto leggere un: «Come faremo?», o «Come
si vivrà?».

182

Quel giorno san Benedetto non si sdegnò: aveva davanti dei deboli, non dei
disobbedienti.

Il racconto di san Gregorio però ci dice che egli fu «contristato» di questo


incidente, e ci è lecito pensare che, più che per la scarsezza del pane, lo fosse
per la fiacchezza morale di quegli sfiduciati soldati di Cristo.

Non li rimproverò, erano troppo oppressi e forse irritati per poter sopportare
una correzione severa, e si limitò per quella volta a mostrare la poca coerenza
di un contegno semplicemente illogico per chi abbia fatto della parola del
Vangelo il fondamento della propria vita, e proprio appoggiandosi alle
promesse evangeliche abbia rinunziato a quanto potrebbe considerarsi una
specie di garanzia terrena.

Li voleva forti nella fede, incoraggiandoli a sperare che domani Dio avrebbe
saputo compensare la scarsità dell'oggi: «Perché il vostro animo è pieno di
tristezza per la scarsità del pane? Oggi è insufficiente, ma domani ne avrete in
abbondanza».

Un po' sollevati, ma forse non ancora del tutto tranquilli, passarono quel
giorno attendendo il domani, e difatti il giorno appresso si trovarono
ammucchiati davanti alla porta del monastero dei sacchi per ben duecento
moggi di farina, senza che mai nessuno riuscisse a scoprire per opera di chi la
Provvidenza avesse accumulato tutto quel ben di Dio.

Era la risposta del cielo alla fede del Santo, la prodigiosa conferma che niente
verrà a mancare a coloro che temono il Signore, e fidandosi di Lui, non si
lasciano sopraffare dalle difficoltà e dalla soverchia preoccupazione delle
necessità materiali.

Benedetto sentiva profondamente la responsabilità delle anime che gli si


erano affidate. Si potrebbe dire che questo senso di vigile paternità che non
conosce riposo è talmente vivo in lui da fondersi con la sua stessa vita più
intima, perché nei suoi rapporti con Dio, nelle ore di solitudine, attraverso
qualunque

183

occupazione, egli rimane il padre che non perde mai di vista i suoi figli, vicini
o lontani, e ne custodisce l'anima, spesso ancora non matura nella virtù, con
una premura di madre.

Quando può li previene del pericolo perché se ne guardino, e, se li deve


allontanare per qualche necessità, li segue con quel suo sguardo al quale pare
che niente possa sottrarsi, e per il quale si direbbe non esistano più distanze
nello spazio ed essi si sentiranno avvolti dalla paternità del Santo che vigila e
sostiene, accompagnandoli in ogni loro azione, come da una custodia capace
di difenderli dalla facile tentazione di cedere alle voci della natura.

A Montecassino la vita personale, intima, di Benedetto ci sfugge un po'. Più


che tutto egli è il padre, e l'esercizio di questa sua alta funzione
soprannaturale lo investe di una nuova luce, completa la sua fisionomia
spirituale, così che non ci riuscirebbe più scinderlo dalla corona dei figli.

Ne aveva mandati due, un giorno, per affari del monastero, non molto
lontano: in giornata avrebbero dovuto essere di ritorno, quindi, secondo la
Regola, non dovevano per nessuna ragione permettersi di mangiar fuori.
Su questo punto tutti conoscevano il rigore dell'abate e si sarebbero guardati
bene dal trasgredire l'ordine.

Ma quel giorno, non sappiamo bene come sia andata, tra una cosa e l'altra si
fece tardi, e, stanchi com'erano, pensarono di riposarsi un po' presso una
buona donna che conoscevano bene.

Accolti con festa, si sa come succede, la donna a insistere che accettassero un


boccone, loro a scusarsi, quella a non voler sentir ragioni, insomma andò a
finire che cominciarono a trovare abbastanza ragionevole ristorarsi un po'
prima di rimettersi in cammino; l'abate avrebbe capito, e poi si sa, ogni regola
ha la sua eccezione, e quello parve loro proprio il caso. Per concludere,

184

fecero un buon pranzetto e poi ripresero, ben ristorati, la via del ritorno.

A mano a mano che salivano il monte, le ragioni che a loro erano sembrate
così evidenti poco prima, incominciavano a traballare nella loro coscienza, e
sentivano qualcosa che divenne senz'altro sgomento, quando, arrivati molto
tardi al monastero, e andati secondo il solito a prendere la benedizione
dell'abate, si sentirono domandare a bruciapelo:

- Dove avete mangiato? -

Ebbero d'un tratto la percezione netta di aver mancato gravemente, e senza


riflettere cercarono per istinto di scansarne le conseguenze, mentendo con
sfrontatezza: - In nessun posto. -

Ma non avevano fatto i conti con quel mirabile dono che scopriva al Santo,
come fossero presenti, anche le cose lontane, e furono addirittura terrorizzati,
quando sentirono raccontarsi per filo e per segno la loro piccola avventura.

La voce del Padre, nella quale c'era forse più dolore che sdegno, scendeva sul
loro cuore, bruciante:

- Perché mentite in tal modo? Forse che non siete entrati in casa di quella tal
donna? E non avete forse mangiato, questo, quello e quell'altro cibo? E non
avete bevuto tanti bicchieri di vino? -

E giù, come se fosse stato presente, nella più minuziosa descrizione dei
minimi particolari. I due colpevoli si buttarono ai suoi piedi sgomenti,
confessando la propria colpa, e mostrarono un dolore così sincero che il Santo
non esitò a perdonarli, ingiungendo loro di non consentire mai più a fare, lui
assente, quel che in nessun modo si sarebbero permessi di fare alla sua
presenza.

Non era egli, del resto, il riflesso dell'occhio di Dio sempre aperto sulle sue
creature, e al quale niente sfugge, in cielo e sulla terra?

Un'altra volta si ripeté un episodio molto simile. Nei pressi di Montecassino


c'era un villaggio nel quale la numerosa popolazione era stata convertita dal
culto

185

degli idoli alla vera fede, grazie alla predicazione del Santo.

E doveva essere senza dubbio un centro abbastanza gruppo di vergini


consacrate, un piccolo monastero. Benedetto sembra ne curasse con
particolare amore la vita fervente, visto che vi aveva stabilito dimora anche un
spirituale inviandovi con frequenza qualcuno dei suoi figli per esortare le
anime ad avanzare nella via della perfezione cristiana.

Un giorno, come al solito, mandò a predicare un monaco che, finito di parlare,


si trattenne un po' con quella buona gente.

Le monache, pensando di dimostrare in qualche modo la loro riconoscenza, lo


pregarono di accettare una piccola cosa, qualche fazzoletto che, pensavano, gli
sarebbe stato utile.

Chissà se il monaco pensò in quel momento alla ingiunzione radicale della


Regola che vieta nella maniera più assoluta di accettare simili doni, anche se
dovesse trattarsi delle cose più insignificanti, senza averne prima avuto
l'autorizzazione dal suo abate?

Certo è che, sia il pensiero gli riuscisse gradito, sia i fazzoletti gli facessero
veramente comodo, sia per levarsi dattorno quelle sante anime, o, com'è
probabile, per tutte queste tre ragioni insieme, prese i fazzoletti e se li cacciò
in seno senza pensarci più.

Giunto in monastero lo attendeva una brutta sorpresa. Appena lo vide, infatti,


l'abate con insolita violenza e con passione che lasciava trasparire
l'accoramento, la pena profonda, lo apostrofò prima che quello potesse
parlare:

- Come mai l'iniquità è entrata nel tuo seno? - Il monaco era al colmo dello
stupore, tanto più che, avendo completamente dimenticato l'episodio dei
fazzoletti, non si sapeva spiegare il motivo della riprensione nonostante
frugasse rapidamente nella sua coscienza.

L'imbarazzo non durò molto perché il Santo continuava:

186

Forse che io non ero presente, quando hai ricevuto i fazzoletti dalle serve del
Signore, e li hai riposti in seno? -

Non c'è da dire che i poveri fazzoletti furono immediatamente gettati lontano,
mentre il monaco, prostrato ai piedi del suo abate, manifestava tutto il suo
dolore per avere agito con tanta inconsideratezza.

Particolari che ci mettono a contatto, nella vita di ogni giorno, con l'intimità
della famiglia monastica, e nei quali l'elemento miracoloso non si sovrappone
al-l'umano fino ad assorbirlo, ma gli imprime piuttosto una sua singolare
suggestività, pur lasciandogli un tono di immediatezza e di spontaneità che ci
rende familiari con l'ambiente del Santo.

Tra i dati più caratteristici della funzione formatrice di san Benedetto è il suo
modo di mettersi in contatto con le anime.

Come nella vita fisica, la trasmissione dell'esistenza una volta compiuta, la


vita stessa si attua con sviluppi autonomi e imprevedibili, così, e a più forte
ragione, per la vita dello spirito, ordinata a un fine esclusivamente
soprannaturale, il fattore essenziale e insostituibile, attraverso qualunque
cooperazione umana e al di fuori di essa, rimane la grazia.

Benedetto è profondamente convinto di questa verità che spiega il suo


riverente rispetto per tutte le anime e la delicatezza con la quale vive la sua
paternità spirituale.

Egli non si propone di modellare secondo un unico tipo prestabilito i suoi


monaci, contenendone l'attività interiore entro canoni che non possono essere
violati, o irrigidendosi in sistemi particolari che possano divenire per i suoi
figli una specie di letto di Procuste.

Ben altra è la sua concezione. Sapendo che ogni anima è creata da Dio in
relazione a un misterioso ma reale disegno di santità, con attitudini, tendenze,
possibilità, che variano all'infinito, e che il fine di ognuna è il

187
raggiungimento del termine ideale assegnatole, in questo mirabile piano di
santificazione, capisce che nessuna creatura ha il diritto di sovrapporre un
proprio piano a quello divino, e assume discretamente il suo posto mettendosi
egli stesso, con dimenticanza piena di sé, a servizio di Dio, per il bene dei
fratelli.

Questo spiega l'immagine, ripetuta con insistenza, del Buon Pastore che deve
custodire le pecorelle del suo Signore, e vegliare a che ognuna di esse dia il
massimo rendimento, ché se questo non si verificasse, la responsabilità
ricadrebbe su di lui, inesorabilmente.

Non si propone quindi di costringere le anime, ma di illuminarle, di proporre


la verità lasciandone gli sviluppi all'azione della grazia con la quale vuole
discretamente, ma con assiduità cooperare.

L'insegnamento, non soltanto attraverso le parole, ma anche attraverso


l'esempio, è per san Benedetto «il fermento» della santità; non quindi un
«tipo» unico al quale conformarsi, ma un principio vitale che, animato dallo
Spirito Santo, dovrà provocare l'espansione rigorosa dei germi i quali
contengono in potenza la completa fisonomia spirituale delle singole anime,
conforme all'ideale divino per il quale sono state create.

Perciò l'abate dovrà essere dotto nella sacra dottrina, per saper trarre a tempo
opportuno, dalle inesauribili ricchezze della rivelazione, quanto può meglio
rispondere alle esigenze più svariate dei suoi monaci, di tutti quelli che si
affidano a lui, nel loro bisogno di ricerca di Dio, perché egli li aiuti a liberarsi
dal groviglio delle passioni e a camminare più speditamente verso la mèta.

Anime aperte e generose, cuori rozzi, intelligenze poco sveglie, caratteri


irrequieti e insofferenti della disciplina, tempre fiacche e orgogliose, tutto il
complesso della debolezza umana è davanti agli occhi del Santo, ed egli non
esclude nessuno dalla sua paternità, purché si tratti di sincera buona volontà
che intende impegnarsi con sforzo serio nella lotta contro il male, «al servizio
di Cristo vero Re».

188

Benedetto ha della sua missione, di questa vocazione alla paternità spirituale


alla quale è stato chiamato, una limpida percezione, sia nella sua gravità
intrinseca che gliela fa valutare «difficile e ardua cosa», sia nel concetto
essenziale della sua opera di padre e di maestro: «dirigere le anime e servire
ai costumi di molti» (Regola c. 2) dimenticando se stesso, superando e non
facendo gravare sugli altri il proprio temperamento con i suoi gusti, esigenze,
preferenze spirituali, per «conformarsi e mettersi alla portata di tutti»
cercando di agire individualmente, facendo vibrare in ogni anima, l'elemento
che meglio si presti ad aprire le vie alla grazia.

Per Benedetto non ci sono dei criteri esclusivistici di formazione. Rigidità o


dolcezza, tranquilla opera di persuasione o comando reciso, tutto potrà esser
buono, perché tutto avrà semplice valore di mezzo da adoperarsi volta a volta,
in ordine al fine che è il termine ideale del suo sforzo formativo: conquistare
le anime alla divina passione della santità, addestrarle a questo lungo e
penoso lavoro di districamento dal male, fino a che, «purificate dai vizi e dai
peccati» siano disposte alle superiori operazioni dello Spirito Santo.

E tutto questo è vissuto dal Santo in maniera così intima e vitale, che non è
possibile più scindere la paternità con i relativi doveri e responsabilità, dalla
sua stessa vita spirituale. Davanti a Dio stesso egli sente di dover render
conto, non solo del gregge nella sua integrità di massa, ma del maggiore o
minore rendimento spirituale degli individui, uno per uno, e «dell'obbedienza
dei discepoli» in quanto, s'intende, dipenda da lui, dal suo impegno nel
mettere a contatto non solo la collettività in quanto tale, ma ogni monaco, con
la verità, dandogliene l'intelligenza e il gusto.

San Benedetto è lontanissimo dall'ammettere che l'abate possa avere nel


monastero una pura funzione disciplinare, egli è non «il superiore», colui che
presiede

189

e tutela la disciplina, ma l'«abbas», il «padre», colui che tiene le veci del


Cristo, e dovrà quindi più che della sua preminenza, preoccuparsi del bene
che potrà comunicare alle anime. Le sue relazioni con la comunità saranno
basate su una comunione di carità, ed egli che pur deve odiare i vizi, amerà
però i fratelli, e cercando di «essere più amato che temuto» potrà nel suo rude
lavoro contare sull'«umile e sincero amore» dei figli che, trasmettendo la vita
dello spirito, egli genera alla santità, a Dio.

Il complesso delle virtù, alcune in apparenza contraddittorie, che il Santo


esige nell'abate del monastero, ma che si fondono e si armonizzano nella
realtà superiore della grazia, hanno un fedele riscontro nel profilo di
Benedetto tracciatoci da san Gregorio, e rimangono a stabilire, attraverso i
secoli, i tratti essenziali di chiunque assuma nella famiglia monastica la
responsabilità di rappresentare il Cristo; velo corporeo che nasconde « colui
dal quale discende ogni paternità» e di cui deve esprimere il cuore, i pensieri,
le azioni.

Tutto questo ci dà di poter comprendere la soprannaturale gelosia con la


quale il Santo veglia sulle anime, e la severità con la quale, quando non può
scongiurarlo, punisce il male, «affinché gli altri ne restino spaventati».

Un esempio a questo proposito, è caratteristico. C'era a Montecassino un


monachetto sul quale l'amore della propria casa e dei parenti lontani vinse
sull'amore di Dio, e lo indusse a fuggire dal monastero senza la benedizione
dell'abate.

Nello stesso giorno nel quale giunse a casa, non sappiamo come, morì.

Avvenne allora un fatto quanto mai strano. Sepolto infatti, come di consueto,
il giorno seguente fu ritrovato il suo cadavere fuori della tomba. Per quanto la
cosa avesse dello straordinario, non sapendosene rendere ragione, lo
ricomposero nel sepolcro, ma il giorno appresso, daccapo.

190

I genitori, sgomenti e desolati per quel fenomeno inaudito, ricordando con


pena le condizioni nelle quali la morte aveva colto il loro figliuolo, fuori dal
monastero, fuggitivo, corsero ai piedi di Benedetto per raccontargli, con molte
lacrime, quanto accadeva, e implorare il suo perdono per l'anima del
fanciullo. Come sarebbe stato giudicato da Dio il ragazzo, se la terra stessa si
rifiutava di custodire nella sua pace il cadavere del piccolo morto?

La fama del prodigio si era diffusa in un baleno, e anche ai monaci non era
difficile trarre le conclusioni dell'accaduto; la lezione durissima aveva
prodotto il suo effetto.

Rimaneva ora davanti al Santo il dolore sconsolato dei genitori, ed egli ne


ebbe pietà.

Secondo l'uso del tempo si seppellivano i morti ponendo loro sul petto un
frammento dell'Eucarestia:

Benedetto staccò con le proprie mani una particella del Pane consacrato, e la
consegnò ai parenti, perché, posto il corpo del Signore sul petto del fanciullo,
a significare che era stato spiritualmente riammesso nella comunione della
famiglia monastica, lo seppellissero e stessero tranquilli.
Così il monachetto poté dormire in pace sotto la terra tornata buona per lui.

Spetta al pastore del gregge, infatti, riconsegnare al suo Signore le pecorelle


che ha avuto in consegna. Le altre, quelle fuori dell'ovile, come potrebbero
essere riconosciute, se si sono sbandate lontano?

Forse perciò la Chiesa ha amato fissare in una inscindibile unità, nella sua
liturgia, il padre e i figli dell'anima sua «ecco con me i miei figli, tutti quelli
che mi ha dato il Signore, in signum» (Is.8,18).

191

XI. L'uomo di Dio

Secondo la testimonianza di san Gregorio Magno la Regola ha, per una più
profonda conoscenza dell'anima di san Benedetto, un valore autobiografico di
primissimo ordine, che gli episodi dei Dialoghi illuminano, imprimendo quasi
un palpito di vita ai lineamenti già nettamente tracciati della fisonomia
morale del Santo.

Temperamento riflessivo, serio, volitivo, egli ci appare, anche dal lato umano,
magnificamente dotato per la sua missione.

Il fanciullo dalla precoce maturità di giudizio, «cor gerens senile», porta in sé


il germe dell'uomo di domani, che detesterà ogni superficialità e leggerezza
«oblivionem omnino fugiens», e vorrà escluse anche dalla conversazione
quelle banalità di gusto assai dubbio che eccitano al riso le persone volgari.

Adolescente, ha già l'intuizione che il problema della vita, l'essenziale, è cosa


terribilmente seria, e dopo aver frugato con lo sguardo la società che lo
circonda, inquieta, voluttuosa, ma soprattutto vuota di un con tenuto di
pensiero e d'ideale, se ne ritrae con un senso di disillusione e di disgusto.
Nella vita, un velo di

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fasto e di godimento che copre il servilismo degli animi e l'assopimento dei


valori morali; nella scuola, la retorica, che deve assolvere il compito di
nascondere l'assenza del pensiero sotto un appariscente drappeggio di frasi e
di parole; nella stessa società privata e religiosa, sotto forme gelosamente
custodite, la corruzione più desolante.

L'animo di Benedetto racchiude istintivo il bisogno della verità; parole, forme,


istituzioni, egli le concepisce solo come la traduzione esteriore, il mezzo
umano di espressione, di una intrinseca adesione del pensiero a una realtà
vissuta, concreta.

