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Collana BIBUCA -Scritti di Giuseppe Barbaglio

La Parola si moltiplicava
Emozioni e sentimenti di Gesù
Giuseppe Barbaglio

EMOZIONI
E SENTIMENTI
DI GESÙ
Realizzazione editoriale: Prohemio editoriale srl, Firenze

02009 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella 6 - 40123 Bologna
EDB"'

ISBN 978-88-10-22137-2

Stampa: Sograte, Città di Castello (PG) 2009


l
IL SENTIRE DI GESÙ
l.
LE EMOZIONI E I SENTIMENTI DI GESÙ*

Suggestionato dal tema, insolito di certo per un biblista, mi sono


premurato di leggere, sia pure di corsa, i tre vangeli sinottici alla
ricerca di dati interessanti. Sullo sfondo della mia mente stava fisso
il detto di marca stoica di Epitteto che il sapiente (soph6s) non è
compassionevole (eleémon). Ed ecco la domanda: Gesù era un
sapiente stoico libero da emozioni e sentimenti, eroico signore di
una condizione esistenziale caratterizzata da apatheia, scevra da
tutto ciò che, influendo sulla sfera emozionale dell'uomo, lo può con­
dizionare e rendere dipendente appunto da un pati che umilia la per­
sona e il suo centro direzionale, cioè la mente, il nolls che tutto domi­
na e da niente è dominato?
D'altra parte condivido la tesi di Harnack che la vita di Gesù è
impossibile da scrivere: Vita /esu scribi nequit. Infatti i nostri vange­
li non sono cronache di quanto Gesù ha detto e fatto, bensì memo­
rie interpretative del significato della sua vicenda umana colto alla
luce della fede pasquale. Dunque nessuna pretesa storiografica, da
parte mia, tesa a ricostruirlo esattamente. Ci dobbiamo accontenta­
re di un Gesù filtrato dagli occhi delle prime generazioni cristiane,
che lo hanno letto alla luce della risurrezione e glorificazione, ma
facendo pur sempre riferimento a memorie vive e anch'esse inter­
pretate, non però fittiziamente create. La ricerca attuale, in partico­
lare, ha fiducia di trovare nelle parabole uno strato tradizionale che
ci mette sostanzialmente in diretto contatto con lui. In ogni modo
possiamo entrare in relazione con i ritratti che di lui ci hanno con­
servato i suoi testimoni diretti e indiretti; e questo basta per dare
senso a questa piccola ricerca. Voglio dire che il tema delle emozio-

• In Servitium 34(2000)130, 251-262.


8 Capitolo l

ni e dei sentimenti di Gesù riguarda il Gesù trasmesso e vissuto nelle


·

comunità dei credenti.


Ora il primo risultato della piccola indagine è che le annotazio­
ni di segno psicologico e <<Sentimentale>> degli evangelisti, in concre­
to dei sinottici, i più vicini al Nazareno, sono assai scarse. I racconti
sono interessati, di norma, alla sequela delle azioni compiute dal
grande protagonista. Un solo esempio, la breve narrazione della gua­
rigione della suocera di Pietro, trasmessa da Marco e, in dipendenza
da lui, da M t e Le. Sottolineo i verbi di azione del brano:

Ed ecco usciti dalla sinagoga,� nella casa di Simone e di Andrea


con Giacomo e Giovanni. Ora la suocera di Simone era a letto febbri­
citante, e subito gli dicono di lei. Allora accostatosi la SQlkyQ tenendo­
la per mano; e la febbre la lasciò ed ella sj mise a servirli a tavola (Mc
1,29-31).

Più scarno ancora Mt 8,14-15:

E� Gesù nella casa di Pietro YHk la sua suocera a letto febbrici­


tante, e le prese la mano e la lasciò la febbre; allora � e �
servirli a tavola.

Anche la raccolta dei detti di Gesù di norma riporta, interpre­


tati, i suoi pronunciamenti senza accompagnarli con sottolineature
dello stato d'animo di chi li ha pronunciati. Numerose invece sono
le annotazioni sulle reazioni degli ascoltatori e delle persone venu­
te in contatto con Gesù, ma qui non ci interessano. La loro presen­
za, dunque, quando viene riscontrata, assume particolare valore:
non una nota di «colore>> intimistico, ma la notificazione di un sen­
timento e di un'emozione che, nella logica del racconto, ne spiega­
no la dinamica.
Interessandomi a Gesù, come ci è stato trasmesso, ho annotato
un secondo dato: non pochi racconti parabolici, fatte salve le propor­
zioni, si reggono proprio sui sentimenti che il parabolista presta ai
personaggi delle sue «storie>>. Direttamente dunque qui non si tratta
delle emozioni di Gesù, voglio dire da lui provate, ma delle emozio­
ni di altri, che però sono personaggi da lui creati e a cui egli presta la
gamma dei propri sentimenti. In realtà, queste storie, sotto il velo del
genere parabolico, di lui trattano in qualche modo, del suo mondo
Le emozioni e i sentimenti di Gesù 9

interiore, soprattutto delle sue immagini di Dio, a cui di regola si rife­


riscono.
Ecco dunque l'articolazione di questo piccolo contributo che mi
è stato richiesto: le emozioni di Gesù e le emozioni dei suoi perso­
naggi che, prima di essere sulla sua bocca, sono presenze vive nella
sua anima.

l. GESù EBBE COMPASSIONE l GIOII SI STIJPll SI ADIRÒ l SI RATTRISTÒ l


FU PRESO D' AFFETIO

Di tutti i suoi sentimenti annotati dagli evangelisti il più fre­


quente è quello della pietà o compassione (splagchnizesthai), che
non manca di connotazioni plastiche: splagchna sono le viscere. Il
verbo indica la commozione profonda della persona, a volte della
madre per il figlio. Ma vi ricorre anche il verbo sinonimo di eleein,
avere misericordia e pietà. Si tratta sempre di una reazione alla mise­
ria umana, che suscita non tanto una sterile compassione, ma un
intervento liberatore da parte di Gesù. Dunque un'emozione che lo
toglie dall'indifferenza impegnandolo in un intervento risolutore. In
breve, l'emozione arma il braccio del taumaturgo Gesù o del Gesù
che si cura degli abbandonati. Spesso poi l'emozione e la relativa
azione di Gesù è richiesta esplicitamente dai diretti interessati. Per
questo riscontriamo, qua e là, la seguente sequenza: imperativo sup­
plicante del bisognoso l dei bisognosi: eleéson me l hémas: abbia
pietà di me l di noi; risposta del supplicato indicata con un participio
aoristo espressivo del suo sentimento che è alla radice della sua azio­
ne guaritrice: splagchnisteis (avuta pietà . . . ) o anche con l'aoristo
,

indicativo del verbo di compassione (esplagchnisté: ebbe pietà)


seguito da azione taumaturgica. . Si veda per es. il racconto matteano
della guarigione di due ciechi presso Gerico. Essi insistentemente
implorano: «Signore, abbi pietà noi>> e, richiesti che cosa vogliano,
rispondono: «Che siano aperti i nostri occhi>>. Gesù allora, <<mosso a
compassione>>, toccò i loro occhi e subito essi tornarono a vederci
(20,29-34). Nel racconto della guarigione dei dieci lebbrosi di Le
17,11-19 esplicita è solo la richiesta di pietà: <<Abbia pietà di noi>> (v.
13), mentre implicitamente abbiamo la risposta sintonica di Gesù
che di fatto li guarisce.
lO Capitolo l

La struttura del racconto della guarigione di un lebbroso in Mc


1,40-45 è esemplare nei suoi tre momenti costitutivi: L un lebbroso
gli si avvicina e chiede di essere sanato facendo appello alla sua
buona volontà, convinto del suo potere: <<Se vuoi, mi puoi purifica­
re»; 2. Gesù, commosso (splagchnistheis), lo tocca e gli risponde: <<Lo
voglio, sii purificato»; 3. annotazione dell'avvenuta guarigione. La
connessione tra il participio «commosso» e l'intervento risanatore è
chiara: poiché Gesù ebbe pietà della miseria del lebbroso, pronunciò
la sua parola efficace di guarigione.
Nel racconto della guarigione di un ragazzo indemoniato (cf. Mc
9,14-29), il confronto è tra il padre e Gesù che dialogano tra loro.
Quello descrive con tinte veristiche l'alienazione del figlio, sempre in
pericolo mortale, e chiede a Cristo, in forma condizionata: <<Se ti è
possibile», di aiutarli muovendosi a pietà. L'interpellato esorta ad
aver fiducia: <<Tutto è possibile per chi crede>>. Allora il padre, a gran
voce, esprime la sua fiducia e chiede di essere aiutato in questo. Gesù
compie la guarigione. Ancora una volta, il nesso tra emozione e azio­
ne è stretto, solo che qui sono oggetto di una pressante richiesta del
padre del poveretto.
Per completezza di esposizione della testimonianza di Marco
cito altri due passi. Nel primo si narra di Gesù che ebbe pietà della
folla venuta a lui perché era <<come un gregge privo del pastore>>, e
per questo si dedicò al loro insegnamento (6,34; cf. passo parallelo di
Mt 14,14). Nel secondo si racconta come Gesù ebbe compassione di
quanti lo avevano seguito da giorni e soffrivano per la fame, e per
questo moltiplicò i pani (8,2; cf. Mt 15,32).
Sentimenti nobili e generosi, la pietà e la compassione, che certo
fanno onore a Gesù, di cui evidenziano la profonda partecipazione
emotiva e potente ai mali degli uomini. Esemplare in proposito è la
risurrezione del figlio unico di una vedova di Nain. Un caso umano
quanto mai commovente: la donna, sola, perde anche l'unico figlio che
aveva. La partecipazione plebiscitaria degli abitanti del villaggio al
funerale lo sta a evidenziare. Gesù incontra il corteo funebre e <<SÌ
commosse>>, certo come tutti. Ma a differenza di tutti la sua commo­
zione è fonte di azione capace di restituire alla madre quello che le era
stato tolto, ciò che aveva di più caro. Straordinario il particolare: risu­
scitato il morto, Gesù lo consegna alla madre. La sua commozione effi-
Le emozioni e i sentimenti di Gesù 11

cace non era rivolta al morto, ma causata dal dolore della madre. Non
sopportò che ella fosse stata privata del figlio unico(Lc 7,11-17).
Ma altre annotazioni <<emotive» sul protagonista della storia
evangelica sono non poco sorprendenti. Anzitutto lo stupore e la
meraviglia che lo sorprendono per qualcosa di inatteso, di inaspetta­
to, quasi di inconcepibile. Così Gesù, annotano Mt 8,10 e Le 7,9, si
stupì (ethaumasen) della fede incredibile del centurione di Cafarnao,
venuto a chiedergli la guarigione del carissimo servo di casa. Cristo
ha incontrato troppo spesso incredulità e addirittura ostilità dai suoi;
basti pensare all'incontro negativo con i concittadini di Nazaret, di
cui si dirà subito dopo. Ed ecco ora uno straniero, uno degli odiati e
disprezzati goilm, esprime incondizionata fiducia in lui taumaturgo
chiedendogli di dire una sola parola di guarigione, certo che essa
sarà efficace. Una sorpresa enorme, una lieta sorpresa, che spinge
Gesù a fare ciò che gli è chiesto. Anche in Mc troviamo l'anno­
tazione di tale emozione, ma in negativo: Gesù viene nel suo villag­
gio, a Nazaret, incontra i suoi concittadini, parla loro, ma un muro di
diffidenza e di rifiuto si alza contro di lui. «E si stupì della loro incre­
dulità» (Mc 6,6). Gesù è tutt'altro che corazzato contro le emozioni.
Non è un dominatore degli eventi e di ciò che lo circonda: gli capita­
no reazioni che vanno al di là delle sue previsioni e lo obbligano ad
affrontare l'imprevisto.
Il sentimento della gioia è all'origine del canto di lode e di bene­
dizione che Gesù innalza al Padre in Le 10,21, un motivo che manca
nella versione di Mt. Egli si era trovato davanti a una situazione
quanto mai strana: le guide religiose e gli osservanti scrupolosi della
legge mosaica lo avevano rifiutato, d'altro lato i marginali e addirit­
tura i peccatori pubblici avevano accolto il messaggio di salvezza
facendo affidamento su di lui. Inaspettato l'uno e l'altro. La reazio­
ne di Gesù non è stata di scoramento, dice Luca, ma di gioia, esultan­
za. Il verbo greco agallùiomai qui usato ha risonanze messianiche:

esprime la gioia dei tempi del messia e della salvezza offerta gratui­
tamente da Dio. Una gioia che si esprime in un inno di lode al Padre
celeste che Gesù ha percepito all'origine di tutto questo: si è disve­
lato ai disprezzati come Dio di grazia e creando in loro una reazio­
ne di fede. Nel suo intento teologico l'evangelico precisa che si è
trattato di un'emozione suscitata in Gesù dallo Spirito Santo, un'in-
12 , Capitolo l

terpretazione: «Ed esultò nello Spirito Santo e disse: TI rendo lode,


Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai disvelato questo [il
mistero del Regno) ai piccoli, che era rimasto nascosto alla mente
dei sapienti e degli intelligenti; sì, Padre, perché così è piaciuto a te>>
(10,21). Gioia, eucaristia, riconoscimento del progetto sorprendente
di Dio nella storia e nella sua vicenda.
Sempre a Luca dobbiamo l'annotazione del grandissimo deside­
rio che ha spinto Gesù a sedersi a tavola con i suoi discepoli per cele­
brare la pasqua: «Ho desiderato tantissimo (epithymia-i epethymesa)
di mangiare questo agnello pasquale insieme con voi prima di
affrontare la mia passione» (22,15). È per un addio che egli sente il
desiderio di essere in comunione con i suoi attorno alla mensa
pasquale.
Propria di Marco è invece una particolare annotazione nel rac­
conto dell'incontro di Gesù con un ricco che gli aveva domandato
cosa fosse necessario fare per avere la vita eterna. Alla risposta dell'in­
terrogato che si devono osservare i comandamenti, quello aveva con­
fessato di averli osservati sempre a puntino. Allora Gesù, narra Mc
10,21, lo amò (egapesen): una reazione sorprendente, che forse per
questo Mt e Le, che qui hanno in Mc la loro fonte, omettono. Il valo­
re sentimentale del verbo deve essere rimarcato: Gesù fu preso da un
sentimento di affetto per quella persona così fedele e protesa al bene.
Ma una certa presenza nelle pagine evangeliche ha anche la col­
lera, un sentimento che non gode di buona fama agli occhi dei mora­
listi esigenti. In Mc 3,5 ai fedeli custodi della legge mosaica del saba­
to a scapito anche del bene di persone bisognose e offese nella loro
carne, che Io vogliono trattenere dal curare un uomo dalla mano ina­
ridita, Gesù reagisce con assoluta veemenza: «girato il suo sguardo
su di loro (periblepsamenos autous) pieno di collera (met' orges), rat­
tristato (syllypoumenos) per la durezza del loro cuore>>, interviene a
guarire il poveretto. Il passo annota due emozioni diverse. Anzitutto
un sentimento di irata reazione verso i suoi interlocutori, che egli
avverte persone disumane, custodi gelosi della legge contro il bene
delle persone. L'ira è l'espressione emotiva di un atteggiamento pro­
fondo di opposizione e di rifiuto, senza mezzi termini, di proposte
«indecenti>>, assolutamente contrarie alle proprie prospettive. lì"a lui
e gli interlocutori non c'è nulla in comune, ma tutto in contrapposi-
Le emozioni e i sentimenti di Gesù 13

zione. La collera incarna un'opposizione non solo ferma, ma anche


viscerale. Non solo una valutazione razionale opposta, ma uo senti­
re in contraddizione. Netlo stesso tempo Gesù, secondo l'evange­
lista, si è rattristato della loro durezza di cuore. Se la collera era giu­
stificata dal fatto che Io si voleva distogliere dal curare l'handicap­
pato, la tristezza è il sentimento che prova considerando la qualità
negativa dell'atteggiamento degli interlocutori: sooo refrattari a ogni
sentimento di solidarietà, hanno un cuore impermeabile a sentimen­
ti di pietà.
La tristezza di Gesù è annotata ancora oel racconto della sua
preghiera nel Getsemani e questa volta da due sinottici. È una tri­
stezza mortale che lo afferra quando tutto il suo essere si pone di
fronte alla prospettiva detla prossima fine tragica: una tristezza che
Io invade non dal di fuori, ma dal di dentro: è per la sua sorte che ne
viene afferrato. Marco è assai crudo nei termini che usa allargando il
campo emozionale provato da Gesù: oon solo tristezza, ma anche
terrore e angoscia: «E cominciò a spaventarsi e angosciarsi (ektham­
beisthai kai ad€monein) . . Gesù disse loro: "La mia anima è avvolta
.

dalla tristezza (perilypos) fino alla morte"» (14,34). Matteo attenua


il dettato di Marco: «Cominciò a rattristarsi (lypeisthai) e angosciar­
si. . . >> (26,37-38). Luca tralascia tutto e annota, in modo originale, la
tristezza dei discepoli, che proprio per questo si erano addormenta­
ti (22,45). La morte tragica che gli sta davanti agli occhi lo spaventa
e Io angoscia, gettandolo in un abisso di tristezza. Tutto il suo essere
si ribella davanti a tale prospettiva. Non è un eroe impavido e sicu­
ro di se stesso. Quanta diversità rispetto al nobile e coraggioso

Socrate! Vi emerge lo spessore umano di Gesù, il lato di debolezza


della sua persona: uomo comune in questo, privo di animo eroico.
Nessun desiderio del martirio, ma attaccamento a questa vita morta­
le e spavento davanti alla prospettiva di perderla io modo tanto disu­
mano. Ma non se ne lascia imprigionare e reagisce con scelte di
fedeltà al progetto di Dio, con un suo volere abbinato al volere divi­
co e causato dal volere divino: «Abbà, Padre, tutto ti è possibile, si
allontani da me questo calice; ma avvenga non quello che desidero
(thelo) io, bensì quello che vuoi tu» (Mc 14,36).
La tristezza sta sullo sfondo anche della parola accorata su
Gerusalemme. In Le 19,41-42 leggiamo: come Gesù nel suo viaggio
14 Capitolo l

verso la città santa si avvicinò a Gerusalemme e questa gli si presen­


tò davanti agli occhi, pianse su di essa. Le sue parole ne esprimono
l'animo addolorato: «Se avessi compreso anche tu in questo giorno
ciò che porta alla pace. Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi». E
segue la predizione della distruzione. È il destino amaro della città,
un destino meritato per la sua cecità spirituale, che muove Gesù al
pianto e gli fa nascere dentro una grande tristezza.

2. LE EMOZIONI DEI PERSONAGGI DELLE SUE PARABOLE

Su una trentina circa di racconti parabolici quasi un terzo con­


tiene annotazioni sui sentimenti dei protagonisti delle <<Storie>> rac­
contate da Gesù, nessuna in Marco e quattro o cinque in Matteo e
Luca. Inoltre si nota che due tipi <<psicologici» le caratterizzano: da
un lato constatiamo la prevalente ricorrenza dei sentimenti di pietà
e collera, a volte contrapposti nello stesso racconto, ma anche la
gioia ha una presenza non marginale. In concreto, questa caratteriz­
za anzitutto la parabola della scoperta del tesoro nascosto in un
campo; l'accento cade sulla reazione avuta dal fortunato contadino
di fronte al ritrovamento: entrarne in possesso. Ed ecco è subito
all'opera: come primo atto, lo sotterra di nuovo, sottraendolo alla
vista di possibili concorrenti; quindi monetizza la somma necessaria
all'acquisto vendendo tutto ciò che possiede; e lo fa proprio. Ma in
mezzo a queste azioni il parabolista ha inserito come movente della
prontezza con cui ha venduto tutto l'espressione <<dalla gioia>> che gli
ha procurato la scoperta del tesoro e la prospettiva certa di entrarne
in possesso. È questo sentimento di gioia che lo ha mosso all'azione,
a un'azione conseguente alla preziosità di quanto gli è stato offerto
su un piatto d'argento. La privazione di quanto possiede non gli
pesa, perché finalizzata all'acquisto del tesoro. Nessun rincrescimen­
to, ma gioia piena; un uomo felice, perché fortunato e degno della
fortuna avuta.
Da parte sua Luca ci ha trasmesso due parabole parallele, in cui
il motivo della gioia è centrale: la donna di casa, cui è capitato di
smarrire una moneta, si è messa alla ricerca rivoltando tutta l'abita­
zione; una ricerca coronata da successo. La conclusione degna della
story è che essa non tiene per sé sola la gioia per la moneta ritrova-
Le emozioni e i sentimenti di Gesù 15

ta, ma la condivide con le vicine di casa, invitate alla festa: «Gioite


con me» (sygcharete moi) (Le 15,8-10). Così è del pastore proprieta­
rio di un gregge di cento pecore, partito alla ricerca di una pecora
smarritasi e ritornato all'ovile con la perduta in spalla: invita amici e
vicini: «Gioite con me (sygcharete moi)» (Le 15,4-7). E che la gioia
sia il motivo centrale dei due racconti appare non solo dalla loro
struttura, ma anche dalla conclusione esplicativa: allo stesso modo
Dio gioisce per il peccatore recuperato alla vita. In realtà, il terzo
evangelista vi inserisce il suo intento moralistico della necessità della
conversione: «Così vi dico, c'è grande gioia in cielo per un peccatore
che si converte». Manifestamente è una forzatura dell'evangelista: la
logica interna alla story conduce a pensare alla gioia che Dio prova
per i peccatori che egli mediante Gesù recupera per grazia alla vita,
non per la buona azione dei peccatori che si pentono e decidono di
ritornare a lui. Nel Vangelo di Matteo la parabola della pecora smar­
rita presenta una sua peculiarità: il pastore gioisce dentro di sé per il
ritrovamento ed è modello dei pastori delle comunità cristiane a cui
l'evangelista qui si rivolge e che esorta a fare la volontà del Padre
che non vuole che un credente smarritosi vada perduto per sempre
(18,12-14).
Pietà e collera invece caratterizzano i personaggi delle parabole
del satrapo spietato di Mt 18,23-35 e del figlio prodigo di Le 15,11-
32. In quella il racconto è tutto giocato sui sentimenti suscitati ad
arte e vissuti in profondità. Il grande re chiede conto dell'ammini­
strazione ai suoi satrapi e scopre che uno denuncia un ammanco di
migliaia di milioni di lire (10.000 talenti). È perduto, un uomo finito;
nessuna possibilità da parte sua. Disperato per la sorte che lo atten­
de e attende la sua famiglia, condannati alla schiavitù, si affida alla
clemenza del grande re: prostrato ai suoi piedi lo supplicava: «Sii
magnanimo con me (makrothymeson ep' emoi)>>. Per dare forza alla
sua preghiera si avventura persino in promesse irrealistiche: <<Ti
restituirò tutto>>. Chiedeva tempo per differire la restituzione, ma
ottiene l'insperabile: il condono dell'enorme debito. Perché il gran­
de re si è impietosito (splagchnistheis) del suo destino, si è commos­
so nel suo intimo. Una commozione che lo muove a un atto di rega­
le generosità e magnanimità. Ma poi il condonato mentre esce dal­
l'udienza trova un suo collega che gli doveva alcuni milioni (cento
16 Capitolo l

denari: la paga di cento giornate lavorative di un operaio). Il credi­


tore non vuoi sentire ragione, resiste alla preghiera del collega, la
stessa che lui aveva fatto davanti al re: <<Sii magnanimo con me
(makrothymeson ep' emoi)>>, abbinata alla medesima promessa, ma
questa volta realistica: «TI restituirò tutto>>. Niente da fare: «Conti­
nuava a dire di no>> (ouk ethelen, all'imperfetto) alle ripetute suppli­
che del debitore: «lo andava supplicando>> (parekiilei, all'imperfetto).
Il passaggio alla seconda parte della story è indicato dall'entra­
ta in scena dei colleghi (syndouloi) che, alla vista dell'accaduto, se ne
rattristano (elypéthesan) moltissimo e riferiscono la cosa al grande
re. Un altro sentimento che spinge all'azione della denuncia del
misfatto: deve essere fatta giustizia! Il punto culminante della vicen­
da è l'incontro del re con il condonato, con parole di condanna: <<Ser­
vitore malvagio», e pour cause: «lo, da te supplicato, ti ho condona­
to tutto quel debito: non dovevi anche tu avere pietà (eleesai) del tuo
collega, come anch'io ho avuto pietà (eleesa) di te?». Nessun dovere
legale incombeva sul satrapo spietato, ma un preciso dovere morale:
da condonato doveva farsi condonatore; beneficiario di una vita
piena, doveva diventare elargitore di vita piena. Perché a questo era
stato condonato. Il condono non era solo liberazione da, ma anche
ed essenzialmente libertà nuova per essere donatore di vita. Non lo
ha capito; merita la condanna. Ed ecco il sentimento finale del gran­
de re: «Preso da collera>> (orgistheis) lo ha consegnato agli aguzzini.
Si può dire che tutta la storia è giocata su questa gamma di emozio­
ni e sentimenti contrastanti e connessi di pietà e collera.
Qualcosa di simile si può dire della famosa parabola del figlio
prodigo, in cui però interviene anche il sentimento della gioia. L'an­
tefatto presenta il figlio minore di un padre il quale, ottenuta la parte
della sua eredità, se ne va lontano, ma sperpera tutto in gozzoviglie
e lussurie. Ridotto sul lastrico, costretto per non morire di fame a
custodire un branco di porci, animali impuri per gli ebrei, fatti i suoi
bravi calcoli, decide di ritornare alla casa paterna, sperando di esse­
re assunto come uno dei salariati, il massimo che poteva desiderare.
La story entra ora nel vivo: il padre vede da lontano il figlio arrivare
e si muove incontro a lui, spinto da un forte sentimento di pietà
(esplagchnisthe), che ne spiega i comportamenti: corre incontro, gli si
getta al collo, Io bacia, sente appena le parole del figlio rinsavito, ma
Le emozioni e i sentimenti di Gesù 17

fa di testa sua; altro che accoglierlo come salariato nell'azienda! È di


nuovo suo figlio, a tutti gli effetti, come mostra plasticamente il
nuovo abbigliamento. Il comando ai servitori è di preparare una
grande festa: «Facciamo festa (euphranthomen)».
Sembrerebbe l'happy end atteso, ma non è così. Il parabolista è
maestro nel presentare sorprese. Il fratello maggiore, di ritorno dalla
campagna, all'avvicinarsi alla casa sente i suoni della festa e doman­
da a un servitore che cosa sia capitato. Ragguagliato, monta su tutte
le furie, orgisthe, e si rifiuta di entrare a far festa. Se il padre ha accol­
to il prodigo come figlio ritrovato, lui lo misconosce come fratello.
Nel duro colloquio col genitore, che lo invita a partecipare alla festa,
parla del prodigo in termini di distacco e rifiuto: «questo tuo figlio».
Ma il padre insiste, parlandogli di «questo tuo fratello>>. E conclude
affermando che è giusto, anzi necessario, «far festa e gioire (euphrai­
thenai kai charenai), perché questo tuo fratello era morto ed è ritor­
nato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato>>. Il fratello maggiore
si è fatto convincere e ha accettato il prodigo come fratello? Ha gioi­
to e festeggiato per il suo ritorno? Non sappiamo; la parabola è una
story aperta a diversi finali; sta all'ascoltatore scrivere la conclusione
della vicenda. Qui ci resta solo da sottolineare la decisiva presenza
nella parabola di un suggestivo intreccio di sentimenti ed emozioni
che legano, ma anche separano, i protagonisti. Il parabolista è atten­
to a questi risvolti psicologici della vicenda, ma anche li vive, perché
nella trascrizione parabolica la story parla del Padre celeste, dei pec­
catori e della sua umana solidarietà con questi ultimi in nome del
suo Dio di pietà.
Non si può qui passare sotto silenzio la parabola del buon sama­
ritano (Le 10,30-37), che si caratterizza per il suo piglio di esempio
morale: il comportamento del samaritano è modello di azione per
noi. Il contrasto poi con i due funzionari del culto che passano oltre
rende più urgente l'esortazione implicita nel racconto. Un contrasto
che non è solo di natura prassistica, infatti quello si dà da fare, que­
sti se ne lavano le mani, ma anche di sentimenti per un verso prova­
ti e per l'altro mai nati. Davanti al malcapitato abbandonato sulla
strada tutti e tre quelli che vi passano hanno occhi per lui: il sacerdo­
te, il !evita, il samaritano parimenti lo vedono; il participio idon
(avendolo visto) ricorre in tutti e tre i casi. Ma per i primi due tale
18 Capitolo l

vista non suscita alcuna emozione: passano oltre. Non ne sono tocca­
ti minimamente nel loro animo. Invece il samaritano a quella vista
ne ebbe compassione (esplagchnlsthe). Un sentimento suscitatore di
azione di soccorso: gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, lo caricò sulla
sua cavalcatura, lo portò all'ostello vicino e si prese cura di lui. L'op­
posizione tra fare e non fare ha le sue radici nel provare pietà e nel
non provarne. nel lasciarsi colpire dalla miseria altrui e nell'essere,
invece, inattaccabili sul versante emozionale. La conclusione del rac­
conto ritorna sul punto focale: Gesù esorta a imitare chi effettiva­
mente si è dimostrato prossimo alla vittima, cioè chi ha fatto il gesto
di pietà (ho poiesas to éleos). Si noti l'accentuazione del «fare», che
però dipende dal sentimento di pietà provato.
2.
LA MITEZZA DI GESÙ*

Il tema della mitezza o mansuetudine trova esplicita espressio­


ne linguistica nei vocaboli prays (mite) e praytes (mitezza). Essi però
ricorrono soltanto pochissime volte nel Nuovo Testamento. Diretta­
mente opposto è il motivo della violenza (biazo, biastos), che appa­
re in un famoso detto di Cristo circa la violenza e il regno di Dio, di
cui si parlerà. Ma sembra opportuno allargare lo sguardo oltre gli
angusti limiti segnati da questi vocaboli, per cogliere la realtà neote­
stamentaria della mitezza e non-violenza.
Comunque le testimonianze neotestamentarie in merito sono
incentrate nel sottolineare la mitezza del Nazareno, messia disarma­
to e per nulla bellicoso, maestro mite e umile, alieno da violenze e
sopraffazioni nel suo rapportarsi agli altri. In concreto, si analizze­
ranno qui le attestazioni esplicite della sua mitezza, ma poi si tente­
rà di fare un bilancio sulle molte reazioni di segno diverso che hanno
caratterizzato la sua esistenza pubblica. L'articolo sarà tutto volto
alla sua persona, ma con chiara coscienza che già le testimonianze
neotestamentarie ne parlano in termini paradigrnatici, cioè di un tra­
scinante modello per i credenti e, ancor più, di un prototipo per le
comunità cristiane.

1. MITE E UMILE DI CUORE

1.1. «Imparate da me.. . »

È a Matteo che dobbiamo il seguente detto articolato di Gesù di


Nazaret: «Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi

• In Servitium 21(1987)50,145-156.
20 Capitolo 2

ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che


sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il
mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero>> (11,28-30).
Si tratta anzitutto di un motivato invito ad aderire alla sua per­
sona, indirizzato a quanti gemono sotto il pesante fardello della
legge mosaica. Nell'interpretazione rabbinica, questa si presentava
allora articolata in 600 precetti e più: una barriera eretta contro ogni
possibile deviazione dal retto sentiero dell'osservanza del volere
divino; una «siepe>>, come si diceva correntemente nell'ambiente giu­
daico, costruita attorno alla responsabilità del soggetto, che gli impe­
diva di uscire di carreggiata. Si capisce perciò che il soggetto si tro­
vasse in una situazione oppressiva: come far attenzione a non tra­
sgredire alcun comandamento? Come essere in grado di dirigere la
propria esistenza secondo i dettami di tanti comandamenti e proibi­
zioni? Un «giogo>> - anche questo era un termine immaginoso per
significare la legge gravante sulla persona - insopportabile e morti­
ficante la persona e la sua iniziativa.
A costoro- ed erano tutti i giudei del tempo impegnati in un 'esi­
stenza di obbedienza a YHWH e di osservanza della sua legge - Gesù
si propone come fonte di conforto e ristoro. Ecco la sua esplicita pro­
messa: « . . . e io vi ristorerò>>. In breve, in lui si deve vedere il libera­
tore da questo giogo oppressivo e schiavistico.
Non si pensi però a posizioni di libertà selvaggia o di libertari­
smo sfrenato. Gesù non intende sottrarre l'uomo a precise esigenze
etiche. Non è suo scopo quello di gettare la persona nel vuoto dell'ir­
responsabilità. Al contrario, invitando ad aderire a lui, esorta a pren­
dere su di sé il suo giogo e a mettersi alla sua scuola.
Dunque liberazione da un giogo insopportabile e oppressivo e
assunzione responsabile di un giogo qualitativamente diverso, il suo
appunto. Di fatto egli domanda di farsi suoi discepoli, di camminare
sulle sue tracce: in concreto, far tesoro delle sue parole e soprattutto
imitarne la prassi di vita.
Ma quale il suo <<magistero» e soprattutto quale il suo stile di
vita, stile esemplare e paradigmatico per il fedele discepolo? Ecco la
sua carta d'identità: mite (prays) e umile (tapeinos) di cuore. Il primo
aggettivo ne specifica la qualità dei rapporti con gli altri: egli entra in
relazione da uomo disarmato, rispettoso al massimo della persona
Lo mitezza di Gesù 21

che gli sta di fronte, privo di qualsiasi violenza, non aggressivo, del
tutto dolce e affabile, puro da ogni alterigia. Il secondo aggettivo
invece, «umile di cuore>>, esprime l'interiore (= di cuore) atteggia­
mento di umiltà di fronte a Dio, di sottomissione a lui. È l'opposto
del titanismo, del complesso di onnipotenza, del rifiuto della propria
creaturalità alla ricerca di un'illusoria assoluta autosufficienza. Si
tratta propriamente del tema biblico della povertà spirituale, cioè
del farsi interiormente curvi davanti a Dio.
Questa l'esigenza (=il giogo) di cui devono farsi carico i suoi
discepoli: incarnare nella propria vita la mitezza e l'umiltà religiosa
del maestro. E ciò, secondo la sua promessa, sarà fonte di pace per la
propria vita. Nessuna spaccatura di dentro, ma profonda e vasta
serenità dello spirito. In una parola, al discepolo fedele di Cristo sarà
donato di essere in pace con se stesso. Perché si tratta di un giogo, sì,
ma dolce da portare, di un fardello, sì, ma leggero da trasportare. Chi
infatti aderisce a lui e decide di mettersi alla sua scuola o alla sua
sequela, non potrà sentire oppressiva l'esigenza di verificare nella
propria esistenza la sua mitezza verso il prossimo e la sua umiltà nei
confronti di Dio.
Con accenti simili si era espressa la Sapienza, identificata con la
Legge, in Sir 51,23ss: <<Avvicinatevi, voi che siete senza istruzione,
prendete dimora nella mia scuola». Vi risponde il discepolo: «Sotto­
ponete il collo al suo giogo, accogliete l 'istruzione [ . . . ] e vi trovai per
me una grande pace». Ma il confronto evidenzia l'originalità del
detto di Gesù che invita alla sua sequela. Dunque il discepolato, con
un processo di scolastico ammaestramento, costituisce il punto cen­
trale di Mt 11,28-30.

1.2. «Ecco il tuo re viene a te mite»

Un altro passo evangelico, testimoniato sempre e solo da Mat­


teo, proclama la mitezza di Gesù. Propriamente si tratta di una cita­
zione scritturistica di carattere profetico di cui l'evangelista vede e
proclama il compimento in Cristo mentre fa il suo ingresso in Geru­
salemme, la città di Davide e dunque dalle chiare risonanze messia­
niche, cavalcando un'asina e acclamato da numerosa folla in questi
termini: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel
22 Capitolo 2

nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!>> (21,9). A noi però
interessano soprattutto i versetti 4-5: «Ora questo avvenne perché si
adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta: "Dite alla figlia
di Sion: - Ecco il tuo re viene a te - mite, seduto su un'asina, - con
un puledro figlio di bestia da soma">>. Matteo cita qui Zc 9,9, un pas­
so da analizzare se vogliamo comprendere in che senso Gesù viene
presentato dall'evangelista come messia mite. Il profeta in visione
vede entrare in Sion il messia atteso non cavalcando un focoso
destriero, alla testa di un potente e vittorioso esercito, ma in groppa
a un'asina, peraltro cavalcatura tipicamente regale nella tradizione
biblica. Inoltre Zaccaria nel versetto seguente continua così: «Farà
sparire i carri [da guerra] da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'ar­
co di guerra sarà spezzato, annunzierà la pace alle genti>> (9,10).
Dunque un re per nulla bellicoso, anzi operatore di un completo
disarmo e creatore di una pace ecumenica, per tutti i popoli.
Gesù dunque è messia mite in quanto disarmato e fautore di
una pace universale. E qui l'evangelista intende opporsi con energia
a ogni concezione messianica trionfalistica e bellicistica, che nel giu­
daismo del tempo trovava chiari accenti per esempio nel libro apo­
crifo Salmi di Salomone, ma anche e soprattutto nello zelotismo
sceso armi in pugno contro l'oppressore romano. Matteo vuole affer­
mare che Gesù di Nazaret, finito miseramente in croce e dunque per
nulla trionfante e potente vincitore dei nemici, ciononostante è vero
e autentico messia, anzi proprio per questo è il messia profetizzato
dall'Antico Testamento, in particolare da Zaccaria.
Una puntualizzazione quella matteana non priva di valenze
ecclesiali: la speranza dei credenti non consiste in sogni di onnipo­
tenza e di trionfante marcia nella storia, ma nella sofferta costanza
di chi cammina sulla via crucis, dietro al maestro; naturalmente
senza dimenticare che al traguardo finale ci sarà la risurrezione.

1.3. «. . • per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo. . »


.

Della mitezza di Cristo parla anche Paolo nella Seconda lettera


ai Corinzi, esattamente all'inizio di un testo di denuncia dei suoi
avversari penetrati nella Chiesa di Corinto e intenzionati a scalzarvi
la sua autorità apostolica. Se è con violenza che l'apostolo risponde
La mitezza di Gesù 23

loro più avanti, alla sua comunità invece si rivolge facendosi forte
della mitezza del Signore Gesù: <<Ora io stesso, Paolo, vi esorto per
la dolcezza e la mansuetudine (= praytetos kai epieikeiils) di Cristo,
io davanti a voi cosi meschino (tapeinos), ma di lontano così animo­
so con voi>> (2Cor 10,1 ) .
Gli si addebitava a Corinto un'umiliante debolezza, che strana­
mente - secondo l'accusa - si tramutava in forza quando egli stava
lontano e scriveva alla sua comunità, mentre da vicino appariva un
debole; debolezza inconcepibile in un autentico apostolo di Cristo.
Paolo risponde che in lui è presente e operante la mitezza e dolcez­
za di Cristo e il suo scritto alla Chiesa di Corinto ne è chiara espres­
sione. In breve, un apostolo a immagine di Cristo.

1.4. «l miti erediteranno la terra»

Per completezza, richiamiamo qui la seguente beatitudine, pro­


pria della versione di Matteo: <<Beati i miti (praeis), perché eredite­
ranno la terra>> (Mt 5,5). Certo, non vi si parla della mitezza di Gesù,
bensì di una sua parola felicitante i miti. Resta però vero che egli vi
esprime la sua solidarietà affettiva con i miti; infatti si congratula con
loro e con loro gioisce, perché <<erediteranno la terra>>, cioè riceve­
ranno in dono, alla fine, la vita eterna. Il vocabolo «terra>>, infatti, qui
ha perduto il suo referente mondano. In altre parole, è stato sottopo­
sto a un radicale processo di spiritualizzazione; significa dunque il
nuovo mondo che Dio creerà a conclusione della storia terrena.
Ma ritorniamo al nostro motivo. Già nei due testi matteani pre­
cedentemente analizzati la mitezza di Gesù non era presentata come
qualità esclusiva, proprietà individualistica. Il Nazareno aveva invi­
tato ad aderire alla sua persona e a imitarne la mitezza e l'umiltà:
maestro e discepolo fedele sono caratterizzati allo stesso modo. Né
quale messia mite e disarmato Gesù resta isolato; al contrario il suo
messianismo <<povero>> qualifica anche il messianismo della sua
Chiesa. Ora, in primo piano, abbiamo la mitezza dei privilegiati
beneficiari dell'esplosione della regalità divina escatologica; ma
dichiarandoli beati, Gesù solidarizza con loro e tra loro finisce per
annoverarsi.
24 Capitolo 2

1.5. Non è una virtù tra le altre

Per concludere questo paragrafo, si può annotare come la mitez­


za non sia una «Virtù» tra le altre. Essa, in realtà, specifica la persona
di Gesù quale maestro, che chiama gli uomini al discepolato, e quale
messia, alla testa di un popolo messianico disarmato e mite come lui.
In una parola, la mitezza, nel senso spiegato, è nota essenziale
tanto in campo cristologico quanto in ambito ecclesiologico. Natu­
ralmente si tratta di una nota di carattere morale e religioso, che
rende ragione dell'autenticità del messianismo di Cristo e della
Chiesa e della genuinità del rapporto discepolo-maestro proprio dei
credenti nei confronti di Cristo.

2. l VIOLE!Im E IL REGNO DI DIO

La tradizione propria della fonte Q, cioè dei detti di Gesù, testi­


moniata da Matteo e Luca, ci ha conservato una misteriosa parola
del maestro, che sembra, a prima vista, esaltare la necessità di una
certa violenza per poter entrare nel regno di Dio. Il vangelo dunque
propugnerebbe, nello stesso tempo, la «Virtù>> della mitezza e della
non-violenza e la necessità di una santa violenza. Ma è proprio così
che si deve intendere il detto di colui che ha dichiarato di essere
<<mite e umile di cuore>>?
Ecco la versione del primo evangelista: «Dai giorni di Giovanni
il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza (biazetai) e i
violenti (biastai) se ne impadroniscono (harpazousin)>> (Mt 1 1 ,12).
Sembra di poter dire, anzitutto, che le due proposizioni di questo
versetto matteano si corrispondono: il regno dei cieli soffre violenza
nel senso che ci sono «dei>> violenti (in greco è assente l'articolo) che
ne fanno oggetto di rapina. Inoltre l'accostamento tra il sostantivo
biastai (violenti) e il verbo harpazo (rapinare) indica che si tratta di
un'azione ostile, rapinatrice. Si aggiunga che il contesto sottolinea l'at­
teggiamento negativo della folla nei confronti dell'annuncio, da parte
di Cristo, della prossimità della regalità escatologica di Dio.
Infine, altrove Gesù, riferendosi al Regno, postula dagli ascolta­
tori atteggiamenti, come conversione e fede, che non hanno nulla a
che vedere con una santa violenza.
Lo mitezza di Gesù 25

Per questo è l'interpretazione seguente che s'impone, come si


esprime ottimamente G. Schrenk:
Il regno viene combattuto, intralciato dai suoi riottosi avversari. Questa
interpretazione presenta un duplice vantaggio. Anzitutto è corrobora­
ta dall'uso prevalente del verbo e in secondo luogo giustifica la frase
successiva come una esplicitazione coerente del biazetai: i violenti rapi­
scono il regno, si intende agli uomini. Il significato di harpazein si illu­
mina soprattutto con l'altro passo di Matteo in cui ricorre questo verbo
(13,19: ho poneros harpazei to esparmenon en t€-i kardia-i autou il -

malvagio rapisce ciò che era stato seminato nel suo cuore). Richiaman­
doci anche ad altre espressioni analoghe di Matteo potremo dire che il
senso del nostro passo è questo: i violenti con il loro harpazein preclu­
dono la basi/eia (il regno) agli uomini e impediscono loro di entrarvi
(Mt 23,13). La situazione storica succeduta al Battista è quindi caratte­
rizzata da una violenta opposizione al regno, che fa poi tutt'uno con
l'ostilità alla persona e all'opera di Gesù.1

Il pronunciamento di Gesù secondo la versione di Luca si pre­


senta in maniera abbastanza diversa: <<La Legge e i Profeti fmo a
Gesù; da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si
sforza (biazetai) di entrarvi>> (Le 16,16).
Si noti qui la corrispondenza delle due proposizioni: annuncio
del regno, sforzo per entrarvi; nella prima abbiamo l'azione evange­
lizzatrice di Gesù, nella seconda la decisione degli ascoltatori di
entrarvi. Sullo sfondo appare un quadro missionario di carattere uni­
versalistico: l'annuncio del Regno e di conseguenza la risposta decisa
degli ascoltatori per entrarvi. In questo caso, dunque, è in questione
una santa violenza, meglio il movimento deciso della folla di adesio­
ne al messaggio cristiano e di ingresso nel regno di Dio. Dunque un
modo iperbolico e plastico per significare il successo della missione
della Chiesa nel mondo: «ognuno si sforza di entrarvi>>.
Ma quale delle due versioni è più fedele al detto come è risuo­
nato sulle labbra di Gesù? Dice a ragione G. Schrenk:
[ . . . ] per quanto riguarda il biazetai il difficile testo di Matteo dà inne­
gabilmente l'impressione di essere il più antico; rispetto a esso la ver­
sione di Luca si presenta semplificata, ridotta (manca la frase esplica-

1 In Grande Lessico del Nuovo Testamento, Il, 253-254.


26 Capitolo l

tiva kai biasrai ecc.) e soprattutto intonata alla concezione missionaria


dello seri ttore.2

A livello di Gesù di Nazaret dunque abbiamo questa sottolinea­


tura: il regno di Dio annunciato da Cristo come prossimo e irrom­
pente già nella storia non si afferma quale realtà trionfalmente vin­
citrice, ma passa attraverso processi di resistenze, persecuzioni e vio­
lenze. In breve, sembra di poter dire che Gesù non conosce qui alcu­
na <<santa» violenza.

3 . IL PRECETIO DI GESù DELLA NON-VIOLENZA

È testimoniato da Matteo e da Luca all'interno del discorso


della montagna. Luca lo presenta abbinato strettamente al coman­
do dell'amore dei nemici: <<Amate i vostri nemici, fate del bene a
coloro che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate
per coloro che vi maltrattano. A chi ti percuote sulla guancia, porgi
anche l'altra; a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica. Da' a
chiunque ti chiede, e a chi prende del tuo, non richiederlo>> (Le
6,27-30).
Segue l'enunciazione della regola d'oro normativa del compor­
tamento dei discepoli di Cristo: <<Ciò che volete che gli uomini fac­
ciano a voi, anche voi fatelo a loro» (v. 31). Quindi abbiamo le moti­
vazioni del precetto. La prima: si tratta di un comportamento gratui­
to, senza contropartita alcuna, assolutamente disinteressato, quindi
meritevole della ricompensa divina (vv. 32-35a). La seconda motiva­
zione dice che la non-violenza è nota qualificante dei figli di Dio:
« . . e sarete figli dell'Altissimo, perché egli è benevolo verso gl'ingra­
.

ti e i malvagi» (v. 35b). Il tutto si conclude con l'esortazione a imita­


re il Padre celeste nella sua misericordia (v. 36).
Matteo invece distingue accuratamente il precetto della non­
violenza da quello dell'amore dei nemici, presentati ambedue sotto
forma antitetica. Anzitutto l'evangelista contrappone la legge del
taglione al comando di Cristo della non-violenza: <<Avete udito che

21D Grande Lessico del Nuovo Testamelllo, Il, 257.


La mitezza di Gesù 27

fu detto: occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non


opporvi al malvagio, anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu por­
gigli anche l'altra>> (Mt 5,38-39).
l termini della seconda antitesi sono i seguenti: «Avete udito che
fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi
dico: amate i vostri nemici...» (Mt 5,43-44).
Seguono le due motivazioni già viste sopra nella versione luca­
na, ma in ordine diverso: « ... perché siate figli del Padre vostro, che
fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere
sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti se amate quelli che vi amano,
quale merito ne avete?>> (Mt 5 ,45-46).
Alla fine abbiamo una conclusione analoga a quella di Luca:
«Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste»
(v. 48).
Dal confronto delle due versioni si può risalire immediatamen­
te a un archetipo comune e ultimamente al pronunciamento stesso
di Gesù. Questi chiede di spezzare la catena infernale di risposta alla
violenza con la violenza ( occhio per occhio, dente per dente),
=

all'odio con l'odio o all'inimicizia con l'inimicizia. E questo si ottie­


ne con una risposta antitetica alla provocazione: se questa è ìntessu­
ta dì violenza e dì odio, la risposta deve essere dì non-violenza e dì
amore.
Più importante comunque si rivela l'orizzonte motivazionale del
precetto del Nazareno: la non-violenza e l'amore dei nemici caratte­
rizzano i figli del Padre celeste, chiamati a imitarne il comportamen­
to di amore indìscrìmìnato e benefico ( fa sorgere il suo sole su tutti
=

imparzialmente e altrettanto imparzialmente fa piovere su tutti). In


breve, la prospettiva di Gesù è la seguente: tale il Padre celeste, tali
i figli suoi in terra. La non-violenza e l'amore indiscriminato sono la
carta d'identità sia del Dio dì Gesù sia dei discepoli di Cristo, desti­
natari della sua parola.
E non si pensi che siamo usciti dal seminato e che la mitezza non
abbia alcun rapporto con la non-violenza e l'amore come risposta
all'odio e all'inimicizia. In realtà, questi costituiscono una variante
della mitezza.
28 Capitolo 2

4. ATTEGGIAMENTI E COMPORTAMENTI CONTRASTANTI DJ GESù

La mitezza di Gesù ha avuto modo di rivelarsi in non pochi


momenti della sua vicenda narrata nei vangeli. Così, in contrasto con
le maniere brusche con cui i discepoli cercavano di allontanare un
gruppo di bambini condotti a lui, egli non solo addita in loro le figu­
re paradigmatiche degli uomini umili e aperti al Regno, ma anche li
abbraccia e li benedice imponendo la mano sul loro capo (Mc 10,13-
16; Mt 19,13-15). Questa sua benevola accondiscendenza appare
tanto più sorprendente se si pensa che ai bambini la società e la cul­
tura del tempo non riservava molta considerazione: dopo tutto si
trattava di persone ancora incompiute, prive dunque dei diritti degli
adulti e del loro valore.
Di fronte al rifiuto di un villaggio di samaritani di ospitare la
compagnia diretta a Gerusalemme, Giovanni e Giacomo vogliono
invocare dal cielo il fuoco sterminatore su quegli empi; ma Gesù rim­
provera severamente i due focosi discepoli e prosegue il cammino
verso un altro villaggio (Le 9,51-55).
Nei racconti evangelici della passione poi si sono trasmessi alcu­
ni significativi ricordi del comportamento mite e disarmato di Gesù.
Con un bacio Giuda lo indica a coloro che erano venuti ad arrestar­
lo; ed ecco la sua reazione secondo Matteo e Luca: «Amico, per que­
sto sei qui!» (Mt 26,50); «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio del­
l'uomo?» (Le 22,48). Uno dei discepoli, identificato dal quarto evan­
gelista in Pietro, sguaina la spada e colpisce all'orecchio il servo del
sommo sacerdote; ma Gesù gli comanda di rinfoderare la spada (Mt
26,51-54; Gv 18,10-11). Tradotto quindi davanti al sommo sacerdote,
Gesù, percosso da un aiutante della suprema autorità religiosa giu­
daica, si limita a rilevare di essere stato colpito ingiustamente: «Se
ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene,
perché mi percuoti?>> (Gv 18,23).
Thtto ciò conferma, con l'eloquenza dei fatti, l'affermata mitez­
za e non-violenza di Gesù. D'altra parte, però, non mancano testimo­
nianze evangeliche che documentano sue reazioni dure e colleriche.
Così Mt 11,20-24 e Le 10,13-1 5 ci hanno conservato la sua severa
invettiva scagliata contro le città rivierasche del lago di Galilea, col­
pevoli di aver rifiutato il suo annuncio del Regno e l'appello conse-
La mitezza di Gesù 29

guente alla conversione: «Guai a te, Corazin! Guai a te, Betsaida!».


Ai farisei si rivolge con questi termini: <<Razza di vipere!» (M t 12,34).
Alcuni scribi e farisei gli chiedono, a dimostrazione della sua autori­
tà, un eclatante miracolo; ma egli rifiuta con decisione: «Generazio­
ne malvagia e adultera!>> (Mt 12,34; cf. 1 6,4). Si veda anche Mt 17,17:
«Generazione incredula e perversa>> (cf. Le 9,41 e Mc 9,19). Marco
da parte sua ci testimonia questa reazione di fronte a quanti Io accu­
savano di aver trasgredito il riposo sabbatico avendo guarito un
uomo dalla mano paralizzata: «E guardandosi tutt'intorno con colle­
ra, rattristato per la durezza dei loro cuori. . . >> (3,5). Ancor più cele­
bri, infine, le sue terribili invettive lanciate contro scribi e farisei, rei
di ipocrisia (cf. Mt 23,13-32; Le 1 1,39-48.52).
Ma se queste sono soltanto reazioni verbali, le testimonianze
evangeliche non ignorano anche un'azione non priva di violenza
compiuta contro i mercanti penetrati nell'area del tempio di Geru­
salemme e dissacranti il luogo sacro riservato alla preghiera. In
proposito Luca si limita a dire che Gesù, «entrato nel tempio,
cominciò a cacciare i venditori» ( 19,45). Marco e Mattco sono più
precisi: Gesù scaccia i venditori e compratori e rovescia i tavoli dei
cambiavalute e le sedie dei venditori di colombe (Mc 1 1 ,15; Mt
21,12) Ma è il quarto evangelista che non teme di dire: «Fatta allo­
.

ra una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori dal tempio con le


pecore e i buoi, gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rove­
sciò i banchi>> (Gv 2 15).
,

Come spiegare tutto questo? Sembra di poter dire che la mitez­


za di Gesù non deve essere scambiata per debolezza di carattere,
insensibilità di cuore, indifferenza di animo, rassegnazione passiva.
Le sue invettive, peraltro di tono profetico e in linea con la tradizio­
ne dei grandi profeti d'Israele dell'Antico Testamento, esprimono la
sua reazione viva e sanguigna, oserei dire, di fronte a una chiusura
preconcetta e altezzosa da parte della élite morale e religiosa della
società giudaica del tempo al suo lieto annuncio della prossimità del
regno escatologico di Dio e al suo pressante appello a sintonizzarsi
su questa lunghezza d'onda. Gesù ne è ferito profondamente e le sue
parole sferzanti ne sono la manifestazione. La causa della regalità
escatologica del suo Dio gli stava troppo a cuore e grande era il suo
amore e attaccamento per il suo popolo, perché potesse incassare in
30 Capitolo 2

modo olimpico e imperturbabile i rifiuti aprioristici e le negazioni di


persone che chiudevano gli occhi per non vedere.
L'ideale greco dell'uomo era caratterizzato dall'imperturbabilità
della persona, cioè dalla sua apatheia: non essere toccato da nulla e da
nessuno. Gesù invece si dimostra un uomo non privo di passionalità.
Anche il gesto profetico della liberazione dell'area del tempio
gerosolimitano dai profanatori si deve interpretare su questa linea di
vitalistica reazione alla sconsacrazione della casa del suo Dio, scon­
sacrazione per di più legittimata dall'autorità religiosa competente.
3.
L'IMMAGINE PATERNA DI DIO
NEL VISSUTO DI GESÙ*

La testimonianza dei vangeli, criticamente vagliata. non lascia


dubbio alcuno in proposito: Gesù ha parlato spesso di Dio padre.
Qui non si intende determinare il contenuto oggettivo di questa
immagine religiosa; vogliamo, invece, evidenziare come <<funziona>> il
simbolo religioso paterno nell'esistenza di Gesù, più precisamente
nel suo insegnamento e nel suo comportamento. Io altre parole:
quali prospettive di vita ha fondato in Gesù la coscienza di Dio come
padre? È questo il nostro interrogativo.
Per brevità di spazio ci si limiterà alla testimonianza dei vange­
li sinottici e, limitatamente a questo ambito, l'attenzione cadrà su
alcuni passi selezionati intenzionalmente. Lo studio del Vangelo di
Giovanni, dopo tutto, ci allontanerebbe dal vissuto di Gesù per
immergerci nella cristologia giovannea. Certo, anche Matteo, Marco
e Luca attualizzano il materiale tradizionale imprimendovi il sigillo
della loro personalità letteraria e teologica, ma in essi non appare
difficile rinvenire molti elementi arcaici e originari.
Nell'articolazione di questo contributo, il procedimento scelto è
stato quello di analizzare anzitutto i testi, per sintetizzare poi i risul­
tati in un paragrafo conclusivo.

l. SIMBOLO DI AMORE JNDISCRIMINATO

Il comandamento dell'amore ai nemici ci è stato trasmesso da


Matteo (5,43-48) e da Luca (6,27-28.32-36). All'imperativo: «Amate i
vostri nemici>> segue il riferimento a Dio: « . . .perché siate figli del

• In Servitium 16(1982)20, 135-143.


32 Capito/o 3

Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra
i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti>> (Mt 5,45).
Anche se non in forma esplicita, abbiamo, qui, la motivazione
del comandamento: Dio non fa discriminazione nella sua benefica
benevolenza; allo stesso modo devono comportarsi gli uomini, se
vogliono essere figli suoi. Come si vede, la figliolanza divina viene
fondata su base etica: dipende da una responsabile prassi umana in
sintonia con quella esemplare di Dio.
A differenza di Luca, in cui Dio è chiamato <<l'Altissimo>> (6,35),
Matteo parla espressamente del <<Padre vostro celeste>>. Si può
anche supporre che tale specificazione sia da attribuire al primo
evangelista, ma indubbiamente Gesù di Nazaret ha qui fatto uso del
simbolo religioso paterno. Ne fanno fede concordemente i due evan­
gelisti; appena dopo, Luca testimonia il seguente detto di Cristo:
«Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro>> (6,36),
e il passo parallelo di Matteo dice: <<Siate voi dunque perfetti come
è perfetto il Padre vostro celeste>> (5,48). Si tratti dell'amore miseri­
cordioso o della perfezione (= integrità di azione), resta identico il
motivo della imitazione del Padre.
Non c'è dubbio: l'immagine patema di Dio ha giocato in Gesù
come motivo e fondamento di una precisa determinazione dei rap­
porti interumani, improntandoli al codice etico dell'amore indiscri­
minato. L'amicizia, quindi, non è per Cristo la sola attuazione possi­
bile dell'amore. Non basta amare quelli che ci amano (cf. Mt 5,46; Le
6,32). In altre parole: il nemico non deve essere trattato da nemico,
rispondendo con inimicizia all'inimicizia, ma come un amico, spez­
zando così la catena perversa di reazioni negative.
Si noti bene: la prospettiva è quella dei rapporti interpersona­
li; allargarla al campo sociale e politico sembra un procedimento
arbitrario. Inoltre, l'amore non appare qui inteso in senso affettivo
o sentimentale; in realtà amare equivale a fare del bene al nemico;
l'amore denuncia nel comandamento una chiara valenza di prassi.
Si veda, in merito, il passo di Luca che specifica il motivo dell'amo­
re: <<E se fate del bene a coloro che vi fanno del bene, che merito
ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso>> (6,33). <<Amate inve­
ce i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla>>
(6,35).
L'immagine paterna di Dio nel vissuto di Gesù 33

Anche Matteo si colloca in tale solco: «<nfatti se amate quelli


che vi amano, quale merito ne avete?» (5,46).

2. SIMBOLO DI PERDONO rLLIMITATO

A conclusione del Padre nostro, l'evangelista Matteo riporta


questo detto di Cristo: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro
colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non
perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le
vostre colpe>> (6,14-15).
Il perdono finale di Dio è condizionato dal nostro perdono, con­
cesso ora, agli altri. Con qualche variante, il tema della correlazione
tra perdonare il prossimo ed essere perdonati da Dio appare più
volte nella tradizione evangelica. Si veda, anzitutto, il passo paralle­
lo di Marco: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro
qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli per­
doni a voi i vostri peccati>> (11,25).
Il perdono concesso agli altri risulta, in questo passo, finalizzato
a ottenere il perdono divino. Così anche è presente sotto forma di
supplica rivolta al Padre, nel Padre nostro: «Rimetti a noi i nostri
debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori>> (Mt 6,12). «Perdo­
naci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro
debitore>> (Le 1 1 ,4).
Sempre nella prospettiva del perdono divino finale, possiamo
citare la conclusione della parabola del servitore spietato: «Così an­
che il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di
cuore al vostro fratello» (Mt 18,35).
La dinamica del racconto parabolico invece inverte il rapporto:
proprio perché ha ricevuto un generoso condono del suo enorme
debito, il servitore deve condonare il piccolo debito al suo debitore.
Detto altrimenti: da perdonati, per grazia, da Dio, non possiamo non
perdonare al fratello.
In ogni modo, Gesù ha tradotto l'immagine patema di Dio nel­
l'esigenza di accordare un generoso e illimitato perdono a chi ci
offendesse o comunque mancasse nei nostri confronti. Il simbolo
religioso del Padre, di fatto, ha creato in Gesù il codice etico della
condanna di ogni rappresaglia o vendetta.
34 Capitolo 3

Non ci si sbagli: il perdono è ben più che un'amnistia; esso inci­


de profondamente sul rapporto interpersonale. Dice ottimamente
Bultmann:
Se una persona ha mancato - per non dire che ha peccato - contro
un'altra, niente se non il perdono di questa ultima può restaurare l'an­
tico rapporto. E questo perdono non può poggiare su un dosaggio,
quasi che ci sia ancora molto di buono e degno di apprezzamento nel­
l'lo tale che il Th possa passar sopra allo sbaglio. Infatti. il rapporto è
distrutto totalmente dalla mancanza, e l'Io è diventato completamente
estraneo al Tu. L'amore, che esisteva una volta, poggiava - se era auten­
tico - non su certi pregi dell'lo, bensì si estendeva a tutta la persona. E
questa ora sta interamente, non essendo stata salda nella decisione,
davanti al Th come un'altra persona, e non l'aiutano per nulla tutti i
suoi pregi e le sue possibilità di progresso. Una cosa soltanto la può
aiutare: se capita qualcosa di nuovo, se il Th ha la forza di perdonare
all'lo e di renderlo con questo un nuovo Io. Se capita qualcosa di
nuovo - cioè il perdono, che può diventare avvenimento -, non è qual­
cosa di deducibile dall'essenza del Th, qualcosa su cui l'lo può contare
(altrimenti non sarebbe certamente degno di riceverlo), ma proprio un
avvenimento, che ha origine dalla libera bontà del Th, puro dono. 1

3. SIMBOW DI CORAGGIO E FIDUCIA NEL MONDO

Un altro brano importante del discorso della montagna mostra


quale profonda incidenza abbia avuto in Gesù l'immagine patema di
Dio. Egli non si nasconde che l'uomo deve fronteggiare dure prove e
che la sua esistenza è minacciata da incombenti pericoli ed è esposta
a paurosi rischi. Le stesse elementari necessità umane non sempre
trovano adeguato e sicuro soddisfacimento. Eppure, la consegna di
Cristo è un ripetuto appello a non lasciarsi paralizzare dalla paura:
<<Per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berre­
te, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete [ . . . ]. E per­
ché vi affannate per il vestito? [ . . . ] Non affannatevi dunque dicendo:
Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?
[ . . . ] Non affannatevi dunque per il domani>> (Mt 6,25.28.31.34).

1 R. BuLTMANN , Gesù, Brescia 1972, 263-264.


L'immagine paterTUl di Dio nel vissuto di Gesù 35

Ed ecco il motivo addotto: «Di tutte queste cose si preoccupa­


no i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno»
(Mt 6,32).
Merita di essere citata anche la conclusione del brano parallelo
di Luca: «Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è pia­
ciuto di darvi il suo regno>> (12,32).
Si badi bene: Gesù non intende suggerire un ingenuo ottimismo,
tanto meno invita a un irresponsabile atteggiamento di disimpegno,
prospettando un provvidenzialismo magico. Il riferimento al Padre, in
realtà, giustifica ai suoi occhi una coraggiosa e fiduciosa presenza del­
l'uomo nella storia e nel mondo, di fronte alle inevitabili difficoltà e
lotte. Egli vuoi dire: non ci si lasci afferrare dal panico o dalla dispe­
razione, né tanto meno ci si rassegni; si <<aggredisca>> invece la vita.
In breve, l'immagine religiosa di Dio padre è matrice di un'im­
magine dell'uomo non dimissionario nel mondo, bensì attivo e
coraggiosamente impegnato.

4. SIMBOLO DElLA FRATERNITÀ E DELL'UGUAGLIANZA

Nella parabola del figlio prodigo (Le 15,1lss) si distinguono net­


tamente due parti. La prima (vv. 11-24) racconta la riconciliazione
del prodigo, andatosene di casa, con il padre: riconciliazione restau­
ratrice di rapporti filiali rotti. Il prodigo infatti, scusandosi e doman­
dando perdono, supplica di essere riammesso nella casa paterna solo
come servitore: <<Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho
peccato contro il cielo e contro di te; non sono più degno di esser
chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni» (vv. 18-19;
cf. anche il v. 21 ).
Ma il padre lo accoglie proprio come figlio, perduto e ora ritro­
vato, morto e ora ritornato in vita (v. 24). Per questo lo fa rivestire e
adornare e dà ordine di festeggiare adeguatamente l'evento.
Ci aspetteremmo la conclusione a lieto fine della storia. Invece il
racconto continua, perché la vicenda, per essere completa, dovrà
anche occuparsi dell'accoglienza del prodigo da parte del fratello
maggiore. Infatti, come potrà quello rientrare a pieno titolo nella casa
patema senza il sì di quest'ultimo? Di fatto, sorgono impreviste diffi­
coltà: di ritorno dai campi e saputo che si stava preparando una gran-
36 Capitolo 3

de festa per il prodigo appena ritornato, il fratello maggiore si rifiuta


di parteciparvi. E al padre, che lo invita a entrare nella sala del ban­
chetto, risponde secco, indicando il prodigo con l'espressione «questo
tuo figlio» (v. 30). Si rifiuta cioè di riconoscere il fratello come fratel­
lo. Da parte sua il padre insiste proprio sul legame fraterno che unisce
i due: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era
morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato>> (v. 32).
Indubbiamente è in questa seconda parte che la parabola ha il
suo punto di forza; parabola, del resto, aperta, perché non dice se il
fratello maggiore sia entrato o no nella sala del banchetto. L'intento
del narratore appare chiaro: non basta riconciliarsi con il padre per
rientrare nella casa paterna; è necessaria anche la riconciliazione con
il fratello. Detto altrimenti, per essere pienamente soddisfacente, il
rapporto padre-figlio ha bisogno di un soddisfacente rapporto fratel­
lo-fratello. E tutto ciò, secondo Gesù, illustra plasticamente che
genuinità del rapporto religioso con il Padre celeste postula fraterni­
tà nel rapporto orizzontale con gli altri. In particolare, egli si riferiva
con tutta probabilità al popolino della campagna ( 'am haarez ),
disprezzato dai fedelissimi osservanti della legge, cioè dai farisei, ma
accolto con grazia e misericordia da Dio, che vuole da quelli un ana­
logo comportamento di accoglienza.
In ogni modo, per noi è importante annotare che il simbolo reli­
gioso della paternità divina presente in Gesù ottiene la seguente tra­
duzione antropologica ed etica: la fraternità umana deve essere rico­
nosciuta anche al di là del merito e della dignità dell'altro.
Un'analoga prospettiva appare in un passo originale di Matteo.
Gesù esorta i suoi discepoli: «Ma voi non fatevi chiamare "rabbi",
perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non
chiamate nessuno "padre" sulla terra, perché uno solo è il Padre
vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare "maestri", perché uno
solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro
servo>> (23,8- 1 1 ).
Non dobbiamo !imitarci a rilevare le due affermazioni comple­
mentari e correlative: abbiamo Dio come Padre; siamo tutti fratelli.
Infatti, che il simbolo religioso della paternità divina porti a far vale­
re tra gli uomini il codice della fraternità, risulta anche dalla pura e
semplice affermazione di Dio-padre. Il nostro testo va oltre e nega
L'ùnrruJgine paternJJ di Dio nel vissuto di Gesù 37

l'esistenza di ogni «paternità>> tra i discepoli di Cristo: nessuno deve


ergersi a <<padre>>, leader o maestro. Dio non è solo il Padre, ma
anche l'unico Padre. Gesù esclude così rapporti di sudditanza da una
parte e di padronato dall'altra.
In breve: il codice della fraternità, postulato dal simbolo del­
l'esclusiva paternità divina, si traduce di fatto nel codice dell'ugua­
glianza.

5. SiMBOLO DI RICONOSCIUTA DIPENDENZA

Il Vangelo di Marco ci ha conservato il termine aramaico con cui


Gesù supplicava Dio Padre: Abbà (14,36). Si riconosce la sua origi­
nalità; il giudaismo del tempo si rivolgeva di regola a Dio chiaman­
dolo abi, abina (padre mio, padre nostro). Abbà invece, significativo
di familiarità e usato dai bambini per chiamare il loro papà, non
appare mai nelle preghiere giudaiche. Gesù ha certamente innovato
la prassi di orazione, mostrando una lucida coscienza filiale che lo
spingeva a un rapporto libero e confidente con Dio.
Per noi però appare più importante determinare quale influsso
ha avuto tale coscienza religiosa nella sua vita. Il passo del secondo
vangelo, inquadrato nel contesto della vigilia della morte, esprime
l'atteggiamento interiore di Gesù di fronte alla prova che l'attende.
Cosi prega: «Abbà, Padre! Thtto è possibile a te, allontana da me
questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tU>> (Mc
14,36). Vorrebbe poter evitare la morte incombente, ma poi, ricono­
scendovi il segno della volontà del Padre, dichiara la sua obbedien­
za. In altre parole, riconosce la sua dipendenza dal progetto divino.
Il simbolo della paternità divina gioca dunque in lui come anti­
doto a ogni sogno di infantile onnipotenza, portandolo ad accettare,
con tutte le conseguenze, la propria creaturalità di uomo. Non si erge
a dio di se stesso.

