Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
La Parola si moltiplicava
Emozioni e sentimenti di Gesù
Giuseppe Barbaglio
EMOZIONI
E SENTIMENTI
DI GESÙ
Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze
ISBN 978-88-10-22137-2
cace non era rivolta al morto, ma causata dal dolore della madre. Non
sopportò che ella fosse stata privata del figlio unico(Lc 7,11-17).
Ma altre annotazioni <<emotive» sul protagonista della storia
evangelica sono non poco sorprendenti. Anzitutto lo stupore e la
meraviglia che lo sorprendono per qualcosa di inatteso, di inaspetta
to, quasi di inconcepibile. Così Gesù, annotano Mt 8,10 e Le 7,9, si
stupì (ethaumasen) della fede incredibile del centurione di Cafarnao,
venuto a chiedergli la guarigione del carissimo servo di casa. Cristo
ha incontrato troppo spesso incredulità e addirittura ostilità dai suoi;
basti pensare all'incontro negativo con i concittadini di Nazaret, di
cui si dirà subito dopo. Ed ecco ora uno straniero, uno degli odiati e
disprezzati goilm, esprime incondizionata fiducia in lui taumaturgo
chiedendogli di dire una sola parola di guarigione, certo che essa
sarà efficace. Una sorpresa enorme, una lieta sorpresa, che spinge
Gesù a fare ciò che gli è chiesto. Anche in Mc troviamo l'anno
tazione di tale emozione, ma in negativo: Gesù viene nel suo villag
gio, a Nazaret, incontra i suoi concittadini, parla loro, ma un muro di
diffidenza e di rifiuto si alza contro di lui. «E si stupì della loro incre
dulità» (Mc 6,6). Gesù è tutt'altro che corazzato contro le emozioni.
Non è un dominatore degli eventi e di ciò che lo circonda: gli capita
no reazioni che vanno al di là delle sue previsioni e lo obbligano ad
affrontare l'imprevisto.
Il sentimento della gioia è all'origine del canto di lode e di bene
dizione che Gesù innalza al Padre in Le 10,21, un motivo che manca
nella versione di Mt. Egli si era trovato davanti a una situazione
quanto mai strana: le guide religiose e gli osservanti scrupolosi della
legge mosaica lo avevano rifiutato, d'altro lato i marginali e addirit
tura i peccatori pubblici avevano accolto il messaggio di salvezza
facendo affidamento su di lui. Inaspettato l'uno e l'altro. La reazio
ne di Gesù non è stata di scoramento, dice Luca, ma di gioia, esultan
za. Il verbo greco agallùiomai qui usato ha risonanze messianiche:
esprime la gioia dei tempi del messia e della salvezza offerta gratui
tamente da Dio. Una gioia che si esprime in un inno di lode al Padre
celeste che Gesù ha percepito all'origine di tutto questo: si è disve
lato ai disprezzati come Dio di grazia e creando in loro una reazio
ne di fede. Nel suo intento teologico l'evangelico precisa che si è
trattato di un'emozione suscitata in Gesù dallo Spirito Santo, un'in-
12 , Capitolo l
vista non suscita alcuna emozione: passano oltre. Non ne sono tocca
ti minimamente nel loro animo. Invece il samaritano a quella vista
ne ebbe compassione (esplagchnlsthe). Un sentimento suscitatore di
azione di soccorso: gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sulla
sua cavalcatura, lo portò all'ostello vicino e si prese cura di lui. L'op
posizione tra fare e non fare ha le sue radici nel provare pietà e nel
non provarne. nel lasciarsi colpire dalla miseria altrui e nell'essere,
invece, inattaccabili sul versante emozionale. La conclusione del rac
conto ritorna sul punto focale: Gesù esorta a imitare chi effettiva
mente si è dimostrato prossimo alla vittima, cioè chi ha fatto il gesto
di pietà (ho poiesas to éleos). Si noti l'accentuazione del «fare», che
però dipende dal sentimento di pietà provato.
2.
LA MITEZZA DI GESÙ*
• In Servitium 21(1987)50,145-156.
20 Capitolo 2
che gli sta di fronte, privo di qualsiasi violenza, non aggressivo, del
tutto dolce e affabile, puro da ogni alterigia. Il secondo aggettivo
invece, «umile di cuore>>, esprime l'interiore (= di cuore) atteggia
mento di umiltà di fronte a Dio, di sottomissione a lui. È l'opposto
del titanismo, del complesso di onnipotenza, del rifiuto della propria
creaturalità alla ricerca di un'illusoria assoluta autosufficienza. Si
tratta propriamente del tema biblico della povertà spirituale, cioè
del farsi interiormente curvi davanti a Dio.
Questa l'esigenza (=il giogo) di cui devono farsi carico i suoi
discepoli: incarnare nella propria vita la mitezza e l'umiltà religiosa
del maestro. E ciò, secondo la sua promessa, sarà fonte di pace per la
propria vita. Nessuna spaccatura di dentro, ma profonda e vasta
serenità dello spirito. In una parola, al discepolo fedele di Cristo sarà
donato di essere in pace con se stesso. Perché si tratta di un giogo, sì,
ma dolce da portare, di un fardello, sì, ma leggero da trasportare. Chi
infatti aderisce a lui e decide di mettersi alla sua scuola o alla sua
sequela, non potrà sentire oppressiva l'esigenza di verificare nella
propria esistenza la sua mitezza verso il prossimo e la sua umiltà nei
confronti di Dio.
Con accenti simili si era espressa la Sapienza, identificata con la
Legge, in Sir 51,23ss: <<Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione,
prendete dimora nella mia scuola». Vi risponde il discepolo: «Sotto
ponete il collo al suo giogo, accogliete l 'istruzione [ . . . ] e vi trovai per
me una grande pace». Ma il confronto evidenzia l'originalità del
detto di Gesù che invita alla sua sequela. Dunque il discepolato, con
un processo di scolastico ammaestramento, costituisce il punto cen
trale di Mt 11,28-30.
nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!>> (21,9). A noi però
interessano soprattutto i versetti 4-5: «Ora questo avvenne perché si
adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: "Dite alla figlia
di Sion: - Ecco il tuo re viene a te - mite, seduto su un'asina, - con
un puledro figlio di bestia da soma">>. Matteo cita qui Zc 9,9, un pas
so da analizzare se vogliamo comprendere in che senso Gesù viene
presentato dall'evangelista come messia mite. Il profeta in visione
vede entrare in Sion il messia atteso non cavalcando un focoso
destriero, alla testa di un potente e vittorioso esercito, ma in groppa
a un'asina, peraltro cavalcatura tipicamente regale nella tradizione
biblica. Inoltre Zaccaria nel versetto seguente continua così: «Farà
sparire i carri [da guerra] da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'ar
co di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti>> (9,10).
Dunque un re per nulla bellicoso, anzi operatore di un completo
disarmo e creatore di una pace ecumenica, per tutti i popoli.
Gesù dunque è messia mite in quanto disarmato e fautore di
una pace universale. E qui l'evangelista intende opporsi con energia
a ogni concezione messianica trionfalistica e bellicistica, che nel giu
daismo del tempo trovava chiari accenti per esempio nel libro apo
crifo Salmi di Salomone, ma anche e soprattutto nello zelotismo
sceso armi in pugno contro l'oppressore romano. Matteo vuole affer
mare che Gesù di Nazaret, finito miseramente in croce e dunque per
nulla trionfante e potente vincitore dei nemici, ciononostante è vero
e autentico messia, anzi proprio per questo è il messia profetizzato
dall'Antico Testamento, in particolare da Zaccaria.
Una puntualizzazione quella matteana non priva di valenze
ecclesiali: la speranza dei credenti non consiste in sogni di onnipo
tenza e di trionfante marcia nella storia, ma nella sofferta costanza
di chi cammina sulla via crucis, dietro al maestro; naturalmente
senza dimenticare che al traguardo finale ci sarà la risurrezione.
loro più avanti, alla sua comunità invece si rivolge facendosi forte
della mitezza del Signore Gesù: <<Ora io stesso, Paolo, vi esorto per
la dolcezza e la mansuetudine (= praytetos kai epieikeiils) di Cristo,
io davanti a voi cosi meschino (tapeinos), ma di lontano così animo
so con voi>> (2Cor 10,1 ) .
Gli si addebitava a Corinto un'umiliante debolezza, che strana
mente - secondo l'accusa - si tramutava in forza quando egli stava
lontano e scriveva alla sua comunità, mentre da vicino appariva un
debole; debolezza inconcepibile in un autentico apostolo di Cristo.
Paolo risponde che in lui è presente e operante la mitezza e dolcez
za di Cristo e il suo scritto alla Chiesa di Corinto ne è chiara espres
sione. In breve, un apostolo a immagine di Cristo.
malvagio rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore). Richiaman
doci anche ad altre espressioni analoghe di Matteo potremo dire che il
senso del nostro passo è questo: i violenti con il loro harpazein preclu
dono la basi/eia (il regno) agli uomini e impediscono loro di entrarvi
(Mt 23,13). La situazione storica succeduta al Battista è quindi caratte
rizzata da una violenta opposizione al regno, che fa poi tutt'uno con
l'ostilità alla persona e all'opera di Gesù.1
Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra
i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti>> (Mt 5,45).
Anche se non in forma esplicita, abbiamo, qui, la motivazione
del comandamento: Dio non fa discriminazione nella sua benefica
benevolenza; allo stesso modo devono comportarsi gli uomini, se
vogliono essere figli suoi. Come si vede, la figliolanza divina viene
fondata su base etica: dipende da una responsabile prassi umana in
sintonia con quella esemplare di Dio.