Appare frequente nella Regola tale sforzo, quasi la preoccupazione di


inculcare il principio che l'apparenza non sia una forma vuota e illusoria, ma
si adegui con la massima aderenza a ciò che è.

Nei monaci girovaghi stimmatizzerà appunto la falsità, per la quale


presentano al mondo un aspetto esteriore che è indice di penitenza e di
rinunzia, virtù che sono poi ben lungi dall'attuare nella pratica.

Di conseguenza, proprio in grazia della loro tonsura, devono essere ritenuti


come dei menti tori davanti a Dio.

L'abate è impegnato a riflettere continuamente al nome col quale viene


chiamato, e deve far si che le sue opere verifichino con ogni esattezza il titolo
di «superiore».

E se si desse il caso di qualche monaco che trovando un po' lunga la via della
santità, volesse procacciarsi la soddisfazione di essere già stimato perfetto in
grazia di un certo atteggiamento esteriore, il Santo gli suggerisce con benevola
arguzia che non conviene «voler essere chiamato santo prima di esserlo, ma
prima bisogna esser tale, affinché poi lo si dica con maggior verità» (Regola c.
4).

193

Anche nelle cose materiali i nomi devono essere nient'altro che


un'espressione aderente alla realtà. L'oratorio, per esempio, «sia veramente
ciò che viene chiamato»: il luogo, cioè, dove si prega, e il suo nome non sia
una parola vana.

Nello stesso affetto che lega i monaci al loro abate deve essere impresso
questo carattere di lealtà, gli dovranno perciò esser devoti «con umile e
sincero amore»: nient'altro, ma si raggiunge qui l'essenza stessa della carità
filiale.

Si potrebbero moltiplicare gli esempi, tutti rivelatori di questa linea di


dirittura morale che è caratteristica del Santo. È facile capire che, quando un
uomo di tale tempra abbraccia un ideale, lo seguirà sino in fondo, e se
percepisce un dovere gli sarà devoto senza deviazioni, senza compromessi,
accettandone e vivendone fin le conseguenze estreme.
Se il problema religioso dovette avere una particolare ripercussione
sull'anima di Benedetto, la sua soluzione ebbe valore decisivo nella vita del
giovane studente. La società ecclesiastica romana del tempo, che sembrava
fatta apposta per disorientare uno spirito superficiale, a lui dovette apparire
come una grottesca tragedia, una ripugnante deformazione del culto dovuto a
Dio infinitamente santo, da creature che, movendo ancora le labbra a un
sacrificio di lode, piegavano il cuore all'idolatria di tutti i beni della terra.

Superando le forme andò alla radice stessa della vita cristiana, ai valori
essenziali, e nel rapporto di dipendenza dell'uomo dal Creatore scoprì le
ragioni supreme dell'esistenza che solo raggiunge il suo fine se vissuta in
ordine a Lui: con logica serrata, fu, fin da quell'istante, per tutta la vita, il «Vir
Dei»(l'uomo di Dio).

San Gregorio non avrebbe potuto adottare espressione più incisiva e sintetica
per esprimere questa donazione suprema dell'uomo che vuole, per un atto di

194

libero amore, farsi completamente possedere, eliminando ogni resistenza


della volontà, da Colui al quale già appartiene per diritto di creazione e di
redenzione.

Dal momento nel quale l'anima di Benedetto è dominata da questa percezione


soprannaturale, la vita cambia volto per lui, e anche noi possiamo
comprendere il suo itinerario, dapprima un po' incerto, poi sempre più
preciso, netto, volto al termine senza esitazioni.

La vita fiorita di speranze terrene, i beni dell'eredità paterna, che avrebbero


necessariamente impegnato la sua attività e le sue preoccupazioni, gli
appaiono, nella luce che lo investe, come poco fieno inaridito, un
impedimento alle esigenze di una donazione totale che la grazia crea in lui, al
bisogno di escludere dal cuore ogni altra creatura per aprire tutta l'anima al
possesso di Dio, imposto dall'amore.

La frivolezza di un sapere che si gingilla e si delizia nella vana retorica o


nell'assaporare le voci dell'amore umano, appare ora come una fantasmagoria
di luci false a lui che ha sete di verità, di realtà, di qualche cosa che appaghi
l'anima e la liberi da ogni miraggio di soddisfazione umana; perciò fugge col
desiderio di «piacere solamente a Dio» la città con le sue seduzioni, per
ritirarsi nella pacifica, patriarcale vita di Affile, e di lì fuggire ancora, quando
un'ondata di entusiasmo, dopo il primo miracolo, potrebbe frapporsi tra la
sua anima e Dio, verso la solitudine assoluta, nello speco per abbandonarsi
senza riserva alla misteriosa e profonda azione del Signore.

C'è tutta una incrostazione artificiale di sovrastrutture create dall'uomo, che


ci dividono, ci immiseriscano, anemizzando le nostre energie spirituali. D'un
gesto deciso Benedetto riesce a districarsene, e, finalmente libero, si mette nel
silenzio, in ascolto, per percepire sempre più chiara la voce divina, per
acquistare coscienza piena del mistero di vita che porta nella propria anima.

195

Consapevole di essere stato creato per un fine soprannaturale ben definito,


entra coraggiosamente nel piano divino, e, anziché contendere con la grazia,
se ne fa cooperatore generoso e tenace, teso verso l'alto, verso Dio,
instancabilmente.

Tutta l'esistenza del Santo ha un carattere unitario che si impone anche agli
osservatori più distratti. Ogni decisione, ogni attività, sia nell'ambito
materiale che in quello spirituale, è vista sotto una luce unica, ordinata a un
fine, per lui il solo che giustifichi e dia dignità alla vita dell'uomo: che in ogni
cosa sia glorificato Dio, ma soprattutto attraverso la manifestazione delle
meraviglie operate dalla grazia in un'anima che si apra alla sua azione e la
secondi.

La potenza spirituale di san Benedetto è tutta in questa sovrabbondanza di


vita interiore vissuta in dipendenza diretta da Dio, e ordinata a Lui con piena
indipendenza dalle creature.

I tre anni passati nello speco, inaccessibile rifugio per una «vita nascosta con
Cristo in Dio», gli hanno rivelato, attraverso la meravigliosa azione del dono
del «santo timore», così evidente e profonda nel senso di adorazione che gli è
connaturale, l'essenziale della santità, che consiste nell'acquistare la coscienza
di appartenere a Dio e nell'agire in conseguenza, con sottomissione, meglio,
con adesione perfetta alla sua volontà, in quella intimità d'anima con Lui che
è un preludio del possesso pieno nella vita eterna, e che solo può essere
impedita dal male, sotto qualunque forma.
In Dio, la vita di Benedetto è completa. Gli uomini vi dovranno, volta a volta,
entrare con le esigenze più svariate, con l'esperienza amara di ogni miseria,
ma la loro presenza rimarrà ai margini dell'attività interiore del Santo.

Questo spiega l'atteggiamento di assoluta tranquillità che egli conserva nel


punto culminante del dramma di Vicovaro, «vultu placido, mente tranquilla»:
si è

196

chinato per un istante sui fratelli, in un gesto di carità, per tentare di


districarli dalla carne e dal mondo, essi hanno ordito contro di lui un intrigo
per togliergli la vita, egli non se ne irrita, non si abbandona a nessuna crisi
spirituale per la delusione avuta.

Chiuso l'episodio, torna, in pace, al rifugio della «di letta solitudine» e ivi
«solo, sotto lo sguardo di colui che vede dall'alto, abita con se stesso» 1.

C'è qui tutto il programma intimo della vita del Santo: questa passione di
solitudine che non è odio del mondo, ma insopprimibile attrattiva ad
appartarsene, a immergersi nel silenzio come in un lavacro di purificazione, a
estraniarsi da una mentalità che è in contrasto con i pensieri, con i gusti, con
la volontà di Dio. Affiora, insieme, l'insostituibile dolcezza che egli gusta nel
vivere sotto lo sguardo del Signore davanti al quale ogni essere è presente
nella sua nudità assoluta, e quest'occhio divino riempie la sua vita solitaria
non di un'opprimente minaccia, ma della confortante, attuale certezza di un
vigile e inesorabile amore.

«Abitò con se stesso». In questo veramente, Benedetto è l'insuperabile


maestro, l'uomo che ha la consapevolezza piena della profondità di vita divina
che porta in sé, e che possiede l'anima sua con una vigilanza austera perché
niente di questa ricchezza vada disperso, e la percezione interiore di Dio
divenga sempre più frequente, più sentita.

Se la vita è tutta in questo germe di grazia che fiorirà nella gloria della visione,
nella misura esatta dello sviluppo che le avremo dato di raggiungere quaggiù,
perché disperdersi nell'accidentale, nel contingente, nella vanità, e non
ancorarsi all'essenziale, che dà di poter attuare fin da ora, sia pure attraverso
il velo della fede, qualche cosa della beatitudine del cielo?

Egli è l'uomo che vive in attesa della visita del suo Signore, tiene l'anima
raccolta nel desiderio, le potenze
___________________________

1 S. Gregorio, Dial., libro II, 3.

197

impegnate alla conoscenza e all'amore di Lui, nel servizio più generoso ed


esclusivo, fino a che non piacerà a Dio di comunicargli, attraverso una di
quelle esperienze mistiche intraducibili nel linguaggio umano, la soavità della
sua presenza, l'ebbrezza del possesso sentito. L'ardore della contemplazione
lo strappa allora a se stesso, mette l'anima sua in contatto quasi sperimentale
con l'Infinito, lo immerge in un'estasi di luce, di amore, di gaudio, poi dilegua,
lasciandogli una sete più viva di altre visite divine, implorate mentre riprende
a vigilare sentendo sempre più profonda la sua piccolezza di creatura di fronte
alla virtù veemente della potenza di Dio.

E con Dio, che gli è sempre presente, egli parla con intimità, veramente vive
in Lui, con una immediatezza e una spontaneità di fede che è uno dei lati più
incantevoli della sua fisionomia spirituale.

Poiché vuole essere il servo che cerca sempre la volontà del Signore, una volta
che ne abbia acquistato coscienza non esita più sui mezzi per attuarla: è
l'esecutore che sa di poter disporre degli strumenti dell'onnipotenza, e se ne
serve con tranquilla sicurezza.

E proprio questa consapevolezza riflessa di appartenere a Dio e di agire in suo


nome, proietta sulla figura del Santo una grandezza prodigiosa che non
intacca la sua umiltà e la sua semplicità, ma lo circonda di una dignità alla
quale niente può resistere, perché si sente in lui il servo di un Altro.

Eppure, in questa soggezione a Dio, in questo farsi possedere da Dio, niente di


passivo, di fiacco, di fatalista: Benedetto ha un carattere temprato come
l'acciaio, una volontà inflessibile. Ritorna nella Regola un inciso che gli è caro
«recto cursu» (per la via diritta); sintetica espressione di orientamento
rettilineo verso la mèta segnata dalla Provvidenza al suo cammino, e alla
quale bisogna andare, nonostante gli ostacoli, senza deflettere di un passo.
Nessuna suggestione di affetti umani, nessuna violenza, nessuna stanchezza
potrà

198
trattenerlo: «sopporti, non si dia per vinto, non torni sui suoi passi»
insegnerà al monaco posto in una situazione difficile; ogni impedimento
dovrà cedere alla sua decisione, perché la grazia non annienta la volontà
umana, ma, liberandola dalle contraffazioni e dalle deformazioni, le rende la
sua massima potenzialità.

Perciò, pur tenendo lo sguardo volto alle minime indicazioni della volontà
divina, Benedetto è un volitivo dal carattere netto, che conserva un fondo di
impetuosità, se pur contenuta da una inesorabile disciplina interiore: ne
fanno fede, oltre certi episodi della sua vita, alcuni incisi che si trovano con
frequenza nella regola e che sono espressione spontanea, incontrollata, della
sua potente personalità.

Sentimentalismi, ripiegamenti, concessioni accomodanti, sono cose tutte che


esulano dal suo carattere, e varrebbe per tutti a farcene certi, qualora
stentassimo a esserne convinti, il discorso chiaro e netto che egli fa al novizio
nel momento decisivo che dovrà determinare tutta la sua vita:

«Ecco, questa è la Regola sotto la quale dovrai militare, se ti senti di


osservarla, entra, ma se non puoi, parti pure liberamente».

C'è qui tutto il Santo che non è nemmeno sfiorato dall'idea che si possa
adattare la Regola all'individuo, deformandola, ma che esige una dedizione
piena e cosciente alle esigenze dell'ideale determinate dalla Regola.

Comprensivo e delicato come una madre di fronte a reali debolezze o


necessità sia fisiche, sia spirituali, diviene inesorabile nel colpire la deficienza
che hanno per motivo una mancanza di buona volontà, o anche solo una certa
leggerezza nel trattare le cose spirituali.

Gli conducono un giorno un chierico della chiesa di Aquino, che è stato


invasato dal demonio. Il vescovo Costanzo ha inutilmente esorcizzato il
disgraziato, pregando per lui sulle tombe dei martiri, senza ottenere nessun
vantaggio.

La preghiera di Benedetto riesce a impetrare da Dio

199

la grazia già per tanto tempo chiesta, e il chierico è liberato, però a una
condizione: che si astenga d'ora in avanti dal mangiar carne, e non ardisca
accedere agli ordini sacri. Se avrà avuto la temerità di farsi ordinare, subito
ricadrà in potere del demonio.
Il chierico se ne va sano e felice, e per un certo tempo è fedele a quanto il
Santo gli ha imposto poiché rimane ancora vivo in lui lo spavento dello stato
pietoso nel quale si trovava.

Passarono gli anni. Tutti i sacerdoti più anziani di lui, nella chiesa di Aquino,
a uno a uno morivano, ed egli vedeva con un certo malumore che venivano
ordinati alcuni inferiori a lui di età; la predizione di Benedetto era ormai
lontana, tanti anni erano passati! L'orgoglio irritato aiutò ad attenuarne il
valore nella sua coscienza, e si fece ordinare. Secondo la parola del Santo, ciò
gli valse di essere nuovamente invasato dallo spirito maligno che lo tormentò
fino a che ebbe vita.

Né meno caratteristico il caso delle monache linguacciute.

Non lontano da Montecassino, nella propria casa, facevano professione di vita


monastica, due donne di nobile famiglia che si erano consacrate al Signore. Le
serviva con molta devozione, sobbarcandosi tutti i fastidi inerenti al maneggio
dei loro affari materiali, un uomo dabbene, pieno di timor di Dio.

Ma nobili e monache fin che si voglia, le due donne avevano conservato tutta
la loro sprezzante alterigia nel trattare con persone che ancora stimavano di
condizione inferiore, e, per di più, non conoscevano ritegno nello snodar la
lingua, in modo che la pazienza del pover'uomo, messa a dura prova dalle loro
impertinenze, finiva ogni tanto col traballare, e un bel giorno, stanco di
attendere che le cose si volgessero in meglio e di sopportare le continue
invettive delle padrone, andò diritto a sfogare le sue pene da san Benedetto,

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nella speranza che almeno lui potesse riuscire a trovare un rimedio.

Il Santo mandò infatti una severa riprensione alle poco amabili serve di Dio,
minacciandole della scomunica se non si fossero corrette. Quelle sentirono, e
continuarono come se niente fosse.

Passò poco e morirono tutt'e due.

Sepolte nella chiesa, la loro nutrice, che era solita presentare a Dio l'oblazione
in suffragio delle padrone defunte, ebbe ripetutamente una strana visione.

Durante la celebrazione del santo Sacrificio, al momento in cui il diacono


volto al popolo esclamava: «Se alcuno non può partecipare alla Comunione,
esca», la domestica vedeva le due monache levarsi dal sepolcro e uscire dalla
porta quasi fosse loro impedito di sostare in chiesa dopo l'ingiunzione
solenne.

Qual era il significato della lugubre apparizione? Pensa e ripensa, la povera


donna ricordò la minaccia che, mentre erano ancora in vita, aveva loro rivolto
l'abate qualora non si fossero impegnate seriamente a disciplinare la lingua, e
con l'anima stretta dall'angoscia salì a Montecassino per confidar la cosa al
Santo.

Egli non ne fu stupito, vedendo nell'accaduto nient'altro che la ratifica divina


alla parola del suo servo fedele, ma la carità per quelle due anime vincolate da
una pena che pure era stata solamente minacciata, ebbe il sopravvento sul
giusto rigore del castigo, e, preparata la materia dell'oblazione, la consegnò
con le proprie mani alla donna, ingiungendole che facesse subito offrire il
Sacrificio per le defunte, con la promessa che sarebbero state liberate dalla
scomunica.

Avvenne infatti così. Fu celebrata la Messa, e le due monache dalla lingua


lunga rimasero nel loro sepolcro, né alcuno le vide mai più uscire dalla chiesa
al comando del diacono.

Questo elemento di severità è perfettamente intonato al carattere di


Benedetto, e si risolve in un criterio pratico di coerenza con i principi che ne
regolano la con-

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dotta. La vita spirituale è cosa seria, non ci si balocca con Dio. Perciò egli
circonda di tanta solennità l'atto della irrevocabile donazione che il monaco fa
di sé al Signore, e lo ammonisce che deve attendersi la dannazione, se,
mancando di fede al suo giuramento, si sarà fatto beffe di Lui.

Non vuole dei superficiali nella vita spirituale, ma delle anime serie che si
impegnino a una milizia, e ne accettino in tutto il rigore la disciplina.

Vivendo in dipendenza intima da Dio, Benedetto è come impregnato dal


senso della divina immensità, e la sua anima, stabilita in Lui e purificata da
ogni caligine terrena, affonda nella luce, giunge ai margini estremi delle
possibilità umane di comprensione dell'infinito.

La preghiera «con lacrime» gli è abituale, e si spiega: egli ha acquistato la


capacità misteriosa di «sentire Dio», e questo contatto del nulla col Tutto,
della miseria con l'Onnipotenza, dell'Amore senza limiti con l'egoismo più
meschino, con la stessa nostra incapacità di uscire da noi stessi per darci,
determina in tutto il suo essere una commozione profonda, una vibrazione
intraducibile, alla quale partecipa il suo stesso corpo, e che non trova
manifestazione più spontanea, più immediata delle lacrime: questo segno
sensibile di ogni misteriosa sensazione di gioia o di dolore che faccia vibrare
un'anima per la quale le parole siano ormai divenute espressione
insufficiente.

Uomo di vita interiore profonda nel commercio abituale con Dio, Benedetto
non ha però inaridito il cuore alla dolcezza dei rapporti umani con altre
creature capaci di comprenderlo e alle quali lo legano relazioni di intima
amicizia, quasi fraterne.

C'è, per esempio, il nobile Teoprobo, che la sua parola ha staccato dall'amore
del male e ha convertito a una vita più alta; un'anima generosa che vive con
serietà l'ideale cristiano, e al quale il Santo concede piena confidenza, tanto da
permettergli di entrare senza complimenti nella sua cella tutte le volte che ne
abbia bisogno.