6. VALUTAZIONE CONCLUSIVA

Di fatto, Gesù ha vissuto l'esperienza religiosa con una forte


consapevolezza della paternità divina. Sul piano valutativo diventa
di estremo interesse emettere un giudizio non tanto sul rapporto
38 l' • ·.l� :•. , , Capilo/o 3

verticale da lui instaurato con Dio, quanto sull'incidenza che quella


immagine religiosa ha avuto nella sua esistenza.
La risposta non appare proibitiva. Per dirla in una frase, il sim­
bolo religioso paterno ha suscitato in lui forze liberatorie e insieme
creatrici di vita; e un'analoga funzione può esercitare in noi. In par­
ticolare, esso è capace di liberare dall'azione discriminatrice che per­
petua lo stato d'inimicizia invece di combatterlo, facendo valere il
comandamento dell'amore indiscriminato. Esclude la rigidità con cui
ci si vendica di chi si è reso colpevole nei nostri confronti, sostituen­
dovi la dinamica del perdono. Evita che la paura ci paralizzi. chia­
mandoci a vivere con coraggio e fiducia in questo mondo. Riscatta i
rapporti dal meccanismo perverso della sudditanza e dell'imposizio­
ne <<padronale>>, aprendo spazi illimitati a una fraternità di uguali.
Infine, preserva dalla tentazione di innalzarsi a onnipotenti detento­
ri del proprio destino, creando un adulto riconoscimento della pro­
pria dipendenza di creature.
Il simbolo religioso della paternità divina non si è dimostrato in
Gesù una catena che lega gli schiavi alla stanga, né una realtà alie­
nante, né tanto meno un fattore di morte e di mortificazione dell'uo­
mo. Al contrario, si è tradotto in codici etici altamente positivi, ap­
punto dell'amore senza discriminazione, della riconciliazione senza
limiti, della fraternità senza finzioni, dell'uguaglianza più radicale e
della dipendenza riconosciuta.
4.
CRISTO PRINCIPE DELLA PACE*

La liturgia ha attribuito a Gesù questo titolo, interpretando in


chiave cristologica un famoso passo del profeta Isaia. Su questa linea
ermeneutica intendo presentare, dapprima, una lettura dell'espres­
sione isaiana, inquadrandola nel suo contesto letterario e storico,
quindi vorrei tentare una sua rilettura alla luce di un testo della Let­
tera agli Efesini di straordinaria densità teologica.

l. IL PRINCIPE DELLA PACE NELLA PROMESSA DI ISAIA

La formula è attestata in Is 9,5: « . . . ed è chiamato: consigliere


ammirabile, dio potente, padre per sempre, principe della pace>>. Si
tratta di titoli aulici che il linguaggio del tempo, usato non solo in
Israele ma anche e soprattutto nelle corti orientali, attribuiva al re
probabilmente durante il rito solenne della sua incoronazione. Qui il
profeta Isaia, attivo nell'ultimo quarantennio del sec. VIII, lo fa suo
per esprimere fiducia e speranza in tempi assai calamitosi, quando
Israele soffriva per il prepotente dominio degli assiri. La terra di
Zabulon e di Neftali, la parte settentrionale del paese, era stata umi­
liata (9,1) e il popolo camminava nelle tenebre (9,l). lsaia promette
glorificazione delle terre calpestate dall'oppressore (9,1), splendore
e gioia per gli oppressi (9,1-2). Dio stesso spezzerà il giogo (9,3) e il
popolo getterà nel fuoco gli strumenti di guerra (9,4). Segno tangibi­
le della pace promessa è la nascita di un discendente davidico, pegno
della fedeltà divina al popolo: «Poiché un bambino è nato per noi, ci
è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è
chiamato . » (9,5).
. .

• In Servitium 26(1992)81, 252-259.


40 Capito/o 4

Di tutti i titoli il più importante è senz'altro l'ultimo: principe


della pace. Trattandosi di un re si comprende bene che lo si chiami
«principe» (sar) , rappresentante in terra dell'unico re (melek)
YHWH. Il genitivo invece indica il suo ruolo e il risultato della sua
azione: creatore di pace in seno al popolo. Ma in che modo farà tutto
questo? Eserciterà un dominio grande e procurerà pace eterna, ma
<<con il diritto e la giustizia>> (9,6). Dunque non lo si presenta nelle
vesti di stratega militare e potente vincitore, ma quale servitore della
giustizia, cioè difensore efficace dei «poveri>> e dei deboli, come si
vedrà in altri testi. Dunque un principe creatore di pace intesa come
frutto di giustizia da lui resa.
Un passo parallelo è ls 1 1,1-5, che pure fa parte del libretto del­
l'Emrnanuele (cc. 7-11 ) . Il profeta esalta il discendente di Davide,
dotato di qualità «spirituali>> di governo: «Su di lui si poserà lo spiri­
to del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio
e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore>> (v. 2).
Così equipaggiato potrà adempiere al meglio al suo ruolo: «Non giu­
dicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito
dire; ma giudicherà con giustizia i miseri e prenderà decisioni eque
per gli oppressi del paese» (vv. 3b-4a).
Ancora una volta le speranze sono riposte nell'attività «giudi­
ziale>> del re: da lui ci si attende che renda giustizia agli oppressi. La
sua è una giustizia «partigiana», a favore degli strati più deboli della
società che si vedevano costantemente misconosciuto e calpestato il
loro buon diritto. Infatti la magistratura troppo spesso era corrotta,
«comprata>> dai più forti. Per gli indifesi l'unica speranza era che il re
si schierasse dalla loro parte contrastando efficacemente i prepoten­
ti. Il profeta si fa qui interprete delle loro attese e speranze: «Un ger­
moglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle
sue radici [ . . . ]. Fascia dei suoi lombi sarà la giustizia>> (llJ .Sa).
Un'ultima precisazione di grande interesse ci offre il testo isaia­
no: l'atteso re davidico, della stirpe di lesse, farà giustizia ma senza
alcuna violenza; il suo braccio non è armato; è in realtà con la paro­
la che agisce creando giustizia: «La sua parola sarà una verga che
percuoterà il violento, con il soffio delle sue labbra ucciderà l'em­
pio>> ( 1 1 ,4b). Il linguaggio violento - percosse, uccisioni - resta ma
appare svuotato di ogni violenza fisica. La vittoria sul prepotente,
Cristo principe della pace 41

necessaria perché giustizia sia resa all'oppresso, è perseguita su vie


non violente.
Per completezza vorrei citare un passo del Deutero-Zaccaria,
che a distanza di secoli ha ripreso il filone «messianico» davidico
del grande Isaia: «Esulta grandemente figlia di Sion, giubila, figlia
di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. È giusto e vittorioso,
umile, cavalca un asino, un puledro figlio di asina. Farà sparire i
carri da Efraim e i cavalli da Gerusalemme, l'arco di guerra sarà
spezzato, annunzierà la pace alle genti, il suo dominio sarà da mare
a mare e dal fiume ai confini della terra» (Zc 9,9-10). Si tratta sem­
pre del re di Gerusalemme capace di creare pace distruggendo le
armi, ma qui l'orizzonte è universale: la pace viene da lui annunzia­
ta alle genti. Dunque pace all'interno dei confini del popolo e pace
in ambito internazionale; inoltre pace attraverso il disarmo più
radicale.
In breve, abbiamo qui una costellazione di categorie assai signi­
ficativa: pace-giustizia-disarmo-non violenza.

2. CRISTO CREATORE DI PACE

La Lettera agli Efesini è della scuola di Paolo, la stessa che ha


composto quella ai Colossesi Alla morte del grande maestro un
gruppo di suoi discepoli ne ha continuato, non senza originalità, il
lavoro teologico di riflessione sul mistero di Gesù. In particolare si
sono interessati della risonanza universale e cosmica dell'evento di
Cristo.

2.1. Le due metà della terra

Il mondo era allora profondamente diviso in due parti contrap­


poste e nemiche. La minoranza ebraica non era senza consistenza
numerica se è vero che nell'impero romano, che poteva contare su
una sessantina di milioni di abitanti, uno su otto era ebreo. Soprat­
tutto era una minoranza molto combattiva nella diaspora: un milio­
ne di ebrei abitavano in Egitto, di cui circa centomila nella capitale
Alessandria; altrettanti ebrei erano nella penisola anatolica; a Roma
il numero doveva essere di circa 30.000 unità, organizzati in diverse
42 Capitolo 4

sinagoghe. Erano animati da un forte senso di identità e di superio­


rità religiosa e morale e disprezzavano i pagani, adoratori degli dèi
falsi e bugiardi e inclini a ogni sorta di nefandezze sessuali, davanti
ai quali ostentavano la propria credenza monoteistica e il loro eleva­
to livello etico di vita soprattutto in campo sessuale. Anche la tradi­
zione evangelica ci ha conservato lo spregiativo titolo di <<cani>> con
cui bollavano gli incirconcisi (Mc 7,27 e Mt 15,26).
Ma ne erano ripagati e a usura dal mondo pagano. A parte spo­
radici ma non per questo meno dolorosi pogrom, come quello del 38
d.C. che sotto Caligola ad Alessandria d'Egitto fece molte vittime tra
la diaspora giudaica, circolavano accuse infamanti e si ripetevano
calunnie insistite, di cui Tacito nel libro V delle Historiae offre un
campionario. Nel paese di Giudea <<è profano tutto ciò che per noi è
sacro, al contrario sono permesse presso di loro le cose che per noi
sono immorali>>. I giudei nutrono <<Un odio ostile contro tutti gli
altri>>. Si tratta di un popolo <<soggetto alla superstizione e nemico
delle pratiche religiose>>. Non si mancò nemmeno, a partire da De­
mocrito, di attribuire loro la pratica dell'omicidio rituale.

2.2. La croce di Cristo «segno» di pace

L'autore della Lettera agli Efesini, iniziato da Paolo, ripensa al


senso che può avere l'evento di Cristo in un'umanità divisa da frat­
tura così odiosa. Giunge alla conclusione che Gesù, con la sua morte
in croce, ha abbattuto il muro di separazione, la barriera di inimici­
zia e di odio che teneva divisi giudei e gentili, le due metà dell'uma­
nità del tempo, riconciliandole e pacificandole.
Ecco il testo che si rivolge direttamente a credenti dal passato
pagano (2,1 1 -19), che presentiamo in forma strutturata e con oppor­
tune sottolineature:
Prima strofa:
Perciò ricordatevi che un tempo voi, pagani neUa carne, detti prepuzio
da quelli chiamati circoncisi nella carne con circoncisione fatta a mano,
eravate a quel tempo senza messia, esclusi dalla cittadinanza d'Israele
ed estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel
mondo (vv. 11-12}.
Cristo principe della pace 43

Seconda strofa:
Ora invece in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diven­
tati vicini per mezzo del sangue di Cristo (v. 13).
Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto di ambedue una sola cosa
e che ha abbattuto il tramezzo del muro divisorio, che ha annullato
l'inimicizia nella sua carne, la legge fatta dei comandamenti in decreti,
per creare in lui dei due un solo uomo nuovo, facendo pace e per ricon­
ciliare entrambi in un solo corpo con Dio mediante la croce, uccidendo
l'inimicizia (vv. 14-16).
E venuto ha proclamato pace a voi lontani e pace ai vicini, poiché
mediante lui abbiamo ambedue l'accesso al Padre in un solo Spirito
(vv. 17-18).

Terza strofa:
Perciò non siete più stranieri né forestieri, ma siete concittadini dei
santi e familiari di Dio (v. 19).

Anzitutto viene richiamato il passato pagano che sta alle spalle


dei credenti destinatari dello scritto: <<Un tempo» (pote due volte) . <<a
quel tempo>>. La loro situazione religiosa è descritta in termini di
esclusione, estraneità, privazione rispetto al mondo ebraico caratte­
rizzato da inclusione, cittadinanza, possesso. E si tratta di una condi­
zione chiusa anche sul futuro: «senza speranza». Si potrebbe espri­
mere la cosa con gli avverbi «fuori>> e «dentro»: gli uni sono fuori
dello spazio positivo di vita e salvezza, mentre gli altri vi stanno den­
tro. La separazione è tale da escludere la possibilità di quelli di fuori
di entrare dentro, a meno di rinunciare alla loro identità culturale
assimilandosi a quelli di dentro con la circoncisione. In una parola, le
due metà dell'umanità, dal punto di vista religioso, vivono in stato
rispettivamente di handicap e di privilegio. L'autore della lettera ha
richiamato tale passato soltanto per evidenziare la svolta epocale
avvenuta per mezzo di Cristo. Questi ha creato loro un presente che
non fosse la ripetizione monotona del passato, dunque una situazio­
ne nuova: «Ora invece». La situazione si è letteralmente capovolta:
da lontani son diventati vicini. L'immagine è sempre spaziale e nella
sua valenza comunicativa ripete l'antitesi «fuori-dentro». Lo devono
a Cristo, in particolare alla sua morte, espressa plasticamente con il
vocabolo «sangue» che nella tradizione biblica dice violenza inferta
44 Capilolo 4

e patita. Un evento storico di violenza che ha sconvolto l'assetto del


mondo! Ma come è stato possibile?
La ragione addotta è che <<egli è la nostra pace» . Anzitutto, l'ag­
gettivo possessivo appare significativo: l'umanità non è più vista
nella frattura, bensì come un universale <<noi>> che non lascia fuori
nessuno ed è unito sotto il segno della pace. Questa è dunque supe­
ramento delle contrapposizioni <<fuori-dentro», <<lontani-vicini»,
«incirconcisi-circoncisi», e annullamento della bipolarità <<handi­
cap-privilegio», come si vedrà più esplicitamente subito dopo. Inol­
tre ha bisogno di spiegazione la formula: Cristo è la pace. Come
interpretare il verbo essere? Il testo stesso della lettera s'incarica di
precisare e lo fa con tre verbi all'aoristo tutti espressivi di azione: ha
fatto (poieo), ha sbriciolato (lyo), ha annullato (katargeo). Cristo è
la pace nel senso che ha operato efficacemente per la pace,
costruendola. Egli è stato l'artefice della pace. La forma aoristica
dei verbi poi indica un fatto preciso, puntuale, situato in un determi­
nato momento e luogo della storia. Il riferimento è alla morte vio­
lenta (cf. vv. 13 e 16).
La triplice azione creatrice di pace dunque non indica una suc­
cessione di atti, ma esprime in maniera diversa l'efficacia complessi­
va dell'unico evento della morte violenta . Di ambedue le grandezze
in cui era divisa l'umanità il crocifisso ba fatto una sola grandezza (ta
amphotera e en al neutro). La pace si crea là dove due parti contrap­
poste e nemiche diventano un'unità. Ma si badi bene, non unità per
volontaristica decisione mantenendo inalterate le ragioni e le cause
della separazione, ma spazzando via le barriere divisorie erette a
difesa del privilegio e a perpetuazione dell'handicap, distruggendo il
simbolo culturale di esclusione/inclusione o di <<fuori-dentro» che
intesse la rete dei rapporti tra persone, gruppi, popoli, emisferi terre­
stri. È appunto ciò che specifica il secondo verbo: ha sbriciolato il
tramezzo del muro divisorio. Non si fa pace o unità al di sopra delle
divisioni, mantenendo gli uni «fuori» e gli altri <<dentro».
Il terzo verbo attivo indica qual è tale muro divisorio: l'ini­
micizia . La pace creata da Cristo in croce consiste nell'annullamen­
to del codice della <<nemicità». Il verbo usato, katargeo, vuoi dire
esattamente rendere inoperante, impotente, inattivo. La pace tra
nemici si costruisce sottraendosi al raggio d'influsso del codice della
Cristo principe della pace 45

«nemicità>>, negandosi come suo campo di azione, rendendo attiva


nella propria vita la dinamica opposta dell'amicizia. Ma ancora una
volta non è sul piano volontaristico che Cristo ha condannato all'im­
potenza l'inimicizia esistente tra pagani ed ebrei. Egli è andato alla
radice, annullandone la fonte, togliendone di mezzo la causa, appun­
to la legge ebraica fatta di comandamenti e di precetti. Questa era
infatti la materia da cui era formato il muro divisorio, la ragione del­
l'inimicizia. Propriamente non è in questione il semplice possesso
della legge e la nuda privazione. In realtà quelli che la possedevano,
la vivevano come titolo della propria superiorità sugli altri e motivo
del loro disprezzo per gli altri; quelli che ne erano privi, si vantava­
no polemicamente, dunque in maniera aggressiva, della loro posizio­
ne di non circoncisi e ricambiavano il disdegno. Tutto ciò nasceva
dallo spirito di separatezza, imposto dalla legge, che animava la vita
dei giudei nella diaspora: non partecipavano alla vita rituale della
città, ma avevano riunioni religiose proprie; non riconoscevano gli
dèi della polis e adoravano come unico dio YHWH; non mangiava­
no carne macellata nelle macellerie pubbliche; rifiutavano determi­
nati cibi, come carne di maiale; di sabato riposavano; avevano otte­
nuto da Cesare e Ottaviano il privilegio dell'esenzione dal servizio
militare. Erano, in forza della legge mosaica, dei diversi e dei separa­
ti «ideologici». Non per nulla la legge era stata definita nell'antico
rabbinismo una «siepe». L'immagine ha lo stesso significato di muro
divisorio, della bipolarità «fuori-dentro» il recinto, esclusione-inclu­
sione. Ancor più indicativo in proposito è comunque un passo della
Lettera di A ristea, 139: Mosè «Ci ha circondati con una trincea inva­
licabile e con mura di ferro, perché non ci mescolassimo minima­
mente con gli altri popoli».
Ora Cristo ha reso inattiva l'inimicizia annullando la legge. Que­
sta resta, ma declassata a pura caratteristica culturale, a segno di
diversità, e nulla più. Non continua a essere ragione di superiorità
degli uni sugli altri, motivo di disprezzo e causa di aggressività. Non
costituisce più muro divisorio, determinando il «fuori» degli uni e il
«dentro» degli altri rispetto al luogo della salvezza. Questo è ormai
diventato Cristo stesso e in maniera esclusiva ed egli lo è indiscrimi­
natamente per tutti, circoncisi e incirconcisi. È così che ha creato la
pace: eliminando non le diversità, ma lo spirito di separatezza con
46 Capitolo 4

cui sono vissute, cioè al modo del privilegio e dell'handicap, del


«dentro>> e del «fuori>> lo spazio della vita.
Della triplice azione di Cristo insita nell'evento della sua morte
violenta sono ora indicate due finalità che esprimono di fatto il senso
insito già in quell'agire. La prima: a partire dai due popoli Cristo ha
perseguito la creazione di una sola umanità nuova. L'unione non è
pura somma di parti, ma viene costruila mescolando le carte, direm­
mo noi. L'umanità unita è animata da nuovi codici di vita, avendo
dismesso il codice dell'inimicizia. E così Cristo è stato facitore di
pace, come conclude il periodo:poion einenen.
La seconda finalità intrinseca all'azione del Crocifisso è la ricon­
ciliazione di entrambi con Dio così da formare un solo corpo. Cristo
ha superato non solo la frattura orizzontale dell'umanità, ma anche
quella verticale con Dio. Ancora una volta il testo parla di inimicizia,
che Cristo ha ucciso in se stesso. Se sopra era l'inimicizia tra pagani
ed ebrei, ora sembra in primo piano quella religiosa degli uomini che
hanno rotto col peccato ogni rapporto con Dio. Non manca però l'at­
tenzione al superamento della frattura sociologica, perché le due
parti contrapposte dell'umanità sono parimenti e indiscriminata­
mente riconciliate.
All'azione creatrice di pace di Cristo crocifisso viene abbinato il
suo lieto annuncio, il suo vangelo (euaggelizomai): pace ugualmente
ai vicini e ai lontani. L'autore è ricorso alle parole del profeta Isaia
(57,19; cf. anche Zc 9,10: annuncio della pace alle genti). Il vangelo
della pace è proclama efficace, non pura notificazione. E la conse­
guenza è l'entratura (prosagoge) al Padre, resa possibile dallo Spiri­
to, disponibile ad entrambi, senza discriminazione.
Il brano è concluso da un periodo che riassume la suddetta con­
trapposizione propria dei destinatari della lettera tra il passato («un
tempo>>) e il presente (<<non più») (v. 19). I termini opposti sono:
«stranieri>> (chi è di passaggio in terra straniera e non è protetto in
alcun modo) e <<forestieri» (residenti in terra straniera con alcuni
diritti, ma privi della cittadinanza) da una parte, «concittadini>> e
«familiari>> dall'altra. Il punto di riferimento, secondo cui sono stati
in passato in situazione di privazione e al presente in situazione di
possesso, è la cittadinanza (politeia) dei santi e la casa (oikia) di Dio.
5.
GESÙ E PAOLO DI FRONTE
ALLA MALATTIA E ALLA SOFFERENzA•

Il confronto tra l'atteggiamento del Nazareno e l'orientamento del


suo apostolo appare qui, come altrove, molto istruttivo. Esso evidenzia
due approcci diversi, ma complementari. alla stessa realtà della malat­
tia e della sofferenza. Gesù di Nazaret vi si rapporta con piglio libera­
tore: la malattia e la sofferenza sono un male che mortifica l'uomo, un
male da cui liberare la persona colpita per restituirle un'umanità inte­
gra, vitale e armonica; lo richiede il senso della sua missione di salvez­
za che egli non restringe riduttivamente alla sfera dello spirituale o del­
l'anima, come siamo soliti dire. A tale prospettiva, che qualificheremo
come <<messianica>>, si abbina quella specifica di Paolo che possiamo
definire con il termine <<mistica»: dati i dolorosi contraccolpi della sua
missione evangelizzatrice e pastorale sulla propria persona, si capisce
che egli sia stato spinto a dare un senso positivo alla sua esperienza
dolorosa, che finisce per far corpo con la sua predicazione e la sua azio­
ne di pastore d'anime; Paolo, infatti, vive la propria malattia e sofferen­
za come partecipazione profonda alla passione di Cristo; di conseguen­
za la malattia e la sofferenza, non prive di conflitti interiori, gli appari­
ranno come fonte di grazia e di vita per i destinatari del suo vangelo e
sigillo autenticante del suo apostolato.

l. <<EGLI HA PRESO LE NOSTRE INFERMITÀ E HA PORTATO LE MALATTIE»1

È un passo del libro di Isaia (53,4) che soltanto Matteo, tra i


sinottici, non escluso nemmeno Giovanni, riporta: chiaro indizio di

• In Servitium 23(1989)64. 361-369.

1 Qui come più avanti la traduzione è nostra, condotta sul testo greco originale.
48 Capitolo 5

una particolare attenzione, da parte del primo evangelista, nel nar­


rare e interpretare l'approccio di Gesù di Nazaret alla realtà dolo­
rosa della malattia umana (cf. 8,17). Per limitare il campo d'indagi­
ne - ed esigenze di spazio non consentono scelta diversa - sarà qui
tralasciata l'indagine su Marco e Luca e ancor più sul Vangelo di
Giovanni. L'attenzione circoscritta a Matteo d'altra parte nasce
appunto dalla particolare sottolinea tura, da parte del primo evange­
lista, dell'elemento tradizionale: Gesù è stato guaritore di malati. In
concreto, il nostro sguardo sarà puntato sulla specifica teologia mat­
teana che ha valutato le guarigioni di Gesù anzitutto come versan­
te caratteristico della sua attività e quindi quale fattore qualificante
della sua missione messianica. In realtà questo secondo aspetto non
fa che completare il primo. Possiamo così anticipare la tesi teologi­
ca di Matteo: Gesù è autentico messia in quanto guaritore di mala­
ti; il suo essere profondo è stato disvelato nella sua azione concre­
ta, azione terapeutica.

1.1. Gesù terapeuta

Voglio insistere sul termine usato: «terapeuta». Matteo ricorre


al verbo corrispondente therapeuein con maggior frequenza rispetto
ai colleghi evangelisti: esattamente 16 volte a fronte delle 5 di Marco
e delle 14 di Luca. Questa statistica però ancora non dice tutto e
nemmeno la cosa più importante. In realtà, Matteo si caratterizza
per il posto assegnato all'attività terapeutica del Nazareno nel qua­
dro complessivo della sua azione. Il primo evangelista infatti così sin­
tetizza ciò che Gesù ha detto e fatto, vale a dire la sua storia: «E
Gesù andava in giro per tutta la Galilea insegnando (didaschòn)
nelle loro sinagoghe e proclamando (keryssòn) il vangelo del regno
e guarendo (therapeuòn) ogni malattia e infermità (presente) nel
popolo>> (4,23).
Dunque attività didascalica, kerygmatica e terapeutica; Gesù è
stato maestro, araldo del vangelo del regno, terapeuta. Le prime due
linee del suo agire sono di timbro verbalistico o declamatorio; la
parola infatti vi sta al centro: esattamente una parola <<scolastica» o
di insegnamento, che Matteo intende specificamente in rapporto alla
legge di Dio promulgata al Sinai e di continuo letta nelle sinagoghe
Gesù e Paolo di fronte alla malania e alla sofferenza 49

ebraiche frequentate di regola da Gesù intento a interpretare le esi­


genze del volere di Dio codificate nei libri sacri e soprattutto nella
legge di Mosè; ma anche una parola annunciatrice di un lieto even­
to, di risonanza epocale, e cioè che Dio sta per diventare re nella sto­
ria a difesa degli indifesi e a liberazione degli oppressi. La terza com­
ponente delle funzioni esercitate dal Nazareno invece è di carattere
operativo: egli ha guarito i malati presenti nel popolo e lo ha fatto
senza limiti (<<ogni>> malattia e <<ogni>> infermità: non tanto un dato
cronistico quanto un'interpretazione di fede).
Lo stesso sommario appare più avanti in chiusura del c. 9: «E
Gesù andava in giro per le città tutte e i villaggi, insegnando
(didaschon) nelle loro sinagoghe e proclamando (kerysson) il vange­
lo del regno e guarendo (therapeuon) ogni malattia e ogni infermi­
tà» (v. 35).
Si tratta di una ripetizione molto significativa; racchiudendo il
materiale dei cc. 5-9 con tale sommario, che fa da cornice, l'evange­
lista intende sviluppare appunto in questi capitoli la triplice funzio­
ne di Gesù: didascalica e kerygmatica nei cc. 5-7 e terapeutica nei cc.
8-9.

1.2. Gesù «figlio di Davide»: messianismo terapeutico

Con questa formula la tradizione ebraica indicava il messia, un


re discendente dal leggendario Davide e, come il suo grande antena­
to, trionfatore e garante della giusta causa dei deboli e degli oppres­
si. In particolare, al tempo di Gesù era viva una concezione trionfa­
listica di questa attesa messianico-davidica. Così i Salmi di Salomo­
ne, scritto apocrifo del tempo, si attendevano da lui la sconfitta mili­
tare dei nemici e il trionfo politico d'Israele. Ora Matteo, impegnato
assai sul fronte del dialogo e della polemica con il mondo giudaico,
rivendica a Gesù il titolo messianico di figlio di Davide, ma accom­
pagnando questa rivendicazione con una propria interpretazione
delle speranze legate a tale appellativo. Il Nazareno realizza l'ideale
del messianismo davidico, ma non come condottiero vittorioso, né
come leader politico ambizioso, bensì guarendo i malati, rendendo
così giustizia all'umanità offesa dei sofferenti. Per questo il primo
evangelista sottolinea il fatto che i malati si affidano alla compassio-
50 . .:� . Capitolo 5

ne attiva del figlio di Davide, appello caratteristico della loro invo­


cazione, e come tale Gesù li guarisce.
Due ciechi, narra Matteo, «seguirono Gesù che passava di là,
urlando e dicendo: Abbi pietà di noi, figlio di Davide» (9,27). Non
diversa la supplica di una donna cananea, dunque straniera dal
punto di vista religioso e come tale disprezzata, della regione di Tiro
e di Sidone: «Abbi pietà di me, Signore, figlio di Davide>> (12,22),
domandando cosi la guarigione della figlioletta. Un'altra coppia di
ciechi, di Gerico, «seduti lungo la strada, avendo udito che Gesù sta­
va passando, gridarono dicendo: Signore, abbi pietà di noi, figlio di
Davide»; grido ripetuto a più alta voce quando la folla li rimproverò
zittendoli (20,30.31). Infine, dopo la guarigione di un indemoniato
cieco e muto, tutta la folla presente, annota Matteo, si stupi e disse:
«Costui non è forse il figlio di Davide?» ( 12,23). Un'interrogazione
che sottintende una risposta affennativa, poiché l'evangelista vi con­
trappone subito la reazione negativa dei farisei che interpretano
l'opera terapeutica di Gesù quale macchinazione diabolica: <<Costui
non scaccia i demoni se non per mezzo di Beelzebul, capo dei demo­
ni» (12,24).

1.3. Gesù «servo di Dio»: solidarietà terapeutica

È questa un'altra figura veterotestamentaria che il cristianesimo


delle origini ha fatto sua per interpretare teologicamente il mistero
della persona di Gesù. In particolare, si è voluto cosi indicare il signi­
ficato e la portata positiva della sua passione, esperienza traumatica
per i seguaci del maestro di Galilea. Gesù ha patito ed è tragicamen­
te morto per solidarietà con il suo popolo, per espiarne i peccati,
appunto come il misterioso servo di YHWH dei canni di Isaia.
Soprattutto si devono qui citare un'arcaica confessione di fede cri­
stiana trasmessaci da Paolo in 1Cor 15,3: «Cristo morl per i nostri
peccati», con allusione a ls 53,8-9 (quarto canne del servo), e il detto
di Gesù testimoniato in Mc 10,45: «Il figlio dell'uomo non è venuto
per essere servito ma per servire e dare la sua vita a riscatto per i
molti», con richiamo di Is 53,10ss.
Ora Matteo ci offre una citazione esplicita dei canni del servo di
Dio veterotestamentario, appunto in 8,17, che citiamo di nuovo:
Gesù e Paolo di fronte alla malattia e alla sofferenza 51

«Egli ha preso le nostre infermità e ha portato le malattie». Intende


così commentare e interpretare teologicamente le guarigioni opera­
te da Gesù e menzionate appena sopra in una notizia redazionale:
«Ora, fattasi sera, gli portarono molti indemoniati e scacciò i demo­
ni con una parola e guarì (etherapeusen) tutti quelli che avevano
male>>, notizia a cui fa seguito una caratteristica introduzione al testo
isaia no: «affinché fosse adempiuto ciò che fu detto (da Dio) median­
te il profeta Isaia che disse . . . >> (8,17a).
La citazione è dal quarto carme dell'isaiano servo di Dio, esat­
tamente da 53,4: «Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze e
si è addossato i nostri dolori>>. Nel contesto queste parole indicano
chiaramente la solidarietà del servo che ha fatto suo il destino dolo­
roso del popolo a scopo espiatorio, come lo stesso Isaia subito dopo
chiarisce: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le
nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui>>
(Is 53,5).
Ma il primo evangelista non ha qui di mira la passione di Gesù,
bensì la sua attività terapeutica. Ciononostante non rinuncia a ri­
chiamarsi al servo sofferente di Dio di ls 53, interpretando il suo
farsi carico delle piaghe del popolo non nel senso di una solidarietà
partecipazionistica, come del resto intendevano lo stesso Isaia e la
tradizione protocristiana, bensì in termini di solidarietà attiva libe­
rante e riscattatrice della carne martoriata dei sofferenti e dei mala­
ti. In breve, Gesù è servo di Dio, profetizzato da Isaia, in quanto libe­
ratore dalle malattie e dalle sofferenze fisiche e psichiche degli
uomini.
Una conferma, se necessaria, dell'importanza che il primo evan­
gelista attribuisce a questo aspetto della vicenda di Gesù di Nazaret.
Si aggiunga che Matteo, accentuando la continuità tra la missione di
Gesù e quella dei suoi discepoli, non manca di affermare che il crite­
rio della continuità vale anche in ambito terapeutico. Si noti infatti
che egli fa seguire al sommario di 9,35, che peraltro riprende in
forma di inclusione letteraria quello analogo di 4,23, il c. 10 consacra­
to alla missione dei discepoli, incaricati da Cristo di un compito
kerygmatico e terapeutico in linea con la sua missione: «Andando
poi proclamate (keryssete) dicendo: "Si è fatto vicino il regno dei
cieli". Guarite (therapeuete) gli infermi» {10,7-Sa). Per completezza
52 Capitolo S

si veda 28,19, che perfeziona il quadro attribuendo ai discepoli la


missione didattica in continuazione con l'insegnamento di Gesù:
«Andate dunque, fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli . . . , inse­
gnando (didaskontes) loro a osservare tutto ciò che vi ho comanda­
tO>>. In una parola, il messianismo terapeutico di Gesù passa, dopo la
sua morte, ai discepoli.

2. PAOLO E LA SUA MALATI1A E SOFFERENZA

L'apostolo ha vissuto con questa palla al piede: una misteriosa


malattia lo rodeva e gli rendeva difficile l'evangelizzazione. Egli vi
accenna esplicitamente in Gal 4,12b-14, riconoscente ai cristiani di
Galazia che per questo non l'hanno disprezzato, avendogli invece
riservato un'ottima accoglienza: «Non mi avete fatto alcun torto.
Come sapete, fu a causa di una malattia che per la prima volta vi
annunziai il vangelo. E non mostraste disprezzo né ribrezzo per il
mio corpo malato, benché costituisse una prova per voi. Mi accoglie­
ste invece come un angelo inviato da Dio, come Cristo GesÙ>>.
Purtroppo non precisa di quale infermità ebbe allora a soffrire. Si
spiegano così le infinite ipotesi avanzate dagli studiosi: epilessia, iste­
ria, congiuntivite cronica, reumatismo, malaria, nevrastenia, incubi,
depressione, sordità, balbuzie, lebbra. È certo comunque che si tratta­
va di una malattia umiliante e misteriosa attribuita allora alle forze
malefiche e demoniache, così che quanti ne erano colpiti passavano
per iettatori, persone dunque da evitare accuratamente e comunque
da cui guardarsi ricorrendo al gesto magico e apotropaico dello sputo
per terra a difesa dal malocchio. Per questo sembra probabile che egli
soffrisse di epilessia, tipica malattia malefica a quel tempo.
In linguaggio figurato Paolo vi si riferisce pure nella Seconda
lettera ai Corinzi: <<E perché le rivelazioni straordinarie non fossero
per me motivo di orgoglio, mi è stato messo un pungiglione nella
carne, un emissario di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché
non mi inorgoglissi>> (12,7).
A parte il riferimento mitologico a Satana, questo passo appare
preziosa testimonianza capace di opportune preziose precisazioni:
era un male fisico e doloroso («un pungiglione nella carne>>), visibile
a tutti, di natura umiliante, duraturo o comunque ricorrente se Paolo
Gesù e Paolo di fronte alla malattia e al/Q sofferenza 53

afferma di aver pregato, ma invano, più volte per esserne guarito (cf.
2Cor 12,8-9). Soprattutto costituiva un serio handicap alla sua azione
apostolica. Trova così conferma l'ipotesi di una epilessia con i suoi alti
e bassi. Non doveva però essere una forma grave, capace d'intaccar­
ne l'integrità psichica, visto ciò che Paolo ha scritto, testimonianza
inconfutabile della sua elevata capacità intellettuale. Più che altro,
andava a discapito dell'immagine pubblica della sua persona.

2.1. Sigillo di autenticità apostolica

Qui comunque ci interessa soprattutto la sua reazione: come vi


ha fatto fronte? La vergognosa e umiliante malattia deve avergli
creato un problema se ha insistito nella preghiera per esserne libera­
to. Ma alla fine ha saputo accettarla, scoprendovi una recondita posi­
tività: <<In merito tre volte ho supplicato il Signore di allontanarlo [il
pungiglione nella carne] da me. Ma mi rispose: ti basta la mia grazia.
La potenza si dispiega nella debolezza» (2Cor 12,8-9).
Ai suoi occhi la via crucis che sta percorrendo assume il valore
di epifania della potenza di Dio che rifulge appunto nella sua debo­
lezza di uomo malato, provato e vinto. In altre parole, la debolezza
del messaggero evidenzia la potenza del messaggio. Dunque nessun
culto della personalità del portatore del vangelo, nessuna personaliz­
zazione della causa di Cristo; soltanto umile servizio. Sempre nella
Seconda lettera ai Corinzi, ecco che cosa dice del suo ministero apo­
stolico: <<Ma questo tesoro l'abbiamo in vasi d'argilla, perché appaia
che tale potenza straordinaria è di Dio e non viene da noi» (4,7).
Per questo giunge addirittura a vantarsi della sua debolezza
(2Cor 11,30), della quale elenca le manifestazioni più vistose: <<Spes­
so sono stato in pericolo di morte. Cinque volte ho ricevuto dai giu­
dei i trentanove colpi di frusta. Tre volte sono stato battuto con le
verghe. Una volta ho subìto la lapidazione . . . » (2Cor 10,23ss).
In realtà, è convinto di questo: <<quando sono debole, proprio
allora sono forte>> (2Cor 12,10). Nella sua azione c'è potenza e gran­
dezza, ma non scaturiscono dalle sue risorse autonome, è invece la
potenza di Cristo che abita in lui (2Cor 12,9).
E proprio per questo, non nonostante questo, si definisce auten­
tico apostolo di Cristo: uno stretto rapporto di continuità unisce
54 Capitolo 5

infatti Cristo e il suo apostolo, l'uno e l'altro caratterizzati dall'anti­


nomia debolezza-potenza. Per debolezza Gesù di Nazaret è stato
confitto in croce, ma Dio l'ha potentemente risuscitato ed egli ora
vive forte della vita di risorto. Cosi Paolo ha sperimentato nella sua
vita apostolica una debolezza radicale, sostanziata dalla malattia e
dalle mille traversie della sua parabola di annunciatore del vangelo
in mare aperto, rivivendo la via crucis del suo Signore. Ma la poten­
za divina lo risusciterà e già ora si dispiega in lui a vantaggio dei cre­
denti (cf. 2Cor 13,4). Lapidaria, in proposito, è l'affermazione di
2Cor 4,12: «Cosi in noi è all'opera la morte, in voi invece la vita>>.

2.2. Partecipazione profonda alla passione di Cristo

Non si tratta però soltanto di uno stretto parallelismo tra lui e


Gesù; non vale unicamente il rapporto «Paolo come Cristo». L'apo­
stolo interpreta la sua malattia, e più in generale la sua via crucis, in
senso strettamente partecipazionistico e di comunione: le sue soffe­
renze sono le sofferenze di Cristo; questi continua la sua passione
nella vicenda del suo apostolo. Sempre nella Seconda lettera ai
Corinzi afferma: <<Portiamo di continuo nel nostro corpo la morte di
Gesù, affinché anche la vita di Gesù diventi manifesta nel nostro
corpo>> (4,10).
Egli dunque rivive nella sua esistenza mortale, contrassegnata
dalla malattia e da ogni traversia inerente alla sua azione apostolica,
la morte di Cristo. Non si tratta di pura e semplice imitazione ester­
na, ma di vera partecipazione. Sulla croce Cristo ha sperimentato
l'impotenza più radicale. Il suo apostolo, per mille motivi derelitto e
assai poco grande personalità, che smentiva le attese soprattutto dei
corinzi amanti di exploits e straordinarie esibizioni nei portatori del
vangelo, ne attualizza ora lo scandalo, incomprensibile per quanti
hanno il culto religioso della potenza e del trionfo. Ma per lui, che
nella fede possiede la coscienza lucida di essere in comunione con il
crocifisso, la sua esistenza crocifissa di apostolo non può essere priva
di portata positiva. Di fatto essa è il luogo della manifestazione della
vita di Gesù. Partecipe della morte di Cristo lo è anche della sua vita
di risorto. La potenza vivificante di Dio si manifesta con tutta evi­
denza proprio là dove regna l'impotenza più mortificante dell'uomo.
Gesù e Paolo di fronte alla malania e alla sofferenla 55

In breve, Paolo apostolo, malato e uomo crocifisso, costituisce


l'icona di Cristo crocifisso. La storia della passione iniziata con il
Nazareno continua ora nell'esistenza del suo apostolo, che porta a
compimento le sofferenze del suo Signore, come si esprime un suo
anonimo discepolo nella Lettera ai Colossesi: <<Ora gioisco nei pali­
menti che soffro a vostro favore e nella mia carne supplisco alle defi­
cienze e alle tribolazioni di Cristo [sofferte] a pro del suo corpo, che
è la chiesa>> (1,24).
Si aggiunga Gal 6,17: <<lo porto nel mio corpo le stimmate di
Gesù». Un'icona che rende presente Cristo crocifisso con la sua cari­
ca di vita, perché rende presente, nello stesso tempo, la potenza risu­
scitatrice di Dio.
6.
RELAZIONI DEI PROTAGONISTI
NELLE PARABOLE DI GESÙ*

Si potrebbero scegliere come campo d'indagine le parole e i


gesti di Gesù, le une e gli altri dotati di affidabilità storica raggiunta
con il vaglio critico delle testimonianze antiche in nostro possesso. E
il risultato sarebbe senz'altro molto interessante. Ma ho preferito
decidermi per un'analisi dei racconti parabolici di Gesù, perché am­
bito meno usuale di studio e di lettura, che ci permette, per via indi­
retta, di comprendere come Gesù comprendeva i rapporti umani e
quelli anche di natura religiosa. È un'analisi che si fonda sul fatto
incontrovertibile che si tratta di fiction narrative uscite dalla mente
del narratore Gesù che vi si è espresso nella sua non trascurabile abi­
lità poetica, creatrice di trame e di personaggi che vi stanno al cen­
tro. Naturalmente la scelta non potrà che cadere su alcune parabole,
quelle che hanno in campo più di un personaggio, preferibilmente
tre, perché allora l'intreccio relazionale appare più vario e ricco.
Seconda premessa di metodo: analizzerò a fondo i racconti e i
comportamenti dei protagonisti visti, l'uno e gli altri, in se stessi, a
prescindere ancora dalla loro valenza parabolica. Vi emergerà la
fitta rete di rapporti umani, strettamente umani, anche se il parabo­
lista vi inserirà aspetti e valenze paradossali al fine di far emergere,
con maggior chiarezza, la portata metaforica di storie particolari che
rimandano a un'altra storia, quella dei rapporti del Dio di Gesù Cri­
sto con lui stesso e gli interlocutori della sua parola. Solo in conclu­
sione mi premurerò di indicare quelle relazioni religiose che stanno
sullo sfondo.

• In Servitium 37(2003)146, 73-80.


58 Capitolo 6

1. LA STORIA DEL PADRE DEL PRODIGO E DEL FRATELLO MAGGIORE


(Le 15,1 1-32)

La narrazione comincia con un antefatto: c'è un padre che ha


due figli. Si parte dunque da un nudo fatto, non solo la parallela
relazione paterna e filiale, ma anche un rapporto paritario di segno
fraterno tra i due figli. La madre è del tutto assente, e si capisce non
per un supposto disinteresse del parabolista verso il mondo femmi­
nile, bensì perché così esige il racconto che, secondo l'intenzione del
narratore, deve metaforicamente alludere ai rapporti del Dio di
Gesù, il padre, con gli uomini. E subito viene narrato il distacco del
figlio minore dalla casa paterna, dallo stesso padre e dal fratello:
«Padre, dammi qui sull'istante [il verbo è all'aoristo) la parte dei
beni che mi spetta». Una questione di eredità, di denaro, ma in real­
tà abbiamo la decisione di rompere la relazione con il padre e con
il fratello, che non doveva essere soddisfacente, provocando un
trauma profondo nella rete relazionale della famiglia. Il padre sod­
disfa il desiderio del figlio che mette insieme il tutto e se ne va via
in una regione lontana: il distacco dalla casa e dalla famiglia è sot­
tolineato dal verbo apo-demein e l'avverbio makran (lontano)
esprime una lontananza grande, quasi che il figlio voglia mettere tra
sé e la casa uno spazio incolmabile, una distanza definitiva. I ponti,
o i rapporti, sono del tutto rotti.
La narrazione con poche pennellate vuole giungere in fretta a
concludere l'antefatto: il prodigo - ora appunto merita questo epite­
to - sperpera tutto quanto ha messo insieme e il padre gli ha dato; la
conseguenza è che la sua esistenza corre sulla linea estrema della
fame e del rischio di morire di inedia; è costretto a fare il guardiano
dei porci di un padrone della zona. Il degrado è sommo agli occhi di
un giudeo: contaminarsi con questi animali impuri. Ha spezzato i
rapporti fondanti con il padre e il fratello e ora vive un rapporto di
mercenario con il padrone. Il bisogno di riempire lo stomaco è tale
che contende ai maiali il cibo: «desiderava>> - un desiderio che addi­
rittura restava inappagato - «saziarsi delle carrube di cui si nutriva­
no i porci, ma nessuno gliene dava».
Il prodigo <<rientrò in se stesso>>: comincia l'autoesame, la rifles­
sione sulla sua sorte; che cosa l'ha portato a questa strada senza usci-
Relazioni dei protagonisti nelle parabole di Gesù 59

ta? Quale possibilità gli resta di non fmire l'esistenza così misera­
mente? Soprattutto si affida alla memoria: rievoca la casa paterna;
quanti salariati del padre si guadagnano abbondantemente (perisse­
uontai) da vivere, mentre lui qui muore di fame! La decisione è presa:
<<mi alzerò e andrò da mio padre e gli dirò: padre, ho mancato [signi­
ficato letterale di hamananeinJ verso il cielo e verso di te». Di solito
si ritiene che vi sia espressa la «conversione» del prodigo, soprattutto
in vista della valenza metaforica del racconto: la necessaria conver­
sione dai peccati per rientrare nella casa del padre. Ma non è così,
come mostrano le parole che seguono: <<Non sono più degno di esse­
re chiamato tuo figlio; fa' di me come ti comporti con uno dei tuoi
salariati>>. Il prodigo ha perso per sempre la speranza, o non l'ha mai
avuta, di rientrare da figlio nella casa paterna, di beneficiare di rap­
porti di figliolanza e di fraternità. La sua soluzione è estranea all'am­
bito delle relazioni personali con il padre e il fratello; è una pura solu­
zione pratica, presa per stomaco vuoto, nella necessità di sopravvive­
re. Non gli resta, come estremo anelito e ultima possibilità, che l'es­
sere accettato da salariato, dunque da estraneo, lui che era un figlio e
un fratello: rapporti commerciali ed economici e basta.
La storia vera, in realtà, comincia propriamente ora. Ritorna
alla casa e il <<SUO>> padre (l'aggettivo possessivo non è pleonastico)
lo scorge già lontano: forse non per caso, lo aspettava. E a quella
vista il parabolista introduce l'annotazione di un forte sentimento:
«si commosse nelle sue viscere paterne>> (esplagnisthe), cioè nelle
profondità del suo animo. Ma non sta fermo: gli si muove incontro,
anzi gli corre incontro (dramon) e gli getta le braccia al collo e lo
bacia. Il prodigo non ha ancora detto nulla. La relazione con lui è
ricreata tutta dal padre; l'iniziativa è solo sua. E se il prodigo comin­
cia a recitare le sue scuse, il padre non l'ascolta nemmeno; di fatto lo
interrompe e non gli lascia neppure il tempo di proporsi come sala­
riato: questo sperato rapporto mercenario non esiste affatto agli
occhi del padre. È di nuovo suo figlio: gli stracci buttati via e rivesti­
to di un abito adeguato non senza accessori importanti: l'anello al
dito, è fatto significativo: una nuova identità. Il tutto per gratuita e
incondizionata iniziativa del padre.
E bisogna festeggiare, dice il padre, e gli organizza una sontuo­
sa festa. Un happy end commovente? Per nulla: se il padre ha
60 Capitolo 6

ricreato la sua relazione con il prodigo, perché questi possa rientra­


re nella casa paterna a tutti gli effetti, non essendo figlio unico,
dev'essere accettato dal fratello maggiore come fratello. E qui il
parabolista Gesù racconta un secondo atto della sua fiction assai
drammatico e per nulla scontato quanto al suo esito finale. Il fratel­
lo del prodigo, di ritorno dalla campagna, avendo udito suoni di
festa che venivano dalla sua casa, s'informa e viene a sapere della
cosa. La sua reazione è stizzita e decisa: non intende entrare per
partecipare alla festa, in concreto accogliere il prodigo come fratel­
lo; e mette sotto processo il padre uscito a invitarlo a entrare: sei
ingiusto nel tuo comportamento, perché hai accolto con smisurata
bontà questo tuo figlio che ha sperperato tutti i beni ereditari con
le prostitute, un particolare non menzionato sopra, e a me, che ti ho
sempre servito a dovere, non hai dato nemmeno un capretto da
mettere in tavola per festeggiare con i miei amici. Il padre si difen­
de: «Figlio, tu sei sempre con me, e tutto il mio è tuo»; in pratica riaf­
ferma il suo rapporto paterno con lui. «Ma si doveva [obbligo mora­
le secondo il metro delle relazioni padre-figlio come egli le intende
e le vive] festeggiare e gioire, perché questo tuo fratello era morto
ed è ritornato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato». La fratel­
lanza diventa così il punto cruciale del racconto parabolico: fratel­
lanza da ricreare come è stata ricreata la relazione padre-figlio pro­
digo. Un'esigenza che il padre dolcemente mette davanti al figlio
maggiore: sta a lui ora scegliere se rifiutarla non entrando a festeg­
giare e accogliere il prodigo, oppure accettarla.
La parabola resta aperta: Gesù ha lasciato in sospeso la storia,
perché egli intende così provocare i suoi ascoltatori a farsi essi stes­
si protagonisti nella storia, loro, i fratelli maggiori che non vogliono
festeggiare l'accoglienza incondizionata dei lontani e degli esclusi.
Sta a loro scrivere la conclusione del racconto parabolico o della
storia metaforica fatta qui balenare. Gesù accoglie peccatori pubbli­
ci quando ancora sono tali, prima della loro conversione; uno scan­
dalo per i suoi critici che certo non sono chiusi al ritorno dei <<pro­
dighi>> nella casa del padre, ma esigono una previa loro conversio­
ne. Il parabolista si difende, un po' come si è difeso il padre della
storia parabolica: così agisce Dio, con assoluta gratuità, che incarna
in me la sua iniziativa di grazia; a voi di accettare questa immagine
Relar.ioni dei protagonisti nelle parabole di Gesù 61

e questo comportamento e stabilire una relazione di frateUanza gio­


iosa con gli esclusi.
Le relazioni ricreate di famiglia - padre e figlio, fratello e fratel­
lo - sono tutte e soltanto relazioni decise, volontarie, liberamente in­
staurate. E una relazione spezzata non è perduta una volta per sem­
pre: è ricreabile sotto la forza di forti emozioni interne e di volontà
che riescono a trasformare un negativo di morte in un positivo di
vita. Non che sia facile; è piuttosto un prodigio di grazia, vuoi dire il
parabolista Gesù. Infine, le relazioni familiari sono a doppio binario:
non l'una senza l'altra, quella fraterna in dipendenza da queUa
patema.
Nella fiction parabolica di Gesù, in realtà, sono due immagini di
Dio a contrapporsi, la sua che egli propone sulla falsariga del padre
del racconto e quella impersonata dal fratello maggiore. La prima è
caratterizzata dall'iniziativa gratuita e incondizionata di accogliere
i peccatori nello spazio della salvezza, accoglienza mediata dall'agi­
re controcorrente di Gesù stesso; la seconda, tradizionale, si qualifi­
ca all'insegna del codice meritocratico, di una perfetta corrispon­
denza tra azione umana e reazione divina. Certo, anche in questa,
Dio è colui che perdona e riaccoglie, ma questo fa per il peccatore
pentito che ha fatto un cammino di doverosa conversione. Gesù
propone ai critici la sua immagine di Dio perché la facciano propria,
abbinando al vissuto della paternità divina l'esperienza di una fra­
ternità che va oltre gli steccati del popolo di Dio e dei fedeli osser­
vanti della legge divina.
Ma, per concludere, vorrei ritornare sulla fiction narrativa di
Gesù: essa ci mostra come egli valuta le relazioni familiari. Manife­
stamente parteggia per il comportamento del padre che riannoda
gratuitamente il rapporto con il prodigo e altrettanto manifestamen­
te mette in cattiva luce la resistenza del fratello maggiore a rianno­
dare, con pari gratuità, la relazione fraterna sempre con il prodigo:
di fatto vuole sollecitare i suoi ascoltatori a farsi fratelli maggiori
pronti a partecipare alla festa della famiglia e a passare dal «questo
tuo figlio>>, buttato in faccia al padre, a <<questo mio fratello>>, in
breve operare un esodo radicale dall'estraneità alla comune appar­
tenenza.
62 Capitolo 6

2. IL SATRAPO E I L GRANDE RE (Mt 18,23-35)

Anche in questo racconto, presente solo in Matteo, come il pre­


cedente era proprio di Luca, si fronteggiano, variamente relazionan­
dosi, tre personaggi: il grande re e due dipendenti di alto grado della
corte. Il primo quadro narrativo mette faccia a faccia il monarca e un
suo funzionario importante, un governatore di provincia, che nel­
l'esercizio amministrativo ha totalizzato una perdita enorme nell'or­
dine di milioni e milioni di euro, circa duemila milioni: a tanto
ammontava il debito di diecimila talenti. Diecimila era la cifra più
alta allora in uso; il talento era l'unità di misura per indicare quanto
le province dovevano pagare al potere centrale e un talento corri­
spondeva a seimila denari, e un denaro alla paga di una giornata
lavorativa di un giornaliero non specializzato.
Per il debitore non c'è scampo: dovrà essere venduto schiavo, lui
e tutta la sua famiglia. Un debitore insolvente correva questa sorte
allora. Che fare? Gettarsi ai piedi del sovrano, fare giuramenti e pro­
messe di risarcimento del tutto irreali, prendere tempo? In realtà è un
uomo il cui destino non dipende più da lui, ma solo dalla volontà del
sovrano. Come extrema ratio dunque cade a terra e continua a pro­
strarsi davanti a lui (proskynesis: il verbo è all'imperfetto) e lo suppli­
ca: «Sii di animo grande (makrothymeson) verso di me, e ti restituirò

tutto>>. Chiede una dilazione, ma ecco l'insperato: il sovrano lo conge­


da e gli condona quel debito. Il parabolista però non dimentica di
dirci la ragione di tale comportamento: «Il signore si commosse nella
profondità del suo animo (splagnistheis)>>: un sentimento di profonda
pietà per la sorte del malcapitato che lo spinge al condono incredibi­
le. Se il rapporto era quello di debitore (insolvente) e di creditore, ora
la relazione, creata dal gesto del sovrano, è di condonato e condona­
tore, un legame stabilito sulla base di una decisione libera e sovrana,
di beneficiario di un dono e di elargitore del dono.
E per questa relazione nuova che si è stabilita il satrapo torna
alla vita: era un uomo finito; ora è risuscitato, ma non alla vecchia
vita, bensì a una nuova esistenza. È capitato qualcosa di innovativo
nella sua vicenda e nella sua storia, il dono insperato ricevuto.
Ma ancora una volta il parabolista Gesù non chiude il raccon­
to con questo happy end. Quello lascia la sala delle udienze e s'im-
Relazioni dei protagonisti nelle parabole di Gesù 63

batte in un collega (syndoulos) che gli era debitore di cento dena­


ri: tremila euro, pressappoco, contro i duemila milioni di euro del
suo debito. «E presolo con forza lo andava tormentando [verbo
all'imperfetto), mentre quello cadutogli in terra davanti continua­
va a supplicarlo dicendo: Sii magnanimo con me e ti restituirò
tutto>>. Si ripete la scena, ma questa volta con le parti capovolte per
il condonato: ora egli è creditore ma non imita il sovrano creditore
nei suoi confronti e non si mette per nulla nei panni del debitore
che ripete quanto aveva fatto lui. E sì che c'è ora un dettaglio
nuovo che potrebbe facilitare la soluzione: essendo il debito una
somma modesta, la promessa di risarcimento da parte del suppli­
cante è realistica e la supplica di ottenere una dilazione del tutto
ragionevole. Nulla da fare: «Ma lui continuava a dire di no [verbo
all'imperfetto); se ne andò e lo fece gettare in prigione finché non
avesse restituito quanto doveva».
Incredibile! La cosa non era passata inosservata nel palazzo: dei
colleghi denunciano il <<fattaccio>> al grande re che lo fa chiamare e
gli ricorda quanto era avvenuto tra loro: <<Servitore malvagio, tutto
quell'enorme debito io ti ho condonato dietro la tua supplica>>. E ora
la domanda retorica. <<Non dovevi anche tu avere compassione del
tuo collega, come io ho avuto compassione di te?>> Sì, doveva. In
nome di quale legge? Di nessuna legge giuridica, ma di una legge
superiore che stabilisce obblighi morali. <<Anche tU>>: eri stato preve­
nuto dal mio gesto liberante, di cui sei stato beneficiario: un'espe­
rienza di passaggio dalla morte alla vita. Passaggio a una nuova vita,
quella contrassegnata non dal binomio debito-credito, dal rapporto
debitore che deve risarcire il creditore, relazione commerciale o
mercantile, bensì dalla relazione condonatore-condonato costruita
sulla base di un disperato bisogno e di un'efficace commozione che
si fa carico della disperazione del debitore e lo libera da questa sua
catena. Una vita all'insegna del codice del gratuito, non del dovuto
da rendere, da un lato, e da richiedere, dall'altro. Non ha imparato
nulla dalla sua esperienza di graziato, se non si è fatto, a sua volta,
graziante l'altro. Quella grazia ricevuta è stata una meteora: è spari­
ta dal suo orizzonte. Non è un uomo capace di relazione sulla base
dello scambio del dono. Non è venuto a una vita relazionale nuova;
è rimasto invischiato nella logica del credito da esigere ad ogni costo
64 Capilo/o 6

e subito, senza occhio e soprattutto senza cuore per il bisogno del


debitore che continua a supplicarlo.
Forse non si comprende subito bene come possa il grande re
rirnangiarsi la parola ed esigere di nuovo quanto il condonato aveva
ottenuto per grazia. Ma è una difficoltà che guarda più alla realtà dal
punto di vista giuridico ed esterno che non alla dinamica del raccon­
to. Da questo punto di vista si comprende benissimo che il suo debi­
to ritorni a essere preteso, perché il condonato non è capace di vive­
re al di fuori di questo orizzonte di debito e credito, inabile a stabili­
re relazioni di segno opposto. Il grande re, mosso ora da un senti­
mento di ira tremenda (orgistheis), lo condanna alla prigione <<finché
non abbia restituito tutto il dovuto», un modo per dire <<per sempre>>.
La conclusione del racconto parabolico: <<Così anche il Padre
mio celeste farà a voi, se ciascuno non perdonerà al fratello dal pro­
fondo del suo cuore>> non appare in linea con il filo rosso della nar­
razione parabolica. Di fatto si concentra solo sull'ultimo atto della
vicenda e tradisce l'interesse del primo evangelista per il motivo del
giudizio divino, che gli serve come deterrente per scuotere la sua
comunità dal torpore e dall'illusione di essere in una botte di ferro
per effetto del sacramento e dell'adesione di fede e portarla sul sen­
tiero di una fattiva e operosa fedeltà. In realtà il racconto si regge sul
raccordo tra condono ricevuto e condono da dare, per cui da quello
s'impone l'obbligo morale (<<Non dovevi anche tU>>) di passare a que­
sto. In termini metaforici, il beneficiario della grazia perdonante del
Dio di Gesù Cristo - questi si era fatto garante del perdono divino
per i peccatori venuti a contatto con lui - deve diventare <<perdona­
tore» nei confronti del fratello offensore. L'esperienza religiosa pro­
spettata qui da Gesù è all'insegna del codice del gratuito, della gra­
zia, detto in termini teologici; un'esperienza religiosa che chiede
l'abbinamento di un'esperienza di rapporti umani di ugual segno,
cioè sotto il segno del codice del gratuito, il solo che qualifica la rela­
zione come qualitativamente nuova e portatrice di vita.
7.
FIGURE EVANGELICHE
DELL'ATTENDERE*

Nei libri del Nuovo Testamento il tema dell'attesa è espressa­


mente trattato nella prospettiva della realtà finale e conclusiva della
storia, soprattutto in relazione alla venuta gloriosa di Cristo. Qui si
intende scandagliare i testi delle origini cristiane alla ricerca di figu­
re generali dell'aspettativa non indicate dal vocabolario dell'attesa,
eppure da questa caratterizzate in senso reale. In concreto, ho rilet­
to le parabole evangeliche da questo punto di vista ed è stata una
sorpresa: non pochi personaggi delle storie paraboliche inventati
dalla creatività narrativa di Gesù possono essere visti come emblemi
di attesa o di mancanza colpevole di attesa, ma anche di attese posi­
tive o negative. Nel mio elenco trovo una decina di racconti parabo­
lici in merito, che voglio qui analizzare brevemente, soffermandomi
sulle storie inventate da Gesù viste in se stesse, a prescindere dal
loro riferimento a quell'altra storia, che sta sullo sfondo e che costi­
tuisce il centro dell'attenzione del parabolista, la storia del Dio di
Gesù Cristo con gli uomini.
La prima parabola, del seminatore (Mc 4,3ss e paralleli Mt e
Le), presenta la storia di un seminatore che in modo generoso, direi
prodigo, sparge la semente su un suolo accidentato, qua e là roccio­
so sotto una patina di terra, sul quale i passanti hanno tracciato
anche dei sentieri e che presenta angoli pieni di spine. Molti motivi
lo dovrebbero trattenere, ma non sente ragione contraria: getta la
sua semente ovunque. Un comportamento pieno di speranza contro
ogni speranza, direbbe Paolo parlando di Abramo (cf. Rm 4). Egli si
aspetta frutto abbondante dal suo lavoro. Attesa premiata: andati

• In Servitium 34(2000), 395400.


66 Capitolo 7

perduti i semi finiti sul sentiero, sul terreno roccioso, sul suolo spino­
so, quelli seminati sul buon terreno gli hanno procurato una ricca
mietitura: il trenta, il sessanta, il cento per uno. Un'attesa positiva
che nasce da un lavoro generoso e che non desiste di fronte a «scac­
chi» o fallimenti subiti lungo l'opera.
Sempre in fatto di lavori agricoli, il racconto parabolico di Mc
4,26-29 narra di nuovo di un seminatore che, dopo aver seminato a
dovere il campo, si ritira ad attendere la nascita degli steli, la forma­
zione delle spighe e infine la maturazione per la mietitura. Non c'è
bisogno che egli si affanni; non è richiesto altro dalle sue mani. Quel­
lo che doveva fare I"ha fatto. Gli resta solo da aspettare con fiducia
il risultato del suo lavoro. Dovrà entrare di nuovo in azione, ma solo
alla maturazione del grano per mieterlo e riporlo nel granaio. Mat­
teo e Luca, che avevano sotto gli occhi il Vangelo di Marco, hanno
tralasciato la parabola, con probabilità intenzionalmente, non per
caso, sconcertati dalla sottolineatura, fatta dal racconto, che il seme
cresce da solo, come se la «morale della favola>> fosse un invito al
disimpegno e alla pigrizia. In realtà, il protagonista della parabola è
stato tutt'altro che con le mani in mano: al suo lavoro si deve la semi­
na, e al suo lavoro si dovrà la mietitura. Tra le due opere c'è un'atte­
sa calma, sicura, soprattutto certa dello sviluppo del processo di cre­
scita da lui messo in atto.
Propria di Matteo è la parabola del seminatore presentata in
13,24ss. Di solito la si chiama <<parabola della zizzania>>, ma tale
denominazione non rende giustizia alla dinamica del racconto para­
bolico: qui i protagonisti sono due, il padrone che dirige il lavoro di
semina del suo campo e gli operai a suo servizio nella coltivazione
della proprietà agricola. Sono due protagonisti contrapposti e la loro
antitesi emerge esattamente quando, dopo la semina, nel campo con
gli steli del grano crescono anche erbacce, la zizzania appunto. Gli
operai dapprima interrogano, sorpresi, il padrone sull'accaduto:
tutto chiaro, risponde; purtroppo alla sua semente di grano un suo
avversario vi ha seminato sopra semi di zizzania. Il contrasto si ha
quando gli operai si propongono al padrone pronti a estirpare, sedu­
ta stante, la zizzania. Un proposito insano: la zizzania non si può
estirpare sola, perché avvinghiata al grano; strappando quella si fini­
sce per strappare anche questo. Bisogna lasciare che la crescita con-
Figure evangeliche dell'attendere 67

tinui e si giunga alla maturazione del grano. Allora sì bisogna inter­


venire, alla fine mietendo grano e zizzania e separando quello da
questa: il grano da riporre nel granaio, la zizzania da bruciare nel
forno. I due protagonisti della storia sono figure di chi rispettiva­
mente non sa attendere pazientemente il momento opportuno per
agire e di chi invece con saggezza aspetta l'ora dell'intervento per
mietere i frutti e non li mette a repentaglio per stolta impazienza nel
ripulire il campo dalla zizzania. La separazione di zizzania e di grano
va fatta a tempo debito, senza fretta, aspetta'ndo che maturino.
Sempre a Matteo dobbiamo un'altra parabola che illustra la
figura di chi coltiva attese indebite e invidiose. Si tratta del racconto
di un padrone agricolo che dal mattino fino quasi a sera chiama gior­
nalieri a lavorare nella sua vigna (20,lss). Il clou della storia è segna­
to dal rendiconto serale: il padrone dice al suo maggiordomo di
pagare gli operai cominciando dai primi fino agli ultimi, e gli coman­
da di dare a tutti la paga giornaliera di un denaro. Quelli non hanno
niente da ridire fino a quando vedono che questi sono gratificati
della paga di un'intera giornata di lavoro, appunto un denaro, esat­
tamente quello che essi hanno preso, ma lavorando tutto il santo
giorno, mentre gli ultimi hanno lavorato soltanto un'ora, l'ultima ora
lavorativa giornaliera. Sono invidiosi dei loro colleghi («occhio cat­
tivo>>); pretendono di più; accusano il padrone d'ingiustizia perché li
ha <<equiparati» a loro. Questi si giustifica: non è stato ingiusto verso
di loro: hanno ricevuto la paga giornaliera convenuta prima di esse­
re mandati al lavoro; è stato buono e generosissimo con gli ultimi, e
questo dipende solo da lui: ha dato secondo il dovuto e ha dato
secondo il metro della gratuità. I primi hanno coltivato attese co­
struite sul metro della meritocrazia, della loro superiorità di lavora­
tori; sono lontanissimi dall'attendersi dal padrone un comportamen­
to che non sia secondo queste regole, un comportamento fuori
norma, secondo un altro metro di valutazione, la generosità immeri­
tata, il dono, la grazia. E sul versante dei loro colleghi meno merite­
voli si rifiutano di essere a loro equiparati: sono i primi della classe e
si aspettano di essere trattati come tali, superiori agli altri.
Ancora a Matteo e a lui solo siamo debitori di una parabola ben
conosciuta, quella delle damigelle d'onore di una festa di nozze
(25,12ss). Anche qui abbiamo due protagonisti collettivi, le damigel-
68 Capilo/o 7

le che si sono premurate di fare scorta di olio per le loro lampade e


quelle invece che non se ne sono curate. L'evangelista, a conclusio­
ne, inserisce di forza una «morale del racconto» in forma imperati­
va: «Vegliate, perché non sapete né il giorno né l'ora (della venuta
finale di Cristo)» che non quadra con la logica del racconto stesso:
l'insensatezza delle damigelle stolte non è consistita nell'essersi
addormentate mentre attendevano l'arrivo dello sposo; tutte, indif­
ferentemente, si sono addormentate. In realtà, la stupidità delle
damigelle d'onore è stata quella di imprevidenza e improvvidenza:
non hanno previsto che l'attesa dello sposo poteva protrarsi anche a
lungo e di conseguenza non hanno provveduto a fare riserva di olio
per alimentare le loro lampade. Non basta dunque attendere, biso­
gna attendere preparati ed equipaggiati per una lunga attesa.
La parabola della pecora smarrita e ritrovata trova testimonian­
za in Mt 18 e Le 15, anche se in versioni abbastanza diverse. Ma qui
ci interessa il lato comune. Ancora una volta il titolo del racconto
non è azzeccato: protagonista infatti non è la pecora, ma il pastore
che non sta passivamente nel recinto con le 99 in attesa che quella
smarrita ritrovi la strada del ritorno; lascia le 99 e va alla sua ricerca.
Si noti la sproporzione: l e 99; eppure quella è così preziosa ai suoi
occhi che parte subito a ricercarla e riportarla all'ovile. Non perché
è la più grassa, come recensisce il Vangelo apocrifo di Tommaso, e
dunque per se stessa ha un valore grande, ma perché è smarrita e ha
bisogno del pastore. L'attesa, in questo caso, significa inattività,
accettazione passiva della perdita della pecora. Dunque un attende­
re negativo equivalente a incuria, a dimissione dal proprio ruolo di
buon pastore.
I due evangelisti suddetti hanno in comune un altro racconto
parabolico costruito su due tipi di maggiordomi responsabili, in
prima persona, del buon andamento della casa del padrone in sua
prolungata assenza (Mt 24,45ss e Le 12,43ss). Il primo impersona un
servitore fedele e saggio che in attesa del ritorno del padrone s'im­
pegna in modo da far funzionare a puntino la casa, non senza
responsabilizzare tutta la servitù. Il secondo invece è malvagio e
infingardo: si dà alla baldoria, è prepotente con la servitù, e ne sof­
fre grandemente la vita della grande famiglia. In realtà ha fatto male
i suoi calcoli: non si aspettava che il padrone ritornasse cosl presto.
Figure evangeliche dell'anendere 69

La sua attesa è stata improvvida, fondata su un errato calcolo. È


stato così sorpreso e il padrone gli infliggerà una severa condanna.
A Luca dobbiamo invece altre tre parabole significative per la
nostra lettura biblica. Anzitutto la parabola del figlio prodigo,
meglio, del padre del prodigo e del figlio maggiore (15,11ss). Vorrei
far leva sul particolare che quando il prodigo, preso per fame, deci­
de di ritornare nella casa del padre, consapevole che al massimo
potrà otteneme un posto tra la servitù - avendo preteso l'eredità
quando partì, in pratica aveva rinunciato al suo diritto di stare nella
casa come figlio - il narratore Gesù ha precisato che il padre lo vide
da lontano. È troppo supporre che aveva sempre un occhio al sentie­
ro di casa e attendeva il prodigo? Tanto più che non accetta la sua
supplica di essere trattato alla stregua degli altri servitori di casa, ma
lo reintegra subito nel ruolo di figlio. E la festa grandiosa preparata
per il ritorno del prodigo sta a dire che egli aveva sempre nel cuore
quel figlio e lo aspettava perché fosse reintegrato nella famiglia a
tutti gli effetti. Ma non vorrei insistere più di tanto su tale lettura.
Invece non c'è dubbio che le due parabole lucane del ricco stolto
(12,16ss) e soprattutto del padrone del fico sterile della sua campagna
(13,6ss) ci evidenziano due precise figure dell'attendere. La prima rac­
conta di un ricco possidente che riposa colpevolmente sugli allori: ha
fatto un raccolto strepitoso; i suoi granai sono insufficienti a contene­
re tanto grano; decide allora di costruirne di nuovi. E dice, tutto sod­
disfatto, a se stesso, in un soliloquio psicologicamente espressivo:
<<Caro mio, hai una grande riserva di beni per molti anni: riposati,
mangia, bevi e divertiti>>. Ma quella stessa notte la morte lo colse
all'improvviso, conclude il racconto. Non ha fatto i calcoli sull'impre­
vedibilità della vita; stoltamente ha pensato di aver provveduto per il
suo futuro con l'abbondanza dei suoi beni. La morte è giunta inattesa
a togliergli ogni sicurezza: ha atteso la pienezza della sua vita dai suoi
ricchi beni materiali, non da ricchezze di ben altra natura.
La parabola del proprietario del fico sterile è costruita sulla
base dell'esplicito motivo dell'attesa. Vista la mancanza ripetuta di
frutti dell'albero, impulsivamente il padrone aveva deciso di farlo
abbattere, ma il suo contadino lo fa riflettere, invitandolo a pazien­
tare ancora un po': bisogna dare altro tempo all'albero; egli stesso si
curerà di concimarlo; solo dopo, se ancora non darà frutto, lo si
70 Capitolo 7

taglierà. Il racconto termina su queste sagge parole del contadino,


ma è chiaro che il padrone ne accetta il consiglio: aspetterà ancora;
darà altre possibilità di fruttificazione all'albero. Gli amanti di happy
end avrebbero visto di buon occhio la continuazione del racconto:
l'anno seguente il padrone venne a vedere il fico e lo trovò pieno di
frutti. Ma la logica del racconto di Gesù è un'altra: non intende sot­
tolineare che il padrone ha avuto fortuna di aspettare ancora. L'in­
tento insito nella narrazione è la concessione generosa e saggia di
una dilazione: aspettare ancora e dare nuove possibilità all'albero di
fico. L'attesa prolungata di chi ha in mano il destino di una persona
è fonte di speranza per questa.
8.
LA PAURA l IL TIMORE*

Di fronte all'incombere di un male, anche solo possibile e pro­


babile, la persona si sente minacciata, si aspetta di esserne colpita e
cosi trema di paura. Già Diogene Laerzio attestava che secondo gli
stoici alla sua origine c'è «l'attesa di un male» ( Vite dei filosofi
7,112). Si ha paura di salire su un aereo che potrebbe cadere e far
perire i viaggiatori. La paura prende lo studente alle prese con un
esame impegnativo, timoroso di non superarlo o di prendere un cat­
tivo voto. Ma lo stesso sentimento nasce nell'uomo e lo domina
quando questi ha a che fare con un potente capace di intervenire
sulla sua vita e di cambiarla in peggio. Per non andare troppo lonta­
no, basterebbe pensare alla situazione di un dipendente privo di
garanzie sociali, di un immigrato assoldato <<in nero>>, alla mercé del
suo datore di lavoro. C'è però anche il timore reverenziale che carat­
terizza il rapporto di un figlio con il padre, di un inferiore con il suo
superiore e che s'incarna in atteggiamenti di obbedienza, per non
dire di sudditanza. Infine il timore ha un chiaro versante religioso,
perché nelle religioni in generale, in particolare l'ebraica e la cristia­
na - ma non fa eccezione l'islam -, il timore di Dio o del divino so­
stanzia il rapporto di un uomo pio e devoto.
Ora la Bibbia ebraica e quella cristiana, che qui ci interessano,
conoscono a fondo questa tematica e ne parlano in lungo e in largo.
Si aggiunga il contesto culturale di matrice greca che non è da meno.
Senza pretesa di completezza, vorrei analizzare alcune linee della
riflessione biblica in proposito con occhio attento al versante com­
parativistico del tema, cioè alla rilevazione di somiglianze e di diffe­
renze tra quella e il mondo greco.