A differenza di Luca, in cui Dio è chiamato <<l'Altissimo>> (6,35),
Matteo parla espressamente del <<Padre vostro celeste>>. Si può
anche supporre che tale specificazione sia da attribuire al primo
evangelista, ma indubbiamente Gesù di Nazaret ha qui fatto uso del
simbolo religioso paterno. Ne fanno fede concordemente i due evan
gelisti; appena dopo, Luca testimonia il seguente detto di Cristo:
«Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro>> (6,36),
e il passo parallelo di Matteo dice: <<Siate voi dunque perfetti come
è perfetto il Padre vostro celeste>> (5,48). Si tratti dell'amore miseri
cordioso o della perfezione (= integrità di azione), resta identico il
motivo della imitazione del Padre.
Non c'è dubbio: l'immagine patema di Dio ha giocato in Gesù
come motivo e fondamento di una precisa determinazione dei rap
porti interumani, improntandoli al codice etico dell'amore indiscri
minato. L'amicizia, quindi, non è per Cristo la sola attuazione possi
bile dell'amore. Non basta amare quelli che ci amano (cf. Mt 5,46; Le
6,32). In altre parole: il nemico non deve essere trattato da nemico,
rispondendo con inimicizia all'inimicizia, ma come un amico, spez
zando così la catena perversa di reazioni negative.
Si noti bene: la prospettiva è quella dei rapporti interpersona
li; allargarla al campo sociale e politico sembra un procedimento
arbitrario. Inoltre, l'amore non appare qui inteso in senso affettivo
o sentimentale; in realtà amare equivale a fare del bene al nemico;
l'amore denuncia nel comandamento una chiara valenza di prassi.
Si veda, in merito, il passo di Luca che specifica il motivo dell'amo
re: <<E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito
ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso>> (6,33). <<Amate inve
ce i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla>>
(6,35).
L'immagine paterna di Dio nel vissuto di Gesù 33
6. VALUTAZIONE CONCLUSIVA
Seconda strofa:
Ora invece in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diven
tati vicini per mezzo del sangue di Cristo (v. 13).
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto di ambedue una sola cosa
e che ha abbattuto il tramezzo del muro divisorio, che ha annullato
l'inimicizia nella sua carne, la legge fatta dei comandamenti in decreti,
per creare in lui dei due un solo uomo nuovo, facendo pace e per ricon
ciliare entrambi in un solo corpo con Dio mediante la croce, uccidendo
l'inimicizia (vv. 14-16).
E venuto ha proclamato pace a voi lontani e pace ai vicini, poiché
mediante lui abbiamo ambedue l'accesso al Padre in un solo Spirito
(vv. 17-18).
Terza strofa:
Perciò non siete più stranieri né forestieri, ma siete concittadini dei
santi e familiari di Dio (v. 19).
1 Qui come più avanti la traduzione è nostra, condotta sul testo greco originale.
48 Capitolo 5
afferma di aver pregato, ma invano, più volte per esserne guarito (cf.
2Cor 12,8-9). Soprattutto costituiva un serio handicap alla sua azione
apostolica. Trova così conferma l'ipotesi di una epilessia con i suoi alti
e bassi. Non doveva però essere una forma grave, capace d'intaccar
ne l'integrità psichica, visto ciò che Paolo ha scritto, testimonianza
inconfutabile della sua elevata capacità intellettuale. Più che altro,
andava a discapito dell'immagine pubblica della sua persona.
ta? Quale possibilità gli resta di non fmire l'esistenza così misera
mente? Soprattutto si affida alla memoria: rievoca la casa paterna;
quanti salariati del padre si guadagnano abbondantemente (perisse
uontai) da vivere, mentre lui qui muore di fame! La decisione è presa:
<<mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: padre, ho mancato [signi
ficato letterale di hamananeinJ verso il cielo e verso di te». Di solito
si ritiene che vi sia espressa la «conversione» del prodigo, soprattutto
in vista della valenza metaforica del racconto: la necessaria conver
sione dai peccati per rientrare nella casa del padre. Ma non è così,
come mostrano le parole che seguono: <<Non sono più degno di esse
re chiamato tuo figlio; fa' di me come ti comporti con uno dei tuoi
salariati>>. Il prodigo ha perso per sempre la speranza, o non l'ha mai
avuta, di rientrare da figlio nella casa paterna, di beneficiare di rap
porti di figliolanza e di fraternità. La sua soluzione è estranea all'am
bito delle relazioni personali con il padre e il fratello; è una pura solu
zione pratica, presa per stomaco vuoto, nella necessità di sopravvive
re. Non gli resta, come estremo anelito e ultima possibilità, che l'es
sere accettato da salariato, dunque da estraneo, lui che era un figlio e
un fratello: rapporti commerciali ed economici e basta.
La storia vera, in realtà, comincia propriamente ora. Ritorna
alla casa e il <<SUO>> padre (l'aggettivo possessivo non è pleonastico)
lo scorge già lontano: forse non per caso, lo aspettava. E a quella
vista il parabolista introduce l'annotazione di un forte sentimento:
«si commosse nelle sue viscere paterne>> (esplagnisthe), cioè nelle
profondità del suo animo. Ma non sta fermo: gli si muove incontro,
anzi gli corre incontro (dramon) e gli getta le braccia al collo e lo
bacia. Il prodigo non ha ancora detto nulla. La relazione con lui è
ricreata tutta dal padre; l'iniziativa è solo sua. E se il prodigo comin
cia a recitare le sue scuse, il padre non l'ascolta nemmeno; di fatto lo
interrompe e non gli lascia neppure il tempo di proporsi come sala
riato: questo sperato rapporto mercenario non esiste affatto agli
occhi del padre. È di nuovo suo figlio: gli stracci buttati via e rivesti
to di un abito adeguato non senza accessori importanti: l'anello al
dito, è fatto significativo: una nuova identità. Il tutto per gratuita e
incondizionata iniziativa del padre.
E bisogna festeggiare, dice il padre, e gli organizza una sontuo
sa festa. Un happy end commovente? Per nulla: se il padre ha
60 Capitolo 6
perduti i semi finiti sul sentiero, sul terreno roccioso, sul suolo spino
so, quelli seminati sul buon terreno gli hanno procurato una ricca
mietitura: il trenta, il sessanta, il cento per uno. Un'attesa positiva
che nasce da un lavoro generoso e che non desiste di fronte a «scac
chi» o fallimenti subiti lungo l'opera.
Sempre in fatto di lavori agricoli, il racconto parabolico di Mc
4,26-29 narra di nuovo di un seminatore che, dopo aver seminato a
dovere il campo, si ritira ad attendere la nascita degli steli, la forma
zione delle spighe e infine la maturazione per la mietitura. Non c'è
bisogno che egli si affanni; non è richiesto altro dalle sue mani. Quel
lo che doveva fare I"ha fatto. Gli resta solo da aspettare con fiducia
il risultato del suo lavoro. Dovrà entrare di nuovo in azione, ma solo
alla maturazione del grano per mieterlo e riporlo nel granaio. Mat
teo e Luca, che avevano sotto gli occhi il Vangelo di Marco, hanno
tralasciato la parabola, con probabilità intenzionalmente, non per
caso, sconcertati dalla sottolineatura, fatta dal racconto, che il seme
cresce da solo, come se la «morale della favola>> fosse un invito al
disimpegno e alla pigrizia. In realtà, il protagonista della parabola è
stato tutt'altro che con le mani in mano: al suo lavoro si deve la semi
na, e al suo lavoro si dovrà la mietitura. Tra le due opere c'è un'atte
sa calma, sicura, soprattutto certa dello sviluppo del processo di cre
scita da lui messo in atto.
Propria di Matteo è la parabola del seminatore presentata in
13,24ss. Di solito la si chiama <<parabola della zizzania>>, ma tale
denominazione non rende giustizia alla dinamica del racconto para
bolico: qui i protagonisti sono due, il padrone che dirige il lavoro di
semina del suo campo e gli operai a suo servizio nella coltivazione
della proprietà agricola. Sono due protagonisti contrapposti e la loro
antitesi emerge esattamente quando, dopo la semina, nel campo con
gli steli del grano crescono anche erbacce, la zizzania appunto. Gli
operai dapprima interrogano, sorpresi, il padrone sull'accaduto:
tutto chiaro, risponde; purtroppo alla sua semente di grano un suo
avversario vi ha seminato sopra semi di zizzania. Il contrasto si ha
quando gli operai si propongono al padrone pronti a estirpare, sedu
ta stante, la zizzania. Un proposito insano: la zizzania non si può
estirpare sola, perché avvinghiata al grano; strappando quella si fini
sce per strappare anche questo. Bisogna lasciare che la crescita con-
Figure evangeliche dell'attendere 67
della croce. Di fatto precisa: «Anch'io, fratelli, alla mia venuta da voi
non venni ad annunciare il mistero di Dio con sovrabbondanza di
parola o di sapienza. Non ritenni, in effetti, di sapere altro tra voi che
non fosse Gesù Cristo e questi crocefisso>> (2,1-2}. Il tutto fa parte
integrante dell'autentica dinamica del vangelo che non chiede il soc
corso di «parole di sapienza>> per persuadere gli ascoltatori, ma si
affida alla forza convincente dello Spirito (2,4}, perché la fede non
poggia su punti di forza umani, bensì sulla potenza di Dio (2,5}.
In breve la debolezza umana, e la paura e il timore come segno
di questa, è caratteristica del progetto salvifico di Dio incarnato in
Cristo crocifisso, emblema di debolezza e impotenza agli occhi
umani, ma paradossalmente sacramento di potenza salvifica di Dio.