202

Un giorno Teoprobo, recatosi come al solito da lui, lo trova che piange


amaramente. Un pianto dirotto che sembra il grido di un violento dolore, ben
diverso dalle lacrime tranquille, piene di soavità, che è solito cogliere negli
occhi di Benedetto quando gli è dato sorprenderlo nei suoi colloqui con Dio.

Teoprobo rispetta quel dolore e attende, prima di farsi notare, che la crisi sia
sciolta, ma inutilmente. Il suo santo amico continua a gemere tra i singhiozzi,
in una supplica accorata. Allora si fa avanti e chiede con una certa esitazione
cosa mai sia successo, tanto gli appare insolita e profonda quella desolazione.

Benedetto non gliene vuol tenere segreto il motivo.

Forse la presenza dell'amico gli è di conforto, poiché Dio gli ha rivelato una
cosa terribile: quel suo monastero costruito con tanto amore, al quale è così
intimamente legata la sua vita, la casa destinata ad accogliere e a custodire le
anime votate al divino servizio, sarà distrutta; l'accurata organizzazione
materiale, studiata nei minimi particolari perché non frapponga ostacolo al
libero volo dello spirito, scompigliata per mano dei barbari, in balla dei quali
tutto sarà dato per decreto di Dio onnipotente.
Il suo pianto, la sua preghiera insistente sono appena riusciti, questa volta, a
ottenere che almeno la vita dei fratelli, in quel giorno d'angoscia, sia salva.

Giunto al punto culminante della sua esistenza, Benedetto deve sottostare a


questa prova suprema: vedere l'opera che riassume l'anelito e le esperienze di
lunghi anni di cammino, che ne attua l'ideale perseguito con eroica tenacia,
che è quasi un dilatarsi della sua stessa vita in quella dei figli che sarebbero
venuti e avrebbero dovuto trovare in ogni pietra un po' del suo cuore, vedere
tutto questo annientato, proprio per giudizio di quel Signore del quale aveva
creduto di eseguire fedelmente la volontà, per la cui gloria pensava di aver
costruito un edificio ben saldo e destinato a durare.

Noi non sappiamo se Dio abbia concesso al Santo di

203

prevedere la posterità innumerevole che da lui sarebbe venuta, rinnovandosi


senza soste nel tempo e nello spazio; forse no, perché la sua anima fosse
preservata o purificata da ogni, sia pur minimo, elemento di soddisfazione
umana, e gli rimanesse intera la gloria di essere «l'uomo di Dio» il Vir Dei,
l'operaio che lavora al cenno del suo padrone, al quale rimane il dominio
assoluto dell'opera compiuta.

In ogni modo, anche se avesse potuto prevedere una sopravvivenza del


proprio spirito, il suo dolore per la distruzione materiale del monastero non è
esagerato, e lo avvicina al nostro mondo di affetti, alla nostra sensibilità più
profondamente umana; piange e soffre come ognuno di noi farebbe sulla
propria casa distrutta, che nel suo crollo ci darebbe l'impressione di
travolgere qualche cosa della nostra vita stessa.

Fa bene sentire ancora così intense le vibrazioni umane del cuore di


quest'uomo giunto ormai al culmine della santità. Quel suo pianto violento è il
grido istintivo della sua paternità, la preghiera che custodisce i suoi figli,
anche quelli che verranno e che ancora non conosce, l'implorazione che
vorrebbe difenderli contro i rigori della giustizia di Dio.

Come il Santo aveva predetto, intorno al 590 i Longobardi, assalito durante la


notte il monastero, lo devastarono, mettendo a sacco ogni cosa, ma neppure
uno dei monaci vi perdette la vita. Fuggiti a Roma, i loro discendenti
ritornarono tenaci sul monte dove il Padre li attendeva nel suo sepolcro, e
poco più di un secolo dopo, sulle rovine ricostruirono una nuova Badia che
doveva anch'essa divenir preda dei Saraceni alla fine del secolo IX.
Una terza, una quarta, una quinta volta, Montecassino fu ridotta a un cumulo
di rovine, ma Dio ha concesso al Santo che, rovinato l'involucro materiale, sia
salva la vita dei suoi figli, certo, ma anche l'intima vita collettiva della scuola
del divino servizio, che, appartenendo alle

204

creazioni dello spirito, sfugge alle vicende degli elementi e alla ferocia degli
uomini.

Affiorano, nella vita del Santo, delle amicizie tenerissime, nelle quali
l'elemento umano affettivo è quasi impercettibile, mentre predomina quel che
nell'amicizia, perché sia veramente tale, deve rimanere l'essenziale: il contatto
intimo di due anime, nella reciproca comprensione della comune sete di
ascesa, delle esigenze della ricerca, del possesso di Dio, nella gioia della
fruizione di Lui, quando la carità sovrabbonda e la luce penetra, fino a
trasfigurarla, ogni manifestazione della vita.

A Montecassino Benedetto non è più l'irsuto eremita dello speco; stabilito in


comunione con Dio vive, agisce, opera in Lui, come nel suo elemento
naturale, ma mantiene tutte le necessarie relazioni sociali, come lo richiede la
missione alla quale è chiamato.

Tutta una folla di anime, dai Vescovi ai chierici dei vari ordini, ai monaci che
vuole sempre accolti con particolari riguardi, alle persone delle categorie
sociali più svariate, si polarizza verso il monastero, viene a chiedere una
parola di vita, un viatico di forza a questa sorgente di interiorità che rifluisce,
inesauribile, su tutte le anime affaticate, mentre avanzano con pena lungo le
vie aride, troppo battute, del mondo.

Di tanto in tanto, per l'uomo di Dio, la gioia di un incontro più desiderato, una
sosta riposante nell'intimità con qualche fratello legato a lui con una di quelle
misteriose affinità che non sono rare tra i santi, tra questi intimi, il diacono
Servando.

Era abate del monastero di San Sebastiano, presso Alatri, a trenta miglia da
Cassino, e si concedeva ogni tanto una breve tregua di riposo spirituale per
andare à trovare il suo venerando amico. Spirito aperto all'azione della grazia,
ricco di interiorità, egli era fatto per comprendere Benedetto, e mentre si
comunicavano le dolci esperienze della vita soprannaturale, almeno
«nell'ardore del desiderio cercavano di gustare il soave cibo

205

della patria celeste che ancora non potevano perfettamente gustare nella
gioia» 1.

Con l'anima tesa verso l'eternità, era facile perdere la nozione del tempo, e un
giorno, parlando del cielo, giunsero fino a sera, senza accorgersi che le ore
passavano. Di tornare ad Alatri non era più il caso, e Benedetto offrì all'amico
ospitalità nel piano inferiore della torre dove egli risiedeva abitualmente,
occupando la cella in alto, alla quale si accedeva per una ripida scaletta;
nell'ampio dormitorio attiguo i monaci avrebbero fatto posto ben volentieri
per i confratelli di San Sebastiano che l'ora tarda tratteneva a Montecassino
col loro abate.

La notte autunnale, lucida di stelle, era impregnata di silenzio, in una


immobilità solenne che aveva qualche cosa di sacro.

Salo a vegliare, secondo una consuetudine che gli era cara, avendo prevenuto
l'ora dell'ufficiatura notturna, Benedetto stava in piedi davanti alla finestra,
assorto in preghiera, e il suo sguardo sembrava ancorato al di là degli astri in
una fissità estatica. D'un tratto il cielo si venne illuminando d'un chiarore
diffuso che fioriva dagli abissi dello spazio e, diffondendosi, investiva le
tenebre, inghiottiva le stelle, diveniva sempre più luminoso, fino a
raggiungere una tale intensità da superare la stessa luce del giorno.

In questo mare di splendore egli vide raccogliersi un fascio di luce più intensa,
come un raggio di sole, per esprimersi con le parole sbiadite del linguaggio
umano, e quel raggio racchiudeva in maniera reale e pur tanto misteriosa, il
mondo tutto intero. Il Santo, senza distogliere lo sguardo dalla marea di luce
che aveva sommerso l'azzurro cupo del firmamento, poté distinguere l'anima
del vescovo di Capua, Germano, che, in un globo di fuoco, gli angeli
trasportavano in cielo.

Lo spettacolo era grandioso. Perfettamente cosciente

_____________________________

1 S. Gregorio, Dial., libro II, 35.

206
di sé, Benedetto volle fame parte all'amico, e con insistenza continuò a
chiamare a gran voce, senza muoversi, Servando, fino a che questi, spaventato
per l'insolito gridare in quell'ora notturna dell'abate, che conosceva rigido
custode della disciplina del silenzio, non si precipitò su per la scala, e, entrato
nella cella, fu ancora in tempo a vedere dalla finestra il bagliore che si
dileguava, lasciandosi sommergere dall'ombra.

Non avrebbe potuto rendersi conto del fenomeno, se il Santo non gli avesse
raccontato tutti i particolari della visione, preoccupandosi insieme di spedire
senza frapporre indugio qualcuno giù in città, a Cassino, per pregare
Teoprobo di correre sull'istante, prima che spuntasse l'alba, a Capua, e, dopo
essersi informato delle condizioni di salute del vescovo Germano, di venire a
riportargliene subito notizie.

Gli ordini furono eseguiti con la massima rapidità, ma Teoprobo, giungendo a


Capua, ebbe la sorpresa di trovare che Germano era morto, e non poté che
riferire a Benedetto l'ora del suo trapasso, della quale si era informato con
ogni diligenza. Si costatò in tal modo che essa corrispondeva nella maniera
più esatta al momento in cui l'uomo di Dio ne aveva veduto il miracoloso
annunzio.

Questa misteriosa visione, della quale qualcuno ha creduto di poter affermare


che, sollevato il velo della fede, in essa Benedetto sia stato per un istante amo
messo alla stessa visione intuitiva di Dio, traduce in ogni modo quello che era
lo stato d'animo abituale del Santo, e l'atteggiamento della sua anima nelle
relazioni con le creature che non riesce più a vedere se non nella luce divina.

Siamo al punto culminante della sua vita spirituale.

Lo sforzo ininterrotto per adeguarsi alle esigenze di un piano soprannaturale,


il desiderio che non si esaurisce in sterile tormento, ma si attua in vigorosa
fatica di ascesi, hanno ottenuto alla sua anima il grado di purificazione intima
che gli permette di vedere Dio, attraverso

207

il velo della fede divenuto trasparente, di immergersi nella beatitudine di


questa esperienza che, se raggiunge la sua pienezza in cielo, non è però meno
reale già sulla terra.

Gli accade che l'occhio interiore, abituato a misurare le cose secondo


l'Infinito, restituisca finalmente a ogni cosa le sue proporzioni vere, e, come
nota acutamente san Gregorio «all'anima assorta nella visione del Creatore
diventi angusta ogni creatura». Ogni esperienza di vita divina, infatti, se
vissuta nelle profondità dello spirito, mentre dà l'intuizione, sia pure vaga,
dell'immensità, della bontà, della santità di Dio, lascia per contrasto
l'irrimediabile sensazione della limitatezza, dell'angustia di ogni cosa creata. È
come se l'anima, elevata a una capacità nuova di cognizione che supera il
mondo sensibile, si dilati nella sua potenza di comprensione e incominci a
vedere le cose alla maniera di Dio, per una partecipazione più profonda alla
sua vita, che, dilatandola in Lui, la stabilisce in una sfera superiore di
conoscenza, nella quale le diviene quasi connaturale la considerazione delle
proporzioni esatte della creatura e di ogni sua presunta grandezza nei
confronti del Creatore.

A vivere sullo stesso piano, nella vita di ogni giorno, si ha l'illusione di


autentiche grandezze, ma quando la grazia stacca dalla terra per immergere
l'anima nel divino, si comprende quanto sia assolutamente piccolo, guardato
con lo sguardo di Dio, ciò che poco fa appariva imponente, solo perché
relativo ad altri esseri di analoghe dimensioni.

Questo ci aiuta a capire quel senso di pacata bontà, di compassione per ogni
forma di miseria, di tranquilla indifferenza per ogni gloria umana, che è una
delle più decise caratteristiche della fisonomia morale di san Benedetto, e ci
spiega anche il sicuro tono di voce che egli usa nel rivolgersi agli uomini,
chiunque essi siano. Non è più, interiormente, uno che contende con i fratelli
per affermare una propria convinzione, o per

208

difendere un suo diritto, è semplicemente l'uomo di Dio, che ha coscienza di


questa sua posizione intima, e misura dall'alto, senza passione, le cose e le
persone del mondo.

I superficiali, i distratti non possono certo penetrare il segreto di questa


potenza di dominio spirituale alla quale nessuno riesce a sottrarsi, ma
intuiscono che c'è nel Santo qualche cosa di superiore, e come per istinto
vengono a lui.

Le condizioni del popolo italiano erano, in questa prima metà del VI secolo,
veramente tragiche; le invasioni e le guerre avevano ridotto il popolo in uno
stato di vero squallore, e le prepotenze dei vincitori ne aggravavano la
situazione.

Figura tipica di barbaro spavaldo e violento quel goto ariano, di nome Zalla,
che sotto il governo di Totila, e col pretesto di zelo religioso, diffondeva il
terrore con una persecuzione spietata contro i cattolici, usando tale ferocia
che non avrebbe potuto sperare di uscirne vivo qualunque monaco o chierico
si fosse imbattuto in lui.

Ma non era solo lo zelo religioso a dar pretesto alla sua malvagità, possiamo
anzi esser convinti che le cose della terra lo attirassero e lo stimolassero non
meno delle sue convinzioni ariane, se un giorno, spinto dalla cupidigia di
dissanguare gli sventurati campagnuoli già ridotti alla miseria, non esitò a
metter le mani addosso a un ma1capitato contadino e a sottoporlo a feroci
tormenti, variati con ogni raffinatezza di supplizi, per indurlo a consegnargli
vere o supposte ricchezze.

Il pover’uomo, vistosi ridotto a mal partito, finì col dichiarare che aveva
affidato tutti i suoi beni al servo di Dio Benedetto. Sperava così che, se quel
selvaggio avesse prestato fede alle sue parole e sospesa la tortura, gli sarebbe
stata concessa qualche ora di tregua.

Non si era ingannato infatti, perché Zalla, forse pregustando la gioia di una
doppia preda, smise subito di

209

tormentarlo, ma, legategli le braccia con cinghie robuste, senza por tempo in
mezzo, cominciò a spingerlo avanti al suo cavallo, affinché lo conducesse
immediatamente a questo tale Benedetto che custodiva le sue sostanze.

Fecero così tutto il cammino che conduceva al monastero. Il Santo solo,


sedeva davanti alla cella assorto nella lettura, e al contadino non parve vero di
poterlo indicare da lontano al suo persecutore che lo seguiva malmenandolo:

- Eccolo, questo è quel padre Benedetto del quale ti ho parlato. -

Come sarebbe finita l'avventura? Ma il cuore del poveretto era pieno di


speranza.

Zalla era trionfante. Pieno di furore e deciso ad agire con la violenza consueta,
guardando il monaco che nemmeno sembrava essersi accorto della sua
presenza, incominciò a urlare scompostamente, forse irritato da quella
noncuranza e perché c'era chi non mostrava affatto di tremare alla sua
presenza.

- Levati, levati, e restituisci a questo contadino i beni che tu ne hai ricevuto. -

All'ingiunzione violenta e irriverente, Benedetto non si scompose,


contentandosi di sollevare lo sguardo dal libro che lo teneva assorto, per
fissarlo su quello scalmanato e sulla povera vittima che si trascinava dietro in
condizioni pietose.

Avvenne allora l'imprevedibile. In un attimo, quando gli occhi del Santo


ebbero visto le braccia del contadino costrette e contorte dalle funi, queste,
quasi sciolte da una mano invisibile, si allargarono e scivolarono a terra
lasciando libero il prigioniero sotto lo sguardo attonito del barbaro.

Zalla era un ignorante sanguinario, un selvaggio; quanto era avvenuto sotto i


suoi occhi lo riempì di terrore, sentì di trovarsi a faccia a faccia con una
potenza superiore, nei cui confronti la sua violenza diventava un assurdo
giuoco da bambini, e gettatosi giù da cavallo, piegando fino a terra la sua testa
superba, non

210

cessava ora di raccomandarsi alle preghiere dell'uomo di Dio: era un vinto,


ormai.

Benedetto lo guardò con la commiserazione profonda che ispira la brutalità,


ogni violenza che degrada la natura umana, ma non si mosse. Chiamati i
fratelli, ordinò che, fatto entrare il gota, gli dessero da bere. Quando lo
riaccompagnarono alla sua presenza, dopo averlo ammonito a moderare i suoi
furori e a mostrarsi più umano, lo rimandò e continuò la sua lettura, tornando
a immergersi nella meditazione delle verità che sole hanno valore di realtà
assoluta ed eterna.

Doveva essere intorno all'anno 542, quando Totila, scendendo nel


mezzogiorno d'Italia per l'assedio di Napoli, aveva invaso con le sue truppe la
Campania e il Sannio, travolgendo sul suo passaggio ogni resto di benessere e
di dignità umana.

Lo spettacolo della società era infinitamente triste, ma se la miseria degli


oppressi aveva in sé una sua grandezza intima, davvero grottesca era l'albagia
di questi barbari i quali si ammantavano dei brandelli di una civiltà che
rimaneva: estranea nelle sue radici profonde alla loro anima di primitivi, dalle
ingenuità quasi assurde.

Molto significativo, a questo riguardo, l'episodio del quale si fece protagonista


il loro re, Totila, impegnandosi in un esperimento davvero poco felice. Aveva
tanto sentito parlare dell'uomo prodigioso che viveva sul monte sopra
Cassino, nel monastero alto sulla vallata circostante, che gli venne voglia di
conoscerlo, e, sostando a una certa distanza, mandò ad annunziare al Santo la
sua visita.

Gli erano state raccontate cose che gli apparivano appena credibili sul conto
di Benedetto, e ciò spiega come, quando gli fu riferito che sarebbe stato bene
accolto a Montecassino, gli sia balenata alla mente l'idea di mettere alla prova
i tanto decantati doni taumaturgici del Santo.

Imbastì quindi una farsa che, sinceramente, non fa

211

onore alla sua dignità regale. Chiamato un suo scudiero, Riggo, lo fece
rivestire da capo a piedi dei suoi sontuosi abiti da sovrano e gli ingiunse di
recarsi dall'uomo di Dio fingendosi egli stesso il re, poi, perché niente
mancasse alla singolare commedia, gli mise al fianco, come scorta, tre conti,
Vulto, Ruderico e Blindino, che costituendo la sua guardia personale,
dovevano confermare il servo di Dio nella convinzione che si trattasse del re
Totila in persona.

Non fu trascurato nessun particolare, nell'organizzazione del seguito, in


maniera che tanti segni d'onore, insieme al manto di porpora, non avrebbero
potuto rendere possibile il minimo sospetto.