• In Servitium 37(2003)147, 269-275.


72 Capitolo 8

l. LA LIBERTÀ DALlA PAURA O DAL TIMORE

Come noto, questo era l'ideale dello stoicismo: l'uomo saggio


non si lascia influenzare dalle «passioni>>, cioè dai sentimenti e dalle
emozioni, e non se ne fa schiavo, acquisendo una libertà interiore
profonda e radicale, pienamente padrone di sé. Il vertice indicato è
di raggiungere la piena «atarassia>>, l'imperturbabilità del soggetto.
Si capisce dunque che nel loro insegnamento morale gli stoici pro­
pongano la libertà dalla paura e dal timore che, lasciati a briglia
sciolta, renderebbero schiavi gli uomini.
Così Epitteto prospetta il futuro a chi sa riflettere: «Sarai impa­
vido e imperturbato (aphobos kai atarachos)>> (Dissertationes
4,1,84). In altri passi il filosofo propone la triade armonicamente
connessa di ataraxial aphobia l eleutheria (imperturbabilità, assenza
di paura o timore, libertà; 2,1,22); per dire che questa - la libertà esi­
stenziale - dipende da quelle. La stessa paura della morte, sentimen­
to assai diffuso e connaturale all'uomo, dev'essere bandita. Dice
sempre Epitteto: <<Temibile non è la morte o la sofferenza, ma il
temere la sofferenza o la morte>> (1,1,13).
L'aphobia o assenza di timore e di paura deve caratterizzare
anche il rapporto religioso, cioè l'adorazione degli dèi. E in proposi­
to Seneca dichiara che non avrebbe senso, perché gli dèi non solo
non vogliono nuocere agli uomini, ma neppure lo possono (Episto­
lae 15,95,49).
Da parte sua Teofrasto indica anche un mezzo per vincere la
paura: ascoltare musica (Frammenti 88), mentre Epitteto segnala quale
arma vincente l'educazione al retto giudizio, come nota Bonhi:iffer
nella sua nota monografia, mettendo cioè in campo la riflessione della
mente che valuta l'io profondo della persona inattaccabile dall'esterno.
Non diversamente dev'essere vinta la paura di fronte al tiranno
(Epitteto, Diss. 4,7,1-41) e alla stessa morte: Marco Aurelio dichiara
puerile la paura della morte (Pensieri 2,12,3).
Ancor più drastico si è mostrato Epicuro, che definisce Dio
come «il senza paura>> (aphobon; Frammenti 14) e afferma che la vita
semplice rende gli uomini «impavidi contro la sorte>> (pros ten tychen
aphobous; Ratae sententiae 10). Per un approfondimento si veda la
voce phobos in GLNT XV, 64ss.
La paura l il timore 73

Come si vede, in queste testimonianze appare una comprensio­


ne specifica dell'uomo, inteso anzitutto come io razionale che signo­
reggia sulle emozioni e i sentimenti, in generale sulle «passioni», vale
a dire l'ambito di quanto può influire sulla persona che è per natura
«agente» e non «paziente>>, in breve che non subisce alcunché (nes­
sun pati) ma domina tutto. Nello stesso tempo. però, vi emerge una
concezione antropologica di segno elitario e <<signorile>>, meglio, ari­
stocratico: solo l'uomo saggio, dunque forte, può essere un vero
uomo libero dal peso condizionante delle <<passioni>>, in concreto
dalla paura e dal timore.
Ora invece la testimonianza biblica si mostra più condiscenden­
te verso le emozioni e i sentimenti, in concreto verso la paura e il
timore. Non l'uomo come essere superiore o addirittura superman,
come Ercole, costituisce il perno dell'antropologia della Bibbia ebrai­
ca e cristiana, che si volge, occhio benevolo, verso i deboli, quanti per
svariate ragioni sono preda del pati, condizionati all'esterno e anche
nel loro animo, a volte travolti dalle <<passioni>>. In breve è con pietà
che gli uomini della Bibbia guardano alle persone.
Un esempio eclatante di tale prospettiva antistoica è lo stesso
Paolo che, pur dotato del carisma di apostolo di Cristo, non teme di
confessare la sua debolezza e il suo soggiacere al timore. Scrive ai
credenti di Corinto: <<E io mi presentai a voi in stato di debolezza e
di timore e tremore (en astheneia-i, en phobO-i kai en tromo-i)>> (2,3).
Si noti anzitutto la connessione tra debolezza e timore: questo è il
segno di quella. Inoltre il suo timore era così grande da essere defi­
nito anche come un tremare dalla paura. Infine si deve rilevare che
il coraggio (tharrein) , non il tremare di paura, era la caratteristica del
grande retore che dominava gli uditori anche dominando se stesso,
mostrandosi impavido e sicuro di se stesso. Di fatto nei primi quat­
tro capitoli della l Cor Paolo si confronta con quanti nella Chiesa di
Corinto lo guardavano con sufficienza e anche con una venatura di
disprezzo, perché non si era presentato a loro con la statura dell'ora­
tore, fiducioso nelle arti del suo linguaggio scintillante e persuasivo,
preferendogli Apollo, alessandrino di origine, e buon retore. Paolo
non nega, nella sua apologia, di essere un retore scadente, confessa
apertamente la sua debolezza umana, ma ai suoi detrattori risponde
che tutto questo è conforme alla logica controcorrente e sovversiva
74 Capitolo 8

della croce. Di fatto precisa: «Anch'io, fratelli, alla mia venuta da voi
non venni ad annunciare il mistero di Dio con sovrabbondanza di
parola o di sapienza. Non ritenni, in effetti, di sapere altro tra voi che
non fosse Gesù Cristo e questi crocefisso>> (2,1-2}. Il tutto fa parte
integrante dell'autentica dinamica del vangelo che non chiede il soc­
corso di «parole di sapienza>> per persuadere gli ascoltatori, ma si
affida alla forza convincente dello Spirito (2,4}, perché la fede non
poggia su punti di forza umani, bensì sulla potenza di Dio (2,5}.
In breve la debolezza umana, e la paura e il timore come segno
di questa, è caratteristica del progetto salvifico di Dio incarnato in
Cristo crocifisso, emblema di debolezza e impotenza agli occhi
umani, ma paradossalmente sacramento di potenza salvifica di Dio.
E con ironia sottile e tagliente sempre Paolo contrappone la
propria sorte di apostolo di Cristo alle vanterie dei suoi critici della
Chiesa di Corinto:
Ritengo infatti che Dio ha messo noi, gli apostoli, all'ultimo posto
quasi dei condannati a morte, diventati uno spettacolo per il mondo, gli
angeli e gli uomini. Noi insensati per amore di Cristo, voi invece
sapienti in Cristo; noi deboli, voi invece forti; voi onorati, noi invece
disonorati. Fino ad ora patiamo la fame e la sete, siamo nudi, veniamo
schiaffeggiati, vaghiamo senza fissa dimora, ci affatichiamo lavorando
con le nostre mani. Insultati benediciamo, perseguitati perseveriamo,
scherniti rispondiamo con dolcezza; finora siamo diventati come spaz­
zatura del mondo, immondizia di tutti (l Cor 4,9-13).

Per non dire di quanto Paolo scrive sempre ai corinzi nella


Seconda lettera: dopo essere stato contestato da un innominato
avversario della Chiesa corinzia, scritta loro una lettera «tra molte
lacrime>> (2,4} e, spedito Tito come latore di questa e mediatore
diplomatico nella vertenza con i credenti di Corinto, impaziente di
avere da lui notizie, lascia Efeso e arriva in Macedonia incontro al
suo delegato con questo animo, lo confessa lui stesso: «lotte all'ester­
no, timori (phoboi) all'interno» (7,5). Teme che i corinzi gli voltino
le spalle.
Lo stesso Gesù alla vigilia della morte, orante nell'Orto degli
ulivi, è descritto da Marco addirittura come uomo che di fronte alla
morte incombente è in preda al panico: <<E presi con sé Pietro e i due
figli di Zebedeo cominciò ad essere triste e atterrito» (Mt 26,36-46).
La paura l il timore 75

Nella versione di Marco (14,33) i l primo verbo è invece «sconvolto».


Gesù non è stato un Socrate che con animo imperturbabile è anda­
to incontro alla morte, ma un uomo atterrito dalla morte violenta
che Io stava colpendo. Dunque non un eroe greco, non un essere
superiore, ma una persona comune che fronteggia con sofferenza la
paura della morte, fedele, comunque, alla missione ricevuta da Dio
che intende portare a compimento costi quel che costi.

2. «TEMI IL SIGNORE>> / «NON TEMERE»

Sono due imperativi solo formalmente opposti e contraddittori.


In realtà nella Bibbia ebraica e greca si presentano complementari.
In che senso?
Nella tradizione greca, a parte la corrente stoica, di cui si è detto
sopra, il timore, inteso quale riverenza e tremante rispetto, è stato
proposto come dovere religioso per gli uomini. Nello Pseudo-Isocra­
te abbiamo questa successione di imperativi connessi tra loro: «Temi
gli dèi, onora i genitori, rispetta gli amici, obbedisci alle leggi» (Or.
1,16). E Platone non è da meno: <<Secondo natura [ . . . ] si temano
anzitutto gli dèi celesti>> (De legibus 1 1,927a.b).
Ancor più insistita è la precettistica ebraica che si presenta sotto
doppia forma: temere il Signore nel senso di religiosità o riconosci­
mento, incluso il sentimento di un certo tremore davanti alla sua
maestà e potenza - e qui ricorre più volte il sostantivo «timorati di
Dio», cioè le persone pie e devote -, ma anche in versione etica o
morale: timore come obbedienza ai suoi precetti. Questa seconda
valenza è tipica del Deuteronomio che connette strettamente il
motivo del timore a quello di amare, inteso in senso di obbedire, e
aderire (ai comandamenti); ci basti citare 10,12-13 e 10,20: <<E ora, o
Israele, che cosa chiede il Signore, Iddio tuo, da te? Che tu tema il
Signore, Iddio tuo, per camminare in tutte le sue vie, per amare e ser­
vire il Signore, Iddio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua
anima, che tu osservi i comandamenti del Signore e le sue leggi, che
oggi io ti do affinché te ne venga del bene••; <<Temi il Signore, Iddio
tuo, a lui servi, tienti stretto a lui, e giura per il suo Nome».
Oltre alla ripetizione un po' stereotipa di tale motivo, nel Nuovo
Testamento è caratteristica la dialettica tra il temere il Signore e
76 Capitolo 8

l'imperativo negativo «Non temere>>, la quale appare soprattutto nei


racconti evangelici delle guarigioni, in genere dei miracoli di Gesù, o
anche nei racconti delle apparizioni pasquali. Così, di fronte alla
tempesta sedata da Gesù con un semplice comando, i discepoli,
annota Marco in 4,41, <<furono presi da grande timore>>. Interessante
è notare la differenza nei passi paralleli di Luca 8,25: <<furono presi
da timore e stupore» e di Matteo 8,27: <<gli uomini furono presi da
stupore>>. Si tratta esattamente del timore epifanico: di fronte alla
manifestazione straordinaria della potenza divina nel mondo gli
astanti sono presi da un sentimento di timore reverenziale, che nasce
dalla persuasione della piccolezza degli uomini e della grandezza di
Dio, non priva di un qualche senso di tremore per la propria sorte, di
un vago sentore di una realtà minacciosa. Di qui si spiega l'impera­
tivo di non avere paura: la manifestazione divina non è di carattere
malefico, bensì benefico e salvifico. I pastori invitati dagli angeli ad
andare al presepio di Gesù sono esortati a non temere (Le 2,10). I
discepoli che vedono Gesù venire loro incontro camminando sulle
acque, e per questo terrorizzati (verbo tarassein), sono così interpel­
lati dal maestro: «Abbiate coraggio, sono io; non temete>> (Mc 6,50).
La stessa rassicurazione appare nei racconti delle apparizioni
pasquali (Mt 28,5; Mc 16,6).
In breve, il divino che si manifesta nella vicenda di Gesù non ha
il volto del rnysterium trernendurn che di regola appare nelle religio­
ni accanto al mysteriurn fascinans, come ha rilevato R. Otto nel suo
volume Il sacro, bensì solo e sempre quello del mysterium affasci­
nante, caratterizzato da pietà, amore, misericordia.
E in proposito non si può non fare riferimento al motivo classi­
co che ha caratterizzato la religione romana, imperniata sull'esigen­
za di placare deos, di ammansire l'ira e la collera degli dèi con riti e
preghiere. Certo anche nella Bibbia ebraica e negli scritti cristiani c'è
abbondanza di testi che sottolineano l'ira di YHWH e del Dio di
Gesù. Lo stesso Nazareno si è dimostrato debitore della sua cultura
ebraica (vedi il motivo della Geenna), anche se centrale in lui è la
faccia <<affascinante>> del suo Dio che fa grazia incondizionata agli
uomini perduti, mentre per Giovanni Battista Dio era presentato
come giudice minaccioso pronto a sradicare gli alberi e a bruciare la
pula se gli israeliti non si fossero convertiti e fatti battezzare da lui.
La paura l il timore 77

Ma è indubbio che l'ispirazione profetica di tanti passi vi ha opposto


un'immagine alternativa di Dio. Per es. Paolo in 2Cor, parlando di
riconciliazione, precisa che è Dio che riconcilia gli uomini a sé, non
che egli si riconcilia agli uomini (5,18--6,2). Questi si sono fatti nemi­
ci suoi; lui non è diventato nemico dell'uomo peccatore e infedele.
Chi ha bisogno di riconciliazione sono gli uomini, non lui. Egli è solo
colui che vince in noi la nostra lontananza da lui e il nostro essere
diventati suoi nemici.
·Per questo, per contrastare una religiosità della paura di Dio e
delle sue punizioni, di assoluto rilievo è il famoso passo della Prima
lettera di Giovanni. Famoso per due motivi, primo perché, unico in
tutta la Bibbia, definisce Dio come amore: il Dio di Gesù Cristo non
solo agisce per amore, ma l'amore è così centrale in lui da esprimer­
ne compiutamente l'essere; secondo, come conseguenza, perché la
risposta del credente è definita sullo stesso registro: amore e non
timore. <<L'amore perfetto butta fuori (exo ballei) [dalla nostra vita)
la paura, perché la paura ha a che fare con il castigo, e chi ha paura
non ha raggiunto la perfezione che si ottiene nell'amore» (4,18). E
nel versetto seguente l'autore mette in stretto rapporto l'amore di
Dio che ci precede e, come risposta conseguente, il nostro amore.
9.
CAMMINARE: TESTIMONIANZA BIBLICA*

Il verbo camminare/andare (in ebraico halak, in greco poreue­


sthai e peripatein) caratterizza non superficialmente il testo scritturi­
stico, in cui ricorre circa mille volte. Si può dire che l'uomo biblico vi
è rappresentato quale essere in cammino, e questo non solo in senso
proprio come esperienza di movimento, ma anche in senso figurato,
dove cammino sta per condotta, comportamento, modo di vivere. A
prima vista sembrerebbe di dover privilegiare questo secondo signi­
ficato, ritenuto più nobile e sottintendendo che il primo sia irrilevan­
te. Ma così non è, come appare da una ricerca attenta e scevra da
pregiudizi di marca spiritualistica.

l. IL CAMMINO DI ABRAMO

La storia delle origini umane si conclude con la genealogia di


Terach, padre di Abramo, e trapassa in quella patriarcale co n la noti­
zia che egli con la sua famiglia lasciò Ur «per andare nel paese di
Canaan>>, facendo sosta a Carran (Gen 11,31). S'introduce così la
vicenda di movimento di Abramo, che inizia con il comando del Si­
gnore di partire verso la terra della promessa (12,1) e con l'obbe­
dienza di quello: <<Allora Abram andò, come gli aveva ordinato il
Signore>> e con lui tutti i suoi familiari: <<s'incamminarono verso il
paese di Canaan>> (Gen 12,4 e 5).
È un cammino che contrassegna l'intera storia di Abramo e
del popolo che ne è derivato, qualificandola anzitutto con le due
preposizioni indicative di moto da luogo e moto a luogo, che
segnalano il punto di partenza e quello di arrivo. Implica un

• In SeTVitium 31(1997)111, 152-165.


80 Capitolo 9

abbandono e un approdo, abbandono di ciò che si è e si ha e ap­


prodo a ciò che sarà e si avrà. Ma tra i due estremi esiste un impe­
gnativo e faticoso percorso capace di unirli: il camminare di Abra­
mo ha avuto appunto tale valenza di congiunzione, per cui la par­
tenza non si è tradotta in un vagare senza meta nello spazio di nes­
suno, nel deserto cioè, e l'abbandono è stato non uno sradicamen­
to vissuto per se stesso e privo di qualsiasi prospettiva di un nuovo
e migliore radicamento, bensì un lasciare per ottenere, una perdi­
ta per un guadagno.
Da Ur ad Harran, poi da Harran a Canaan: possiamo verificare
su una cartina geografica la linea del tragitto. Ma è solo affidandoci
alla testimonianza del racconto che possiamo conoscere il movente
di questa avventura di Abramo, sollecitato a mettersi in cammino da
una parola del suo Dio, una parola imperativa, come si è visto sopra:
«Lascia la tua terra>>. Ma il comando divino e l'obbedienza umana
sono soltanto la causa immediata; l'uno e l'altra rientrano in un più
vasto e profondo quadro rcferenziale: da una parte il progetto del
Signore di crearsi il suo popolo e, insieme, di benedire «tutte le tribù
della terra>> (Gen 12,2-3), dall'altra la fiducia di Abramo nella pro­
messa divina: <<Egli credette al Signore, che glielo accreditò come
giustizia>> (Gen 15,6). Il patriarca si è messo in viaggio sulla parola
del suo Dio, facendogli credito e ottenendo per questo in accredito
di essere persona in giusto rapporto con lui. Un fiducioso affidarsi
però messo a dura prova, perché, giunto al termine del suo cammi­
no, deve constatare che la terra di Canaan è abitata da altri e che
dalla moglie Sara non riesce ad avere un figlio.
Lo avrà alla fine come frutto della promessa (cf. Gal 4,23), ma
poi sulla vita dell'erede pende una minaccia mortale, portata da lui
stesso, obbediente a una nuova, incomprensibile parola del suo Dio.
E c'è per lui un nuovo viaggio: «Prendi il tuo figlio, il tuo unico figlio
che ami, !sacco, va' nel territorio di Moria e offrilo in olocausto»
(Gen 22,2); «Abramo [ . . . ) prese con sé [ . . . ) il figlio !sacco [ . . . ) e si
mise in viaggio>> (22,3); «io e il ragazzo andremo fin lassù>> (22,5);
«proseguirono tutti e due insieme>> (22,6.8); «Arrivarono al luogo
indicato da Dio>> (22,9). Un camminare verso la morte interrotto da
una nuova parola di Dio (v. 11) e sostituito da un andare a prendere
l'ariete impigliato nel vicino cespuglio per sacrificarlo (v. 13). Il tutto
Camminare: testimonianza biblica 81

si conclude con il v. 19: Abramo e il figlio, con i servi, «si misero in


cammino verso Bersabea>>.
L'esistenza del patriarca, ci testimonia il libro della Genesi, è
stata un camminare ininterrotto attraverso la terra dei cananei a lui
promessa, ma con un ultimo atto significativo: prima di morire egli
potrà acquistare un fazzoletto di terreno, la grotta di Macpela in cui
essere sepolto (Gen 23).
Il figlio e questa piccola proprietà terriera sono, in realtà, pegno
di una promessa ben più grande, un popolo numeroso come le stelle
del cielo e il possesso della terra di Canaan che si estende da Dan a
Bersabea. Il suo cammino, scandito dalla parola promissoria e dalla
sua incrollabile fede, non si arresta a Macpela, ma continua nella sto­
ria con la creazione del popolo dell'elezione e la benedizione da
elargire all'umanità.

2. LE TRIBÙ ISRAELmCHE IN MARCIA DALL'EGITTO VERSO LA TERRA

Anche qui il cammino è scandito dai due complementi di moto


da luogo e di moto a luogo con un punto di partenza però del tutto
negativo: la schiavitù egiziana. È dunque un cammino di liberazione
verso la terra della libertà. Ecco i termini della missione affidata da
Dio a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo [ . . . ] sono sceso
per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo
paese verso un paese dove scorre latte e miele [ . . . ]. Ora va'! lo ti
mando dal faraone. Fa' uscire dall'Egitto il mio popolo>> (Es 3,7-10).
E a conclusione dell'uscita dall'Egitto il narratore biblico può anno­
tare: «Gli israeliti avevano camminato sull'asciutto in mezzo al
mare>> (Es 15,19).
La sua qualifica specifica però soprattutto è quella di un cammi­
no nel deserto «orrido e tremendo>>, tra mille difficoltà e insidiose
tentazioni. «Camminarono tre giorni nel deserto e non trovarono
acqua>> (Es 15,22). <<Arrivarono a Mara, ma non potevano bere le
acque di Mara, che erano amare» (Es 15,23). Giunti nel deserto di
Sin è la fame che patiscono (Es 16). E ancora: Amalek scende sul
sentiero di guerra per sbarrargli il passo (Es 17 ,8ss). Diremmo che
equivale a una corsa a ostacoli. E gli israeliti si rifiutano di andare
avanti, li prende la nostalgia di quello che hanno lasciato, vogliono
82 Capitolo 9

fare un anti-esodo: un cammino all'indietro, verso il passato, che ai


loro occhi è sì schiavitù sociale, ma pur sempre vita tranquilla, un
ritorno allo status quo antea: «Oh! fossimo morti nel paese d'Egitto
o fossimo morti in questo deserto! E perché il Signore ci conduce in
quel paese per morire di spada? [ . . . ]Non sarebbe meglio per noi tor­
nare in Egitto? Si dissero l'un l'altro: "Diamoci un capo e torniamo
in Egitto"» (Nm 14,3-4). La conseguenza è che la generazione di
quanti lasciarono l'Egitto non raggiunse il traguardo verso cui era
incamminata (Nm 14,26-35). Partirono ma non arrivarono mai: arri­
veranno i loro figli. Eppure avevano avuto anche una guida profeti­
ca, Mosè; persino uno straordinario compagno di viaggio capace di
sostenere e di salvare camminava con loro: <<lo camminerò con voi>>,
aveva promesso Dio solennemente (Es 33,14).
In una parola, è stato un cammino drammatico e tragico, nato
dall'entusiasmo dell'esodo dalla terra d'Egitto, terra di schiavitù,
messo a dura prova dal deserto e interrotto da uomini pavidi e
nostalgici, pronti a godere della liberazione avuta, ma indisponibili a
pagare il prezzo della libertà e per la libertà, perciò decisi a ritorna­
re nella schiavitù. È mancata la fede, quella che invece aveva soste­
nuto il padre Abramo, che sperò contro ogni speranza umana (Rm
4,18) e credette in quel Dio che chiama ad esistere l'inesistente e
risuscita i morti (Rm 4,17).

3. IL CAMMINARE DELLA SPIGOLATRICE RuT

Nell'incantevole vicenda di Rut narrata nel libretto omonimo il


verbo <<camminare» o <<andare>> diventa centrale nel c. 2. Ella chiede
alla suocera Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare>>,
e ne ottiene il permesso e l'autorizzazione: <<Va', figlia mia>> (v. 2). Si
mette dunque in moto: <<Rut andò e si mise a spigolare nella campa­
gna dietro ai mietitori>> (v. 3). Ma con questo è la sua stessa story a
mettersi in moto. Tutto sembra casuale, ma il cammino della storia
ha imboccato la sua strada: per caso Rut entra nel campo di Booz,
che, guarda caso, anch'egli arriva là dalla sua casa di Betlemme e vi
incontra la spigolatrice (vv. 3b-7). La sua parola a Rut è un invito
pressante e riguarda il camminare della spigolatrice: <<Non andare a
spigolare in un altro campo, non allontanarti di qui>> (v. 8). Il resto
Camminare: testimonianza biblica 83

della story, a lieto fine, non rappresenta che il seguito naturale di que­
sto andare di Rut nel campo di Booz: i due si sposeranno e Rut darà
alla luce un bimbo destinato a diventare il nonno del re Davide.
Ma tale approdo ultimo del matrimonio con Booz è stato reso
possibile da un previo camminare di Rut. la moabita. Si era sposata
con un figlio di Noemi, ma presto era rimasta vedova. Altrettanto era
capitato a una seconda donna moabita, di nome Orpa, andata sposa a
un altro figlio di Noemi. l cinque vivevano nel territorio moabita. E
quando Noemi decide di ritornare nella nativa Betlemme e lascia libe­
re le nuore di restare, anzi le invoglia a questo distacco, Orpa sceglie
alla fine di rimanere nel paese di Moab, la scelta di Rut invece è di non
abbandonare la vecchia suocera: <<Dove andrai tu andrò anch'io; dove
ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio il
mio Dio; dove morirai tu morirò anch'io e vi sarò sepolta» (1,16-17).
<<Così fecero il viaggio insieme sino a Betlemme>> (1,19).
L'originalità del camminare/andare di Rut è duplice. Anzitutto
è un andare insieme con Noemi, un cammino non di distacco, come
fu la decisione della cognata, bensì di solidarietà e comunione. Non
se ne è andata da Noemi, ma è andata con lei. E poi, una volta giun­
ta a Betlemme, il suo è stato un andare incontro a un'altra persona,
a Booz appunto. La story ha il suo fascino in questa sorpresa inaspet­
tata: Rut è andata nel campo di Booz come spigolatrice e così è
andata nella sua casa come sposa, nella prestigiosa casata degli ante­
nati del re Davide.

4. IL LUNGO CAMMINO DI ELIA FINO AL MONTE 0REB

È narrato in IRe 19. ll profeta, rigido e intollerante difensore dello


jahvismo, aveva sgozzato i profeti di Baal nel torrente Kison. ai piedi
del monte Carmelo. dopo averli sfidati in nome di YHWH. Per questo
dovette affrontare la collera della regina Gezabele che lo cercava a
morte. <<Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi>> (v. 3). Il suo
andare è dunque un allontanarsi dal pericolo, da un pericolo mortale,
prendere le distanze, cercare la salvezza altrove. lontano, fuori dalla
portata del persecutore. In una parola, è uno scappare, una fuga nel
deserto, luogo di rifugio dei perseguitati. Elia però è preso dallo scon­
forto; desidera farla finita, unica via di uscita ai suoi occhi di disperato.
84 Capitolo 9

Ecco la preghiera che rivolge al suo Dio: «Ora basta, Signore! Prendi
la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri>> (v. 4).
Quindi si addormenta sotto un ginepro, ma l'angelo del Signore
lo sveglia invitandolo a sfamarsi. Il profeta «vide vicino alla sua testa
una focaccia cotta su pietre roventi e un orcio d'acqua. Mangiò e
bevve, quindi tornò a coricarsi>> (v. 7). La cosa si ripete con l'angelo
che ora precisa il motivo del suo invito a mangiare: <<perché è trop­
po lungo per te il cammino» (v. 9). Il risultato è che Elia <<con la forza
datagli da quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti
fino al monte di Dio, I'Oreb>> (v. 8).
Il cammino di Elia si era arenato nel deserto, un po' come quel­
lo delle tribù israelitiche uscite dall'Egitto. Con una differenza rile­
vante: queste vogliono tornare indietro, il profeta invece vuole farla
finita. La sua crisi, per un certo verso, è anche più radicale. Lo aveva
assalito un taedium vitae conosciuto anche fin troppo bene dagli
uomini di tutte le latitudini e di tutti i tempi. Era una resa senza con­
dizioni. Mai sarebbe arrivato al monte Oreb, luogo dell'incontro con
Dio. Gli venne in aiuto Dio stesso, che lo rinvigorì a tal punto da
rimetterlo in un cammino senza soste fino alla meta.
Se il traguardo o punto di arrivo segna ultimamente il cammino
di Elia, è indubbio però anche che elemento caratterizzante ne è
l'equipaggiamento, necessario per portare a tennine il viaggio, un
equipaggiamento fornito da Dio che chiama il suo profeta a cammi­
nare verso di lui dandogli in pari tempo la forza di farlo.

5. GESÙ CAMMINA PER LA PALESTINA E VA A GERUSALEMME

È l'immagine costante che i racconti evangelici ci lasciano di


Gesù. Non per nulla si è visto in lui, dal punto di vista sociologico, un
predicatore itinerante. Il camminare è in realtà il suo vivere, un vive­
re pubblico, da incaricato di Dio, da profeta, diremmo. Non aspetta
che le persone vadano a lui, come faceva il Battista, ma è lui che va
a loro per comunicare e comunicarsi. Possiamo seguire il filo della
narrazione secondo Marco che però preferisce il verbo érchesthai
(venire) e i suoi composti <<entrare>> (eiserchesthai) e <<Uscire>> (exer­
chesthai) e «andare>> (poreuesthai). Il primo quadro ambientale del
camminare di Gesù è la Galilea: <<Dopo che Giovanni fu arrestato,
Camminare: testimonillnza biblica 85

Gesù si recò in Galilea>> (1,14); chiamati a sé i quattro primi discepo­


li <<andarono a Cafarnaa>> e Gesù entrò nella sinagoga a insegnare
(1,21); <<venne in un luogo deserto» a pregare, ma scoperto dai disce­
poli dice: <<Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predi­
chi anche là; per questo infatti sono venuta>> (1,38). Ora la notizia
redazionale del narratore riassume così: «E venne per tutta la Gali­
lea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni>> {1 ,39). E
se lui va dai suoi compatrioti, l'evangelista annota anche il movimen­
to inverso, di certo sollecitato dalla sua iniziativa di andare da loro:
<<E venivano a lui da ogni parte» (1,45; cf. 2,13; 3,8). Le formule mar­
ciane sono stereotipe e ripetitive: <<Ed entrò di nuovo a Cafarnao»
(2,1); <<E uscì di nuovo lungo il litorale>> (2,13); <<E in giorno di saba­
to egli andava attraverso i campi di grano>> (2,23); <<Ed entrò di nuovo
nella sinagoga>> (3,1); <<E Gesù si ritirò con i suoi discepoli verso il
lago>> (3,7); <<E sale sul monte>> (3,13); <<E viene in una casa>> (3,20).
I passaggi da una riva all'altra del lago di Galilea sono frequen­
ti con puntate verso il nord, la regione di Tiro e Sidone: «Passiamo
all'altra riva», dice; <<E giunsero all'altra riva del lago» (4,35; 5,1); «E
se ne andò e si mise a proclamare il suo messaggio nella Decapoli>>
(5,20); «Ed essendo Gesù passato di nuovo all'altra riva>> (5,21); <<E
se ne allontanò e viene nella sua patria>> (6,1). La notizia redaziona­
le del narratore risuona di nuovo in 6,6: <<E andava in giro per i vil­
laggi intorno a insegnare>>. Gesù invita quindi i discepoli a ritirarsi
con lui in disparte, in un luogo solitario, a riposarsi, e partono in
barca (6,30-32). È un viaggio andata e ritorno: <<Compiuta la traver­
sata, vennero a Genezaret>> (6,53); <<Partito di là se ne andò nella
regione di Tiro e Sidone» (7,24); <<Di ritorno dalla regione di Tiro,
venne passando da Sidone verso il lago di Galilea» (7,31); << . . . e
venne dalle parti di Dalmanuta>> (8,10); << . . . e se ne andò all'altra
sponda>> (8,13); <<E vengono a Betsaida>> (8,22); <<E Gesù se ne partì
verso i villaggi di Cesarea di Filippo>> (8,27); <<E partiti di là attraver­
sarono la Galilea>> (9,30); <<E vennero a Cafarnao>> (9,33).
Infine l'evangelista presenta il cammino di Gesù in Giudea con
arrivo finale a Gerusalemme. <<E partito di là viene nel territorio
della Giudea e al di là del Giordana>> (10,1); <<Ed erano in viaggio
per salire a Gerusalemme>> (10,32); «E vengono a Gerico e mentre
egli se ne andava da Gerico» (10,46); «E quando si avvicinano a
86 Capitolo 9

Gerusalemme» (11,1); «Ed entrò a Gerusalemme>> (11,11). Ha cosi


termine il cammino di Gesù e con questo finisce tragicamente la sua
vita: sulla croce è fissato in un'immobilità definitiva.
Com'è noto, sul viaggio a Gerusalemme insiste Luca, che
costruisce una lunga sezione del suo vangelo (9,51-19,28), scandita
dal seguente ritornello - tra parentesi Luca usa di regola il verbo
poreuesthai : «Con decisione andò verso Gerusalemme» (9,51);
-

«Era in cammino verso Gerusalemme>> (9,53); «E passava per città e


villaggi insegnando mentre era in cammino verso Gerusalemme»
(13,22); «E avvenne che mentre andava a Gerusalemme>> (17,11);
«Gesù andava avanti salendo verso Gerusalemme>> (19,28).
La città santa è il suo destino, come egli risponde alle minacce
di Erode: «È necessario che oggi, domani e posdomani io vada per la
mia strada, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di
Gerusalemme>> (13,33). E ancora ai discepoli con maggior precisio­
ne profetizza: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu
scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo si compirà>>, cioè
morte e risurrezione (18,31-33). Il suo cammino ha dunque un esito
drammatico: è un andare verso la morte orrenda della croce. Ma Dio
risusciterà il crociftsso. La conclusione finale è un camminare verso
la vita di risorto.
Anche la missione dei suoi discepoli è fatta consistere in un anda­
re. Gesù dice ai Dodici: <<Non ve ne andate sulla strada dei gentili e
non entrate nella città dei samaritani; andate invece piuttosto alle
pecore perdute della casa d'Israele; e strada facendo proclamate che
il regno di Dio si è fatto vicino>> (Mt 10,5-7). Sono le stesse limitazio­
ni che il maestro di regola si è imposto, come del tutto uguale appare
il contenuto del messaggio da proclamare: la prossimità di Dio re.
Senza limiti invece è la missione affidata dal risorto ai discepoli: <<Mi è
stato dato da Dio ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate
miei discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del
Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che
vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del
mondo>> (Mt 28,18-20). L'evangelizzazione consiste dunque nell'anda­
re agli uomini, superando le distanze e creando un incontro a faccia a
faccia. Certo un cammino difficile da realizzare, ma motivo di fiducia
è la presenza di Cristo risorto, che cammina con i suoi.
Camminare: testimonianza biblica 87

6. GESù FA CAMMINARE

Un capitolo non secondario della sua vicenda narrata dai vange­


li sono le guarigioni, segni dell'irruzione nel mondo della potenza
creatrice e vivificatrice di Dio. Per questo egli appare nelle vesti di
terapeuta dei corpi malati. Ma è significativo rilevare che alcune gua­
rigioni siano indicate come un comando ad alzarsi e andare. A un
paralitico portatogli davanti dice con parola efficace: «Alzati, prendi
il tuo lettuccio e va' a casa tua>> (Mc 2,1 1 e par.; Gv 5,8). Alla figlio­
letta di Giairo si rivolge imperativamente in lingua aramaica: « Talirà
kum, che significa "Fanciulla, io ti dico, alzati">>, con questo effetto:
«Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare>> (Mc 5,41-42).
Naturalmente per gli storpi guariti il verbo camminare è d'ob­
bligo. Segno messianico preannunciato da Isaia e da lui realizzato è
che «gli storpi camminano>> (Mt 11,5; Le 7,12). E come Gesù hanno
agito i suoi apostoli, ci dice il libro degli Atti. Allo storpio che sulla
porta del tempio gerosolimitano chiede l'elemosina Pietro dice:
«Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel
nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!>>. Parola efficace: «E,
presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le cavi­
glie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro
nel tempio camminando, saltando e lodando Dio>>, tra lo stupore dei
presenti (At 3,6-9). Paolo non è da meno: <<C'era a Listra un uomo
paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai
camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo
con lo sguardo e notando che aveva fede di essere risanato, disse a
gran voce: "Alzati dritto in piedi!". Egli fece un balzo e si mise a cam­
minare>> (At 14,8-10).
S'impone un'ovvia riflessione. Se per tutti il camminare è qual­
cosa di scontato e naturale, non mancano persone immobilizzate,
paralizzate, private dell'uso delle proprie gambe. Un handicap assai
grave, che nella tradizione evangelica e apostolica assurge a male da
cui il messia atteso è venuto a liberare. Fa parte di quelle infermità
che estenuano e limitano le capacità dell'uomo. Poter camminare
per loro è il risultato di un dono di grazia dall'alto e prefigura un
mondo liberato dal male, che gli ambienti biblici saturi di speranze
escatologiche e apocalittiche hanno sognato. Perché se è vero che
88 Capitolo 9

solo a pochi Gesù e i suoi apostoli hanno rivolto l'imperativo effica­


ce: «Alzati e cammina>>, non è meno vero che questi pochi gesti di
liberazione sono anticipatori della nuova creazione.

7. PERIPATETICI DELLO SPIRITO

Nei nostri ricordi liceali è custodito il fatto di quei filosofi del­


l'antichità seguaci della dottrina aristotelica chiamati peripatetici,
«camminatori>>. Sul filo delle lettere di Paolo altrettanto si può dire
dei credenti, con una preziosa e decisiva specificazione però: cammi­
natori spinti dal dinamismo dello Spirito. Non si tratta di un dato
scontato, bensì di un'esigenza imprescindibile, essendo qui indicati­
va la parola dell'apostolo: siate camminatori secondo lo Spirito. Un
imperativo comunque fondato sull'indicativo del dono divino dello
Spirito: se lo avete avuto come effetto della promessa di Dio, !ascia­
tevene guidare nel cammino della vostra vita.
Per completezza si deve precisare il quadro antropologico di
tale originale prospettiva teologica di Paolo. Questi comprende l'esi­
stenza cristiana come una lotta che vede in campo due forze: la
«carne>>, dinamismo egocentrico, e lo <<spirito>>, dinamica alternativa
all'insegna dell'agape o dell'amore e suscitata dallo Spirito donato
da Dio. Sono forze opposte che si combattono nel cuore dell'esiste­
re cristiano con esiti antitetici secondo la prevalenza dell'una o del­
l'altra: morte eterna e salvezza finale. Da notare che per Paolo, al di
fuori dell'azione di Cristo e di Dio donatrice dello Spirito, l'uomo è
occupato del tutto dal dinamismo della «carne>> e votato alla perdi­
zione ultima. Di qui l'insistente esortazione dell'apostolo a lasciarsi
guidare dallo Spirito e a contrastare la carne. Ecco il testo di Gal
5,13-26 che parte dal dato consolidato nell'argomentazione prece­
dente della lettera che i credenti in Cristo sono stati liberati per gra­
zia dal giogo della legge. Ora Paolo sottolinea l'esigenza che questa
libertà sia preservata con comportamenti coerenti e responsabili,
riassumibili nell'esigenza dell'amore: <<Mediante l'agape mettetevi a
servizio (douleuete) gli uni degli altri>> (v. 13). Una libertà parados­
salmente salvaguardata da un'indispensabile reciproca schiavitù, da
una schiavitù per amore. Non si tratta di un comandamento del tipo
dell'imperativo categorico di kantiana memoria, che si impone alla
Camminore: testimonianza biblica 89

volontà dell'uomo con la forza della legge. Scaturisce invece da una


dinamica di grazia presente nel credente, che rende capaci di amare.
Ciò spiega il secondo imperativo di Paolo volto a chiarire e specifi­
care il primo: «camminate in linea con lo spirito (pneumati peripatei­
te) e non sarete portati a soddisfare la cupidigia della carne» (v. 16).
L'apostolo si cura subito però di precisare in modo esemplificativo a
che cosa spinge la carne e su quale strada conduce lo Spirito. «Le
opere della carne sono palesi: immoralità sessuale, impurità, licen­
ziosità, idolatria, magia, inimicizia, discordia, gelosia, animosità, divi­
sioni, ribellioni, faziosità, invidie, ubriachezze, orge e comportamen­
ti del genere>> (vv. 19-21). «Il frutto dello Spirito invece è amore,
gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, con­
tinenza>> (vv. 22-23). L'ultima parola di Paolo è di sintesi: «Se vivia­
mo dello Spirito, dobbiamo camminare (stoichomen, verbo analogo
a peripatein) anche nello Spirito».

Il passo parallelo della Lettera ai Romani 8,1-17 incentrato


anch'esso nell'antitesi carne-spirito ci offre, per quanto attiene al
nostro tema, una peculiarità: lo Spirito, dono di grazia per quanti
appartengono a Cristo (v. 9), è detto guida dei cristiani nel loro cam­
mino di vita: «Tutti quelli che sono "agiti" (agontai) dallo Spirito di
Dio, sono loro i figli di Dio», avendo ricevuto <<uno spirito da figli
adottivi per mezzo del quale possiamo gridare: "Abba, Padre! "» (vv.
14-15). Una guida interiore che fa camminare sulle vie dell'agape.
Per Paolo, il credente in Cristo visto in prospettiva di responsabilità
etica non è un esecutore scrupoloso di norme e direttive eteronome,
ma un docile camminatore sulla spinta e la conduzione di una dina­
mica interiore di amore, dono di grazia.
Un ultimo riferimento paolina: in Rm 6,4 l'apostolo chiarisce la
valenza misterica del battesimo inteso come partecipazione alla
morte di Cristo e alla sua risurrezione, nel senso che il credente
viene coinvolto nella vicenda stessa di Gesù, che diventa sua vicen­
da di morte e vita. <<O non sapete che quanti siamo stati battezzati in
Cristo Gesù, lo siamo stati nella sua morte? Per mezzo del battesimo
infatti siamo stati sepolti insieme con lui nella morte, affinché, come
Cristo fu risuscitato dal regno dei morti dal glorioso Padre, così
anche noi camminiamo sui sentieri di una vita nuova». Si noti l'asim­
metria: Paolo non dice: come Cristo è stato risuscitato, cosi anche noi
90 Capitolo 9

siamo stati risuscitati. La risurrezione è nascosta ancora nelle pieghe


del futuro ultimo, oggetto di speranza; al presente i credenti sono
attivati da Cristo e dal suo Spirito a un cammino nuovo, fuori meta­
fora, a condurre un'esistenza nuova.

8. CAMMINARE NELLA LUCE, NELLA TENEBRA

È noto che a Giovanni dobbiamo queste formule densamente


simboliche, che abbinano all'immagine del cammino (con il verbo
periparein) indicativo del comportamento e del vivere dell'uomo, il
simbolismo della luce e della tenebra. Già lo stesso evangelista parla
in termini propri, messi in bocca a Gesù, del camminare con la luce,
cioè di giorno, e con la tenebra della notte: <<Se uno cammina di gior­
no, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se inve­
ce uno cammina di notte, inciampa perché gli manca la luce>> (Gv
11,9-10). Si potrebbe aggiungere che in mancanza di luce è fatale
sbagliare strada e non giungere alla meta prefissata. Lo stesso dice
espressamente, come vedremo, proprio Giovanni.
L'applicazione metaforica e simbolica è testimoniata più volte
nel Vangelo e nelle lettere di Giovanni. Anzitutto abbiamo il seguen­
te detto di Gesù che si identifica con la luce: «Sono io la luce del­
l'umanità; chi mi segue non camminerà nella tenebra, ma avrà la
luce della vita» (Gv 8,12). In altre parole, si autodefinisce guida che
illumina il cammino verso il traguardo della vita del nuovo mondo e
nello stesso tempo garantisce a chi lo segue da discepolo (akolou­
rhein) di giungere alla meta della salvezza. Una garanzia che è anche
un invito: se vuoi giungervi, è necessario che ti metti aUa sua seque­
la. In un passo giovanneo parallelo Gesù aveva dichiarato di essere
la via, la verità, la vita (14,6), dove le tre qualifiche non sono sempli­
cemente abbinate quanto al senso, ma l'una in funzione dell'altra:
Gesù è via sicura che conduce alla vita, o salvezza ultima, disvelan­
doci con la sua parola e la parola che è lui, il volto di Dio e del figlio
unigenito mandato nel mondo per amore dell'umanità.
In Gv 12,35 è sempre Gesù che parla, per dire che la presenza
della luce, cioè della sua persona, tra i contemporanei è per breve
tempo ancora e per sollecitare di conseguenza in questi termini:
«Camminate mentre avete la luce, perché la tenebra non vi sorpren-
Camminare: testimonianza biblica 91

da>>; in questo caso si cammina a casaccio: «Chi cammina nella tene­


bra non sa dove va». E subito si precisa che camminare nella luce
vuoi dire credere nella luce, che è Gesù (v. 36). Tra le molte strade
che si offrono ai viandanti l'unica che conduce alla vita è lui stesso e
credere in lui è avere ferma fiducia che in questo modo si è incam­
minati verso il traguardo della vita finale.
Ancor più presenti sono l'immagine e il simbolo suddetti nelle
lettere giovannee, dove però la prospettiva anziché cristologica è
teologica. «Chi cammina nella tenebra non è in comunione con Dio»
(1Gv 1,6), che «è luce e in lui non c'è tenebra>> (1Gv 1 ,5). Cammina­
re nella luce invece vuoi dire essere in comunione gli uni con gli altri
e ricevere in dono il perdono dei peccati (1Gv 1,7). Più avanti, cam­
minare nella luce e nella tenebra è connesso strettamente con l'amo­
re del fratello e con l'odio per lui: «Chi ama suo fratello dimora nella
luce e non v'è in lui occasione di inciampo. Ma chi odia suo fratello
è nella tenebra, cammina nella tenebra e non sa dove va, perché la
tenebra ha accecato i suoi occhi>> (2,10-11).
Nella Seconda e Terza lettera di Giovanni scompare il simbolo
della luce e la qualifica positiva del camminare viene data dal metro
della verità, una verità intesa nel senso concreto di fedeltà alla paro­
la di Cristo, riassumibile nel comandamento dell'amore del fratello:
«Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che cammi­
nano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto
dal Padre>> (2Gv 4; cf. 3Gv 3 e 4). «E in questo sta l'amore: nel cam­
minare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che
avete appreso fin dal principio. affinché camminiate in esso>> (2Gv 6).
Simile è la testimonianza della Lettera agli Efesini: «Cammina­
te nell'amore, come anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per
noi>> (5,2). E ancora: «Se un tempo eravate tenebra. ora siete luce nel
Signore. Camminate dunque da figli della luce>> (5,8).
In una parola, per Giovanni, seguito dall'autore di Efesini, il
cammino dei credenti nella luce è un'esistenza all'insegna della fede
in Cristo e dell'amore per i fratelli, di quell'amore ablativo per cui
Gesù si è consegnato alla morte a nostra salvezza.
lO.
IL SONNO:
CARRELLATA AlTRAVERSO LA BIBBIA*

l. VALE LA PENA PARLARNE?

Ieri il giornale riportava in grande evidenza il risultato, non so


se sorprendente o meno, di un'inchiesta: milioni di italiani soffrono
di insonnia. La causa principale è lo stress. E metteva in guardia i let­
tori: solo chi dorme bene e a lungo raggiunge una straordinaria lon­
gevità.
Non si pensi che si tratti di una realtà banale, indegna di grande
considerazione, perché anche in un aspetto così elementare e scon­
tato si può arguire, dalle sue diverse valutazioni, una specifica com­
prensione antropologica. Lo attesta, con chiarezza, quanto in merito
ci ha trasmesso la sapienza greco-romana dell'antichità. Bastano
alcune significative testimonianze.
Per un verso, si esalta il sonno come necessità primaria dell'uo­
mo di riposarsi dalle fatiche e dagli affanni della vita. Così nell'Enei­
de Virgilio lo presenta come fonte di ristoro dalle preoccupazioni e
dalla spossatezza del lavoro (9,224s). Omero lo qualifica con gli
aggettivi «felice>> ( Odissea 8,445; Iliade 23,232), «dolce>> ( Odissea
12,311; Iliade 10,91), «piacevole e soave>> (Iliade 14,164). E si riven­
dica al vino il merito di procurare il sonno che fa dimenticare le fati­
che quotidiane (Euripide, Baccanti 282).
Ma da parte delle grandi correnti filosofiche greche, protese a
esaltare la ragione umana e la sua prodigiosa attività di pensiero e
riflessione, non ci poteva che essere uno sguardo critico verso il son-

• In Servilium 34(2000), 56-62.


94 Capitolo 10

no: sospende ogni attività cosciente dell'uomo. Secondo Eraclito gli


stolti sono come i dormienti (fr. 73). Lo stesso autore antico addebi­
ta a chi dorme di emigrare dal «mondo comune>> per rinchiudersi nel
<<suo propriO>> universo (fr. 89). Platone è critico nei confronti di un
sonno prolungato, che «non giova né ai corpi né alle anime>> ed equi­
para il dormiente a un morto (De legibus 7,808b-c). Di fatto nel
sonno la dimensione animalesca e selvatica (theriodes te kai agrion)
dell'uomo ha la prevalenza su quella razionale e mite (logistikon kai
hemeron) (Respublica 9,571c). Filone non esita a dichiarare che
l'amore del sapere è nemico del sonno (De ebrietate 159). Nella let­
teratura ermetica infine si parla di sonno alogos, che mette l'uomo
sullo stesso piano dei bruti (1,27).
È un'antropologia di segno dualistico e spiritualistico che qui
emerge chiaramente: il sonno è il segno rivelatore che l'uomo non è
essere unidimensionalmente «logico>>. Certo, fa parte integrante
degli esseri spirituali, capace non solo di conoscere i misteri del
mondo e di Dio, ma anche di riflettere su se stesso e di avere coscien­
za di sé, eppure è anche, essenzialmente, parte del mondo materiale
e «alogico>>, in concreto, del regno animale. In una parola, la valuta­
zione positiva e quella critica e addirittura negativa del sonno dipen­
dono dal tipo di comprensione della realtà materiale e <<alogica>>:
dimensione apprezzata dell'uomo o fardello che lo spinge in basso e
di cui è necessario liberarsi ora nell'ascesi e definitivamente alla fine
nella morte.
Una parola, per concludere, su Socrate e l'ammirazione da lui
suscitata in Critone: il filosofo dorme tranquillamente in cella prima
di bere la coppa del veleno (Platone, Critone 43b). L'annotazione
serve a evidenziare come il grande ateniese sia padrone assoluto di
se stesso e affronti impavido la morte. Siamo nella linea dell'eroici­
tà del personaggio dipinto e presentato come modello ai posteri.

2. l DATI SALIENTI DELLA TRADIZIONE SAPIENZIALE EBRAICA

Lo anticipo subito: la dimensione creazionistica della fede ebrai­


ca e cristiana secondo cui tutto è stato creato da Dio e perciò tutto è
essenzialmente <<buono>>, conforme cioè e rispondente al progetto
divino, porterà gli uomini della Bibbia a valutare in termini positivi,
Il sonno: carrellata anraverso la Bibbia 95

intendo dire sul piano umanitario, il sonno. Già il cantore del Sal
127,2 confessa che Dio concede ai suoi diletti il dono del riposo nel
sonno. E anche il profeta Geremia in 31,26 chiama dolce il sonno che
lo ristora ed è sorgente di energia. Ma sono indubbiamente i testi
sapienziali di Ecclesiaste, Siracide e Proverbi a interessarsi, non di
passaggio, del nostro tema.
In concreto, l'Ecclesiaste presenta due considerazioni opposte.
Per un verso, rileva che il sonno del lavoratore è dolce anche quan­
do non ha molto da sfamarsi. Evidentemente esso ne lenisce la stan­
chezza. Ma nello stesso tempo rileva che il ricco ben pasciuto e rim­
pinzato proprio per questo non riesce a prender sonno (5,11). Ma
poi egli volge lo sguardo al travaglio che mina l'esistenza umana
sulla terra e per questo impedisce all'uomo di riposare tranquillo nel
sonno (8,16). Che l'insonnia sia un male, la cui radice è vista nell'in­
quietudine che rode la psiche dell'uomo potente come di quello
povero, lo afferma anche il saggio del Siracide (40,5): una stessa con­
danna per persone tanto diverse. Lo stesso autore ribadisce la sua
convinzione: l'ansia di chi è proteso ad arricchirsi gli impedisce i l
sonno (31,1). Il Siracide procede sempre per contrasti: il sonno pre­
mia la persona che a tavola sa essere temperante, mentre l'insonnia
tormenta chi va a letto con lo stomaco appesantito da troppo cibo
(31,20). Si noti che la saggezza israelitica, parente stretta di quella egi­
ziana che godeva vasta fama nell'antichità, non disdegna di inoltrarsi
in consigli dietetici di buona salute. Un buon sonno fa bene alla per­
sona ed è parte integrante di quel suo benessere anche materiale che
i sapienti non disdegnavano di perseguire per i loro discepoli.
Sempre il Siracide, attento osservatore del vivere umano, dipin­
ge con una venatura di sottile umorismo la situazione di un padre
preoccupato della figlia: se ancora nubile, si dà pensiero per il suo
matrimonio; se si è appena sposata, parimenti si angustia perché
potrebbe essere sterile e per questo magari ripudiata dal marito:
un'angoscia capace di togliergli il sonno, mentre si arrovella in que­
sti due interrogativi: <<Si sposerà? l Sarà sterile?>> (42,9).
Nei Proverbi il presupposto necessario per poter ben dormire è
invece di carattere spirituale: al saggio l'autore dice: «Se ti coriche­
rai non avrai ragione di temere, ti coricherai e il tuo sonno sarà pia­
cevole» (3,24). Non diverse in proposito le affermazioni del Salterio:
% Capitolo 10

la fiducia in Dio protettore è un buon guanciale: <<lo mi corico e mi


addormento; il Signore è il mio sostegno» (Sal 3,6); <<Mi corico in pace
l e presto m'addormento l Signore, tu mi poni al sicuro>> (Sal 4,9).
Anche l'innamorata del Cantico dei Cantici dorme tranquilla e
felice, gratificata dell'amore del suo diletto, ma è pronta a balzare
dal letto se appena sente la sua voce che la chiama: <<lo m'ero addor­
mentata, ma il mio cuore era sveglio. Un rumore! È il mio amato che
bussa>> (5,2).
Ma la sapienza israelitica, accanto a una valutazione positiva del
sonno in quanto tale, denuncia, con evidente piglio critico, il sonno
prolungato del pigro e del fannullone. In questione, in realtà, è la
pigrizia, che si esprime plasticamente nella figura di chi si adagia e si
annulla nel sonno. L'autore dei Proverbi è sarcastico in questa
descrizione del pigro: <<0 pigro, fino a quando resterai coricato?
Quando ti alzerai dal tuo sonno? Un po' dormire, un po' sonnecchia­
re, un po' stare coricato senza far niente>> (6,9-10). Lo stesso autore
ricorre anche a toni offensivi: <<Chi dorme d'estate [quando il lavoro
agricolo incombe] è uno svergognato» (10,5). Pigrizia e sonnolenza
si richiamano l'un l'altra (Pr 19,15). Da parte sua il Siracide non esita
a bollare come stolto il dormiglione (22,9).
La sensibilità umanitaria della tradizione israelitica emerge in­
vece con tutta evidenza in una collezione legislativa assai antica,
come il Codice di alleanza (Es 21-23), seguito in questo dal Codice
deuteronomico. In concreto il legislatore si cura d'impedire che il
povero, che ha dovuto impegnare il suo mantello dal creditore, ne
sia privato di notte, quando deve dormire, dormire al caldo. Il credi­
tore non potrà trattenerlo presso di sé di notte: <<Se prendi in pegno
il mantello del tuo prossimo rendiglielo prima del tramonto del
sole, perché quello è la sua coperta, la veste della sua pelle: su che
cosa altrimenti dormirebbe?>> (Es 22,25-26a; cf. Dt 24,12s). Non
manca la motivazione religiosa: l'israelita deve così imitare la com­
passione del suo Dio: <<Se dovesse innalzare a me i suoi lamenti [nel
caso che fosse privato del suo mantello], io l'esaudirò, perché sono
misericordioso» (Es 22,26b) YHWH che si prende cura del sonno
.

del povero!
Il sonno: ca"ellata anraverso la BibbiD

3. LE ANNOTAZIONE SPORADICHE, MA NON BANAU,


DELLE SCR11TIJRE CRISTIANE

Anzitutto abbiamo una chiara attestazione evangelica sul dor­


mire di Gesù. La tradizione sinottica è concorde nel dire che duran­
te la traversata del lago di Galilea, mentre la barca era squassata da
onde tempestose, il maestro donniva tranquillamente. Le tre versio­
ni però non concordano pienamente. Marco, da cui Matteo e Luca
sembrano dipendere, annota la cosa dopo aver descritto la tempesta
che investe la barca, mettendo così in evidenza il contrasto tra i due
quadri. Inoltre, in modo visivo narra che egli continuava a dormire
poggiando la testa su un cuscino a poppa (4,35-41). Matteo lo segue
da vicino tacendo però del particolare colorito di Marco (8,23-27).
Luca invece menziona prima il fatto che Gesù si era addormentato
e dopo parla dello scatenamento della tempesta; di fatto intende
mettere in ordine di successione cronologica i due fatti.
Di solito gli esegeti si sforzano di trovare significati alti al fatto:
calma olimpica di Gesù nel trambusto dei flutti che minacciano di
sommergere la barca, segno della sua padronanza assoluta, che mani­
festerà poi, una volta svegliato, nel comando perentorio alle acque di
calmarsi. Ma il particolare di Marco del capo di Gesù reclinato a poppa
su un cuscino e il testo lucano che annota come una volta staccatasi la
barca dalla riva Gesù si era addormentato, stanno a dimostrare che la
lettura più semplice è la più ovvia: Gesù era stanco e aveva preso
sonno, un sonno così profondo da non avvertire l'infuriare degli ele­
menti della natura. Un tocco di umanità che ci parla forse più intensa­
mente dei tentativi di volerei trovare significati nobili e didattici.
La seconda annotazione che ci interessa fa parte della storia
parabolica delle dieci damigelle d'onore scelte a scortare la promes­
sa sposa a casa dello sposo per la festa delle nozze (Mt 25,1-13). Sic­
come l'attesa dello sposo si prolunga e già sono calate le tenebre, le
dieci damigelle si addormentano (v. 5). A mezzanotte lo sposo appa­
re per accogliere la sposa e le damigelle con le loro lampade si muo­
vono nel corteo, ma cinque di esse non si erano procurate olio di
riserva. Sono dunque obbligate ad andare a procurarselo, ma in que­
sto modo perdono l'appuntamento con lo sposo e con la sala del
banchetto nuziale: restano escluse.
98 Capitolo 10

Ora la lettura che Matteo presenta della parabola in chiusura


richiama l'attenzione sulla necessità di vegliare (v. 13), come se la
colpa delle damigelle stolte fosse stata quella di addormentarsi.
Ma anche le damigelle sagge avevano dormito, eppure erano en­
trate nella sala del banchetto di nozze. In realtà, il loro merito era
stato quello di essere persone previdenti e provvidenti: avevano
portato con sé riserve di olio, mentre le stolte si erano comporta­
te con leggerezza. Il primo evangelista si è lasciato trasportare dal
motivo etico del vegliare: l'uomo deve essere vigile e sveglio per
sapere affrontare le incertezze della vita. E ha guardato con
occhio critico al sonno delle damigelle, sonno invece beato e del
tutto legittimo.
Sempre nella tradizione sinottica si narra dei tre discepoli, Pie­
tro, Giovanni e Giacomo, un gruppetto a parte tra i Dodici, che nel
Giardino degli ulivi, invece di vegliare in preghiera accanto al mae­
stro oppresso da tristezza mortale, si sono addormentati (Mc 14,32-
42). Il contrasto è evidente: Gesù veglia alla vigilia della sua morte e
invita i suoi tre discepoli a vegliare con lui; invece essi si addormen­
tano. Un sonno, il loro, colpevole, frutto di desolidarizzazione dal
maestro, lasciato solo ad affrontare la drammatica situazione. Marco
poi, seguito fedelmente da Matteo, rileva il motivo del loro essersi
addormentati: i loro occhi erano pesti di sonno. Ma Luca precisa: la
tristezza li ha fatti addormentare (22,45). Non so se sono scusanti
che attenuano, senza annullarla, la responsabilità, o pretesti per sal­
vare l'onore dei tre discepoli.
Gli Atti degli apostoli invece narrano nel c. 20 di Paolo che dopo
aver celebrato l'eucaristia s'intrattiene fino a notte fonda a catechiz­
zare i cristiani di Troade. Ora un adolescente che stava a cavalcioni
su una finestra al piano superiore della casa ospite della comunità
locale, preso da sonno, si addormentò e cadde giù uccidendosi.
L'apostolo lo raccolse e lo fece rivivere. L'autore del libro intende
manifestamente esaltare l'apostolo taumaturgo, non inferiore a Pie­
tro, e tutti e due simili a Gesù operatore di risurrezioni. Resta però
il tocco di umanità che emerge dal racconto: un ragazzo che non riu­
scì a tenere dietro alle parole dell'apostolo e, sopraffatto dalla stan­
chezza, s'addormentò e mal gliene incolse. Buon per lui che c'era
Paolo con il suo straordinario carisma taumaturgico.
Il sonno: ca"ei/QùJ attraverso /Q Bibbia 99

Più seria mi pare l'annotazione che Paolo fa in 2Cor 6,5 e 11 ,27.


I due passi elencano le stazioni della via crucis dell'apostolo impe­
gnato nella sua azione evangelizzatrice e pastorale. Gli avversari,
nùssionari giudeo-cristiani che facevano sfoggio dei loro carisnù
spettacolari e si vantavano dei loro titoli di gloria, come eredità giu­
daica e origine ebraica di puro sangue, mettevano alla berlina Paolo,
per nulla dotato dell'arte oratoria, lontano dal presentarsi come
figura religiosa di straordinario spessore, un uomo qualunque che
per questo non aveva i titoli per potersi presentare quale <<servitore
di Cristo>> glorioso come glorioso è il Signore risorto. Paolo non nega
il rilievo sprezzante dei rivali: sì, è uomo debole; anzi esibisce la sua
pocbezza come segno di autentico apostolo, perché fatto a immagi­
ne di Cristo crocifisso per la sua debolezza e risorto per la forza di
Dio (2Cor 13,4). In una parola, egli paradossalmente si vanta delle
sue debolezze, perché in esse si incarna la potenza salvante di Dio.
Ora tra le varie stazioni della sua via crucis egli menziona le nume­
rose veglie a cui è stato costretto nella sua attività apostolica:
<< . . . nelle fatiche, nelle veglie, nei digiuni . . » (6,5);
. . nella fatica e
<< . .

nelle avversità, sovente in prolungate veglie, nella fame e nella


sete . . .>> (11,27). L'apostolo era stato privato di un meritato riposo e
di un dolce sonno: un bene a cui ha dovuto rinunciare per dedizione
al suo apostolato.
11.
LA PARRHESIA
NEL NUOVO TESTAMENTO*

Come è risaputo, il mondo greco andava fiero della sua demo­


crazia che esaltava la libertà dei cittadini e la loro attiva partecipa­
zione alla gestione dello Stato. La cittadinanza si riuniva periodica­
mente in assemblea (ekklesia) per trattare gli affari pubblici; e ogni
partecipante godeva del diritto di prendere pubblicamente la paro­
la, diritto chiamato parrhesia (letteralmente, dir tutto). Da parte sua,
la filosofia popolare, soprattutto di marca stoico-cinica, propaganda­
va il valore della libertà di parola (parrhesia), intendendola però
come dirittura morale della persona franca nel parlare e attenta a
evitare le arti dell'inganno e dell'adulazione.
Nel Nuovo Testamento il sostantivo parrhesia e il verbo corrispon­
dente parrheswzesthai ricorrono con una certa frequenza negli Atti
degli Apostoli, in Giovanni e nell'epistolario paolino. Ma in molti passi,
soprattutto giovannei, stanno a indicare la franchezza e sicurezza dei
credenti nel loro rapporto religioso, dunque nei confronti di Dio. A noi
interessano qui soltanto quei testi che sottolineano la libertà di parola
nei rapporti tra uomini. Comunque, non ci si limiterà a tale specifico
motivo tematico legato ai vocaboli suddetti, perché altri passi biblici ci
testimoniano manifestazioni reali di grande franchezza e coraggio nel
dire; e non possiamo certo passarli sotto silenzio. In ogni modo, ci sem­
bra di poter articolare il nostro discorso puntando l'attenzione sui com­
portamenti esemplari di Giovanni Battista, di Gesù, di Paolo e degli
apostoli Pietro e Giovanni che hanno dato eloquenti prove di libertà di
parola, di parrhesia. Oltre tutto, si potrà così cogliere al vivo questo
valore nella sua storicizzazione e incarnazione in determinate persone.

• In Servirium 18(1983)28, 335·345.


102 Capitolo ll

l. LA CHIARA E CORAGGIOSA PAROLA DEL BAITISTA

Nel prologo della sua opera il quarto evangelista qualifica Gio­


vanni come testimone della luce, che è Cristo: <<Venne un uomo man­
dato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per
mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva rendere testimonianza
alla luce>> ( 1 ,6-8).
Depositario di una particolare rivelazione di Dio, il Battista non
viene meno alla sua missione di disvelatore del mistero divino della
persona di Gesù. La sua testimonianza riveste il carattere di una
pubblica deposizione, resa davanti alle autorità giudaiche che gli
hanno inviato una delegazione ufficiale (cf. Gv 1,19.24). Ecco le bat­
tute dell'impegnativo interrogatorio:
«Chi sei tu?». Egli confessò e non negò, e confessò: <<Io non sono il Cri­
sto». Allora gli chiesero: «Che cosa dunque? Sei Elia?». Rispose: <<Non
lo sono>>. <<Sei tu il profeta?». Rispose: «NO>>. Gli dissero dunque: <<Chi
sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno manda­
to. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: <<lo sono voce di uno che grida
nel deserto. Preparate la via del Signore, come disse il profeta Isaia»
(Gv 1,19b-23).

E cosi si conclude il dialogo serrato:


«Perché dunque battezzi se tu non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?».
Giovanni rispose loro: «Io battezzo con·acqua, ma in mezzo a voi sta
uno che voi non conoscete, uno che viene dopo di me, al quale io non
sono degno di sciogliere il legaccio del sandalo» (Gv 1,25b-27).

Non c'è dubbio: le risposte del Battista sono chiare, schiette e


inequivocabili. Si notino i molti no che dice: egli nulla concede alla
sua ambizione di personaggio di grande richiamo popolare. Altret­
tanto significativa è la sola affermazione positiva che fa di se stesso:
una voce! Egli si identifica con la sua parola testimoniatrice che stor­
na le attese messianiche da sé per indirizzarle verso il vero messia,
Gesù di Nazaret.
Non solo un franco servitore della verità, ma anche un coraggio­
so fustigatore degli arbitri dei potenti, come afferma la tradizione
sinottica che ci ha conservato il ricordo della sua denuncia del com-
La parrhesia nel Nuovo Testamento 103

portamento scandaloso di Erode Antipa. Ecco la testimonianza di


Marco: <<Erode infatti aveva fatto arrestare Giovanni e lo aveva
messo in prigione a causa di Erodiade, moglie di suo fratello Filippo,
che egli aveva sposato. Giovanni diceva ad Erode: "Non ti è lecito
tenere la moglie di tuo fratello">> (6,17-18). Libertà di parola che gli
è costata la vita (cf. Mc 6,19ss). Il martirio ha suggellato il coraggio
del Battista nel dire la verità, sempre e a chiunque.