E con ironia sottile e tagliente sempre Paolo contrappone la
propria sorte di apostolo di Cristo alle vanterie dei suoi critici della
Chiesa di Corinto:
Ritengo infatti che Dio ha messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto
quasi dei condannati a morte, diventati uno spettacolo per il mondo, gli
angeli e gli uomini. Noi insensati per amore di Cristo, voi invece
sapienti in Cristo; noi deboli, voi invece forti; voi onorati, noi invece
disonorati. Fino ad ora patiamo la fame e la sete, siamo nudi, veniamo
schiaffeggiati, vaghiamo senza fissa dimora, ci affatichiamo lavorando
con le nostre mani. Insultati benediciamo, perseguitati perseveriamo,
scherniti rispondiamo con dolcezza; finora siamo diventati come spaz
zatura del mondo, immondizia di tutti (l Cor 4,9-13).
l. IL CAMMINO DI ABRAMO
della story, a lieto fine, non rappresenta che il seguito naturale di que
sto andare di Rut nel campo di Booz: i due si sposeranno e Rut darà
alla luce un bimbo destinato a diventare il nonno del re Davide.
Ma tale approdo ultimo del matrimonio con Booz è stato reso
possibile da un previo camminare di Rut. la moabita. Si era sposata
con un figlio di Noemi, ma presto era rimasta vedova. Altrettanto era
capitato a una seconda donna moabita, di nome Orpa, andata sposa a
un altro figlio di Noemi. l cinque vivevano nel territorio moabita. E
quando Noemi decide di ritornare nella nativa Betlemme e lascia libe
re le nuore di restare, anzi le invoglia a questo distacco, Orpa sceglie
alla fine di rimanere nel paese di Moab, la scelta di Rut invece è di non
abbandonare la vecchia suocera: <<Dove andrai tu andrò anch'io; dove
ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il
mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta» (1,16-17).
<<Così fecero il viaggio insieme sino a Betlemme>> (1,19).
L'originalità del camminare/andare di Rut è duplice. Anzitutto
è un andare insieme con Noemi, un cammino non di distacco, come
fu la decisione della cognata, bensì di solidarietà e comunione. Non
se ne è andata da Noemi, ma è andata con lei. E poi, una volta giun
ta a Betlemme, il suo è stato un andare incontro a un'altra persona,
a Booz appunto. La story ha il suo fascino in questa sorpresa inaspet
tata: Rut è andata nel campo di Booz come spigolatrice e così è
andata nella sua casa come sposa, nella prestigiosa casata degli ante
nati del re Davide.
Ecco la preghiera che rivolge al suo Dio: «Ora basta, Signore! Prendi
la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri>> (v. 4).
Quindi si addormenta sotto un ginepro, ma l'angelo del Signore
lo sveglia invitandolo a sfamarsi. Il profeta «vide vicino alla sua testa
una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e
bevve, quindi tornò a coricarsi>> (v. 7). La cosa si ripete con l'angelo
che ora precisa il motivo del suo invito a mangiare: <<perché è trop
po lungo per te il cammino» (v. 9). Il risultato è che Elia <<con la forza
datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti
fino al monte di Dio, I'Oreb>> (v. 8).
Il cammino di Elia si era arenato nel deserto, un po' come quel
lo delle tribù israelitiche uscite dall'Egitto. Con una differenza rile
vante: queste vogliono tornare indietro, il profeta invece vuole farla
finita. La sua crisi, per un certo verso, è anche più radicale. Lo aveva
assalito un taedium vitae conosciuto anche fin troppo bene dagli
uomini di tutte le latitudini e di tutti i tempi. Era una resa senza con
dizioni. Mai sarebbe arrivato al monte Oreb, luogo dell'incontro con
Dio. Gli venne in aiuto Dio stesso, che lo rinvigorì a tal punto da
rimetterlo in un cammino senza soste fino alla meta.
Se il traguardo o punto di arrivo segna ultimamente il cammino
di Elia, è indubbio però anche che elemento caratterizzante ne è
l'equipaggiamento, necessario per portare a tennine il viaggio, un
equipaggiamento fornito da Dio che chiama il suo profeta a cammi
nare verso di lui dandogli in pari tempo la forza di farlo.
6. GESù FA CAMMINARE
intendo dire sul piano umanitario, il sonno. Già il cantore del Sal
127,2 confessa che Dio concede ai suoi diletti il dono del riposo nel
sonno. E anche il profeta Geremia in 31,26 chiama dolce il sonno che
lo ristora ed è sorgente di energia. Ma sono indubbiamente i testi
sapienziali di Ecclesiaste, Siracide e Proverbi a interessarsi, non di
passaggio, del nostro tema.
In concreto, l'Ecclesiaste presenta due considerazioni opposte.
Per un verso, rileva che il sonno del lavoratore è dolce anche quan
do non ha molto da sfamarsi. Evidentemente esso ne lenisce la stan
chezza. Ma nello stesso tempo rileva che il ricco ben pasciuto e rim
pinzato proprio per questo non riesce a prender sonno (5,11). Ma
poi egli volge lo sguardo al travaglio che mina l'esistenza umana
sulla terra e per questo impedisce all'uomo di riposare tranquillo nel
sonno (8,16). Che l'insonnia sia un male, la cui radice è vista nell'in
quietudine che rode la psiche dell'uomo potente come di quello
povero, lo afferma anche il saggio del Siracide (40,5): una stessa con
danna per persone tanto diverse. Lo stesso autore ribadisce la sua
convinzione: l'ansia di chi è proteso ad arricchirsi gli impedisce i l
sonno (31,1). Il Siracide procede sempre per contrasti: il sonno pre
mia la persona che a tavola sa essere temperante, mentre l'insonnia
tormenta chi va a letto con lo stomaco appesantito da troppo cibo
(31,20). Si noti che la saggezza israelitica, parente stretta di quella egi
ziana che godeva vasta fama nell'antichità, non disdegna di inoltrarsi
in consigli dietetici di buona salute. Un buon sonno fa bene alla per
sona ed è parte integrante di quel suo benessere anche materiale che
i sapienti non disdegnavano di perseguire per i loro discepoli.
Sempre il Siracide, attento osservatore del vivere umano, dipin
ge con una venatura di sottile umorismo la situazione di un padre
preoccupato della figlia: se ancora nubile, si dà pensiero per il suo
matrimonio; se si è appena sposata, parimenti si angustia perché
potrebbe essere sterile e per questo magari ripudiata dal marito:
un'angoscia capace di togliergli il sonno, mentre si arrovella in que
sti due interrogativi: <<Si sposerà? l Sarà sterile?>> (42,9).
Nei Proverbi il presupposto necessario per poter ben dormire è
invece di carattere spirituale: al saggio l'autore dice: «Se ti coriche
rai non avrai ragione di temere, ti coricherai e il tuo sonno sarà pia
cevole» (3,24). Non diverse in proposito le affermazioni del Salterio:
% Capitolo 10
del povero!
Il sonno: ca"ellata anraverso la BibbiD
1 Cf. in proposito lo studio di H. SCHUER, «<l tema centrale della prima Epistola ai
Corinti•, in Io., l/ tempo della Chiesa, Bologna 1965, 236-254, e lo stimolante contributo
polemico di E. K.AsEMANN, Appello alla liberlil, Torino 1972, 77-1ff7.
112 Capitolo l2
1. l BORIOSI DI CoRINTO
distingue? Che cosa possiedi che non abbia ricevuto? E se l'hai rice
vuto, perché inorgoglirti come se non l'avessi ricevuto?>> (4,7). Poco
più avanti dichiara: «Non è bene che vi vantiate>> (5,6). Ma anche nei
confronti degli altri si ostentava un atteggiamento orgoglioso. L'apo
stolo constata che la conoscenza religiosa degli illuminati di Corinto
è causa di spirituale gonfiamento: «La conoscenza gonfia d'orgo
glio>> (8,1). Con boria infatti si comportavano ignorando le difficoltà
dei fratelli deboli e indifesi. Neppure lo stesso Paolo sfuggiva ai loro
giudizi altezzosi di uomini superiori. Ecco come egli reagisce con
vivacità: «Ora alcuni, pensando che non ritornassi più da voi, si sono
gonfiati di orgoglio. Ma, se il Signore lo vorrà, io verrò presto da voi
e allora prenderò conoscenza non delle parole di questi orgogliosi,
ma della loro forza•• (4,18-19).
2. VALUTAZIONI DI PAOLO
Badate però che questa vostra libertà (exousia) non divenga occasione
di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza
(gnosis), stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest'uo
mo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli
idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza (gnosis), va in rovina il debole, un
fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e
ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo (8,9-12).
3. INDIVIDUO E COMUNITÀ
2. LA COPPIA CRISTO-CHIESA
come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per render
la santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato
dalla parola, al fine di farsi comparire da vanti la sua chiesa tutta glo
riosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immaco
lata.
l a. per es. J. DUPONT, Il metodo paraboli€o di Gesù, Brescia 1978; v. Fusco, Oltre la
parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983; lo., •Parabola-Parabole», in P.
RossANO - G. RAVASI - A. GIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisel
lo Balsamo 1988, 1081-1097; V. Fusco, «Tendences récentes dans l'interprétation des para
boles», in J. DELORME ( éd.). Les paraboles évangeliques: perspectives nouvelles, Paris 1989,
19-60; J. JEREMtAS, Le parabole di Gesù, Brescia '1973; P. RtcoEUR, Ermeneutica biblica.
Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Brescia 1978; H. WEDER, Metafore del regno.
Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione, Brescia 1991.