Era un'avventura interessante, che avrebbe per lo meno messo un po' di


varietà nella monotonia della vita militare. Il corteo, con gran pompa, si mette
in cammino, mentre Riggo incede solenne fra i cortigiani che moltiplicano gli
atti di osseguio.

Entrano nel recinto del monastero deve tutto è calmo, né si nota alcun
affaccendarsi per quella visita regale. Solo, al suo posto di vedetta, sulla loggia
davanti all'ingresso della torre, sedeva il Santo, che, al solito, non si mosse,
ma vedendo avanzare quella mascherata irriverente, gridò da lontano, ma così
da essere sentito:

- Deponi codesto abbigliamento, figliuolo, non è cosa tua. -


Bastò questo perché la scena mutasse d'improvviso, facendo subentrare,
all'attesa del divertimento già pregustato, un senso di misterioso terrore che
prostrò a terra tutta la gente del seguito, e primo Riggo, il quale si sentiva più
colpevole di tutti per aver consentito a recitare la parte principale di quella
beffa irriverente.

Fu tale lo sgomento che nessuno osò fare un passo avanti per avvicinarsi al
Santo, e il povero re da burla, molto depresso e svergognato sotto la porpora
che gli doveva sembrare odiosa, non ebbe che da tornare in tutta fretta sui
suoi passi per dare a Totila il resoconto della ingloriosa impresa.

212

Ma il re non rinunziò a questa visita, e, questa volta con profonda serietà, si


avviò a Montecassino. Benedetto sedeva al solito posto, e a Totila bastò
vederlo per essere penetrato di un così religioso rispetto che, cadendo in
ginocchio, non si sentiva più capace di avvicinarsi al Santo, nonostante che
questi lo incoraggiasse a farsi avanti.

Fu quello un ricevimento davvero singolare, e certamente il re non doveva


ricordarne di simili.

Visto che Totila non si decideva a sollevarsi da terra, Benedetto, alzandosi da


sedere, gli venne incontro, e, rialzatolo, gli rivolse parole severe,
predicendogli con poche frasi ben chiare quale sarebbe stato il suo destino.

- Tu compi molte scelleratezze, e molte ne hai compiute. Cessa una buona


volta dalla tua perfidia. Entrerai a Roma, attraverserai il mare, ma dopo nove
anni di regno, nel decimo morrai. -

Era questo tutto quello che il Santo poteva dire a un re la cui anima si sarebbe
trovata, un giorno non troppo lontano, a faccia a faccia con Dio.

Totila ne fu terrorizzato e supplicò Benedetto che pregasse per lui. Scendendo


dal monte doveva sentirsi oppresso dal peso di quella sentenza, e quando,
entrato in Roma e disceso in Sicilia, esattamente nel decimo anno di regno fu
chiamato da Dio, forse la sua anima non era più tutta tenebra, se, come ha
cura di notare san Gregorio, dopo il colloquio con san Benedetto «egli fu
meno crudele».

Non può passare inosservato questo atteggiamento del Santo di fronte ai


potenti della terra; egli è completamente estraneo al fascino della loro
potenza, al terrore che emana dalla loro violenza.
Se vengono a lui, li accoglie come tutte le anime che vengono a chiedergli la
carità di una parola in nome di Dio, ed egli la dice loro, in nome del Re al
quale ha consacrato il suo servizio, con la inesorabile schiettezza di chi serve
la Verità.

213

Che si senta onorato di queste visite illustri, no, esse rimangono al di fuori di
ciò che costituisce l'interesse vitale della sua anima e della vita della
comunità; si sente che egli vive più in alto, in una sfera dalla quale si può
contemplare senza agitazione il fluire delle persone e delle cose, si sente ancor
più in lui la percezione netta di questa realtà, che Dio è il padrone assoluto di
ogni vicenda, sia nella vita individuale che in quella sociale, e gli uomini non
possono danneggiare i fratelli se non nella misura da Lui consentita, e lo
servono loro malgrado nell'attuazione dei suoi disegni di giustizia e di infinita
sapienza.

Non troviamo in Benedetto nessun atteggiamento eccessivo, sforzato,


neanche nel suo modo di considerare gli eventi della vita: né entusiasmi, né
pessimismi esagerati. Ciò che conta è volere ciò che Dio vuole. Le modalità sta
a Lui definirle, e hanno sempre un valore relativo.

È un giorno rigido d'inverno, sul finire del 546. Nel refettorio Benedetto
divide la mensa col suo ospite Sabino, vescovo di Canosa, alla presenza di
qualche fratello, e insieme parlano della situazione politica del momento con
tutte le sue incognite, ma già pregna di elementi tali da lasciar adito alle più
pessimistiche previsioni. È imminente, se pure non già avvenuta, la catastrofe
militare che avrà come conseguenza l'ingresso dei Goti a Roma e la inevitabile
devastazione della città. Chi potrebbe mettere un argine alla ferocia armata di
quei barbari? Anche senza atteggiarsi a profeta, Sabino crede di poter
prevedere che Roma sarà ridotta dai soldati di Totila a un tal cumulo di
macerie da non poter più essere abitata.

Benedetto vede più lontano. Forse gli passa attraverso la mente il ricordo del
suo singolare colloquio col re, un pover uomo anche lui, che non potrà
spostare una pietra al di là di quel che Dio non abbia consentito.

214
Di fronte ai presentimenti angosciati dell'amico, sereno come se leggesse nel
futuro, afferma che non avverrà a Roma niente di quanto si teme, poiché non
è suo destino che sia sterminata dai barbari. La sua grandezza verrà invece
sgretolandosi, in un progressivo disgregamento di quello che ne ha costituito
la pompa terrena, sotto gli assalti delle tempeste, dei terremoti, degli altri
accidenti naturali, ai quali, come oppressa da stanchezza, non sarà più capace
di opporre una reazione efficace.

La storia ha confermato la predizione del Santo. Ma, anche se il dono di


profezia non gli avesse fatto antivedere il futuro, ci viene spontaneo pensare
che con lo stesso sguardo tranquillo avrebbe considerato il domani, per la
fede sicura in quell'Uno al quale uomini e cose devono ineluttabilmente
obbedire, e per la certezza che si può vivere sicuri, affidati a Lui, attraverso
qualunque vicenda umana.

Si è creata intorno alla figura di san Benedetto tutta una letteratura che, pur
essendo sempre ispirata a un sincero entusiasmo, non è forse sempre stata,
purtroppo, altrettanto illuminata, e ne ha, pur con le migliori intenzioni,
sfigurati i lineamenti, rappresentandocelo, volta a volta, come il Santo del
lavoro, il civilizzatore della società imbarbarita, il salvatore della cultura
classica, l'appassionato cultore della liturgia.

Ognuno di questi aspetti racchiude innegabilmente in sé un germe di verità, e


in maniera implicita Benedetto è stato tutto questo; meglio, si tratta di
elementi frammentari della sua attività esteriore, di riflessi di sviluppi storici
talvolta estranei alle sue stesse intenzioni, e, in quanto tali, incapaci a darcene
una fisonomia se non completa, almeno rispondente alla realtà oggettiva.

La nota essenziale della personalità di san Benedetto è sfuggita a molti, ai


profani in genere, poiché essa risiede proprio nella sua meravigliosa
interiorità, in questa coscienza sempre attuale della sua posizione di creatura
nelle relazioni col Padre, nella dedizione incondizionata

215

a Dio, nell'anelito profondo al possesso di Lui, all'unione perfetta nella carità.

A questo fine, che potremmo dire esclusivo, della vita del Santo, sono
subordinati tutti gli altri valori, e ogni attività che ne deriva, determinata dai
contingenti, se pure inevitabili rapporti con i fratelli, ha il suo senso vero solo
nella misura in cui rientra in questa concezione unitaria che ci dà tutto san
Benedetto in profondità. Egli è il «Vir Dei», e solo questo, e nient'altro che
questo, l'uomo che tutta la sua vita potrebbe riassumere in una parola
semplice e immensa, detta ogni giorno a Dio in umiltà di cuore: «Tu sei il mio
Signore, io la creatura tua, il tuo servo».

216

XII. La Regola Santa

A compenso di fonti biografiche eccessivamente scarse, ci rimane, di


Benedetto, il codice spirituale che egli scrisse per i suoi figli, e dove è
racchiuso il meglio della sua anima, con quel gran palpito di carità che,
imprimendogli un carattere di perenne freschezza gli ha permesso di sfuggire
all'oblio dei secoli che lo hanno invece custodito come uno dei più robusti
piloni della vita dello spirito.

Per generazioni intere questo piccolo libro è stato il manuale di pedagogia


ascetica delle anime assetate di Dio, il consigliere discreto di quanti, pur senza
abbandonare il mondo, furono capaci di comprendere un ideale di superiore
giustizia.

È forse una questione oziosa il domandarsi quando fu composta la Regola, in


quanto appare chiaro fino all'evidenza che non si tratta di un'opera composta
di getto, ma di una elaborazione che, a mano a mano, è venuta completandosi
con nuovi elementi, e la stessa stesura lascia trasparire gli arricchimenti
successivi e semplicemente sovrapposti, senza quelle preoccupazioni di
connessione organica tra i vari capitoli, della quale noi siamo oggi così gelosi.

Se a Subiaco l'organizzazione dei monasteri differiva profondamente da


quella di Montecassino, abbiamo però

217

raccolto, attraverso il racconto gregoriano, alcuni elementi che rivivranno


immutati nella Regola, e riguardano l'essenziale. Dobbiamo quindi ammettere
una visione iniziale già ben definita, e uno sviluppo che si attua su una
traiettoria sicura, pur assimilando dati di esperienza che varranno ad
arricchirla ininterrottamente, dalla triste esperienza di Vicovaro fino alla
morte del Santo.

In questo processo non appare possibile giungere a stabilire con sufficiente


probabilità l'atto di nascita dei singoli capitoli, e questo vale del resto a farci
sentire con maggiore immediatezza, più aderenti alla vita, le pagine del codice
monastico. Carattere di vivacità che è accentuato anche dalla lingua preferita
da Benedetto per scrivere questa Regola che san Gregorio non esita a definire
«sermone luculenta», splendida nella forma, e che pure non ci viene
presentata sotto l'impeccabile periodare del latino classico, benché esso non
dovesse essere sconosciuto al Santo, ma nel linguaggio comune, già
imbarbarito, dalla costruzione irregolare, sempre ricco però di una fraseologia
colorita pregno di significato, nel quale sentiamo la parola tesa a esprimere
con la maggiore fedeltà il pensiero vigoroso, spesso condensato nella
semplicità dell'espressione, riportata a tutta la sua dignità e sincerità.

Anche un profano, leggendo queste pagine, non può sottrarsi all'impressione


di non avere tra le mani un trattato teorico, ma un'esperienza viva, il palpitare
di un'anima che la materialità dell'espressione non riesce a immobilizzare, e
che ha dei bagliori improvvisi, degli scatti, mentre incide, lineare, inesorabile,
nel profondo.

Anche se non avesse avuto cura di metterci in guardia san Gregorio, non
avremmo tardato a scoprire che chi ha scritto questi capitoli senza drappeggio
di frasi, scavalcando con passo deciso i canoni della retorica, non è un
ignorante, se pure avesse potuto trarci in inganno il ricordo degli studi
troncati a metà, nei lontani anni di Roma.

C'è nella Regola una maturità di pensiero, che si sente

218

raggiunta attraverso un serio abito di meditazione, larga cultura ecclesiastica,


reminiscenze stesse di classici pagani, e tutto questo fuso in un potente affiato
di carità, detto senza ostentazione, in pagine che rivelano padronanza sicura
della parola, mediante uno stile al quale le clausole metriche, adoperate con
signorile spontaneità, imprimono un carattere di bellezza e di robusta
armonia.

Non tutto è originale, certo in quest'opera, come nemmeno è stata concepita


«ex novo» da san Benedetto una particolare forma di vita monastica. Egli è un
discepolo convinto e devoto della tradizione ascetica che lo ha preceduto, e
alla quale ha attinto in profondità, fino ad assimilarne e fame sua la parte più
vitale, e non solo non si preoccupa di nascondere questa sua discendenza
spirituale, ma sembra anzi, insistentemente, compiacersi di sottolinearla,
lasciando affiorare il suo rimpianto per non poter riprodurre integralmente la
vita di eroica ascesi dei Padri antichi che addita ai discepoli più generosi come
insuperata scuola di perfezione.
Un pensatore dei giorni nostri rivolge al discepolo una parola profonda:

«Seguimi. Tu mi supererai, se mi seguirai bene. Colui che non mi ha superato


non mi ha veramente seguito. Seguimi. Ma tu non ti fermare, quando io avrò
cessato di camminare. Al di là dei limiti nei quali l'impotenza e la sera
inchioderanno i miei passi, seguimi ancora». 1

San Benedetto ha intuito questa legge necessaria della vita che, senza
sciogliersi dal passato, si apre a nuove esperienze. A ogni pagina della Regola
noi possiamo rintracciare le fonti alle quali il suo pensiero si è alimentato, le
assonanze, non solo d'idee, ma spesso perfino di frasi, di periodi interi, con i
suoi maestri; eppure un simile lavoro, per quanto minuzioso e ricco
d'interesse,

____________________________

1 THIBON, La Scala di Giacobbe, pag. 47. Ediz. «Veritas», Roma, 1947.

219

rimane un mosaico inanimato di citazioni, mentre l'opera del Santo conserva


la sua potente originalità, che pare anzi acquistare maggior rilievo e grandezza
per questa creazione nuova alla quale egli ha saputo piegare i vecchi elementi
tradizionali.

Ci sono esempi caratteristici a dirci che tutto è stato ripensato, rivissuto,


collocato in una posizione nuova: una frase, in apparenza insignificante,
omessa; una congiunzione, una paroletta aggiunta; l'ordine invertito; un
sapiente raccostamento di periodi, ed ecco che il testo acquista un altro
valore, ha una forza impensata, rivela capacità di luce che sarebbero sfuggite
prima. In un equilibrio perfetto Benedetto fonde la dottrina del monachesimo
orientale, col senso pratico dell'Occidente, e, senza rinnegare nessun valore
reale, lo rende suscettibile di una fecondità: e non sarà questa l'ultima ragione
della sua grandezza.

È proprio questo elemento personale, inconfondibile, che ci rivela, attraverso


la Regola, i lineamenti morali di san Benedetto in corrispondenza perfetta al
ritratto che di lui ci permettono di ricostruire i fioretti gregoriani.
Noi sentiamo subito, anche a una lettura superficiale delle pagine che egli ha
scritto, di trovarci di fronte a un'anima impregnata di fede e che attraverso la
fede considera ogni minimo particolare della vita, così che questo sentimento
viene a essere come il substrato profondo, e insieme la suprema
giustificazione delle norme ascetiche e del complesso di ordinamenti pratici
che la Regola ci presenta.

Per il Santo la percezione di Dio presente è attuale, immediata.


L'affermazione paolina «in Lui viviamo, ci moviamo, abbiamo l'essere» (At
17,28) acquista, nella vita di Benedetto la forza di un'esperienza vigorosa così
da imprimere un suo carattere di conseguenza logica a tutte le azioni del
monaco.

220

Presupposto fondamentale, questo sguardo di Dio al quale niente può


sottrarsi e che può essere, volta a volta, stimolo a fuggire il male o incitamento
al bene, o consolante consapevolezza di un amore che ci avvolge, pronto a
riempirci l'anima ogni volta che consentiamo ad accoglierlo, esso imprime un
carattere di santità anche alle cose stesse, fa del monaco il sacerdote di un
ininterrotto ministero d'offerta, nel monastero divenuto un tempio dove
anche i più umili strumenti del lavoro quotidiano hanno una loro santità e
dovranno essere considerati «come i vasi sacri dell'altare».

Fede viva nella quale l'azione del santo timore si fonde con la carità più
ardente e determina quell'atteggiamento pratico di adorazione che non si
esaurisce nella solennità della liturgia ufficiale, ma custodisce l'anima in una
sottomissione perfetta alla divina volontà, insegnandole il segreto di questa
vita in Dio che ha come fondamento il bisogno della lode, della gratitudine,
della donazione nell'amore, per amore.

L'amen dell'adesione perfetta, l'alleluja della gioia eterna, che l'apostolo


Giovanni sentì risonare nella Gerusalemme celeste, riempiono l'anima di
Benedetto, ed egli vuole lasciarne l'eredità ai suoi figli che vorrà purificati in
un quotidiano esercizio di compunzione solo perché possano, con occhio più
limpido, consentire ai disegni di Dio, e acquistare una maggior capacità di
«magnificare il Signore che opera in loro».

Questa visione così netta, questa potenza interiore che dà un soffio di vita
anche alle prescrizioni più banali, spiega certi scatti appena traditi da incisi
rivelatori, abbastanza frequenti del resto, quasi espressione dell'impazienza
della carità ritardata nella sua corsa dall'ostacolo previsto, o anche solo
temuto.

Rapido, nervoso, torna sotto la penna di Benedetto un «quod absit» (non sia
mai), che sembra voler respingere anche solo la possibilità del male, e ci
scopre insieme la nota di decisione, di energia volitiva che gli è così
caratteristica e che egli con rara potenza ha

221

impresso nella sua Regola, insieme a parole usate con compiacenza,


ripetutamente, come quel «correre» che solo, per il Santo, sembra esprimere
il ritmo esatto nel cammino dell'anima verso il suo Dio, come certi concetti
che non si stanca di ribadire senza paura di ripetersi, perché non è la varietà o
la molteplicità delle parole che ha valore per la vita spirituale, ma solo la
profondità delle convinzioni.

Il fanciullo di Norcia «cor gerens senile» (dall'animo pensoso in una precoce


maturità), porta in sé la radice di una serietà di pensiero che gli anni
accentueranno pur senza trasformarla in qualche cosa di tetro o di ostile ai
sani valori dell'esistenza.

La Regola, che non ha niente di cupo, che non propone ardite acrobazie
spirituali, esige però, con una intransigenza che sembra dettata dalla gelosia
appassionata dei diritti e della gloria di Dio, serietà assoluta, cosciente, negli
atti che il monaco compie: nessuna leggerezza potrà offrire giustificazione per
la colpa.

È del resto la condizione preliminare posta a chi si accinga a salire la «scala


dell'umiltà»: che fugga la spensieratezza, la storditaggine, in maniera
assoluta, «omnino», quell'«omnino» che Benedetto predilige e che stabilisce
un'opposizione radicale con tutte le mezze misure.

Proprio perché è una cosa seria l'impegno di vita monastica che si assume con
Dio, egli esige lunga prova, riflessione prudente, conoscenza minuziosa degli
obblighi liberamente accettati, e può minacciare, qualora si manchi ad essi, la
condanna da parte «di Colui del quale ci si fa beffe»; perciò l'obbedienza
promessa non avrà altri limiti che quelli stessi della vita, e la povertà avrà
esigenze di distacco talmente austere e universali che il Santo non esita a
ricordare come nemmeno più possiamo disporre «del nostro corpo o della
nostra volontà»,
Egli non si rivolge a dei dilettanti di vita spirituale,

222

ma parla ad anime serie; queste lo sapranno capire, e sarà dovere del maestro
scrutare se il novizio possiede questa «serietà», che poi equivale alla sincerità
nella ricerca di Dio. Che se non l'avesse, il Santo è esplicito: è meglio che
«libero parta».