2. GEsù: FRANCA, DECISIVA E PUBBLICA TESTIMONIANZA DELLA VERITÀ

È all'evangelista Giovanni che dobbiamo la sottolineatura della


parola rivelatrice di Gesù, o meglio della parola rivelatrice che è Gesù.
Non per nulla il prologo del quarto �angelo lo defmisce «la Parola di
Dio>> (1,1), la Parola di Dio incarnata (1,14). Sempre lo stesso evange­
lista poi al protagonista della rivelazione contrappone «i giudei» come
prototipi degli irriducibili avversari e antagonisti. Testimoniata con
franchezza e in pubblico, la parola di Gesù trova ostacoli nei destina­
tari. Non per questo però egli si arrende. La sua parola assume pertan­
to un tono decisamente polemico. In breve, la luce splende nel mondo
ma le tenebre tentano di neutralizzarla chiudendosi colpevolmente nel
rifiuto di farsi illuminare. La denuncia di Gesù appare impietosa:
<<Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da
Dio [ . . . ]. Perché non comprendete il mio linguaggio? Perché non pote­
te dare ascolto alle mie parole, voi che avete per padre il diavolo, e
volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da
principio e non ha perseverato nella verità, perché non vi è verità in lui.
Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della
menzogna. A me invece non credete, perché dico la verità [ . . . ]. Chi è
da Dio ascolta le parole di Dio: per questo voi non le ascoltate, perché
non siete da Dio>> (Gv 8,40.43-45.47).

I sordi alla sua parola disvelatrice della «verità>>, che si identifi­


ca con il progetto salvifico di Dio incentrato in Cristo, progetto rive­
lato, non indietreggiano neppure davanti alla prospettiva della vio­
lenza: «Allora raccolsero pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù
si nascose e uscì dal tempio>> (Gv 8,59).
Si tratta di una parola divinamente autorizzata che Gesù ha
ricevuto dal Padre e che trasmette agli uomini. Dire la verità per lui
104 Capitolo 11

è stato espressione di fedeltà a Dio che lo ha inviato nel mondo


appunto come rivelatore, luce, parola. Dire la verità costituisce, tutta
e intera, la sua missione; ne fa fede la dichiarazione fatta davanti a
Pilato: «Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù:
"Th lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono
venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque
è dalla verità, ascolta la mia voce"» (Gv 18,37).
Si capisce così anche che rifiutare la sua parola vuoi dire auto­
condannarsi:
Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condan­
no; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare
il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo con­
danna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell'ultimo giorno
(Gv 12,47-48).

Dire la verità, da parte di Gesù, è evento che provoca gli uomi­


ni a una decisione avente peso determinante per il loro destino di
vita e di morte. E la responsabilità, massima, degli ascoltatori è pari
alla responsabilità di chi parla, cui non può essere concesso di tace­
re. Ne andrebbe della salvezza dell'umanità e della realizzazione del
progetto di Dio.
Ecco perché Gesù dice la verità in pubblico, all'aperto. Nessun
esoterismo. Il rivelatore del Padre non si chiude in circoli elitari,
non parla con linguaggio cifrato comprensibile solo alla cerchia
degli iniziati. Ancora una volta è l'evangelista Giovanni che accen­
tua tale aspetto usando qui il vocabolo parrhesia. Davanti al tribu­
nale giudaico Cristo ribadisce: «<o ho parlato al mondo apertamen­
te (parrhesia-i) ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio,
dove tutti i giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nasco­
sto (en krypto-i)>> (Gv 18,20).
Per questo, conoscendo l'avversione delle autorità religiose, la
gente si meraviglia: «Non è costui quello che cercano di uccidere?
Ecco, egli parla liberamente (parrhesia-i), e non gli dicono niente.
Che forse i capi abbiano riconosciuto davvero che egli è il Cristo?»
(Gv 7,25-26).
Gesù però non cerca una facile e demagogica pubblicità, a cui lo
spingevano gli stessi suoi familiari: «Parti di qui e va' nella Giudea
La parrhesia nel Nuovo Testamento 105

perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu fai. Nessuno


infatti agisce di nascosto (en krypto-i), se vuole essere riconosciuto
pubblicamente (en parrhesia-i). Se fai tali cose, manifestati al
mondo!>> (Gv 7,3-4).
Tale sollecitazione non è altro che espressione d'incredulità,
come Giovanni annota a proposito non solo dei fratelli di Gesù
(7,5), ma anche dei «giudei>>: «"Fino a quando terrai l'animo nostro
sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente (parrhesia-i)".
Gesù rispose loro: "Ve l'ho detto e non credete; le opere che io com­
pio nel nome del Padre mio, queste mi danno testimonianza"»
(10,24-25).
Solo alla fine Cristo si ritira in regioni non popolate: <<Gesù per­
tanto non si faceva più vedere in pubblico (parrhesia-i) tra i giudei;
egli si ritirò di là nella regione vicina al deserto, in una città chiama­
ta Efraim, dove si trattenne con i suoi discepoli» (Gv 1 1,54). È in
realtà il segno della condanna di quanti non lo hanno voluto ascol­
tare e accettare: «"Ancora per poco tempo la luce è con voi. Cammi­
nate mentre avete la luce, perché non vi sorprendano le tenebre; chi
cammina nelle tenebre non sa dove va. Mentre avete la luce credete
nella luce per diventare figli della luce". Gesù disse queste cose, poi
se ne andò e si nascose da loro>> (Gv 12,35-36).

3. LA UBERTA DI PAROLA DI PAOLO

Rievocando il suo soggiorno a Tessalonica e l'evangelizzazione


della capitale della provincia romana di Macedonia, l'apostolo può
affermare di non essere stato paralizzato dall'ostilità di cui poco
prima aveva fatto le spese a Filippi. Gli ostacoli non hanno avuto la
forza di tappargli la bocca. Riconosce però che il coraggio gli viene
da Dio: <<Ma dopo aver prima sofferto e subito oltraggi a Filippi,
come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio (eparrhesùisametha) nel
nostro Dio di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte>>
(1Ts 2,2).
Non solo: senza alcun timore di smentita, può confessare di aver
tenuto a Tessalonica un comportamento ben diverso da quello di
tanti predicatori itineranti di dubbia fama che strumentalizzavano la
Parola per interesse personale:
106 Capitolo 11

E il nostro appello non è stato mosso da volontà di inganno, né da tor­


bidi motivi, né abbiamo usato frode alcuna; ma come Dio ci ha trovati
degni di affidarci il vangelo, così lo predichiamo, non cercando di pia­
cere agli uomini, ma a Dio che prova i nostri cuori. Mai infatti abbia­
mo pronunziato parola di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di
cupidigia: Dio ne è testimone. E neppure abbiamo cercato la gloria
umana, né da voi né da altri, pur potendo far valere la nostra autorità
di apostoli di Cristo (l Ts 2,3-6) .

La parrhesia di Paolo si può definire responsabile assunzione


del servizio del vangelo, che gli incombe come <<necessità fatalisti­
ca», per usare la sua paradossale espressione: <<Non è infatti per me
un vanto predicare il vangelo: è una necessità (anagké) che incombe
su di me (nostra trad.]: guai a me se non predicassi il vangelo!>>
(lCor 9,16).
Paolo non è «libero» di annunciare o meno la verità del messag­
gio evangelico; come chiamato da Dio, non ha scelta. Quando poi è
in gioco la verità del vangelo, come la chiama espressamente, cioè il
lieto annuncio che ogni uomo, giudeo o greco, trova la salvezza alla
sola condizione di credere in Cristo, non esita ad affrontare lo stes­
so Pietro e a contestarlo pubblicamente. Nella comunità mista di
Antiochia di Siria, sotto la pressione di non meglio precisati integra­
listi, provenienti da Gerusalemme e ammantati del prestigio di Gia­
como, fratello del Signore, il principe degli apostoli aveva cessato di
partecipare alla mensa dei cristiani incirconcisi. Paolo lo prende di
petto: <<Se tu, che sei giudeo, vivi come i pagani e non alla maniera
dei giudei, come puoi costringere i pagani a vivere alla maniera dei
giudei?>> (Gal 2,14).
L'esempio di Pietro avrebbe spinto i credenti incirconcisi a farsi
circoncidere, per essere partecipi della mensa dei giudeo-cristiani.
L'incoerenza di Pietro, dice Paolo, è manifesta: prima il principe
degli apostoli non aveva avuto esitazione a sedersi a tavola con i
convertiti dal paganesimo. E la requisitoria di Paolo continua:
Noi che per nascita siamo giudei e non pagani peccatori, sapendo tut­
tavia che l'uomo non è giustificato dalle opere della legge, ma soltanto
per mezzo della fede in Gesù Cristo, abbiamo creduto anche noi in
Gesù Cristo per essere giustificati dalla fede in Cristo e non dalle opere
della legge; poiché dalle opere della legge non verrà mai giustificato
nessuno (Gal 2,15-16).
La parrhesia nel Nuovo Testamento 107

Nessun compromesso; neppure l'unità della Chiesa rappresenta


ai suoi occhi un altare tanto sacro da sacrificarvi la verità del vange­
lo. Nella comunità di Corinto invece i suoi oppositori si facevano
forti del loro straordinario carisrnatismo per minare alla radice la
sua autorità apostolica e, nello stesso tempo, contestare il suo mes­
saggio evangelico della libertà dei credenti da ogni condizionamen­
to culturale. Paolo afferma, scrivendo ai corinzi, di comportarsi con
grande franchezza (poi/e-i parrhesia-i) (2Cor 3,12). A differenza dei
suoi avversari, poi, non è ricorso a meschini mezzucci che fmiscono
per tradire il messaggio cristiano: «Perciò, investiti di questo ministe­
ro per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d'animo;
al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza compor­
tarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando
apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al
cospetto di Dio>> (2Cor 4,12).
In realtà, Paolo non fa che trasmettere quanto, a sua volta, ha
ricevuto per illuminazione divina: <<E Dio che disse: "Rifulga la luce
dalle tenebre", rifulse nei nostri cuori per far risplendere la cono­
scenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo>> (2Cor 4,6).
Le minacce non lo zittiscono, i tentativi d'intimorirlo non hanno
efficacia. È il suo Signore che lo rassicura, come affermano gli Atti
degli Apostoli: «E una notte in visione il Signore disse a Paolo: "Non
aver paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con
te e nessuno cercherà di farti del male">> (18,9-10).
Neppure la situazione di domicilio coatto riesce a renderlo muto.
Ecco la significativa conclusione degli Atti degli Apostoli: «Paolo tra­
scorse due anni interi nella casa che aveva preso a pigione e accoglie­
va tutti quelli che venivano a lui, annunziando il regno di Dio e inse­
gnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo, con tutta franchez­
za (meta pases parrhesias) e senza impedimento>> (28,30-31).
Lui incatenato, non è incatenata la parola di Dio (cf. 2Tm 2,9):
essa si fa sentire anche nel carcere:
Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piutto­
sto a vantaggio del vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque
si sa che sono in carcere per Cristo: in tal modo la maggior parte dei fra­
telli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunciare la
parola di Dio con maggior zelo e senza timore alcuno (Hl 1 ,12-14).
108 Capitolo 11

4. LA SFIDA DI PlFrao E GIOVANNI ALLE AUTORITÀ GIUDAICHE

Il capitolo IV del libro degli Atti degli Apostoli a buon diritto


può essere considerato il manifesto neotestamentario della libertà di
parola. Vi risuonano infatti un po' tutte le tonalità del motivo della
parrhesia. Anzitutto, Pietro e Giovanni parlano pubblicamente,
testimoniando la risurrezione di Gesù (v. 2). Ma in questo modo
suscitano la reazione contraria delle autorità del tempio, responsabi­
li morali dell'uccisione di Cristo, che li imprigionano (v. 3). Segue
l'interrogatorio, in cui Pietro, per nulla intimorito dal tono inquisito­
fiale dei sinedriti, proclama il messaggio evangelico incentrato su
Cristo morto e risorto (vv. 9-12). La sua è una deposizione resa
davanti al supremo tribunale giudaico. Deposizione ufficiale; ma
anche deposizione franca e coraggiosa, come riconoscono con stupo­
re gli stessi inquisitori: <<Vedendo la franchezza (tén parrhesian) di
Pietro e di Giovanni, e considerando che erano senza istruzione e
popolani, rimanevano stupefatti riconoscendoli per coloro che erano
stati con Gesù» (v. 13).
E siccome considerazioni realistiche impediscono di comminare
loro una esemplare condanna, i sinedriti decidono di imporre loro il
silenzio con le minacce: «E richiamatili, ordinarono loro di non par­
lare assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù» (v. 18). Ma la
risposta di Pietro e di Giovanni è pronta: «Se sia giusto innanzi a Dio
obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo
tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (vv. 19-20).
Tra il comando del Signore e la proibizione delle autorità non si
pone neppure il problema: la scelta è di parlare secondo la missione
ricevuta, costi quel che costi.
Per opportunismo politico tuttavia gli accusati alla fine sono
rilasciati. Possono dunque raccontare l'accaduto alla comunità cri­
!ltiana riunita, che innalza al Signore una fervida preghiera perché
sia preservata la libertà di parola degli evangelizzatori: «Ed ora,
Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di
annunziare con tutta franchezza (meta parrhesiàs pasés) la tua paro­
la» (v. 29).
E la risposta divina alla supplica non si fa attendere: ha luogo
una nuova pentecoste, pentecoste allargata a tutta la comunità cri-
La parrhesia nel Nuovo Testamento 109

stiana gerosolimitana: «Quand'ebbero terminato la preghiera, il


luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono pieni di Spirito San­
to e annunziavano la parola di Dio con franchezza (meta parrhe­
sias)» (v. 31).
È allo Spirito dunque che si deve il dono della franchezza del­
l'annuncio.
In breve, la libertà di parola è un carisma.

5. UN ORIZZONTE MOLTO VASTO

In conclusione, la parrhesia neotestamentaria analizzata sopra


mostra evidenti somiglianze con la parrhesia greca intesa quale valo­
re morale della persona, mentre si differenzia dalla parrhesia politi­
ca. Ha però sempre carattere pubblico. È franchezza nel dire, chia­
rezza di linguaggio, coraggio davanti agli ostacoli frapposti dagli
ascoltatori, intrepidezza di fronte ai potenti, disponibilità a pagare il
prezzo più alto pur di non tacere. Indiscussa originalità invece ha la
parrhesia neotestamentaria quanto al suo duplice aspetto di testimo­
nianza di una verità divinamente rivelata e di carisma donato dallo
Spirito. Qui dire la verità equivale in realtà ad annunziare il vange­
lo, cioè il lieto annuncio che in Cristo la salvezza è offerta in dono a
tutti gli uomini.
Un orizzonte molto vasto, in cui il valore umano del dire la veri­
tà o della libertà di parola prende senso compiuto per un credente.
12.
OSTENTAZIONE E FIEREZZA
DEL CRISTIANO*

Confesso di essermi trovato in difficoltà a ricercare nel Nuovo


Testamento quei motivi che possono richiamare il tema della fierez­
za del cristiano. Come tale, infatti, non ha riscontri immediati e diret­
ti. Si potrebbe fare riferimento al motivo paolino della «parresia».
Nel mondo greco era questa la caratteristica degli uomini liberi, ai
quali soltanto era concesso di prendere la parola nelle assemblee cit­
tadine. Un diritto negato agli schiavi e alle minoranze etniche e del
quale i possessori andavano orgogliosi. Paolo l'applica a se stesso.
Egli è il coraggioso banditore dell'annunzio evangelico nel mondo
(Ef 6,19-20). È sicuro nel suo ministero (2Cor 3,12). Non nasconde
di essere fiero della sua comunità di Corinto (2Cor 7,4). La sua sicu­
rezza però è riposta in Dio (lTs 2,2) e nel Signore (Ef 3,12; Fm 8).
Non lo atterrisce neppure la situazione di prigionia che sopporta
coraggiosamente (Fil 1,20). Mi sembra però che sia un tema restrit­
tivo, anche perché è applicato all'apostolo in modo particolare.
Ho pensato allora di allargare la prospettiva alla totalità del­
l'esperienza cristiana, per cogliere nella sua dinamica se e in che
modo si può parlare di fierezza. Ma cosi è giocoforza limitare il
campo d'indagine. In concreto, si restringe la ricerca alla Prima let­
tera ai Corinzi. La scelta però non è casuale. Si tratta di uno scritto
che si qualifica per un confronto serrato tra Paolo e la sua comuni­
tà, il quale si eleva a confronto tra un cristianesimo euforico ed entu­
siastico, quello vissuto a Corinto,1 e un cristianesimo all'ombra della

• In Servitium 12(1978)28, 354-363.

1 Cf. in proposito lo studio di H. SCHUER, «<l tema centrale della prima Epistola ai
Corinti•, in Io., l/ tempo della Chiesa, Bologna 1965, 236-254, e lo stimolante contributo
polemico di E. K.AsEMANN, Appello alla liberlil, Torino 1972, 77-1ff7.
112 Capitolo l2

croce, quello prospettato da Paolo. Tale impostazione permetterà


non solo di cogliere, da un lato, l'ostentazione orgogliosa dei creden­
ti e, dall'altro, la possibile fierezza di chi crede nel Crocifisso risorto,
ma anche di individuare il quadro teologico in cui fiorisce l'uno e
l'altro atteggiamento del cristiano. In altre parole, in una prospettiva
di fede che privilegia la risurrezione di Cristo e la sua gloria trion­
fante è fatale che il credente assuma posizioni di sicurezza e di orgo­
glio religioso, mentre dall'adesione vera al crocifisso consegue un
orientamento esistenziale di segno opposto.

1. l BORIOSI DI CoRINTO

Nella Chiesa corinzia, almeno da parte di una minoranza domi­


nante, si operò un vasto e radicale processo di reinterpretazione del
messaggio evangelico alla luce della cultura greca. Questa, cauivante
per il suo brillio, agì come forza capace di imbrigliare la predicazione
apostolica nelle strette maglie di un'ideologia religiosa. Lo scritto di
Paolo permette di farcene un'idea abbastanza precisa, anche se non
sempre certa. Dovendo ricostruire una situazione storica a partire
dalle reazioni dell'apostolo, è necessario affidarsi qua e là a tentativi
interpretativi che spesso non superano il grado di probabilità.
Innanzitutto, nella Chiesa di Corinto erano presenti tracce
rimarchevoli di una «cristologia della gloria». Dell'annunzio tradi­
zionale di Cristo morto e risorto (15,3-5) era quest'ultimo evento ad
essere privilegiato. Non che si negasse la morte in croce di Gesù.
Accettando la predicazione primitiva i credenti avevano certo aderi­
to a questo articolo del credo (15,1-2). Ma lo consideravano un fatto
del passato, una volta per tutte buttato alle spalle, comunque supe­
rato dalla sfolgorante risurrezione. Con entusiasmo inneggiavano al
«Signore della gloria>> (2,8), a colui che era penetrato nel mondo
divino assumendone in tutto e per tutto la condizione. Anche i ricor­
di della cultura greca mitologica, che conosceva la divinizzazione
degli eroi introdotti nell'olimpo divino e beneficiari dell'immortali­
tà, doveva avere influito nell'interpretare il dato cristiano in questa
chiave. Come essere divinamente trasfigurato, Cristo si era liberato
per sempre dal mondo e dalla storia, in particolare dai loro limiti e
dalle loro contraddizioni. Ammantato di splendore, egli vive ora
Ostentazione e fierezza del cristiano 1 13

nelle sfere celesti e superiori. In una parola, è l'ideale dell'umanità


che si salva, evadendo da questo mondo e dalla condizione terrena,
secondo le più profonde attese del mondo greco.
Di conseguenza, anche la Chiesa era compresa come comunità
dei credenti in Cristo risorto e glorioso. A una cristologia della gloria
corrispondeva, di necessità logica, un'«ecclesiologia della gloria>>. I
cristiani partecipano al destino trionfante del Signore, percorrendo la
stessa strada di salita al cielo e di abbandono della terra. Naturalmen­
te, si tratta di un processo spiritualistico che interessa l'io interiore
del singolo. Questi resta legato alla storia fino alla morte, ma con vin­
coli superficiali, estrinseci, che non intaccano la sua anima, alla quale
è possibile una liberazione totale da ciò che è materiale e mondano.
In che modo? Il primo fattore è da individuare nella presa dello
Spirito inteso come forza travolgente e creatrice di fenomeni straor­
dinari ed estatici. Nella Chiesa di Corinto si erano verificate manife­
stazioni particolari di carattere carismatico. C'erano cristiani che
cadevano in estasi e pronunziavano parole incomprensibili, cariche
di pathos, espressive di forte e intensa emotività ma prive di qualsia­
si contenuto razionale (il fenomeno della glossolalia). Altri poteva­
no vantare ispirazioni divine capaci di farli penetrare nelle misterio­
sissime profondità di Dio. Ora tutto questo era interpretato come il
segno più evidente che i beneficiari di tali esperienze erano uomini
divinizzati nel loro io spirituale, liberati dalle strettoie della condi­
zione terrena e abitatori del mondo celeste.
In secondo luogo, i corinzi erano dei sacramentalisti. Attribuivano
infatti all'eucaristia e al battesimo un'efficacia assoluta e magica, simi­
le a quella dei misteri pagani. La partecipazione al sacramento equiva­
leva per essi alla partecipazione allo stato sovrumano di Cristo risorto
ed esaltato. Entrando in rapporto di comunione con lui, ce condivide­
vano la libertà dal mondo terrestre. In una parola, il loro massimalismo
sacramentale li spingeva a vedere nella cena del Signore una «medici­
na di immortalità>>, come dirà più tardi Ignazio di Antiochia.
In questa prospettiva si spiegano due atteggiamenti fondamen­
tali dei corinzi. Il primo: la rivendicazione di una libertà da tutti e da
tutto. Nessuna realtà di questo mondo ormai può valere per essi. Nel
loro io profondo e spirituale sono emigrati già nelle sfere celesti.
Vivono a parte, o meglio al di sopra della terra. In particolare, di
114 Capitolo 12

fronte al sesso e al matrimonio, espressioni tipiche della condizione


umana e terrena, c'era chi assumeva un atteggiamento di sperimen­
tazione incondizionata e selvaggia. Non si rifuggiva neppure dalla
frequentazione delle prostitute (6,12-20). Uno della comunità convi­
veva addirittura con la matrigna (5,lss). Si badi bene: ciò facevano
non per debolezza; il loro comportamento non era espressione di un
lassismo morale. Voleva invece essere l'espressione massima della
loro libertà interiore e spirituale di fronte alle cose. Intendevano cosl
dimostrare la loro superiorità. Il contatto con il sesso non li compro­
metteva affatto nel loro spirito.
D 'altra parte, sempre in maniera ostentatoria, non mancavano
quelli che, partendo dagli stessi principi teorici, deducevano una
prassi opposta. Se il proprio io spirituale è libero dal mondo, allora
ci si deve astenere rigorosamente dal sesso (c. 7). In concreto, gli
sposati escludevano dalla loro vita rapporti intimi: «È bene per l'uo­
mo che non tocchi donna>> (l ,7). Si giungeva anche a rompere il vin­
colo matrimoniale per poter vivere in modo angelico. Si scioglieva­
no i fidanzamenti. Alle vedove era vietato di passare a seconde
nozze. In una parola, da persone libere si intendeva vivere una esi­
stenza asessuata.
Anche su altri piani si proclamava a parole e si traduceva in fatti
una libertà illimitata dalle situazioni storiche e mondane più conso­
lidate. In particolare, le donne partecipavano al culto a testa scoper­
ta, né più né meno come gli uomini (11,2-16). Gli schiavi ritenevano
di non essere più soggetti alla loro condizione socio-economica.
Pagani ed ebrei pensavano di essere automaticamente sciolti dalla
loro collocazione culturale e religiosa (7,17ss). A scanso di equivoci,
si deve precisare che era in atto a Corinto un processo di evasione
spiritualistica dalla storia e dal mondo, e di disprezzo, di marca dua­
listica, di ogni realtà materiale e terrena. Il movimento di liberazio­
ne femminile, sociale e culturale-religiosa, dunque, portava questo
timbro alienante.
Un terzo campo di libertà spiritualistica e individualistica è dato
rilevare nella Chiesa corinzia. Riguarda le manifestazioni religiose
della città: i suoi riti pagani, specialmente i pasti sacri consumati nei
templi o sulle tombe dei defunti (cc. 8 e 10). Ora, c'erano cristiani che
ostentavano atteggiamenti libertari e provocatori. Consapevoli che gli
'Ostentazione e fiere:z::z:a del cristiano : 1 15

dèi sono delle nullità, non si facevano alcuno scrupolo di partecipare


alle manifestazioni religiose pagane, incuranti dello scandalo dei
deboli, che vedevano nei riti sacri cittadini un'espressione idolatrica.
Accanto a questa libertà ostentata e orgogliosa dal mondo e
dalle sue realtà e situazioni, i corinzi vivevano una situazione cristia­
na di sicurezza estrema Ritenevano infatti irreversibile il nuovo
stato di vita, acquisito nella partecipazione a Cristo risorto e glorio­
so e mediante l'azione travolgente dello Spirito. Una volta usciti
dalla storia, ne erano per sempre liberi. Nessuna minaccia, nessuna
tentazione. Si sentivano garantiti e rassicurati. In una parola, erano
degli arrivati senza possibilità di ritorno. Un efficace brano paolino
di rara ironia li rappresenta in questi termini, antitetici alla condizio­
ne umile ed esposta dello stesso Paolo e dei suoi collaboratori:
Già voi siete sazi! Già voi siete diventati ricchi! Senza di noi, voi siete
giunti a regnare! Fosse vero che voi siete giunti a regnare! Anche noi
saremmo giunti a regnare con voi! ( . . . ] Noi siamo stolti a causa di Cri­
sto, voi invece sapienti in Cristo; noi deboli e voi forti; voi onorati e noi
disprezzati (4,8.10).

Tirando le somme, si può dire che a Corinto era nata e aveva


messo radici profonde una concezione trionfalistica dell'esistenza
cristiana, propria di persone in stato di possesso, affette da un mas­
simalistico complesso di superiorità rispetto ai credenti umili e sem­
plici e tanto più ai non-credenti. Si chiamavano i forti, i perfetti, gli
spirituali, cioè i posseduti dallo Spirito divinizzante, gli gnostici, vale
a dire gli illuminati. Guardavano dall'alto in basso i deboli, gli imma­
turi, gli psichici, cioè i compromessi ancora con questo mondo e
quelli privi di ogni superiore coscienza illuministica. Si ponevano al
di sopra di tutti, abilitati a giudicare tutti e tutto e intoccabili dal giu­
dizio di qualsiasi altro.
Dunque un modo orgoglioso di vivere la propria fede. In primo
luogo, un orgoglio titanico di fronte a Dio. A Corinto i beneficiari
delle esperienze carismatiche straordinarie, i possessori delle ispira­
zioni divine elitarie, i conoscitori raffinati dei misteri profondi di
Dio, gli sbandieratori di una libertà illimitata e selvaggia si autoesal­
tavano come autocrati costruttori di se stessi, dimentichi della grazia
di Dio. Paolo è costretto a questa vivace denuncia: «Chi infatti ti
116 Capitolo 12

distingue? Che cosa possiedi che non abbia ricevuto? E se l'hai rice­
vuto, perché inorgoglirti come se non l'avessi ricevuto?>> (4,7). Poco
più avanti dichiara: «Non è bene che vi vantiate>> (5,6). Ma anche nei
confronti degli altri si ostentava un atteggiamento orgoglioso. L'apo­
stolo constata che la conoscenza religiosa degli illuminati di Corinto
è causa di spirituale gonfiamento: «La conoscenza gonfia d'orgo­
glio>> (8,1). Con boria infatti si comportavano ignorando le difficoltà
dei fratelli deboli e indifesi. Neppure lo stesso Paolo sfuggiva ai loro
giudizi altezzosi di uomini superiori. Ecco come egli reagisce con
vivacità: «Ora alcuni, pensando che non ritornassi più da voi, si sono
gonfiati di orgoglio. Ma, se il Signore lo vorrà, io verrò presto da voi
e allora prenderò conoscenza non delle parole di questi orgogliosi,
ma della loro forza•• (4,18-19).

2. L'ESISTENZA CRISTIANA ALL'OMBRA DEL CROCIFISSO

In dialettica con gli interlocutori di Corinto, Paolo contrappone


un'interpretazione del cristianesimo del tutto diversa. Lo fa elabo­
rando un'approfondita «cristologia della croce». Ma se questo è un
dato facilmente rilevabile alla lettura dello scritto, si impone l'esi­
genza di comprenderlo rettamente. La croce è stata infatti oggetto di
diverse interpretazioni lungo i secoli. Il suo valore simbolico per sé
non è univoco. Quale significato ha nella l Cor? Che cosa vuoi dire?
A prima vista si pensa alla rassegnazione e alla sofferenza. Alla
mente dell'uomo della strada essa evoca rinuncia e mortificazione. Il
pensiero corre anche a concezioni oscurantistiche che, in nome della
croce di Cristo, tendono a esorcizzare i movimenti di rivolta degli
oppressi e a combattere le insurrezioni degli sfruttati. Per esempio,
E. Bloch ricorda la famosa risposta di Lutero al movimento rivolu­
zionario dei contadini tedeschi guidati da Mi.intzer: «Dolore, dolore,
croce, croce spetta al cristiano gridò Lutero con linguaggio biblico,
non senza il ricordo di Paolo, ai contadini ribelli» (Ateismo nel cri­
stianesimo, Milano 1971, 52).
Si deve subito precisare che il discorso paolino non assume la
croce in modo astratto. Parla sempre soltanto della croce di Cristo
(1,17) o, ancor più concretamente, di Cristo crocifisso (l ,23; 2,2.8).
La seconda precisazione da fare è che per croce l'apostolo intende
Ostentazione e fierezza del cristiano !17

non soltanto la morte di Gesù, ma anche la sua risurrezione, compre­


se come due facce di un'unica medaglia (1,18; cf. 2Cor 13,4). Non si
deve infine disattendere che la croce viene presentata quale conte­
nuto specifico della predicazione evangelica (1,18.23; 2,2). In una
parola, Paolo si riferisce alla morte e risurrezione di Gesù che rias­
sumono l'avvenimento salvifico. Propriamente, la croce significa
l'esatta chiave di interpretazione della salvezza offerta da Dio agli
uomini per mezzo di Gesù Cristo.
Programmatico appare il seguente versetto: «La predicazione
della croce è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che
sono sulla via della salvezza, per noi, è potenza di Dio» (1,18). Vi cor­
risponde poco più avanti: <<E mentre i giudei chiedono miracoli e i
greci cercano la sapienza, noi predichiamo un messia crocifisso, scan­
dalo per i giudei e stoltezza per i pagani. Ma per quelli che sono chia­
mati, sia giudei che greci, il messia è potenza e sapienza di Dio>>
(1,22-24). Per salvare l'uomo che si era perduto nel rifiuto del suo
Creatore e nell'autodeificazione, Dio ha seguito la strategia di
mostrare la sua potenza vivificante risuscitando il crocifisso. Sulla
croce Gesù aveva sperimentato il vertice dell'ignominia e dell'impo­
tenza. Come tale, l'uomo che ricerca gloria e potenza lo rifiuta net­
tamente. Ma le vie di Dio non sono le vie umane. Egli lo ha risusci­
tato. La croce è sì stoltezza e impotenza allo sguardo degli uomini,
ma espressione del potente progetto salvifico di Dio, perché è luogo
della manifestazione della sua potenza risuscitatrice da morte.
Il risorto dunque non è un uomo divinizzato, né un eroe di que­
sto mondo introdotto dagli dèi nel loro olimpo celeste, ma un croci­
fisso, un reietto, a cui Dio ha dato ragione, strappandolo dal regno
dei morti. Il disprezzato dagli uomini è l'amato da Dio. Questa con­
traddizione resta per sempre. Cristo risorto è identico al Gesù croci­
fisso. Dissociarli per aderire con gioia alla luce e alla gloria del mat­
tino di Pasqua, gettando alle spalle la tenebra e il fallimento del
Venerdì santo, sarebbe un'operazione strumentalizzatrice di caratte­
re ideologico e mistificatorio. Nell'identità di Cristo, l'impotenza e
l'ignominia umane restano indissolubilmente legate alla potenza e
alla gloria di Dio.
Ora, nell'annunzio evangelico tale evento incredibile viene pro­
clamato agli uomini, interpellandoli affinché nella fede vi aderiscano
118 Capitolo 12

e l'accettino quale espressione dell'azione divina e offerta di possibili­


tà reale di salvezza. L'adesione richiesta, come precisa Paolo, va a Cri­
sto crocifisso esattamente in quanto scandalo e stoltezza agli occhi
degli uomini che ricercano potenza e gloria (1,23). In altre parole, l'ac­
cettazione di fede del Crocifisso implica l'accettazione di una precisa
prospettiva antropologica. Questa: l'uomo è di fatto impotente a sal­
varsi da solo. Di fronte al suo destino di vita e di piena realizzazione
egli si è chiuso in un vicolo cieco. Avendo abbracciato un orientamen­
to esistenziale di egocentrismo e di rifiuto di Dio come suo Creatore
e conseguentemente degli altri come fratelli (1,21; cf. Rm 1,18ss), egli
va alla deriva nell'impotenza personale e politica di amare. Da questa
sua morte esistenziale solo Dio lo può strappare manifestando in lui e
nella storia umana la stessa potenza vivificatrice e risuscitatrice disve­
late già a beneficio del Crocifisso. Di conseguenza, gli è sottratta ogni
possibilità di vantarsi di fronte al suo Dio, quasi fosse artefice di se
stesso e della sua piena realizzazione (1 ,29). Lo scandalo di Cristo cro­
cifisso si ripete nella proposta salvifica che il Padre avanza mediante
la predicazione del vangelo rivolta a tutti gli uomini. Per questo Paolo
può indifferentemente affermare che il Crocifisso è scandalo e stoltez­
za (1,23) e che la predicazione cristiana, incentrata nella croce, è stol­
tezza (1,18.22). Come parimenti nella croce di Gesù e nella parola
evangelizzatrice dei missionari, ha luogo la manifestazione della
potenza divina risuscitatrice del Crocifisso da morte e rigeneratrice di
ogni uomo che vi si affida nella fede.
Evidenziata questa cristologia della croce, Paolo viene a chiarire
ai suoi destinatari che logicamente non si potrà avere che una «eccle­
siologia della croce». Come Cristo, così la sua Chiesa. Nel sacramen­
to il credente partecipa non alla gloria del risorto, ma alla sua morte
liberatrice dall'egocentrismo e impegnativa par un cammino di
amore e di solidarietà. La risurrezione è rimandata al futuro. Ora è il
tempo della dura fedeltà da vivere in questo mondo e dentro la sto­
ria. Una volta passato il Mar Rosso e liberati dalla schiavitù egiziana,
gli israeliti non entrarono subito nella terra. S'incamminarono invece
nel deserto e, a causa della loro infedeltà, non ne uscirono mai più.
Non diversa è la vicenda dei credenti. Gettato alle spalle il loro pas­
sato peccaminoso (6,11), al presente sono responsabilizzati in un
cammino faticoso verso il futuro promesso (10,1-13).
Ostentazione e fierezza del cristilmo 1 19

L'esistenza cristiana dunque non è fuga, né evasione dalla storia


e da questo mondo, ma presenza viva e sofferta dentro i conflitti e le
contraddizioni, le speranze e i dubbi, le angosce e i fallimenti propri
all'esistenza terrena. Anche la fede non sfugge alla storicità dell'uo­
mo. La precarietà e la debolezza non sono sottratte magicamente al
campo esperienziale del credente. Gli resta sempre, minacciosa, la
possibilità di ricadere nel passato. Deve ancora far fronte alla tenta­
zione. Nessuna sicurezza gli è garantita dall'alto.
Le esperienze carismatiche, poi, non sono segni dell'entrata in
un nuovo mondo, superiore a questo. Lo Spirito è sì dono ai creden­
ti (12,13), ma è dato come principio di solidarietà nell'unico corpo
ecclesiale (12,7; 12,12ss) e di confessione concreta della signoria di
Gesù (12,3), come caparra, in attesa dell'esplosione piena del suo
potere santificatore nella futura risurrezione (15,44-49).
Ancora con i piedi ben piantati in terra, i credenti sono però
chiamati a vivere ogni situazione storica in una nuova prospettiva
esistenziale, che Paolo definisce come appartenenza al Signore
(3,23). Cioè si tratta di obbedire a Cristo, concretamente di vivere
con gli altri instaurando rapporti di mutua sollecitudine e di fattiva
solidarietà nell'amore. È questa la novità cristiana come possibilità
donata per grazia e come impegno responsabile. La libertà di azione
acquisita nella fede non vuoi dire scioglimento dai legami dell'esi­
stenza terrena, tanto meno liberazione da questo mondo, ma capaci­
tà nuova di vita all'interno di una comunità solidale.
Il cristianesimo contrassegnato dalla croce, in definitiva, è alie­
no da ogni orgoglio religioso, estraneo a tutte le espressioni di trion­
falismo cristiano, antitetico allo spirito elitario, avverso alle evasioni
spiritualistiche ed estatiche, contrario allo stato di possesso.
La fierezza del credente consiste dunque nel vivere dentro le
pieghe più profonde della storia, subendone i contraccolpi e soffren­
done tutte le contraddizioni, né più né meno come gli altri uomini,
con la viva ed operante certezza, però, che la potenza di Dio è risu­
scitatrice e creatrice dal nulla delle nostre impotenze. Sottratta ogni
possibilità di vantarsi di se stesso, gli resta, legittimo, il potere di tro­
vare motivo di vanto in Dio: <<Grazie a lui, voi siete in Cristo Gesù,
diventato per noi sapienza da parte di Dio, giustificazione, santifica­
zione e redenzione, affinché, come dice la Scrittura, chi vuole trova-
120 Capilo/o 12

re motivo di gloria si vanti nel Signore>> (1,30-31). Vive all'ombra


della croce, luogo di estrema derelizione e disfatta, ma anche di pro­
digiose possibilità di grazia e risurrezione.
Mi sia consentito di chiudere con una commovente ed espressi­
va confessione di Paolo:
In effetti, io penso che Dio ci ha messi in mostra, noi apostoli, all'ulti­
mo posto, come dei condannati a morte; siamo stati dati in spettacolo
al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi siamo stolti a causa di Cristo;
voi invece sapienti in Cristo; noi deboli e voi forti; voi onorati e noi
disprezzati. Finora noi siamo affamati, assetati, nudi, maltrattati, senza
stabile dimora, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Ci insul­
tano? Benediciamo. Ci perseguitano? Sopportiamo. Ci calunniano?
Rispondiamo amichevolmente. Finora siamo diventati come la spazza­
tura del mondo, i rifiuti dell'umanità (4,9-13).
13.
COSCIENZA, LIBERTÀ, A GAPE•

È risaputo che l'Antico Testamento, fatte pochissime eccezioni


(cf. Qo 10,20; Sap 17,11 e Sir 42,18), non conosce espressamente il
tema della coscienza. Un'assenza che si spiega sullo sfondo dell'an­
tropologia ebraica, secondo cui l'uomo si definisce non in rapporto
a se stesso, nell'introspezione e nella conoscenza profonda del pro­
prio io, ma nel faccia a faccia con YHWH e la sua volontà salvifica
ed esigitiva. Di conseguenza, norma dell'agire sarà la parola divina
rivelata nella storia.
Nel Nuovo Testamento poi, dei trenta passi in cui ricorre il voca­
bolo «coscienza>> (syneidesis), quasi tutti sono paolini e deuteropao­
lini. Si ritiene che sia stato Paolo a introdurre nel linguaggio cristia­
no il termine <<coscienza>>, seguito dalla sua <<scuola>> o tradizione. A
lui dunque soprattutto ci si deve rivolgere quando viene affrontato
scritturisticamente questo motivo tematico.
Qui però, di fatto, ci si occuperà soltanto di una sezione della
Prima lettera ai Corinzi, in cui il tema della coscienza non solo appa­
re in primo piano, ma anche e soprattutto viene strettamente corre­
lato, da una parte, alla libertà e, dall'altra, all'agape (amore).
Naturalmente la riflessione di Paolo in 1 Cor 8-10 verte su una
situazione ecclesiale e, più in generale, socio-culturale lontana
dalle nostre esperienze. Ma, riconosciuto il fatto incontrovertibile
di un problema datato, resta pur sempre vero che il testo paolino si
presenta capace, ancor oggi, di far riflettere un lettore attento e
sensibile, impegnandolo in un dialogo autocritico con la parola del­
l'apostolo.

• In Strvitium 20(1986)43, 16-24.


122 Capitolo 13

l. UN PROBLEMA DI COSCIENZA NELLA COMUNITÀ DI CoRINTO

A Corinto era sorta, per merito della predicazione evangelica di


Paolo, una comunità cristiana vivacissima e costituita, almeno in pre­
valenza, se non esclusivamente. da ex pagani. La conversione a Cri­
sto però aveva suscitato problemi gravi, riconducibili tutti alla dupli­
ce appartenenza dei neofiti: alla polis come cittadini, alla Chiesa
come credenti. In una parola, come essere leali cittadini e fedeli ade­
renti a Cristo e al suo vangelo? Tralasciando altri aspetti del proble­
ma, a noi interessa ora la problematica partecipazione dei neofiti
alle manifestazioni religioso-culturali della vita associata tipica di
una grande metropoli greca del tempo.
In concreto, era lecito o no cibarsi delle carni di animali sacrifi­
cati nel culto pagano, vendute nelle macellerie pubbliche? Facendo
la spesa, era moralmente obbligatorio interrogare il macellaio sul­
l'origine della merce? E quando si era invitati a tavola da un amico
o da un conoscente, o ancora da un parente, di fronte a una portata
di carne si doveva porre la domanda sulla sua provenienza? Ancor
più, come comportarsi nei casi in cui ragioni di convivenza sociale
esigevano di accettare inviti a banchetti sacri che si celebravano
sulle tombe dei defunti o anche in luoghi addetti espressamente al
culto pagano?
Di fatto, i credenti della Chiesa di Corinto avevano risolto il pro­
blema in maniere opposte. C'era chi, forte della certezza offerta dalla
nuova fede che esiste un solo Dio e che gli dèi pagani sono vere e pro­
prie nullità, si sentiva autorizzato a cibarsi di ogni carne, anche di quel­
la di origine sacrificale, e a partecipare, senza alcuno scrupolo, alle
diverse manifestazioni culturali della vita cittadina e familiare, consi­
derate pure e semplici espressioni di civismo e di attaccamento alle
tradizioni familiari e non riconoscimento pratico degli dèi pagani.
Paolo ci ha conservato il ricordo delle loro profonde convinzio­
ni espresse in alcuni slogan molto significativi. «Thtti noi siamo dota­
ti di conoscenza (gnosis)>> (lCor 8,1). Più concretamente: << sappia­
•••

mo bene (oidamen) che l'idolo è un nulla al mondo e che esiste un


solo Dio>> (8,4). Da questa conoscenza o fede monoteistica traevano
l'autorizzazione morale (exousia) ad agire con libertà (eleutheria,
eleutheros) nei confronti delle carni degli animali sacrificati alle divi-
Coscienza, libertà, agape 123

nità pagane e, più in generale, verso i banchetti sacri e i sacrifici della


religione cittadina. Si noti in proposito l'altro slogan dei credenti
«forti» o illuminati di Corinto: «Thtto è lecito (panta exestin)>>
(10,23). In 10,29 poi appare la rivendicazione della libertà (eleuthe­
ria) di agire.
Per la verità. ancora non appare qui il vocabolo «coscienza», ma
non c'è dubbio che ne è presente la realtà, indicata dallo stretto rap­
porto tra conoscenza monoteistica e libertà di azione. I «forti» di
Corinto erano perfettamente convinti della nullità degli dèi pagani;
perciò le carni degli animali ad essi sacrificati e i banchetti sacri o
anche i sacrifici pagani non avevano alcuna consistenza religiosa,
privi della realtà del loro referente essenziale. Perciò si sentivano
interiormente ed esternamente liberi di fronte alle manifestazioni
religioso-culturali della città. Noi diremo che era presente in loro
una coscienza illuminata e lucidamente chiara, fonte di un agire libe­
ro e responsabile del soggetto.
Più volte invece Paolo parla espressamente della coscienza,
quando ci presenta la posizione dei credenti «deboli». Certo anche
questi erano persuasi del nulla degli dèi pagani, affermando nella fede
l'esistenza di un unico Dio, il Padre di Gesù Cristo. Ma, ciononostan­
te, non si sentivano moralmente liberi di mangiare le carni di animali
sacrificati, tanto meno di partecipare ai banchetti sacri e ai sacrifici
pagani. Temevano in questo modo di rendere un culto idolatrico e di
sconfessare la propria fede. In una parola, non erano psicologicamen­
te liberi dal loro passato idolatrico, che influiva sul loro presente come
paura e minaccia di ritorno: <<Alcuni, per la consuetudine avuta fino al
presente con gli idoli, mangiano le carni come se fossero davvero
immolate agli idoli» (8,7b ). Paolo parla di loro come credenti dalla
coscienza <<debole» o anche di credenti «deboli»: << . . . e così la loro
coscienza debole com'è, resta contaminata» (8,7c: cf. 8,9-12).
Per questo l'apostolo può correggere lo slogan inizialmente rife­
rito dei <<forti»: «Thtti noi siamo dotati di conoscenza» (8,1), preci­
sando che ciò non è vero dei «deboli»: «Ma non in tutti c'è la cono­
scenza (gnosis)» (8,7a). Evidentemente l'apostolo distingue tra
conoscenza puramente teorica e conoscenza come principio libera­
tore del soggetto abilitato ad agire di conseguenza. Ora la prima non
faceva certo difetto neppure ai «deboli», che nella fede confessava-
124 Capitolo 13

no l'esistenza di un unico Dio e dunque il nulla delle divinità paga­


ne. Ma mancavano della seconda: la loro conoscenza monoteistica
era psicologicamente fragile, incapace di portarli a comportarsi da
persone libere di fronte alle consuetudini pagane dell'ambiente.

2. VALUTAZIONI DI PAOLO

Epistolarmente informato e richiesto del suo autorevole giudizio:


«Quanto poi alle carni immolate agli idoli . . . » (8,1),da Efeso l'aposto­
lo interviene, dicendosi d'accordo, ma solo in linea di principio, con la
posizione dei <<forti>>. Infatti. è certo che gli dèi pagani sono un nulla
ed esiste un solo Dio (8,4). Ne consegue che di fronte alle carni di ani­
mali sacrificati alle divinità pagane e ai riti del culto idolatrico cittadi­
no il credente, illuminato e saldo, si sente libero e moralmente auto­
rizzato a consumare quelle e a partecipare a questi. Essendo sempli­
cemente inesistente il destinatario del culto pagano, questo finisce per
perdere ogni valenza religiosa e per essere, agli occhi dei credenti, una
pura manifestazione sociale: «Non sarà certo un alimento ad avvici­
narci a Dio; né, se non ne mangiamo, veniamo a mancare di qualche
cosa, né mangiandone ne abbiamo un vantaggio» (8,8).
In particolare, le carni di animali immolati agli dèi pagani sono
soltanto cose di questo mondo appartenenti al suo Creatore (cf.
10,26), da consumare rendendo grazie a Dio (cf. 10,31). Per lo stesso
motivo Paolo esclude che nelle macellerie si debba in coscienza fare
un'accurata indagine sulla origine della carne che s'intende acquista­
re (cf. 10,25). Parimenti, invitati alla mensa di un pagano, si mangi
pure tutto ciò che viene portato in tavola; non c'è alcun obbligo di
coscienza di fare domande sulla destinazione originaria della carne
servita (cf. 10,27).
L'apostolo dunque riconosce, in linea di principio, la libertà di
agire conseguente alla conoscenza del soggetto che si pone come
«confessore» dell'unico Dio esistente, il Padre di Gesù Cristo, e
negatore dell'esistenza degli dèi pagani. In altre parole, Paolo rico­
nosce il valore normativo della coscienza illuminata dei «forti», che
li autorizza a comportarsi in modo consequenziale con la propria
fede monoteistica. In breve, il soggetto trae dalla sua conoscenza­
coscienza la norma per poter agire moralmente bene.
Coscien:t.a, libertà, agape 125

Ma il consenso di Paolo alla posizione dei «forti» si ferma qui.


Thtto ciò che è stato detto vale per il singolo, nella sfera della sua
individualità. Altri fattori di valutazione entrano invece in campo,
quando il <<forte>> si trova a esercitare la sua libertà di azione in un
contesto sociale, di fronte a un credente «debole>>, dalla coscienza
fragile, timoroso di essere risucchiato dal suo passato idolatrico:
«Alcuni, per la consuetudine avuta fino al presente con gli idoli,
mangiano le carni come se fossero davvero immolate agli idoli, e così
la loro coscienza, debole com'è, resta contaminata>> (8,7).
Ci si trova allora in una situazione conflittuale: da una parte, il
diritto o l'autorizzazione morale (exousia) del <<forte» di agire libe­
ramente (eleutheria), sostenuto dalla sua convincente e solida cono­
scenza (gnosis); dall'altra, l'influsso deleterio esercitato sul <<debo­
le>>, che, sollecitato dall'esempio del «forte>> ad agire allo stesso
modo, ma senza la libertà interiore necessaria e la dovuta conoscen­
za, viene spinto a gesti da lui vissuti come idolatrici o comunque
come occasioni propizie di ricaduta nell'idolatria.
Si deve inoltre rilevare che i «forti>> di Corinto, individualisti
per la pelle ed esibizionisti, ostentavano di fatto la loro libertà di
azione, radicata nella loro coscienza salda e illuminata, incuranti
dei «deboli>>. In altre parole, erano orgogliosi della loro superiori­
tà di credenti illuminati e liberi e disprezzavano i <<deboli>> ritenu­
ti immaturi e imperfetti. Per questo Paolo si pone in atteggiamen­
to critico di fronte ai loro slogan. Essi si vantano di possedere la
conoscenza liberante (gnosis)? Bene, risponde l'apostolo, ma
ignorano che questa è fonte in essi di orgoglio, mentre è l'agape
(l'amore) che sa essere costruttiva: «Ma la conoscenza (gnosis)
gonfia, mentre la carità edifica>> (8,2). In ultima analisi, sullo sfon­
do della diversità tra Paolo e i «forti>> di Corinto appare una
diversa concezione dell'uomo. Per costoro, affetti da intellettuali­
smo, la persona si definisce in quanto soggetto dalla mente illumi­
nata che coglie la realtà di Dio e del mondo; mentre per l'aposto­
lo è l'amore, inteso quale forza socializzante e costruttiva nei rap­
porti interpersonali e comunitari, che qualifica l'uomo autentico:
«Se qualcuno crede di sapere qualche cosa, non ha ancora impa­
rato come bisogna sapere. Chi invece ama Dio, è da lui conosciu­
to>> (8,2b-3 ) .
126 Capilo/o 13

Paolo è critico anche di fronte all'altro slogan dei «forti>> di


Corinto, che proclamavano massimalisticamente che tutto è lecito.
Lo sguardo dell'apostolo è volto di preferenza alle forze costruttive
della comunità e a ciò che torna a vantaggio degli altri: «Thtto è leci­
to (dite voi). Ma non tutto è utile (dico io). Thtto è lecito (dite voi).
Ma non tutto edifica (dico io). Nessuno cerchi l'utile proprio, ma
quello altrui>> (10,23-24).
Ecco dunque precisata la situazione conflittuale in cui si erano
venuti a trovare i «forti>> di Corinto: da una parte la loro libertà inte­
riore ed esterna di azione, rivendicata massimalisticamente come se
fossero soli al mondo, monadi autosufficienti senza porte e senza
finestre; dall'altra, la presenza determinante dell'«altro», la cui
coscienza «debole>> non solo gli impedisce di essere libero interior­
mente ed esternamente di fronte al culto pagano cittadino, ma anche
patisce scandalo dal comportamento disinvolto dei «forti>>. E non si
dica, precisa Paolo, che si tratta di presenza insignificante o comun­
que non condizionante, come ritenevano i «forti>>. È un <<fratellO>>
membro della stessa comunità cristiana, per il quale Cristo non ha
esitato a salire sulla croce.
Ciò detto, sembra utile ora leggere la critica formale dell'apo­
stolo al comportamento irresponsabile dei «forti>>:

Badate però che questa vostra libertà (exousia) non divenga occasione
di caduta per i deboli. Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza
(gnosis), stare a convito in un tempio di idoli, la coscienza di quest'uo­
mo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni immolate agli
idoli? Ed ecco, per la tua conoscenza (gnosis), va in rovina il debole, un
fratello per il quale Cristo è morto! Peccando così contro i fratelli e
ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo (8,9-12).

In conclusione, per Paolo la coscienza del «debole>>, nonostante


tutto, è inviolabile: inviolabile per i <<forti>>, obbligati a non scandalizza­
re, e inviolabile per lo stesso credente «debole>>, che è tenuto a seguirla.

3. INDIVIDUO E COMUNITÀ

Indubbiamente Paolo limita la libertà di agire dei «forti>>, che


chiama a fare i conti con il fratello «debole>>. Le esigenze dell'agape
Coscienza, libertà, agape 127

la vincono sul diritto morale di agire liberamente, coscienti di fare


bene. L'apostolo dunque chiede ai «forti», in nome della doverosa
attenzione all'<<altrO>>, la rinuncia a tradurre in atto la loro libertà
interiore. Con discrezione, ma anche chiaramente, egli fa riferimen­
to a Gesù Cristo che ha speso la propria vita per il fratello <<debole»,
costituendosi così termine di confronto per i credenti e punto di
orientamento della loro prassi. Un modo efficace per mettere sotto
gli occhi dei <<forti>> di Corinto l'esigenza suprema che governa l'agi­
re umano. Nella stessa direzione corre il principio enunciato in 10,24:
«Nessuno cerchi il proprio interesse, ma quello dell'altro».
Stringendo più da vicino la riflessione dell'apostolo esposta in
lCor 8-10, si deve dire che la sua critica non è diretta propriamente
contro la libertà di azione in quanto tale. Questa è e resta un valore,
in quanto vi si armonizza l'agire della persona con la sua conoscenza­
coscienza, l'esterno con il suo mondo interiore valutativo della realtà
e soprattutto del suo io nell'autocoscienza. Ma, a differenza dei
«forti>> di Corinto che la assolutizzavano, sganciandola da ogni conte­
sto ambientale, egli la inquadra all'interno della vita associata delle
persone, in particolare in seno alla comunità cristiana. La sua critica
colpisce esattamente la concezione individualistica e solipsistica della
libertà soggettiva di agire conformemente alla conoscenza-coscienza.
l «forti>> di Corinto erano totalmente protesi all'autorealizzazio­
ne, cioè alla maturazione del proprio io, visto come microcosmo
autosufficiente. Paolo guarda alla realizzazione della persona che
matura all'interno dei suoi rapporti con gli altri, compresa essenzial­
mente come soggetto solidale. La comunità, e in questa la comune
crescita, costituisce per Paolo il valore supremo. Per questo nella sua
classifica al primo posto viene !'agape, energia costruttiva dell'edifi­
cio della comunità: <<La carità edifica>> (8,1b); <<Non tutto è costrutti­
vo» e <<non tutto torna di giovamento (alla comunità)>> (10,23).
Si noti che l'immagine della costruzione (verbo oikodomein), o
dell'edificio da innalzare, ha senso comunitario ed ecclesiale. Con
essa Paolo esprime il cammino maturante dei credenti che sono
membra solidali di un unico organismo o corpo (cf. lCor 12 e 14).
Prima abbiamo parlato di limitazione della libertà di agire in
forza dell'esigenza della solidarietà nell agape. Ora possiamo preci­
'

sare: più che di limite appare congruo parlare di qualificazione.


128 Capitolo 13

L'amore fraterno libera da una libertà individualistica e apre a una


libertà costruttiva in senso comunitario. A una libertà per sé, anche
contro l'altro, Paolo intende sostituire un essere libero per l'altro e
per la sua crescita, appunto nell'amore. Così Gesù Cristo è stato libe­
ro, dando se stesso.
L'apostolo non teme di presentare la propria esperienza come
esempio di libertà qualificata dall'agape. Già alla fine del c. 8, dopo
aver redarguito i «forti» di Corinto incuranti deU'influsso del proprio
esempio sul frateUo «debole>>, aveva esclamato: «Per questo, se un ali­
mento può provocare la caduta del mio fratello, non voglio più mangia­
re carne in eterno, per non dare occasione di caduta a mio frateUo»
(8,13). E in 10,33--11,1 non esiterà a offrirsi espressamente come
modello: «È oosì che anch'io cerco di piacere a tutti in ogni cosa, non
perseguendo il mio interesse, ma queUo di tutti gli altri, perché possa­
no salvarsi. Siate miei imitatori, come io, a mia volta, lo sono di Cristo».
Ma è soprattutto nel c. 9 che sviluppa il motivo della sua libertà
di servizio, che giunge a realizzarsi come disponibilità piena verso gli
altri, dunque paradossalmente come «schiavitù>>. Si legga il passo
9,19-22:
Si, libero (eleutheros) nei confronti di tutti, mi sono fatto schiavo (dou­
los) di tutti, per guadagnare alla fede il maggior numero. Con i giudei
ho vissuto da giudeo, per guadagnare i giudei; con i sottomessi alla
legge ho vissuto come un sottomesso alla legge - io che non sono sotto
la legge! - per guadagnare quelli che sono sottomessi alla legge. Con i
senza-legge ho vissuto da senza-legge - io che non sono un fuorilegge
di fronte a Dio, perché Cristo è la mia legge! - per guadagnare i senza­
legge. Con i deboli ho vissuto da debole, per guadagnare i deboli. Mi
sono fatto tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. E tutto que­
sto Io faccio a causa dell 'annuncio evangelico.

In conclusione, attraverso i motivi della coscienza e della libertà


di azione, Paolo riconosce i diritti della soggettività umana: l'uomo
trae dal suo mondo interiore la norma di agire. Ma, a suo avviso, la
soggettività della persona non deve essere intesa in senso individua­
listico e solipsistico. È la soggettività di chi è chiamato a realizzarsi
come unità di un tutto comunitario, insieme con i fratelli, come mem­
bro di un organismo, in cui la crescita personale va di pari passo con
la crescita degli altri, a cui presiede come forza costruttiva l'agape.
14.
LA COPPIA NEL NUOVO TESTAMENTO•

D Nuovo Testamento non si presenta ricco di dati. C'è però un


testo che possiamo a buon diritto chiamare principe: la Lettera agli
Efesini 5,22-33. Su questo passo si vuole qui concentrare l'attenzione.
Tanto più che di regola viene letto nella liturgia nuziale, e senza dire
che esso suscita non pochi problemi d'interpretazione e difficoltà non
lievi di convincente lettura. Eccone la traduzione corrente:
Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore; il marito infatti è
capo della moglie, come anche Cristo è capo della chiesa, lui che è il
salvatore del suo corpo. E come la chiesa sta sottomessa a Cristo, così
anche le mogli siano soggette ai loro mariti in tutto. E voi, mariti, amate
le vostre mogli, come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per
lei, per renderla santa purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua
accompagnato dalla parola, al fine di farsi comparire davanti la sua
chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma
santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le
mogli come il proprio corpo, perché chi ama la propria moglie ama se
stesso. Nessuno mai infatti ha preso in odio la propria carne; al contra­
rio la nutre e la cura, come fa Cristo con la chiesa, poiché siamo mem­
bra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si
unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo miste­
ro è grande; lo dico di Cristo e della chiesa! Quindi anche voi, ciascu­
no da parte sua, ami la propria moglie come se stesso, e la donna sia
rispettosa verso il marito.

l. GLI IMPERATIVI DELL'APOSTOLO

Anzitutto sembra opportuno precisare che si tratta di un brano


esortativo o parenetico. L'intento manifesto è di indicare i reciproci

• In Servilium 16(1982)22, 367-373.


130 Capitolo 14

impegni dello sposo e della sposa. Allargando il quadro al capitolo 6,


versetti 1 -9, si può dire con maggiore esattezza che siamo di fronte a
una normativa morale regolante i rapporti familiari marito-moglie,
genitori-figli, padroni-schiavi (la famiglia allora contava tra i suoi
membri anche gli schiavi). È dunque la famiglia come istituzione cul­
turalmente e sociologicamente caratterizzata il presupposto della
esortazione di Paolo. Nessuna meraviglia perciò che quest'ultima
risulti pesantemente condizionata da schematismi culturali e socio­
logici. Dal punto di vista interpretativo segue che non possiamo
valutaria come etica familiare valida in ogni tempo e in tutte le cul­
ture. Se muta la struttura della famiglia e della coppia in particolare,
viene meno quel contesto socio-culturale in cui le esortazioni del­
l'apostolo trovano il loro reale aggancio.
In concreto, Paolo esorta le mogli della comunità cristiana desti­
nataria della lettera a essere sottomesse ai loro mariti e, rincarando
la dose, aggiunge poco dopo <<in tutto>>. Concludendo, poi, afferma
che è dovere della moglie riverire il marito. I verbi greci usati sono
forti: essere sotto comando (hypotassomai) e timore riverente (pho­
beomai). Non c'è dubbio: l'ideologia sottostante vede nel marito il
padrone della moglie e questa in stato di sudditanza verso quello. Il
comandamento dunque sta in piedi o cade a seconda che regga o
crolli lo schema ideologico riassumibile nelle polarità sopra-sotto,
superiore-inferiore, padrone-suddito applicato alla coppia.
Si tratta, in realtà, di una <<precomprensione» ovvia per Paolo e
irriflessamente presente in lui, figlio del suo tempo e debitore alla
cultura dell'ambiente. Ma non si deve neanche disattendere un
secondo condizionamento dell'apostolo e questo di carattere teologi­
co. Egli paragona il rapporto marito-moglie alla relazione Cristo­
Chiesa. Più esattamente, a suo parere. la moglie si rapporta al marito
come la comunità cristiana a Cristo. E si sa che Paolo accentua la
signoria di Gesù risorto sui credenti. Non ci si stupisca dunque che,
data questa analogia, egli parli di sottomissione e di sudditanza in
tutto delle mogli ai mariti.
In ogni modo, risulta chiaro che è lo schema ideologico socio-cul­
turale a rendere possibile questa originale corrispondenza di rappor­
ti che per sé si collocano su piani diversi. D'altra parte, la somiglian­
za della coppia sponsale con la «coppia» teologica Cristo-Chiesa
La coppia nel Nuovo Testamento 131

determina il contenuto del comandamento maritale: «Mariti, amate


le vostre mogli>>. Si noti bene: il confronto con la coppia Cristo-Chie­
sa fa esplodere la rigidità dello schema socio-culturale che Paolo
applica alla coppia e che avrebbe dovuto costringerlo ad affermare
coerentemente: <<Mariti, dominate sulle vostre mogli». La prospettiva
cristologica ( Cristo ha amato la Chiesa) vince suli'ideologia matri­
=

moniale e si afferma come quadro teologico autentico per interpreta­


re, alla luce della fede cristiana, il senso profondo della coppia.
Ora, riconosciuto il debito pagato dall'apostolo alla cultura del
tempo e soprattutto individuata l'autentica chiave di rilettura della
realtà matrimoniale, s'impone l'esigenza di seguire fedelmente lo
sviluppo del suo pensiero. Questo si articola in due distinti e connes­
si momenti logici: caratterizzazione della coppia Cristo-Chiesa e sot­
tolineatura della sua esemplarità rispetto al rapporto marito-moglie.

2. LA COPPIA CRISTO-CHIESA

Quale relazione essenziale unisce Cristo e la comunità dei cre­


denti? Gesù ha amato la Chiesa con tale amore da fare getto della
sua vita. La morte in croce non è stata per lui né un destino cieco e
fatale, né una necessità biologica, neppure l'esito di un gioco puro e
semplice di forze storiche avverse, ma una scelta, una decisione che
lo ha coinvolto senza misura. Possiamo definirla la manifestazione
storica di un amore assurto a valore assoluto, di fronte al quale cedo­
no addirittura l'elementare istinto della sopravvivenza e soprattutto
il più sacro e legittimo attaccamento alla propria vita. Amore dun­
que, il suo, che visto sotto il segno della croce assume la pregnanza
straordinaria della più pura e generosa oblatività. Per la Chiesa
Gesù non ha dato molto, neppure tutto ciò che aveva, bensì ha dona­
to se stesso, il suo-essere-a-questo-mondo. Non quello che possede­
va, ma quello che era egli ha speso.
Detto in altre parole, Gesù si è impegnato per la Chiesa come
persona e in maniera totale. Ha coinvolto tutto se stesso nel rappor­
to con la comunità dei credenti, dove l'oggetto amato non si configu­
ra come una grandezza impersonale e astratta. Cristo non si è dato
totalmente per il trionfo di una nobilissima causa, a sostegno eroico
di un progetto più o meno ideologico coltivato nella sua mente e
132 Capitolo 14

riscaldato nel suo cuore. Il suo coinvolgimento radicale lo ha messo


di fronte a persone vive, a uomini concreti: questi sono stati amati da
lui con illimitata oblatività.
Ma se è così, la sua morte diventa per forza una provocazione
per i destinatari del suo gesto di amore, una provocazione intenzio­
nale a una risposta positiva di accoglienza. Egli non ha dato se stes­
so per nulla. Altrimenti la sua morte sarebbe stata un suicidio. Come
espressione di amore, resta costantemente come proposta, sollecita­
zione, dichiarazione, attesa fiduciosa di un sì, meglio parola efficace
suscitatrice di analoga dedizione e oblatività. Il suo gesto ha la forza
di aprire brecce nella corazzata monade senza porte né finestre che
è il mondo interiore degli uomini chiusi in se stessi, autosufficienti e
autocrati.
In conclusione, dice molto bene Paolo, l'amore oblativo di Cri­
sto fa nascere la Chiesa, costruendola come comunità dei credenti,
cioè di quanti si lasciano coinvolgere, a loro volta, nella dinamica
della sua morte. Detto altrimenti, Cristo non ha trovato una sposa
bell'e fatta, ma l'ha creata a sua immagine e somiglianza: intendo
dire una sposa bella, splendida, degna di tanto sposo. Rileggiamo i
versetti 25-27:

come Cristo ha amato la chiesa e ha dato se stesso per lei, per render­
la santa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua accompagnato
dalla parola, al fine di farsi comparire da vanti la sua chiesa tutta glo­
riosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immaco­
lata.

La coppia Cristo-Chiesa manifesta dunque una struttura ben


precisa: è il risultato convergente dell'iniziativa di amore oblativo di
Cristo e della risposta sintonica dei credenti, il frutto di un incontro
interpersonale dove lo scambio mutuo non riguarda delle cose, ma la
reciproca donazione di se stessi finalizzata alla creazione di una dua­
lità nuova che, lungi dallo scadere in annullamento delle individuali­
tà, le innalza a comunione e relazionalità intensissime.
Paolo però non si limita a cogliere il senso interpersonalistico
del rapporto Cristo-Chiesa. Da teologo qual è ha pronte definizioni
e concettualizzazioni: Cristo è il capo (kephalé) della Chiesa e que­
sta il suo corpo, di cui sono membra i singoli credenti. La speculazio-
La coppw nel Nuovo Testamento 133

ne ha qui il sopravvento, ma non bisogna dimenticare che essa è a


servizio della definizione dei rapporti interpersonali suddetti. Cristo
è il capo della Chiesa, cioè il suo signore: un modo come un altro per
dire che l'iniziativa della comunione sponsale è sua e per sottolinea­
re che la comunità dei credenti trova nell'amore ablativo della sua
morte il valore assoluto della propria vita. Ma la formula «Cristo
capo della chiesa, suo corpo>> vuoi dire anche che lui è il principio
interiore attivo di animazione della nuova vita dei credenti. Per que­
sto l'apostolo afferma indifferentemente che Cristo è il capo della
Chiesa e che ne è il salvatore (v. 23).
Si tratta perciò di una coppia in cui i due poli costitutivi non si
presentano uniformi e uguali. Il rapporto tra loro non si colloca su un
livello di parità. Non si può dire che Cristo sta alla Chiesa come que­
sta a quello. L'iniziativa è tutta e solo da parte di Cristo; la Chiesa si
costituisce tutta e solo nella risposta. Di qui la definizione teologica:
«Cristo è capo/signore della chiesa>>, e la determinazione del rappor­
to essenziale di questa a quello: <<la chiesa è sottomessa a Cristo».

3. CoME CRISTO E LA CHIESA

Ora, confrontando la coppia matrimoniale con la coppia Cristo­


Chiesa, Paolo afferma il valore esemplare di quest'ultima. Potrem­
mo dire che Cristo e la Chiesa costituiscono la coppia speculare in
cui si riflettono le coppie dei credenti. E a conferma l'apostolo cita il
testo della Genesi: <<Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola>>,
nel quale scorge, al di là del senso immediato, un significato nascosto
e profondo, cioè il riferimento alla coppia Cristo-Chiesa: <<Questo
mistero è grande; Io dico di Cristo e della chiesa!>>.
Esemplarità e specularità valide su due piani: dell'essere e del
dover essere. Il marito è capo/signore della moglie come Cristo è
capo/signore della Chiesa. Il marito deve amare la moglie come Cri­
sto ama la Chiesa; la moglie deve essere sottomessa al marito come
la Chiesa è sottomessa a Cristo.
Ma qui s'intrecciano teologia e schemi socio-culturali. Solo nel
presupposto ideologico, non criticamente vagliato, che nella coppia
umana c'è disparità, vale a dire si realizza lo schema sopra-sotto, su-
134 Capitolo 14

periore-inferiore, padrone-suddito, è possibile paragonare massima­


listicamente il rapporto marito-moglie al rapporto Cristo-Chiesa.
Ecco il limite manifesto della riflessione teologica di Paolo: non aver
colto ed evidenziato a sufficienza la differenza tra la coppia Cristo­
Chiesa e la coppia marito-moglie. Limite imputabile a condiziona­
mento culturale.
Sul piano interpretativo ne consegue che la nostra lettura del
testo paolino e, ancor più, la nostra teologia del matrimonio non pos­
sono non adeguarsi alla caduta del presupposto ideologico che appli­
ca alla coppia umana lo schema dualistico sopra-sotto, superiore­
inferiore, padrone-suddito, assumendo invece l'evidenza che il rap­
porto strutturante valido per definire la dualità marito-moglie trova
espressione nella particella «con>>: il marito con la moglie, da io a tu,
cioè da persona a persona, su base di perfetta parità.
Certo, la coppia Cristo-Chiesa resta sempre esemplare e specu­
lare rispetto alla coppia marito-moglie, ma si tratta di coppie non
simmetriche. In concreto, l'esortazione paolina deve risuonare in
questi termini: il marito ami la propria moglie come Cristo ha amato
la Chiesa, e parimenti la moglie ami il proprio marito come Cristo ha
amato la Chiesa. D'altra parte, la moglie abbia fiducia nel marito
come la Chiesa crede in Cristo, e parimenti il marito abbia fiducia
nella moglie come la Chiesa crede in Cristo. Allo stesso modo!
Così ci sembra di poter e dover tradurre oggi l'esemplarità e
specularità della coppia Cristo-Chiesa nei confronti della coppia
marito-moglie. E non c'è chi non veda quale ricchezza di prospetti­
ve si apra al cammino di maturazione progressiva delle coppie di
credenti chiamate a costruirsi a immagine della relazione Cristo­
Chiesa. In una parola, l'orizzonte cristologico ed ecclesiologico di
Paolo resta valida chiave di lettura della coppia umana, ma purifica­
ta dalle inquinanti infiltrazioni ideologico-culturali proprie del tem­
po dell'apostolo, scorie caduche di un testo di ineguagliabile valore.
15.
LA POESIA NELLE PARABOLE DI GESÙ*

l. DI CHE COSA VOGLIAMO PARLARE?