136 Capitolo 15
rilevante; ne ha persa una: uno per cento. Invece di stare alla custo
dia del suo numeroso gregge parte alla ricerca di quell'unica che si è
smarrita. Meno asimmetrico è il rapporto tra le dieci monete che la
donna di casa ha e una di queste che è andata perduta: un dieci per
cento, ma comunque sufficiente per una attenta valutazione.
l due racconti sono formati, nella prima parte, da un interroga
tivo con cui il parabolista espressamente coinvolge gli ascoltatori:
«Chi di voi in possesso di cento pecore, se gli capita di perderne una,
non lascia le novantanove nel deserto per andare sulle tracce della
perduta finché non l'abbia trovata?». «Chi di voi>>: chiunque di quel
li che sono davanti a lui ad ascoltarlo. La supposizione è che si trat
ti di critici del modo di fare di Gesù, da loro disapprovato. Luca fa
precedere le tre parabole da questa particolare ambientazione:
<<Thtti i dazieri (i pubblicani) e i peccatori stavano vicino a lui per
ascoltarlo. Allora i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: costui
accoglie i peccatori (pubblici) e si fa loro commensale>> (vv. 1-2). È
un quadro del tutto verosimile, anche perché congruo alle storie
paraboliche raccontate e attestato in altri passi della tradizione
gesuana, soprattutto là dove egli è accusato di fare combutta con
dazieri e peccatori pubblici (Le 7,34; Mt 11,19).
La domanda di Gesù è retorica e scontata la risposta: chiunque
di loro farebbe lo stesso; chiunque si comporterebbe come il pasto
re delle cento pecore; questi ha fatto benissimo. La preziosità di una
pecora smarrita va ben oltre al suo valore venale: il pastore l'ha cara
in modo particolare proprio perché smarrita; gli sta a cuore e non si
rassegna a perderla. Deve e vuole ricuperarla. <<E trovatala, la mette
sulle sue spalle, colmo di gioia, e arrivato a casa [all'ovile] chiama a
fargli compagnia gli amici e i vicini dicendo loro: condividete la mia
gioia (sygchairein) perché ho ritrovato la pecora perduta>>.
Ricerca e ritrovamento gioioso, sono questi i due momenti
essenziali del racconto. Invece la conclusione di Luca del v. 7 è all'in
segna del valore del pentimento: <<Dio in cielo gioisce molto di più
per un peccatore che si converte che non per novantanove giusti che
non hanno bisogno di fare penitenza>>. Una rilettura <<deviante»: la
pecora perduta, in cui Luca identifica il peccatore, non ha alcuna
parte attiva: è solo oggetto della ricerca fruttuosa del pastore. L'altra
storia a cui allude il racconto ha al suo centro Dio che in Cristo ricer-
La poesia nelle parabole di Gesù 139
Invece la parabola non del figlio prodigo, bensì del padre e del
fratello, molto più complessa, merita una particolare attenzione. Mi
sembra che essa presenti, dapprima, un «antefatto>>: il figlio minore
140 Capitolo 15
Si sa che la parola «amore>> è tra tutte quella che più evoca sen
sazioni vivissime, ideali altissimi, prospettive totalizzanti. Ma proprio
per la sua ricchezza espressiva è soggetta a un pluralismo vastissimo
di significati. S'impone quindi l'esigenza di precisare e determinare.
Quando poi essa viene applicata a Dio e al nostro rapporto religio
so, deve aumentare la circospezione per evitare equivoci e imprime
za, ma qualifica una storia. Al testo della Prima lettera fa eco il van
gelo: <<Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio uni
genito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna. Dio non ha mandato il figlio nel mondo per condannare il
mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (3,16-17).
L'espressione giovannea postula poi di essere compresa in chia
ve di rivelazione: Dio si è manifestato in Gesù Cristo, uscendo allo
scoperto. Il suo agire storico-salvifico ci ha svelato il suo vero volto:
non un'autocoscienza lucidissima, né un pensiero onnisciente, bensì
una persona che si apre agli uomini donando loro il figlio e facendo
li così partecipare alla sua comunione (cf. l Gv 1,3). In altre parole, la
giusta preoccupazione di mettere in risalto la prospettiva storico-sal
vifica dei testi giovannei non deve far velo al riconoscimento che
Giovanni non si è limitato a dire che Dio per amore ha inviato il suo
figlio nel mondo, percezione questa di fede comune a tutto il Nuovo
Testamento. Egli va oltre e qualifica Dio come amore. Vuoi dire,
sembra, che il Padre nel suo agire storico-salvifico si rivela per quel
lo che è: amore, totalmente amore. In noi tra quello che siamo e il
fatto di amare esiste sempre una distanza, riducibile certo, ma sem
pre incolmabile. Nel Dio di Gesù Cristo invece c'è perfetta adegua
zione tra essere e amare. Pare indubbio che Giovanni voglia sonda
re qui l'essere profondo e indicibile di colui che ha inviato il suo
figlio nel mondo. L'amore da lui manifestato nella storia rappresen
ta non un aspetto periferico della sua personalità, né un additivo
complementare, bensì la qualifica determinante del suo essere. Dio
è tutto nel suo gesto di donazione del figlio all'umanità.
Non solo, Giovanni vuoi mostrare anche ai suoi credenti che
cos'è l'amore. A questo scopo volge il loro sguardo a Dio e alla sua
azione storico-salvifica: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad
amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati>> (1Gv 4,10). E ancora: «Da
questo conosciamo l'amore: Egli ha dato la vita per noi>> (1Gv 3,16).
Non porta in campo riflessioni speculative, ma fa riferimento alla sto
ria salvifica. In questa scorge ciò che è autentico amore.
Però si deve dire subito che, se Dio è amore, non risulta affatto
vero che l'amore sia Dio. Giovanni parte dalla rivelazione cristiana,
dunque da una storia in cui Dio si è impegnato, e vi scorge la presen-
146 C4pitolo 16
Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il
Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l'ami e serva
il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima, che tu osservi
i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene? (DI
10,12-13).
come il Padre ama, per questo e allo stesso modo chi l'accoglie e vi
aderisce con fede logicamente deve accogliere e accettare gli altri
come fratelli da amare.
La stessa logica interna alla fede vale nei confronti di Gesù Cri
sto. Nella Prima lettera di Giovanni leggiamo: <<Da questo abbiamo
conosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli>> (3,16). Il vangelo ricalca la stes
sa pista: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi.
1 G. LoHPINl(, Wie lwt Jesus Gemeinde gewo/lt?, Freiburg 1982; trad. it.: Gesù come
voleva la sua comunitiì?, Cinisello B alsamo 1987.
2 LoHFINK, Gesù come voleva la sua comunità?, 1.
Gesù di Nazaret e la realtà della Chiesa 159
dei villaggi. Inoltre, si deve dire che egli non ha fatto discriminazio
ne alcuna tra osservanti rigorosi delle prescrizioni della legge mosai
ca e quanti erano catalogati sotto l'infamante definizione di <<pecca
tori>>, che raggruppava coloro che esercitavano mestieri e professio
ni incompatibili con le norme scritte e soprattutto tradizionali del
vivere giudaico, per es. gli impiegati alla gabella o pubblicani. Infine
il messaggio da lui proclamato a tale uditorio riguardava la prossima
venuta del regno di Dio o dei cieli, messaggio abbinato strettamente
all'appello urgente della conversione. Si veda in proposito Mc 1 ,15,
che a detta anche dei più rigorosi critici costituisce il centro della
attività profetica di Gesù: «Si è fatto vicino il regno di Dio: converti
tevi>>. In breve egli chiamava il popolo giudaico ad accogliere nella
fede il suo lieto proclama o vangelo e ad adeguare concretamente la
propria esistenza alle esigenze etiche della regalità divina definitiva
che stava per instaurarsi e che faceva pressione sul presente storico
per trasformarlo.
In realtà anche il Battista si caratterizzava per l'orientamento
escatologico o alla venuta del regno di Dio, ma con un'inconfon
dibile sottolineatura apocalittica: questo mondo è corrotto senza
possibilità di riscatto, sarà dunque sostituito da un nuovo mondo che
scenderà glorioso dai cieli e prenderà il posto di questo destinato
alla consumazione. In questa prospettiva il suo appello alla conver
sione, del tutto simile a quello del Nazareno, suonava come indica
zione di un'estrema esigenza da verificare per poter avere parte al
mondo futuro, senza la quale il destino sarebbe stato quello del
fuoco eterno. Gesù invece, estraneo qui all'orientamento apocalitti
co, non considerava questo mondo come definitivamente corrotto,
Non c'è dubbio che la Chiesa vide la luce solo con la fede dei
discepoli nella risurrezione di Gesù crocifisso e storicamente si
devono tener ben distinte la fede prepasquale da quella postpasqua
le: solo questa caratterizza propriamente i cristiani. Ma non appare
senza importanza il fatto che i discepoli storici del Nazareno siano i
medesimi che hanno dato origine per primi alla Chiesa. Questa dun
que si ricollega al Gesù storico, non solo al risorto che come tale
accetta nella fede e proclama nel credo e adora nel culto. Non per
nulla, perduto per strada Giuda lscariota, ci si premura di reintegra
re il numero simbolico di dodici scegliendo il sostituto, Mattia. Il
162 Capitolo 17
Siete voi la luce del mondo. Non può restare nascosta una città colloca
ta sopra un monte. Né si accende una lucerna per mettcrla sotto il mog
gio, ma sopra il lucemiere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella
casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le
vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.
l. IL PRASSISMO DI MATIEO
2. «SE CREDERAI NEL TUO CUORE CHE DIO LO HA RISUSCITATO DAl MORTI,
SARAI SALVATO»
risurrezione per poter essere investiti dalle forze del nuovo mondo
di cui egli è, passi l'espressione, campo magnetico. Paolo direbbe che
è indispensabile indossare l'immagine dell'essere celeste, come ab
biamo rivestito l'immagine dell'Adam terreno (1Cor 15,49). Ancor
più frequente è in lui l'espressione tipica <<essere in Cristo l nel Si
gnore», cioè essere nello spazio spirituale che è il risorto.