È forse per l'influsso di questa pensosità che Benedetto si preoccupa di


quell'ordine esterno che, secondo sant'Agostino, è un riflesso dell'ordine
interno. Niente, nella vita di comunità, è lasciato al caso, all'imprevisto. La
Regola provvede a tutto: agli ufficiali del monastero e alle loro relative
incombenze; alle varie categorie di persone: sacerdoti, vecchi, malati,
bambini, forestieri, in modo che ognuno si muova nel proprio ambito
agevolmente, senza intralciare o essere impedito dalle esigenze della vita
comune; le relazioni reciproche tra superiori e sudditi, e quelle dei fratelli tra
loro; le cose stesse materiali, hanno una disposizione perfetta.

Il Santo sa che il disordine genera confusione e malessere e niente sfugge alla


sua previdenza, dalla suppellettile della cucina che il sabato dovrà essere
lavata e riordinata per riguardo ai fratelli che si alternano nei turni di servizio,
agli inventari dove dovrà essere elencato ogni oggetto di proprietà della
famiglia monastica, agli indumenti che, di ritorno da un viaggio, il fratello che
li ha adoperati dovrà riconsegnare puliti alla guardaroba comune.

Egli pensa al decoro degli abiti, soprattutto se si debba uscire; alla cucina
degli ospiti, perché sia più accurata; ai monaci che, dovendo servire a mensa,
avranno bisogno di un leggero ristoro prima di prendere il loro pasto.

L'identica cura dell'ordine esige anche negli altri: in chi legge, in chi ha una
qualunque responsabilità nell'ufficiatura o in un servizio che interessi
comunque la comunità, nella stessa disposizione con la quale i fratelli si
seguiranno trovandosi insieme, perché l'ordine è condizione di pace, e la pace,
anche esteriore, è condizione necessaria al contatto dell'anima con Dio.

223

Tutto è disposto perché niente turbi l'osservanza monastica, e se il monastero


si apre accogliente a sovvenire a tutte le necessità di chi viene affaticato dal
mondo, la Regola crea una difesa immateriale, eppure insormontabile, a che
l'agitazione e i rumori del di fuori non vengano a sconvolgere la divina
monotonia di una vita che si svolge sulla terra senza essere più della terra.

Eppure questa minuziosa cura dei particolari non giunge a irrigidire, in forme
invecchiate, la disciplina spirituale che la Regola impone, e questa è cosa
mirabile.

Rimane il fatto storico indiscutibile, e facile a esser controllato anche ai nostri


giorni, della sua flessibilità e adattabilità alle epoche e ai paesi più diversi,
senza che questo sforzo di adattamento riesca a svuotarla o anche solo a
immiserirla del suo contenuto di forza santificatrice per le anime.

Possiamo però pensare di non allontanarci troppo dalla verità se


giustifichiamo il fenomeno considerando il genio psicologico di san
Benedetto, che lo ha portato a legiferare su quanto in ogni convivenza umana
può avere valore universale, lasciando invece la massima elasticità agli
elementi contingenti, per i quali costituisce arbitro l'abate, nello spirito della
Regola e nel timore del giudizio divino.

A questo si deve se il colore degli abiti, la misura del cibo, l'attività specifica di
ogni monastero, il criterio da seguirsi nei digiuni durante l'estate, la stessa
disposizione dell'Ufficio divino, hanno avuto delle determinazioni pratiche
molto diverse attraverso i secoli e in regioni diverse, pur senza intaccare
l'unità spirituale della famiglia monastica che, proprio per la sua fisonomia
singolare, può attuare il medesimo ideale unico e immutabile attraverso le
forme accidentali più svariate, integrando nella sua osservanza elementi
determinati dalle particolari condizioni storiche o ambientali.

Tracciata l'idea fondamentale, sulla quale non sono

224

possibili transazioni, e le sue conseguenze necessarie, con quel complesso di


norme già provate dall'esperienza come le più adatte a informarne la vita, il
resto offre un raro carattere di duttilità. Da ciò viene che la Regola non
somiglia affatto a un regolamento, ma è il libro di un'idea, l'affermazione di
uno spirito deciso a districarsi dalla materia: per vivere su un piano di
esigenze superiori.

San Benedetto è così consapevole del carattere di necessità, in ordine al fine,


che questo codice riveste, da poter esigere che, sia nella vita strettamente
personale, sia nella vita collettiva della comunità, «tutti seguano come
maestra la Regola, e nessuno temerariamente se ne allontani». E non è
esagerato parlare di temerità, chè tale sarebbe l'allontanarsi dalla via battuta
per avventurarsi al seguito di concezioni personali che potrebbero condurci
lontani dal fine.

L'abate stesso sottostà all'obbligo di agire in ogni circostanza «con timor di


Dio e nell'osservanza della Regola» in quanto a lui compete non
l'indipendenza nei riguardi del fine e dei mezzi tradizionali che ad esso
devono condurre, ma solo un più profondo dovere di adeguare la propria vita
ai canoni del codice monastico, in maniera da addestrare con maggiore
efficacia le anime alla pratica dei precetti di perfezione necessari a
raggiungersi nella ricerca di Dio.

Ed è notevole il fatto che, nella complessa e travagliata storia del


monachesimo benedetttino, attraverso quattordici secoli di vicende non
sempre felici, tutte le volte che, dopo un periodo di decadenza, anime
generose hanno concepito la necessità di una riforma, mai nessuno abbia
pensato ad attuarla col «ringiovanire» la Regola, ma solo attraverso il ritorno
integrale alla osservanza più fedele della Regola stessa.

E se i grandi movimenti monastici, pure ricchi di interiore vitalità e fecondi di


santi, dopo aver raggiunto l'apogeo della loro grandezza, hanno conosciuto un
troppo rapido declino, ne dobbiamo con ogni probabilità

225

cercare il motivo nel fatto che, accentuando l'uno o l'altro degli elementi della
vita monastica insuperabilmente fusi dal Santo, si sono allontanati da quel
criterio di equilibrio soprannaturale e insieme squisitamente umano nel quale
egli «ripieno dello spirito di tutti i giusti» ha saputo contenere la sua
legislazione.

San Gregorio chiama la Regola «discretione praecipua» (eminente per la


discrezione), ma questa eminenza della discrezione, se abbraccia una reale
moderazione in fatto di pratiche penitenziali, deve principalmente intendersi
nel suo significato originario e immediato di «discernimento», in quanto il
Santo ha saputo con genialità togliere dall'insegnamento tradizionale un po'
caotico quanto poteva attribuirsi alle eccentricità ascetiche di alcuni individui,
lasciando intatta la dottrina sostanziale, con i principi che costituiscono
l'essenza stessa della vita monastica.
Benedetto propone questa dottrina, e le modalità pratiche di attuazione che il
magistero dell'esperienza gli ha manifestato come le più opportune, a tutte le
anime desiderose di toccare il culmine della perfezione cristiana,
mantenendosi sempre su un piano di moderazione sapiente, in modo che
l'osservanza non abbia tali rigori da indurre «i deboli» a ritrarsene spaventati,
pur lasciando adito ai «forti» di poter fare di più: quel di più che il Santo non
sembra condannare come un eccesso, ma anzi incoraggia, purché ne sia
garantita, attraverso il controllo del padre spirituale, la genuina ispirazione
soprannaturale.

Questo riflesso e consapevole senso di misura giustifica, illuminandolo, il


tono di autorità col quale la Regola può legiferare, e quella specie di
intransigenza che esclude a priori ogni patteggiamento. È stato già tenuto
conto dal legislatore della debolezza umana, fisica e spirituale, sul resto,
l'indispensabile per giungere alla mèta, non sono da ammettersi ulteriori
adattamenti. Tanto più che san Benedetto, fedele alla tradizione ascetica che
lo precede, vede nel monaco un penitente, uno che,

226

dopo aver percorso, per una tacita connivenza col male, una lunga via in
discesa, ora deve sforzarsi di rifare il cammino in salita, impegnandosi a
quella fatica purificatrice che sola può permettergli il ritorno a Dio dal quale si
era allontanato.

Ma c'è anche un altro aspetto della Regola che vale a spiegarne la perennità,
ed è la sua aderenza ai libri santi, così evidente che Bossuet ha potuto
definirla «sommario del Cristianesimo, dotto e misterioso compendio di tutta
la dottrina del Vangelo».

Lo stesso san Benedetto del resto non ha alcun programma spirituale che si
sovrapponga al Vangelo, poiché vede nel monaco un cristiano perfetto nella
generosa imitazione del Cristo, il Modello unico, l'unico Amore; traccerà
perciò una via lineare: «sotto la guida del Vangelo, battiamo le sue vie», le vie
di Gesù, da Betlemme al Calvario, alla gloria nel seno del Padre.

La Regola sovrabbonda nelle citazioni della parola divina, quasi voglia con
essa determinare una specie di necessità per le sue prescrizioni, espressione
di una volontà che Dio stesso ha comunicato all'uomo e che il monaco dovrà
vivere con fedeltà e con intensità tutta particolare, poiché egli è, per
professione e per vocazione, l'operaio, il servo, il soldato del suo Signore. E
proprio perché dalla divina parola trae la sua forza, ne partecipa insieme la
freschezza e l'attualità nell'ininterrotto fluire delle generazioni umane.

Nel pensiero di san Benedetto la Regola non è la somma e la consumazione


della perfezione, ma solo un avviamento, il complesso di tutte quelle norme
alle quali, nella fatica dell'ascesi, si deve sottoporre l'anima che tende alla
santità; essa mira cioè a guidare il monaco nell'arduo lavoro della sua
purificazione interiore e ad addestrarlo nell'esercizio delle virtù, così da
renderlo atto alle profonde operazioni della grazia, ove unica regola è la
mozione dello Spirito Santo, docilmente accolta e tradotta in ardente carità.

227

L'ultimo capitolo insiste con chiarezza su questo pensiero, e vi possiamo


cogliere qualche cosa di più che un semplice atto di umiltà da parte del Santo.

C'è per lui un grado di perfezione religiosa che è inerente alla professione di
monaco, così che a non praticarlo si dimostrerebbe di non possederne
neanche i primi rudimenti, ed è al raggiungimento di questo che provvede la
Regola, in modo da dimostrare «di possedere onorabilità di costumi, e un
principio di vita monastica». È una prima tappa, suscettibile di ulteriori
sviluppi, che nella corsa dell'anima verso la santità apre l'adito, una volta che
sia stata generosamente superata, a quelle vette sublimi di perfezione sulle
quali proietteranno la loro luce le dottrine e gli esempi dei Padri, chiamati da
Dio a tale altezza che non può proporsi alla massa, inguaribilmente malata di
accidia, e ancora troppo esposta al fascino delle cose terrene.

Appare chiaro il disegno di san Benedetto. La santità importa una particolare


chiamata di Dio all'anima, e la generosità dell'anima fino all'eroismo nel
rispondere alle esigenze che ne derivano. Due cose, queste, che non possono
essere costrette in una Regola, perché non si può tracciare la via allo Spirito
Santo, né imporre l'eroismo all'uomo.

Domina sovrano, nelle pagine che Benedetto ha tracciato, il rispetto religioso


della misteriosa azione di Dio sulle sue creature.

L'abate dovrà considerarle singolarmente, nella loro fisionomia individuale, e


conformare ad esse la propria azione di padre e di maestro, trattando «chi con
lusinghe e chi con minacce», senza mai dimenticare che suo compito è quello
di «servire ai costumi di molti», sapendo aspettare l'ora della grazia e vincere
l'impazienza di risultati prematuri.
Ancora più significativo è il riserbo di san Benedetto quando tratta
dell'orazione del monaco, senza mai permettersi la minima intromissione in
quello che è dominio assolutamente libero dello Spirito Santo. Perciò

228

se qualcuno, dopo l'orazione comune, sentisse l'invito a prolungare il suo


colloquio con Dio, con semplicità «entri e preghi».

Al Santo è sufficiente insegnare le condizioni di questa orazione da compiersi


con umiltà, purezza e contrizione di cuore; tutta la Regola sarà anzi
virtualmente un tirocinio di tali virtù proprio in vista del raggiungimento di
quello stato d'unione nel quale la preghiera è come il respiro dell'anima.

Inutilmente cercheremo metodi elaborati o minuziose analisi spirituali; non


erano nel gusto del tempo, e ancor meno, forse, in quello di san Benedetto il
quale, anziché allo studio delle esperienze soggettive nel contatto con Dio, si
applica a uno sforzo concreto di sempre maggiore purezza nella eliminazione
di ogni forma di male capace di impedire quella segreta azione della grazia
che più conta vivere anziché descrivere.

In simile concezione la Regola si trasforma in un autentico avviamento


pratico alla «indisrupta oratio» (la continua orazione), che è l'anelito più vivo
di ogni vocazione monastica.

Ben diverso l'atteggiamento del Santo nei riguardi della preghiera ufficiale,
pubblica, che egli cura fin nei minimi particolari, disponendone lo
svolgimento con così sapiente accuratezza, che l'ordinamento da lui stabilito
avrà un influsso decisivo e stabile anche sull'ufficiatura della stessa Chiesa
Romana.

La Regola dà al «sacrificio di lode» il posto centrale tra le varie attività del


monaco, tanto da ingiungere che «niente assolutamente venga anteposto
all'opera di Dio» e la tipica espressione cesella, con impareggiabile precisione,
la dignità di questo ufficio che è, in verità «opera di Dio» in quanto non ha
altro fine che Lui, la sua gloria, il riconoscimento ammirato e pieno d'amore
delle sue grandezze e dei diritti che Egli ha sulle creature.

L'atteggiamento esterno stesso dovrà tradurre l'intima consapevolezza che il


monaco ha della sua

229
missione, in virtù della quale si diffonde sulla terra un'eco del Sanctus eterno
che i Serafini, velandosi il viso, cantano nel cielo all'Onnipotente.

Ben dodici capitoli della Regola provvedono a regolare minutamente l'ordine


e il decoro del servizio liturgico, traduzione squisita delle virtù teologali che
più direttamente ci congiungono a Dio, nella fede che lo adora presente, nella
speranza che attende implorando, nella carità che si effonde e canta ardendo.

Il divino Ufficio è il centro d'unità della famiglia monastica, la quale, stretta al


Cristo nascosto sotto la persona dell'abate che ne tiene le veci, presenta al
Padre la sua ostia di lode; e tutti, anche i lontani, dovranno parteciparvi,
sospendendo il lavoro, sostando, appena è possibile, nei viaggi, uniti col
cuore, se non con la voce, ai fratelli che salmeggiano.

Ed è così decisamente impressa nella Regola quest'idea, che lo sviluppo dato


costantemente dai monasteri benedettini alla preghiera solenne e pubblica ha
colpito anche i distratti, e ha spinto molti a identificarlo col fine stesso della
vocazione monastica, mentre in realtà non è che una delle sue più nobili
espressioni: «pensum servitutis nostrae» (il tributo della nostra servitù), lo
dirà umilmente san Benedetto, e non c'è tributo più degno che la creatura
possa dare a Dio.

Le preferenze di san Benedetto, che pure, per averla vissuta, conosce la vita
eremitica, sono decisamente per quella cenobitica, e in vista di questa egli ha
scritto la Regola, traducendo in essa una meditata esperienza, affinché in
schiera serrata i fratelli marcino decisi, forti della loro compattezza, verso
l'ideale.

Molti elementi ascetici hanno un particolare sviluppo proprio in funzione


della vita comune, e ci è dato cogliere attraverso numerosi capitoli della
Regola stessa la preoccupazione di tutto ordinare in maniera tale che la
famiglia, pur composta di individui disparati per

230

origine o per temperamento, sia una nella carità, nell'amore di Cristo.

Saranno eliminati a tal fine tutti i motivi di divisione per eventuali differenze
sociali. Una volta abbracciata la vita monastica «schiavi o liberi siamo una
sola cosa in Cristo, e sotto un unico Signore compiamo la stessa milizia».

Venerazione rispettosa e indulgente amore dovranno attenuare i contrasti tra


i giovani e i più anziani in reciproca comprensione, e col compatimento che si
estenderà anche ai fratelli meno dotati fisicamente e spiritualmente, quelli
proprio da «sopportarsi pazientissimamente».

Per la prima volta nella storia del monachesimo, san Benedetto esige, agli
inizi della vita monastica, una vera e propria professione religiosa, sotto
forma di contratto bilaterale, che il monaco in maniera esplicita, pubblica e
solenne, stipula con la comunità alla quale chiede di appartenere, secondo un
rigido procedimento giuridico la cui testimonianza, racchiusa nel documento
da lui scritto e firmato e deposto sull'altare, sarà conservato negli archivi del
monastero.

In questo contratto la comunità in nome di Dio accoglie il novizio e gli fa parte


di tutti i suoi beni, sia di quelli d'ordine spirituale che di quelli d'ordine
materiale, mentre il nuovo fratello si impegna a tre obblighi fondamentali:
l'obbedienza, la stabilità, la «conversatio morum» (conversione dei costumi),
secondo la tipica formula che equivale a «vita monastica».

L'obbedienza è il requisito basilare, quello che sarebbe da solo sufficiente ad


abbracciare tutti gli altri obblighi dello stato religioso, che vi possono essere
inclusi senza sforzo. Senza obbedienza non c'è il monaco. In ogni modo, pur
senza essere mai stato fatto oggetto di un voto particolare, è elemento comune
all'ascesi monastica anteriore, e oggetto delle più grandi preoccupazioni dei
Padri del deserto nella formazione

231

delle giovani reclute che essi si sforzano di condurre alla più alta perfezione di
questa virtù.

Ciò che è invece veramente originale, in san Benedetto, è l'aver impegnato il


monaco alla stabilità, e questa sua intuizione, di genialità tutta romana, ha
avuto un influsso decisivo sullo sviluppo dei monasteri, non solo, ma anche
sulla riorganizzazione economica e civile di una società che sembrava
destinata a essere sommersa dalla barbarie.

Il monachesimo primitivo non si era affatto preoccupato di questo elemento,


che anzi rimaneva ignorato a tal punto da essere normale, nel deserto, il
passare dall'una all'altra scuola quando si ritenesse di aver sufficientemente
assimilato tutto il corredo di virtù che uno dei Padri era stimato capace di
offrire, e la fama di una straordinaria santità orientava verso un nuovo
maestro le schiere dei discepoli. E in ciò non solo non si vedeva difetto, ma
anzi una encomiabile forma di fervore religioso alla ricerca di sempre nuovi
mezzi di perfezionamento.