È necessario sgombrare subito il terreno da ogni equivoco. Per


poesia qui non s'intende la forma del linguaggio usato, la sua ric­
chezza artistica, lo splendore estetico delle formule, dei termini e
dell'articolazione. Lo scopo è piuttosto quello di valutare l'efficacia
operativa del linguaggio, la sua forza influente sull'ascoltatore o
anche il lettore, spinto dall'ascolto o dalla lettura ad assumere preci­
si atteggiamenti. Si potrebbe parlare della valenza metamorfizzante
del linguaggio, della sua capacità creativa di mettere l'ascoltatore o
il lettore in stato di decisione: nuove scelte e conseguenti nuovi com­
portamenti che cambiano la persona. Si assume, in altre parole, il
senso letterale del termine poesia: dal verbo greco poiein, fare, ope­
rare, creare, attivare.
Anche la parabola merita un breve precisazione. Senza entrare in
lunghe discussioni ed elencare le diverse teorie avanzate in proposito,1
vorrei dire che la parabola è un racconto, la narrazione di una «storia>>,
caratterizzato da estrema brevità, con la presenza di due o tre prota­
gonisti. Si tratta di una fiction, elaborata dalla mente e dalla fantasia

• In Servitium 39(2005)158, 179-187.

l a. per es. J. DUPONT, Il metodo paraboli€o di Gesù, Brescia 1978; v. Fusco, Oltre la
parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Roma 1983; lo., •Parabola-Parabole», in P.
RossANO - G. RAVASI - A. GIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisel­
lo Balsamo 1988, 1081-1097; V. Fusco, «Tendences récentes dans l'interprétation des para­
boles», in J. DELORME ( éd.). Les paraboles évangeliques: perspectives nouvelles, Paris 1989,
19-60; J. JEREMtAS, Le parabole di Gesù, Brescia '1973; P. RtcoEUR, Ermeneutica biblica.
Linguaggio e simbolo nelle parabole di Gesù, Brescia 1978; H. WEDER, Metafore del regno.
Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione, Brescia 1991.
136 Capitolo 15

del narratore, del parabolista, nel nostro caso di Gesù. Rappresenta


una storia dai tratti realistici, lontana per questo dalla favola, però non
priva di aspetti sorprendenti, anche paradossali, che fanno pensare a
realtà che vanno oltre all'abitudinario e al consueto. La sua specifici­
tà è di far intravedere sullo sfondo un'altra storia simile nello svolgi­
mento, ma di altro genere, che narra del Dio di Gesù Cristo il quale,
appunto attraverso di lui, interviene ora sulla scena della Galilea e, più
in generale, del mondo. Questa allusione a un'altra storia diventa chia­
ra, se il racconto parabolico viene inquadrato storicamente: quando,
dove, a chi e da chi è narrato. La sua ambientazione infatti è essenzia­
le per cogliere la valenza parabolica del racconto.
Se poi guardiamo alla parabola come mezzo di comunicazione,
è necessario tenersi lontano da un malinteso troppo facile e comune,
quello d'intenderla un'illustrazione di quella storia altra a cui riman­
da, cioè in termini di pura notificazione: come se il parabolista voles­
se soltanto portare alla conoscenza dei suoi ascoltatori, mentre in
fondo intende dire: dovete sapere che il mio Dio fa questo e quest'al­
tro disvelando un volto originale e sorprendente se commisurato con
quello della più tradizionale ortodossia giudaica. Lo scopo del para­
balista, in realtà, non è di genere gnoseologico; egli intende influire
sugli ascoltatori, portarli insensibilmente sulle sue posizioni, toglier­
li da pregiudizi radicati, in una parola trasformare la loro anima e la
loro esistenza. A questo fine stabilisce un confronto serrato con
quanti sono critici nei confronti della sua predicazione e delle sue
posizioni. Di fronte ad essi Gesù avrebbe potuto armarsi delle armi
della polemica e della diatriba; ma l'effetto ottenuto sarebbe stato
l'opposto: essi si sarebbero induriti e lo avrebbero respinto. Invece di
scendere in campo per un duro corpo a corpo, sceglie una strategia
di aggiramento; potremmo dire che non interviene direttamente sui
diversi punti di vista e di orientamento che Ii oppone, bensì li invita
a fare con lui un tratto di strada, a prima vista neutro, e suscitare il
loro giudizio sulla storia narrata, coinvolgendoli nella storia. Ciò
fatto, alla fine del racconto i suoi critici sono invitati a valutare allo
stesso modo i protagonisti di quell'altra storia a cui il racconto para­
bolico rimanda: siano coerenti. E non si tratta di valutazioni pura­
mente teoriche, bensì di atteggiamenti, scelte e comportamenti a cui
il parabolista Gesù intende condurli.
La poesia nelle parabole di Gesù 137

In altre parole, nel racconto parabolico gli ascoltatori sono coin­


volti nella duplice storia, a volte addirittura sollecitati in termini
espliciti. In ultima analisi, di loro si tratta. Essi sono impersonati da
questo e da quel protagonista della storia e devono recitare la loro
parte. Di solito Gesù mette di fronte a due scelte opposte e sollecita
a scegliere quella da lui proposta. I personaggi delle storie paraboli­
che sono le controfigure del parabolista, da una parte, e dei suoi
ascoltatori, dall'altra. Questi diventano «attori» della storia. Il para­
balista, mi si passi l'immagine, è come il direttore di una roulette che
invita i giocatori a fare <<i loro giochi>>. In questo senso possiamo par­
lare di <<poesia>>, di linguaggio creativo e performativo delle parabo­
le di Gesù.
Ora tutto questo vorrei verificarlo nella lettura delle tre parabo­
le parallele del c. 1 5 di Luca, forse le più note parabole evangeliche.
Ma dico subito che la versione lucana ha dato loro una valenza
moralistica del tutto assente sulla bocca di Gesù e noi qui intendia­
mo leggere tali racconti parabolici come egli li ha raccontati e in
quali situazioni e davanti a quali ascoltatori lo ha fatto. Naturalmen­
te in questa ricostruzione, o meglio in questa nostra <<costruzione»
del passato, non mancherà una certa dose di soggettività e di ipote­
ticità, ma è possibile presentare, con i dati del testo, un quadro plau­
sibile. È lo statuto della ricerca storica che non mira a offrire delle
evidenze, ma si limita a presentare una memoria plausibile del pas­
sato, una «nostra>> memoria plausibile, tenuta viva dalle testimonian­
ze passate.

2. IL PASTORE E LA DONNA DI CASA


CHE HANNO SMARRITO UNA PECORA E UNA MONETA (Le 15,3-7 E 8-10)

Il titolo non è scelto da noi a caso. Di solito si parla delle para­


bole della pecora smarrita e della moneta smarrita, ma impropria­
mente, perché i racconti sono incentrati, invece, sul pastore che va
alla ricerca della pecora smarrita e sulla donna di casa che cerca la
moneta perduta. Di loro si tratta, in realtà, più precisamente del loro
comportamento: come valutario? È stato saggio oppure insensato?
In breve, hanno fatto bene o male? La domanda sorge spontanea dai
particolari delle due storie: il pastore ha cento pecore, un numero
138 Capitolo l5

rilevante; ne ha persa una: uno per cento. Invece di stare alla custo­
dia del suo numeroso gregge parte alla ricerca di quell'unica che si è
smarrita. Meno asimmetrico è il rapporto tra le dieci monete che la
donna di casa ha e una di queste che è andata perduta: un dieci per
cento, ma comunque sufficiente per una attenta valutazione.
l due racconti sono formati, nella prima parte, da un interroga­
tivo con cui il parabolista espressamente coinvolge gli ascoltatori:
«Chi di voi in possesso di cento pecore, se gli capita di perderne una,
non lascia le novantanove nel deserto per andare sulle tracce della
perduta finché non l'abbia trovata?». «Chi di voi>>: chiunque di quel­
li che sono davanti a lui ad ascoltarlo. La supposizione è che si trat­
ti di critici del modo di fare di Gesù, da loro disapprovato. Luca fa
precedere le tre parabole da questa particolare ambientazione:
<<Thtti i dazieri (i pubblicani) e i peccatori stavano vicino a lui per
ascoltarlo. Allora i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: costui
accoglie i peccatori (pubblici) e si fa loro commensale>> (vv. 1-2). È
un quadro del tutto verosimile, anche perché congruo alle storie
paraboliche raccontate e attestato in altri passi della tradizione
gesuana, soprattutto là dove egli è accusato di fare combutta con
dazieri e peccatori pubblici (Le 7,34; Mt 11,19).
La domanda di Gesù è retorica e scontata la risposta: chiunque
di loro farebbe lo stesso; chiunque si comporterebbe come il pasto­
re delle cento pecore; questi ha fatto benissimo. La preziosità di una
pecora smarrita va ben oltre al suo valore venale: il pastore l'ha cara
in modo particolare proprio perché smarrita; gli sta a cuore e non si
rassegna a perderla. Deve e vuole ricuperarla. <<E trovatala, la mette
sulle sue spalle, colmo di gioia, e arrivato a casa [all'ovile] chiama a
fargli compagnia gli amici e i vicini dicendo loro: condividete la mia
gioia (sygchairein) perché ho ritrovato la pecora perduta>>.
Ricerca e ritrovamento gioioso, sono questi i due momenti
essenziali del racconto. Invece la conclusione di Luca del v. 7 è all'in­
segna del valore del pentimento: <<Dio in cielo gioisce molto di più
per un peccatore che si converte che non per novantanove giusti che
non hanno bisogno di fare penitenza>>. Una rilettura <<deviante»: la
pecora perduta, in cui Luca identifica il peccatore, non ha alcuna
parte attiva: è solo oggetto della ricerca fruttuosa del pastore. L'altra
storia a cui allude il racconto ha al suo centro Dio che in Cristo ricer-
La poesia nelle parabole di Gesù 139

ca efficacemente i perduti, oggetto di pura grazia, non soggetti di un


meritevole cammino di ritorno.
Gesù intende far cambiare mente e cuore e vita ai suoi critici: se
ritengono che il pastore del racconto ha agito bene, perché non
devono valutare allo stesso modo il comportamento di Dio incarna­
to in Gesù che va alla ricerca dei perduti - dazieri fraudolenti e in
genere peccatori pubblici -, per riportarli alla casa del Padre? Se egli
in nome di Dio li include, essi che sono esclusi, perché non accettare
di cuore tale sua iniziativa, perché non sintonizzarsi sulla sua lun­
ghezza d'onda, soprattutto perché non gioire con lui della ricchezza
di questa specifica grazia divina straordinaria, che ha preso carne in
Gesù di Nazaret? Si noti bene: il senso della parabola non sta nella
misericordia divina intemporale, nel presentare tale attributo divino:
Dio è misericordioso, una credenza evidente e scontata nella tradi­
zione ebraica; bensì nell'attuale iniziativa di Dio che in Gesù, amico
di dazieri e peccatori pubblici, accoglie i perduti e gli esclusi per pura
grazia, mosso da incondizionato amore, senza richiedere una previa
conversione.
La parabola della donna di casa che ha perduto una delle sue
dieci monete è perlettamente parallela, anch'essa introdotta da un
interrogativo retorico: «O quale donna mai in possesso di dieci drac­
me, se le capita di smarrirne una, non accende la lampada e spazza
la casa e la cerca con tutta cura finché non l'abbia trovata?». Non c'è
donna che non faccia così. Ella ha fatto bene a ricercare la moneta
smarrita e a ritrovarla. <<E avendola trovata, chiama a sé le amiche e
le vicine dicendo loro: Gioite insieme con me, perché ho trovato la
dramma che avevo perduta». Anche la conclusione redazionale del­
l'evangelista ripete in sostanza quella della parabola del pastore:
«Così vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un peccatore
che si pente>> e si dimostra estranea alla punta del racconto parabo­
lico, incentrato sulla donna che cerca e trova e ne gioisce.

3. IL PADRE E IL FRATELLO MAGGIORE DAVANTI AL PRODIGO (Le 15,11-32)

Invece la parabola non del figlio prodigo, bensì del padre e del
fratello, molto più complessa, merita una particolare attenzione. Mi
sembra che essa presenti, dapprima, un «antefatto>>: il figlio minore
140 Capitolo 15

di un padre di famiglia vuole andarsene di casa, pretende che gli sia


liquidata la sua parte di eredità, se ne va in una regione lontana,
dove prima vive lussuosamente e poi, finiti i mezzi, è ridotto a fare il
porcaio e per riempirsi lo stomaco vuoto guarda con invidia ai porci
che si cibano di carrube. A questo punto «rientrato in se stesso», cioè
finite le illusioni e prendendo atto della sua pessima situazione,
ricorda come invece nella casa abbandonata del padre gli operai
hanno cibo in abbondanza, «mentre io qui muoio di fame>>. Detto
fatto: <<Andrò da mio padre e gli dirò: padre, ho peccato contro il
cielo e contro di te; non sono più degno di essere chiamato - e di
essere realmente - tuo figlio; fa' di me uno dei tuoi salariati. E alza­
tosi venne da suo padre».
La vera storia comincia adesso, perché il suo centro è appunto
come si comporteranno il padre e il fratello al ritorno di colui che
non è più né figlio né fratello. Si divide in due atti: la reazione del
padre e quella del fratello maggiore. La prima: «Era ancora lontano
che lo vide il padre e commosso nelle sue viscere (esplagchnisth€), gli
corse incontro e gli gettò le braccia al collo e lo baciò>>. Quello ripe­
te la sua confessione: ha peccato e non è più degno di essere chiama­
to suo figlio. Ma non fa a tempo a rivolgergli la sua richiesta di esse­
re preso a salario, come un qualsiasi operaio. Il padre dà ordini ai
servitori di casa: «Presto, portate il vestito più bello e indossateglie­
lo, e mettetegli l'anello alla mano e calzari ai piedi; portate il vitello,
quello ingrassato, uccidetelo e banchettiamo pieni di gioia, perché
questo mio figlio era morto ed è ritornato alla vita, era perduto ed è
stato ritrovato [da me). E cominciarono a far festa».
Si misconoscerebbe ciò a cui mira il racconto se in qualche
modo si facesse dipendere la reazione del padre dal pentimento del
non-più figlio e lo si leggesse sulla trafila di colpa-pentimento-perdo­
no. In realtà il figlio prodigo è ritornato solo per evitare di !asciarci
la pelle. Propriamente non ritornato alla casa del padre; è venuto per
fare compagnia al gruppo dei servitori del padre. Il suo ragionamen­
to è tipico di chi ricorre a ogni mezzo pur di salvarsi. Del resto, se si
fosse veramente pentito, avrebbe chiesto, e ottenuto, di essere riam­
messo nella casa; invece dà per finite le sue possibilità di ridiventa­
re, per grazia, figlio. L'unica chance che vede davanti a sé è quella di
fare il salariato. Ed è il padre, invece, che lo riaccoglie come figlio:
La poesia nelle parabole di Gesù 141

rivestito di nuovo, appunto da figlio, riammesso nella casa e se ne fa


festa. Thtto e solo dipende dall'iniziativa del padre. Non per nulla la
diade perduto-ritrovato è doppiata da quella di morto-ritornato alla
vita. Si tratta di una nuova nascita: il prodigo, che non è più figlio,
nasce come figlio nella casa del padre. Ritornando sulla diade perdu­
to-ritrovato si noti che questo verbo è passivo: è stato ritrovato: da
chi? Evidentemente dal padre. Più che un ritorno, tipica metafora
del pentimento - in ebraico esso è espresso con il verbo shub l «tor­
nare>> (cf. anche il verbo greco epistrephein) - si tratta di un ritrova­
mento, un po' come nelle parabole del pastore e della donna di casa,
racconti parabolici del tutto paralleli al nostro. Il prodigo non è atti­
vo; è portato di peso dal padre che lo fa suo figlio e lo introduce nella
casa paterna.
Si noti che nella tradizione ebraica il perdono dei peccatori era
una prassi consolidata, ma era condizionato al pentimento. Gesù
invece ha accolto dazieri fraudolenti e peccatori pubblici, come pro­
stitute, senza richiedere loro una previa conversione. Per questo era
guardato con sospetto e ritenuto un fuori-legge. «Costui è amico dei
dazieri e dei peccatori (Le 7,34; Mt 1 1,19) e «mangia seduto a tavo­
la con loro» (ibid.). Nella parabola il prodigo è accolto per grazia,
non per il suo pentimento. Siamo davanti a un gesto creativo, non
perdonante, di una risurrezione («morto, è ritornato alla vita»), non
di un semplice cambiamento morale.
La reazione del fratello maggiore è invece negativa: non vuole
entrare e far festa; in realtà non intende accogliere il prodigo come
fratello. Se proprio questi vuole restare, resti come un salariato qua­
lunque; la casa paterna non è più, dato irrimediabile, la sua. Che que­
sta sia la posta in gioco appare con chiarezza nel testo parabolico: il
fratello maggiore non chiama mai il prodigo fratello: «Questo tuo
figlio che si è mangiato ogni sostanza con prostitute», si rivolge al
padre. Ma il padre insiste: <<il tuo fratello», <<Che era morto ed è ritor­
nato alla vita, era perduto ed è stato ritrovato da me», deve essere
ritrovato da te. Non lo si accusi d'ingiustizia, ha fatto quello che un
buon padre deve fare.
La parabola è aperta, nel senso che non c'è una conclusione del
racconto. Gesù ha lasciato sospesa la reazione finale del fratello
maggiore: è entrato a partecipare e concorrere alla gioia del ritrova-
142 Capitolo 15

mento, soprattutto ad accogliere il prodigo come fratello, oppure ha


persistito nel suo sdegnoso diniego? A voi ascoltatori la sentenza,
vuoi dire Gesù. Voi siete nella stessa situazione del fratello maggio­
re: anzi siete voi il fratello maggiore che resistete davanti all'iniziati­
va di grazia di Dio in me che accolgo incondizionatamente chi non
solo non ha alcun merito, ma è gravato da demeriti, per pura grazia,
con azione donatrice di vita nuova. È giusto il comportamento del
Dio di Gesù Cristo, è «obbligatorio>> far festa: «Era necessario (edei)
far festa e gioire, perché questo tuo fratello era morto ed è ritornato
alla vita . . . » (v. 32). Si noti il verbo dein che indica un dovere mora­
le, non una necessità fisica. Un dovere non scritto sulle tavole della
legge, ma inciso nella forza dei fatti: alla vita che risorge, al ritrova­
mento del perduto non può che seguire, per un animo sensibile e
aperto alla grazia attuale di Dio disvelata in Gesù di Nazaret, la gioia
dell'accoglienza, della condivisione, della fratellanza fatta rinascere.
La forza della sollecitazione implicita di Gesù perché i suoi ascolta­
tori critici condividano il suo orientamento e la sua immagine di Dio
sta in questa motivazione: si tratta di vita risorta, di vita dalla morte;
la vita va festeggiata sempre; la gioia di una vita risuscitata va condi­
visa e partecipata. Come può il fratello maggiore resistere, chiudersi
nel suo fortilizio di fedele e pio osservante che non ha mai trasgre­
dito un comandamento? Rifiutare la fratellanza al prodigo è rifiuta­
re la paternità del Dio di Gesù Cristo.
Certo, l'influsso del racconto parabolico sugli ascoltatori, a cui
mira il parabalista, non è di meccanica efficacia. Può esserci una resi­
stenza pervicace e inflessibile. Ma anche in questo caso non è che la
parabola sia passata sulla vita degli ascoltatori senza alcun effetto,
come acqua sulla pietra. Essa mantiene la sua energia creativa e, se
rifiutata, chiude ancor più nel rifiuto la persona. La parabola è sem­
pre «poietica>>, creatrice di vita ma anche di morte, quando il dubbio
o un iniziale no si trasforma in no irrevocabile.
16.
L'AMORE DI DIO
NEL MESSAGGIO DI GIOVANNI*

Si sa che la parola «amore>> è tra tutte quella che più evoca sen­
sazioni vivissime, ideali altissimi, prospettive totalizzanti. Ma proprio
per la sua ricchezza espressiva è soggetta a un pluralismo vastissimo
di significati. S'impone quindi l'esigenza di precisare e determinare.
Quando poi essa viene applicata a Dio e al nostro rapporto religio­
so, deve aumentare la circospezione per evitare equivoci e imprime­

re rigore ed esattezza al linguaggio. Infine la distanza culturale che


ci separa dai testi biblici, da cui prende senso ogni discorso fatto
ali 'interno della fede cristiana, obbliga a mettere preventivamente in
conto la possibilità che sotto gli stessi termini si nascondano signifi­
cati diversi. L'evoluzione semantica è un fatto di cui prendere atto
nella ricerca condotta sulle opere letterarie antiche.
Come base di documentazione sarà assunto innanzitutto il c. 4
della Prima lettera di Giovanni. È risaputo infatti che rappresenta
un vertice della riflessione teologica neotestamentaria in merito al
nostro tema. Credo però utile allargare il campo d'indagine a tutto
lo scritto giovanneo. Ci permette infatti di avere sotto mano il con­
testo immediato di affermazioni, che, prese a sé, non potrebbero
esprimere tutta la valenza di cui sono pregne. Sempre per avere rife­
rimenti più vasti, ritengo che non si possa tralasciare la testimonian­
za del Vangelo di Giovanni. Non è difficile scoprire un parallelo
stretto tra i due scritti giovannei, per cui il tema risulta arricchito di
tonalità e accentuazioni di non lieve peso.
Sul piano delle articolazioni di questo contributo mi pare giusti­
ficata la scelta di mettere in testa le affermazioni capitali del testo

• In Servitium 11(1977)19-20, 422-433.


144 Capitolo 16

giovanneo, evidenziandone le connessioni e determinandone l'esat­


ta portata. Punto di partenza obbligato è la definizione «Dio è
amore>>. Come conseguenza logica si avrà che il rapporto religioso
non può trovare la sua verità e autenticità se non all'interno della
vita di persone che amano. Con una frase sorprendente Giovanni
dice che chiunque ama conosce Dio (lGv 4,7). In terzo luogo si ten­
terà di chiarire come e perché l'apostolo definisce l'amore per Dio
in termini di obbedienza. Secondo lGv 5,2 amare Dio equivale a
mettere in pratica i suoi comandamenti. Si passerà poi a studiare
come il rapporto religioso coinvolga e determini i rapporti tra gli
uomini. Dall'amore di Dio e verso Dio Giovanni deduce quindi l'im­
pegno di amore per i fratelli. A questo punto diventerà inevitabile
discutere in qual modo si raccordino i due comandamenti che già
nella tradizione sinottica si trovano strettamente connessi. Infine
l'affermazione giovannea: «L'amore è da Dio» ci permetterà di riu­
nire in un unico sguardo complessivo tutto il contenuto dei testi esa­
minati, collocandolo nella prospettiva della grazia di Dio.

l. Dio È AMORE (lGv 4,8; 4,16)

Niente di simile troviamo in tutto il Nuovo Testamento. Si trat­


ta di una particolarità rilevante di Giovanni, che ama sintetizzare in
formule espressive, da lui coniate, il discorso teologico. Nel vangelo
aveva dichiarato che Dio è spirito (4,24) e all'inizio della Prima let­
tera aveva confessato che Dio è luce (1,5). Ora afferma che Dio è
amore. Non si può chiamarla una definizione, se con questo termine
s'intende presentare una speculazione sulla natura o sull'essenza
divina. Il discorso giovanneo non si pone infatti nell'ambito del­
l'atemporale, dell'eterno e dell'immutabile. La sua prospettiva si
rivela decisamente storico-salvifica. Gli interessa direttamente l'agi­
re di Dio, la sua presenza attiva nella storia, il suo intervento nel
mondo. Non può sussistere alcun dubbio in proposito. Infatti all'as­
serto fa seguire senza soluzione di continuità: «In questo si è mani­
festato l'amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito
Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui» (lGv 4,9).
«Dio è amore>> esprime la dinamica propria al gesto di donazione del
figlio, inviato nel mondo con scopo salvifico. Non definisce un'essen-
L'amore di Dio nel messaggio di Giovanni 145

za, ma qualifica una storia. Al testo della Prima lettera fa eco il van­
gelo: <<Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio uni­
genito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita
eterna. Dio non ha mandato il figlio nel mondo per condannare il
mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (3,16-17).
L'espressione giovannea postula poi di essere compresa in chia­
ve di rivelazione: Dio si è manifestato in Gesù Cristo, uscendo allo
scoperto. Il suo agire storico-salvifico ci ha svelato il suo vero volto:
non un'autocoscienza lucidissima, né un pensiero onnisciente, bensì
una persona che si apre agli uomini donando loro il figlio e facendo­
li così partecipare alla sua comunione (cf. l Gv 1,3). In altre parole, la
giusta preoccupazione di mettere in risalto la prospettiva storico-sal­
vifica dei testi giovannei non deve far velo al riconoscimento che
Giovanni non si è limitato a dire che Dio per amore ha inviato il suo
figlio nel mondo, percezione questa di fede comune a tutto il Nuovo
Testamento. Egli va oltre e qualifica Dio come amore. Vuoi dire,
sembra, che il Padre nel suo agire storico-salvifico si rivela per quel­
lo che è: amore, totalmente amore. In noi tra quello che siamo e il
fatto di amare esiste sempre una distanza, riducibile certo, ma sem­
pre incolmabile. Nel Dio di Gesù Cristo invece c'è perfetta adegua­
zione tra essere e amare. Pare indubbio che Giovanni voglia sonda­
re qui l'essere profondo e indicibile di colui che ha inviato il suo
figlio nel mondo. L'amore da lui manifestato nella storia rappresen­
ta non un aspetto periferico della sua personalità, né un additivo
complementare, bensì la qualifica determinante del suo essere. Dio
è tutto nel suo gesto di donazione del figlio all'umanità.
Non solo, Giovanni vuoi mostrare anche ai suoi credenti che
cos'è l'amore. A questo scopo volge il loro sguardo a Dio e alla sua
azione storico-salvifica: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad
amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo figlio come
vittima di espiazione per i nostri peccati>> (1Gv 4,10). E ancora: «Da
questo conosciamo l'amore: Egli ha dato la vita per noi>> (1Gv 3,16).
Non porta in campo riflessioni speculative, ma fa riferimento alla sto­
ria salvifica. In questa scorge ciò che è autentico amore.
Però si deve dire subito che, se Dio è amore, non risulta affatto
vero che l'amore sia Dio. Giovanni parte dalla rivelazione cristiana,
dunque da una storia in cui Dio si è impegnato, e vi scorge la presen-
146 C4pitolo 16

za determinante della dinamica più pura della donazione e della


comunicazione tra persone. Confessa dunque che Colui che ha invia­
to il figlio nel mondo è amore. E trae la conclusione che è il Padre di
Gesù Cristo a significarci che cosa vuoi dire veramente amare.
L'amore si definisce in rapporto al gesto donativo e salvifico di Dio
e al gesto di Gesù che ha fatto getto della sua vita. In una parola, è
la storia di Gesù Cristo a qualificare in profondità Dio e nello stes­
so tempo a definire concretamente che cosa sia amare. Nella missio­
ne del Figlio si rivela il volto genuino di Dio e la natura autentica
dell'amore. È nel concreto, nel vissuto, nello storico che la realtà
divina e umana emerge con chiarezza e verità.

2. «CHIUNQUE AMA • • • CONOSCE DIO» (1Gv 4,7)

L'ambiente in cui la Prima lettera di Giovanni ha visto la luce era


caratterizzato da tendenze gnostiche e da correnti mistiche. Il rappor­
to religioso passava attraverso la conoscenza profonda di Dio e del
suo mistero. In altre parole, l'uomo aveva accesso alla luce divina sfol­
gorante in quanto essere intuitivo, conoscitivo, dotato di occhi spiri­
tuali penetranti. Questa spiritualità religiosa del tempo era entrata
anche nelle chiese. Non vi mancavano maestri fuorvianti dalla verità
cristiana. Giovanni reagisce con forza e proclama senza mezzi termi­
ni che la via per raggiungere Dio e avere accesso a lui è quella del­
l'amore: «chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio>> (lGv 4,7).
La connessione tra amare e conoscere Dio diventa chiara se al tenni­
ne «conoscere» si sostituisce quello di «comunione», come espressa­
mente dice lo stesso Giovanni poco oltre: «chi dimora nell'amore
dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). Al contrario «chi non
ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore>> (lGv 4,8). È pro­
prio del mondo di non conoscere Dio: «La ragione per cui il mondo
non ci conosce è perché non ha conosciuto lui>> (lGv 3,1). La ragione
è che non ama, o, come semiticarnente si esprime Giovanni, odia:
«Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia>> (l Gv 3,13). La stes­
sa caratterizzazione del mondo appare nel vangelo (cf. 15,18--16,4).

Non è difficile scorgere qui una prospettiva di grande interesse.


Gli uomini si qualificano in senso decisivo secondo il criterio antite­
tico dell'amore e dell'odio. La divisione fondamentale è questa.
L'amore di Dio nel messaggio di Giovanni 147

L'esistenza umana è ultimamente scelta dell'uno o dell'altro campo.


Tra le molte espressioni del dualismo giovanneo, come luce-tenebra,
verità-menzogna, vita-morte, salvezza-perdizione, non si deve disat­
tendere quella che contrappone amore e odio. Ma più importante
ancora è rilevare che tale antitesi specifica il rapporto religioso: è chi
ama che aderisce veramente a Dio, entra in comunione con lui, men­
tre chi non ama (odia) si pone per ciò stesso in posizione di estranei­
Là religiosa e di negazione del Dio di Gesù Cristo. In termini moder­
ni si direbbe che teismo e ateismo sono compresi da Giovanni non
sul piano intellettuale, come risultati di posizioni teoriche o di con­
vinzioni mentali, bensì in prospettiva morale, come scelte concrete di
amore o di chiusura egoistica in se stessi (odio).
Un'ultima precisazione necessaria: Giovanni intende evidente­
mente parlare dell'amore che ci compromette con gli altri. Basti qui
citare il testo seguente: <<Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli
uni gli altri, Dio rimane in noi e l'amore di lui è perfetto in noi» (lGv
4,12). In comunione con Dio si trova chi partecipa al dinamismo
della sua azione storico-salvifica, facendolo proprio nei rapporti con
gli altri. Si giunge così atridentificazione tra il credente e chi ama e
tra l'incredulo e chi non ama. L'apertura religiosa a Dio significa
concretamente esistenza sostanziata di gesti di amore e la chiusura
alla parola divina avviene in chi si chiude agli orizzonti esistenziali
della mutua donazione.

3. <<QUESTO È L'AMORE DI DIO: OSSERVARE l SUOI COMANDAMENTI>>


(lGv 5,3)

Accanto alle suddette affermazioni giovannee sull'amore come


strada che conduce alla comunione con Dio se ne possono rilevare
altre, secondo le quali l'accesso a lui è specificato dall'obbedienza,
cioè dall'accettazione della sua parola imperativa, dalla sottomissio­
ne alla sua volontà sovrana: <<Da questo sappiamo d'averlo conosciu­
to: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: Lo conosco, e non
osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui»
(l Gv 2,3-4); <<Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli
in lui>> (lGv 3,24). A prima vista non si può negare una reazione di
sorpresa e di sconcerto: se non proprio di contraddizione si può certo
148 Capitolo 16

parlare di due diverse prospettive. In realtà non è impossibile scor­


gere una complementarità di aspetti. A questo scopo però si deve
seguire pazientemente il complesso processo mentale di Giovanni.
Qui egli come punto di partenza non assume più l'originale defini­
zione «Dio è amore», ma la tradizionale prospettiva biblica sul rap­
porto religioso specificato dalla logica dell'alleanza, come appare
soprattutto nel libro del Deuteronomio. I due partner vi entrano su
posizioni diverse: Dio è colui che ha scelto Israele, lo ha liberato
dalla schiavitù d'Egitto e lo protegge; il popolo è chiamato a obbedi­
re alla volontà divina espressa nella legge, che costituisce globalmen­
te le clausole del patto. Ora questa obbedienza viene chiamata anche
amore. Si veda per esempio il testo seguente:

Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il
Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l'ami e serva
il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l'anima, che tu osservi
i comandi del Signore e le sue leggi, che oggi ti do per il tuo bene? (DI
10,12-13).

L'amore di Dio dunque è inteso come fedeltà, obbedienza, leal­


tà. È un fare la volontà del Signore. Si pone nel solco della prassi.
Nulla di affettivo o sentimentale. Per essere più esatti si tratta di
amore di alleanza, conclusa sulla base di precise stipulazioni. Nel
patto del Sinai di fatto YHWH gioca il ruolo del re principale e
Israele quello del vassallo. YHWH ha liberato le tribù israelitiche
dall'oppressione egiziana e ora si propone come Dio protettore del
popolo; questi è chiamato a riconoscerlo come suo esclusivo Signo­
re e ad essergli fedele in tutto nell'obbedienza alla sua parola.
Giovanni si colloca in questa linea tradizionale. Oltre ai due
passi citati sopra (1Gv 5,2 e 5,3), si può riportarne un terzo, dove la
pluralità dei comandamenti cede il posto all'unità della parola divi­
na: «ma chi osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente
perfetto>> (lGv 2,5). Anche nel vangelo, a proposito di Gesù, appare
l'identificazione tra amore di Dio e obbedienza: <<bisogna che il
mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha
comandato>> (14,31). Con frequenza poi Giovanni evidenzia come il
rapporto religioso di Gesù verso Dio sia improntato al compimento
della volontà divina: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha
L'amore di Dio nel messaggio di Giovanni 149

mandatO>> (4,34); «non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui


che mi ha mandato» (5,30); <<sono disceso dal cielo non per fare la
mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandatO>> (6,38); <<io
faccio sempre le cose che gli sono gradite>> (8,29); «lo ti ho glorifica­
to sulla terra, compiendo l'opera che mi hai dato da fare» (17,4).
La stessa corrispondenza tra amore e obbedienza si può osser­
vare nel vangelo a proposito del rapporto Gesù-discepoli: «Se mi
amate, osserverete i miei comandamenti>> (14,15); <<Chi accoglie i
miei comandamenti e li osserva, questi mi ama» (14,21); «Se uno mi
ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo a lui
e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le
mie parole>> ( 14,23-24). Si stabilisce anzi espressamente il paralleli­
smo tra l'amore-obbedienza di Gesù verso il Padre e l'amore-obbe­
dienza dei discepoli al maestro: <<Se osserverete i miei comandamen­
ti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti
del Padre mio e rimango nel suo amore>> (15,10).
Nell'amore-obbedienza verso Dio e Cristo appare chiaro un
duplice aspetto del rapporto religioso. Innanzitutto esso si colloca
nel campo morale e riguarda la volontà e la prassi dell'uomo. In
secondo luogo appare che l'uomo non si trova davanti a Dio su un
piede di parità; resta sempre la creatura di fronte al Creatore.

4. DALL'AMORE DI Dto ALL'AMORE DEI FRATELLI

Si è vista sopra la duplice prospettiva di Giovanni che, assumen­


do due punti di vista diversi, cioè <<Dio è amore>> e l'amore-obbe­
dienza verso Dio, indicava conseguentemente nell'amore verso i fra­
telli e nel fare la volontà divina le due strade capaci di far entrare
l'uomo nella comunione con Dio. Ora ci domandiamo in che rappor­
to stanno l'amore fraterno con l'amore-obbedienza a Dio. Si tratta
di due cammini semplicemente giustapposti e coordinati, oppure si
riducono a uno stesso atteggiamento unitario? Sembra che in questo
stia l'originalità di Giovanni rispetto alla tradizione sinottica che giu­
stapponeva l'amore di Dio e l'amore del prossimo. Egli sottolinea
con forza che i comandamenti di Dio, espressivi della sua volontà, si
riducono a questo: amatevi gli uni gli altri: <<Questo è il comanda­
mento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello>>
150 Capitolo 16

(1Gv 4,21); «Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome


del figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il pre­
cetto che ci ha dato>>(lGv 3,23). In un testo molto denso Giovanni
collega espressamente amore di Dio, obbedienza ai suoi comanda­
menti e amore del prossimo: «Da questo conosciamo di amare i figli
di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti» (1Gv 5,2).
Alla stessa conclusione porta l'amore-obbedienza verso Cristo. Il
suo comandamento, riassuntivo delle sue esigenze nei confronti dei
discepoli, suona nel vangelo in termini identici: <<Vi do un comanda­
mento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri» (13,34); «Questo è il mio
comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati>>
(15,12). E ancora espressamente si nota lo stretto rapporto tra amore­
obbedienza a Cristo e amore fraterno: <<Voi siete miei amici, se farete
ciò che io vi comando [ . . . ]. Questo vi comando: amatevi gli uni gli
altri» (15,14 e 17). In realtà la parola di Gesù e il suo comandamento
riecheggiano la parola e la volontà di Dio: «Chi non mi ama non osser­
va le mie parole; la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre
che mi ha mandato» (14,24): <<lo ho dato a loro la tua parola» (17,14).
Come si vede il rapporto religioso con Dio, intessuto di obbe­
dienza, !ungi dall'assorbire l'uomo estraniandolo dalla vita relazio­
nale con gli altri, lo rimanda al contrario ai fratelli carico di un impe­
gno morale di altissima tensione. Il Dio di Gesù Cristo, proprio per­
ché è rivolto al mondo e all'umanità con atteggiamento di amore
oblativo e salvatore, vuole che la dinamica del suo agire sia parteci­
pata da quelli che aderiscono a lui. Egli fa valere la sua volontà
imperativa sugli uomini, ma per volgerli al loro prossimo da amare.
Giovanni però conosce una seconda via di passaggio dal rappor­
to religioso con Dio e con Cristo all'amore dei fratelli. Nella Prima
lettera leggiamo: «Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbia­
mo amarci gli uni gli altri» (4,11); «Noi amiamo, perché egli ci ha
amati per primo» (4.19). Punto di partenza non è più l'amore-obbe­
dienza, ma Dio rivelatosi come amore nella storia della salvezza.
Nella fede il credente viene a trovarsi coinvolto nella dinamica del­
l'agire del Padre. Vi aderisce e ne è provocato a tradurre nella sua
vita lo stesso amore di donazione. Dio diventa così modello esempla­
re e motivazione ultima dell'operare del credente nella storia dei
suoi rapporti interpersonali e sociali. Poiché il Padre è Dio-amore e
L'amore di Dio nel messaggio di Giovanni 151

come il Padre ama, per questo e allo stesso modo chi l'accoglie e vi
aderisce con fede logicamente deve accogliere e accettare gli altri
come fratelli da amare.
La stessa logica interna alla fede vale nei confronti di Gesù Cri­
sto. Nella Prima lettera di Giovanni leggiamo: <<Da questo abbiamo
conosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi
dobbiamo dare la vita per i fratelli>> (3,16). Il vangelo ricalca la stes­
sa pista: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi.

Rimanete nel mio amore>> (15,9), dove dimorare nell'amore di Cri­


sto significa in ultima analisi amare i fratelli (cf. 15,10.12). E ancora:
«Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri
amici>> (15,13). L'esigenza di amore fraterno trova il suo parametro
di confronto nella donazione senza riserve di Gesù: «Come io vi ho
amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri>> (13,34).
In una parola, il credente è sollecitato dalla logica della sua fede
ad amare i fratelli «perché>> Dio si è rivelato come amore donando il
suo figlio e Cristo non ha risparmiato la sua vita, ed è impegnato a
donarsi a loro «come>> Dio e Gesù si sono donati agli uomini.
Se ora si vuole guardare alle riflessioni giovannee con sguardo
più unitario, si può constatare che la volontà imperativa di Dio e di
Cristo che fanno valere il comandamento dell'amore mutuo tra i cre­
denti non esige altro da noi se non ciò che essi per primi hanno tra­
dotto in gesti concreti. Volontà divina salvifica e volontà divina
imperativa camminano sullo stesso binario. Il Padre e il Figlio suo
postulano in quelli che credono la stessa dinamica operativa di
amore che domina il loro essere e la loro azione storico-salvifica.
L'imperativo del Dio di Gesù Cristo non esprime dunque l'afferma­
zione della sua autorità padronale, bensì la sua volontà di partecipa­
zione e comunicazione. L'amore-obbedienza a Dio è finalizzato alla
comunione con Dio e con Cristo nella solidarietà fraterna di amore
con il prossimo.

5. AMORE DI DIO E AMORE DEL PROSSIMO

A questo punto si fa chiaro l'indissolubile legame stabilito tra i


due atteggiamenti di amore, verso Dio e verso gli altri. Giovanni vi
insiste: «Se uno dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un
152 Capitolo l6

mentitore>> (lGv 4,20). La frase contraddice posizioni di tipo gnosti­


cizzante presenti nelle comunità cristiane giovannee. Trova qui con­
danna autorevole ogni pretesa di assolutizzare il rapporto religioso,
cioè di scioglierlo dai rapporti intraumani. Con più forza espressiva
ancora Giovanni ripete altrove la stessa cosa: «Ma se uno ha ricchez­
ze in questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità gli chiude
il proprio cuore, come dimora in lui l'amore di Dio?>> (lGv 3,17).
Ogni dissociazione significherebbe disattendere la volontà di Dio:
«Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami
anche il suo fratello» ( l Gv 4,21).
Non si dà confusione, né riduzione dell'uno all'altro, ma connes­
sione inscindibile. Mi sembra utile citare qui per esteso un brano
lucidissimo di Bultmann:

I due comandamenti: amare Dio e amare il prossimo, non sono identi­


ci così che l'amore del prossimo sia senz'altro l'amore di Dio. Questo
malinteso può affiorare soltanto quando si comprende in senso filan­
tropico l'amore del prossimo, quando si vede nell'uomo un valore a sé,
qualcosa di divino. Si è perduto veramente allora il rapporto con Dio
sostituendolo con il rapporto con l'uomo: non si può amare Dio, dun­
que si amano gli uomini e cosl appunto si ama Dio! No! Al contrario il
massimo comandamento è questo: Amare Dio, sottomettere nell'obbe­
dienza la propria volontà alla volontà divina. Ed è questo primo
comandamento che determina il significato del secondo. In questo
senso: l'atteggiamento che io prendo di fronte al prossimo è determi­
nato dall'atteggiamento che io assumo davanti a Dio: come persona
obbediente a Dio, la quale vince la propria egoistica volontà e rinuncia
alle pretese del suo io, io mi metto di fronte al prossimo, pronto al
sacrificio tanto per Dio come per il prossimo. E inversamente il secon­
do comandamento determina il significato del primo: amando il pros­
simo io confermo la mia obbedienza verso Dio [ . . . ]. Come posso amare
il prossimo solo se abbandono totalmente la mia volontà alla volontà
di Dio, cosl posso amare Dio soltanto se voglio ciò che egli vuole,
amando veramente il prossimo.'

A noi oggi fa sorpresa che si parli di amore comandato. Non è


vero che al cuore per definizione non si può comandare? Non è
l'amore l'ambito per eccellenza della spontaneità, dello slancio, del-

1 R. BuLTMANN, Gesù, Brescia 1972, 193-194.


L'amore di Dio nel messaggio di Giovanni 153

l'attrazione irrefrenabile? In realtà nella nostra cultura abbiamo


un'idea sentimentale e idealistica dell'amore, ridotto ad affetto tra­
volgente e ad adesione spontaneistica a persone dotate di amabilità
e di attrattiva. Ma così si misconosce radicalmente la prospettiva del
discorso biblico e in particolare della teologia giovannea, dove ama­
re denota in primo piano non sentimenti o affetti, ma una prassi di
donazione disinteressata, un fare a fondo perduto per l'altro e per la
sua costruzione. Perché di questa tempra è stato l'amore di Dio
manifestato in Cristo. Né si guarda all'amabilità della persona
amata, o al suo valore, esattamente come il Padre che ci ha amato da
peccatori, privi dunque di amabilità di fronte a lui. In una parola,
l'amore di cui parla Giovanni si colloca nell'ambito di un impegno
morale, di una responsabilità solidale con gli altri. Dunque può e
deve essere comandato: comandato da colui che è amore in quanto
si dona a noi per la nostra salvezza. Posto sotto il segno dell'obbe­
dienza a Dio esso non ci lascia scampo e viene sottratto alla mutabi­
lità dei nostri desideri e dei nostri affetti. La connessione però non si
stabilisce soltanto in base al comando divino, ma anche in riferimen­
to alla storia di amore avente per protagonisti Dio e Gesù Cristo.
Non solo in quanto obbedienti alla volontà divina, bensì anche come
credenti non possiamo sfuggire all'esigenza di amore dei fratelli.
Aderire a una storia di amore come quella rivelata in Gesù Cristo
non può ridursi a un assenso intellettuale: sì, è ·vero; implica anche
una compromissione esistenziale: sì, è vero per noi. Credere nella
storia salvifica, che nasce e si sviluppa all'insegna dell'amore di Dio
e di Gesù Cristo, vuoi dire credere che ogni storia di rapporti umani
è per la vita solo se espressiva della stessa oblatività e dello stesso
amore disinteressato.

6. «L'AMORE È DA DIO>> (lGv 4,7)

Finora il discorso era limitato all'esigenza di amare i fratelli,


dedotta dalla necessità di entrare in comunione con Dio, dall'amore­
obbedienza al Padre di Gesù Cristo e dalla storia salvifica espressi­
va della donazione di Dio. In altre parole era ristretto all'ambito del­
l'impegno morale e della responsabilità dei credenti. Ora Giovanni
afferma che da Dio non scaturiscono per noi soltanto un imperativo,
154 Capitolo 16

un esempio e una motivazione, ma anche ci viene il dono dell'amo­


re. La teologia giovannea presenta questo quadro d'insieme: l'amo­
re ha la sua fonte inesauribile e infinita nel seno del Padre: lui è
amore; da qui si effonde su Cristo, il figlio prediletto: «Il Padre ama
il figlio e gli ha dato in mano ogni cosa>>(3,35); «<l Padre infatti ama
il figlio e gli manifesta tutto quello che fa» (5,20); si comunica quin­
di ai credenti, che ne risultano presi. Su questa linea si muove pure
la preghiera sacerdotale di Gesù: <<E io ho fatto conoscere loro il tuo
nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato
sia in essi e io in loro>> (17,26). Anche le espressioni giovannee:
«dimorare nell'amore di Dio o di Cristo» (lGv 3,17; 15,9-10) e
«l'amore di Dio è perfetto in voi (in lui)» (lGv 2,5; 4,12), sono indi­
cative di una comunicazione di amore.
Mediante la fede i credenti entrano nella sfera divina, che è
caratterizzata dall'amore, perché Dio è amore. L'adesione di fede
alla rivelazione divina non significa soltanto impegno, responsabilità
e obbedienza, ma anche partecipazione vitale alla realtà di amore
qualificante l'essere di Dio, comunicazione all'esperienza divina di
amore. L'esistenza cristiana pertanto non può essere ridotta a fatto
puramente morale. Si allarga invece all'insondabile mistero della
grazia e del dono. Accanto all'imperativo dell'amore c'è l'indicativo
del dono di amore a noi fatto dal Padre in Gesù Cristo. Ciò che la
volontà divina ci chiede imperativamente ce lo dona come capacità
e forza creatrice.
Il.
LA CHIESA DI GESÙ
17.
GESÙ DI NAZARET
E LA REALTÀ DELLA CHIESA*

Alla domanda se Gesù di Nazaret abbia voluto la Chiesa è risa­


puto che A. Loisy ha risposto con un no senza sfumature. Ecco infat­
ti le sue parole: «Gesù ha predicato il regno di Dio come imminente
ed ecco invece sorgere la chiesa. Come a dire: egli ha voluto una cosa
ma un'altra poi ha visto la luce>>. La Chiesa dunque sarebbe una real­
tà non voluta da colui che si proclama essere il suo fondatore. E non
si pensi di poter facilmente confutare il famoso esegeta francese
richiamando i due passi del Vangelo di Matteo in cui Gesù parla
espressamente della Chiesa: «Th sei Pietro e su questa pietra io edi­
ficherò la mia chiesa>> (Mt 16,18); «Ma se non li ascolterà [i due o tre
testimoni chiamati in causa a dar peso all'ammonizione fraterna
rivolta a un credente che ha deviato dalla retta via], dillo alla chiesa,
se poi non ascolterà neppure la chiesa, sia per te come il pagano e il
pubblicano» (Mt 18,17), perché di fronte alla critica storico-lettera­
ria dei vangeli sarà praticamente impossibile sostenere l'autenticità
gesuana delle parole suddette, che sono piuttosto il frutto della
riflessione successiva della tradizione o della redazione matteana.
D'altra parte nel tentativo di risposta non ci si potrà limitare alla
sola questione dei termini: se è vero, come appare indubitabile. che
sulla bocca di Gesù, per quanto ci consta, non fiori mai la parola
«Chiesa>>, non per questo si dovrà concludere che dal suo orizzonte
era assente la realtà della «chiesa>>. Potrebbe aver usato altre catego­
rie espressive dello stesso fenomeno ecclesiale che dopo la sua
morte nacque e si affermò. E su questo versante la risposta dovrà
necessariamente essere più articolata e complessa.

• In Servitium 24(1990)69, 243-250.


158 Capitolo 17

Vorrei anche riferire qui la risposta che G. Lohfink ha creduto


di poter dare allo stesso interrogativo nel suo libro dal titolo signifi­
cativo: Wie hat Jesus Gemeinde gewollt?1 A suo avviso, Gesù non
poteva fondare alcuna chiesa perché c'era già da tempo, appunto il
popolo di Dio Israele.2 E su questa tesi l'esegeta tedesco mostra nel
suo studio come l'essenziale riferimento dell'esistenza storica di
Gesù sia stato appunto il popolo giudaico, che sulla scorta delle pro­
messe veterotestamentarie il Nazareno si è impegnato a raccogliere
e ricreare secondo la forma di vita conforme al progetto divino.
Devo dire che il volume di Lohfink mi è apparso molto stimo­
lante e confesso che molto io qui gli devo, anche se ovviamente pro­
cedo secondo schemi interpretativi miei. In concreto procederò nel
modo seguente: anzitutto descriverò i tre cerchi concentrici che
hanno costituito l'ampio campo referenzia\e dell'azione di Gesù,
quindi, puntando l'attenzione sui Dodici e sui discepoli, verranno
evidenziate le linee generali che definiscono il ruolo che fu allora dei
Dodici e dei discepoli e adesso è della Chiesa.

l. I DODICI, I DISCEPOLI, IL POPOLO

I vangeli, soprattutto quelli sinottici, ci permettono di determi­


nare con sufficiente attendibilità storica gli interlocutori di Gesù di
Nazaret. Il quadro più vasto appare determinato dalla gente, o dalla
folla e dalle folle, come dicono le testimonianze evangeliche. In con­
creto nella sua predicazione di profeta itinerante egli si è rivolto ai
partecipanti alle riunioni sinagogali, ai commensali che gli tenevano
compagnia nei conviti a cui era stato invitato, ai gruppetti o ai singo­
li incontrati per strada, ai pellegrini che salivano al tempio di Geru­
salemme durante le feste ebraiche e agli abitanti della capitale che
partecipavano nell'area del santuario ai riti tradizionali. In ogni
modo, come ha potuto rilevare G. Theissen nei suoi studi di caratte­
re sociale circa Gesù e il suo movimento, il profeta di Nazaret ha
avuto come interlocutori privilegiati gli abitanti della campagna e

1 G. LoHPINl(, Wie lwt Jesus Gemeinde gewo/lt?, Freiburg 1982; trad. it.: Gesù come
voleva la sua comunitiì?, Cinisello B alsamo 1987.
2 LoHFINK, Gesù come voleva la sua comunità?, 1.
Gesù di Nazaret e la realtà della Chiesa 159

dei villaggi. Inoltre, si deve dire che egli non ha fatto discriminazio­
ne alcuna tra osservanti rigorosi delle prescrizioni della legge mosai­
ca e quanti erano catalogati sotto l'infamante definizione di <<pecca­
tori>>, che raggruppava coloro che esercitavano mestieri e professio­
ni incompatibili con le norme scritte e soprattutto tradizionali del
vivere giudaico, per es. gli impiegati alla gabella o pubblicani. Infine
il messaggio da lui proclamato a tale uditorio riguardava la prossima
venuta del regno di Dio o dei cieli, messaggio abbinato strettamente
all'appello urgente della conversione. Si veda in proposito Mc 1 ,15,
che a detta anche dei più rigorosi critici costituisce il centro della
attività profetica di Gesù: «Si è fatto vicino il regno di Dio: converti­
tevi>>. In breve egli chiamava il popolo giudaico ad accogliere nella
fede il suo lieto proclama o vangelo e ad adeguare concretamente la
propria esistenza alle esigenze etiche della regalità divina definitiva
che stava per instaurarsi e che faceva pressione sul presente storico
per trasformarlo.
In realtà anche il Battista si caratterizzava per l'orientamento
escatologico o alla venuta del regno di Dio, ma con un'inconfon­
dibile sottolineatura apocalittica: questo mondo è corrotto senza
possibilità di riscatto, sarà dunque sostituito da un nuovo mondo che
scenderà glorioso dai cieli e prenderà il posto di questo destinato
alla consumazione. In questa prospettiva il suo appello alla conver­
sione, del tutto simile a quello del Nazareno, suonava come indica­
zione di un'estrema esigenza da verificare per poter avere parte al
mondo futuro, senza la quale il destino sarebbe stato quello del
fuoco eterno. Gesù invece, estraneo qui all'orientamento apocalitti­
co, non considerava questo mondo come definitivamente corrotto,

soprattutto non pensava a una sua sostituzione con il mondo celeste,


bensì era persuaso che in questo vecchio mondo stanno per fare irru­
zione e già irrompono le forze positive e creative del nuovo mondo,
impersonate nel regno di Dio, che offrono agli uomini nuove possi­
bilità di vita autentica nella fedeltà a Dio e nell'amore dei fratelli. In
una parola, non siamo di fronte all'ultimo istante con la catastrofe
che incombe e davanti alla quale vale il grido: «Si salvi chi puÒ>>,
come possiamo noi interpretare grosso modo l'appello del Battista.
Per Gesù il presente storico costituisce la fase in cui il buon grano è
seminato nel campo in cui però è seminata anche la zizzania e i due
160 Capitolo 17

crescono l'uno accanto all'altra. La sua azione dunque consiste, per


un verso, nell'infondere fiducia e coraggio perché la regalità divina
ha cominciato a prender piede nella storia, e, per l'altro, a far cresce­
re e maturare nella propria vita il buon grano.
Possiamo così definire questo vasto campo dell'azione di Gesù:
radunare il popolo di Dio, incarnato nel popolo giudaico del suo
tempo, attorno alla prospettiva del regno di Dio e all'esigenza di una
profonda e totale fedeltà a quanto postula la novità annunciata.
Detto altrimenti, Gesù si è impegnato essenzialmente per la riforma
religiosa e morale del popolo giudaico, un po' come i profeti del­
l'Antico Testamento. La sua originalità sta nella collocazione della
sua persona alla svolta decisiva della storia impressa al cammino del­
l'umanità dall'imminenza del Regno e dalla sua irruzione reale,
anche se parziale, nel tempo.
Ma la risposta del popolo è stata per molti versi assai deludente:
le classi dominanti, come l'aristocrazia sacerdotale (i sommi sacerdo­
ti dei nostri vangeli e in genere l'alto clero) e l'aristocrazia laica, cioè
i capi del popolo o gli anziani come dicono i nostri vangeli, e il ceto
dei farisei, che costituiva l'élite religiosa e morale, gli riservarono in
generale non solo poca attenzione ma anche ostilità e atteggiamenti
critici. Ai loro occhi Gesù appariva come un sovversivo e uno scanda­
loso esempio di connivenza con i peccatori pubblici e i perduti. Gesù
allora crea un gruppo ristretto di persone che aderiscono a lui e al suo
messaggio. Non voleva però sostituire così al popolo giudaico un
nuovo popolo di Dio che ne prendesse il posto, ma formare un nucleo
fedele rappresentativo di tutto il popolo. Per questo ne sceglie dodi­
ci, come i dodici figli di Giacobbe e le corrispondenti dodici tribù
d'Israele che costituiscono appunto il popolo di Dio. Il rapporto tra i
Dodici e il popolo giudaico, come ha ben rilevato G. Lohfink, citato
sopra, non è di sostituzione, ma di rappresentanza. Il popolo deve
vedere in essi la società che Gesù vuole instaurare come società in cui
Dio regni in verità e sia fatta la sua volontà di liberatore definitivo
dell'uomo da ogni male e dalle forze della morte.
Che le cose stiano in questi termini appare da una constatazio­
ne a portata di mano: Gesù non ha limitato i suoi discepoli al grup­
po ristretto dei Dodici, caratterizzati dal ruolo di rappresentatività.
In altri termini discepoli e Dodici sono grandezze non equivalenti: i
Gesù di Nazaret e la realtà della Chiesa 161

Dodici sono parte dei discepoli, che costituiscono un cerchio più


vasto. Si pensi ai settantadue discepoli mandati in missione, di cui
parla il Vangelo di Luca (cf. c. 10). Se poi si guarda con scetticismo
storico a questa pagina del terzo vangelo, non per questo si dovrà
rinunciare a tale cerchia degli interlocutori del Nazareno. Basti
richiamare alla mente il discepolo Cleofa e il suo amico che incon­
trarono il risorto mentre ritornavano a Emmaus dopo la tragedia del
venerdì santo (cf. Le 24), e poi Nicodemo (cf. Gv 3), le sorelle di Laz­
zaro Marta e Maria (cf. Le 1 1 ,38ss e Gv 1 1), l'indemoniato di Gera­
sa che è stato guarito da Gesù e mandato nella sua città a proclama­
re le meraviglie di Dio (cf. Mc 5), e non ultimo il gruppetto delle
donne di Galilea che seguivano Gesù e lo finanziavano (cf. Mc 15,40-
41). Né si dovranno passare sotto silenzio i perduti della società del
suo tempo che accolsero il suo messaggio e il suo appello, come Zac­
cheo, la donna di strada da lui perdonata e gli anonimi e non men­
zionati che aderirono a lui. Costituiscono, certo come minoranza ma
non insignificante, l'inizio del popolo di Dio radunato da Gesù come
il pastore raduna le pecore. È del tutto probabile che sia deL Gesù
storico il pronunciamento testimoniato in M t 15,24: <<Non sono stato
inviato che alle pecore perdute della casa di Israele». Si veda anche
con la stessa immagine del pastore e delle pecore la testimonianza di
Mt 9,36: <<Vedendo le folle ne sentl compassione, perché erano stan­
che e sfinite, come pecore senza pastore>>. Se i Dodici rappresentano
il popolo di Dio «riformato», i discepoli ne sono la primizia.

2. QUALE RAPPORTO CON LA CHIESA?

Non c'è dubbio che la Chiesa vide la luce solo con la fede dei
discepoli nella risurrezione di Gesù crocifisso e storicamente si
devono tener ben distinte la fede prepasquale da quella postpasqua­
le: solo questa caratterizza propriamente i cristiani. Ma non appare
senza importanza il fatto che i discepoli storici del Nazareno siano i
medesimi che hanno dato origine per primi alla Chiesa. Questa dun­
que si ricollega al Gesù storico, non solo al risorto che come tale
accetta nella fede e proclama nel credo e adora nel culto. Non per
nulla, perduto per strada Giuda lscariota, ci si premura di reintegra­
re il numero simbolico di dodici scegliendo il sostituto, Mattia. Il
162 Capitolo 17

nucleo originario della Chiesa intende continuare la parabola dei


Dodici, rappresentativi del popolo di Dio dell'Antico Testamento, e
anche l'orientamento di Gesù che aveva di mira essenzialmente le
dodici tribù d'Israele come referente della sua azione. La Chiesa si
costituisce come gruppo di persone che hanno accolto nella loro vita
la parola di Gesù credendo all'irruzione del Regno nella storia, che
ora, alla luce della risurrezione di Cristo, prende ancor più consisten­
za, e realizzando nella propria esistenza personale e societaria le esi­
genze del Regno, in particolare le consegne date dal maestro sul
monte delle beatitudini e i numerosi insegnamenti indirizzati appun­
to al gruppo dei Dodici. Potremmo dire che la Chiesa delle origini
sorge come resto fedele del popolo di Dio incarnato nel popolo giu­
daico, destinato a ingrandirsi con l'accessione sempre più numerosa
dei convertiti dal mondo giudaico. In questo contesto si veda il senso
della parabola dei vignaioli omicidi che per colpa loro hanno perdu­
to la prerogativa di essere il luogo della realizzazione parziale ma
comunque reale del regno di Dio in terra: «Il regno di Dio sarà tolto
a voi e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare» (Mt 21,43). In
una parola, la Chiesa è il popolo di Dio riformato aperto alla pro­
spettiva del Regno e fedele alle sue esigenze operative.
Ma si dirà: Gesù non ha pensato al mondo pagano? La sua azio­
ne è stata caratterizzata da particolarismo rigido, come è apparso
dalla parola citata sopra: «Non sono stato inviato che alle pecore
perdute della casa d'Israele>>? E la Chiesa come popolo di Dio rifor­
mato ed erede delle dodici tribù d'Israele si deve interpretare così
ristretta in spazi angusti e particolaristici? Anzitutto diciamo che di
fatto Gesù ha limitato la sua azione al popolo giudaico del tempo e
solo sporadicamente ed eccezionalmente è entrato in rapporto con
dei pagani. La stessa difficoltà della Chiesa delle origini ad aprirsi al
mondo pagano trova nell'esempio di Gesù una ragione mollo forte.
Thttavia il Nazareno non ha escluso il mondo pagano dalla salvezza,
persuaso che Dio persegue la salvezza di tutti. In realtà egli ha segui­
to la stessa strategia divina rivelata nell'Antico Testamento: elezione
del popolo ebraico come mediatore della benedizione divina per
tutti i popoli. «Benedirò quelli che ti benedicono» è il programma di
YHWH testimoniato in Gen 12. Parimenti i discepoli di Gesù, sia
quelli appartenenti al gruppo ristretto dei Dodici sia la più vasta cer-
Gesù di Nazaret e la realtà della Chiesa 163

chia, sono chiamati da lui a testimoniare nella vita la novità del


regno di Dio così da attrarre gli occhi del mondo pagano e da affa­
scinarli affinché anch'essi glorifichino il Padre celeste. Si veda il
detto di Mt 5,14ss:

Siete voi la luce del mondo. Non può restare nascosta una città colloca­
ta sopra un monte. Né si accende una lucerna per mettcrla sotto il mog­
gio, ma sopra il lucemiere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella
casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le
vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.

Si tratta di un rapporto Chiesa e mondo costruito non sulla base


di una missione finalizzata alla conversione dei pagani o comunque
dei non credenti, ma sulla base che la Chiesa resta Chiesa e il mondo
resta mondo, solo si persegue la finalità più vasta della comune glori­
ficazione del Padre celeste. La Chiesa è chiamata non a omologare a
se stessa il mondo, ma ad esercitarvi un influsso di testimonianza per­
ché riconosca e lodi Dio, ottenendo in questo modo la salvezza.
Gesù ha operato dunque strategicamente, indirizzando in
maniera esclusiva la sua azione verso il popolo giudaico che incarna­
va al suo tempo il popolo di Dio, ma non escludendo così dal suo
orizzonte la causa del mondo pagano, che trova la sua strada salvifi­
ca appunto in rapporto al popolo particolare di Dio e alla sua testi­
monianza di vita vissuta, appunto attraverso le buone opere dei figli
di Dio. Si direbbe che la salvezza universale è perseguita dal Dio del­
l'Antico Testamento e di Gesù Cristo mediante una specie di conta­
gio vitale da parte del popolo di Dio, la cui azione deve splendere
come la lucerna sul candeliere e apparire come una città costruita sul
monte ed essere così capace di attirare l'attenzione e l'adesione.
In breve, Gesù ha voluto un popolo di Dio aperto alla svolta
epocale della storia che è stata segnata dalla prossimità e anticipa­
zione prolettica della regalità divina e testimone davanti al mondo
della novità portata dal Regno nella storia. Dunque ha voluto una
Chiesa testimone con la vita della lieta notizia e dunque responsabi­
le della causa del Regno nel mondo.
In un tempo in cui l'inflazione dei messaggi verbali o anche
delle immagini rende inefficace la predicazione al mondo, mentre la
forza della testimonianza della vita non ha perduto il suo potere
164 Capitolo 17

influente, mi sembra interessante e provocatoria questa figura della


Chiesa, come appare a livello di Gesù di Nazaret: i figli di Dio con­
fessanti la signoria di Cristo sono impegnati a vivere in maniera affa­
scinante allo scopo non di integrare tutti nella loro comunità bensì
di portare tutti alla comune glorificazione del Padre celeste.
18.
EXTRA FIDEM NULLA SAL US?*

Il punto interrogativo che qualifica il titolo mi sembra quanto


mai opportuno e necessario, perché esprime la problematicità del
tema. Se infatti il termine <<salvezza>> non comporta oggettivamente
alcuna possibilità di equivoco, quello di <<fede>> invece si presenta
tutt'altro che univoco negli scritti biblici, in particolare nei libri del
Nuovo Testamento. È noto lo studio di M. Buber che ha contrappo­
sto la hemunah ebraica alla pistis neotestamentaria soprattutto pao­
lina, la prima espressiva di fedeltà pratica al Dio del patto, la secon­
da indicativa di assenso mentale ai grandi fatti salvifici dell'incarna­
zione, redenzione e risurrezione di Cristo. Non è ora mio compito
entrare in questo problema e prendere posizione in materia; il ri­
chiamo mi serve per sottolineare un punto fermo nella discussione
del nostro problema: la fede cristiana tradisce molteplici valenze e la
prospettiva matteana, per esempio, non sarà identica a quella paoli­
na; ma anche Giovanni, per non menzionare la Lettera agli Ebrei, si
offre nella sua spiccata peculiarità rispetto a Matteo e Paolo. Sarà
dunque necessario precisarne l'esatta portata in questo e in quello
scritto per determinare la sua importanza in rapporto alla salvezza.
Come in ogni ricerca sullo spessore teologico degli scritti neotesta­
mentari, bisognerà attendersi una pluralità e diversità di prospettive:
l'unità del Nuovo Testamento potrà essere colta non in una piatta
reductio ad unum, bensl in una complessità di punti di vista, testimo­
ne della ricchezza del processo di elaborazione teologica del movi­
mento cristiano delle origini, che per motivi culturali e attenzione ai
problemi concreti delle diverse comunità si è avvicinato al mistero
divino incentrato in Cristo su strade diverse e complementari.

• In Servirium 33(1999)124, 411-419.