Ora questa «incorporazione» in Cristo - anche questa immagi
ne è tipicamente paolina, vista la presenza nelle sue lettere delle for
mule «corpo di Cristo» (cioè collettività di quanti appartengono a
lui) e <<un solo corpo in Cristo» (collettività unità che esiste in quel
luogo che è lui risorto) - si ha mediante la fede. Non per nulla Paolo
parla di credere che Cristo è risorto (1Ts 4,14), che Dio lo ha risusci
tato (Rm 10,9). La risurrezione del Crocifisso equivale alla costitu
zione di Cristo come prototipo degli uomini nuovi, capaci di creati
vo amore, che assimila a sé «i fratelli».
Buber imputava a Paolo di aver trasformato la fede biblica, fede
fedeltà, in una fede dogmatica, vale a dire in assenso intellettualisti
co a determinati eventi di grazia aventi come protagonista Cristo.
Ma credo ingiustamente. L'apostolo intende piuttosto per fede l'af
fidamento dell'uomo al Dio di Gesù Cristo, al Cristo risorto per
poter essere trasformato in nuova creatura: «Se uno è in Cristo è
nuova creatura (kainé ktisis)» (2Cor 5,17). Si tratta di un transfert
radicale da una situazione di impotenza d'amare e di conseguente
perdizione a una condizione di essere e di vita di soggetti nuovi, «che
vivono mediante lo Spirito>> (Gal 5,25), «Sono guidati dallo Spirito di
Dio>> e di Cristo (pneumati theou agontai: Rm 8,14), «sono "peripa
teci" secondo lo Spirito>> (peripatein kata pneuma: Rm 8,4 l pneuma
ti peripatein: Gal 5,16).
Un affidarsi totale però che non è impresa autonoma dell'uomo,
ma effetto dell'iniziativa del Dio di Gesù che lo <<rettifica» o giusti
fica secondo un altro linguaggio tipicamente paolino, chiamandolo
efficacemente a credere, ad affidarsi a lui e a Cristo. Una chiamata a
cui però l'uomo può resistere, ma chiudendosi così alle spalle la
porta che immette nel mondo dei risorti. Una chiamata che si stori
cizza nell'annuncio del vangelo.
Se ora ritorniamo al nostro interrogativo, si capisce che per
Paolo dovrebbe valere l'assioma <<Extra fidem nulla salus>>, ma appa-
170 Capitolo 18
re chiaro che per lui il problema è piuttosto non nel nulla salus bensì
nel positivo: salus per fidem. Naturalmente per noi a questo punto
sorgono mille interrogativi: ma allora quelli che non credono in Cri
sto sono perduti irrimediabihnente? Ma allora chi non ha ascoltato
il messaggio evangelico, privo perciò della possibilità reale di crede
re, è destinato, senza sua colpa soggettiva, alla perdizione? Ma allo
ra gli aderenti alle altre religioni sono destinati alla morte eterna?
Sono interrogativi nostri, ma non di Paolo, tutto proteso a mostrare
il nesso tra fede in Cristo e salvezza e per nulla direttamente interes
sato ad affermare il nesso tra nulla fede e nulla salvezza.
Ancor più oggi la teologia delle religioni tende a distinguere tra
salvezza legata all'adesione di fede a Cristo e salvezza dipendente dal
l'azione di Dio creatore nel mondo. Ma Paolo è figlio del suo tempo e
le questioni che lo assillavano erano un po' diverse dalle nostre.
dello Spirito a scopo di utilità (pros to sympheron) >> (12,6); «Ma tutte
queste manifestazioni, le compie l'unico e il medesimo Spirito ripar
tendole a ciascuno in particolare come vuole>> (12,1 1). L'elargizione
è gesto di libera iniziativa e ne beneficiano tutti i credenti, per cui
nessuno li possiede tutti, come mostra l'elenco dei vv. 8-10, e nessu
no ne è totalmente privo. La finalità generale poi della donazione è
di carattere sociale o ecclesiale. I carismatici sono chiamati a vivere
il dono di grazia ricevuto rispettando il fine per cui ne sono stati
arricchiti, fedeli allo Spirito donatore: far crescere spiritualmente
l'edificio (oikodomein) della comunità.
La funzione dello Spirito viene approfondita nei vv. 12-27, carat
terizzati dal paragone dell'organismo umano (soma) applicato alla
Chiesa. Questa è un'aggregazione sociale simile a quella organico
fisica dell'uomo, ma creata dallo Spirito, non dall'iniziativa autono
ma dei soggetti: <<Giacché noi tutti mediante un solo Spirito (en heni
pneumati) fummo battezzati per formare un solo corpo (eis hen
soma), sia giudei sia greci, sia schiavi sia liberi; e tutti fummo abbe
verati di un solo Spirito (hen pneuma)» (12,13). La piccola società
dei credenti («noi tutti») è sì come il corpo umano (cf. v. 12), ma un
corpo costituito e animato dal creator Spiritus e in stretta relazione
con Cristo. In concreto, si può paragonare al corpo umano sotto il
duplice aspetto dell'unità.'e della pluralità, unità organica e multifor
me e pluralità nel vincolo della mutua solidarietà.
Indubbiamente la Chiesa è composta da più persone, anzi da
soggetti diversi per cultura, religione, lingua, statuto sociale: nel <<noi
tutti» confluiscono giudei e greci, schiavi e liberi. Invece da dimo
strare è l'unità del corpo ecclesiale e Paolo non fa qui ricorso a
ragioni sociologiche: riunirsi insieme, avere riti comuni, condividere
la stessa credenza; si appella invece a motivazioni teologiche e a fat
tori soprannaturali: tutti hanno in comune una nuova storia, quella
battesimale, in cui hanno fatto esperienza dell'azione vivificante e
santificante dello Spirito che li ha fatti corpo di Cristo, donando a
ognuno un carisma specifico per la crescita della comunità.
Tale realtà «Corporativa» è illustrata dal paragone del corpo
umano: introdotto al v. 12, dimostrato nel v. 13, sviluppato nei vv. 14-
26, è concluso al v. 27, con applicazione ecclesiale nei vv. 28-30. Esso
illustra l'essenziale pluralità delle membra nell'unico corpo e la loro
Lo Spirito di Dio nelle lettere di Paolo 177
era presente nel giudaismo rabbinico che parlava del dualismo dei
due istinti, quello del bene e quello del male, ambedue creati da Dio
nell'uomo da lui creato. E come rimedio contro l'istinto cattivo Dio
aveva dato al suo popolo la legge mosaica. In Paolo però originale è
che l'impulso della «Carne» è contrastato efficacemente dal dinami
smo dello Spirito, che non è insito nella natura umana, bensì è il
dono divino di grazia fatto ai credenti. Ma su questa antitesi si ritor
nerà nell'analisi di Rrn 8.
Ecco, in conclusione, il senso delle esortazioni di Paolo: egli sol
lecita i galati a essere docili allo Spirito con l'effetto d'impedire che
si lascino andare ai loro capricci seguendo, in ultima analisi, la dina
mica della «carne». Che siano forze non solo diverse, ma anche anta
goniste, appare con chiarezza al v. 17a: <<La "carne" infatti nelle sue
cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla
"carne"». Per questo la presenza operante dello Spirito preserva la
libertà dallo scadere in un illimitato e capriccioso fare ciò che si vor
rebbe (v. 1 7b), che è in linea con un certo ideale greco della libertà,
come dice Dione Crisostomo, testimone dell'esaltazione di una
libertà illimitata: «Chi può fare ciò che vuole è libero, chi non lo può
è schiavo>>, ma da parte sua propugnatore di una libertà responsabi
le consistente nell'evitare quanto è illecito (Or. 64,13-17).
Il v. 18 segna il passaggio all'antitesi Spirito-legge: «Ma se vi
lasciate condurre (agesrhe) dallo Spirito, allora non siete sotto il
dominio della legge (hypo nomon)>>. Antitesi corrispondente a quel
la di Spirito-<<carne>>. Le due grandezze, una esterna, la legge, l'altra
interna, la «carne>>, sono parimenti escluse dal credente <<agito>> dallo
Spirito, non guidato dal precetto come dalla sua ragion d'essere e di
operare e non succube della sua concupiscenza o cupidigia.
Vorrei riassumere il tutto in poche parole: l'influsso dello Spiri
to è liberante; la responsabilità etica poggia sul dinamismo <<spiritua
le» capace di opporsi a quello <<carnale>> e di fare a meno delle
norme legali mosaiche.
cui Abramo è exemplum (cc. 1-4), Paolo prima descrive per sommi
capi l'esperienza positiva dei credenti: giustificati, essi sono in pace
con Dio e si gloriano nella speranza della glorificazione futura (5,1-
11) - esperienza resa possibile dall'azione liberante di Cristo (5,12-
21), che i battezzati si appropriano per unione a lui morto e risorto
diventando «morti>> al peccato e alla legge e viventi di vita nuova (cc.
6 e 7) -, poi riprende il tutto chiamando l'esistenza cristiana con il
suo vero nome: esistenza «pneumatica», cioè nello Spirito e median
te lo Spirito (c. 8).