Da questo sincero desiderio di bene, però, a deplorevoli abusi, il cammino era


breve, e, in corrispondenza con la generale decadenza della vita monastica,
nel secolo VI san Benedetto denunzia lo scandalo detestabile dei monaci
sarabaiti, e peggio dei girovaghi, che passano la vita a girare il mondo,
sfruttando la devozione dei fedeli, ai quali lasciano, in compenso
dell'ospitalità ricevuta, l'esempio tutt'altro che edificante della loro ingordigia
e di una indisciplinatezza insofferente di qualsiasi freno.

Il Santo ne è talmente disgustato che della disgraziata condizione di costoro


preferisce «tacere piuttosto che parlare» e, con evidente compiacenza, passa a
ordinare «le schiere fortissime dei cenobiti». Ma per questa forma di vita la
stabilità gli appare essenziale.

Come non si scinde la connessione intrinseca della famiglia naturale,


nonostante la cattiva volontà dell'individuo, perché essa è basata sul sangue,
così non si

232

deve pensare a una possibile diserzione dalla famiglia monastica, compagine


non meno salda, ma d'ordine tutto soprannaturale, e dove il vincolo di
coesione, essendo dato dalla grazia, esige la cooperazione della libera volontà
umana, che appunto mediante la promessa di stabilità si impegna a non
disertare da essa.

Per il Santo non esiste nessuna situazione che meriti di essere considerata tale
da giustificare un volontario allontanamento del monaco dalla sua famiglia
d'elezione; non la salute, perché anzi agli ammalati i fratelli serviranno come
si servirebbe al Cristo, ed essi, dal canto loro, avranno cura di esercitare
durante l'infermità le virtù monastiche delle quali hanno fatto professione;
non la vera o presunta mediocrità dei superiori che non conformino la loro
vita agli insegnamenti che trasmettono senza attuarli in sé, ché basterà allora
«fare ciò che essi dicono e non fare ciò che essi fanno»; e nemmeno, se vi si
dovesse giungere, la subdola persecuzione di falsi fratelli, o quella, aperta e
violenta, di persone costituite in autorità, per il semplice motivo che prima di
assumere un impegno definitivo davanti a Dio e alla comunità, tutti questi
casi sono stati previsti e considerati e si è accettato di perseverare nel
monastero «usque ad mortem» (fino alla morte).
La ragione profonda di tutto questo è evidente: il monaco non chiede alla vita
religiosa un rifugio pacifico che lo esoneri dalla sofferenza, egli anzi, per una
più chiara conoscenza della potenza redentrice della croce, aspira a inserirsi
nella maniera più vitale nel mistero di salvezza che non opera «sine sanguinis
effusione» (senza spargimento di sangue).

La stabilità nel monastero, per quanto le situazioni che possono determinarsi


siano penose, non sarà quindi mai da sfuggirsi, che varrà anzi a una più
intensa partecipazione, mediante la pazienza, alla passione di Cristo.

Noi stentiamo oggi a farci un'idea esatta dell'influsso

233

sociale esercitato da questo vincolo di stabilità, ribadito come necessario a


una convivenza ordinata a un fine per il conseguimento del quale gli ostacoli
non si sfuggono, ma si superano; in un'epoca però che assisteva a gigantesche
migrazioni di popoli spinti dall'intento di sfruttare sempre nuove terre
sottraendosi all'onere di un lavoro faticoso, e nella quale anche gli individui
trovavano più facile il vagabondaggio ammantato di pietà o sostenuto dalla
forza brutale che non la fatica del piegarsi sulla terra e conquistarne il frutto,
esso valse a ricomporre intorno ai monasteri saldi e operosi nuclei di
popolazione che, per un complesso di interessi materiali se non sempre per
una chiara cognizione di un valore più alto, partecipavano alla stabilità stessa
della comunità monastica.

Città e paesi senza numero devono le loro remote origini a questa


irradiazione, capace di fermare uomini dall'istinto nomade, di stringerli in
società stabile e bene ordinata, penetrandone lentamente, ma sicuramente, la
vita di un fermento di idee, di opere, di sentimenti cristiani, e questa gente
dovrà dire: «Si vive bene all'ombra del Pastorale!», nella compagine sociale
che si viene ricostituendo dall'affratellarsi delle nuove stirpi.

Ma la stabilità esteriore, locale, non è, per il monaco, se non la condizione per


uno stato di stabilità interiore nella ricerca di Dio, col quale egli si impegna
mediante la terza promessa, la «conversione dei costumi», a vivere da
monaco durante tutta la sua vita, secondo le esigenze che tale vocazione
importa, come sono determinate nella Regola, come gli verranno suggerite dal
Maestro interiore del quale egli deve vivere in ascolto e che lo stimolerà
ininterrottamente verso l'alto.
La Regola non mira a nessuna specializzazione sia pure in vista di una attività
benefica, sia essa caritativa, o missionaria, o culturale; essa intende formare
l'uomo interiore, il santo, del quale Dio disporrà poi liberamente, trovandolo
strumento adatto, secondo i disegni

234

della sua Provvidenza. Ed è questo il motivo per il quale, comunque si


determini il campo d'azione di un figlio di san Benedetto, questa
estrinsecazione del suo lavoro, per quanto appariscente, non incide sulla sua
vera e unica fisonomia monastica, plasmata a quel complesso di elementi
contenuti nella Regola e sufficienti a consumare la sua vocazione, fino alla
santità.

Il monachesimo diventa così, in mano della Chiesa, strumento potente di


restaurazione religiosa e sociale, non perché a questo abbia direttamente
pensato san Benedetto, ma perché egli tiene l'anima dei suoi figli fissa in Dio,
nell'ardore di una carità che non esclude l'interesse per ogni forma di miseria
umana, anzi tutte le abbraccia per redimerle ed elevarle.

Nessuna rigidità per tutto ciò che è contingente. Figlio del suo secolo, il
monaco ne assimilerà quanto vi può essere di buono, comprendendone a
fondo le esigenze, senza negare la sua opera dove essa sia necessaria, con un
adattamento costante, attraverso i tempi, e a seconda dei paesi dove la
Provvidenza lo ha posto; ma intimamente, nella sua realtà più segreta e più
vera, i suoi lineamenti rimangono immutati, e tanto più sarà feconda la sua
vita, quanto più compiutamente tradurrà in sé i tratti della Regola;
avvicinandosi all'ideale perfetto che il Santo ha voluto tracciare, esso trova la
sua espressione nelle condizioni lineari che egli pone all'anima prima di
ammetterla nella scuola del divino servizio: se veramente cerchi Dio, se abbia
in cuore il bisogno ardente della lode di Dio, il segreto tormento di ridiventare
puro attraverso l'obbedienza e l'umiliazione.

Per quest'anima la Regola santa sarà magistero di salvezza lungo «la via della
vita», fino a quel regno eterno dove il Signore attende di manifestarsi ai suoi
eletti; sarà guida ricca di soprannaturale sapienza per tutti i pellegrini del
cielo che compiono nel tempo il loro cammino di ritorno alla casa del Padre.

235
XIII. Il giorno eterno

I tempi si facevano sempre più tristi. Mentre Totila con i suoi Goti si
avvicinava ormai a Roma per stringerla d'assedio, un ordine dell'imperatore
Giustiniano ne aveva allontanato il pontefice Vigilio, chiamandolo a
Costantinopoli nel novembre del 545, proprio quando più urgente appariva il
bisogno della sua presenza tra il popolo minacciato e affamato.

L'anello di ferro degli invasori intanto andava rapidamente stringendosi


intorno alla città assediata, provocando una carestia spaventosa che ben
presto rasentò la fame. Il Papa, dalla Sicilia, provvide a mandare in soccorso
del popolo navi di granaglie, ma queste, all'imboccatura del Tevere, furono
sequestrate dai Goti che, arrestato il vescovo Valentino destinato ad
assumere, durante l'assenza di Vigilio, la direzione spirituale del clero, lo
accusarono di tradimento e gli mozzarono le mani con feroci q selvaggia.

A Roma la gente moriva di fame per le vie, né quelli che riuscivano a evadere
dalla città trovavano in genere sorte migliore, sperduti nella campagna, tra
pericoli di ogni specie.

Il diacono Pelagio, uomo di santa vita, che in quel

236

tragico frangente aveva preso in mano le sorti del popolo, era andato fino al
campo nemico a supplicare il re Totila di concedere un breve armistizio agli
assediati, i quali ne avrebbero avuto un po' di sollievo, ma non ottenne che
uno spietato e inesorabile rifiuto.

Per un anno la città si difese contro il nemico, fino a che un gruppo di soldati
isaurici, stanchi di quel lento morire, aprirono a tradimento, durante la notte,
la porta Asinaria, lasciando entrare i Goti che, schierati davanti al Laterano,
attesero lo spuntar del giorno, mentre la popolazione terrorizzata si accalcava
nelle chiese implorando salvezza.

Questa volta Pelagio riuscì a ottenere da Totila la vita dei cittadini e il rispetto
delle donne, ma la città fu saccheggiata avidamente, parte delle mura
smantellate, il popolo fatto evacuare a viva forza e disperso, mentre i cittadini
delle classi più elevate, imprigionati, vennero trascinati attraverso la
Campania dal re che, partendo a precipizio verso l'Italia meridionale, secondo
l'autorevole testimonianza dello storico Procopio, lasciava Roma deserta.
Forse, rasentando Cassino, gli tornò alla mente l'incontro col santo abate e la
sua predizione che gli incombeva sull'anima, tra l'ebbrezza di ogni vittoria,
come una minaccia inesorabile. Era entrato in Roma, ma intanto gli anni
passavano, senza che niente valesse a trattenerli, e quel suo correre incontro a
nuovi trionfi verso il mezzogiorno, poteva equivalere, se Benedetto aveva
detto giusto, a un correre incontro alla morte.

Fantasmi terrorizzanti, in fondo al cuore, disegnavano vagamente la disfatta


di Tagina.

Nella pace della sua cittadella fervida di lavoro e impregnata di preghiera, il


Santo sentiva ripercuotersi nell'anima il dolore di quelle turbe di affamati
spinte per la Campania come bestie da macello, di quegli altri che, più
coraggiosi o più fortunati, erano riusciti a rientrare in Roma, dove li attendeva
la desolazione delle loro case deserte, di quei barbari che passavano

237

e ripassavano mantenendo un'atmosfera di terrore.

Né meno penosi dovevano giungergli gli echi delle vicende che si svolgevano a
Costantinopoli, dove il Papa era tenuto in una larvata ma autentica prigionia
dall'Imperatore, deciso con tutti i mezzi a piegarlo alla sua volontà, mentre
intanto divampavano violente discussioni tra greci e latini.

In questo caotico fermento di passioni, di interessi contrastanti che


sembravano sommergere ogni valore umano, in cui la società abbandonata
alla deriva poteva far pensare a un crollo completo di ogni forma di ordinata
vita civile, quanto più spontanea doveva nascere nell'anima, quasi necessità
intima, l'attesa della città di Dio, nella pace del Regno che ogni monaco deve
desiderare, in proporzione del suo amore, «con ogni ardore di concupiscenza
spirituale»!

Benedetto aveva speso tutta la sua vita nel più generoso servizio del Signore;
sentiva ora che la sua giornata di opere era compiuta. Prima di declinare in
una stanca vecchiaia, Cristo, il suo vero, il suo unico Re, non l'avrebbe
chiamato a godere «i giorni buoni» che sono poi il grande giorno unico
dell'eternità?

Ma già i suoi ultimi mesi di vita terrena ci appaiono illuminati da una luce
tranquilla che è come un riflesso di quella del cielo.
Durante tutta la sua esistenza, la figura del Santo ci era apparsa solitaria,
completamente e volontariamente segregata dalla famiglia naturale, per
rendere più effettiva e profonda la sua dedicazione a Dio.

Dopo la rinunzia definitiva a ogni vincolo di sangue, prima della partenza da


Roma, e poi fuggendo da Affile, invano cercheremmo una qualsiasi traccia di
relazioni familiari attraverso gli episodi rivelatori della sua anima.

Eppure al limite estremo della sua esistenza terrena, si schiude uno spiraglio
su questa zona dei suoi affetti tenuta gelosamente chiusa a ogni indiscreta

238

investigazione, e compare, per una deliziosa scena conclusiva, che nella sua
brevità ci rivela molto più di quel che le parole non esprimano, il profilo di
una sorella teneramente amata, unita al Santo non meno strettamente per
identità di ideali che per fraternità di sangue.

Si chiamava Scolastica, e la tradizione ha voluto dirla gemella di Benedetto:


vera o no, la notizia ha per noi un valore relativo.

Quel che sappiamo con certezza è che l'anima pensosa, fiorita nel rigore
ascetico di una consacrazione verginale che l'aveva votata a Dio fin
dall'infanzia, dovette essere vivamente colpita dalla vocazione monastica del
fratello che trovò una risonanza profonda nel suo spirito.

Come si svolse la vita intima di questa donna, quale influsso l'insegnamento e


la direzione di san Benedetto abbiano avuto su di lei, come la sua stessa vita
esteriore ne sia stata determinata, rimarrà sempre il segreto di Dio, ed è
inutile perdersi in congetture che, per quanto attraenti, non possono avere la
conferma di documenti autentici.

L'unica notizia sicura, quale ci è tramandata dai Dialoghi di san Gregorio è


che, a un certo punto della sua vita, Scolastica venne a stabilirsi non lontano
da Montecassino, forse proprio in quel luogo al quale la tradizione ha legato il
nome di Plumbariola; non sappiamo però se vi dimorasse sola, come allora
ancora usavano molte vergini consacrate, o in un vero e proprio monastero.

Le relazioni col Santo non erano molto frequenti, nonostante la distanza


relativamente insignificante che li separava, ma una volta all'anno le era dato
vederlo e trattenersi con lui, aprendogli tutta l'anima sua, in uno scambio
intimo delle ricchezze interiori che erano «l'eredità magnifica» attraverso la
quale la loro vita attingeva le sorgenti stesse della beatitudine.
Era Scolastica che veniva presso il fratello, ma,

239

fedeli alla rigida disciplina tradizionale secondo la quale non era lecito alle
donne varcare le porte di un monastero, l'incontro avveniva fuori del recinto
monastico, in una piccola dipendenza abbastanza vicina, dove il Santo,
accompagnato da qualche discepolo, scendeva a incontrarla.

Un anno, che ragionevoli congetture ci permettono di fissare nel 547, sul


principio di febbraio, Scolastica, già avanti negli anni, salì con fatica l'erta del
monte, col cuore teso nel desiderio del convegno fraterno. Aveva l'anima
traboccante di una misteriosa pienezza, e questa determinava in lei uno stato
mai provato prima, un incoercibile bisogno di espansione spirituale.

La giornata trascorse rapida in quell'incontro a lungo desiderato, e le anime


dei due fratelli poterono effondersi intorno a quello che era sempre stato, ma
ora più che mai, l'interesse fondamentale e unico della loro esistenza, l'amore
supremo che aveva consumato in un rogo di fiamma, per fame olocausto a
Dio, ogni ricerca di gioia terrena.

Ora quel Dio cercato con perseveranza e con fedeltà attraverso le vie dure e
aspre della rinunzia, si comunicava a loro con una inebriante esperienza
soprannaturale che prorompeva nella lode, fondendo gli spiriti in una
intimità superiore a quella possibile a qualunque vincolo di carne e di sangue.

Le ore erano troppo brevi per esaurire i bisogni dell'anima, e il tramonto


frettoloso di quella gelida giornata di febbraio sorprese Benedetto e la sorella
mentre ancora avevano da dirsi le cose inesauribili del Regno di Dio.

Furono forse quelli che erano con loro, e che ancora non erano divenuti
insensibili agli imperativi delle esigenze terrene, a richiamarli alla necessità di
prendere un po' di cibo.

Era sera quando sedettero a mensa, ma la conversazione continuò


appassionata, in modo che il tempo passava e non ancora si sentivano sazi di
quei celesti

240

colloqui. Scolastica si rese conto per la prima che ormai si era fatto tardi e che
sarebbe stato necessario separarsi, eppure la sua sete di trattenersi ancora a
parlare di Dio sembrava, anziché placarsi, farsi più violenta, quasi che
l'anima, ancora nell'impossibilità di slanciarsi verso la visione eterna, cercasse
un compenso nei riflessi della gran luce che investiva Benedetto, attraverso le
cui parole le sembrava di cogliere la traduzione in parole umane di
quell'inesprimibile che ormai trionfava nella sua vita e le dava strane
impazienze di cielo.

Azzardò allora, supplicando, una domanda:

- Ti prego, fratello mio, non mi lasciare, stanotte, in maniera che sino al


mattino possiamo parlare delle gioie della vita celeste. -

Nel Santo, l'abitudine di una rigorosa fedeltà alla Regola e di un dominio


assoluto su tutte le esigenze del cuore reagì impetuosamente, come di fronte a
un assurdo:

- Che dici mai, sorella? Non è assolutamente possibile che io rimanga fuori del
monastero. -

Di fuori, nel cielo limpidissimo, le stelle ridevano in una nitida e rlucente


serenità.

Si trovarono di fronte, per un attimo, in silenzio, Benedetto, l'uomo del


dovere, deciso a passare su tutte le ragioni del cuore e forte della sua ferrea
volontà, e Scolastica che a sostegno aveva solo il suo tormentoso bisogno di
Dio; nessuna parola sarebbe riuscita a esprimerlo, ed essa dovette sentirsi
ancor più inadatta, impotente a tentare di commuovere il santo fratello.

Non insisté, non discusse, sarebbe stato inutile. In silenzio intrecciò le mani
sul tavolo e, reclinato il capo, disse il suo dolore a Dio, mentre dagli occhi
scaturiva un torrente di lacrime; non era un capriccio sentimentale il suo, ma
l'esigenza di un amore violento che sembrava nel suo impeto poderoso voler
infrangere la fragile diga della carne per gettarsi nella Carità infinita. Non
capiva dunque Benedetto che c'è un grado

241

nel quale l'amore diventa martirio e ha bisogno di effondersi, di cantare, di


comunicarsi? Scolastica gridava al Padre che sta nei cieli, il solo che potesse
misurare la veemenza della sua sete, supplicandolo di non negarle questo
viatico di consolazione per i giorni della vita terrena che ancora le restavano
da vivere, e le lacrime furono l'espressione più eloquente della commozione
profonda che la faceva trasalire nel desiderio ardente del suo Dio.
Appena da qualche istante si era raccolta in preghiera, quando lo scoppio
fragoroso di un tuono fece sobbalzare tutti; un temporale di indescrivibile
violenza solcava il cielo, poco prima perfettamente sereno, di paurosi bagliori,
e tra il balenare dei fulmini una pioggia torrenziale si rovesciava a scrosci sul
fianco della montagna, rendendo assurdo qualunque proposito di rimettersi
in cammino fino a che la tempesta non fosse cessata.