166 Capitolo 18

l. IL PRASSISMO DI MATIEO

Penso che il primo evangelista, che ha scritto la sua opera negli


anni 80 sfruttando, come fonti, il Vangelo di Marco e la cosiddetta
fonte Q (fonte dei detti di Gesù), ma anche servendosi della tradi­
zione della sua Chiesa, sarebbe stato assai prossimo ad affermare
che «extra fidem datur salus>>, intendendo per fede l'assenso ai dogmi
di fede. Ma nello stesso tempo avrebbe affermato che «extra fidem
nulla salus>>, sapendo che, per Matteo, fede è soprattutto prassi di
fedeltà. Non per nulla è il solo evangelista a usare il vocabolo praxis
con connotazione morale: «Verrà il figlio dell'uomo ammantato
della gloria del Padre suo insieme con i suoi angeli e allora retribui­
rà ciascun uomo secondo la sua prassi (kata ten praxin auton)»
( 16,27).
Nulla di originale: la tradizione ebraica conosceva il motivo del
giudizio divino sulla base delle opere di ogni persona. Se ne farà
interprete lo stesso Paolo, che in Rm 2,6 ricorre al vocabolo più
usuale «opere>>: «(Dio), il quale retribuirà ciascuno secondo le sue
opere (kata ta erga autou)>> per sottolineare il giusto giudizio divino
(dikaiokrisia) in funzione della sottolineatura dell'imparzialità di
grazia del Dio di Gesù Cristo. Opere che l'apostolo subito concretiz­
za nella duplice polarità di azione buona (ergon agathon) o di bene
(to agathon) e di male (to kakon) (vv. 7-10).
In Matteo però il prassismo non caratterizza solo il giudizio, ma
si estende a qualificare l'esperienza cristiana; ricorre infalli in modo
significativo al verbo «fare>>. Sarà grande nel regno dei cieli chi met­
terà in pratica (poiese-i) i comandamenti (5,19). «Non chi mi dirà:
Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa (ho poion) il
volere del Padre mio celeste>> (7,22) afferma Gesù, che subito dopo
aggiunge: nel giorno ultimo egli si desolidalizzerà da quei discepoli
che hanno praticato una vita d'infedeltà alla legge divina: <<Andate­
vene lontano da me, voi che praticate comportamenti da "fuorileg­
ge" (hoi ergazomenoi ten anomian)>> (7,23). E ancora la parabola dei
due contrapposti costruttori di casa, l'uno che ha costruito sulla roc­
cia e l'altro sulla sabbia, qualifica con gli aggettivi di sapiente il
primo e di stolto il secondo, saggezza e stoltezza intese in chiave
prassistica: il sapiente costruttore che ha edificato una casa solida e
Extra fidem nulla salus? 167

resistente ad ogni assalto degli elementi scatenati della natura è


immagine, secondo Gesù, di <<chiunque ascolta le mie parole e le
mette in pratica (poiei)>>, mentre il costruttore stolto che ha edifica­
to una casa instabile e preda delle avversità naturali è da lui parago­
nato a «chiunque ascolta le mie parole ma non le traduce in opere
(ou poiei)>> (7,24-26).
Comunque questa prospettiva matteana raggiunge il suo vertice
nella famosa scena del giudizio ultimo del c. 25, dove fedeltà prassi­
stica e salvezza, come in 7,22-23, sono strettamente connesse. Le
parole di Gesù, promissorie per un verso e minacciose per l'altro,
sono chiare e non prive di forza provocatoria. I benedetti del Padre,
eredi del Regno per loro preparato fin dalla creazione del mondo e
beneficiari della vita eterna, sono quelli che hanno praticato le opere
di misericordia di tradizione ebraica: dar da mangiare agli affamati,
da bere agli assetati, offrire ospitalità allo straniero, un vestito agli
ignudi, prestare cura ai malati, visitare i prigionieri. Ma nuova è la
misteriosa «identificazione>> funzionale dei diseredati con Gesù stes­
so: «In verità vi dico: quanto avete fatto a uno di questi miei fratelli
più piccoli, è a me che l'avete fattO>> (v. 40). E speculare appare
l'identikit dei maledetti mandati nel fuoco eterno e nella perdizione
eterna: non hanno dato da magiare agli affamati, da bere agli asseta­
ti, non hanno offerto ospitalità agli stranieri né un vestito agli ignu­
di, non hanno prestato cura né agli ammalati né ai prigionieri:
«quanto non avete fatto a uno di questi più piccoli, nemmeno a me
l'avete fatto>> (v. 45).
Matteo si muove chiaramente in un solco già tracciato: un filo­
ne della tradizione ebraica e dell'insegnamento rabbinico di chiaro
orientamento universalistico riconosceva una possibilità concreta di
salvezza ai gentili, a condizione che rinunciassero all'idolatria e
osservassero le regole morali fondamentali, identificate anche con i
precetti di Noè di Gen 9. Questi gentili «giusti>> avrebbero avuto
parte, insieme con il popolo d'Israele, al mondo avvenire. Qualcosa
di analogo ci prospetta Matteo nel c. 25; per lui la fedeltà operativa
è essenziale e il «credente>> o discepolo di Cristo porta sulla sua carta
d'identità il contrassegno prassistico di un fare moralmente e social­
mente positivo.
168 Capitolo 18

2. «SE CREDERAI NEL TUO CUORE CHE DIO LO HA RISUSCITATO DAl MORTI,
SARAI SALVATO»

Il testo paolino di Rm 10,9 esprime un altro rapporto fede-sal­


vezza, perché sottintende una diversa valutazione del credente cri­
stiano. Credere nella profondità del proprio essere è specificato, nel
testo citato, dall'oggetto dell'adesione, la risurrezione di Cristo per
intervento vivificante di Dio. Ho detto «oggetto» ma solo secondo la
valenza del lessico grammaticale; in realtà non si tratta puramente di
un'affermazione intellettuale, bensì di un «affidarsi» all'iniziativa
risuscitatrice del Dio di Gesù Cristo, di un darsi a quel mondo nuovo
creato da Dio che in germe è Gesù risorto.
Certo, anche in Matteo la fede cristiana è vista in rapporto a
Gesù e il fare positivo del credente autentico è normato oggettiva­
mente dalle parole di Cristo: è, propriamente, un fare secondo la sua
parola, una traduzione in prassi dei suoi pronunciamenti di rivelato­
re ultimo del volere esigitivo di Dio. Ma il nesso non è così stretto
come in Paolo, che ha una concezione troppo pessimistica dell'uomo
per poter limitarsi a vedere in Gesù soprattutto un maestro di vita,
un disvelatore delle esigenze spirituali di Dio, un nuovo Mosè. In
realtà, Paolo, erede in questo di precise correnti di marca apocalitti­
ca giudaica, guarda all'uomo come a un soggetto che ha smarrito i
suoi sentieri, per usare un'immagine geremiana, una persona spaesa­
ta, incapace di fare il bene, quel bene a cui peraltro interiormente
aspira, impotente a percorrere, pur spinto da parole illuminatrici ed
esempi di vita trascinanti, i sentieri che conducono alla vita, vittima
di un tragico amor mortis (cf. per es. Rm 7,7ss).
Per questo uomo è necessario un prodigio di grazia divina, che
Io riscatti e lo trasformi in un essere qualitativamente nuovo (kainos
anthropos l kaine ktisis), reso effettivamente capace di amare di con­
creto e oblativo amore. Ora tale miracolo si è compiuto radicalmen­
te in Cristo, non per nulla chiamato da Paolo in Rm 5,12ss e lCor
15,45ss «Adamo escatologico [cioè dei tempi finali)» e «secondo
uomo», che a differenza del <<primo uomo>>, principio di pura vita
naturale, è fonte di vita nuova nel segno del dono dello Spirito vivi­
ficante ( lCor 15,45). Per tutti gli uomini sarà dunque necessario
entrare nella sfera d'influsso di Cristo risorto e principio attivo di
Extra fidem nulla salus? 169

risurrezione per poter essere investiti dalle forze del nuovo mondo
di cui egli è, passi l'espressione, campo magnetico. Paolo direbbe che
è indispensabile indossare l'immagine dell'essere celeste, come ab­
biamo rivestito l'immagine dell'Adam terreno (1Cor 15,49). Ancor
più frequente è in lui l'espressione tipica <<essere in Cristo l nel Si­
gnore», cioè essere nello spazio spirituale che è il risorto.
Ora questa «incorporazione» in Cristo - anche questa immagi­
ne è tipicamente paolina, vista la presenza nelle sue lettere delle for­
mule «corpo di Cristo» (cioè collettività di quanti appartengono a
lui) e <<un solo corpo in Cristo» (collettività unità che esiste in quel
luogo che è lui risorto) - si ha mediante la fede. Non per nulla Paolo
parla di credere che Cristo è risorto (1Ts 4,14), che Dio lo ha risusci­
tato (Rm 10,9). La risurrezione del Crocifisso equivale alla costitu­
zione di Cristo come prototipo degli uomini nuovi, capaci di creati­
vo amore, che assimila a sé «i fratelli».
Buber imputava a Paolo di aver trasformato la fede biblica, fede
fedeltà, in una fede dogmatica, vale a dire in assenso intellettualisti­
co a determinati eventi di grazia aventi come protagonista Cristo.
Ma credo ingiustamente. L'apostolo intende piuttosto per fede l'af­
fidamento dell'uomo al Dio di Gesù Cristo, al Cristo risorto per
poter essere trasformato in nuova creatura: «Se uno è in Cristo è
nuova creatura (kainé ktisis)» (2Cor 5,17). Si tratta di un transfert
radicale da una situazione di impotenza d'amare e di conseguente
perdizione a una condizione di essere e di vita di soggetti nuovi, «che
vivono mediante lo Spirito>> (Gal 5,25), «Sono guidati dallo Spirito di
Dio>> e di Cristo (pneumati theou agontai: Rm 8,14), «sono "peripa­
teci" secondo lo Spirito>> (peripatein kata pneuma: Rm 8,4 l pneuma­
ti peripatein: Gal 5,16).
Un affidarsi totale però che non è impresa autonoma dell'uomo,
ma effetto dell'iniziativa del Dio di Gesù che lo <<rettifica» o giusti­
fica secondo un altro linguaggio tipicamente paolino, chiamandolo
efficacemente a credere, ad affidarsi a lui e a Cristo. Una chiamata a
cui però l'uomo può resistere, ma chiudendosi così alle spalle la
porta che immette nel mondo dei risorti. Una chiamata che si stori­
cizza nell'annuncio del vangelo.
Se ora ritorniamo al nostro interrogativo, si capisce che per
Paolo dovrebbe valere l'assioma <<Extra fidem nulla salus>>, ma appa-
170 Capitolo 18

re chiaro che per lui il problema è piuttosto non nel nulla salus bensì
nel positivo: salus per fidem. Naturalmente per noi a questo punto
sorgono mille interrogativi: ma allora quelli che non credono in Cri­
sto sono perduti irrimediabihnente? Ma allora chi non ha ascoltato
il messaggio evangelico, privo perciò della possibilità reale di crede­
re, è destinato, senza sua colpa soggettiva, alla perdizione? Ma allo­
ra gli aderenti alle altre religioni sono destinati alla morte eterna?
Sono interrogativi nostri, ma non di Paolo, tutto proteso a mostrare
il nesso tra fede in Cristo e salvezza e per nulla direttamente interes­
sato ad affermare il nesso tra nulla fede e nulla salvezza.
Ancor più oggi la teologia delle religioni tende a distinguere tra
salvezza legata all'adesione di fede a Cristo e salvezza dipendente dal­
l'azione di Dio creatore nel mondo. Ma Paolo è figlio del suo tempo e
le questioni che lo assillavano erano un po' diverse dalle nostre.

3. LA FEDE E LA SALVEZZA IN GtOVANNl

n confronto con Paolo appare assai utile per poter cogliere la


prospettiva di fondo del quarto vangelo e della Prima lettera giovan­
nea. Anche per Giovanni, non meno che per Paolo, l'uomo si trova
in stato di perdizione: è nella tenebra e per se stesso non può arriva­
re alla luce. L'immagine oltre a esprimerne efficacemente la condi­
zione disperata si colloca nell'ambito della conoscenza, intesa però
come autocoscienza ed esperienza personale. L'uomo è all'oscuro
del suo vero essere; brancola nel buio, non sapendo da dove viene né
dove va, ignorando soprattutto chi è. Appare necessario l'intervento
di un rivelatore, di una fonte di luce per gli uomini che li sappia illu­
minare su Dio. il mondo e loro stessi.
È stato rilevato a ragione da P. Benoit che se la teologia paolina
è caratterizzata dalla calegoria della redenzione o del riscatto del­
l'umanità corrotta e pervertita, quella giovannea è di timbro apoca­
littico e ha al suo centro la realtà della rivelazione. Già nel prologo
del quarto vangelo non è senza significato che Cristo sia confessato
come «la Parola>>, la parola comunicativa di Dio all'uomo, la quale
gli disvela l'identità di Dio, di Cristo, del mondo e di se stesso.
Giovanni riprende il motivo tradizionale dell'invisibilità e inco­
noscibilità divina: «Dio nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18a). Ma l'in-
Extra fidem nulla salus? 171

visibile e l'inconoscibile è diventato visibile e conoscibile mediante


Gesù: «l'unigenito divino che è rivolto al seno del Padre, lui ce ne ha
fatto l'esegesi (exegesato)>> (1 ,18b). «Filippo, chi ha visto me, ha
veduto il Padre>> (Gv 14,9). Non si tratta di un'identità divina stati­
ca, ma dinamica: Dio è colui che ha tanto amato il mondo da dona­
re il suo unico e amatissimo figlio, perché l'uomo possa avere la vita
del nuovo mondo: <<Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo
figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada alla perdizio­
ne ma abbia la vita del nuovo mondo (zoe aionios)>> (3,16). Un gesto
questo che qualifica a tal punto il protagonista da definirlo nella sua
verità: <<Dio è amore» (1Gv 4,8.16). La definizione nel contesto è
specificata in rapporto all'iniziativa divina di donazione del figlio:
l'essere di Dio è la profondità della sua azione storica: <<Ecco com'è
avvenuta l'epifania (ephanerothe) dell'amore di Dio in noi: Dio ha
mandato l'unigenito suo figlio nel mondo, perché noi avessimo la
vita mediante lui. In questo consiste l'amore: non noi abbiamo preso
l'iniziativa di amare Dio, ma lui ci ha amato e ha mandato il suo
figlio come espiazione per i nostri peccati>> (1Gv 4,9-10); <<Lui ci ha
amato per primo>> (1Gv 4,19).
Se l'iniziativa di amore e di donazione di Dio che ha dato e man­
dato il suo figlio nel mondo lo definisce, sulla stessa linea parimenti
si definisce Gesù, il comunicatore divino: lui è l'incarnazione del­
l'amore di Dio, un amore fatto <<carne>>, cioè storia, visibilizzato, toc­
cato con mano. E questo non solo come segno della donazione del
Padre, ma anche come incarnazione attiva di amore: Gesù ha dona­
to se stesso, espressione dell'amore più grande. <<Avendo amato i
suoi che sono nel mondo, li amò all'estremo>> (Gv 13,1). Il riferimen­
to è alla sua morte oblativa. «Nessuno ha amore più grande di que­
sto: dare la propria vita per i suoi amici; e voi siete miei amici>>
(15,13-14). Egli è il buon pastore (ho poimen ho kalos) che fa dono
della sua vita per le pecore (10,1 1; cf. vv. 15.17); nessuno gliela strap­
pa di forza contro volontà, ma di sua scelta (ap' emautou) ne ha fatto
dono (10,18).
In breve, Dio è amore, lui che ha donato il suo figlio unigenito
all'umanità; Cristo è il buon pastore che ha dato la sua vita per noi.
La rivelazione è anche disvelamento dell'uomo a se stesso, un
disvelamento causato da Cristo, parola comunicativa di Dio. Di fron-
172 Capitolo 18

te a tale evento apocalittico gli uomini prendono coscienza della loro


situazione di persone brancolanti nel buio, ma soprattutto, accettan­
do la parola portata da Gesù e che è Gesù, giungono a conoscere la
loro vera identità: persone che si realizzano nell'amore oblativo a
immagine di Cristo e di Dio stesso. Un passo straordinario della
Prima lettera di Giovanni mostra la salvante acquisizione di questa
conoscenza che ha due poli, cristologico e antropologico: <<In questo
abbiamo conosciuto l'amore: egli ha dato la sua vita per noi e anche
noi dobbiamo dare le nostre vite per i fratelli» ( 1 Gv 3,16). Si noti la
differenza delle forme verbali nelle due proposizioni, l'aoristo per
Cristo e l'esortativo per i credenti. Egli ha dato la vita, evento unico
registrato nella storia; i credenti raggiungono la loro vera identità
assumendo con tutta serietà l'imperativo dell'oblazione di se stessi
per amore dei fratelli. È così che si compie il transfert dalla tenebra
alla luce, dalla morte alla vita: <<Noi sappiamo di essere passati (meta­
bebekamen) dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli; chi non
ama resta nella morte» (3,14).
Ora la fede, secondo Giovanni, è appunto questa conoscenza
acquisita per grazia in forza della parola disvelante di Gesù. Il rap­
porto tra fede e conoscenza infatti è strettissimo, come documenta la
frequente diade dei verbi credere e conoscere abbinati o anche usati
indifferentemente l'uno per l'altro: «Abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il santo di Dio>> (Gv 6,69); «Conobbero in verità che io sono
uscito da te (Dio) e credettero che tu mi hai mandato>> (Gv 17,8);
«Abbiamo conosciuto e creduto nell'amore che ha il Padre per noi>>
( 1 Gv 4,16). È una conoscenza non riducibile a pura operazione men­
tale, bensì esperienza che coinvolge tutta la persona, per cui conosce­
re l'amore vuoi dire sperimentarlo, incarnarlo nella propria vita.
Dunque se questo è l'orizzonte della teologia giovannea circa la
fede e la salvezza, non meno che a Paolo sembra di dover attribuire
a Giovanni l'affermazione «Extra fidem nulla salus>>, perché al di
fuori della fede-conoscenza ed esperienza di amore oblativo l'uomo
è nella tenebra.

Questo è il giudizio: la luce è venuta nel mondo umano ma gli uomini


hanno preferito la tenebra alla luce. [ . . . ] Chi invece fa la verità [cioè la
parola rivelativa di Cristo] viene alla luce (Gv 3,19.21).
19.
LO SPIRITO DI DIO
NELLE LETIERE DI PAOLO*

Non è certo possibile presentare una ricerca esaustiva: sarebbe


troppo lungo. Mi limiterò ad analizzare e interpretare alcuni passi
caratteristici, dove emerge con chiarezza l'originalità della riflessio­
ne dell'apostolo. In concreto mi soffermerò su 1Cor 12, Gal 5,13-25
e Rm 8,1-17.1

l. Lo SPIRITO DI DIO E L'ARTICOLAZIONE CARISMATICA DELLA CHIESA


(1Cor 12)
La Chiesa di Corinto brillava per ricchezza di carismi della
parola e della conoscenza; lo riconosce lo stesso Paolo in 1 Cor 1 ,4-7.
Più in generale egli attesta che i credenti corinzi erano particolar­
mente desiderosi di avere in dono da Dio le manifestazioni <<spiri­
tuali» (zelotai pneumattm) (14,12). E in 14,1 fa una concessio: «Ago­
gnate pure ai fenomeni "spirituali" (ta pneumatika)>>, ma subito pre­
cisa da parte sua, correggendo quella brama: <<ma agognate di più
alla profezia». Intendeva distogliere i corinzi dalla loro propensione
per le manifestazioni eclatanti e strepitose dello spirito, in pratica la
glossolalia, cioè un parlare <<il linguaggio degli angeli», che risultava
del tutto misterioso e incomprensibile ai presenti. Paolo preferisce la
profezia, cioè il parlare suggerito dallo Spirito, ma razionale e com­
prensibile: <<Ora vorrei che tutti voi parlaste in modo glossolalico, ma
di più che profetaste» (14,5).

* In Servitium 38(2004) 156, 47-61.

1 Per un approfondimento mi permetto di rinviare al mio volume La teologia di


Paolo: abbozzi in forma epistolare, Bologna 22001 e allo studio •Lo Spirito di Dio in San
Paolo», in Miscellanea francesc(JIIQ 98(1998), 475-496.
174 Capitolo 19

Insomma, i due fronti davano una diversa valutazione dei cari­


smi: i corinzi erano attratti da quelli straordinari che rendevano il
beneficiario una persona superiore, appunto «spirituale>>, che poteva
guardare dall'alto in basso, spinto da un complesso di superiorità,
quelli che ne erano privi, confinati in una umiliante inferiorità; Paolo
invece metteva il dono della profezia al vertice della classifica dei
carismi, da lui stilata secondo il criterio principe dell'«edificazione»
(oikodomé) della comunità, vale a dire della sua crescita spirituale
nella fede, nella speranza e nell'amore. Il glossolalo, dice, si colloca di
fronte al suo Dio a tu per tu (14,2) e il suo parlare è costruttivo solo
per lui (14,4), non per gli altri (14,6.17); in realtà egli non parla guida­
to dal suo intelletto, bensì trasportato dal soffio divino (pneuma) che
in lui si esprime (14,14-19) sostituendosi all'azione normale della
mente. Era un'esperienza esaltante, «entusiastica>> nel senso letterale
del termine, capace di stupire i presenti e far inorgoglire i possessori.
Certo, solo alcuni nella Chiesa corinzia potevano vantarsene, ma tutti
bramavano tale dono (zéloute l zélotai ton pneumaton: 14,1 e 12). Vi
si esprimeva la loro particolare sensibilità che privilegiava l'individuo
rispetto alla collettività, la spettacolarità delle manifestazioni dello
Spirito a dispetto del loro contenuto razionale e costruttivo.
Da questo pul\_tO di vista l'influsso dell'ambiente era assai forte.
Del mondo greco infatti tutti conosciamo il fenomeno della Pizia,
profetessa estatica degli oracoli di Apollo: anche sotto l'influsso di
odori e profumi, soprattutto di una musica assordante e coinvolgen­
te, ella entrava in trance e parlava in maniera indecifrabile, e la sua
parola era tradotta dai sacerdoti addetti al culto a beneficio di quel­
li che avevano presentato domande su quanto sarebbe loro capitato.
E neppure questi oracoli della Pizia, debitamente «tradotti>>, brilla­
vano per chiarezza. Tutti ne ricordiamo uno in lingua latina: «<bis
redibis non morieris in bello», di significato opposto secondo che la
particella negativa viene abbinata a quanto precede: <<Andrai, non
ritornerai, morirai in guerra>>, o a quanto segue: «Andrai, ritornerai,
non morirai in guerra>>. Detto con una formula riassuntiva, lo spirito
divino (pneuma) era inteso e vissuto come forza travolgente al di
fuori di ogni attività della mente umana (nous).
Ora, prima di entrare in argomento, Paolo vuole precisare che
l'azione più importante dello Spirito di Dio nella vita dei credenti
Lo Spirito di Dio nelle tenere di Paolo 175

non è quella ispiratrice delle manifestazioni carismatiche, spettaco­


lari o normali che siano - queste sono una grandezza secondaria e
puramente funzionale -, bensì la sua <<ispirazione>> che porta a con­
fessare la signoria di Cristo: <<Nessuno che parla per mezzo dello Spi­
rito di Dio dice "Gesù è anatema!" e nessuno è in grado di dire
"Gesù è Signore" se non mediante lo Spirito Santo» (12,3). Si noti
come l'apostolo accosti qui negazione e affermazione; di fatto colle­
ga Spirito e riconoscimento del Signore in modo così stretto da
escludere lo Spirito dal rifiuto della signoria di Gesù. In una parola,
lo Spirito è all'opera non dove si maledice Gesù, bensì nelle persone
che ne confessano, a parole e con la vita, la signoria, riconoscendolo
come esclusivo Signore del mondo e della propria esistenza. E nelle
esperienze di fede dove si proclama e si vive la signoria di Gesù, non
può mancare l'influsso dello Spirito: il riconoscimento di Cristo
Signore non può essere il risultato di impegno umano, bensì il frutto
della grazia divina.
Dopo la suddetta precisazione Paolo viene a parlare dello Spiri­
to che è al centro pure dell'esperienza carismatica, in quanto riparti­
sce (diairein) i carismi a suo piacimento tra tutti i credenti per l'uti­
lità dei partecipanti all'assemblea cristiana (12,4-11). In realtà dai vv.
4-6 emerge che fonte delle ripartizioni (diaireseis l diairoun) cari­
smatiche è anche il Signore Gesù e Dio; tuttavia nei vv. 5-1 1 viene
menzionato solo <<l'unico e medesimo Spirito>>. Se ne deduce che
«carisma» per Paolo è essenzialmente dono divino di grazia e non
impulso irresistibile e travolgente, come avveniva nelle baccanti,
mitiche seguaci di Bacco, che danzavano a onore del dio una danza
folle ed eccitante. Ne consegue che l'affermata contrapposizione tra
carisma e Spirito, da una parte, e istituzione e diritto, dall'altra, non
trova conferma in questo passo paolino. Carisma infatti in Paolo non
dice riferimento essenziale alla spontaneità dello Spirito antitetica al
peso dell'autorità, bensì alla grazia divina, come si è detto. Dunque
si contrappone all'orgogliosa ostentazione di sé da parte dell'uomo;
mette fuori gioco ogni tentazione di vantarsi (kauchesis) davanti a
Dio e di guardare dall'alto in basso quanti sono non dotati o poco
dotati sul piano carismatico.
Quindi Paolo specifica a chi e a quale scopo lo Spirito dona i
carismi: <<A ognuno poi viene data la manifestazione (he phanerosis)
176 Capitolo 19

dello Spirito a scopo di utilità (pros to sympheron) >> (12,6); «Ma tutte
queste manifestazioni, le compie l'unico e il medesimo Spirito ripar­
tendole a ciascuno in particolare come vuole>> (12,1 1). L'elargizione
è gesto di libera iniziativa e ne beneficiano tutti i credenti, per cui
nessuno li possiede tutti, come mostra l'elenco dei vv. 8-10, e nessu­
no ne è totalmente privo. La finalità generale poi della donazione è
di carattere sociale o ecclesiale. I carismatici sono chiamati a vivere
il dono di grazia ricevuto rispettando il fine per cui ne sono stati
arricchiti, fedeli allo Spirito donatore: far crescere spiritualmente
l'edificio (oikodomein) della comunità.
La funzione dello Spirito viene approfondita nei vv. 12-27, carat­
terizzati dal paragone dell'organismo umano (soma) applicato alla
Chiesa. Questa è un'aggregazione sociale simile a quella organico­
fisica dell'uomo, ma creata dallo Spirito, non dall'iniziativa autono­
ma dei soggetti: <<Giacché noi tutti mediante un solo Spirito (en heni
pneumati) fummo battezzati per formare un solo corpo (eis hen
soma), sia giudei sia greci, sia schiavi sia liberi; e tutti fummo abbe­
verati di un solo Spirito (hen pneuma)» (12,13). La piccola società
dei credenti («noi tutti») è sì come il corpo umano (cf. v. 12), ma un
corpo costituito e animato dal creator Spiritus e in stretta relazione
con Cristo. In concreto, si può paragonare al corpo umano sotto il
duplice aspetto dell'unità.'e della pluralità, unità organica e multifor­
me e pluralità nel vincolo della mutua solidarietà.
Indubbiamente la Chiesa è composta da più persone, anzi da
soggetti diversi per cultura, religione, lingua, statuto sociale: nel <<noi
tutti» confluiscono giudei e greci, schiavi e liberi. Invece da dimo­
strare è l'unità del corpo ecclesiale e Paolo non fa qui ricorso a
ragioni sociologiche: riunirsi insieme, avere riti comuni, condividere
la stessa credenza; si appella invece a motivazioni teologiche e a fat­
tori soprannaturali: tutti hanno in comune una nuova storia, quella
battesimale, in cui hanno fatto esperienza dell'azione vivificante e
santificante dello Spirito che li ha fatti corpo di Cristo, donando a
ognuno un carisma specifico per la crescita della comunità.
Tale realtà «Corporativa» è illustrata dal paragone del corpo
umano: introdotto al v. 12, dimostrato nel v. 13, sviluppato nei vv. 14-
26, è concluso al v. 27, con applicazione ecclesiale nei vv. 28-30. Esso
illustra l'essenziale pluralità delle membra nell'unico corpo e la loro
Lo Spirito di Dio nelle lettere di Paolo 177

complementarità e solidarietà (vv. 21-26), due aspetti che ritornano


nell'applicazione del paragone alla Chiesa: «Alcuni invero Dio pose
nella chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come
profeti, in terzo luogo come maestri, poi miracoli, quindi doni di gra­
zia per compiere guarigioni, prestazioni assistenziali, azioni di gover­
no, diversi generi di lingue. Sono forse tutti apostoli? Thtti profeti?
Thtti maestri? Tutti fanno miracoli? Hanno forse tutti doni di grazia
per compiere guarigioni? Parlano tutti in lingue? Thtti le interpreta­
no?>> (vv. 28-30), domande retoriche che sottintendono risposte
negative.
La comunità cristiana dunque non è una massa indifferenziata
né è riducibile a un club di estatici o glossolali. È grandezza organi­
ca, composita, multifacciale. Pluralità e diversità, certo, ma anche
solidarietà tra le diverse membra, da cui dipende l'unità del corpo, la
quale si esprime in una rete di stretti rapporti: andare incontro al
bisogno altrui, riconoscere che le membra sono necessarie le une alle
altre (v. 22), supplire alla deficienza altrui (v. 24b), prendersi cura a
vicenda (v. 25), condividere l'esperienza altrui sia di gioia sia di sof­
ferenza (v. 26). E tutto questo lo deve allo Spirito, elargitore dei suoi
carismi a ciascun membro della Chiesa.

2. Lo SPIRITO DI Dro ANIMA LA VITA DEI CREDENTI (Gal 5,13-25)

Nelle chiese della Galazia dopo la partenza di Paolo erano


penetrati missionari giudeo-cristiani che volevano imporre la circon­
cisione e l'osservanza della legge ai neofiti incirconcisi, convertiti
dalla predicazione dell'apostolo che aveva loro richiesto solo la fede
in Cristo. Egli scrive affermando con forza, e motivandola, la libertà
dei credenti in Cristo dalla legge mosaica. Ma a scanso di equivoci
precisa in 5,13-25 che si tratta di libertà responsabile: essere docili
alla dinamica e agli impulsi dello Spirito, donato ai credenti nell'ade­
sione di fede all'annuncio evangelico. In concreto, egli anzitutto
vuole sgomberare il campo da possibili fraintendimenti del suo van­
gelo della libertà dalla legge mosaica: non vuoi dire affatto licenza di
fare quello che si vuole. Per questo afferma in 5,13: la libertà avuta
in dono da Dio non deve essere presa a pretesto per vivere secondo
gli impulsi della «carne>>, dinamica che spinge il soggetto a compor-
178 Capitolo 19

tamenti di egoistico egocentrismo. Soprattutto Paolo intende affer­


mare che il dono dello Spirito è sufficiente a garantire una vita
moralmente positiva e non si richiede la spinta delle prescrizioni
della legge mosaica.
Con questo scopo presenta una profonda riflessione sullo Spiri­
to che anima i credenti in Cristo. Esso è donato da Dio «sulla base
dell'ascolto della fede» (3,2.5), costituisce il contenuto della promes­
sa patriarcale (3,14), è suggello alla figliolanza divina dei credenti
(4,6) e principio attivo della generazione dei figli liberi di Abramo
(4,29); soprattutto in Gal 5,13ss è compreso quale dinamismo opera­
tivo che muove i credenti a camminare sulle strade dell'amore
(agape), che ne è il frutto primo. L'apostolo fonda così la sua etica
«cristiana», facendo appello alla guida dello Spirito di Dio, non a
prescrizioni e divieti, e definisce in modo nuovo la responsabilità
morale del credente: non prende forma in osservanze a comanda­
menti e precetti, ma nella docilità all'impulso interiore dello Spirito
che trasforma il credente facendone un soggetto nuovo capace di
nuovi atteggiamenti e comportamenti all'insegna dell'agape.
Paolo ritiene che però non basta l'impulso dello Spirito che sol­
lecita nella direzione di un'esistenza di amore; c'è bisogno di preci­
sare categorialmente tale spinta interiore. In altre parole, è necessa­
rio che nelle molte e varie situazioni della vita il credente sia illumi­
nato sui sentieri che conducono concretamente nella direzione a cui
spinge lo Spirito. Detto altrimenti, si impone l'esigenza di precisare i
comportamenti e gli atteggiamenti omogenei alla sollecitazione
dello Spirito e quelli contrari della «carne>>, come appare nei due
elenchi di «vizi>> e <<virtÙ>> di 5,19-23. Ed è lo stesso Paolo che si fa
pedagogo dei credenti di Galazia con le sue esortazioni che hanno lo
scopo di accompagnare il loro cammino di fedeltà pratica al vange­
lo della libertà. Di fatto egli attinge le sue indicazioni dal ricco reper­
torio morale del mondo greco e di quello giudaico, facendo valere
esigenze morali universalmente riconosciute. Ecco dunque le sue
parole: <<Le opere della "carne"», quelle a cui spinge la dinamica
egocentrica, sono elencate in riferimento a diversi ambiti: sessuale
(<<fornicazione, impurità, dissolutezza»), religioso («idolatria, strego­
neria>>), soprattutto vita comunitaria («inimicizie, liti, gelosia, acces­
si di ira, contese, rivalità, faziosità e invidie>>), infine temperanza
Lo Spirito di Dio nelle lettere di Paolo 179

(«ubriachezze, orge>>). Che non sia un catalogo esaustivo lo mostra


la formula conclusiva «e altre cose simili>> (vv. 20-21a). E, prima di
passare al secondo elenco, ripete quanto aveva già detto ai galati
quando era ancora con loro: «Chi compie tali opere non potrà eredi­
tare il regno di Dio>> (v. 2lb). La minaccia della sanzione di condan­
na eterna appare funzionale alla paraclesi paolina che, escluse le
opere della legge, ammette la necessità per i credenti delle opere
buone, criterio del giudizio ultimo.
Il campo operativo dello Spirito invece è segnato da un elenco
non di virtù, bensì di effetti della sua azione influente. Paolo specifica
quanto «produce>> lo Spirito ricorrendo all'immagine agricola della
pianta e dei suoi frutti; usa però il singolare: «il frutto dello Spirito>>,
espressivo di un'unica e complessiva fruttificazione che ha il suo bari­
centro nell'amore, il primo frutto. Vorrei insistere in proposito. L'apo­
stolo non parla essenzialmente del dovere di amare, di osservare il
comandamento dell'amore; !'agape è una dinamica creata per grazia
nel cuore del credente che lo spinge a operare in sintonia. Qui è pre­
sentato come effetto dell'impulso dello Spirito: il credente è chiamato
a fare ciò che lo Spirito lo conduce a fare. Ha detto molto bene Theo­
bald che per Paolo il problema etico non sta nel <<dovere>>, bensl nel
«potere>>,2 il poter agire bene donato dalla grazia, dallo Spirito.
Dunque Paolo non può essere accusato di anomismo amorale se
afferma la sufficienza dello Spirito come fondamento dell'etica,
escludendo in pari tempo la necessità delle norme della legge. Quel­
lo basta per comportamenti positivi e moralmente validi e non c'è
bisogno di appellarsi a queste. In breve, nella sua operosità il creden­
te riceve l'input non dalla legge, ma dallo Spirito.
Il brano paolina è dominato dall'antitesi Spirito-carne, due
dinamiche presenti nella persona che ne definiscono l'agire o due
forze che, sempre dall'interno, la spingono in direzioni operative
opposte. Sono in lotta l'una contro l'altra per conquistarsi il terreno
conteso, il dominio sull'uomo. Questi resta pur sempre il vero sog­
getto operativo e responsabile, ma si attua muovendosi sotto la spin­
ta dello Spirito o seguendo quella della «carne>>. Qualcosa di simile

' M. 'fHEoBAU>, R/JmJ!rbrief, Darmstadt 2000, 297.


180 Capitolo 19

era presente nel giudaismo rabbinico che parlava del dualismo dei
due istinti, quello del bene e quello del male, ambedue creati da Dio
nell'uomo da lui creato. E come rimedio contro l'istinto cattivo Dio
aveva dato al suo popolo la legge mosaica. In Paolo però originale è
che l'impulso della «Carne» è contrastato efficacemente dal dinami­
smo dello Spirito, che non è insito nella natura umana, bensì è il
dono divino di grazia fatto ai credenti. Ma su questa antitesi si ritor­
nerà nell'analisi di Rrn 8.
Ecco, in conclusione, il senso delle esortazioni di Paolo: egli sol­
lecita i galati a essere docili allo Spirito con l'effetto d'impedire che
si lascino andare ai loro capricci seguendo, in ultima analisi, la dina­
mica della «carne». Che siano forze non solo diverse, ma anche anta­
goniste, appare con chiarezza al v. 17a: <<La "carne" infatti nelle sue
cupidigie si oppone allo Spirito e lo Spirito ha impulsi contrari alla
"carne"». Per questo la presenza operante dello Spirito preserva la
libertà dallo scadere in un illimitato e capriccioso fare ciò che si vor­
rebbe (v. 1 7b), che è in linea con un certo ideale greco della libertà,
come dice Dione Crisostomo, testimone dell'esaltazione di una
libertà illimitata: «Chi può fare ciò che vuole è libero, chi non lo può
è schiavo>>, ma da parte sua propugnatore di una libertà responsabi­
le consistente nell'evitare quanto è illecito (Or. 64,13-17).
Il v. 18 segna il passaggio all'antitesi Spirito-legge: «Ma se vi
lasciate condurre (agesrhe) dallo Spirito, allora non siete sotto il
dominio della legge (hypo nomon)>>. Antitesi corrispondente a quel­
la di Spirito-<<carne>>. Le due grandezze, una esterna, la legge, l'altra
interna, la «carne>>, sono parimenti escluse dal credente <<agito>> dallo
Spirito, non guidato dal precetto come dalla sua ragion d'essere e di
operare e non succube della sua concupiscenza o cupidigia.
Vorrei riassumere il tutto in poche parole: l'influsso dello Spiri­
to è liberante; la responsabilità etica poggia sul dinamismo <<spiritua­
le» capace di opporsi a quello <<carnale>> e di fare a meno delle
norme legali mosaiche.

3. «LA "LEGGE" DELLO SPIRITO CREATORE DI VITA» (Rrn 8,1-17)

Dopo aver parlato del disvelamento della giustizia salvifica di


Dio in Cristo a favore di tutti gli uomini sulla base della sola fede, di
Lo Spirito di Dio nelle lenere di Paolò 181

cui Abramo è exemplum (cc. 1-4), Paolo prima descrive per sommi
capi l'esperienza positiva dei credenti: giustificati, essi sono in pace
con Dio e si gloriano nella speranza della glorificazione futura (5,1-
11) - esperienza resa possibile dall'azione liberante di Cristo (5,12-
21), che i battezzati si appropriano per unione a lui morto e risorto
diventando «morti>> al peccato e alla legge e viventi di vita nuova (cc.
6 e 7) -, poi riprende il tutto chiamando l'esistenza cristiana con il
suo vero nome: esistenza «pneumatica», cioè nello Spirito e median­
te lo Spirito (c. 8).
Anzitutto lo Spirito è forza liberante: «Nessuna condanna dun­
que al presente per quelli che sono in Cristo Gesù, perché la "legge"
dello Spirito creatore di vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla
"legge" del peccato e della morte» (8,1-2). Di norma Paolo indica il
liberatore in Dio (cf. per es. Rm 6,18.22) o anche in Cristo (Gal 5,1);
qui invece attribuisce la liberazione allo Spirito. E voglio subito pre­
cisare che «legge>> è usata in senso improprio: indica il principio atti­
vo che è lo Spirito e la forza mortificante del peccato.
Poi nei vv. 3-4 Paolo motiva la necessità dell'intervento liberato­
re dello Spirito e mette in campo l'iniziativa di Dio. La legge mosai­
ca era impotente a condurre l'uomo sui sentieri di una vita moral­
mente buona; l'apostolo ne ha parlato a lungo nel c. 7:

Certo, come sappiamo, la legge è spirituale, ma io sono carnale, vendu­


to in potere del peccato. Non capisco ciò che faccio: di fatto compio
non quello che voglio, bensì quello che odio [ . . . ]. In effetti so che il
bene non abita in me, cioè nel mio essere carnale: volere il bene è a mia
portata, non però il compierlo, dal momento che non faccio il bene che
voglio, ma compio proprio il male che non voglio . . . Trovo dunque in
me questa regola: io che voglio fare il bene, è il male ad essere a mia
portata [ . . . ]. Me infelice! Chi mi libererà dal mio corpo votato a que­
sta morte? Siano grazie a Dio per Gesù Cristo nostro Signore! (vv.
1 4ss) .

Ecco dunque la necessità dell'intervento del Dio di Cristo:


mediante l'incarnazione del figlio egli «condannò il peccato nella
carne, perché il giusto precetto della legge (to dikaioma tou nomou)
fosse pienamente compiuto (plérothe) in noi che ci comportiamo
non secondo la carne, bensì secondo lo Spirito>>. La forma passiva del
verbo «compiere>> sottintende il complemento d'agente divino: «fos-
··' .. ·
182 Capitolo 19

se pienamente compiuto da Dio>>. Paolo non fa riferimento a un'au­


tonoma azione etica dei credenti: è Dio che agisce «in loro>>, nella
loro vita di persone che operano in conformità all'indicazione dello
Spirito. D'altra parte il sostantivo to dikaioma tou nomou sembra
indicare in questo passo la giusta esigenza della legge. Infatti il verbo
«compiere pienamente>> (pléroo), qui usato, si riferisce a una realiz­
zazione perfetta di quanto la legge domanda nel suo intento fonda­
mentale, come confermano i passi paralleli di Gal 5,14: «1lJtta la
legge si trova ad essere compiuta perfettamente in una sola parola:
"Amerai il prossimo tuo come te stesso">> e di Rm 13,8: <<Chi ama l'al­
tro ha pienamente compiuto (pepléroken) la legge>> e 13,10: <<l'agape
è pieno compimento (pleroma) della legge>>. Inoltre il compimento
della legge è connesso con il «camminare>> dei credenti secondo lo
Spirito, dunque con un comportamento della persona. Tanto più che
Rm 8 è costruito in antitesi a Rm 7 dove, come abbiamo visto, la
situazione tragica dell'uomo, destinato alla condanna (katakrima),
era motivata dall'impotenza della legge a condurre l'uomo sulle stra­
de del bene, stante la prepotenza del peccato, che strumentalizza
questa, la condizione «carnale>> del soggetto trascinato a soddisfare
le cupidigie peccaminose. L'iniziativa di grazia del Dio di Gesù Cri­
sto ha capovolto prodigiosamente quella situazione condannando
(katekrinen) il peccato, liberando i credenti dall'impulso della «car­
ne>>, donando loro lo Spirito come dinamica alternativa dell'agire.
Quanto la legge richiede risulta cosi pienamente compiuto da Dio
stesso nell'esistenza dei credenti animati dallo Spirito.
Si noti, infine, il singolare di to dikaioma: non una serie di pre­
cetti e divieti, ma il requisito generale della legge, consistente nel
«piacere a Dio>> (v. 7). Una vita gradita a Dio che la legge non è in
grado di procurare all'uomo perché «carnale>>, ma è assicurata da
Dio stesso che nel credente, cambiato dallo spirito, realizza ciò a cui
ultimamente la legge mirava.3
La seconda parte del v. 4 introduce formalmente l'antitesi Spiri­
to-carne che domina i vv. 5-17, dove però sono accentuati gli effetti
della presenza e azione dello Spirito nei credenti (cf. vv. 14-17). Sono

' Cf. G. BARBAouo, // pensare deU'apostolo Paolo, Bologna 2004, 203ss.


Lo Spirito di Dio nelle lei/ere di Paolo 183

due grandezze che determinano con dinamiche e finalità opposte


l'esistenza dell'uomo, dando luogo a un'antitetica tipologia umana.
Da una parte «quelli che sono a misura della carne>> (hoi kata sarka
ontes, v. 5) o <<sono nella carne» (hoi en sarki ontes, v. 8); nella vita
essi tendono e aspirano (to phronema) a quello che sono: si compor­
tano cioè in modo carnale (v. 5), sono ostili a Dio, rifiutandosi di sot­
tomettersi alla sua legge, né sarebbero in grado di farlo, incapaci di
costruire un'esistenza a lui gradita (vv. 7-8). E nell'estraneità totale
alla fonte della vita, non potranno che andare incontro a un destino
tragico, destino scelto e voluto: «La carne aspira alla morte» (v. 6).
Invece «quelli che sono a misura dello Spirito» (hoi kata pneuma
{ontesj, v. 5) si comportano in linea con questo dinamismo: «cammi­
nano secondo lo Spirito» (v. 4), «tendono (to phronema) alle realtà
spirituali» (v. 5), avendo come traguardo del loro cammino la vita e
la pace (v. 6).
È necessario precisare il significato di tale antitesi. Anche il
mondo greco di matrice dualistica conosceva una contrapposizione
analoga, pur di orientamento assai diverso. Opponeva infatti lo spi­
rito principio immateriale, cioè l'anima, alla realtà corporea e mate­
riale, al corpo, e guardava all'uomo come a un composto di tali parti
antitetiche, l'una negativa e positiva l'altra. Solo la morte liberava
dalla negatività del corpo, consegnando la persona alla libertà e pie­
nezza dello spirito, non più umiliato nella materia. Dunque un'anti­
tesi strutturale e costitutiva. Invece quella paolina ha carattere
dinamico ed esistenziale e l'apostolo, in linea con una precisa antro­
pologia di segno ebraico, guarda all'uomo come totalità e unità
psico-fisica. Carne e Spirito sono determinazioni della persona che
si attua nella ricerca egocentrica, oppure vive nell'apertura a Dio e
agli altri nell'amore. Si tratta di due opposti dinamismi che ne orien­
tano tutta la vita. Con una precisazione però: lo Spirito non rappre­
senta una possibilità autonoma dell'uomo, ma un dono di Dio, e la
carne è la persona che fa scelte negative, succube della potenza del
peccato, potenza di ribellione a Dio e di negazione pratica degli
altri.
Paolo applica quindi la suddetta tipologia, naturalmente nella
sua polarità positiva, ai destinatari dello scritto: «Ma voi non siete
nella carne, bensì nello Spirito» (v. 9a). In realtà i credenti sono stati
184 Capitolo 19

liberati per grazia dalla sfera d'azione della carne e immessi nella
sfera d'influsso dello Spirito, come precisa la proposizione «se è vero
che lo Spirito abita in voi>>, che esprime non un'eventualità, ma un
fatto da cui dipende l'affermazione precedente, cioè che i credenti di
Roma sono nel campo magnetico delle energie vitali dello Spirito. In
breve, Paolo vuoi dire che il nostro essere nella sfera d'azione dello
Spirito dipende non da noi, ma dal suo abitare in noi come dono di
Dio (cf. 5,5) ricevuto (8,15).
Seguono tre periodi ipotetici di realtà in cui l'apostolo precisa
gli effetti della presenza e assenza dello Spirito con riferimento a
Cristo. Il primo: «Se invece uno non ha lo Spirito di Cristo, non gli
appartiene>> (v. 9). Il rapporto con lo Spirito determina un rapporto
corrispondente con Cristo; pneumatologia e cristologia sono stretta­
mente legate. Lo Spirito (di Dio) infatti appare qualificato come Spi­
rito di Cristo, cioè che gli appartiene e ne dipende. Di conseguenza,
l'estraneità all'uno comporta l'estraneità all'altro e l'unione del cre­
dente con il primo è unione con il secondo. In breve, lo Spirito, che è
di Cristo, fa sì che i credenti siano anch'essi di Cristo.
In secondo luogo Paolo specifica l'azione liberante dello Spirito
che dipende dali 'unione dei credenti con Cristo: «Se però Cristo è in
voi, allora il corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la
giustizia» (v. 10). Corpo ha qui connotazione negativa, equivalente al
,
«corpo votato alla morte» di 7,24; in pratica è sinonimo di «carne>> e
indica l'uomo privo dello Spirito e dominato da dinamiche peccami­
nose. La sua morte dunque è benefica per chi per fede e nel battesi­
mo ha solidarizzato con Cristo, con la sua morte e risurrezione, e per
questo è liberato dal dominio del peccato (cf. c. 6). Morte ma anche
vita, precisa il testo citato che segue il processo argomentativo del c.
6: l'appartenenza a Cristo significa anche la presenza dello Spirito
come fonte di vita eterna e principio attivo al presente di giustizia,
quella come sbocco finale di questa.
In terzo luogo l'azione dello Spirito apre su un orizzonte esca­
tologico: dall'abitazione dello Spirito «di Colui che risuscitò Gesù
dal regno dei morti» Paolo induce il futuro di salvezza: <<Allora chi
risuscitò Cristo dal regno dei morti darà la vita (zoopoiesei) anche
ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi>>
(v. 1 1). Si noti la presenza di Dio, protagonista principale, ma
Lo Spirito di Dio nelle lettere di Paolo 185

anche la menzione della risurrezione di Cristo che dice come il


destino di risurrezione dei credenti sia pari al suo. Comunque
l'originalità del brano è la sottolineatura dell'azione mediatrice
dello Spirito (dia tou enoikountos autou pneumatos); avere la pri­
mizia del mondo dei risorti (v. 23) significa possedere nella grazia
una solida speranza per la risurrezione finale, il trionfo della vita
sulla morte (cf. lCor 15).
Dall'indicativo all'imperativo, possibilmente con congiunzioni
conclusive, è un passaggio caratteristico dell'argomentare di Paolo;
ne abbiamo qui una conferma, con una particolarità però: non si
serve di imperativi, ma esorta implicitamente servendosi del motivo
dell'obbligo, fatto valere nei confronti dello Spirito e negato riguar­
do alla carne: «Quindi (ara oun), fratelli, non siamo in obbligo
(opheiletai) verso la carne per dover viverne in conformità>> (v. 12).
Che sia un'esortazione implicita appare anche dalla duplice motiva­
zione di carattere escatologico: «perché vivendo in modo carnale
andrete incontro alla morte; avrete la vita se invece in forza dello
Spirito mettete a morte le opere del corpo» (v. 13). Si impone qui la
citazione del parallelo Gal 5,19-24: «Ora appaiono evidenti le opere
della "carne", che sono . . . ; chi compie tali opere non potrà ereditare
il regno di Dio. Invece il frutto dello Spirito è . . . Ora quelli che
appartengono a Cristo Gesù hanno crocifisso la "carne" con le sue
passioni e cupidigie>>.
Conclusa la contrapposizione carne-Spirito, Paolo continua la
presentazione dell'esperienza cristiana all'insegna dello Spirito ope­
rante nei credenti per il presente e il futuro (vv. 14-17). Con una
peculiarità: ora la tematizza come esistenza da figli di Dio, realtà
suscitata dallo Spirito. Anzitutto il testo presenta una tesi: «tutti
quelli che lo Spirito di Dio conduce (pneumati theou agontai) sono
figli di Dio>> (v. 14). C'è stretta correlazione tra guida dello Spirito e
figliolanza divina: l'una comporta l'altro e l'una caratterizza l'altro.
In concreto, essere figli di Dio appare qui il risultato dell'azione
dello Spirito che imprime ora alla vita dei credenti uno spessore di
familiare rapporto con Dio: «voi non avete ricevuto uno spirito da
schiavi per finire di nuovo nella paura, ma avete ricevuto uno spiri­
to da figli adottivi (hyiothesias) che ci fa gridare: Abbà, Padre!>>. Il
riferimento, per un verso, è qui a 5,1 (siamo in pace con Dio), per
186 Capitolo 19

l'altro riprende un dato della tradizione liturgica protocristiana di


lingua greca - per questo la parola aramaica è tradotta in greco - che
probabilmente riproduce un ipsissimum verbum di Gesù di Nazaret
(cf. Mc 14,36). L'essere figli di Dio non solo caratterizza la preghie­
ra ma tocca anche la psicologia del credente a cui è donata la certez­
za interiore di questa sua nuova identità di grazia, su cui non può
illudersi: <<Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di
Dio>> (v. 16). «In conclusione, sono figli per l'azione conduttrice dello
Spirito e sanno di esserlo per il suo intervento ispiratore nella pre­
ghiera». D'altra parte lo Spirito conduce i credenti verso il traguar­
do dell'eredità divina: «E se figli, anche eredi: eredi di Dio e coeredi
di Cristo» (v. 17a).
Passo paolino parallelo è Gal 4,5-7 che offre gli stessi elementi
di Rm 8,14-15: dono della figliolanza divina ai credenti (<<perché noi
ricevessimo l'adozione filiale») e suo stretto rapporto con lo Spirito
(«Che siate figli, lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo
Spirito del suo figlio»); grido a Dio padre suscitato dallo Spirito (<<il
quale grida: Abbà, Padre!»); antitesi figliolanza-schiavitù («Così non
sei più schiavo, ma figlio>>); figliolanza ed eredità connesse («e se
figlio, grazie a Dio sei anche erede»). Con una diversità: nella Lette­
ra ai Galati l'adozione a figli di Dio è presentata come effetto della
«missione>> del Figlio; qui è r'àpportata strettamente all'azione <<con­
ducente>> dello Spirito.
Possiamo sintetizzare così le linee di pneumatologia paolina
espresse in Rm 8. Anzitutto, lo Spirito è nei credenti forza liberan­
te dalla potenza del peccato e dal destino di condanna a morte eter­
na (vv. 1-4a). Quindi, la presenza e l'azione dello Spirito definisce i
cristiani, chiamati da Paolo «quelli che camminano nella vita secon­
do la spinta dello Spirito>> (hoi kata pneuma peripatountes); <<quelli
che esistono traendo la loro esistenza dallo Spirito e sono inseriti
nella sfera d'influsso dello Spirito» (hoi de kata pneuma ontes l
hymeis este en pneumati), identità antitetica a coloro che si compor­
tano secondo la dinamica della carne (kata sarka) e vivono nella
sfera d'influsso della carne (en sarki) (vv. 4bss); e ancora quelli che
in forza dello Spirito sono persone appartenenti a Cristo (v. 9),
diventano figli di Dio (vv. 14-15), hanno come traguardo ultimo la
risurrezione (v. 11). Vorrei aggiungere però come Paolo sottolinei
Lo Spirito di Dio nelle tenere di Paolo 187

anche che lo Spirito è fonte dell'appartenenza a Cristo (v. 9), fonda­


mento di speranza nella risurrezione (v. 1 1 ) e principio attivo della
figliolanza divina, realtà posseduta e sperimentata nel grido di pre­
ghiera a Dio Padre:

In effetti tutti quelli che lo Spirito di Dio conduce sono figli di Dio; e
voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per finire di nuovo nella
paura, ma avete ricevuto uno spirito da figli adottivi che ci fa gridare:
Abbà, Padre! Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli
di Dio (Gal 4,6-7).
20.
L'ORDINE E LO SPIRITO NEL MONDO
E NELLE ASSEMBLEE ECCLESIALI*

L'ordine non è certo un tema caratteristico delle Scritture ebrai­


che e cristiane. Basta uno sguardo ai dizionari biblici e ai loro indici
per rilevame l'assenza. In realtà, il punto di riferimento per l'uomo
della Bibbia non è un ordine in cui far rientrare la propria vita e
secondo il quale regolare le proprie scelte e azioni, bensì il volere
sovrano di Dio. L'obbedienza, non la conformità a un ordinamento
prestabilito, è semmai l'atteggiamento richiesto al popolo dei profe­
ti e al popolo degli apostoli.
Se poi vogliamo restringere la nostra visuale all'ambito cristia­
no il rilievo suddetto diventa ancor più evidente. Al centro dell'espe­
rienza dei credenti in Cristo descritta e approfondita negli scritti del
Nuovo Testamento non sta un preteso ordine cristiano, fatto di rego­
le precise che disciplinano la realtà sociale e religiosa degli uomini,
bensì la presenza vivificante di Cristo risorto, che Paolo definisce in
l Cor 15,45 come «Spirito "facitore" di vita» (pneuma zoopoioun). E
sempre l'apostolo definisce l'essere cristiano come un «essere in Cri­
sto>>, una formula cui non deve essere disconosciuta una valenza
«immanentistica>>: vivere, per fede, nello spazio spirituale che è il
Risorto, detto con un'immagine, entrare e stare nel campo magneti­
co delle forze della vita del nuovo mondo che è Cristo, essendone
animati e radicalmente rinnovati.
Una seconda rilevazione: a quel tempo era lo stoicismo che si
richiamava alla legge dell'ordine come a chiave interpretativa della
realtà mondana e umana. Lo si può rilevare facilmente nella centra­
lità che vi occupa la legge di natura; questa definisce il bene e il male

• In Servilium 29(1995)99-100, 339-348.


190 Capito/o 20

secondo il metro della conformità e difformità rispetto a se stessa. In


breve, l'agire lodevole e moralmente positivo è quello «secondo
natura (kata physin)>> mentre è riprovevole l'agire «contro natura
(para physin)>>. Lo stesso Paolo vi ricorre in 1 Cor 1 1 ,1 4- 1 5 per dare
plausibilità al suo imperativo secondo cui le donne profetesse devo­
no portare il velo nelle assemblee ecclesiali: «Non è anche la stessa
natura ad insegnarvi che se l'uomo porta i capelli lunghi, è per lui un
disonore, mentre se la donna ha i capelli lunghi, per lei è una gloria,
perché la chioma le è stata data come turbante?>>. O ancora in Rm
1,26-27 egli vi si riferisce per bollare la frequente pratica omosessua­
le del mondo pagano: le femmine hanno stravolto l'uso naturale in
quello contro natura (tèn physikèn chrèsin eis tèn para physin) e pari­
menti i maschi hanno abbandonato l'uso naturale della femmina (tèn
physikèn chrèsin tès thèleias) per bruciare di libidine gli uni per gli
altri, unendosi maschi con maschi. Ora, a parte questi due passi pao­
lini, l'orientamento biblico e neotestamentario in particolare è di
tutt'altro genere.
Si potrebbe continuare e approfondire la prospettiva generale
biblica che rifugge sistematicamente dal richiamo a un ordine prede­
finito in cui far rientrare la realtà. Ma preferisco concentrare l'atten­
zione su un passo paolino in cui l'apostolo eccezionalmente mette in
campo il motivo dell'ordine, attribuendogli però un'importanza
puramente relativa, subordinatà a un altro interesse chiaramente
primario. Dunque, ordine sì, ma in funzione di un valore superiore e
decisivo che è l'efficacia della parola profetica. In altri termini, la
comunità cristiana riunita in assemblea cresce spiritualmente come
edificio nell'ascolto e nella comprensione della parola dei profeti; un
certo ordine si rivela condizione esterna necessaria perché tale acco­
glienza della parola profetica possa verificarsi. Il passo in questione
è 1Cor 14,26-33a.40.
D'altra parte, anche se al di fuori della categoria di «ordine», la
tradizione ebraico-cristiana che si esprime nella Bibbia si è interessa­
ta a questo mondo e a una sua sistemazione che fosse consona al
volere del Creatore. Non per nulla il racconto sacerdotale della crea­
zione sottolinea, con un evidente ritornello, che tutto è stato fatto in
conformità al progetto divino: «E Dio vide che era cosa buona>> ( Gen
1,18); «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona»
L'ordine e lo Spirito nel mondo e nelle assemblee ecclesiali 191

(1,31). Ma nello stesso tempo la sensibilità degli uomini della Bibbia


è stata attirata dal <<disordine>> del mondo conseguente al peccato
dell'uomo; basti accennare alla duplice tradizione del diluvio, occa­
sionato, per la tradizione jahvistica, dall'unione dei «figli di Dio» con
le figlie dell'uomo (Gen 6,1-4), estremo punto di arrivo di una storia
di sconvolgimento, e per la tradizione sacerdotale dall'invasione della
violenza: <<Ma la terra era corrotta davanti a Dio e piena di violenza>>
(Gen 6,11). Le acque del diluvio sono in realtà l'irruzione del caos nel
mondo a travolgerlo. Solo alla grazia di Dio verso Noè e la sua fami­
glia si deve se ci sarà una nuova alba dell'umanità. Ma il problema del
peccato e del disordine che esso introduce nel mondo resta e alla fine
susciterà la speranza nel regno di Dio.

l. L'ORDINE DEL MONDO: IL REGNO DI DIO BUSSA ALLE PORTE

È risaputo che il centro oggettivo dell'annuncio di Gesù di


Nazaret è stato il regno di Dio, diremmo meglio la sua regalità, per­
ché di lui si tratta e della sua realizzazione come <<re>>. Non nel senso
che egli si fosse curato di precisare i contenuti di questo motivo
tematico: erano noti infatti non solo a lui ma anche ai suoi interlocu­
tori. La tradizione ebraica aveva elaborato questo simbolo religioso
come risposta alla sete di giustizia degli oppressi e dei diseredati che,
privi di difesa sociale e politica, si erano rivolti a Dio pregandolo
perché egli stesso si facesse re nella storia, cioè difensore di quelli
che difesa non avevano. L'attesa della regalità di Dio che giunge fino
a Gesù è attesa di un <<ordine di giustizia>> nel mondo, che si aspetta
dall'alto dopo che le attese dal basso - in concreto dai re che nel­
l'area dell'antico Medio Oriente erano compresi come difensori dei
<<poveri>> - erano andate deluse.
Da parte sua Gesù ne sottolinea anzitutto la vicinanza e la pros­
simità: l'attesa non è a lunga scadenza, ma a tempi assai ravvicinati.
Ecco il suo proclama nelle parole della tradizione evangelica: «Si è
fatto evento vicino (eggiken) il regno di Dio>> (Mc 1 ,15 e par.).
Non solo: già adesso il regno di Dio fa irruzione nel mondo,
appunto nella presenza operativa di Gesù che guarisce i malati psi­
chici, liberandoli da una condizione d'ingiustizia oggettiva. Lo testi­
monia a chiare lettere un passo della duplice tradizione presente in
192 Capilo/o 20

Luca e Matteo. A chi interpreta a rovescio le sue guarigioni di inde­


moniati, accusato di essere una longa manus di Beelzebul, il Nazare­
no cosi risponde offrendo l'interpretazione autentica del suo opera­
to: «Ma se è col dito di Dio [Matteo corregge questa espressione pla­
stica, sostituendola con la seguente <<COn lo spirito di Dio>>J che io
scaccio i demoni, allora vuoi dire che ha fatto irruzione (ephthasen)
su di voi il regno di Dio>> (Le 1 1 ,20; cf. Mt 12,28).
Si noti bene: la regalità di Dio mette <<ordine» in questo mondo
storico. La prospettiva di Gesù non è ultraterrena, ma «mondana».
Non può essere annoverato tra gli apocalittici che, dominanti al suo
tempo, esprimevano una speranza consistente nella scomparsa di
questo mondo corrotto irrimediabilmente e nella sua sostituzione
con un nuovo mondo, «ordinato>>, celeste, destinato alla fine a scen­
dere in terra a prendere il posto dell'attuale. Il Nazareno si mantie­
ne fedele a questo mondo <<disordinato>> e spera che Dio vi metta
«ordine>>, appunto un ordine di giustizia, prestando la sua opera libe­
ratrice come mediazione storica dell'azione divina.
Ma l'irruzione del regno di Dio nei gesti di liberazione di Gesù
è solo un'anticipazione reale, eppure parziale e imperfetta, della sua
esplosione piena, attesa appunto a brevissima scadenza. Per questo
egli insegna ai discepoli perché supplichino: <<Venga presto il tuo
regno>> (Mt 6,10; Le 1 1 ,2b). '
Un'attesa la sua che la morte orrenda in croce pare vanificare e
relegare nel mondo dei sogni e delle illusioni generose ma irreali.
Invece non tutto è finito, anzi tutto ricomincia con la confessione di
fede dei suoi discepoli storici: «<l crocefisso è stato risuscitato da
Dio» (Mc 16,6 e par.). I tempi ultimi, segnati appunto dalla risurre­
zione dei morti, sono giunti: Cristo risorto è il riscatto sostanziale di
questo mondo dal <<disordine>>, dalle forze della morte e del caos. Le
speranze nella regalità di Dio, ma sotto altre formule tematiche,
sono così rilanciate: Cristo è stato risuscitato da Dio non come caso
unico, bensì come «primizia di quelli che si sono addormentati nella
morte>> (1Cor 15,20), il primo di una serie; e lo Spirito, primizia del
nuovo mondo <<ordinato>> di Dio (cf. Rm 8,23), è donato ai credenti,
che insieme con il mondo creato gemono nei dolori del parto (cf. Rm
8,18-25), dunque in dolorosa e attiva partecipazione alla nuova
nascita.
L'ordine e lo Spirito nel mondo e nelle assemblee ecclesiali 193

2. L'ORDINE NELLA COMUNITÀ

2.1. Il contesto

Nella sezione dei cc. l2-14 Paolo prende posizione di fronte alle
esperienze carismatiche che caratterizzavano le assemblee comuni­
tarie della Chiesa di Corinto. Vi predominavano i glossolali e le loro
parole incomprensibili. L'atmosfera era di grande eccitazione e di
stupore davanti a manifestazioni estatiche e straordinarie capaci di
rapire i presenti ed esaltare i beneficiari. Se poi si aggiunge che i
glossolali e i profeti parlavano contemporaneamente, allora si capi­
sce che il quadro mostrasse riunioni abbastanza caotiche. Soprattut­
to erano assenti, da una parte, una calma e riflessiva proclamazione
della parola e, dall'altra, una piana e comprensibile accoglienza delle
voci che vi risuonavano. Agli occhi di un estraneo che vi fosse entra­
to, rileva Paolo, sarebbero apparse assemblee di matti (14,23).
Sul piano della valutazione dei fenomeni di ispirazione dello
Spirito nella Chiesa di Corinto la preferenza andava a quelle mani­
festazioni di carattere estatico, in cui il beneficiario era <<fuori di sé>>,
<<fuori di senno>>, un po' come la Pizia dell'oracolo di Delfi nel mon­
do greco, e i presenti erano spettatori ammirati e stupefatti di un
fenomeno «numinoso» senza alcuna possibilità di comprensione in­
terna e personale di quanto stava capitando. La visione ammirata,
non l'ascolto docile, caratterizzava così le assemblee ecclesiali.
Ora l'ebreo Paolo aveva alle spalle la gloriosa tradizione religio­
sa del popolo israelitico che è riassumibile in questi due dati comple­
mentari: il primo, nella preghiera quotidiana l'israelita rivolgeva a se
stesso l'appello di Dt 6,4: «Ascolta, Israele!>>; il secondo, sul Sinai
nulla si è visto del mondo divino, precisa sempre il Deuteronomio, vi
è risuonata solo la voce potente di YHWH: «Il Signore vi parlò dal
fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figu­
ra; vi era soltanto una voce» (4,12). Non poteva dunque non reagire
con forza a un indirizzo spirituale che privilegiava il numinoso abba­
gliante al Dio che parla chiedendo come risposta l'ascolto di fede
(akoè tès pisteòs). In concreto, troppo rispettoso dei doni dello Spiri­
to, egli accetta senza riserve la glossolalia, preferita dai suoi interlo­
cutori. Infatti in conclusione toglie di mezzo ogni dubbio: «Non
194 Capitolo 20

impedite il parlare in lingue» (14,39b). Ma fa valere la sua netta pre­


ferenza per la profezia, parola ispirata dallo Spirito e comprensibile
agli ascoltatori. Sempre in chiusura, prima dell'imperativo suddetto,
esorta così: <<Agognate alla profezia» (14,39a).
Comunque è tutto il capitolo che qui fa testo. Già l'inizio non
lascia adito a dubbi: <<Agognate pure ai fenomeni spirituali, ma di più
a che possiate profetare>> (14,1). E Paolo motiva subito la sua esor­
tazione:

In effelli chi parla in modo glossolalico non ad uomini parla bensì a


Dio, perché nessuno intende; egli invece in spirito proferisce misteri.
Chi al contrario profetizza, ad uomini parla producendo edificazione,
esortazione e incoraggiamento. Chi parla in modo glossolalico edifica
se stesso; invece chi profetizza edifica l'assemblea ecclesiale (14,2-4).

E a conclusione della pericope esprime questo desiderio: <<Ora


vorrei che tutti voi parlaste in modo glossolalico, ma di più che pos­
siate profetare>> (14,5). Senza dire che in materia può presentare se
stesso come modello: <<Ringraziando Dio, io parlo in modo glossola­
lico più di tutti voi; ma in un'assemblea ecclesiale preferisco dire cin­
que parole con la mia mente, per istruire anche altri, piuttosto che
diecimila parole in modo glossolalico>> (14,18-19). È dunque l'edifi­
cazione della comunità il vero valore da perseguire e salvaguardare
nelle assemblee ecclesiali, in al,re parole la crescita spirituale dei
partecipanti.
Oltre a segnalare il fine, Paolo però si cura di precisare i requi­
siti necessari al suo conseguimento; parla infatti più volte dell'esi­
genza impreteribile dell'intelligibilità e chiarezza della parola, che
solo così può risultare costruttiva, utile, vantaggiosa e fruttuosa per
gli ascoltatori. Quando si esprime il glossolalo, «nessuno comprende
(akouei)>> (v. 2). <<Così anche voi con la parola glossolalica, se non
date una parola chiara, come si potrà comprendere ciò che viene
detto?>> (v. 9). Il paragone degli strumenti musicali messo in campo
appena prima (vv. 7-8) evidenzia la stessa esigenza: devono suonare
suoni distinti e non inevidenti, altrimenti <<come si potrà comprende­
re ciò che viene suonato con flauto o con cetra?>>. Anche l'esempio
della lingua straniera dimostra la necessità di una parola comprensi­
bile: <<se non comprendessi il significato della lingua, sarei un barba-
L'ordine e lo Spirito nel mondo e nelle assemblee ecclesiali 195

ro per chi parla e colui che parla dinanzi a me sarebbe un barbaro>>


(v. 11). Alla tua preghiera di glossolalo, dice Paolo al v. 16, il non-ini­
ziato «non comprende che cosa dici». L'incomprensione davanti alla
parola glossolalica può giungere addirittura a un fraintendimento
totale, scambiando i glossolali per folli: <<non diranno che delirate?>>
(v. 23). Al contrario la parola giudicatrice dei profeti viene intesa e
può essere accolta (cf. vv. 24-25).
Ora è su questa discriminante dell'intelligibilità o meno, come
sull'altra della costruttività o meno, che Paolo valuta profezia e glos­
solalia, ma anche glossolalia e sua interpretazione, preferendo quel­
la a questa ed esortando gli interlocutori a fare altrettanto.
Ma non è tutto: dalla comprensione della parola si giunge alla
sua efficacia (costruttività, utilità, fruttuosità) passando attraverso la
comunicazione personale umana. Il quadro del pensiero di Paolo è
sempre quello dell'assemblea ecclesiale che riunisce ascoltatori e
locutori, con ruoli interscambiabili però, nel senso che tutti occupa­
no, in momenti diversi, l'una o l'altra posizione. La parola è lo stru­
mento del loro entrare in contatto e in comunione, una parola com­
prensibile che, come tale, diventa comunicativa di un dono spiritua­
le dal locutore all'ascoltatore. Infatti dietro alla parola parlata e
ascoltata ci sono persone che Paolo chiama alla comunicazione. Così
il v. 2, specificando la differenza tra profeta e glossolalo, dice che il
primo parla a uomini, il secondo a Dio, il solo capace di recepire la
sua parola, il solo suo vero <<uditore intelligente>>. Nel caso dei glos­
solali la parola si riduce per gli uditori a puro flatus vocis, privo di
qualsiasi destinatario personale: «Sarete infatti gente che parla al
vento>> (v. 9c). Invece di unire, la parola glossolalica scava un solco
invalicabile d'incomunicabilità, come indica l'exemplum del v. 1 1 : il
locutore e l'ascoltatore materiale sono <<barbari>> l'uno per l'altro. La
preghiera glossolalica esclude la partecipazione attiva dell'altro:
«Come potrà dire l'Amen sul tuo ringraziamento? Perché non com­
prende che cosa dici>> (v. 16).