Anzitutto lo Spirito è forza liberante: «Nessuna condanna dun
que al presente per quelli che sono in Cristo Gesù, perché la "legge"
dello Spirito creatore di vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla
"legge" del peccato e della morte» (8,1-2). Di norma Paolo indica il
liberatore in Dio (cf. per es. Rm 6,18.22) o anche in Cristo (Gal 5,1);
qui invece attribuisce la liberazione allo Spirito. E voglio subito pre
cisare che «legge>> è usata in senso improprio: indica il principio atti
vo che è lo Spirito e la forza mortificante del peccato.
Poi nei vv. 3-4 Paolo motiva la necessità dell'intervento liberato
re dello Spirito e mette in campo l'iniziativa di Dio. La legge mosai
ca era impotente a condurre l'uomo sui sentieri di una vita moral
mente buona; l'apostolo ne ha parlato a lungo nel c. 7:
liberati per grazia dalla sfera d'azione della carne e immessi nella
sfera d'influsso dello Spirito, come precisa la proposizione «se è vero
che lo Spirito abita in voi>>, che esprime non un'eventualità, ma un
fatto da cui dipende l'affermazione precedente, cioè che i credenti di
Roma sono nel campo magnetico delle energie vitali dello Spirito. In
breve, Paolo vuoi dire che il nostro essere nella sfera d'azione dello
Spirito dipende non da noi, ma dal suo abitare in noi come dono di
Dio (cf. 5,5) ricevuto (8,15).
Seguono tre periodi ipotetici di realtà in cui l'apostolo precisa
gli effetti della presenza e assenza dello Spirito con riferimento a
Cristo. Il primo: «Se invece uno non ha lo Spirito di Cristo, non gli
appartiene>> (v. 9). Il rapporto con lo Spirito determina un rapporto
corrispondente con Cristo; pneumatologia e cristologia sono stretta
mente legate. Lo Spirito (di Dio) infatti appare qualificato come Spi
rito di Cristo, cioè che gli appartiene e ne dipende. Di conseguenza,
l'estraneità all'uno comporta l'estraneità all'altro e l'unione del cre
dente con il primo è unione con il secondo. In breve, lo Spirito, che è
di Cristo, fa sì che i credenti siano anch'essi di Cristo.
In secondo luogo Paolo specifica l'azione liberante dello Spirito
che dipende dali 'unione dei credenti con Cristo: «Se però Cristo è in
voi, allora il corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la
giustizia» (v. 10). Corpo ha qui connotazione negativa, equivalente al
,
«corpo votato alla morte» di 7,24; in pratica è sinonimo di «carne>> e
indica l'uomo privo dello Spirito e dominato da dinamiche peccami
nose. La sua morte dunque è benefica per chi per fede e nel battesi
mo ha solidarizzato con Cristo, con la sua morte e risurrezione, e per
questo è liberato dal dominio del peccato (cf. c. 6). Morte ma anche
vita, precisa il testo citato che segue il processo argomentativo del c.
6: l'appartenenza a Cristo significa anche la presenza dello Spirito
come fonte di vita eterna e principio attivo al presente di giustizia,
quella come sbocco finale di questa.
In terzo luogo l'azione dello Spirito apre su un orizzonte esca
tologico: dall'abitazione dello Spirito «di Colui che risuscitò Gesù
dal regno dei morti» Paolo induce il futuro di salvezza: <<Allora chi
risuscitò Cristo dal regno dei morti darà la vita (zoopoiesei) anche
ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi>>
(v. 1 1). Si noti la presenza di Dio, protagonista principale, ma
Lo Spirito di Dio nelle lettere di Paolo 185
In effetti tutti quelli che lo Spirito di Dio conduce sono figli di Dio; e
voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per finire di nuovo nella
paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi che ci fa gridare:
Abbà, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli
di Dio (Gal 4,6-7).
20.
L'ORDINE E LO SPIRITO NEL MONDO
E NELLE ASSEMBLEE ECCLESIALI*
2.1. Il contesto
Nella sezione dei cc. l2-14 Paolo prende posizione di fronte alle
esperienze carismatiche che caratterizzavano le assemblee comuni
tarie della Chiesa di Corinto. Vi predominavano i glossolali e le loro
parole incomprensibili. L'atmosfera era di grande eccitazione e di
stupore davanti a manifestazioni estatiche e straordinarie capaci di
rapire i presenti ed esaltare i beneficiari. Se poi si aggiunge che i
glossolali e i profeti parlavano contemporaneamente, allora si capi
sce che il quadro mostrasse riunioni abbastanza caotiche. Soprattut
to erano assenti, da una parte, una calma e riflessiva proclamazione
della parola e, dall'altra, una piana e comprensibile accoglienza delle
voci che vi risuonavano. Agli occhi di un estraneo che vi fosse entra
to, rileva Paolo, sarebbero apparse assemblee di matti (14,23).
Sul piano della valutazione dei fenomeni di ispirazione dello
Spirito nella Chiesa di Corinto la preferenza andava a quelle mani
festazioni di carattere estatico, in cui il beneficiario era <<fuori di sé>>,
<<fuori di senno>>, un po' come la Pizia dell'oracolo di Delfi nel mon
do greco, e i presenti erano spettatori ammirati e stupefatti di un
fenomeno «numinoso» senza alcuna possibilità di comprensione in
terna e personale di quanto stava capitando. La visione ammirata,
non l'ascolto docile, caratterizzava così le assemblee ecclesiali.
Ora l'ebreo Paolo aveva alle spalle la gloriosa tradizione religio
sa del popolo israelitico che è riassumibile in questi due dati comple
mentari: il primo, nella preghiera quotidiana l'israelita rivolgeva a se
stesso l'appello di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!>>; il secondo, sul Sinai
nulla si è visto del mondo divino, precisa sempre il Deuteronomio, vi
è risuonata solo la voce potente di YHWH: «Il Signore vi parlò dal
fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figu
ra; vi era soltanto una voce» (4,12). Non poteva dunque non reagire
con forza a un indirizzo spirituale che privilegiava il numinoso abba
gliante al Dio che parla chiedendo come risposta l'ascolto di fede
(akoè tès pisteòs). In concreto, troppo rispettoso dei doni dello Spiri
to, egli accetta senza riserve la glossolalia, preferita dai suoi interlo
cutori. Infatti in conclusione toglie di mezzo ogni dubbio: «Non
194 Capitolo 20
2.2. Il testo
Quanto ai profeti poi, parlino in due o tre e gli altri facciano opera di
discernimento. Se però a un altro che sta seduto è stata concessa una
rivelazione, il primo si metta a tacere. Potete in effetti a uno a uno pro
fetare tutti, affinché tutti possano imparare e tutti essere esortati.
Anche le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti (vv. 29-32).
ti e persino delle rotture che hanno animato i primi passi del cammi
no della Chiesa nel mondo. L'immagine di un cristianesimo nascen
te privo di conflittualità, al riparo da tensioni, preservato da spacca
ture, in realtà fa parte di una visione romantica, ma storicamente
falsa e deviante. A Paolo soprattutto dobbiamo dati inoppugnabili
capaci di rendere giustizia alla realtà storica e di sbarrare il passo a
fin troppo facili strumentalizzazioni di parte di un preteso unanimi
smo della Chiesa primitiva, che naturalmente si vorrebbe imporre
anche oggi. E che si debba aderire alla testimonianza di Paolo cor
reggendo la presentazione oleografica degli Atti degli apostoli, il cui
scopo peraltro non è stato certo quello di offrire una ricostruzione
storica del cristianesimo dei primi tre decenni, costituisce una pacifi
ca acquisizione dell'attuale ricerca biblica.
l. IL CONCILIO DI GERUSALEMME
Gli Atti degli apostoli ne parlano nel c. 15, Paolo in Gal 2,1-10.
Di questo evento importante, databile a cavallo del 50, le due rela
zioni suddette tradiscono differenze rimarchevoli. Secondo At 15 il
concilio è provocato dalla Chiesa di Antiochia di Siria che, contesta
ta da elementi reazionari nella sua prassi missionaria di apertura ai
pagani accolti nella Chiesa da incirconcisi, si appella alla Chiesa
madre di Gerusalemme e vi invia, quali suoi delegati, Barnaba e
Paolo. Quest'ultimo invece nella Lettera ai Galati personalizza il
tutto: è per ispirazione divina che egli ha deciso di sottoporre agli
apostoli gerosolimitani, che vantavano su di lui un primato cronolo
gico («apostoli prima di me>>), il suo vangelo caratterizzato dalla
libertà dei convertiti del mondo pagano e duramente combattuto da
giudeo-cristiani che, penetrati nelle chiese di Galazia, tentavano di
forzare i galati a farsi circoncidere. E, come esempio vivente della
posta in gioco, ha portato con sé Tito, credente incirconciso, sfidan
do gli avversari.
Conflittualitd e riconciliazione nelle prime comunitd cristiane 201
2. LA COLLETIA
3. IL CONFLITTO DI ANTIOCHIA
4. IN CONCLUSIONE
voi dice: «lo sono di Paolo», «<o invece sono di Apollo», «E io di Cefa»;
«E io di CristO>>. Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato croci
fisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? (1,1 1-13).
Quando uno dice: «lo sono di Paolo», e un altro: <do sono di Apollo»,
non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo?
Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascu
no secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha
irrigato; ma è Dio che fa crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è
qualche cosa, ma Dio che fa crescere (3,4-7).
1. STATUS QUAESTIONIS
3. GEsù
sotto il segno della parusìa al destino dei credenti. Sia nella parusìa
sia immediatamente dopo la morte la soluzione della speranza cri
stiana è la comunione perfetta con Cristo della nostra somaticità tra
sformata dallo Spirito.