Sarebbe stata temerità avventurarsi con i compagni fuori dell'ospizio che li


riparava, e di fronte all'impossibilità, Benedetto capì che era vano ostinarsi,
ma non nascose un moto di contrarietà, e pur di fronte all'inequivocabile
intervento del cielo, si sentì ferito nel suo rigido abito di dovere, e se ne
lamentò con la sorella:

- Che Dio onnipotente ti perdoni, sorella. Che hai fatto? -

Ma lei trionfava ormai, sentendosi sostenuta dalla onnipotente tenerezza del


suo Signore, e senza turbarsi affatto del rimprovero, poteva ribattere con
arguzia:

- Ecco, ho pregato te e non mi hai voluto ascoltare, ho pregato il mio Signore


ed Egli mi ha esaudita. Ora dunque esci, se puoi, e, dopo avermi salutata,
torna al tuo monastero. -

Questa volta Scolastica ebbe una vittoria completa e il Santo, visto inutile ogni
tentativo di sfidare la bufera che imperversava più violenta che mai, si
rassegnò

242

a consentire per necessità al dono di quella nottata che non aveva creduto di
poter concedere all'affetto fraterno.

Vegliarono così tutta la notte, dissetando le loro anime all'unica fonte d'acqua
viva che per entrambi era l'amore supremo, la sola ragione dell'esistenza.

Fu una festa dello spirito, fino all'alba, che li trovò ancora intenti ai loro
deliziosi colloqui. Quando si separarono e percorrendo vie opposte sul terreno
molle per la pioggia recente, tornarono lui sulla vetta del monte, lei alla sua
cella verginale, sembrava li unisse una nuova intimità che faceva pensare a
quella degli spiriti beati che la visione e il possesso dell'unico Dio fonde in una
superiore unità di intelletto e di volontà.
Erano passati appena tre giorni, e l'uomo di Dio, stando in piedi davanti alla
finestra della sua cella sulla torre, quella stessa della mirabile visione che gli
aveva rivelato le creature tutte raccolte nella luce del Creatore, mentre, con un
movimento che gli doveva essere abituale, affondava lo sguardo nel cielo,
vide, in una luce abbagliante, una colomba candida volare diritta, con le ali
tese, verso l'alto, e scomparire, quasi luce nella luce, nelle profondità
dell'azzurro.

Ebbe l'intuizione immediata che quella fosse l'anima della sorella nell'atto in
cui, rotto l'involucro corporeo si slanciava verso Dio, ed egli stesso si sentì
trascinato da un torrente di gioia.

Nessuna ombra di tristezza in questa visione di moro te che era il trionfo della
vita, dell'amore, della felicità perfetta, nel termine beatificante al quale era
volto ogni anelito della laboriosa esistenza terrena. Scolastica lo aveva
preceduto, la carità che la struggeva aveva affrettato l'invito dello Sposo, la
vigilia nuziale piena di attesa e di desiderio era ormai compiuta, e nella festa
eterna si consumava l'unione in un gaudio senza fine.

Dal suo posto di vedetta sulla torre il Santo cercava di partecipare a quella
gioia, benedicendo il Signore

243

con inni e canti di lode, ma come smorta e inefficace la parola terrena a


riecheggiare la gioia del cielo, anche se, come per dilatarla e renderla più
vigorosa, ne volle partecipi i suoi figli, quasi col racconto della dolcissima
visione volesse consolarne la faticosa ascesa verso la città beata dove né il sole
né la luna ci saranno più perché sua luce è l'Agnello!

Rimaneva sulla terra una ricchezza sola: l'involucro di carne che aveva
sostenuto l'anima e le era stato compagno fedele, e che ora doveva attendere,
per dividerne la gloria, l'annunzio della Risurrezione.

Benedetto pensò che sarebbe stato dolce attendere insieme, nel sonno dei
secoli, nella pace di un sepolcro comune, e mandò in fretta alcuni dei suoi
monaci a prendere il cadavere della vergine sorella per portarlo in monastero
e deporlo nella tomba che egli aveva preparata per sé.

Particolare rivelatore, sulle soglie estreme della vita, di una tenerezza


delicatissima custodita sotto la legge della più austera mortificazione del
cuore.
E così avvenne, come finemente nota san Gregorio, che «nemmeno la
sepoltura separasse i corpi di coloro il cui spirito era stato sempre uno in
Dio».

Il Santo era giunto ormai alla pienezza della sua maturità spirituale, una
lunga esperienza di uomini e di cose, valutati in una luce superiore, gli davano
il senso esatto del valore della vita dell'uomo; breve parentesi di battaglia,
dove tutto è mezzo per il raggiungimento del fine, di quel consumante ardore
di carità che solo può placarsi, sempre sazio pur senza mai esaurirsi, nel
tranquillo e beatificante possesso di Dio.

Il monastero di Montecassino era perfettamente ordinato, la Regola


rimaneva, sacra ai suoi figli, come suo testamento spirituale, il mondo,
intorno, segnava lo sfacelo di una civiltà che nel cozzo violento con la barbarie
sembrava aver travolto ogni diritto e ogni garanzia di dignità umana.

244

I richiami verso l'al di là si facevano più insistenti, già l'anima sua vi era
stabilita col desiderio e con l'affetto, mentre attendeva che si chiudesse la
giornata terrena.

Cominciò a parlare di morte con i suoi figli con la gioia di chi, compiuto un
cammino faticoso vede ormai imminente la mèta e prende commiato dai
compagni di viaggio che ritroverà più tardi, quando anch'essi ne avranno
compiuto le tappe.

Sul principio del 547, forse subito dopo la morte di santa Scolastica,
Benedetto annunziò con sicurezza ai più intimi il giorno nel quale sarebbe
morto, anzi ad alcuni di essi che dimoravano lontano, volle aggiungere
l'indizio dal quale avrebbero potuto avere la certezza che la sua anima aveva
lasciato il corpo, a tutti però ingiungendo il più rigoroso silenzio.

Il 15 marzo volle che si aprisse la tomba già da tempo preparata per sé, e dove
riposava e sembrava attenderlo il corpo verginale della sorella. In quello
stesso giorno fu assalito da febbri violentissime che lo ridussero presto in uno
stato di estrema spossatezza.

Di giorno in giorno il male si aggravava, né lasciava più, ormai, alcuna


speranza, quando il 21, dopo sei giorni, volle che lo portassero nell'oratorio.
Circondato dalla corona dei figli che sostenevano in piedi il suo corpo sfinito
dall'ardore della febbre, si munì, viatico di vita, di misericordia, di carità per il
passo estremo, del Corpo e del Sangue di Cristo, poi, tese le mani al cielo, in
una preghiera di ringraziamento nella quale vibrava intensa l'ansia della
comunione eterna, sempre in piedi, buon soldato di Cristo, dopo aver
combattuto la buona battaglia, rispondendo pronto all'invito, entrò nel gaudio
del suo Signore.

In quello stesso giorno, due monaci lontani da Montecassino ebbero, l'uno


nella propria cella, l'altro molto lontano da lui, una identica visione. Apparve
loro infatti una via trionfalmente ornata di drappi e scintillante per la luce di
lampade innumerevoli che congiungeva

245

la cella del loro santo Padre col cielo. Su di essa, un uomo dall'aspetto nobile e
venerando chiese loro che via fosse quella, e avendo essi risposto che non lo
sapevano, spiegò:

«Questa è la via attraverso la quale Benedetto, il diletto di Dio, ascese al


cielo».

La visione si dileguò, ma, anche quando il cadavere del Santo fu sceso nel
sepolcro che egli stesso si era scelto nell'oratorio di san Giovanni Battista,
proprio dove aveva distrutto l'ara di Apollo, un riflesso di quella scia di luce
tornò a illuminare il cammino di quanti, attraverso i secoli, avrebbero voluto
farsi cercatori di Dio.

[la tomba del santo Patriarca, ma oggi intorno ad essa] refuso]

L'arte cristiana, ispirata dalla pietà e dalla riconoscenza, non si è mai stancata
di rappresentarci il santo patriarca di Montecassino, ma, purtroppo, noi non
abbiamo nessun dato che ci aiuti a ricostruirne, con una certa
verosimiglianza, i tratti fisici. Una tradizione molto antica, e custodita con
devota cura dagli abitanti di Roiate, vicino a Subiaco, vorrebbe almeno darci
la certezza della sua statura, davvero poco ordinaria.

Si racconta infatti che il Santo, in tempo di peste, tornando da Roma dove


infieriva l'epidemia, giunto a sera inoltrata a Roiate, non trovò nessuno che gli
desse ospitalità per la notte, tanta era la paura del contagio.

Si stese allora su un largo masso, all'aperto, aspettando che albeggiasse, ma


all'indomani i poco generosi paesani trovarono impressa nella pietra
l'impronta del corpo di Benedetto dalla quale, ogni anno, il giorno della sua
festa, trasuderebbe una manna dal prodigioso potere taumaturgo.
L'impronta ci dà la statura di metri 1,95. Noi lo pensiamo, come lo canta la
liturgia, «vultu placido, mente tranquilla, moribus decoratus angelicis», (con
la fisonomia serena per il lungo e maturo dominio sulle passioni, con l'anima
pacificata in Dio, con qualche cosa

246

di angelico), per il trasparire della potenza spirituale che ha soggiogato la


materia in tutti i suoi atti.

E come in tante figurazioni artistiche che lo hanno reso caro ai fedeli, egli ci
apre ancora, invitante, la sua Regola: «Ascolta, o figlio ...» e ne segna il
termine, con lo sguardo che conosce l'esperienza intraducibile del divino: «...
Deo protegente, pervenies» (con l'aiuto di Dio, toccherai la mèta).

247

XIV. L'eredità santa

Alla morte di san Benedetto rimanevano tre centri almeno di vita monastica,
ordinati secondo la sua Regola, e impregnati del suo spirito: Subiaco,
Montecassino, Terracina.

Del monastero di Terracina oggi non rimane più che il ricordo.

Travolti, e alcuni senza lasciar traccia, dall'invasione longobarda, sugli inizi


del secolo VII i dodici monasteri sublacensi, essi risorsero, in maggior
conformità con la concezione del santo Patriarca, nell'unico grande cenobio di
Santa Scolastica, sviluppatosi dalla cellula primitiva dedicata ai santi Cosma e
Damiano, mentre la pietà dei figli non tardò a imporre l'erezione di un nuovo
monastero al Sacro Speco, dove, il santuario, ricco di memorie e di insigni
opere d'arte, custodisce nel suo cuore la grotta che conobbe il segreto fiorire
della santità di Benedetto.

In pieno rigoglio di vita soprannaturale e di attività operosa Montecassino,


fino a che nel 577 i Longobardi non vi portarono la devastazione riducendo il
monastero a un informe cumulo di rovine.

Sulla tomba sempre venerata del Santo, tra il 717 e

248

il 720 Petronace riedificava i chiostri distrutti, e la vita monastica tornò a


riordinarsi tranquilla.
Ma nell'883 i Saraceni, invasa l'Abbazia, la saccheggiarono e demolirono in
gran parte, dopo averne trucidato i monaci con a capo l'abate san Bertario.

Per un secolo e mezzo circa fu ancora la desolazione e lo squallore intorno al


sepolcro di san Benedetto.

Da questa disastrosa situazione doveva però sorgere, sotto il governo


dell'abate Aligerno, intorno alla metà del secolo X, una nuova rigogliosa
primavera di vita durante la quale Montecassino avrebbe raggiunto l'apogeo
della sua grandezza.

Una terza volta il monastero, che appariva ai contemporanei «il più bello della
cristianità», sembrò votato alla distruzione, e tornò a divenire un ammasso di
macerie.

Questa volta, però, non fu per mano di uomini, ma per lo spaventoso


terremoto del 9 settembre 1349; in complesso la ricostruzione degli edifici
monastici fu rapida, e poté condursi a termine in pochi decenni, soprattutto
per l'interesse personale ed efficacissimo del pontefice Urbano V.

L'alba del secolo XVI portò nuove devastazioni a causa della guerra tra
spagnuoli e francesi che appunto si decise alla fine del 1503 nella battaglia del
Garigliano, e «per la veneranda casa di san Benedetto i danni della guerra,
combattuta nei suoi chiostri e conchiusasi alle sue porte, sarebbero rimasti
forse inguaribili, se la Provvidenza non fosse di nuovo intervenuta pronta al
suo soccorso in una maniera fuor dell'usato, ma più consona ai tempi e tale da
segnare una svolta nella sua ormai millenaria storia ». 1

Giorni tristi si conobbero ancora sotto il dominio francese, e poi durante tutto
il secolo XIX per le vicende politiche d'Italia, ma dopo ogni raffica la vita
tornava a scaturire più rigogliosa, fino a che, mentre

___________________________

1 LECCISOTTI T., Montecassino, p. 68, Vallecchi, Firenze.

249

la badia era in pieno fervore di opere sante non si abbatté su di essa, a


stendervi «la desolazione estrema» l'ultima bufera che il 15 febbraio 1944 «ha
distrutto e annientato quella celebre sede di studi e di pietà che quasi luce
vincitrice delle tenebre, era emersa dalle onde dei secoli» 2 per la quarta volta
nel corso di quattordici secoli.

«Al presente, ove prima risplendevano artistici monumenti, vi sono mura


pericolanti, macerie e rovine, che i rovi miseramente ricoprono.» 3 È rimasta
illesa solo la tomba del santo Patriarca, ma oggi intorno ad essa la vita
inestinguibile di Montecassino è tornata ad affermarsi vigorosa; sfuggendo
alla violenza degli uomini, perché è spirito e attinge in Dio la sua perennità.

Non erano trascorsi ancora cinquant'anni dalla morte di san Benedetto,


quando un monaco, che fu insieme uno dei Papi più grandi della Chiesa, san
Gregorio Magno, ammiratore e fervido restauratore della vita monastica,
abbracciando col suo sguardo illuminato tutto il valore dell'opera compiuta
dal santo di Norcia, dopo aver contribuito, scrivendone la vita nel libro II dei
Dialoghi a divulgarne la memoria, dette il più forte impulso alla diffusione
della Regola che divenne così ben presto l'unica norma di vita nei monasteri
già esistenti e nei nuovi che si venivano formando.

Qualunque sia il valore che noi vogliamo dare alla tradizione la quale lega alla
memoria di san Mauro l'introduzione della Regola benedettina in Francia,
non si può però dubitare che essa vi si stabilisse molto presto, benché
dapprima in genere insieme a quella di san Colombano, che finì poi
rapidamente col soppiantare del tutto, così che nel 630 lo stesso monastero di
Lureuil, considerato come la roccaforte del monachismo celtico, adottava in
pieno la Regola di san Benedetto.

Già nel 596, san Gregorio Magno aveva affidato a una

______________________

2 Encicl. «Fulgens radiatur».

3 Idem.

250

colonia monastica, guidata dal monaco Agostino, l'ardua impresa di


evangelizzare l'Inghilterra ancora pagana, spingendo così i figli di san
Benedetto fino alle regioni più settentrionali dell'Europa.

La seconda metà del secolo VII vede i monaci benedettini nel Belgio, mentre
altri confratelli più arditi, dalle coste dell'Anglia sbarcano nella Frisia per
muovere di lì alla conversione del mondo germanico; impresa audace dagli
ampi sviluppi, che culminerà nel 754, quando ormai il cristianesimo avrà
messo salde radici nella Germania, col martirio di san Bonifacio, massacrato
con i suoi compagni mentre si accingeva a conquistare alla fede la Frisia del
Nord.

Nello stesso tempo che Bonifacio lavorava alla fondazione e al


consolidamento della Chiesa nella Germania centrale, nelle regioni
meridionali san Pirmino, fondata nel 724 l'Abbazia di Reichenau, compiva
uno sforzo analogo, riuscendo a far penetrare la Regola benedettina, e con
essa la vita cristiana, nella Svizzera, dove fondò il monastero di Pfafers.

Sul principio del secolo IX moriva san Ludgero, l'apostolo della Westphalia, e
contemporaneamente penetrava nella Catalogna la Regola di san Benedetto,
forse già da prima stabilita nelle altre parti della Spagna. Fu questa stessa
prima metà del IX secolo che vide gli sforzi di sant' Anscario per la
conversione della Scandinavia e della Danimarca, operata tra difficoltà d'ogni
genere e sigillata col martirio del Santo.

Anche in Polonia i figli di san Benedetto introdussero con la vita monastica il


cristianesimo, nella seconda metà del X secolo, mentre un altro monaco,
sant'Adalberto, portando il Vangelo agli Slavi, ne ricevette il martirio.

Contemporaneamente dal monastero di Einsiedeln, in Svizzera, ricevevano le


prime nozioni del cristianesimo gli Ungheresi, dei quali con molta verità si è
potuto dire che sono stati generati spiritualmente e intellettualmente
dall'ordine benedettino.

251

Prima che tramontasse il secolo X fu fondato in Boemia il primo monastero


benedetttino a Brewnov, e finalmente, col XII secolo, i monaci penetravano
nell'Albania, portandovi, come nel secolo precedente avevano fatto nella
Dalmazia, la cultura e le tradizioni latine.

«Come nelle epoche precedenti, lungo le vie consolari, avanzavano le legioni


romane, nello sforzo di soggiogare al dominio dell'Alma Città tutte le genti,
così ora coorti innumerevoli di monaci che non hanno "armi terrene, ma la
potenza che viene da Dio" 1 vengono mandate dal Sommo Pontefice a
propagare gloriosamente fino agli estremi confini del mondo il regno pacifico
di Gesù Cristo, non con la spada, la violenza, o le stragi, ma con la croce e
l'aratro, con la verità e la carità. Ed ecco che dovunque si stabilivano tali
inermi coorti, formate da predicatori della religione cristiana, da operai, da,
agricoltori, da maestri delle scienze divine e umane, ivi venivano solcate con
l'aratro le terre inselvatichite e incolte; sorgevano le abitazioni degli operai e
degli artisti, e da una vita selvaggia e rozza gli uomini venivano formati al
civile consorzio, e ad abitudini più progredite, mentre brillava davanti a loro
la luce della dottrina e della virtù evangelica.

«Apostoli innumerevoli, brucianti di divina carità, percorsero sconosciute e


turbolenti regioni d'Europa, le bagnarono col loro sudore generoso e col
sangue e dopo averne pacificato le popolazioni vi introdussero la luce della
santità e della verità. Perciò si può nettamente affermare che quantunque
Roma, già dilatatasi per le molte vittorie, abbia esteso il suo dominio per terra
e per mare, pur tuttavia" fu meno ciò che a lei sottomise il travaglio delle
guerre di quel che non le soggiogò la pace cristiana".2 In maniera che non solo
la Britannia, la Gallia, la Batavia, la Frisia, la Danimarca, la Germania, la
Pannonia e la Scandinavia, ma anche non

________________________

1 Cfr. 2 Cor., 10, 4.

2 S. LEONE MAGNO, Serm. I in natali App. Petri et Pauli.

252

poche nazioni slave si fanno vanto dell'apostolato di questi monaci e li


stimano gloria propria e illustri padri della loro civiltà».3

L'età di mezzo conobbe la massima diffusione del monachesimo benedettino.