2.2. Il testo

Ai suddetti requisiti intrinseci Paolo abbina, nella seconda parte


del capitolo (vv. 26ss), le condizioni esterne necessarie perché il pro-
196 Capitolo lO

cesso dell'edificazione si possa realizzare. Nel caos dell'assemblea,


con più persone che parlano, glossolali che proferiscono parole
incomprensibili, dallo svolgimento anarchico, è praticamente impos­
sibile ottenere che la riunione ecclesiale sia spiritualmente fruttuosa.
Anzitutto egli ripete il principio-guida del capitolo: le assemblee
ecclesiali devono essere spiritualmente fruttuose, fine questo che
non deve essere mancato: <<Che fare dunque, fratelli? Quando vi riu­
nite, ciascuno ha un salmo, ha un insegnamento, ha una rivelazione,
ha una parola glossolalica, ha un'interpretazione: tutto si faccia a
scopo di edificazione» (v. 26).
Seguono nei vv. 27-33a alcune prescrizioni di carattere pratico e
organizzativo all'insegna di un doveroso ordine da osservare. La
prima regola normativa stabilita da Paolo riguarda i glossolali e si
articola in due paragrafi che prendono in considerazione le due pos­
sibili situazioni. In sala c'è un interprete capace di spiegare la paro­
la incomprensibile dei glossolali; allora si deve procedere in modo
che solo due o tre glossolali al massimo parlino di seguito e quindi
deve interporsi la parola esplicativa dell'interprete. In sala non c'è
alcuno capace di interpretare i glossolali; allora questi devono rivol­
gersi in silenzio a Dio, l'unico interlocutore capace di comprenderne
la preghiera e di entrare in comunione con lui (cf. sopra v. 2). Ecco la
prescrizione di Paolo: «Se qualcuno parla in modo glossolalico, siano
in due o al massimo in tre a parlare e uno dopo l'altro; e uno inter­
preti. Se invece non c'è un interprete, faccia silenzio nell'assemblea
ecclesiale, parli invece tra sé e Dio>> (vv. 27-28).
Analoga è la normativa circa l'attività dei profeti:

Quanto ai profeti poi, parlino in due o tre e gli altri facciano opera di
discernimento. Se però a un altro che sta seduto è stata concessa una
rivelazione, il primo si metta a tacere. Potete in effetti a uno a uno pro­
fetare tutti, affinché tutti possano imparare e tutti essere esortati.
Anche le ispirazioni dei profeti sono sottomesse ai profeti (vv. 29-32).

Naturalmente qui non è previsto alcun intervento esplicativo


perché non necessario; ma soprattutto appare che la regola ordinati­
va non è rigida: un'ispirazione subitanea donata a uno che è in silen­
zio sconvolge l'ordine istituito; chi parla deve lasciare la parola al
suo «fratello» e mettersi a tacere. Tra un ordinamento dato e l'inter-
L'ordine e lo Spirito nel mondo e nelle assemblee ecclesiali 197

vento dello Spirito che, ispirando sul momento un credente, intende


far sentire una voce nuova nell'assemblea, è questo secondo che ha
la precedenza. L'assemblea ecclesiale è così regolata, in ultima ana­
lisi, dalla libera e imprevedibile azione dello Spirito, non da un ordi­
ne fisso, da un ordinamento umano. E si capisce il perché: è una riu­
nione in cui risuona, a edificazione di tutti, la parola dello Spirito
sulla bocca di questo o di quel carismatico. Se quello è la fonte della
parola ne è anche il principio regolatore; non detta però norme ma
interviene con libertà sovrana sconvolgendo precedenze e classifi­
che. In realtà, là dove regna il dono - il termine greco <<carisma» vuoi
dire «concrezione della grazia», un dono gratuito - non valgono
ordinamenti, ma ringraziamento e personale responsabilità.
Certo, Paolo presenta ordinamenti, ma questi non sono valori
per se stessi; in altre parole, non è l'ordine in quanto tale che sta a
cuore all'apostolo. Ciò che intende perseguire è che possa e debba
risuonare nell'assemblea una parola comprensibile, e ancor prima
che i partecipanti ne possano trarre giovamento: la comunità deve
crescere spiritualmente. Abbiamo dunque questa piramide: al verti­
ce l'edificazione della Chiesa; quindi la comprensibilità della parola,

in altre parole il verificarsi di una vera comunicazione personale;


infine, come condizione esterna perché l'uno e l'altro scopo possano
essere perseguiti, l'ordine degli interventi, un ordine flessibile oltre
tutto che lo Spirito può mutare ogni volta donando una nuova e
subitanea ispirazione a questo o quel credente. All'origine del parla­
re profetico è lo stesso Spirito che vi mette fine, non però per dare
spazio al silenzio, bensl per favorire una nuova parola profetica.
L'ordine programmato è solo funzionale, deve dunque piegarsi
all'iniziativa dello Spirito che incalza la comunità offrendole, per
mezzo sempre di profeti, nuove rivelazioni e con queste nuovi stimo­
li all'edificazione.
In chiusura Paolo motiva la sua regolamentazione: <<Dio infatti
non è Dio di turbamento, ma di pace» (v. 33a). In realtà egli non si
appella al volere divino bensì all'essere stesso di Dio, che è pace e
insieme donatore di pace. Il sottinteso è che la comunità cristiana
deve sintonizzarsi nelle sue assemblee su questa lunghezza d'onda,
evitando la <<perturbazione della quiete e della pace nella comunità,
dovuta [ . ] al fare orgiastico nelle adunanze>>, precisa A. Oepke in
. .
198 Capitolo 20

GLNT IV, 1341s. La categoria antitetica «pace» dice perciò assenza


di turbamento, ma le sue risonanze veterotestamentarie suggerisco­
no valenze anche più ricche, cioè un bene-essere sostanziato di
armonia e integrità. Il contesto poi applica tale pregnanza alle
assemblee ecclesiali vivificata dai fenomeni pneumatici. La formula
«Dio di pace>> è privilegiata da Paolo, che la usa in Rm 15,33; 16,20;
2Cor 13,1 1 ; Fil 4,9; lTs 5,23.
Comunque è nell'esortazione finale: «Thtto si faccia in maniera
decorosa (euschémonòs) e ordinata (kata taxin)>> (v. 40) che viene
tematizzato il motivo dell'ordine. Si noti la categoria della totalità
già presente al v. 26, passo chiaramente parallelo: «tutto si faccia a
scopo di edificazione>>. Si tratta di un'inclusione e ciò mostra che
l'esigenza di decoro e ordine qui rivendicata va letta in stretto lega­
me con l'edificazione dell'assemblea.
Le riunioni comunitarie qualificate dalla presenza attiva dei
carismatici devono svolgersi con decoro (euschémonòs) e con ordi­
ne (kata taxin) al fine di raggiungere la fruttuosità spirituale dei par­
tecipanti. Una prescrizione simile è attestata nelle regole della setta
gnostica di Andania del I secolo a.C.: «Le guardie [ . . . ] abbiano cura
perché da parte dei presenti tutto sia fatto in modo decoroso e in
buon ordine (eutaktòs)». Si veda anche, a proposito degli esseni,
quanto dice Giuseppe Flavio in Bfll. Il, 8, 132: «Al rientro mangiano
allo stesso modo, in compagnia degli ospiti, se ve ne sono. Mai un
grido o un alterco disturba la quiete della casa, ma conversano ordi­
natamente (en taxei) cedendosi scambievolmente la parola».
La formula kata taxin ha valore avverbiale e indica un ordine
preciso di successione. Il riferimento concreto è alle prescrizioni dei
vv. 27 e 31 espresse con «uno dopo l'altro l a uno a uno>>.
21 .
CONFLIITUALITÀ E RICONCILIAZIONE
NELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE*

Per avere un quadro attendibile, se non proprio esaustivo, del cri­


stianesimo delle origini bisognerebbe esaminare tutti gli scritti neote­
stamentari e ancora altre testimonianze, cristiane e non: impresa
impossibile per più motivi. Ci si limiterà qui a quanto ci attestano il
libro degli Atti degli apostoli e soprattutto la parola di un protagoni­
sta, Paolo, cui riconosciamo la paternità letteraria di sette lettere del
suo corpus epistolare (lTs, 1-2 Cor, Gal, Rm, Fil e Fm).
Gli Atti degli apostoli e le succitate lettere paoline sono però
due fonti di diseguale valore storico e quindi diversamente utilizza­
bili. Attenendoci al nostro tema, la prima, lontana già dagli eventi
narrati circa mezzo secolo, guarda al panorama delle origini cristia­
ne degli anni 30-60 con occhio irenico: nei rapporti tra comunità, tra
il centro del cristianesimo, Gerusalemme, e la periferia, segnatamen­
te Antiochia di Siria e le chiese paoline, tra le stesse personalità più
in vista regna un'atmosfera di <<amorosi sensi>>. È vero che alcuni giu­
deo-cristiani tradizionalisti di matrice farisaica turbano il clima
opponendosi alla libertà dei convertiti di origine pagana dall'obbli­
go della circoncisione e dell'osservanza della legge mosaica. Ma rap­
presentano una trascurabile minoranza che viene tacitata nel conci­
lio di Gerusalemme. In breve, il paesaggio delle origini cristiane è
caratterizzato da colori idilliaci; unico motivo di turbamento sono le
incipienti ostilità giudaiche e pagane; dall'esterno dunque vengono
le preoccupazioni, non dall'interno della Chiesa di Cristo.
Di tutt'altro genere invece si presenta la testimonianza di Paolo,
che ha vissuto da primo attore nel fuoco delle polemiche, dei conflit-

• In Servilium 19(1985)37-38, 2941.


200 Capitolo 21

ti e persino delle rotture che hanno animato i primi passi del cammi­
no della Chiesa nel mondo. L'immagine di un cristianesimo nascen­
te privo di conflittualità, al riparo da tensioni, preservato da spacca­
ture, in realtà fa parte di una visione romantica, ma storicamente
falsa e deviante. A Paolo soprattutto dobbiamo dati inoppugnabili
capaci di rendere giustizia alla realtà storica e di sbarrare il passo a
fin troppo facili strumentalizzazioni di parte di un preteso unanimi­
smo della Chiesa primitiva, che naturalmente si vorrebbe imporre
anche oggi. E che si debba aderire alla testimonianza di Paolo cor­
reggendo la presentazione oleografica degli Atti degli apostoli, il cui
scopo peraltro non è stato certo quello di offrire una ricostruzione
storica del cristianesimo dei primi tre decenni, costituisce una pacifi­
ca acquisizione dell'attuale ricerca biblica.

In concreto, si analizzeranno alcuni spaccati significativi della


storia delle Chiese cristiane dei primi anni, nei quali appare in primo
piano l'esistenza di tensioni, conflitti, animosità, persino rotture, ma
anche la ricerca di una comunione di fondo basata sull'unico vange­
lo di Cristo.

l. IL CONCILIO DI GERUSALEMME

Gli Atti degli apostoli ne parlano nel c. 15, Paolo in Gal 2,1-10.
Di questo evento importante, databile a cavallo del 50, le due rela­
zioni suddette tradiscono differenze rimarchevoli. Secondo At 15 il
concilio è provocato dalla Chiesa di Antiochia di Siria che, contesta­
ta da elementi reazionari nella sua prassi missionaria di apertura ai
pagani accolti nella Chiesa da incirconcisi, si appella alla Chiesa­
madre di Gerusalemme e vi invia, quali suoi delegati, Barnaba e
Paolo. Quest'ultimo invece nella Lettera ai Galati personalizza il
tutto: è per ispirazione divina che egli ha deciso di sottoporre agli
apostoli gerosolimitani, che vantavano su di lui un primato cronolo­
gico («apostoli prima di me>>), il suo vangelo caratterizzato dalla
libertà dei convertiti del mondo pagano e duramente combattuto da
giudeo-cristiani che, penetrati nelle chiese di Galazia, tentavano di
forzare i galati a farsi circoncidere. E, come esempio vivente della
posta in gioco, ha portato con sé Tito, credente incirconciso, sfidan­
do gli avversari.
Conflittualitd e riconciliazione nelle prime comunitd cristiane 201

Gli Atti degli apostoli poi sottolineano il fatto che, soprattutto


per il pronunciamento di Pietro, la posizione della Chiesa antioche­
na ottenne un'autorevole approvazione: nessun obbligo di circonci­
dere i pagani convertiti al cristianesimo. In Gal 2,1 -1 0 invece Paolo
afferma che a Gerusalemme non solo fu approvato il suo vangelo
dagli apostoli gerosolimitani. ma egli stesso ottenne un solenne rico­
noscimento del suo carisma apostolico pari a quello di Pietro, per cui
si stipulò un concordato di spartizione del campo di azione missio­
naria:

. . . vedendo che a me è stato affidato il vangelo dei non giudei come a


Pietro quello dei giudei - colui, infatti, che assisté con la sua forza Pie­
tro nell'apostolato tra i circoncisi assisté anche me tra i pagani - e
conosciuta la grazia data a me, Giacomo, Cefa e Giovanni, che erano
stimati le colonne, diedero la destra a me e a Barnaba in segno di unio­
ne: noi dovevamo annunciare il vangelo presso i pagani, essi invece
presso i circoncisi (Gal 2,7-9).

Infine, l'autore degli Atti menziona, come seconda risoluzione


del concilio gerosolimitano, l'emanazione del cosiddetto decreto
apostolico, proposto da Giacomo, il fratello del Signore, figura emer­
gente della Chiesa di Gerusalemme: nelle comunità cristiane miste,
per rispetto ai credenti circoncisi legati ancora all'eredità giudaica,
gli incirconcisi osservino un minimo di prescrizioni rituali: «Infatti lo
Spirito santo e noi abbiamo deciso di non imporvi altro peso eccet­
to queste cose necessarie, cioè di astenervi dalle vivande sacrificate
agli idoli, dal sangue, dalla carne di animali soffocati e dalla fornica­
zione» (At 15,28-29).
Al contrario Paolo precisa che nulla gli fu imposto (Gal 2,6);
unica clausola dell'accordo stipulato con le autorità gerosolimitane
fu il suo impegno di <<ricordarsi>> dei bisognosi della comunità gero­
solimitana (la colletta: Gal 2,10).
A parte l'accentuata personalizzazione della vicenda, il raccon­
to di Gal 2,1-10 merita la nostra fiducia. Con probabilità è stato l'au­
tore degli Atti ad aggiungere alle deliberazioni del concilio il decre­
to apostolico, che ha visto la luce in altre circostanze, assente Paolo.
In ogni modo, At 15 e Gal 2 convergono nel testimoniare che il con­
cilio di Gerusalemme sancì, una volta per tutte, il principio della
202 Capitolo 21

libertà dei convertiti di origine pagana dall'ipoteca della gloriosa tra­


dizione giudaica.
Per quanto riguarda più direttamente il nostro tema, si rileva
anzitutto la gravità della crisi che ha scosso nei primi anni la Chiesa,
mettendone in discussione la natura di centro aggregante di una
nuova umanità attraverso il superamento del muro di divisione
costituito dalla legge mosaica, come dirà più tardi espressamente la
Lettera agli Efesini (c. 2). Non che si contestasse la possibilità dei
pagani di entrare nella Chiesa di Cristo, ma problematico era il loro
ingresso incondizionato come incirconcisi. Propriamente era in que­
stione il tipo di universalismo del cristianesimo: incondizionata
ammissione dei pagani, senza una loro concomitante giudaizzazione;
oppure loro integrazione nel popolo di Dio sulla duplice base della
fede in Cristo e dell'accettazione della peculiarità culturale giudaica.
In un primo tempo la prassi missionaria si era limitata di fatto al
mondo giudaico; la conversione di pagani doveva essere non solo
sporadica, ma anche condizionata al principio, pacificamente
ammesso, della loro giudaizzazione. Per primo fu il gruppo di Stefa­
no che, disperso dopo l'uccisione del leader, intraprese la missione
ad paganos, accolti nella Chiesa da incirconcisi. Tale novità però finì
per scatenare la reazione dei tradizionalisti. Nell'animata discussio­
ne che ne seguì Paolo si distinse per la lucidità con cui seppe affron­
tare teologicamente il problema: ne va di Cristo, unica via per l'uo­
mo alla salvezza; per questo non possiamo mettergli accanto un
secondo fattore necessario alla salvezza e all'ingresso nella sua Chie­
sa: «Non rendo vana la grazia di Dio; se infatti la giustizia proviene
dalla legge, allora Cristo è morto per nulla» (Gal 2,21); «Non esiste
più giudeo né greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o
donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù» (Gal 3,28).
Il fronte opposto però non doveva essere privo di buoni argo­
menti: lo stesso Gesù era un circonciso; il popolo di Dio ha sempre
avuto la legge mosaica come clausola integrante dell'alleanza; i pro­
feti avevano preannunciato la salita dei popoli pagani al monte santo
di Sion per riccvervi la legge del Sinai. Con quale legittimità si viene
meno a tutto questo?
Ora, sia Paolo sia la Chiesa antiochena hanno cercato il consen­
so della Chiesa-madre di Gerusalemme guidata dai discepoli storici
ConflittuJiJl Uì e riconcilialione nelle prime comunihì cristiane 203

di Gesù di Nazaret e luogo originario della proclamazione del mes­


saggio cristiano. L'autentico vangelo di Cristo non può che essere
uno solo (cf. Gal 1 ,6-10); su un problema di portata tale da mettere
in gioco il senso stesso di Gesù e della sua Chiesa non sono possibi­
li né ipotizzabili opposti pareri. Quando si tratta della «Verità del
vangelo>>, come dice Paolo in Gal 2,5 e 14, la comunione delle comu­
nità cristiane e dei suoi membri si impone. D'altra parte, è nel con­
fronto che questa necessaria unità viene cercata e perseguita, appun­
to per mezzo di un concilio, sulla linea di un'approfondita discussio­
ne tra le parti in causa (At 15,7a) e con la partecipazione attiva e
responsabile di tutti. Paolo e Barnaba salgono a Gerusalemme a
esporre il loro punto di vista (Gal 2,1-2); la Chiesa antiochena
manda una delegazione alla Chiesa-madre a far presente come il
successo della missione ai pagani riveli la presenza operante dello
Spirito e della grazia di Dio (At 15,2-4.12). Da parte loro, gli aposto­
li gerosolimitani ascoltano la voce della periferia, sono lieti di strin­
gere la mano di Paolo e di Barnaba in segno di solidarietà, si dimo­
strano attenti alla novità che viene da Antiochia e dalla prassi mis­
sionaria di Paolo.
Felice crisi, perché ha portato a una nuova chiarezza sul miste­
ro di Cristo e della sua Chiesa!

2. LA COLLETIA

Non è esagerato vedervi il segno più concreto della volontà di


Paolo di perseguire l'unione delle sue Chiese di matrice greca con la
Chiesa gerosolimitana di lingua aramaica e dedita all'osservanza
delle prescrizioni giudaiche. Non si tratta infatti di una pura e sem­
plice elemosina e nemmeno di una tassa imposta dal centro alla peri­
feria. Paolo la considera espressamente una manifestazione decisiva
della comunione (koinonia) delle sue Chiese con la Chiesa di Geru­
salemme, le une e l'altra create dalla grazia di Dio e fondate sull'ob­
bedienza al vangelo di Cristo (2Cor 9,13-14). In Rm 15,27 poi l'idea­
le della comunione interecclesiale è da lui visto come scambio reci­
proco: i pagano-cristiani delle comunità paoline confessano così di
aver ricevuto il vangelo dalla comunità gerosolimitana e questa
beneficerà dei doni materiali di quelli.
204 Capitolo 21

La vera posta in gioco comunque riguardava l'accettazione pro­


blematica delle Chiese paoline da parte della Chiesa-madre di Geru­
salemme. Paolo infatti non ha mai neppure lontanamente vagheg­
giato un cristianesimo di lingua greca sganciato dal cristianesimo
gerosolimitano di lingua e di tradizione giudaica. La sua prospettiva
è stata costantemente quella di un'unica Chiesa di Cristo che
abbraccia, su piede di parità, comunità cristiane culturalmente diver­
se. Piuttosto le remore venivano da Gerusalemme, dove si guardava
con perplessità e riserve all'azione missionaria di Paolo che andava
proclamando la fine della legge mosaica e la perdita di rilevanza sal­
vifica della circoncisione: «Cristo è la fine della legge» (Rm 10,4);
«La circoncisione non conta nulla, e nulla conta l'incirconcisione>>
(1Cor 7,19); <<Infatti né la circoncisione né la mancanza di essa sono
alcunché, ma la nuova creazione>> (Gal 6,15).
Ciò spiega la sua infaticabile opera per condurre in porto l'im­
presa. Scrivendo ai galati, può attestare senza timori di smentita di
essersi adoperato per onorare l'impegno assunto al concilio di Geru­
salemme (Gal 2,10). Di fatto, non solo bandì la colletta nelle sue
comunità di Galazia, deli'Acaia e della Macedonia (cf. 1 Cor 16,1-4;
2Cor 8-9), ma non escluse quelle della provincia romana di Asia,
come si può dedurre da At 20,4 che menziona gli asiatici Tichico e
Trofimo tra i componenti della delegazione da lui guidata, che portò
a Gerusalemme il ricavato della cqlletta. Sappiamo che dovette insi­
stere con particolare tatto ed energia con la Chiesa di Corinto, dove
la crisi dei suoi rapporti con la comunità greca rischiava di mandare
tutto a monte; per questo fece ricorso anche alla mediazione diplo­
matica del collaboratore Tito (cf. 2Cor 8). Al termine poi della sua
missione in Oriente, pronto a salpare per Roma e per la Spagna, pur
conscio dei gravissimi rischi che avrebbe corso a Gerusalemme, dove
gli avversari avevano giurato di fargli pagare il tradimento della
fedeltà giudaica, non esitò a portare personalmente la colletta nella
città santa, per perorare in loco l'accettazione dei capi della chiesa
gerosolimitana:

Per ora mi metto in viaggio verso Gerusalemme per rendere un servi­


zio ai santi [ . . . ) . Quando avrò condotto a termine tutto questo e pre­
sentato loro ufficialmente questo frutto, mi recherò in Spagna, passan­
do da voi [ . . . ). Vi esorto poi, fratelli, per Gesù Cristo nostro Signore e
Conflittualità e riconciliazione nelle prime comunità cristio.ne 205

per l'amore dello Spirito santo, a lottare insieme a me nelle preghiere


che per me rivolgete a Dio, affinché io sia liberato dagli increduli della
Giudea, e affinché il servizio che io presto a Gerusalemme risulti gra­
dito ai santi (Rm 15,25.28.30-31).

Giunto infine nella capitale del giudaismo, ebbe contatti con


Giacomo e gli anziani della locale comunità cristiana, i quali gli pro­
posero di dare prova tangibile della sua fedeltà al giudaismo, sfatan­
do così le diffuse dicerie che lo dipingevano come nemico della tra­
dizione religiosa giudaica (At 21,17-25). Pro bono pacis Paolo accet­
tò la proposta, ma una volta entrato nel tempio gerosolimitano fu
linciato e a malapena sottratto alla folla inferocita dalla guarnigione
romana, finendo però in carcere (At 21,26ss). L'autore degli Atti non
ci parla della colletta, eppure proprio per questo Paolo era venuto a
Gerusalemme. È probabile che la Chiesa gerosolimitana non l'abbia
accettato e non abbia sciolto le proprie riserve a proposito dell'apo­
stolo e della sua azione missionaria. Messo sotto processo, Paolo si
appellerà al tribunale dell'imperatore (At 25) e sarà trasferito nella
capitale dell'impero (At 26--27), dove, al termine di un biennio di
detenzione (At 28,30), fu condannato a morte e subì il martirio. Morì
senza aver potuto coronare la sua opera.
Una vicenda, questa, rivelatrice dei difficilissimi rapporti esisten­
ti tra Paolo, esponente di un cristianesimo libero dai condizionamen­
ti culturali giudaici, e la Chiesa-madre, ligia all'imponente tradizione
del giudaismo. Certo vi deve aver influito non poco il carattere deci­
so e, a volte, violento e intollerante dell'apostolo dei pagani, che,
attaccato duramente da avversari giudeo-cristiani, rispondeva con
altrettanta durezza, come testimoniano la Lettera ai Galati, la Secon­
da lettera ai Corinzi e Filippesi 3. Ma, ancor più, vi dovette contribui­
re la sua teologia tagliente che, tesa a evidenziare nel processo salvi­
fico il ruolo esclusivo di Cristo e l'imparzialità dell'agire di Dio verso
tutti gli uomini, non sempre riuscl a evitare forzature nella valutazio­
ne della legge mosaica e soprattutto della pietà dei fedeli giudei.
D'altra parte, per i capi della Chiesa gerosolimitana non era
facile accettare la stessa teologia paolina, incentrata nella novità
assoluta dell'evento di Cristo morto e risorto, che riporta tutti gli
uomini, circoncisi e incirconcisi, monoteisti e politeisti, buoni e catti­
vi, allo stesso palo di partenza, azzerando ogni privilegio religioso e
206 Capirolo 21

morale e ogni handicap. A loro giudizio, la fede in Cristo si coniuga


armoniosamente con l'osservanza della legge mosaica: come allora
accettare l'affermazione paolina della sola fede quale fattore giusti­
ficante, con rigorosa esclusione delle «opere della legge»? La Chie­
sa gerosolimitana guardava a Gesù come profeta e messia, in linea
dunque con le attese del mondo giudaico; invece Paolo privilegiava
la confessione di fede in Gesù come Signore trascendente e creato­
re di un mondo nuovo.
In breve, due modi diversi di comprendere la stessa fede. Il con­
trasto infatti non era riducibile a lite personalistica, tanto meno a
diversità tcmperamentale. Investiva, al contrario, la stessa percezio­
ne del mistero di Gesù. Soprattutto la Chiesa gerosolimitana non ha
saputo cogliere la legittimità del radicalismo della teologia paolina,
elaborata all'insegna della «Sola fides, sola gratia, solus /esus Chri­
stus>>. Un contrasto che riemergerà più volte nella storia del cristia­
nesimo.

3. IL CONFLITTO DI ANTIOCHIA

Gli Atti degli apostoli non ne parlano affatto: un silenzio elo­


quente e spiegabile con la tendenza irenica dell'autore, cui doveva
far difficoltà lo scontro tra il principe degli apostoli, Pietro, e Paolo,
il protagonista dell'evangelizzaziqne del mondo pagano. L'unica
testimonianza in nostro possesso è 'quella dello stesso Paolo in Gal
2,11-14:

Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto per­


ché evidentemente aveva torto. Infatti, prima che giungessero alcuni da
parte di Giacomo, egli prendeva cibo insieme ai pagani; ma dopo la
loro venuta, cominciò a evitarli e a tenersi in disparte, per timore dei
circoncisi. E anche gli altri giudei lo imitarono nella simulazione (hypo­
crisis), al punto che anche Barnaba si lasciò attirare nella loro ipocri­
sia. Ora quando vidi che non si comportavano rettamente secondo la
verità del vangelo, dissi a Cefa in presenza di tutti: Se tu, che sei giudeo,
vivi come i pagani e non alla maniera dei giudei, come puoi costringe­
re i pagani a vivere alla maniera dei giudei?

Si deve subito rilevare come Paolo qui rievochi il passato alla


luce del presente conflittuale che lo vede contrastare l'offensiva di
ConflittUJJiità e riconciliazione nelle prime comunità cristiane 200

tradizionalisti giudeo-cristiani che, penetrati nelle chiese gala te, ten­


tavano di costringere questi credenti alla circoncisione e all'osser­
vanza della legge mosaica. Nessuna meraviglia dunque se egli si
mostra particolarmente suscettibile di fronte a pressioni, più o meno
dirette, esercitate sui pagano-cristiani perché accettino di giudaizzar­
si. Così a Pietro, seguìto da Barnaba e dagli altri giudeo-cristiani
antiocheni, non esita a rimproverare non solo un atteggiamento
discriminatorio nei confronti dei pagano-cristiani di Antiochia, ma
ancor più una loro implicita sollecitazione a uscire da questa situa­
zione di minorità accettando di giudaizzarsi. In ultima analisi -
ragiona Paolo - si mette in questione il principio della libertà sanci­
ta nel concilio gerosolimitano. La posta in gioco, ai suoi occhi, è nien­
temeno che la «verità del vangelo>>. Ecco dunque spiegata la sua
decisa opposizione a Pietro, condotta «a viso apertO>>.
Come si può toccare con mano, Paolo riduce la vertenza a uno
squisito problema teologico e vi scorge la messa in questione di prin­
cipi supremi, per cui si presenta nelle vesti dell'integerrimo difenso­
re dell'autentico vangelo di Cristo contro Pietro, colpevole di cedi­
mento ingiustificato alle pressioni dei giudeo-cristiani di Gerusalem­
me che si facevano belli dell'autorità di Giacomo, il fratello del
Signore. E, visto sotto questa angolatura, lo scontro di Antiochia non
può che dar ragione a Paolo ed esaltarlo come strenuo difensore
della «Verità del vangelo>> contrassegnato dallo svincolamento da
rigidi e ideologici condizionamenti culturali.
Ma sarebbe semplicistico attribuire tutti i torti a Pietro, ricono­
scendo tutte le ragioni a Paolo. Purtroppo ci manca il suono dell'altra
campana. Tuttavia non appare difficile farci un quadro attendibile del
fronte petTino, cui aderirà anche Barnaba, prestigioso patrono e pro­
tagonista della missione ad paganos della Chiesa antiochena e non
certo vicino alle posizioni degli integralisti giudeo-cristiani. Se Paolo
ragionava da teologo e non aveva occhi che per il problema centrale
della libertà dei pagano-cristiani e dell'implicato universalismo cri­
stiano, Pietro e quelli che aderirono a lui dovevano essere animati da
una preoccupazione eminentemente pastorale, di carattere pratico: si
deve aver rispetto per la peculiarità culturale dei giudeo-cristiani che
intendono continuare la pratica della religione giudaica; in comunità
cristiane miste è necessario creare le condizioni indispensabili per
208 Capitolo 21

un'auspicata coesistenza pacifica tra circoncisi e incirconcisi; la liber­


tà dei pagano-cristiani non deve tradursi in atteggiamenti provocato­
ri nei confronti dei fratelli di stretta osservanza giudaica.
In particolare, per valutare l'atteggiamento di Pietro e compagni
sembra necessario distinguere l'incoerenza pratica del principe degli
apostoli, che è passato da un comportamento a un altro per timore
dei giudeo-cristiani venuti da Gerusalemme e ultimamente portato­
ri della posizione di Giacomo, e l'adesione all'orientamento pastora­
le e compromissorio che si esprimerà nel cosiddetto decreto aposto­
lico di cui parla l'autore degli Atti degli apostoli in 15,22ss e a cui
abbiamo accennato sopra. La prima appare un'evidente debolezza
di carattere, mentre la seconda è frutto di una presa di posizione
pastorale finalizzata alla tutela dell'unità della Chiesa, richiedente
un compromesso pratico: i pagano-cristiani osservino un minimo di
prescrizioni rituali giudaiche per rispetto alla coscienza dei giudeo­
cristiani praticanti.
Siamo dunque di fronte non a una lite personalistica, ma a due
posizioni nette: difesa oltranzistica della «verità del vangelo» in
Paolo; in Pietro, Giacomo e Barnaba, invece, ricerca dei mezzi capa­
ci di garantire l'unità interna delle comunità cristiane miste. La rigi­
dità dell'uno e dell'altro fronte ha impedito di trovare una soluzione
comune. Di fatto, lo scontro di Antiochia dovette concludersi con la
sconfitta strategica di Paolo e il trionfo della posizione di Giacomo.
Non altrimenti infatti si spiega il sile�zio di Gal 2,1 1-14 circa l'esito
della contesa: silenzio tanto più significativo se confrontato con i
toni trionfalistici con cui Paolo ha parlato in Gal 2,1-10 del successo
personale conseguito al concilio di Gerusalemme. L'apostolo dei
pagani si sgancerà così del tutto dalla Chiesa antiochena, di cui ini­
zialmente era un esponente e un delegato, e diventerà leader indi­
pendente del movimento cristiano tra i pagani. Dall'altra parte si
affermerà sempre più la supremazia di Giacomo e un cristianesimo
in cui si coniugano fede in Cristo e fedeltà giudaica.

4. IN CONCLUSIONE

I tratti del quadro del cristianesimo delle origini analizzati sopra


ci presentano un movimento allo stato nascente, percorso da forze
ConflittUJJlità e riconcilillzione nelle prime comunità cristiane 209

contrastanti, caratterizzato da tensioni e conflitti sorprendenti,


eppure ricco di esperienze e creatività. In realtà, uscendo dai confini
culturali del giudaismo e facendo il suo ingresso nel mondo greco e
pagano, esso suscitò gravissimi problemi d'identità. Gesù stesso, cen­
tro indiscusso di aggregazione cristiana, finì per essere visto con
occhi culturalmente diversi e apparire sotto luci diseguali. Era dun­
que inevitabile che si fronteggiassero posizioni irriducibili l'una
all'altra. Più esattamente, la conflittualità esistente fece emergere
due anime del cristianesimo: quella paolina di segno radicale e carat­
Jerizzata dalla confessione di <<Solus Christus, sola fide, sola gratia>>,
e quella impersonata soprattutto da Giacomo all'insegna di un com­
promesso tra la novità dell'evento di Cristo e la fedeltà tradizionale
alle radici giudaiche del movimento di Gesù.
Certo, fattori temperamentali non mancarono di fare la loro
parte, ma non si può guardare a questo quadro movimentato delle
origini cristiane con sguardo moralistico, alla ricerca di motivazioni
e ragioni capaci di muoverei nella doverosa ricerca del superamento
di rotture e contrasti di carattere personalistico. Ancor meno trova­
no legittimazione i tentativi di raffigurarsi e perseguire l'ideale di
una Chiesa monolitica, sotto il controllo di un potere centrale incu­
rante del pluralismo. La presenza, allora, di circoncisi e di incircon­
cisi nella stessa Chiesa di Cristo assurge a emblema della coesisten­
za dei diversi. Paolo e Giacomo sono due espressioni permanenti,
parimenti legittime, credo, della fede cristiana. Nessuna riduzione
dunque dell'uno all'altro; nessuna scomunica dell'uno a favore del­
l'altro; ma accettazione di cuore di questa bipolarità capace di salva­
guardare l'incarnazione del vangelo in contesti sempre nuovi di vita
e la fedeltà alla tradizione del passato.
Dopo tutto, Paolo e Giacomo hanno tentato di esprimere, in
ambienti culturali diversi, la stessa fondamentale adesione a Cristo e
alla «verità del vangelo>>. In proposito mi sembra illuminante quan­
to Paolo afferma nella Prima lettera ai Corinzi per contrastare un
tentativo in atto a Corinto di separazionismo e settarismo, sbandie­
rante questa o quella personalità religiosa:

Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di


Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di
210 Capitolo 21

voi dice: «lo sono di Paolo», «<o invece sono di Apollo», «E io di Cefa»;
«E io di CristO>>. Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato croci­
fisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? (1,1 1-13).

Quando uno dice: «lo sono di Paolo», e un altro: <do sono di Apollo»,
non vi dimostrate semplicemente uomini? Ma che cosa è mai Apollo?
Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascu­
no secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha
irrigato; ma è Dio che fa crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è
qualche cosa, ma Dio che fa crescere (3,4-7).

In breve, operare per la riconciliazione nella Chiesa ci sembra


voler dire, alla luce di quanto è stato detto sopra, combattere ogni
tendenza separazionista e settaria, contrastare le tentazioni di qual­
siasi parte alla scomunica dell'altro e del diverso. La comunione
ecclesiale infatti non si costruisce con l'esclusione della diversità e
del pluralismo culturale e teologico, bensì attraverso la solidarietà
profonda degli uni con gli altri.
22.
VITA ETERNA E RISURREZIONE
DELLA CARNE NEL NUOVO TESTAMENTO*

1. STATUS QUAESTIONIS

Vita eterna e risurrezione della carne sono due espressioni che


ricorrono nel Nuovo Testamento, ma non esauriscono il problema
del futuro ultimo dell'uomo, dell'umanità e della storia. Manca,
infatti, una categoria fondamentale, una categoria escatologica, quel­
la della salvezza, che Paolo colloca nel futuro quando dice che sare­
mo salvati: la salvezza è l'oggetto della speranza. Possono poi inter­
venire altre categorie, più immaginifiche: il banchetto celeste (che
ricorre già nell'Antico Testamento), il seno di Abramo . . . Parlare di
vita eterna e risurrezione della carne è quindi già una scelta di due
categorie, importanti, ma non uniche per esprimere la grande spe­
ranza del popolo dei profeti e del popolo degli apostoli.
In questo contributo ripropongo il contenuto di un mio articolo
del 1977, scritto per il Dizionario /nterdisciplinare Teologico, intito­
lato <<Risurrezione e/o immortalità».
Il problema più globale, al di là dell'articolazione <<vita eterna e
risurrezione della carne>>, è il tema del futuro ultimo. dell'éschaton.
II concetto di éschaton non è cronologico, bensì qualitativo, perché
indica la realtà definitiva, il traguardo cui mira il progetto di Dio sul­
l'umanità e sulla storia. Quando parliamo di interrogativo del futuro
ultimo dell'uomo, del popolo di Dio, dell'umanità e del mondo
occorre tenere distinte queste grandezze. Ad esempio nella tradizio-

-- . l;:;-s;rvitium30(1996)104, 141-156. È la trascrizione, riveduta e corretta da parte


dell'autore, di una conferenza tenuta a Fontanella (Bergamo) nel contesto del convegno
dedicato al tema Credo nella risurrezione della carfll! e nella vila etemo, il 27 agosto 1990.
212 Capitolo 22

ne ebraica il futuro ultimo del popolo è preponderante. Questo com­


plica quindi ulteriormente il problema.
Nella tradizione cristiana dei primi decenni esiste la promessa di
Dio, che non riguarda il destino (il quale è immanente agli eventi):
essa si colloca invece proprio là dove non solo non c'è sviluppo, ma
c'è frattura, la morte. La promessa prodigiosa di Dio vuole superare
la frattura, l'annientamento, il fatto che tutta la realtà finisca chiusa
nel sepolcro (Ez 37), e fonda <<la felice speranza» (Tt 2,13). Si tratta
quindi di una speranza qualificata, che si distingue da un ottimismo
storico di evoluzione che porta a un certo risultato atteso e sperato:
non si tratta dello sviluppo delle potenzialità della storia o dell'esi­
stenza umana. Ernst Bloch ha parlato di potenzialità infinite presen­
ti nell'esistenza umana, nella storia, nella materia. A suo avviso nel
presente c'è !'homo absconditus che deve rivelarsi come potenziali­
tà che emerge immanentisticamente dalla storia. La speranza cristia­
na, invece, non equivale a un destino, non è il traguardo di uno svi­
luppo storico, ma è ancorata alla promessa di quel Dio che dà la vita
ai morti e chiama il nulla all'essere (Rm 4,18). La speranza biblica
quindi si colloca all'interno della drammaticità dell'esistenza umana
in cui c'è la frattura enorme della morte del singolo, la morte come
punto nero del cammino storico, come disfacimento, l'essere senza
vie di uscita. Essa poggia sulla fede, sulla fiducia in Dio capace di
chiamare il nulla all'essere e di suscitare i morti a vita. Come dice
Paolo, esprimendo la percezione chiara dell'uomo biblico, <<la morte
è l'ultimo nemico>>, cioè il nemico estremo. È cioè quella negatività
che costituisce una compromissione definitiva senza possibilità di
uscita, è l'antagonista della signoria di Gesù e di Dio. Cristo non sarà
re se non avrà vinto questo estremo nemico; non sarà signore, se non
avrà dominato su questa estrema potenza avversa (lCor 15,23-28).
Dall'altra parte 1Pt 3,15 invita a rendere conto agli altri della
«speranza che è in voi>>. Non significa notificare, ma testimoniare que­
sta speranza dura, questa speranza contro ogni speranza (Rm 4,18).

2. TESTIMONIANZA DELL'ANTICO TESTAMENTO

In un approccio di tipo storico occorre rivolgersi anche alle


testimonianze contenute nella Bibbia ebraica. Fino al II secolo a.C.
Vita eterriiJ e risurrezione della carne nel Nuovo Testamento 213

il popolo dei profeti ha vissuto nella persuasione che la morte dei


singoli costituisse il destino indifferenziato e negativo di tutti gli
uomini che andavano a riunirsi nella tomba dei padri o nello Sheol
nel regno dei morti, dove i morti ancora sussistono, ma come larve,
cioè senza vera vita. La percezione ebraica del regno dei morti è
desacralizzante: la morte non è, come accade per tutte le religioni,
una realtà- sacra: nella percezione ebraica il regno dei morti non ha
niente a che fare con Dio, perché Dio non ha niente a che fare con
la morte: egli è il Dio della vita. Il popolo dei profeti ha vissuto circa
mille anni senza alcuna prospettiva positiva per il singolo oltre la
morte. Questo è tanto più incredibile se si pensa che altre religioni,
ad esempio quella egiziana, avevano conosciuto già da tempo una
sorte differenziata tra buoni e cattivi al di là della morte. Thtto que­
sto può essere compreso per due motivi. In primo luogo va sottoli­
neato che la tradizione religiosa ebraica ha come punto centrale
della sua fede questo mondo e questa storia, per cui tutto si gioca
qua e l'oltretomba non è un elemento determinante (materialismo
della fede ebraica). In secondo luogo per la percezione profonda
ebraica il problema fondamentale non era l'esistenza del singolo,
bensì l'esistenza del popolo. Ora, quel Dio che sopporta la frattura
della morte per il singolo non sopporta minimamente una frattura
decisiva nella storia del popolo. Non nel senso che la storia di que­
sto popolo continui come un flusso omogeneo, pacifico, sereno, ma
nel senso di una continuità assicurata dall'intervento creativo di Dio
nella storia, a ribaltare le situazioni più compromesse, a ribaltare,
soprattutto, quella situazione così compromessa che è stato l'esilio,
in cui il popolo ha perduto tutto. Gli esuli in terra mesopotamica,
riflettendo una coscienza chiara della situazione, dicevano: «Noi
siamo ormai come una landa di ossa, un cimitero di tombe» (Ez 37):
l'ultima parola di Dio a noi è un <<no» al popolo. Là dove Israele è
riuscito a crearsi con le sue mani (questo è il significato del giudizio)
la propria morte, là risuona la parola creatrice di Dio attraverso la
parola del profeta e soprattutto attraverso lo Spirito. Il profeta Eze­
chiele viene mandato da Dio ad annunciare ai sepolcri la parola
della risurrezione del popolo. La speranza riguarda la storia del
popolo, la continuità attraverso le fratture, continuità assicurata
dalla promessa di Dio.
214 Capitolo 22

Nell'Antico Testamento ci sono però anche due eccezioni sul


destino del singolo: Genesi 5 (genealogia dei patriarchi): Enoch a
differenza degli altri ha camminato davanti a Dio, ha condotto una
vita ineccepibile; però Dio lo ha preso. Ma questa è assolutamente
un'eccezione. E poi Elia, che è salito in cielo sul carro di fuoco, scom­
parendo dalla faccia della terra (cf. 2Re 2,1 1 ). Queste eccezioni con­
fermano la regola generale.
Nel II secolo invece avviene qualcosa di enorme che fa traballa­
re questa impostazione: si tratta della persecuzione di Antioco IV
Epifane che voleva imporre il modo di vivere ellenistico in Palestina
e che per questo ha suscitato la reazione del movimento maccabai­
co. Fu una stagione di martiri. Ciò pose problemi gravissimi alla fede
di Israele, che si domandava come fosse possibile che i martiri aves­
sero una sorte uguale a quella dei persecutori. Il problema era sem­
pre un problema di Dio: come può permettere tale situazione? La
sua fedeltà inconcussa verso il popolo viene allora estesa al destino,
dopo la morte violenta, dei martiri e dei fedeli. Nasce così la speran­
za nella risurrezione, cioè nella creazione di una nuova vita, per i
martiri e i fedeli (cf. Dn 12,2 e 2Mac 7, che però è un testo apocrifo
per la tradizione ebraica). La morte coglie tutto l'uomo e la risurre­
zione è la risurrezione di tutto l'uomo, anima e corpo.
Accanto a questa fede nella risurrezione dei martiri e dei fede­
li, che sarà portata avanti dalla corrente farisaica, c'è però nel Libro
della Sapienza la risoluzione del problèma su un'altra linea, l'immor­
talità beata dei giusti: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio,
nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che moris­
sero, la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una
rovina, ma essi sono nella pace>> (3,1-3). Vedi anche 4,7.14: <<Il giusto,
anche se muore prematuramente, troverà riposo ( . . . ). La sua anima
fu gradita al Signore, perciò Egli lo tolse in fretta da un ambiente
malvagio>>.
E ai miscredenti si attribuisce proprio la negazione di un futuro
positivo oltre la morte: «Non conoscono i segreti di Dio; non spera­
no salario per la santità né credono alla ricompensa delle anime
pure>> (2,22).
Il loro destino eterno perciò, a differenza di quello felice delle
anime dei giusti, sarà del tutto negativo: cadranno in braccio alla
Vtta etemiJ e risurrezione della carne nel Nuovo Testamento 215

morte eterna e confesseranno la loro stoltezza di beffeggiatori dei


buoni e di infedeli alla legge divina (cf. 1 ,16; 3,12). Le soluzioni teo­
logiche cercate all'interno della fede sono sempre soluzioni che pre­
suppongono un'antropologia. Dietro alla fede nella risurrezione c'è
una concezione antropologica che vede nell'uomo un'unità stretta,
anche se poliforme, complessa, per cui la morte coglie tutto l'uomo
e la risurrezione coglie la totalità dell'uomo. Nel nostro linguaggio,
che invece è di derivazione dualistica, dovremmo dire che muore
l'anima e il corpo e Dio resuscita l'una e l'altro. Invece nei circoli
ebraici della diaspora dell'Egitto in dialogo culturale con il mondo
greco (che dal punto di vista antropologico era caratterizzato in
senso dualistico, per cui l'uomo è un io interiore e cosciente e questa
sua presenza nella carne è una presenza indifferente se non negati­
va) il problema teologico si poneva diversamente. La morte non è
più una realtà catastrofica, ma il distacco dell'io interiore dalla sua
terrestrità e può addirittura essere oggetto di speranza e di deside­
rio. Il problema tuttavia è ancora quello della giustizia di Dio: nasce
così la persuasione che il destino sarà diverso (giustizia retributiva di
Dio che fa sì che il destino ultimo dei buoni venga diversificato da
quello dei cattivi). Se il destino è diverso, la percezione antropologi­
ca sottostante è quella dell'immortalità dell'anima. Il destino diver­
so consiste poi nel fatto che l'anima dei malvagi riceverà da Dio il
castigo, un'immortalità infelice, mentre l'anima del giusto riceverà
un'immortalità beata. Va notato che la soluzione teologica non con­
siste nell'immortalità dell'anima: quest'ultima è il quadro antropolo­
gico. La soluzione teologica afferma che Dio concede la beatitudine
ai giusti e il castigo ai malvagi.

3. GEsù

Per un certo verso egli riproduce la tradizione farisaica, cioè la


credenza nella risurrezione (Mt 7,13-14; 8,1 1 ; Le 16,19-31; Mc 12,18-
27 e parr.). Nella corrente ebraica Gesù aveva una posizione pro­
gressista. Ma oltre a confermare la presenza di questa corrente pro­
gressista, rappresenta anche un elemento abbastanza interessante e
innovativo, non tanto rispetto al filone della risurrezione e della vita
eterna, bensì rispetto al problema della prospettiva del Regno. Que-
216 Cllpitolo 22

sto ci conferma la riduttività di parlare dell'éschaton con le sole cate­


gorie di risurrezione e vita eterna. Sull'éschaton infatti Gesù assume
una posizione originale, non nel senso dell'éschaton come speranza
nel destino ultimo della storia e del mondo, ma come problema glo­
bale della storia. Egli ha incentrato le attese nella regalità di Dio. È
un'accentuazione escatologica: la regalità futura di Dio è l'attesa che
Dio renda giustizia a quelli che non hanno giustizia nella storia.
Secondo me al di sotto di tutta la fede ebraica sta una sete enorme
di giustizia per l'umanità e per la storia. Questa giustizia ultima, atte­
sa da Dio, per Gesù diventa oggetto del suo lieto annuncio. Attesa

non in un tempo indeterminato, ma in un tempo vicinissimo, prossi­


mo. In questo Gesù si trova sulla stessa linea degli apocalittici, che
attendevano la regalità di Dio in tempi molto ravvicinati. La sua ori­
ginalità consiste invece in un secondo elemento: questa regalità fina­
le, definitiva, perfetta di Dio si anticipa realmente nella storia.
L'éschaton quindi non è più separato dalla storia, ma entra nella sto­
ria. Originalità che non contrappone questo mondo al mondo che
viene, ma opera questa singolare commistione tra storia ed escatolo­
'gia (come emerge da moltissime parabole di Gesù).
Questo è importante, perché noi possiamo sperare di una spe­
ranza fondata e non di un'utopia, se speriamo in ciò che è già inizia­
to, cioè nella fioritura del germe. Rendere conto della speranza è far
germinare questa giustizia definitiva di Dio nella storia, per cui si
possa sperare nella fioritura del deserto. Altrimenti la nostra sareb­
be un 'utopia, una fuga in avanti, provocata da sensi di depressione.
La germinazione parziale nella storia è il segno della germinazione
totale. I rapporti tra storia ed escatologia non sono quindi rapporti
di cesura, ma l'escatologia, sia pure parzialmente, è già entrata nella
storia e la storia è già aperta verso il futuro: il futuro finale, quindi,
viene già incontro alla storia. In Gesù la percezione dell'éschaton
che già germina nella storia passa attraverso la sua mediazione sto­
rica: Dio comincia a diventare re nella storia attraverso la mediazio­
ne di uomini, di Gesù, dei suoi discepoli. Cf. Le 11,20: «Se è con il
dito di Dio che scaccio i demoni vuoi dire che la regalità di Dio è
venuta su di voi>>. Solo facendo germinare questo éschaton nella
nostra esistenza e nella storia possiamo rendere conto a noi stessi e
agli altri della speranza dura, contro ogni speranza, legata al «dito
Vua eterna e risurrezione della rome nel Nuovo Testamento 217

di Dio>>, di quel Dio che chiama il nulla all'essere e che resuscita i


morti a nuova vita.

4. TESTIMONIANZA DI PAOLO E DI GIACOMO

Vengo direttamente al nostro tema. Nel Credo si parla di risur­


rezione della carne, ma nel Nuovo Testamento non c'è un'espres­
sione di questo tipo: c'è la risurrezione dell'uomo. Paolo parla di
risurrezione del soma (corpo) per indicare anche la dimensione ter­
restre, corporea, ma non parla mai di risurrezione della carne. Egli
ha affrontato esplicitamente il problema della risurrezione anzitutto
nella Prima lettera ai Tessalonicesi (4,13-18). La morte di alcune per­
sone appartenenti alla comunità aveva provocato profonda afflizio­
ne e tristezza, perché la morte veniva identificata con la loro perdita
definitiva. Questo ci fa supporre che a Tessalonica Paolo non avesse
parlato della risurrezione. Inoltre non aveva detto che, siccome Gesù
sarebbe venuto a breve scadenza, la soluzione della speranza era il
«rapimento>> nei cieli. Gesù risorto sarebbe tornato entro breve
tempo e li avrebbe presi e portati nel suo regno, senza passare attra­
verso la morte. C'era infatti la persuasione diffusa che, essendo Cri­
sto risorto e avendo vinto la morte, la morte fosse già vinta anche per
i suoi, nel senso che li avrebbe rapiti e non li avrebbe fatti passare
attraverso la morte. I problemi sul futuro quindi erano complicatis­
simi. Il rapimento dei credenti viventi è la prima espressione della
speranza cristiana nel Regno. La comunità di Tessalonica di fronte
alla morte di alcuni dei suoi viene invece presa dal panico. Paolo è
costretto a intervenire e la sua soluzione è ancora quella del rapi­
mento. La posizione di questi viventi, tuttavia, non è migliore rispet­
to a quella delle persone che sono morte perché la prima cosa che
Cristo farà al suo ritorno sarà quella di resuscitare i morti. Poi tutti
saranno rapiti. La risurrezione quindi è solo la condizione necessaria
perché tutti, e non solo i viventi, siano rapiti, in modo da essere sem­
pre con il Signore. In tal modo Paolo costruisce un linguaggio della
speranza cristiana, di una speranza qualificata perché poggia sulla
solidarietà con Cristo attraverso la fede (l Ts 5): la comunione con il
Signore, oggetto della speranza, è così iniziata.
218 Capirolo 22

Il secondo testo paolino da considerare è la Prima lettera ai


Corinzi (c. 15). Qui il problema è ancora più radicale, perché a
Corinto c'è una negazione netta della risurrezione. Nella Chiesa
corinzia esisteva infatti un'ala di dualisti e spiritualisti che sostene­
vano di essere già degli «arrivati>>; che attraverso Cristo tutto era già
avvenuto per loro, almeno limitatamente al loro io interiore. Per
questi la morte non era qualcosa di drammatico, ma l'abbandono del
cascarne corporeo e il conseguimento di una vita purissima con Dio.
La negazione della risurrezione dei morti sarebbe quindi la negazio­
ne di un futuro, perché tutto il futuro è già nel presente. È una visio­
ne limitata, perché decurta l'uomo togliendo di mezzo la sua dimen­
sione corporea. Paolo sottolinea l'elemento comune a tutti: la fede in
Cristo morto e resuscitato (1Cor 15,1-11). Egli ripete qui il Credo
primitivo, quello della Chiesa di Antiochia. La sua creatività teologi­
ca consiste nel mostrare le irnplicanze del Credo, della fede in Cristo
morto e risorto. Tale irnplicanza è la speranza nella risurrezione.
Dice: se noi siamo d'accordo che Cristo è resuscitato, se si proclama
nel kérygma che Cristo si trova nella condizione di resuscitato da
Dio, allora c'è contraddizione in chi crede all'annuncio evangelico e
afferma che non si dà risurrezione dei morti. La dimostrazione di
ciò: c'è un nesso necessario tra la confessione di fede nella risurre­
zione di Cristo e la speranza nella risurrezione dei morti. In concre­
to Paolo dapprima mostra le conseguenze inaccettabili della rottura
di questo collegamento: se non si dà risurrezione dai morti, allora
neppure Cristo è resuscitato, perché l'una situazione comporta l'al­
tra. E se Cristo non è resuscitato, il kérygma è vuoto di contenuto
salvifico, perché esso presenta la risurrezione di Cristo come evento
salvifico; e, ancora, vuota è la fede e noi siamo dei falsi testimoni.
Inoltre tutto ciò comporterebbe la perdizione eterna per quanti già
sono morti. Paolo torna quindi ad affermare la risurrezione di Cristo
dai morti. Non è però una ripetizione, perché ora egli spiega il colle­
gamento tra la nostra risurrezione e quella di Cristo. Cristo, dice, non
è resuscitato come caso singolo, ma come aparché, come «primizia>>
dei morti, cioè come il primo di una serie. Ma non c'è solo un rap­
porto tra prima e poi, c'è un rapporto più intrinseco: noi saremo
resuscitati non solo dopo che lui è resuscitato come primo e noi
come secondi, ma noi saremo resuscitati in forza di lui, e qui Paolo
Vita eterna e risurrezione della come nel Nuovo Testamento 219

assume dalla cultura del tempo l'interpretazione teologica di


Adamo, come il principio attivo della morte, morte nel senso di
distacco definitivo da Dio. Tale assunzione, però, è solo un espedien­
te argomentativo. Paolo intende, cioè, rendere plausibile la connes­
sione che noi affermiamo nella fede tra la risurrezione di Cristo e
quella degli uomini. È plausibile che uno, uno solo influisca positiva­
mente sulla totalità, perché esiste un altro caso in cui uno ha influi­
to su tutti in senso negativo (Adamo), cioè quanto alla morte. Il pro­
blema, infatti, è il rapporto tra uno e tutti: Paolo afferma la solida­
rietà tra Gesù risorto e l'umanità. Il legame viene affermato sulla
base di una fede in Cristo per cui cogliamo lui come la «primizia>> e
il principio attivo dei risorti: Gesù è il risorto e il resuscitatore.
Paolo aggiunge che la speranza nella risurrezione non solo è
fondata sulla risurrezione di Cristo e sulla potenza resuscitatrice del
risorto, ma anche sulla signoria di Cristo e, da ultimo, sulla regalità di
Dio. La morte, le potenze della morte sono i veri nemici di Cristo e
di Dio che le devono vincere se vogliono regnare.
In 15,35ss. Paolo affronta poi un problema che nessuno ha trat­
tato nel Nuovo Testamento: si chiede cosa voglia dire la risurrezione
dei corpi. Il problema non è della carne. Per Paolo sarx significa la
caducità dell'uomo, la sua fragilità e mortalità. Il secondo significato
che Paolo attribuisce al termine «carne>> si ha quando indica il dina­
mismo della carne: qui l'accezione è peggiorativa, indicando quel
dinamismo egocentrico che possiede l'uomo chiuso in se stesso.
Soma (corpo), per Paolo, significa tutto l'uomo nella sua relazionali­
tà essenziale ed elementare. L'uomo è soma, non l'uomo ha un soma.
Il soma è la struttura basica dell'uomo, perché dove c'è uomo c'è
soma e dove non c'è più soma non c'è più uomo. Relazionalità essen­
ziale: relazionalità a Dio, agli altri, al mondo. Quando tale relaziona­
lità è vissuta esistenzialmente in senso negativo, negando Dio come
creatore, gli altri come fratelli, idolatrando il mondo, allora l'uomo è
soma sarchico, cioè «corpo carnale>>. Quando invece la relazionalità
è vissuta positivamente nell'accoglienza di Dio come Signore nostro,
della propria creaturalità, degli altri come fratelli e del mondo come
realtà da riconoscere, non da idolatrare, allora l'uomo è soma pneu­
maticon, cioè corpo spirituale. Corpo spirituale sta a significare la
relazionalità animata dallo Spirito. Quando questa relazionalità è
220 Capitolo 22

animata completamente e totalmente dallo Spirito abbiamo la risur­


rezione, che è la pneumatizzazione totale del soma: una relazionali­
tà piena, positiva, completa, perfettamente riuscita. Infine egli si cura
di precisare la sorte di quelli che saranno vivi il giorno ultimo della
parusìa di Gesù. Se nella l Ts si era limitato a parlare del loro rapi­
mento. ora, invece, avendo colto la radicalità della potenza dello Spi­
rito che vivifica il soma, afferma che i morti saranno resuscitati nel
senso di pneumatizzazione del loro soma e quelli che saranno vivi
saranno trasformati dallo stesso Spirito.
Alla fine Paolo può cantare un inno di vittoria contro la morte.

Esaminiamo ora la Lettera ai Filippesi: in 3,20-21 Paolo afferma


che il nostro diritto di cittadinanza (politéuma) è nei cieli, «dal quale
noi aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo che trasfigure­
rà il corpo della bassezza nostra rendendolo conforme - causalità
esemplare - al corpo suo glorioso, secondo l'energia e la potenza che
lui ha di sottomettere a sé tutte le cose>>. Vi emerge la speranza come
attesa. In Paolo la speranza ha tre qualifiche fondamentali: l'attesa,
la fiducia in Dio nella sua promessa e la costanza nel presente in
vista del futuro. Qui afferma che l'oggetto dell'attesa è la venuta di
Cristo come salvatore: la salvezza consiste in questo processo di tra­
sfigurazione e l'oggetto di tale trasfigurazione, come abbiamo già
visto, è il soma, che è la relazionalità basica dell'uomo. Questa rela­
zionalità, che noi al presente viviamo in forma umiliata, verrà trasfi­
gurata in modo che noi possiamo viverla secondo una dimensione
gloriosa, a immagine della relazionalità gloriosa del risorto. Filippe­
si esprime quindi la causalità esemplare ed efficiente di Gesù.
Thtti i testi paolini esaminati finora si collocano nella prospetti­
va «parusiaca>>. Ce ne sono invece due (Fil 1,21-24 e 2Cor 10,1-10) in
cui la prospettiva di Paolo è diversa. A un certo punto (dopo alcune
esperienze altamente drammatiche accadutegli a Efeso) incomincia
a pensare che potrebbe morire prima della parusìa e gli si presenta
un nuovo problema. Quando scrive ai filippesi è in carcere e attende
la sentenza: in questa condizione incomincia a pensare cosa gli sa­
rebbe convenuto maggiormente: se essere liberato o morire (Fil
1 ,21-22). E afferma addirittura di desiderare una sentenza capitale,
perché per lui il vivere è Cristo. Se prima puntava tutto sulla paru-
Vita etenw e risu"ezione della carne nel Nuovo Testamento 221

sìa, ora arriva a puntare moltissimo sul presente. La parusìa diventa


così meno importante, perché Paolo si accorge della ricchezza del
presente e una buona dose della novità del futuro viene vista nel
presente. Questo percorso sarà massimamente sviluppato da Gio­
vanni. Se il vivere è Cristo, il morire, dice Paolo, diventa un guada­
gno, anche se la morte resta sempre l'estremo nemico. Continuare a
vivere invece vuoi dire far fruttificare la sua esistenza in senso mis­
aionario. Paolo è conteso tra il proprio vantaggio personale e il van­
taggio della comunità. Qui non c'è più il problema della risurrezione
e nemmeno della parusìa. C'è solo il problema della persona di
Paolo di fronte alla morte e la soluzione che dà è quella della comu­
nione con il Signore al di là della morte. Va notato, tuttavia, che que­
sta comunione di vita con il Signore al di là della morte è la stessa
comunione di vita che ha al presente: c'è allora continuità tra il pre­
sente e il futuro personale. Paolo dà una soluzione positiva alla
cosiddetta escatologia intermedia, alla speranza, attraverso la comu­
nione con Cristo, che non è una cosa nuova, perché l'esistenza di cre­
dente è comunione con Cristo, che raggiungerà poi la sua pienezza
oltre la morte. La medesima prospettiva si trova in 2Cor 5, dove
Paolo dice che vorrebbe emigrare dal corpo per abitare presso il
Signore. Questo passo ammette due interpretazioni. L'interpretazio­
ne di Cerfaux, che ritiene che Paolo nel suo processo culturale e teo­
logico sia arrivato sulle posizioni dell'immortalità dell'anima: se
infatti si assume in maniera rigorosa l'espressione «emigrare dal
corpo>>, bisogna parlare di un io interiore. Per poter risolvere il pro­
blema di un destino positivo del credente subito dopo la morte,
Paolo ha dovuto ricorrere alla filosofia dualistica greca e introdurre
surrettiziamente il concetto dell'immortalità dell'io spirituale.
Secondo altri, invece (e io mi trovo su questa linea), Paolo quando
parla di «emigrare dal corpo» intende l'emigrazione dalla situazione
caduca in cui noi viviamo la somaticità. Infatti in questo testo affer­
ma che non vuole essere trovato nudo nella morte, vuole che un
vestito nuovo lo rivesta al di sopra del vestito che ha. Quello che
desidera non è essere denudato (perdita della somaticità), bensì di
essere sopravestito di quella forma della somaticità pneumatica di
cui ha parlato nella Prima lettera ai Corinzi. Ritengo quindi che, sia
in Fil 1,2lss sia in 2Cor, Paolo dia la stessa soluzione che ha dato
222 Capitolo 22

sotto il segno della parusìa al destino dei credenti. Sia nella parusìa
sia immediatamente dopo la morte la soluzione della speranza cri­
stiana è la comunione perfetta con Cristo della nostra somaticità tra­
sformata dallo Spirito.
In Rrn 8,18-25 c'è un allargamento della prospettiva: non è più
solo il caso dei singoli credenti, con il loro destino, ma il futuro dei
credenti è collegato strettamente con il futuro del mondo creato. È
interessante il parallelismo tra il creato inanimato e il destino dei
credenti. I credenti sono in attesa, ma anche il mondo è in spasmo­
dica attesa dell'apocalisse dei figli di Dio, cioè del disvelamento ulti­
mo. Si noti questa solidarietà tra il creato e i figli di Dio. Uomini e
crealo non solo attendono e sperano, ma gemono insieme e soffrono
i dolori del parto, in attesa della figliolanza adottiva e del riscatto del
nostro corpo. La speranza quindi è attesa, fiducia, gemito: straordi­
naria è la solidarietà dei figli di Dio in questa loro speranza dura con
la speranza che è dentro nel mondo creato. Il problema dell'éscha­
ton quindi è visto da Paolo in un quadro così globale che investe
tutto il creato: il senso della storia è proprio quello di un parto dolo­
roso.

Consideriamo ora Giovanni (Vangelo e Prima lettera di Gio­


vanni). Non gli interessa il problema della parusìa. La sua attenzio­
ne è centrata sul presente, non sul futuro. Giovanni opera infatti un
processo di attualizzazione dell'escatologia, estenuando al massimo
le realtà future; afferma un attualismo dell'esperienza della salvezza.
È l'unico ad avere il coraggio di dire che noi abbiamo già la vita eter­
na, la vita del mondo che verrà. Per Giovanni questa vita è già pos­
seduta al presente (Gv 3,36). Non c'è un giudizio finale, ma tutto
avviene al presente (Gv 5,24; 6,51ss; 1 1). La vita eterna consiste
infatti nel credere in Cristo e nell'amare i fratelli: in sintesi egli indi­
ca questo come l'unico comandamento e come la vita eterna stessa
che noi già abbiamo. Credere in Gesù vuoi dire credere nel dinami­
smo di amore che ha mosso Dio nel mandare il Figlio suo e che ha
mosso il Figlio nell'atto donativo della sua vita. Nella Prima lettera,
Giovanni fa un ulteriore passo in avanti quando dice che il credere
in questo gesto di Dio che ha donato il Figlio suo e credere che il
Figlio ha dato la sua vita per noi porta a credere che Dio è amore.
Vita eterna e risurrezioM della carne MI Nuovo Testamento 223

L'essere di Dio si identifica, cioè, con il suo gesto storico, perché tale
gesto è un gesto supremo ed escatologico. Credere a Gesù quindi è
credere all'amore e farsi contagiare da questa medesima dinamica.
La fede si abbina dunque non all'amare Dio, ma all'amare i fratelli,
uscendo da se stessi per incontrare gli altri. Io considero Giovanni
pericolosissimo, mentre Paolo è un teologo più avvertito, più acuto.
Giovanni però è affascinante perché riduce il tutto all'essenziale.
Afferma però anche che «chi mangia di questo pane e beve di que­
sto vino ha la vita eterna e io lo resusciterò nell'ultimo giorno>>. In
Giovanni c'è uno spostamento e una massificazione dell'oggi (e que­
sto è affascinante, però pericolosissimo); Paolo, più equilibrato, arri­
va invece a dire <<per me il vivere è Cristo», ma mantenendo viva l'at­
tesa della parusìa e il senso del riscatto finale del mondo. In Giovan­
ni c'è poi un testo stranissimo in cui distingue le due risurrezioni, per
la vita l'una, per la morte l'altra (Gv 5,28-29; cf. anche At 24.15 e Ap
20,3). Io non credo che questi testi sulla risurrezione futura vadano
considerati spuri (cf. Bultmann): rappresentano il retaggio di Gio­
vanni.

5. SiNTESI

l. Il problema della speranza cristiana e del futuro è un proble­


ma di promessa divina e non di destino umano. Il futuro ci è garan­
tito dalla parola promissoria di Dio che ha avuto anche qualche rea­
lizzazione in Gesù. Dipende dalla parola di Dio che chiama il nulla
all'essere e resuscita i morti, e non dal destino umano, per cui si
pensa che l'uomo sia un essere immortale. La morte infatti è l'estre­
mo nemico che annienta l'uomo. L'enorme frattura della morte è
vinta solo dalla promessa di Dio. In noi quindi non c'è una scintilla
divina, come dicevano gli gnostici: tutto dipende dal fatto che Dio
mantenga la parola.
2. Il problema del futuro e della speranza riguarda i credenti in
Cristo, o, meglio, quelli che sono in Cristo, perché uno potrebbe
anche essere confessante e non credente o credente e non confessan­
te. Il confessante è colui che ha i sacramenti, i segni, ad esempio la
Bibbia, il Credo, la Chiesa . . . I credenti invece sono quelli che aderi­
scono a Cristo, che hanno fede nell'amore. Il futuro è di quelli che
224 Capitolo 22

aderiscono a Cristo e non traguardo immanente che si raggiunge


progredendo sempre più con le proprie forze. Essere «in Cristo»
significa lasciarsi animare dallo Spirito del risorto.
3. Il futuro, l'éschaton è novità rispetto al passato e al presente,
non è un reiterare il presente, un eternizzare il presente, e neppure è
un ritorno al passato, alla nostalgia di un passato in cui l'umanità era
migliore. Non è un nostalgico ritorno alle origini; la speranza è in una
realtà nuova che Dio creerà per noi.
4. Il futuro, che è novità (e potremmo dire novità della giustizia
definitiva di Dio), non è sganciato e diviso nettamente dalla storia e
dal presente nostro. È un futuro che si anticipa proletticamente nel
presente dell'esperienza di fede e di amore. La realtà futura, cioè, già
è sperimentabile nella storia ma sotto forma storica, quindi nella
parzialità, precarietà, limitatezza, eppure nella verità. Ciò porta
Paolo a dire: <<lo vivo unito a Cristo e desidero vivere unito perfet­
tamente a lui». La nostra storia quindi è pervasa dalle forze del
nuovo mondo, perché in essa è presente il principio attivo del nuovo
mondo, lo Spirito, che ne è la primizia. C'è quindi una continuità di
storia ed escatologia.
5. La speranza cristiana riguarda la totalità dell'uomo.
6. Il futuro è, per molta parte, inteso come risurrezione dei corpi,
cioè di tutto l'uomo. Abbiamo però un altro filone, minoritario, che
ha la sua espressione nel Libro della Sapienza (immortalità beata
delle anime), al quale forse ha guardato anche Paolo (2Cor) quando
ha dovuto risolvere il problema-del suo destino. Nella tradizione cat­
tolica quello che era assolutamente minoritario nelle testimonianze
della Bibbia ebraica e cristiana a un certo punto è diventato l'ele­
mento importante. Oggi quindi si ritiene che articulus cadentis aut
stantis ecclesiae sia l'immortalità naturale dell'anima. Il problema
invece è la promessa di Dio, il pendere da questa promessa che
riguarda la totalità dell'uomo e del mondo. La soluzione cattolica,
per concordare questo elemento minoritario dell'immortalità beata,
consiste nel dire, sulla linea dell'escatologia intermedia, che subito
dopo la morte ci sarà l'immortalità beata dell'anima per i giusti e alla
fine ci sarà anche la risurrezione dei corpi, che però diventa cosl
assolutamente marginale. È una soluzione concordistica, mentre io
ritengo che ci sia da scegliere e la scelta è fin troppo evidente. Tutto
Vita etef7Ul e risurrezione della carne nel Nuovo Testmnento 225

ciò quindi vuoi anche dire che il tematizzare la speranza è un proble­


ma delicatissimo perché noi nell'éschaton pieno non ci siamo ancora
stati. Dobbiamo quindi essere molto parchi in questo e cogliere gli
elementi fondamentali: la promessa dì Dio e i caratteri del futuro
nuovo.
23.
LA «VOSTRA GIUSTIZIA».
LETTURA DI MATTEO 6,1-6.1 6-18*

Mi sembra importante sottoporre questo brano di Matteo a una


stretta e rigorosa analisi, necessaria per coglierne l'esatto significato.
A questo scopo s'impone il ricorso aUe risorse della critica letteraria
e della storia delle forme (Formgeschichte) del testo che nasconde e,
insieme, disvela diversi livelli di vita. In altre parole, una volta indi­
viduata la struttura e determinato il contesto, si preciserà ciò che
effettivamente Gesù ha inteso dire, si specificherà poi in che senso
l'evangelista ha riletto le parole di Cristo e, infine, verrà introdotto il
discorso interpretativo, indicando la portata provocatoria del testo
nei confronti di noi lettori di oggi.
Certo, tutto questo comporta un lungo e faticoso cammino di
studio, ma solo l'impaziente e il superficiale lo potranno giudicare
una perdita di tempo. Mi pare che il doveroso rispetto per gli scritti
evangelici - ma ciò vale anche per gli altri libri biblici, non escluso
neppure qualsiasi testo antico - obblighi il lettore onesto a piegarvi­
si sopra con costanza e attenzione per ascoltarne la recondita voce e
le sue ricche e molteplici modulazioni.
In breve, oltre all'interesse per i contenuti della pericope mattea­
na, vorrei puntare lo sguardo anche sul metodo della lettura evange­
lica, il cui valore pedagogico e formativo nessuno potrà negare.
Per facilitare il lettore riportiamo qui il testo indicato:

6,1: Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomi­
ni per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa pres­
so il Padre vostro che è nei cieli.