In Rrn 8,18-25 c'è un allargamento della prospettiva: non è più
solo il caso dei singoli credenti, con il loro destino, ma il futuro dei
credenti è collegato strettamente con il futuro del mondo creato. È
interessante il parallelismo tra il creato inanimato e il destino dei
credenti. I credenti sono in attesa, ma anche il mondo è in spasmo
dica attesa dell'apocalisse dei figli di Dio, cioè del disvelamento ulti
mo. Si noti questa solidarietà tra il creato e i figli di Dio. Uomini e
crealo non solo attendono e sperano, ma gemono insieme e soffrono
i dolori del parto, in attesa della figliolanza adottiva e del riscatto del
nostro corpo. La speranza quindi è attesa, fiducia, gemito: straordi
naria è la solidarietà dei figli di Dio in questa loro speranza dura con
la speranza che è dentro nel mondo creato. Il problema dell'éscha
ton quindi è visto da Paolo in un quadro così globale che investe
tutto il creato: il senso della storia è proprio quello di un parto dolo
roso.
L'essere di Dio si identifica, cioè, con il suo gesto storico, perché tale
gesto è un gesto supremo ed escatologico. Credere a Gesù quindi è
credere all'amore e farsi contagiare da questa medesima dinamica.
La fede si abbina dunque non all'amare Dio, ma all'amare i fratelli,
uscendo da se stessi per incontrare gli altri. Io considero Giovanni
pericolosissimo, mentre Paolo è un teologo più avvertito, più acuto.
Giovanni però è affascinante perché riduce il tutto all'essenziale.
Afferma però anche che «chi mangia di questo pane e beve di que
sto vino ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno>>. In
Giovanni c'è uno spostamento e una massificazione dell'oggi (e que
sto è affascinante, però pericolosissimo); Paolo, più equilibrato, arri
va invece a dire <<per me il vivere è Cristo», ma mantenendo viva l'at
tesa della parusìa e il senso del riscatto finale del mondo. In Giovan
ni c'è poi un testo stranissimo in cui distingue le due risurrezioni, per
la vita l'una, per la morte l'altra (Gv 5,28-29; cf. anche At 24.15 e Ap
20,3). Io non credo che questi testi sulla risurrezione futura vadano
considerati spuri (cf. Bultmann): rappresentano il retaggio di Gio
vanni.
5. SiNTESI
6,1: Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomi
ni per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa pres
so il Padre vostro che è nei cieli.
2. IL CONTESTO LETTERARIO
cano sin dove arriva il volere esigente di Dio), nel nostro brano Cri
sto intende evidenziare non l'oggetto della «giustizia>>, bensì il
«come>> deve essere praticata; l'interesse cade direttamente sul sog
getto operante, precisamente sulla sua intenzionalità: a chi e a che
cosa egli deve finalizzare il suo operato? Nel nostro brano dunque è
in primo piano la soggettività di colui che pratica la religione, osser
vandone i riti e adeguandosi ai relativi codici comportamentali.
Da contesto più ampio, invece, funge il discorso della montagna,
in cui Matteo ha raccolto l'insegnamento di Cristo avente valore
programmatico per l'esistenza dei credenti, che l'evangelista ama
qualificare con il vocabolo di «discepoli>>. Si veda a questo proposi
to la scena introduttiva del discorso: «Vedendo le folle, Gesù salì
sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepo
li. Prendendo allora la parola, li ammaestrava (edidaschen) dicen
do . . . >>. L'uditorio vero e proprio è costituito dai discepoli, che egli ha
chiamato vicino a sé; la folla presente è solo sullo sfondo, lontano. Il
particolare poi di Gesù che si siede per parlare indica che siamo di
fronte a una parola <<magisteriale>>, a un insegnamento autorevole.
Infine, il verbo insegnare (didaschein), qui usato, serve a Matteo per
qualificare il discorso di Cristo come rivelazione della volontà esigi
tiva di Dio. Certo, questi aveva già parlato neii'AT, ma non in modo
definitivo. È Gesù messia che ora ne disvela in pienezza il volere.
Sul piano metodologico ne consegue che il tema del nostro
brano postula di essere colto in profondità anche alla luce di questo
vasto contesto del discorso della montagna.
vuto la sua ricompensa, dice Cristo; cioè ha esaurito tutte le sue atte
se nell'opera egocentricamente compiuta. Invece colui che agisce «nel
segreto>> riceverà la ricompensa da Dio, vale a dire la salvezza finale.
È inutile nascondercelo: questo motivo della ricompensa ci crea
difficoltà. Ci sembra infatti che sia più nobile l'etica di Kant del fare
il bene per amore del bene, mentre la prospettiva di Cristo ci appa
re utilitaristica, imperniata sullo scambio del «do ut des>>, racchiusa
in una logica del «profitto» spirituale. Certo, Gesù si differenzia da
Kant, ma perché, a differenza di quest'ultimo, egli conosce un rap
porto personale con il Dio creatore della vita, che si impegna in un
dialogo fecondo con l'uomo religioso, è capace di risposte fruttuose
all'agire genuino della persona obbediente al suo volere. In altri ter
mini, per Cristo l'agire etico e religioso autenticamente vero dell'uo
mo è creativo di vita, costruttivo di futuro, capace di condurre al tra
guardo della piena realizzazione dell'uomo.
Già sopra si è precisato che la ricompensa divina non è il fine
dell'agire positivo del praticante, bensì solo la conseguenza. Se la
genuina pratica religiosa dell'uomo lo apre dialogicamente a Dio,
appare logico che questi risponda al suo gesto espressivo di obbe
dienza, e risponda da Dio munifico che elargisce i suoi doni con lar
ghezza, al di là dei meriti umani. Tale in realtà è la ricompensa di cui
Gesù parla qui e in altri passi evangelici.
Ci resta da precisare il «voi>> a cui Gesù ha rivolto la sua esorta
zione. Suo diretto interlocutore può essere stato o la ristretta cerchia
dei discepoli che Io avevano seguito come maestro, oppure più in
generale la «folla>>, come dicono abitualmente i vangeli sinottici . . .
Scegliere tra le due ipotesi ci sembra,�ifficile. Forse è preferibile la
prima eventualità. In ogni modo, non sembra un insegnamento valido
solo per i pochi che lo hanno seguito, beneficiari di una particolarissi
ma vocazione e possessori di uno speciale carisma. In realtà, la sua
parola coglieva ogni persona religiosa e pia del suo ambiente giudai
co e del suo tempo, da lui chiamata a un'autentica e genuina pratica.
4, LA REDAZIONE DI MA1TEO
l. EsEGESI IN MOVIMENTO
3. RILEVAZIONI
no di offese -, che Paolo declina invece sul registro religioso, cioè nel
senso di riconciliazione degli uomini con Dio: non con un Dio irato,
com'era proprio della religione romana, al cui centro stava l'esigen
za di <<placare deos iratos>>, ma con un Dio che riconcilia a sé quelli
che si sono fatti suoi «nemici» (cf. Rm 5 e 2Cor 5--6) . Ma il discorso
si farebbe troppo lungo.
1. L' EKKLtSIA
uno stesso luogo (oppure: insieme)>> (epi to auto: 1Cor 11 ,20; 14,23).
In Rm 16,5 saluta la comunità domestica - domus ecclesia - che a
Roma si riuniva nella casa di Prisca e Aquila. Ai corinzi porta i salu
ti di Aquila e Prisca <<insieme con la ekklesia che si ritrova a casa
loro>> nella città dell'istmo (1Cor 16,19). Ai credenti di Roma si fa
portavoce dei saluti di Gaio che ospita, dice, <<me e tutta l'ekklesia>>
di Corinto (16,23). Nell'indirizzo del biglietto spedito a Filemone
codestinataria è <<I'ekklesia che è a casa tua>> (v. 2).
Nella portata significativa di ekklesia entra anche il motivo del
convenire (synerchesthai) dei credenti di una località a formare l'as
semblea (lCor 1 1 ,17.18.20.34; 14,23.26). La connotazione locale d'al
tra parte sembra essenziale; di qui le formule specificate dalla città e
254 Capitolo 25
2 Cf. per es. Grande lessico del Nunvo Testamento. IY, 1490ss.
P110/o in dwlogo con lo culrura greca del suo tempo 255
Uno sciopero letale: «Ma volendo nella loro ira ridurre lo sto
maco alla farne, le stesse membra e tutto il corpo erano caduti in con
sunzione», che le condusse a rendersi ben conto della realtà:
anche la funzione dello stomaco non era all'insegna della pigrizia; che
se esse lo nutrivano parimenti esso le nutriva (nec magis ali quam a/ere
eum), rimandando a tutte le parti del corpo (in omnes corporis partes)
quel sangue per cui viviamo e siamo vigorosi, diviso equamente nelle
vene e maturato attraverso la digestione del cibo.
l.
IL SENTIRE DI GESÙ
l.
LE EMOZIONI E I SENTIMENTI DI GESÙ .................... p. 7
l. G ESÙ EBBE COMPASSIONE / Gioi / SI STIJPI / SI ADIRÙ /
SI RAITRISTÙ / FU PRESO D'AFFETIO . .. . ........ . . . ... . ......... . ... . .. >> 9
2. LE EMOZIONI DEI PERSONAGGI DELLE SUE PARABOLE ........ IO 14
2.
LA MITEZZA DI GESÙ ........................................................ ,. 19
1. M ITE E UMILE DI CUORE..................................................... » 19
2. I VIOLENTI E IL REGNO DI DIO ................ . ........ . ............... . . » 24
3. IL PRECElTO DI GESÙ DELLA NON-VIOLENZA ..................... » 26
4. AlTEGGIAMENTI E COMPORTAMENTI CONTRASTANTI
DI GESÙ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ....... ,. 28
3.