Orderico Vitale, nella prima metà del secolo XII assegnava alla sola
osservanza di Cluny duemila monasteri, la massima parte in Francia, e a
migliaia si contavano negli altri paesi d'Europa quelli di diversa osservanza,
così che una fitta rete di abbazie, di priorati, di semplici «celle» mantenevano
la società sotto l'influsso santificante della Regola di san Benedetto attraverso
quei centri irradiatori che stendevano le loro propaggini in tutte le categorie
sociali permeandone e spesso elevandone la vita a un piano superiore di valori
soprannaturali.

Avvenne anche, purtroppo, a varie riprese, che lo spirito e la mentalità del


mondo, fatta breccia nella clausura monastica, minacciasse di travolgere e
snaturare la sua vita profonda, ma a ogni periodo di decadenza seguirono
epoche di ripresa e maggior splendore di santità.

La Riforma protestante dapprima, i moti rivoluzionari dei secoli XVIII e XIX


poi, sembrarono colpire mortalmente l'ordine monastico. In realtà, lo stesso
secolo XIX assistette al suo rifiorire accompagnato dal diffondersi della
Regola benedettina nel mondo intero, fino nella lontana Australia.

Per spiegare l'influsso sociale del monachesimo benedettino, bisogna


anzitutto rendersi conto dell'attività economica necessariamente connessa fin
dalle origini con ogni monastero, nucleo centrale e stabile intorno al quale si
sviluppava la proprietà fondiaria sotto le diverse forme comuni agli usi del
tempo, e in processo continuo di arricchimento per via di acquisto o, più
comunemente, di donazione.

______________________________

3 Encicl. «Fulgens radiatur».

253

La coltivazione di questi domini, spesso assai vasti non poteva essere


compiuta in maniera diretta dai monaci che dovettero ricercare il concorso
della mano d'opera estranea, sotto forma di braccianti, di servi, o di coloni. Le
opere da compiere erano gigantesche: dissodamento delle foreste, bonifica dei
terreni insalubri, coltivazione razionale dei campi, vasti allevamenti di
bestiame. Tutto questo importava un'attrezzatura complessa, direzione
intelligente e mezzi proporzionati alle esigenze di un lavoro da eseguirsi su
larga scala.

In epoche di totale disorganizzazione, l'Abbazia era n centro che solo aveva la


possibilità di questo impianto, e per naturale conseguenza i monaci si
trovarono nella necessità di divenire gli educatori economici del popolo: «i
loro domini sono esemplari compiuti di buono sfruttamento agricolo e di
saggia amministrazione, e se numerosi abati hanno lasciato fama di santità,
più di uno ha insieme meritato fama di abile agronomo».1

Conseguenza dell'operosità monastica e del complesso di interessi che ad essa


vennero ben presto a intrecciarsi, con l'urgente necessità di sbocco per la
produzione eccedente i bisogni di consumo del monastero e delle sue
dipendenze, e di scambi con altri generi, fu l'organizzazione del commercio,
dapprima in forma rudimentale, poi con un raggio sempre maggiore così da
imporre il problema di provvedere adeguate possibilità di trasporto delle
merci, per via di terra, di mare, o fluviale.

Cominciarono a fiorire anche le industrie, nelle officine monastiche dove


numerosi operai venivano addestrati ai vari lavori richiesti dai bisogni della
comunità intorno alla quale si stringevano le famiglie di tutti questi
dipendenti, spesso così numerose da formare dei veri villaggi, dai quali non di
rado ebbero origine le stesse città.

Le rendite, che potevano così divenire considerevoli, oltre al mantenimento


del monastero stesso, venivano

____________________________

1 PIRENNE H., Histoire de Belgique, t. I, p. 146.

254

impiegate o nell'incremento del patrimonio monastico, o, in ben più larga


misura, in opere di beneficenza di incalcolabile valore in quei tempi e nelle
condizioni di vita che vi erano legate.

Opere di pubblica utilità, strade, ponti, canali, andarono moltiplicandosi nelle


terre dipendenti dalle abbazie, mentre concedendo dei crediti senza interesse,
col semplice deposito di un pegno, si preludeva alla geniale istituzione dei
«monti di pietà», e ospedali, ospizi, larghe elemosine ai bisognosi, venivano
incontro, nei modi più opportuni e multiformi a tutte le miserie alle quali
nessun altro avrebbe pensato a prestar soccorso. Per secoli interi la
beneficenza, sotto tutte le sue forme, può dirsi gloria benedettina.

Non doveva però limitarsi a questo l'influsso sociale dei monaci, ché esso ebbe
risonanze non meno profonde anche nel campo intellettuale, e si poté senza
esagerare attribuire ad essi la salvezza del patrimonio culturale del mondo
antico, tra le distruzioni operate dalle invasioni barbariche.

Fin dalle origini i monasteri ebbero le loro scuole, indispensabili alla


formazione dei piccoli oblati che si venivano educando alla vita monastica la
quale esige una non indifferente preparazione anche intellettuale; a queste
scuole interne, in un intento di carità della quale forse oggi non è facile
misurare la portata, non tardarono ad aggiungersi anche le scuole esterne che
raggiunsero in alcuni luoghi grande celebrità e dalle quali uscirono gli uomini
più grandi del loro secolo, determinando così un irraggiamento luminoso di
dottrina che doveva gettare fasci di luce in mezzo all'oscurità della barbarie.

Accanto alla scuola, e strettamente connesso con essa, ogni monastero ebbe lo
«scriptorium» ossia un laboratorio di copiatura e trascrizione dei codici;
organo silenzioso nel quale il lavoro paziente degli amanuensi moltiplicava i
libri, facilitandone la conoscenza e lo studio,

255

e con esso l'amore della cultura classica e delle grandi opere religiose
dell'antichità.

Questi codici, spesso artisticamente miniati, erano ricercati con avidità e


gelosamente custoditi nelle biblioteche, di importanza maggiore o minore a
seconda delle diverse esigenze dei monasteri, ma sempre considerate come
uno dei più preziosi tesori della comunità. San Benedetto Biscopo morente
imita sant'Agostino vescovo di Ippona, e lascia come testamento ai suoi
monaci due raccomandazioni solenni: la regolarità della vita e l'amore della
biblioteca. Essi pensavano come san Girolamo:

«Se tu preghi parli allo Sposo, ma quando leggi è Lui che parla a te.»

I libri erano la loro luce, la loro forza. Molte biblioteche si sono compiaciute di
scrivere sulla porta d'ingresso: «Claustrum sine armario quasi castrum sin e
armamentario» espressione tradotta in un proverbio medievale francese:
«Monastero senza libri, fortezza senz'armi». 1

Difficile sempre, l'organizzazione di queste biblioteche monastiche, per la


grande difficoltà inerente all'acquisto di un nuovo codice, e, per la loro stessa
natura, fornite in prevalenza di opere di contenuto religioso, pure lasciano
larga parte agli autori profani, soprattutto ai classici pagani ritenuti necessari
per la formazione letteraria dei giovani.

Questi testi, ricopiati con cura e amorosamente studiati nei monasteri hanno
permesso che si salvasse quanto a noi è giunto degli autori latini e greci.

Largo sviluppo ebbe sempre il genere storico, a partire dagli Annali che ci
hanno tramandato una miniera di preziose informazioni, per estendersi ad
altri scritti occasionali come gli obituari e le cronache, e giungere fino alle
opere poderose compiute dai maurini in Francia con vero senso critico.
____________________________

1 SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 71. Ediz. Maredsous,
1942.

256

Molto curata fu pure l'agiografia. Vite di santi raccolte con amore devoto,
resoconti di miracoli o di traslazioni, martirologi, mettono a nostra
disposizione un materiale di valore eccezionale che può molto spesso essere
integrato con i dati ricavati dagli archivi, dai «cartolari», dagli epistolari difesi
dalla distruzione come beni preziosi di famiglia.

Non sarebbe giusto però limitare al campo storico letterario l'attività


intellettuale dei monasteri benedettini, senza tener conto del reale contributo
da essi portato nello studio delle matematiche, e, più che altro, in quello della
medicina e delle scienze ad essa connesse: farmacia e botanica.

«Molte ragioni vi spingevano i monaci. San Benedetto nella sua Regola insiste
con energia sulle cure da prestare ai fratelli ammalati. L'ospitalità che si
doveva esercitare verso i viaggiatori, i pellegrini, i poveri, importava di
necessità il dovere di soccorrerli nelle loro malattie o miserie corporali. La
maggior parte delle abbazie manteneva degli ospedali. Tutto questo
supponeva infermieri esperti della medicina pratica, infermerie ben corredate
e provviste di rimedi. I benedettini non son venuti meno a quest'opera
eminente di carità e di misericordia corporale verso i loro fratelli e verso le
persone del mondo» 1.

Non tardano a sorgere scuole fiorenti di medicina e si scrivono dei trattati


che, se rispecchiano in gran parte la dottrina tradizionale greco-latina, già
accolgono nuove intuizioni e rivelano indagini accurate e un'esperienza
medica che si va facendo sempre più larga e profonda.

«L'esercizio della medicina, la copiatura dei manoscritti su questo argomento,


la coltivazione dei semplici; tutto ciò ha creato nei monasteri una tradizione
farmaceutica fondata sull'esperienza. Questa medicina monastica tanto
norente nno al XII secolo ha come merito principale di aver conservato la
tradizione negli studi

____________________________
1 SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pa. 193. Ediz.
Maredsous, 1942.

257

di medicina, d'avere, nei piccoli ospedali annessi ai monasteri, nei giardini dei
chiostri, nello studio tranquillo dei manoscritti, raccolto il tesoro dell'antica
sapienza, e di aver curato umilmente e caritatevolmente, con un amore
insieme fervente e devoto, il Cristo nei poveri, nei malati, negli infermi.» 1

Una operosità così varia e intensa non distolse i monaci dal culto della
bellezza, concepita nelle sue varie manifestazioni come uno dei mezzi più atti
alla glorificazione di Dio.

«Proprio nel cuore dell'alto Medio Evo, mentre sembrava che la barbarie
dovesse sommergere l'umanità, i monaci benedettini hanno prodotto opere
artistiche. Essi avevano capito che l'arte ha la sua missione e che, secondo
l'espressione dantesca "a Dio quasi è nepote". 2 Essa è certo il fiore della
civiltà, e si dimostra inseparabile dalla religione alla quale offre una
espressione figurata e insieme i luoghi di raccolta: a questo doppio titolo essa
si imponeva ai monasteri.» 3

Sorsero così le grandi abbazie con le chiese monumentali dell'epoca


merovingia e carolingia che sono ancora la più eloquente testimonianza della
fede e dell'amore di intere generazioni monastiche.

Mentre si compiono queste opere grandiose passano gli individui, artefici


ignorati di autentici capolavori, e altri vengono a occupare il loro posto, in una
continuità d'intenti e di volontà così salda da nasconderci perfino la saldatura
di questi anelli umani che si susseguono e cantano con la rude fatica delle loro
mani un canto destinato a rimanere nei secoli.

Architettura, scultura, pittura, arti sorelle, si intrecciano, assumono sempre


nuovi sviluppi, ricoprono l'Europa di edifici monumentali che portano certo
l'impronta delle diverse scuole, dei tempi, degli ambienti nei quali sorgono,
ma che tutti traducono un comune istinto della

_____________________________

1 SCHMITZ, Histoire de l'Ordre de Saint Benoit, t. II, pag. 71.

2 Ibidem, pag. 199.


3 Inf. , XI, 105.

258

vocazione benedettina che non riesce mai a trovare niente sufficientemente


bello di ciò che è destinato al culto divino.

Si coltivano insieme le arti cosiddette minori: miniatura, cesello, oreficeria,


perché gli evangeliari e i grandi libri corali possano meno indegnamente
incorniciare le divine parole, intrecciate a vilucchi d'oro dai quali sorridono,
in una luminosità di colori che i secoli non sono stati capaci di smorzare,
figurette e scene sacre di in superata bellezza.

Ogni oggetto destinato al culto, dai vasi sacri dell'altare ai grandi reliquiari
destinati a racchiudere i corpi dei santi, era curato con impegno così
minuzioso di bellezza che a noi appare quasi un prodigio.

Assistiamo in conseguenza, presso i monasteri, alla formazione dei laboratori


d'arte che dovevano poi acquistare tanta celebrità e dove l'oro, l'argento,
l'avorio, venivano lavorati con inarrivabile perizia, se non sempre dagli stessi
monaci, per lo meno da artefici che nel loro lavoro erano dai monaci
addestrati e diretti.

Celebri in Italia, le oreficerie di Montecassino e di Nonantola.

Una parola ancora va detta del contributo non indifferente che i monaci
portarono allo studio e alla cultura della musica, strettamente connessa con
l'ufficiatura divina, e quindi considerata tra le arti necessarie a insegnarsi ai
giovani destinati alla vita monastica.

Non va dimenticata che, con l'evangelizzazione compiuta dai monaci, essi


facevano penetrare nei diversi paesi d'Europa l'uso e l'amore del canto
romano, inseparabile dalle solenni liturgie il cui gusto era assimilato col
cristianesimo dalle popolazioni convertite.

Non fa meraviglia che questa stima religiosa del canto portasse alla
formazione di vere scuole musicali monastiche, alcune delle quali raggiunsero
una autentica celebrità. Tra i vari cultori di scienze musicali merita un
particolare ricordo il monaco Guido d'Arezzo, al quale

259
si deve l'invenzione del rigo musicale che doveva poi tanto facilitare lo studio
della musica.

A ragione Ugo Riemann poteva affermare che «quasi tutti gli uomini dei quali
la storia musicale del Medio Evo ha conservato il nome, fecero parte
dell'Ordine di San Benedetto ... La storia e la teoria della musica devono in
gran parte le loro scoperte e lo sviluppo che ebbero durante il Medio Evo
all'Ordine dei Benedettini». 1

Per quanto multiforme e profondo sia stato l'influsso del monachesimo


benedettino sulla vita sociale attraverso i secoli, e benché benefici immensi ne
siano venuti al mondo, rimane però pur sempre vero che la Regola in sé fu
concepita e stesa da san Benedetto non in vista di una restaurazione
economica, intellettuale e artistica, ma unicamente per formare delle anime
dedicate, in maniera esclusiva, alla ricerca e al servizio di Dio.

A questo suo fine primo ed essenziale essa si è rivelata meravigliosamente


efficace. Sarebbe fatica vana voler registrare il numero sterminato dei santi
che attraverso i secoli hanno attinto alla Regola benedettina l'indirizzo, e,
meglio, l'alimento solido atto a sostenerli nelle loro ascensioni verso Dio.

Se ne contano a migliaia di quelli il cui nome è giunto fino a noi, ma chi,


attraverso tante vicende di tempi e di sconvolgimenti sociali potrà contare gli
altri innumerevoli che hanno vissuto nella pace dei chiostri, percorrendo le
vie dure dell'obbedienza, dell'umiltà, della perfetta rinunzia, con l'anima
ardente per l'insaziabile sete di quel Dio che ora è loro magnifica ricompensa
nella gloria del cielo?

Ogni secolo, ogni paese, quasi ogni abbazia commemora i suoi santi. Diversi
tra di loro per temperamento, hanno tuttavia una comune fisonomia, quel
carattere che li fa riconoscere figli di uno stesso Padre, di una voca-

________________________________

1 RIEMANN H., Dict. De musique, pag. 116-117

260

zione che rimane in tutti identica nei suoi lineamenti essenziali. Apostoli
infaticabili nell'evangelizzazione dei fratelli pagani, come san Bonifacio,
sant'Ascario, sant'Adalberto, studiosi e Vescovi della statura morale di
sant'Anselmo, uomini esperti nell'arte difficile di consigliare i potenti, come
sant'Ugo di Cluny, eremiti affamati solo di solitudine e di nascondimento,
sono tutti, nella parte più intima della loro anima, semplicemente «cercatori
di Dio».

E si somigliano anche: san Beda che chiude la vita concludendo il suo


commento a san Giovanni, e finisce in cielo l'ultima dossologia che canta
gloria al Padre, al Figlio, allo Spirito Santo, non è troppo lontano da quella
santa Lioba, figlia spirituale di san Bonifacio, che, pur collaborando con lui
alla cristianizzazione della Germania col dedicarsi alla educazione delle donne
di quel popolo, nutriva un così ardente amore per le Sacre Scritture, da
meditarle in ogni momento di libertà.

E santa Ildegarde, che amava definir si «paupercula feminea forma» (una


povera donna), nel suo zelo della gloria di Dio, non è di una stirpe spirituale
diversa dal suo grande contemporaneo san Bernardo.

Le grandi mistiche di Helfta, Gertrude e Metilde, non sono delle solitarie nei
campi della santità benedettina dove alle monache, in genere meno implicate
nelle vicende esteriori, è riservato in larga parte, se non in maniera esclusiva,
il privilegio di una vita d'unione con Dio illuminata da doni di ordine mistico
che sembrano avvicinare la terra al cielo; e questo non solo nei secoli remoti
dell'Alto Medio Evo, ma più vicino a noi, fino ai nostri giorni, con una
stupenda continuità di grazie, in risposta al dono continuamente rinnovato di
anime generose che hanno consentito a «vendere ogni cosa propria per fare
acquisto della gemma preziosa» della divina unione.

Oggi ancora la vita benedettina ha una sua parola profonda da dire alle
anime. Diversa nei suoi aspetti

261

esteriori, offre nell'America le sue grandi abbazie operose di una multiforme e


intensa attività; porta come nei secoli remoti la luce del Vangelo e i benefici
della civiltà nell'Australia e nell'Africa, dove intorno ai monasteri si sono
formate missioni fiorentissime; in Europa, a Solesmes, il canto gregoriano è
scientificamente studiato in una scuola di risonanza mondiale; a Einsiedeln, i
monaci curano magnifiche opere di carattere religioso e sociale; in Italia, nel
Belgio, in Inghilterra, in Germania, in Austria, in Spagna, le grandi abbazie
svolgono una operosità intensa nel campo liturgico, scientifico, educativo, per
non dire del lavoro che si compie nel campo specificamente religioso con
quelle forme di ministero che sono più confacenti alla vita monastica. Ed è dei
nostri giorni una promettente fioritura di santità che attesta la fecondità
inesausta della Regola santa che da quattordici secoli continua a indicare alle
anime che sentono più viva l'urgenza del soprannaturale, la via faticosa per la
quale «tornare a Colui dal quale per la pigrizia della disobbedienza ci eravamo
allontanati». 1

_______________________________

1 Regola, prologo.

***

Fonti

Gregorii Magni Dialoghi libri IV, a cura di Umberto Moricca Istituto Storico
Italiano. Roma, 1924.

Sancti Benedicti Regula Monasteriorum. Ed. critico-practicam ad. D.


Cuthbertus Butler. Herder, Friburgi, 1927.

Versi del monaco Marco Poeta in onore di Benedetto. Biblioteca Corsini,


Codice 257.

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