L'IMMAGINE PATERNA DI DIO
NEL VISSUTO DI GESÙ ....................................................... » 31
l. SIMBOLO DI AMORE INDISCRIMINATO ................................... » 31
2. SIMBOLO DI PERDONO ILLIMITATO....................................... » 33
3. SIMBOLO DI CORAGGIO E FIDUCIA NEL MONDO .. ... . ........... .. » 34
4. SIMBOLO DELLA FRATERNITÀ E DELL'UGUAGLIANZA ........... » 35
5. SIMBOLO DI RICONOSCIUTA DIPENDENZA............................. » 37
6. VALUTAZIONE CONCLUSIVA .... .......... . ......... .. ..... . . . ... . . ......... . » 37
4.
CRISTO PRINCIPE DELLA PACE ..................................... » 39
l. IL PRINCIPE DELLA PACE NELLA PROMESSA DI ISAIA............ » 39
2. CRISTO CREATORE DI PACE ................................................. » 41
264 Indice
5.
GESÙ E PAOLO DI FRONTE ALLA MALATIIA
E ALLA SOFFERENZA......................................................... p. 47
l. «EGLI HA PRESO LE NOSTRE INFERMITÀ
E HA PORTATO LE MALATTIE».............................................. >> 47
2. PAOLO E LA SUA MALATTIA E SOFFERENZA ......................... » 52
6.
RELAZIONI DEI PROTAGONISTI
NELLE PARABOLE DI GESÙ ............................................ » 57
l. LA STORIA DEL PADRE DEL PRODIGO
E DEL FRATELLO MAGGIORE (Le 15,11·32) ........................ » 58
2. IL SATRAPO E IL GRANDE RE (Mt 18,23-35) .. ... .. ............... » 62
7.
FIGURE EVANGELICHE DELL'ATIENDERE............. » 65
8.
LA PAURA l IL TIMORE ...................................................... » 71
l. LA LIBERTÀ DALLA PAURA O DAL TIMORE........................... » 72
2. «TEMI IL SIGNORE>> l «NON TEMERE>> ................................ » 75
9.
CAMMINARE: TESTIMONIANZA BIBLICA.................. >> 79
l. IL CAMMINO DI ABRAMO .................................................... » 79
2. LE TRIBÙ ISRAELmCHE !N MARCIA DALL'EGilTO
VERSO LA TERRA................................................................. » 81
3. IL CAMMINARE DELLA SPJGOLATRICE RUT . ... ..................... » 82
4. IL LUNGO CAMMINO DI ELIA FINO AL MONTE 0REB ........... » 83
5. GESÙ CAMMINA PER LA PALESTINA E VA A GERUSALEMME » 84
6. GESÙ FA CAMMINARE ........................... ...... .......... . .... ...... . .. )) 87
7. PERIPATETICI DELLO SPIRITO .............................................. » 88
8. CAMMINARE NELLA LUCE, NELLA TENEBRA......................... » 90
Indice 265
10.
IL SONNO: CARRELLATA ATTRAVERSO
LA BIBBIA................................................................................ p. 93
l . VALE LA PENA PARLARNE? ••..•.•. . . . . . • . . • • • • • . . . . . . • . . . . . • • • • . . . . . . . • • . • • » 93
2. l DATI SALIENTI DELLA TRADIZIONE SAPIENZIALE EBRAICA . » 94
3. LE ANNOTAZIONE SPORADICHE, MA NON BANALI,
DELLE ScR11TURE CRISTIANE .............................................. » 97
11.
LA PARRHES/A NEL NUOVO TESTAMENTO.............. » 101
1. LA CHIARA E CORAGGIOSA PAROLA DEL BATTISTA ............. » 102
2. GEsù: FRANCA, DECISIVA E PUBBLICA TESTIMONIANZA
DELLA VERITÀ..................................................................... >> 103
3. LA LIBERTÀ DI PAROLA DI PAOLO....................................... » 105
4. LA SFIDA DI PIETRO E GiOVANNI
ALLE AUTORITÀ GIUDAICHE................................................. » 108
5. UN ORIZZONTE MOLTO VASTO ............................................. >> 109
12.
OSTENTAZIONE E FIEREZZA DEL CRISTIANO ...... » 111
l . l BORIOSI DI CORINTO ........................................................ » 112
2. L'ESISTENZA CRISTIANA ALL'OMBRA DEL CROCIFISSO ......... >> 1 16
�l
13.
COSCIENZA, LIBERTÀ, AGAPE ..................:.................... >> 121
l. UN PROBLEMA DI COSOENZA
NELLA COMUNITÀ DI CORINTO............................................ » 122
2. VALUTAZIONI DI PAOW...................................................... » 124
3. INDIVIDUO E COMUNITÀ .................................... . ................. » 126
14.
LA COPPIA NEL NUOVO TESTAMENTO ...................... » 129
l. GLI IMPERATIVI DELL'APOSTOLO......................................... » 129
2. LA COPPIA CRISTO-CHIESA .... .................. ..... ............. .....
. .. » 131
3. CoME CRISTO E LA CHIESA ...... . .. . ............................ . .. ...... » 133
266 India
15.
LA POESIA NELLE PARABOLE DI GESÙ .................... p. 135
l. DI CHE COSA VOGLIAMO PARLARE? .................................... » 135
2. IL PASTORE E LA DONNA DI CASA CHE HANNO SMARRITO
UNA PECORA E UNA MONETA (Le 15,3-7 E 8-10) ............... » 137
3. IL PADRE E IL FRATELLO MAGGIORE DAVANTI AL PRODIGO
(Le 15,11-32) -.... » 139
.......... ................ . . . . . . . . . . . ........................
16.
L'AMORE DI DIO
NEL MESSAGGIO DI GIOVANNI...................................... » 143
l. D10 È AMORE (lGv 4,8; 4,16) . . ............. ............................ » 144
2. «CHIUNQUE AMA . . . CONOSCE Dro» (1Gv 4,7) .................. » 146
3. «QuESTO È t'AMORE m D1o:
OSSERVARE l SUOI COMANDAMENTI» (1Gv 5,3) .................. » 147
4. DALL'AMORE DI DIO ALL'AMORE DEI FRATELLI ................. » 149
5. AMORE DI DIO E AMORE DEL PROSSIMO ............................. » 151
6. «L'AMoRE È DA Dio» (1Gv 4,7) ...................................... ,. 153
Il.
LA CHIESA DI GESÙ
17.
GESÙ DI NAZARET
E LA REALTÀ DELLA CHIESA ....................................... . » 157
l. l DODICI, l DISCEPOLI, IL POPOLO ....................................... » 158
2. QUALE RAPPORTO CON LA CHIESA? ................................... » 161
18.
EXTRA FIDEM NULLA SAL US? ..... ................................. ,. 165
.
19.
LO SPIRITO DI DIO NELLE LETTERE DI PAOLO ..... p. 173
l. Lo SPIRITO DI DIO E L'ARTICOLAZIONE CARISMATICA
DELLA CHIESA (l Cor 12) . . ............. . .. . ...... . .......... . ............. » 173 .
20.
L'ORDINE E LO SPIRITO NEL MONDO
E NELLE ASSEMBLEE ECCLESIALI............................... » 189
l. L'ORDINE DEL MONDO:
n. REGNO DI DIO BUSSA ALLE PORTE ... ............................... >> 191
2. L'ORDINE NELLA COMUNITÀ ............................................... >> 193
21.
CONFLITruALITÀ E RICONCILIAZIONE
NELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE ....................... » 199
l. I L CONCILIO DI GERUSALEMME........................................... » 200
2. LA COLLETTA .... . ........ ...... .......................... .................... )) 203
. . . .
22.
VITA ETERNA E RISURREZIONE DELLA CARNE
NEL NUOVO TESTAMENTO ... ......... . ........ ...................... . .. » 211
l . STATUS QUAEST/ON/S .... .... . ......... .. .. . .. .......... . . . .................. . .. )) 211
2. TESTIMONIANZA DELL'ANTICO TESTAMENTO ...................... » 212
3. GESù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............ . . . . . . . . . . . . . . . .. 215
4. TESTIMONIANZA DI PAOLO E DI GIACOMO.......................... » 217
5. SINTESI ............................................................................... .. 223
268 Indice
23.
LA «VOSTRA GIUSTIZIA».
LETTIJRA DI MATfEO 6,1-6.16-18 .. . ... ...... . .. ...... ...... . .. .... . . p. 227
l. L'ARTICOLAZIONE STRUTTURALE DEL BRANO...................... » 228
2. IL CONTESTO LETTERARIO ................................................... » 230
3. L'ANIMA DELL'ESORTAZIONE DI CRJSTO.............................. » 231
4. LA REDAZIONE DI MATTEO ........... .. . ............ . . .. .. ....... ... ...... » 234
5. INTRODUZIONE AL DISCORSO INTERPRETATIVO
O ERMENEUTICO.................................................................. » 236
24.
«IO VOI LORO>>.
LETTIJRA STRUTTURALE DI 1Cor 15 ....... ... . ......... .... .... » 237
l. EsEGESI IN MOVIMENTO ········································ ····--······· » 237
2. INTRODUZIONE ALLA LETI1JRA STRlJITURALISTA ..... ... .... .... » 238
25.
PAOLO IN DIALOGO CON LA CULTURA GRECA
DEL SUO TEMPO ................................................................... » 251
l . L'EKKLESIA • • · • • · · • · • • · • • • • • • • • • • • · · · • · • • • • · · • • • • • • • · • · • • • • • • • • • · • • •• • • • • · • • · • • • • · )) 253
2. UN SOLO CORPO, MOLTE MEMBRA ....................................... » 255
3. D uE PAROLE DI CONCLUSIONE . . . ......................................... » 260