• In Servitium 18(1984)34, 371-381.


228 Capitolo 23

6,2: Quando dunque fai l'elemosina, non suonare la tromba davanti a


te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade per essere
lodati dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricom­
pensa.
6,3: Quando invece tu fai l'elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che
fa la tua destra.
6,4: Perché la tua elemosina resti segreta; e il Padre tuo, che vede nel
segreto, ti ricompenserà.
6,5: Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare
stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti
dagli uomini. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
6,6: Th, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta,
prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti
ricompenserà.
6,16: E quando digiunate, non assumete aria melanconica come gli ipo­
criti che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano.
-.ii In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa.
6,17: Th invece. quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto.
6.18: Perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è
nel segreto; e il padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.

l. L'ARTICOLAZIONE STRUTIURALE DEL BRANO

È anzitutto evidente che il v. l costituisce un'affermazione di


principio, una vera e propria «tesi>>: «Guardatevi dal praticare la
vostra giustizia (dikaiosyne) . . . » (questa è l'esatta traduzione del
testo greco). Dal punto di vista formale, si tratta di un'esortazione,
più propriamente di una messa-in-guardia. Formulata in modo nega­
tivo, mira a escludere l'atteggiamento interiore e l'intenzionalità
della persona religiosa e pia che 'finalizza la pratica religiosa all'af­
fermazione pubblica del suo io. Strumentalizzazione questa della
religiosità e pietà umana di fronte a cui Dio resta senza risposta alcu­
na, completamente muto e assente, perché assente di fatto nell'os­
servante in questione.
Seguono tre applicazioni concrete che prendono in considera­
zione le tre tipiche opere della pietà e religiosità giudaica: elemosi­
na, preghiera, digiuno (cf. vv. 2-4; 5-6; 16-18). L'esortazione generale
a non strumentalizzare il proprio operato religioso si concretizza
dunque nelle tre parallele esortazioni particolari a non strumentaliz-
La «vostra giustizia». Lettura di Maneo 6,1-6.16-18 229

zare i gesti di generosità verso i bisognosi, le preghiere e la prassi


penitenziale. Detto altrimenti, al principio del v. l fa seguito una
minuziosa casistica. Si veda infatti la caratteristica formula che intro­
duce i tre quadri suddetti: «Quando (Otan) fai l'elemosina», «Quan­
do (Otan) pregate», <<Quando (Otan) digiunate».
Si tratta di <<Casi>> significativi, ma non esaustivi. In altre parole,
il valore del principio del v. l, concretizzato nelle tre applicazioni
sopra menzionate, non può essere coartato a questa casistica che
appare puramente esemplificativa. In realtà, ogni espressione di reli­
giosità e pietà cade sotto i colpi della critica di Gesù, non solo quel­
le proprie del giudaismo del tempo, culturalmente situate e circo­
scritte. Ecco dunque aperta la porta al processo ermeneutico o inter­
pretativo, cioè all'evidenziazione del significato attuale delle parole
di Gesù, capaci di interpellare anche i lettori di oggi.
Il brano 6,7-15 invece è una digressione a proposito della pre­
ghiera. In concreto, Gesù insegna qui come bisogna pregare, cioè
senza moltiplicare all'infinito le formule e recitando il Padre nostro.
Come si vede, siamo ben lontani dal problema della strumentalizza­
zione delle pratiche religiose, e quindi la lasceremo fuori del nostro
studio.
Da parte loro, le tre applicazioni casistiche tradiscono un'artico­
lazione del discorso del tutto omogenea e simmetrica; e la formula­
zione dei tre <<casi>> esemplari appare identica. Gesù esorta anzitutto
a non fare l'elemosina, a non pregare e a non digiunare «in modo
ipocrita>>, cioè ostentando se stessi davanti agli altri: «per essere
lodati dagli uomini>> (v. 2); <<per essere visti dagli uomini>> (v. 5); «per
far vedere agli uomini>> (v. 16). Segue l'esortazione positiva a prati­
care le tre opere di pietà e religiosità «in maniera segreta>>, nella più
assoluta discrezione: «la tua elemosina resti segreta>> (v. 4); «prega il
Padre tuo nel segreto>> (v. 6); <<la gente non veda che tu digiuni, ma
solo il Padre che è nel segreto>> (v. 18).
Lo schema soggiacente è senz'altro quello della contrapposizio­
ne tra due modi alternativi di fare l'elemosina, di pregare e di digiu­
nare. A una proposizione negativa infatti segue un'avversativa:
«Non . . . ma>> (Mé . . . de oppure Ouch . . de). In realtà, Gesù presenta
.

due tipi opposti di praticante: chi ricerca se stesso e la sua glorifica­


zione esibendosi davanti agli altri, e chi invece compie queste opere
230 Capitolo 23

di pietà per se stesse, per quello che sono, espressioni di obbedienza


al volere del Padre e di riconoscimento di Dio.
Infine Gesù indica le opposte conseguenze che derivano dalle
suddette antitetiche modalità con cui si pratica la religione: chi vi
ricerca se stesso non ha nulla da attendere, perché ha già raggiunto
tutto quello che si aspettava dalla sua pratica; invece chi agisce nella
«Segretezza>> (en t6-i krypt6-i, en t6-i kryphai6-i) riceverà dal Padre
celeste la ricompensa (misthos). In altre parole, il primo tipo di pra­
ticante non ha alcun futuro positivo davanti a sé, mentre il secondo
riceverà la salvezza da Dio in risposta al suo operare autenticamen­
te religioso.
A scanso di equivoci, diciamo subito che la ricompensa divina
non è qui lo scopo perseguito dal praticante, ma il risultato della sua
obbedienza al volere di Dio, vissuta come tale.

2. IL CONTESTO LETTERARIO

-�· L'affermazione di principio del v. l verte sul tema della dikaio­


syne o della «giustizia>>, parola magica del primo evangelista che
vuoi dire effettiva fedeltà a Dio. Giusto è per Matteo colui che fa la
volontà del Padre celeste. Cf. a proposito 3,15, in cui Cristo dichiara
al riluttante Giovanni Battista di non esitare a battezzarlo, perché
tutti e due devono «fare ogni giustizia>>, cioè compiere perfettamen­
te la volontà di Dio. Il c. 6 del primo vangelo continua così il motivo
tematico del c. 5, appunto quello della «giustizia». Si veda in partico­
lare 5,20: <<Poiché vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella
degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli>>, che fa da
titolo alle successive sei antitesi di 5,21-48. Gesù intende insegnare
una nuova «giustizia>> o fedeltà religiosa ed etica necessaria per la
salvezza. A questo fine autorevolmente disvela, in modo esemplifi­
cativo, i veri contenuti delle esigenze divine nei confronti degli
uomini. In concreto, egli radicalizza quanto YHWH aveva prescritto
e proibito nell'AT, precisamente i comandamenti: non uccidere, non
commettere adulterio, non divorziare, non spergiurare, occhio per
occhio e dente per dente, ama il prossimo tuo.
Ma se nel c. 5 il tema della dikaiosyne o della «giustizia>> è
affrontato dal punto di vista contenutistico (le parole di Gesù indi-
Lo «vostra giustizia». Lettura di Matteo 6,1-6.16-18 231

cano sin dove arriva il volere esigente di Dio), nel nostro brano Cri­
sto intende evidenziare non l'oggetto della «giustizia>>, bensì il
«come>> deve essere praticata; l'interesse cade direttamente sul sog­
getto operante, precisamente sulla sua intenzionalità: a chi e a che
cosa egli deve finalizzare il suo operato? Nel nostro brano dunque è
in primo piano la soggettività di colui che pratica la religione, osser­
vandone i riti e adeguandosi ai relativi codici comportamentali.
Da contesto più ampio, invece, funge il discorso della montagna,
in cui Matteo ha raccolto l'insegnamento di Cristo avente valore
programmatico per l'esistenza dei credenti, che l'evangelista ama
qualificare con il vocabolo di «discepoli>>. Si veda a questo proposi­
to la scena introduttiva del discorso: «Vedendo le folle, Gesù salì
sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepo­
li. Prendendo allora la parola, li ammaestrava (edidaschen) dicen­
do . . . >>. L'uditorio vero e proprio è costituito dai discepoli, che egli ha
chiamato vicino a sé; la folla presente è solo sullo sfondo, lontano. Il
particolare poi di Gesù che si siede per parlare indica che siamo di
fronte a una parola <<magisteriale>>, a un insegnamento autorevole.
Infine, il verbo insegnare (didaschein), qui usato, serve a Matteo per
qualificare il discorso di Cristo come rivelazione della volontà esigi­
tiva di Dio. Certo, questi aveva già parlato neii'AT, ma non in modo
definitivo. È Gesù messia che ora ne disvela in pienezza il volere.
Sul piano metodologico ne consegue che il tema del nostro
brano postula di essere colto in profondità anche alla luce di questo
vasto contesto del discorso della montagna.

3. L ANIMA DELL'ESORTAZIONE DI CRISTO


'

Dai vangeli risulta con assoluta certezza che spesso il maestro di


Galilea entrò in polemica con i dottori della legge e con i farisei, rim­
proverando ai primi un'interpretazione legalistica e disumanizzante
della legge divina dell'AT e ai secondi un'osservanza ostentatoria ed
esibizionistica dei comandamenti e soprattutto delle tradizioni orali
di matrice rabbinica. A modo suo, per es., Matteo nel c. 23 del suo
scritto ha raccolto e rielaborato un abbondante materiale controver­
sistico della tradizione evangelica. Ma anche Luca appare qui testi­
mone valido, anzi più fedele di Matteo al dato storico, avendoci con-
232 CapiJolo 23

servato diverse invettive di Cristo: «Guai a voi, farisei!», «Guai a voi,


scribi!>> (11 ,37-54).
ll nostro brano sembra ottimamente inquadrato in questo contesto
vitale e manifestare un tratto caratteristico della critica impietosa di
Gesù rivolta ai pii e boriosi osservatori del suo tempo, che tutto porta a
collocare nel campo farisaico. A questo riguardo, si veda la qualifica di
«ipocriti>> con cui Gesù bolla qui l'osservante esibizionista; lo stesso
vocabolo che ricorre nelle invettive di Mt 23 e soprattutto nel detto:
«Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l'ipocrisia>> (Le 12,1 ). Inoltre è
risaputo che erano farisei i fedeli osservanti delle tre classiche opere
della pietà giudaica, già menzionata per es. in Th 12,8: <<Buona cosa è la
preghiera con il digiuno e l'elemosina con la giustizia>>. Di fatto, al
tempo di Cristo l'elemosina, la preghiera e il digiuno costituivano set­
tori privilegiati in cui eccelleva lo zelo dei farisei che, non contenti di
osservare i comandamenti di Dio, spingevano il loro impiego a compie­
re pie opere supererogatorie, liberamente scelte. Per es., se il digiuno
era obbligatorio per gli israeliti una sola volta all'anno, appunto duran­
te la festa del Kippur o dell'Espiazione, i farisei digiunavano due volte
la settimana. Uso questo che spiega benissimo la domanda-rimprovero
fatta a Cristo: <<Perché i discepoli di Giovanni e i discepoli dei farisei
digiunano, mentre i tuoi discepoli non digiunano?» (Mc 2,18 e parr.).
Altrettanto si dica dell'elemosina, largamente praticata dai farisei che
seguivano in questo l'insegnamento tradizionale dei maestri o rabbini,
e della preghiera, cui essi si dedicavano almeno tre volte al giorno.
Individuato il fronte polemico delle parole di Cristo, appare ora
necessario determinare ciò da cui egli esorta a prendere decisamen­
te le distanze. Diciamo subito c@ non è qui propriamente in questio­
ne la pura e semplice vanagloria; ben più grave appare il <<ViziO>>
denunciato da Gesù: ridurre la pratica religiosa a strumento di esal­
tazione del proprio io; inserire di forza nella propria osservanza un
fine estraneo, personalistico, snaturando così l'opera compiuta. In
concreto, l'elemosina è un gesto di aiuto ai bisognosi avente per
scopo di alleviarne la pena. Nella preghiera ci si rivolge a Dio per
lodarlo, ringraziarlo e supplicarlo. Il digiuno è una forma rituale di
penitenza, segno di riconoscimento del proprio peccato e di penti­
mento per le proprie colpe. Ora queste finalità intrinseche delle sud­
dette opere di pietà vengono disattese, addirittura di forza escluse da
La «vostra giustizia». Lettura di Maneo 6,1-6.16-18 233

chi le osserva da «ipocrita>>, creandosi un pubblico ed erigendo un


alto piedistaUo al monumento della sua personalità.
Non solo: disatteso ed escluso finisce per essere anche l'aspetto
religioso inerente alla genuina pietà giudaica e veterotestamentaria
che pratica l'elemosina, la preghiera e il digiuno, come del resto
qualsiasi altra manifestazione della religione jahvistica, quali gesti di
obbedienza a Dio e al suo volere, forme di concreta accettazione
della signoria di YHWH, partner del patto sinaitico. Nella prassi
degli «ipocriti>> denunciati da Gesù, invece, Dio è totalmente assen­
te, perché tutta l'attenzione del pio osservante esibizionista è rivolta
a se stesso, all'ostentazione del proprio io. Chi fa l'elemosina, prega
e digiuna così è una persona introflessa, piegata del tutto su di sé e
china ermeticamente sulla fortezza inaccessibile del suo egocentri­
smo. In breve, un microcosmo senza porte né finestre. La sua azione
scade cosi a monotono monologo, privata con violenza della sua
essenziale dimensione di dialogo con Dio e, nel caso deU'elemosina,
con il prossimo bisognoso che stende la mano chiedendo aiuto.
In breve, questa è l' «ipocrisia» di cui parla qui Gesù. Segue quin­
di l'alternativa a questo comportamento e atteggiamento, indicata
da Gesù con l'espressione: fare l'elemosina, pregare e digiunare «nel
segreto» (en to-i krypto-i, en to-i kryphaio-i). Non si pensi che tutto
si esaurisca nell'esigenza di segretezza, riservatezza e discrezione, in
un fare confinato nell'isolamento del singolo, lontano da occhi indi­
screti, in una pratica individualistica e priva di qualsiasi aspetto
socializzante. In realtà, Gesù vuole che la pratica religiosa sia pura
da ogni contaminazione del culto del proprio io e che l'opera venga
compiuta per ciò che è, espressione di obbedienza al volere di Dio e
gesto rispettivamente di generosità, di fede e di penitenza. In questa
direttrice esegetica conduce l'espressione plastica: «non sappia la tua
sinistra ciò che fa la tua destra>> (v. 3), nonché la contrapposizione
alla pratica «ipocrita». L'autentico praticante definito dalle parole di
Gesù è la persona estroflessa, che esce dall'idolatria del proprio io e
dialoga realmente con Dio e con gli altri.
Il criterio di valutazione poi che permette a Gesù di denunciare
gli «ipocriti>> e di proporre alternativamente la prassi di chi fa l'ele­
mosina, prega e digiuna «nel segreto>>, è sorprendentemente quello
deUa remunerazione o ricompensa (misthos). L'«ipocrita>> ha già rice-
234 Capitolo 23

vuto la sua ricompensa, dice Cristo; cioè ha esaurito tutte le sue atte­
se nell'opera egocentricamente compiuta. Invece colui che agisce «nel
segreto>> riceverà la ricompensa da Dio, vale a dire la salvezza finale.
È inutile nascondercelo: questo motivo della ricompensa ci crea
difficoltà. Ci sembra infatti che sia più nobile l'etica di Kant del fare
il bene per amore del bene, mentre la prospettiva di Cristo ci appa­
re utilitaristica, imperniata sullo scambio del «do ut des>>, racchiusa
in una logica del «profitto» spirituale. Certo, Gesù si differenzia da
Kant, ma perché, a differenza di quest'ultimo, egli conosce un rap­
porto personale con il Dio creatore della vita, che si impegna in un
dialogo fecondo con l'uomo religioso, è capace di risposte fruttuose
all'agire genuino della persona obbediente al suo volere. In altri ter­
mini, per Cristo l'agire etico e religioso autenticamente vero dell'uo­
mo è creativo di vita, costruttivo di futuro, capace di condurre al tra­
guardo della piena realizzazione dell'uomo.
Già sopra si è precisato che la ricompensa divina non è il fine
dell'agire positivo del praticante, bensì solo la conseguenza. Se la
genuina pratica religiosa dell'uomo lo apre dialogicamente a Dio,
appare logico che questi risponda al suo gesto espressivo di obbe­
dienza, e risponda da Dio munifico che elargisce i suoi doni con lar­
ghezza, al di là dei meriti umani. Tale in realtà è la ricompensa di cui
Gesù parla qui e in altri passi evangelici.
Ci resta da precisare il «voi>> a cui Gesù ha rivolto la sua esorta­
zione. Suo diretto interlocutore può essere stato o la ristretta cerchia
dei discepoli che Io avevano seguito come maestro, oppure più in
generale la «folla>>, come dicono abitualmente i vangeli sinottici . . .
Scegliere tra le due ipotesi ci sembra,�ifficile. Forse è preferibile la
prima eventualità. In ogni modo, non sembra un insegnamento valido
solo per i pochi che lo hanno seguito, beneficiari di una particolarissi­
ma vocazione e possessori di uno speciale carisma. In realtà, la sua
parola coglieva ogni persona religiosa e pia del suo ambiente giudai­
co e del suo tempo, da lui chiamata a un'autentica e genuina pratica.

4, LA REDAZIONE DI MA1TEO

All'iniziativa del primo evangelista si deve l'intestazione dei tre


«casi>> presi in considerazione da Gesù, messi dall'evangelista sotto
La «vostra giustizia». Lettura di Matteo 6,1-6.16-18 235

il principio generale del non strumentalizzare la propria «giustizia>>


(v. 1). In questo modo, come si è visto sopra, Matteo ha collegato
strettamente queste parole di Cristo particolari e culturalmente con­
dizionate al tema della «giustizia» del c. 5, centrale nel discon;o della
montagna dei cc. 5-7 e, più in generale, allo stesso discorso del monte.
Ora tale contestualizzazione redazionale serve anzitutto a Mat­
teo per estendere le parole di Gesù al più vasto ambito delle mani­
festazioni operative della <<giustizia», evitando che siano limitate alle
tre classiche opere della pietà giudaica. Inoltre Matteo in questo
modo specifica che l'esortazione suddetta di Gesù costituisce un
momento della sua attività di rivelatore escatologico, cioè definitivo,
del volere del Padre e delle sue esigenze valide nella svolta epocale
che il tempo ha segnato con la venuta di Cristo. L'insegnamento di
Gesù è la «nuova» Torà portata dal messia per il nuovo popolo di
Dio che abbraccia giudei e pagani sulla base di una autentica <<giu­
stizia>> o prassi di fedeltà al volere del Padre.
Soprattutto Matteo ha in questo modo chiarito che l'esortazio­
ne di Cristo è destinata ai suoi discepoli, uditori di tutto il discorso
della montagna. Non si deduca però che l'evangelista abbia un par­
ticolare interesse per i discepoli storici di Gesù. In realtà, ai suoi
occhi questi sono figure rappresentative ed emblematiche dei cre­
denti di tutti i tempi. Ci basti qui citare il centro del mandato missio­
nario di 28,18: <<Andate dunque e fate discepoli [miei] tutti i popoli»
(questo il senso esatto del verbo qui usato, matheteusate).
In particolare, Matteo intende chiamare la sua Chiesa degli anni
80 e vivente nella regione antiochena di Siria all'ascolto di queste
parole di Cristo. Egli attualizza così il dato della tradizione evange­
lica, rendendolo parola interpellatrice per i cristiani della sua comu­
nità. E questo da un duplice punto di vista: come polemica attuale
contro il giudaismo rabbinico-farisaico uscito vittorioso dalla disfat­
ta del 70 d.C. e contrastante la Chiesa matteana, ma anche, e forse
soprattutto, come critica al fariseismo strisciante che minava alla
base la sua comunità. Si veda in proposito il c. 23, raccolta di invetti­
ve indirizzate redazionalmente dall'evangelista al fronte esterno del
giudaismo rabbinico-farisaico e soprattutto ai membri interni della
sua Chiesa. In breve, Matteo vuoi dire ad ogni membro della sua
comunità: <<Res tua agitur!>>, Si tratta proprio di te.
236 Capitolo 23

5. INTRODUZIONE AL DISCORSO INTERPRETATIVO O ERMENEUTICO

Il procedimento redazionale di Matteo che ha attualizzato l'in­


segnamento di Gesù per la sua Chiesa ci autorizza a sottoporre noi
stessi oggi alla parola antica, eppure viva e attuale, di Cristo. In par­
ticolare, vi siamo coinvolti come praticanti e osservanti delle
«opere>> della religione cattolica, che certo superano il numero di tre.
Soprattutto il testo analizzato costituisce una severa e autorevo­
le critica alla strumentalizzazione «ecclesiastica>> cui soggiace spesso
la nostra pratica religiosa, lesa a compiere a puntino le <<opere della
chiesa», a esibirle come attestati di appartenenza, costruendoci come
«uomini di Chiesa>>, «gregge>> docile che cammina sotto il vincastro
del pastore più o meno sommo. La volontà del Padre e la sua presen­
za <<nel segreto» sembrano meno importanti, di fatto, che la docilità
alla gerarchia.
Parimenti, Cristo ci si presenta con la sua parola come maestro
di autentica religiosità, cioè di una vita di genuino rapporto con il
Padre celeste, con la sua volontà esigitiva. La pratica religiosa è dia­
logo e deve essere dialogo con lui, dialogo da figli che si comporta­
no come tali, non mossi da secondi fini.
Va da sé poi che il testo matteano mette sotto denunzia tutte le
banali e diffuse strumentalizzazioni della religione e della sua prati­
ca a fini di potere politico o ecclesiastico. Ma non sembra necessario
insistervi più di tanto, essendo le parole evangeliche qui di evidenza
palmare.
Non intendo esaurire il processo interpretativo di questa pagina
evangelica, perché vorrebbe dire avanzare la pretesa di concludere
una ricerca che. per sua natura, res�a sempre aperta, chiudere dietro
ai propri passi una porta attraverso cui i credenti di tutti i tempi sono
chiamati a passare di continuo. Ci è bastato dare alcune indicazioni,
in maniera del tutto esemplificativa. Anche perché non è detto che
sia il biblista il più ispirato ed efficace <<profeta>> proclamatore della
parola di Cristo che è simile a spada tagliente capace di penetrare in
profondità nell'esistenza della persona e chiamarla efficacemente
alla «conversione>>.
24.
«<O VOI LORO».
LETIURA STRUTTURALE DI lCor 15*

Questo metodo assume il testo come è, nella sua materialità,


prescindendo dal soggetto che l'ha scritto e dalle sue tendenze, igno­
rando la situazione storica della sua composizione e i destinatari
concreti a cui è stato indirizzato. Suppone che un testo viva per se
stesso, in modo autonomo e indipendente, quasi fissato in una atem­
poralità o eternità immutabile . . . e tenta di portarne alla luce le strut­
ture profonde, quelle che, inconsapevolmente anche, hanno giocato
l'autore stesso.

l. EsEGESI IN MOVIMENTO

È indubbio: tra perplessità o entusiasmi, comunque non senza


grosse difficoltà, sta nascendo in questi anni una nuova epoca nella
storia dell'esegesi biblica. È segnata dall'entrata in campo delle
scienze umane nella lettura dei testi della sacra Scrittura. Timida­
mente ancora, ma con esigenza di piena legittimità di principio, si
fanno tentativi di approccio etnologico, sociologico, psicologico e
«linguistico>>. Soprattutto nell'area di lingua francese si moltiplicano
di fatto gli incontri, si pubblicano studi specifici, si discute animata­
mente tra fautori del collaudato metodo critico-storico e sostenitori
delle nuove metodologie.
Così nel 1969 l'Associazione cattolica francese per lo studio
della Bibbia organizzò un congresso nazionale con la partecipazione
significativa di P. Ricoeur, A. Vergote e R. Barthes. Gli atti sono stati
pubblicati nel volume Exégèse et herméneutique, Paris 1971. La ten-

• Io Servilium 11(1977)19-20, 128-141.


238 Capitolo 24

denza ermeneutica, l'apporto di dati psicanalitici e saggi di analisi


strutturale di At 10-11 vi si confrontano con il classico metodo della
ricerca storica.
Nel 1971 poi la Facoltà di teologia protestante dell'Università di
Ginevra organizzò due serate consacrate all'analisi strutturale e
all'esegesi biblica con la partecipazione qualificante di R. Barthes e
di M.J. Starobinski e di esegeti classici come Leenhardt e Martin­
Achard. Gli atti sono stati pubblicati sotto il titolo Analyse structu­
rale et exégèse biblique, Neuchatel 1971. Di più vasto respiro è
un'analoga pubblicazione: Exegesis. Problèmes de méthode et exer­
cices de lecture, Neuchatel 1975. Raccoglie le ricerche condotte
durante l'inverno 1972-73 nel quadro di una ricerca organizzata da
diverse facoltà teologiche protestanti.
Due grossi tentativi di analisi biblica con ricorso ai metodi delle
scienze umane sono stati compiuti in Francia, l'uno da P. Beaucamp
sull'AT, con lo studio Création et séparation. Etude exégétique du
chapitre premier de la Genèse, Paris 1969; l'altro di segno chiaramen­
te strutturalista e semiotico da C. Chabrol e L. Marin, Le récit évan­
gélique, Paris 1974.
Infine si raccomanda per lucidità la panoramica che P. Grelot ha
presentato su Nouvelle revue théologique, nei numeri di maggio e
giugno del 1976, dell'esegesi biblica da sempre collocata all'incrocio
delle culture del tempo e oggi confrontata con le scienze umane (cf.
«L'exégèse biblique au carrefour», 416-434 e 481-51 1).

2. INTRODUZIONE ALLA LETIURA STRUTIURALISTA

Mi sembra che una prima perqezione di questo metodo di ese­


gesi possa acquisirsi facilmente confrontandolo con il classico meto­
do critico-storico. Si dice abitualmente che quest'ultimo è un approc­
cio diacronico al testo, mentre quello consiste in una lettura sincro­
nica. Nella prima prospettiva si suppone che il testo sia una realtà
inserita profondamente nella storia, che sia figlio di un tempo e di un
ambiente di vita specifico, cioè nasca come risultato di determinate
tendenze soggettive di uomini che vogliono esprimere il loro mondo
interiore e la realtà esterna che li circonda e che dipendono stretta­
mente da un passato che essi interpretano creativamente o ripetono
«lo voi loro». Lettura strutturale di JCor /5 239

materialmente. Ora il metodo critico-storico indaga tutto questo e


ritiene di poter portare a termine la lettura del testo collocandolo
nel flusso storico come momento significativo. Prendiamo, per esem­
pio, proprio il nostro passo di lCor 15. Si ricercherà la situazione
concreta della comunità di Corinto, caratterizzata da esaltazione
carismatica e da <<entusiasmo>> «spirituale», affetta da tendenze dua­
listiche e individualistiche, influenzata pesantemente dall'ambiente
greco. In rapporto a questo stato di cose si valuterà la risposta di
Paolo, determinando il suo retroterra culturale, la sua eredità di tra­
dizioni ricevute dalla Chiesa primitiva, le sue tendenze teologiche. Si
allargherà anche il quadro di visuale collocando la pagina paolina
dentro l'itinerario teologico dell'apostolo, soprattutto in rapporto
alle sue concezioni escatologiche espresse in 1 Ts e agli sviluppi suc­
cessivi, in particolare alla nuova prospettiva deUa cosiddetta escato­
logia intermedia presente in 2Cor e in Fil. Una visione dunque del
testo interpretato storicamente.
Il metodo strutturalista invece assume il testo così com'è, nella
sua materialità, prescindendo dal soggetto che l'ha scritto e dalle sue
tendenze, ignorando la situazione storica della sua composizione e i
destinatari concreti a cui è stato indirizzato. Si suppone che una volta
uscito dalla penna dell'autore esso viva per se stesso, in modo auto­
nomo e indipendente, quasi fissato in una intemporalità o eternità
immutabile. E se ne ricercano le strutture profonde che lo pervado­
no. <<Testo» è, cioè tessuto di fili che si intrecciano secondo un ordi­
ne preciso e che mostrano, a ben guardarli, un disegno mirabile: il
metodo strutturalista studia appunto con accuratezza estrema e
addirittura con acribia il testo per metterne in luce le connessioni più
segrete e l'ordito sottostante. Se il metodo critico-storico analizzava
il testo per cogliere il soggetto storico che vi sta all'origine, il meto­
do strutturalista analizza il testo in se stesso, al di fuori di ogni sog­
gettività umana dell'autore e dell'ambiente.
In realtà si deve distinguere con accuratezza una lettura struttu­
ralista dallo studio accurato che evidenzia la struttura formale del
testo. Su quest'ultima linea si sono fatti recentemente lavori prege­
voli e si può quasi dire che ci troviamo davanti a una <<moda>> nel­
l'esegesi biblica. Per averne un'idea precisa si veda per esempio lo
studio di A. Vanhoye, La structure littéraire de l'Epitre aux Hébreux,
240 Capitolo 24

Bruges 1963. Si tratta di cogliere la struttura evidente e superficiale


del brano esaminato. Si metteranno così in rilievo parallelismi, inclu­
sioni, ritornelli, mots-crochet, schenti letterari come A B A, oppure
A B C B A, o ancora A B A' B', ecc. Siamo ancora nell'ambito della
classica critica letteraria.
La lettura strutturalista invece tenta di portare alla luce le strut­
ture profonde del testo, quelle che, inconsapevolmente anche, hanno
giocato l'autore stesso. Si tenga presente che questo metodo suppo­
ne che lo scrittore sia fortemente dipendente da strutture linguisti­
che che s'impongono a lui stesso. Lo strutturalismo come filosofia
nega il soggetto e la sua libertà e lo rende strumento in mano a strut­
ture preesistenti e predeterminanti. Si può dire che in questa pro­
spettiva filosofica non è l'uomo a creare una lingua, bensì la lingua
con le sue strutture a creare l'uomo.
A ogni modo, anche prescindendo da «pregiudizi>> filosofici, il
metodo strutturalista gioca tutte le sue carte sul testo obiettivo e
sulle strutture profonde che lo reggono.
Si deve precisare anche che lo strutturalismo è stato finora
applicato, in campo letterario, alla lettura di testi narrativi; ed è in
questo campo che ha dato il meglio di sé. Ora fa il suo ingresso in
campo biblico; ed è sintomatico che la scelta s'indirizzi appunto su
narrazioni e racconti. Quindi lo studio di 1Cor 15, che non è un
brano narrativo, impone difficoltà supplementari. D'altra parte si
nota un'accentuata flessibilità e varietà dei canoni di analisi secondo
che sia questo o quell'autore a dar prova concreta di lettura. Infatti
lo strutturalismo non postula un rigido unidirezionalismo: le struttu­
re di cui il testo è intessuto sono praticamente illimitate e quindi non
è mai finita l'analisi. Non si dim�ntichi poi che nel settore biblico
siamo ai printi timidissimi tentativi.
Il saggio qui presentato con piena e lucida consapevolezza della
sua precarietà e modestia non vuole essere altro che un abbozzo, ten­
tato da chi è più assuefatto al metodo critico-storico che non alle ana­
lisi «linguistiche>>. Lo si consideri un compito scolastico. Dopo tutto i
biblisti sono sollecitati ad andare di nuovo a scuola per imparare l'ab­
biccì di questi metodi nuovi, tipici della cultura odierna, chiamati non
a sostituirsi alla ricerca critico-storica, ma ad affiancarvisi utilmente
per un'indagine sempre più vasta e profonda del testo biblico.
do voi loro». Lenura strunurale di J Cor 15 241

Un'ultima precisazione: mi limiterò a lCor 15,1-22 per facilitar­


mi il compito già per se stesso arduo.1

3. RILEVAZIONI

a) Assumiamo innanzitutto il brano dei vv. 1-11:


Io vi rendo noto, fratelli, il vangelo che vi ho annunziato e che voi avete
ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza,
se lo mantenete in quella forma in cui ve l'ho annunziato. Altrimenti,
avreste creduto invano. Vi ho trasmesso dunque, anzitutto. quello che
anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le
Scritture, che fu sepolto e che è risuscitato il terzo giorno secondo le
Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a
più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi
vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e
quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a
un aborto. Io infatti sono l'infimo degli apostoli, e non sono degno nep­
pure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la chiesa di
Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me
non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però. ma la
grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo
e cosl avete creduto.

In primo piano c'è l'«iO>> di Paolo: nel suo presente di pastore


responsabile della comunità di Corinto («lo vi rendo noto . . . >> ) , nella
sua recente missione apostolica nella città dell'Acaia (« . . . il vangelo
che vi ho annunziato. . . »; «Vi ho trasmesso . . . »), nella sua dipenden­
za fondamentale dalla tradizione della Chiesa primitiva (« . . . ciò che
anch'io ho ricevuto>>), nell'esperienza della sua conversione (<< . . .
[Cristo] apparve anche a me>>), nel suo passato di persecuzione della
Chiesa (« . . . perché ho perseguitato la chiesa di Dio>>), nel suo apo­
stolato impegnatissimo (<<ho faticato più di tutti loro>>) e nel suo
essere apostolo per pura grazia di Dio (<<io infatti sono l'infimo degli
apostoli e non sono nemmeno degno di essere chiamato apostolo . . .
Per grazia di Dio però sono quello che sono>>).

1 Come indicazione bibliografica si può suggerire J. DELDRME, •La résurrection de


J6sus dans le langage du Nouveau Testament•, in Langage de la foi dans /'Ecriture et dans
le monde actue/, Paris 1972, 101·182. 11 nostro tentativo però corre su altri binari.
242 Capitolo 24

Passato e presente collegati in rapporti di continuità e di con­


trapposizione.
Di fronte a lui il «voi» dei corinzi, chiamati fratelli, che hanno
accolto il vangelo e hanno creduto (« . . . che voi avete ricevuto, nel
quale restate saldi>>; «e così avete creduto>>); per questo sono in-cam­
minati verso la salvezza ultima (<<dal quale anche ricevete la salvez­
za>>), a condizione che siano fedeli (� . . . se lo mantenete in quella
forma in cui ve l'ho annunziato»). Anche qui in primo piano una sto­
ria, cioè la vicenda viva di fede dei corinzi nei momenti fondamen­
tali di passato, presente e futuro: passato di accoglienza del vangelo,
presente di fedeltà e futuro di salvezza.
Sull'io di Paolo c'è da fare subito una precisazione: l'apostolo
non è solo nella sua missione evangelizzatrice, bensì ha fatto parte di
un <<noi>> che compie abitualmente la missione cristiana nel mondo
(«così predichiamo>>) e che comprende sia l'io di Paolo sia gli apo­
stoli (<<sia io che loro>>). Paolo non è un cavaliere errante; al contra­
rio è integrato in un <<noi>> apostolico che costituisce il gruppo di
coloro che sono responsabili dell'evangelizzazione perché sono
testimoni della risurrezione di Cristo.
Tra l'io di Paolo e il «noi>> di Paolo unito agli apostoli, da una
parte, e il <<VOi>> dei corinzi è stabilito un rapporto stretto sulla base
del <<Vangelo>> (<<così predichiamo e così avete creduto>>). Esso costi­
tuisce la realtà donata, da una parte, e, dall'altra, accolta. È l'oggetto
di una tradizione, il punto d'incontro tra il gesto di consegna e il
gesto di ricevimento (cf. i verbi greci paradidomi e paralambàno nei
vv. 1-3).
Ma che cos'è questo vangelo? Ecco: <<dre Cristo mori per i nostri
peccati secondo le Scritture, che fu sepolto e che è risuscitato il terzo
giorno secondo le Scritture e che apparve a Cefa e quindi ai Dodi­
ci>>. Riguarda Gesù, non però nel suo essere, bensì nella sua storia
pasquale, riassunta con quattro verbi di azione, di cui tre all'aoristo
(= morì, fu sepolto, apparve) e uno al perfetto (= è risuscitato). Una
storia passata, ma influente ancora al presente, perché è risuscitato:
egli resta nell'oggi il Risorto. Ne segue che l'annunzio dell'io di
Paolo unitamente al <<noi» apostolico assume il carattere di una testi­
monianza (cf. più avanti il v. 15). È implicato un tessuto di vita, di
esperienze vitali. Per questo il testo insiste sulle apparizioni del
•lo voi loro». Lettura strutturale di lCor 15 243

risorto a quelli che poi ne dovranno essere i banditori; per questo


Paolo presenta la sua storia. La Iegittimazione ne dipende. Correla­
tivamente l'accoglienza di fede del «VOi» dei corinzi vuoi dire entra­
re in rapporto di adesione con la storia di Cristo e la storia di Paolo
e degli apostoli che sono i testimoni.
Di che genere è questa storia? Il messaggio cristiano diventa
lieto annunzio ( vangelo), perché la storia di Gesù rientra in un
=

disegno di salvezza profetizzato nelle sacre Scritture deii'AT e in lui


compiuto (e «secondo le Scritture»). E la fede del <<voi>> dei corinzi è
un credere in questo significato salvifico della vicenda di Cristo. Ulti­
ma osservazione: il vangelo di Gesù Cristo morto e risorto, punto
d'incontro tra l'io di Paolo, il «noi>> apostolico e il «VOi>> dei corinzi,
è presentato come dato scontato, ambito di convergenza, base solida
per edificare una costruzione, contrastata a Corinto, che costituisce
il problema nevralgico trattato dal testo.

b) Passiamo all'analisi dei vv. 12-22:


Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come è possibile
che alcuni tra voi dicano che non esiste risurrezione dei morti? Se non
esiste risurrezione dei morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo
non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche
la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro
Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo
ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. Se infatti i morti non
risorgono, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato,
è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quel­
li che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto spe­
ranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di
tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di
coloro che sono morti. Poiché se a causa di un [solo] uomo venne la
morte, a causa di un [solo] uomo verrà anche la risurrezione dei morti;
e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo.

L'«io>> di Paolo si nasconde ora dietro l'attacco portato contro la


posizione negatrice esistente a Corinto. Il testo diventa aggressivo. Si
tratta di sconfiggere la tesi avversaria. Questa viene subito qualifica­
ta come incredibile e impossibile: «Come è possibile che alcuni tra voi
dicano che non esiste risurrezione dei morti?>>. L'io di Paolo qui argo­
menta e ragiona e cerca di essere convincente. Stanti certe premesse,
244 Capitolo 24

dice, la conclusione s'impone. È in questione una coerenza interna, o,


più ancora, una fedeltà all'annunzio evangelico. Potremmo qualificar­
lo come l'io teologico di Paolo, dopo l'io apostolico.
Tra il <<VOi>> dei corinzi si distinguono «alcuni» (tines) che hanno
assunto una posizione particolare sulla risurrezione futura dei morti.
La comunità non è monocorde. Un gruppo si è distaccato. Chi sono?
D testo non offre specificazioni. Forse si trattava dei «forti» (4,10), di
coloro che si gonfiavano di orgoglio e supponenza (4,6.18.19; 5,2), di
«spirituali>> (14,37), di cristiani che ostentavano una gnosi superiore
(8,1.10.11; 12,8) e una libertà illimitata ( 10,29) e disprezzavano i
«deboli>> (8,7.9.10), come appare in tutta la lettera.
Per il resto il <<noi» e il <<voi» dei vv. 1 - 1 1 ritornano qui con le
stesse connotazioni: i primi qualificati dalla predicazione kerygmati­
ca («allora è vana la nostra predicazione») e dalla testimonianza
(«noi risultiamo falsi testimoni di DiO>>); i secondi dal loro credere
(<<è vana anche la vostra fede»; «è vana la vostra fede e voi siete
ancora nei vostri peccati>>). Si aggiunge un «noi>> cristiano generaliz­
zante che comprende tutti i credenti («Se poi noi abbiamo avuto
speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più
4li tutti gli uomini»).
Soprattutto sono in primo piano, collegati con Cristo, «i morti>>.
Si tratta nel brano del loro destino ultimo di vita o di perdizione.
Il brano in realtà è costruito sul rapporto tra risurrezione di Cri­
sto e risurrezione dei morti, più esattamente tra annunzio di Cristo
risorto e speranza nel futuro di risurrezione dei morti. L'io di Paolo
vuole mostrare la connessione inscindibile tra questi due poli, per
cui rinunciare all'uno, come si fa a Corinto�a parte di alcuni, impli­
ca la rinuncia all'altro e, viceversa, l'ammissione del primo include
l'ammissione del secondo.
Dal punto di vista puramente formale è una cascata di preposi­
zioni condizionali: i «Se» non si contano. In concreto, il testo mostra
l'impossibilità della tesi di alcuni corinzi, evidenziandone le conse­
guenze insostenibili. Si tratta di logicità: di una logicità non matema­
tica, né filosofica, ma all'interno di un'esperienza di fede, più propria­
mente all'interno dell'annunzio kerygmatico del vangelo. Non sono
due grandezze obiettive ad essere confrontate per mostrarne il lega­
me necessario, ma da una parte l'annunzio cristiano della risurrezio-
•ID voi loro». Lettura strutturale di l Cor 15 245

ne di Cristo e dall'altra l'esperienza di fede dei corinzi in questo mes­


saggio. Si veda il v. 12: «Ora se si predica (in greco, keryssetai) che Cri­
sto è risuscitato dai morti, come è possibile che alcuni tra voi dicano
che non esiste risurrezione dei morti?>>. L'antitesi insanabile è tra la
predicazione e il dire di alcuni corinzi, predicazione peraltro accolta
nella fede dagli stessi che negano la risurrezione dei morti.
Più a fondo il legame logicamente esistente poggia sullo schema
della corrispondenza tra «uno solo» e «tutti». Il testo infatti mette a
confronto Cristo e i morti rispetto a uno stesso punto di riferimento,
quello della risurrezione. Cristo è risorto; i morti risorgeranno. Da
una parte uno solo, dall'altra la moltitudine dei defunti. Lo schema è
teorizzato nei vv. 21-22, applicato parimenti nel rapporto Adamo­
tutti e in quello, antitetico, Cristo-tutti. L'uno determina la situazio­
ne di tutti per la morte o per la vita.
In base a questa struttura mentale della corrispondenza tra uno
solo e tutti, il testo mostra a che cosa porta, ultimamente, la sua disso­
luzione operata nel dire di alcuni corinzi. «Se non esiste risurrezione
dei morti, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscita­
to . . », seguono tre conseguenze inammissibili: a) vano è il <<nostro»
.

annunzio kerygmatico; b) vana è la «vostra» fede; c) «noi» siamo falsi


testimoni di Dio. Si ripete poi il procedimento: «Se i morti non risor­
gono, neanche Cristo è risuscitato! Ma se Cristo non è risuscitato . . . »,
seguono di nuovo tre conseguenze inammissibili: a) vana è la «vostra»
fede; b) «VOi» siete ancora nei vostri peccati; c) «quelli che sono morti
in Cristo» sono perduti. Si introduce infine una terza serie di proposi­
zione ipotetica: «Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltan­
to in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini». La
protasi qui è una variante del «se i morti non risorgono» e introduce
un «noi» di solidarietà tra Paolo-apostoli-corinzi-tutti i cristiani.
In sintesi, quali sono le conseguenze inaccettabili della rottura
del legame uno-tutti, Cristo-i morti? Lo svuotamento di significato
salvifico dell'annunzio e della fede; la messa in discussione radicale
del «noi» apostolico e del «VOi» dei corinzi; la perdizione eterna dei
credenti morti e la situazione miserevole del «noi» dei cristiani in
generale. Semplificando, la posizione negatrice di alcuni corinzi scal­
za alla base il vangelo annunziato dall'io di Paolo e dal «noi» aposto­
lico e la fede dei «voi» dei corinzi che hanno accolto il lieto annunzio.
246 Capitolo 24

La conclusione trionfante dell'argomentazione teologica è:


«Ora, invece, Cristo è risuscitato, primizia di coloro che sono morti».
È ristabilita la corrispondenza tra uno e tutti. Credere in Cristo risor­
to comporta lo sperare nella risurrezione dei morti. L'incoerenza
presente nella fede di alcuni corinzi è stata smascherata e vinta.
Accogliere il kerygrna di Gesù risorto include l'attesa della risurre­
zione dei morti.

4. STRU1TURE TEOLOGICHE DEL TESTO

Al di là della stessa intenzione di Paolo il testo evidenzia alcuni


schemi o strutture di grande interesse teologico.
a) lnnanzitutto emerge un confronto costante tra l'io di Paolo,
unito al «noi>> apostolico, e il <<voi» dei corinzi. Si tratta della presen­
za di una <<struttura ecclesiale» che specifica tutto il brano: struttu­
ra di carattere vagamente gerarchico, o meglio apostolico. Da una
parte l'apostolo, dall'altra la comunità cristiana. Questa nasce e sus­
siste in un rapporto di dipendenza dall'autorità apostolica di Paolo.
Egli ha annunziato ai corinzi il vangelo, ha testimoniato loro l'avve­
nimento storico salvifico detla morte e risurrezione di Cristo, ha tra­
smesso la tradizione della Chiesa primitiva, cioè il kerygma. Non
solo: interviene ora a combattere una deviazione gravissima e com­
promettente il vangelo. E lo fa con consumata arte e capacità teolo­
gica, argomentando, deducendo, ricorrendo al theologoumenon del
tardo-giudaismo di Adamo capo dell'umanità peccatrice e votata
alla morte. È responsabile della fedeltà dei corinzi e dell'autentici­
tà della loro fede.
Dall'altra parte, i corinzi che hanno accolto la sua predicazione
e hanno creduto al vangelo. Tra di essi si individua un gruppo di
negatori della risurrezione futura dei morti. A giudizio di Paolo si
tratta di un'incoerenza radicale con la fede cristiana in Cristo risor­
to. Egli interviene, con il peso della sua autorità apostolica di testi­
mone della risurrezione di Gesù, di pastore della comunità, per rista­
bilire una prospettiva genuina di speranza nella Chiesa di Corinto. È
un intervento di grande peso, motivato però lungamente e profonda­
mente, non con un <<io vi dico>>, ma attraverso il richiamo al keryg­
ma, cioè a un'autorità superiore.
«lo voi loro». Lettura strurrurale di l Cor 15 247

t. Tra l'apostolo e la comunità fa da punto di sutura e di unità «il


vangelo». L'uno e l'altra, sia pure diversamente, vi si rapportano
essenzialmente. Il vangelo potrebbe essere definito una superstrut­
tura che qualifica la Chiesa apostolica e determina in essa i rapporti
tra apostolo e fedeli. Potremmo dire che è in gioco la struttura di una
Chiesa «evangelica». Mi siccome il vangelo è la storia di Gesù morto
e risorto, il testo evidenzia pure la struttura della Chiesa <<cristiana».
Si ha così la seguente successione: Chiesa apostolica, Chiesa <<evan­
gelica», Chiesa <<cristiana».
b) Sempre per quanto riguarda l'io di Paolo poi s'è notata
sopra la sua tendenza a far parte di un <<noi» apostolico. L'io di
Paolo si collega strettamente alla Chiesa apostolica primitiva, da
cui riceve il kerygma cristologico, e si inserisce nel numero degli
apostoli, sia pure all'ultimo posto, ma con ruolo pari. Si potrebbe
parlare di <<legittimazione apostolica». Emerge così sullo sfondo
un quadro di contestazioni e di dubbi da una parte e di difesa
accanita dall 'altra. Si tratta del ruolo che Paolo è chiamato a gio­
care nella Chiesa: non un ruolo subalterno, ma sulla stessa linea di
Cefa e dei Dodici. In superficie il testo riguarda un punto dottri­
nale di grande importanza, cioè la risurrezione dei morti. Ma in
fondo esso manifesta una contestazione da parte di detrattori insi­
nuatisi a Corinto o comunque molto influenti nella comunità, e
l'apologia di Paolo. Il testo tradisce una struttura sottostante di
«apologia personale>>, di <<autogiustificazione apostolica» di Paolo,
apostolo profondamente cosciente di sé e altrettanto duramente
contestato.
Importante è ancora rilevare i motivi della propria presentazio­
ne come apostolo fatta dall'io di Paolo. Primo: è stato beneficiario di
un'apparizione del risorto, né più né meno di Cefa e dei Dodici.
L'apostolato è in rapporto stretto con l'esperienza diretta della risur­
rezione di Cristo, per un'investitura dunque dall'alto. Secondo: l'at­
tività laboriosa e faticosa (<<anzi ho faticato più di tutti loro»). Una
legittimazione dei fatti: i galloni Paolo se li è conquistati sul campo.
Come apostolo di Cristo egli ha il diritto di intervenire nelle questio­
ni della comunità con una parola autoritativa. Prima di spendere una
parola decisiva per la fede dei corinzi l'io di Paolo mostra di quale
peso essa è gravida.
248 Capitolo 24

c) Come terzo schema richiamiamo qui la già annotata «bipola­


rità uno-tutti>> che regge nel testo il confronto istituito tra Cristo e i
morti. La risurrezione di Gesù comporta la risurrezione dei creden­
ti defunti. Antitetico il rapporto Adamo-umanità peccatrice e votata
alla morte eterna: la colpa del primo ha comportato l'entrata del
peccato e della morte nel mondo (cf. Rm 5,12-21).
La struttura uno-tutti evidenzia un'altra struttura sottintesa,
quella della «solidarietà>>. È in forza di questa, infatti, che il testo
afferma l'identità di destino tra l'uno e i tutti, sia nel caso di Adamo
come in quello di Cristo. Solidarietà, ma su quale base? Per Adamo
bisogna risalire alla teologia del tardo giudaismo che ne aveva fatto
un suo caratteristico motivo. Per brevità siamo costretti qui a trala­
sciare la ricerca. Per Cristo invece il testo di 1 Cor 15 offre elementi
validi, scrivendo di <<coloro che sono morti in Cristo>>. Si tratta di cre­
denti che sono uniti a Gesù, sono in comunione con il Signore. In
altre parole, la solidarietà tra Cristo e i morti non è un fatto natura­
listico, come poteva essere la solidarietà tra Adamo e l'umanità pec­
catrice, bensì un evento di grossa compromissione personale. Solida­
rietà quindi sulla base della fede.
Dunque la solidarietà futura nella morte e risurrezione è colle­
gata con la solidarietà presente nella fede. Per l'uomo la morte costi­
tuisce il momento del grande abbandono di tutti e dell'estrema soli­
tudine. Cristo risorto, con la forza dello Spirito di cui è stato investi­
to, sarà con il credente, non abbandonandolo nella perdizione eter­
na, e non romperà la comunione con lui, ma lo risusciterà parteci­
pandogli la sua vita. Lo schema di solidarietà tra uno e tutti si tramu­
ta così in «schema di partecipazione» dell'uno a tutti.
Un ultimo rilievo a questo riguardo: mentre la struttura uno­
tutti applicata da Adamo determina il passato degli uomini, quella
tra Cristo e i morti determina il nostro futuro. Quello è di morte,
questo di vita. La struttura Cristo-i morti indica in prospettiva la
struttura della vita che vince sulla morte, e Io schema del riscatto di
un'umanità perduta.
In campo teologico si può dire che la cristologia qualifica l'an­
tropologia nella sua proiezione futura.
d) Infine non può sfuggire all'attenzione la combinazione strut­
turale fede-speranza Proprio perché credono nel vangelo della mor-
«Io voi loro». Lettura strurturale di JCor 15 249

te e risurrezione di Cristo, i corinzi non possono logicamente - della


logicità suddetta - non sperare nella risurrezione finale. La speranza
cristiana scaturisce dalla fede. La si può defmire la proiezione dina­
mica del credere. L'apertura del cristiano al futuro non nasce dun­
que da desideri, frustrazioni, slanci vitalistici della sua psiche; non è
motivata neppure da speculazioni sulla natura umana o sul cosmo; si
giustifica invece per un'adesione viva all'avvenimento passato della
risurrezione di Gesù, compreso come avvenimento salvifico, e per
una comunione di fede e di amore con Cristo risorto e presente.
L'accettazione del kair6s di Gesù morto e risuscitato con tutte le sue
implicanze genera l'attesa dell'éschaton.
Evidentemente è qui sottintesa la percezione di fede della
dimensione collettiva di Cristo. Egli è il nuovo Adamo; a lui è unita
per solidarietà l'umanità nuova dei credenti. La sua risurrezione
soprattutto non ha carattere individualistico; non è un caso eccezio­
nale o sporadico. Gesù non è risorto come meteora improvvisamen­
te apparsa e altrettanto improvvisamente scomparsa nel cielo della
storia umana. Il nostro testo lo definisce <<primizia di quelli che sono
morti>> (v. 20). È il primo non solo in senso cronologico, ma di prin­
cipio influente, di prototipo e archetipo. Con lui i suoi. Una percezio­
ne individualistica del suo essere ne misconosce l'identità vera. Si
può parlare a questo proposito di personalità corporativa: Gesù è
una persona incorporante i credenti.
Si raggiunge così la struttura, presente in altri testi paolini, del
«corpo di Cristo>>, che riassume sinteticamente la rete di rapporti tra
Gesù e i credenti e tra i credenti stessi nell'unità della comunità cri­
stiana.
Come si può constatare, ricadiamo nella struttura precedente­
mente segnalata della solidarietà tra uno e tutti. È questa che sem­
bra determinante nel nostro testo e specificativa del tema della risur­
rezione.
In conclusione, il testo mostra la struttura della corrispondenza
fede-speranza, con la variante kair6s-éschaton, che poggia sulla
struttura della solidarietà che lega l'uno (Cristo) a tutti (i credenti)
e che dà origine alla Chiesa quale <<corpo di Cristo>> e «comunità
apostolica ed evangelica>>.
25.
PAOLO IN DIALOGO CON LA CULTURA
GRECA DEL SUO TEMPO*

Il suo rapporto con il mondo dei gentili in cui dominava la cul­


tura e la lingua greca, la koinè dialekros, è costitutivo della sua voca­
zione e missione. Dio, che lo aveva scelto già quando era ancora nel
grembo di sua madre e lo aveva chiamato con un atto di gratuita ini­
ziativa, «si compiacque - dice - di rivelarrni (apokalypsai) il suo
figlio perché ne portassi il lieto annuncio (euaggelizomai) tra i gen­
tili» (Gal 1,15-16). Un'apocalisse dell'identità nascosta di Gesù da
annunciare come messaggio divino di gioia al mondo dei lontani e
degli esclusi. Sempre nella Lettera ai Galati racconta come si sia
recato a Gerusalemme ad esporre nel cosiddetto concilio gerosoli­
mitano «il vangelo che proclamo tra i gentili>> (2,2) ed abbia ricevu­
to il riconoscimento dei «notabili» e delle «colonne>> (Pietro, Giaco­
mo e Giovanni) della Chiesa-madre: «a me era stato affidato il van­
gelo degli incirconcisi come a Pietro il vangelo dei circoncisi>> (v. 7).
Di qui la stipulazione di un patto tra gentiluomini per quanto attie­
ne alla missione: <<noi - a me e a Barnaba - ai gentili ed essi ai cir­
concisi>> (v. 9). Dove appare che i gentili non erano semplicemente lo
specifico campo di azione missionaria di Paolo, ma anche il metro
qualificativo del suo annuncio: la parola era indirizzata a loro in
quanto gentili, persone che parlavano greco e non sottostavano al
giogo della legge mosaica e come tali erano interpellati perché ade­
rissero al «Vangelo della libertà>> (v. 5).
Non diversa la testimonianza della Lettera ai Romani. Già nel­
l'indirizzo epistolare Paolo confessa di aver ricevuto «il dono gratui­
to (charis) di essere apostolo per suscitare, a onore del suo nome - il

• Contributo scritto per Servitium.


252 Capitolo 25

nome di Cristo -, l'obbedienza della fede tra tutti i gentili>> (1,5). Il


suo ardente desiderio di venire a Roma come missionario è motiva­
to dal proposito di «cogliere qualche frutto anche tra voi, come tra
gli altri gentili>> (1,13). In Rm 15,16 ricorre alla metafora cultuale: ha
ricevuto da Dio il carisma (charis), dice, «perché fossi pubblico mini­
stro (leitourgon) di Cristo Gesù per i gentili, sacerdote (hierourgoun­
ta) del vangelo di Dio affinché i gentili diventino offerta (prospho­
ra) gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo» (Rm 15,15b-16).
Non gli si rimproveri di vantarsi dei successi missionari ottenuti tra i
destinatari del suo apostolato; tutto lo deve a Cristo che ha operato
in lui <<per ottenere l'obbedienza dei gentili» (vv. 17-18).
In una formula, ecco come si è autodefmito in Rm 1 1,13: «apo­
stolo dei gentili>>. Non un apostolo come tanti altri; il suo carisma
specifico è quello di essere stato mandato da Dio e da Cristo al
mondo dei gentili, perché qui si incarnasse il vangelo: un annuncio su
misura dei beneficiari, libero da ogni indebita appropriazione esclu­
siva ed escludente, da accogliere non attraverso la rinuncia alla pro­
pria identità culturale, ma affidandosi all'iniziativa di grazia del Dio
di Gesù Cristo.
È in questo quadro che possiamo parlare di Paolo entrato in un
proficuo dialogo culturale con il mondo greco, indice di una straor­
dinaria incarnazione del messaggio, partito da Gerusalemme e con­
trassegnato dalla cultura ebraica, in un nuovo mondo.
Per ragioni di spazio è giocoforza limitarsi a qualche esemplifi­
cazione, sempre in ambito ecclesiologico, limitazione materiale che
però nulla toglie alla nostra percezione dell'iiJtensità e peculiarità
del dialogo culturale di Paolo con il gran mondo del tempo, se il
duplice riferimento analizzato viene debitamente approfondito. 1
Certo, ci si potrebbe riferire anche ai motivi della libertà della per­
sona, parola magica nell'impero e centrale nello stoicismo (cf. Rm
5-6 e Rm 8), o anche della riconciliazione (apokatallage) dalla valen­
za politica e interpersonale - legame ristabilito con un nemico vinto
in guerra, ma anche con un avversario personale attraverso il perdo-

1 Sono esemplificazioni che ho sviluppato nel volume Gesù di Nazarer, Paolo di


Tarso. Confronto storico, Bologna 2006.
Paolo in dialogo con la cultura greca del suo tempo 153

no di offese -, che Paolo declina invece sul registro religioso, cioè nel
senso di riconciliazione degli uomini con Dio: non con un Dio irato,
com'era proprio della religione romana, al cui centro stava l'esigen­
za di <<placare deos iratos>>, ma con un Dio che riconcilia a sé quelli
che si sono fatti suoi «nemici» (cf. Rm 5 e 2Cor 5--6) . Ma il discorso
si farebbe troppo lungo.

1. L' EKKLtSIA

Non c'è dubbio che sia la denominazione più frequente, anzi


usuale, con cui Paolo chiama i credenti in Cristo. Non per nulla negli
indirizzi delle sue lettere è la formula che di regola individua i desti­
natari. Credo di dover conservare il vocabolo greco perché tradurlo
con <<chiesa>> ci farebbe incorrere in equivoci. A parte l'identifi­
cazione impropria con la gerarchia cattolica, purtroppo ancora pre­
sente, per Chiesa si è soliti intendere l'universalità dei cattolici gui­
dati dai vescovi e dal papa o anche qualsiasi altra confessione cristia­
na, la Chiesa luterana o evangelica, la Chiesa ortodossa, quella angli­
cana, e così via. Ma nelle lettere paoline certamente autentiche -
1Ts, 1-2Cor, Gal, Rm, Fil, Fm - il vocabolo indica propriamente
un'adunanza locale e attuale. In concreto vi risuonano tre elementi
complementari che definiscono l'ekklesia: un gruppo di persone che
si riuniscono in un determinato giorno e in uno specifico luogo. Così,
scrivendo ai <<santi>> che sono a Corinto, l'apostolo si riferisce ai cre­
denti della città riuniti <<in assemblea>> (en ekklesia-i: 1Cor 11 18) <<in
, ,

uno stesso luogo (oppure: insieme)>> (epi to auto: 1Cor 11 ,20; 14,23).
In Rm 16,5 saluta la comunità domestica - domus ecclesia - che a
Roma si riuniva nella casa di Prisca e Aquila. Ai corinzi porta i salu­
ti di Aquila e Prisca <<insieme con la ekklesia che si ritrova a casa
loro>> nella città dell'istmo (1Cor 16,19). Ai credenti di Roma si fa
portavoce dei saluti di Gaio che ospita, dice, <<me e tutta l'ekklesia>>
di Corinto (16,23). Nell'indirizzo del biglietto spedito a Filemone
codestinataria è <<I'ekklesia che è a casa tua>> (v. 2).
Nella portata significativa di ekklesia entra anche il motivo del
convenire (synerchesthai) dei credenti di una località a formare l'as­
semblea (lCor 1 1 ,17.18.20.34; 14,23.26). La connotazione locale d'al­
tra parte sembra essenziale; di qui le formule specificate dalla città e
254 Capitolo 25

dalla provincia in cui l'ekklesw si fa presente. Paolo scrive alla ekkli­


sia «che è a Corinto» ( l Cor 1,2; 2Cor 1,1), a quella «dei Tessalonice­
SÌ>> (1Ts 1,1), alle <<ekktesiai della Galazia>> (Gal 1,2); nomina <<I'ek­
klesia che si trova a Cenere>>, città-porto di Corinto ( l Cor 16,1); si
riferisce alle <<ekklesiai che sono in Giudea» (lTs 2,14; cf. Gal 1 ,22),
a quelle della provincia romana di Asia (1Cor 16,19), alle altre della
provincia della Macedonia (2Cor 8,1).
Ora tale denominazione sembra derivare dal mondo greco. È
vero che molti esegeti fanno riferimento all'ebraico qahal, tradotto
il più delle volte nella versione dei LXX appunto con ekklesia, che
indica le assemblee del popolo d'Israele.2 Ma ritengo che la sua deri­
vazione sia di matrice greca. In concreto, l'apostolo, per primo o
anche preceduto dalla comunità di Antiochia, si è riferito alle ekkle­
siai delle città greche, quando i cittadini (i politai, non tutti gli abitan­
ti) si riunivano periodicamente a deliberare della res publica, convo­
cati dall'araldo. Mi sembra determinante la valenza locale e attuale
dell'ekklesia: la comunità del luogo riunita in assemblea in un deter­
minato giorno. Le assemblee di Israele invece riunivano tutto il
popolo; quelle «ecclesiali>> di cui parla Paolo si differenziano perché
legate a questa e a quella città o anche provincia.
Un chiaro segno dell'incarnazione culturale e sociale dei gruppi
cristiani esistenti nella oikoumene del tempo; nel loro nome risuona
una coloritura politica, la polis con le sue riunioni periodiche.
Non si pensi però a una traduzione pedissequa. Anzitutto si
deve osservare che l'assemblea dei credenti era a dimensione dome­
stica, perché avveniva non in un luogo pubblico, bensì tra le quattro
mura della casa di un credente benestante che metteva la sua con­
fortevole abitazione a disposizione delle riunioni ecclesiali in cui si
celebravano la parola ispirata dallo Spirito e la cena del Signore (cf.
1Cor 12-14 e 11,17ss), riunioni che si tenevano con probabilità il
primo giorno della settimana sabbatica (1Cor 16,2). Anche Plinio il
Giovane afferma che le riunioni dei cristiani avvenivano stato die, in
un giorno determinato (t.pist. 10,96.7). Dunque accanto alla risonan­
za della polis si aggiungeva quella deU'oikos, della famiglia.

2 Cf. per es. Grande lessico del Nunvo Testamento. IY, 1490ss.
P110/o in dwlogo con lo culrura greca del suo tempo 255

Paolo dunque assume dall'ambiente un linguaggio e con esso


l'esperienza politica con libertà creativa. Questa appare più chiara­
mente quando, andando oltre alla realtà sociologica, egli disvela
l'identità teologica delle sue ekklèsiai segnate piuttosto dall'azione
di grazia del Dio di Gesù Cristo. Il riunirsi insieme in un luogo non
era compreso e vissuto come il frutto di una concertazione umana
basata su comuni interessi, come avveniva non solo per le riunioni
cittadine, ma anche per le molte associazioni volontarie che caratte­
rizzavano il panorama del mondo di allora come le associazioni cul­
tuali, le società di arti e mestieri, i gruppi funeraticii - quello di Lanu­
vio per esempio - e i sodalizi tra patronus e clientes.3 I gruppi di
Paolo si sentivano debitori dell'iniziativa salvifica di Dio e di Cristo
che li aveva uniti e che settimanalmente li convocava in assemblea.
Non per nulla, accanto alle specificazioni esterne di cui s'è detto, egli
caratterizza le ekklèsiai con formule genitivali e con la preposizione
di luogo <<in>>. Scrive <<alla ekklesia di Dio che è a Corinto>> (l Cor 1,2)
e «alla ekklèsia dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore
Gesù Cristo>> (1Ts 1,1); menziona <<le ekklèsiai di Dio che sono in
Giudea>> (lTs 2,14), <<le ekklesiai della Giudea che sono in Cristo>>
(Gal 1,22) e, più in generale, «le ekklesiai di Dio>> (1Cor 1 1 ,16).4 Sono
Dio e Cristo con iniziativa congiunta il fattore che assembla i grup­
pi dei credenti facendone una grandezza dipendente e appartenente
al loro Padre e al loro Signore.

2. UN SOLO CORPO, MOLTE MEMBRA

La metafora corporativa è una vera originalità dell'ecclesiologia


paolina. Dal punto di vista oggettivo è applicata all'ekklesia, cioè alla
comunità locale che si riuniva in assemblea, non a una supposta

-- P.F.CRMF"ERT, «The Pauline Household Community: Their Nature as Social


3 Cf.
Entities•, in
Neotestamentica 32(1998). 309·341; M.Y. MAcDoNALD, The Pauline Churches.
A Socio·hisrorica/ Study of lnstitutionalization in the Pauline and deutero·Pauline Writ­
ings, Cambridge 1988; T. SCHMELLER, Hierarchie und Egalitiit. Eine sozialgeschichtliche
Unrersuchung paulinischer Gemeinden urod griechisch-romischer Vereine. Stuttgart 1995.
4 «La comunità locale non era né una parte della Chiesa di Dio né una Chiesa di
Dio� (P.T. O'BRIEN, •Chiesa», in Dizionario di Paolo e delle sue lettere, B ologna 1999, 213-
226, qui 217), è, direi, •la Chiesa di Dio• presente in questo o in quel luogo.
256 Capitolo 25

Chiesa universale. Egli ha assunto tale metafora dal mondo greco­


romano in cui aveva due valenze, politica e cosmologica. Qui ci inte­
ressa la prima. Soprattutto il confronto s'impone con il celebre apo­
logo di Menenio Agrippa (circa l'anno 494 a.C.) attestato esemplar­
mente dall'opera storica di Tito Livio. L'esercito, sotto istigazione di
un certo Sicinio, si era rifiutato di obbedire ai consoli, ritirandosi sul
monte Sacro o. secondo un'altra tradizione meno diffusa, sul colle
Aventino. La situazione era drammatica, perché era venuto meno il
fondamento necessario su cui si regge una società, la concordw
·civium, come dice lo storico romano. «Allora ai secessionisti fu man­
dato l'eloquente oratore Menenio Agrippa, che, introdotto nell'ac­
campamento, fece ricorso a un procedimento oratorio arcaico e pri­
mitivo (prisco illo dicendi et horrido modo) e si limitò, come si tra­
manda, a narrare» che ci fu un tempo in cui

il corpo umano non fonnava come oggi un tutto in perfetta armonia


(omnia in unum consentiant), ma le singole membra davano ciascuna la
propria opinione e usavano il proprio linguaggio, e mentre tutte le altre
parti, indignate di dover con la propria sollecitudine, il proprio lavoro e
servizio procacciare tutto allo stomaco, quando lo stomaco ozioso in
mezzo a loro non aveva altro da fare che godere dei piaceri a lui procu­
rati, tutte di comune accordo avevano deciso, le mani di non portare
cibo alla bocca, la bocca di non riceverlo, i denti di non masticarlo.

Uno sciopero letale: «Ma volendo nella loro ira ridurre lo sto­
maco alla farne, le stesse membra e tutto il corpo erano caduti in con­
sunzione», che le condusse a rendersi ben conto della realtà:

anche la funzione dello stomaco non era all'insegna della pigrizia; che
se esse lo nutrivano parimenti esso le nutriva (nec magis ali quam a/ere
eum), rimandando a tutte le parti del corpo (in omnes corporis partes)
quel sangue per cui viviamo e siamo vigorosi, diviso equamente nelle
vene e maturato attraverso la digestione del cibo.

Chiara l'applicazione politica: «Facendo allora un parallelo tra


la rivolta interna del corpo (intestina corporis seditio) e la collera dei
plebei contro il senato, fece cambiar parere a quegli uomini>> (Hist.
11,32,7-12).
In una parola, la sedizione è esiziale per lo Stato. Dunque le
classi subalterne stiano sottomesse al Senato della repubblica, ai
Paolo in diologo con la cultura greca del suo tempo 257

patrizi. Come si vede, la metafora del corpo legittima il potere con la


conseguente dipendenza dei sudditi.
La versione di Dionigi di Alicarnasso è analoga, anche se più
sviluppata. Subito viene presentato il paragone:
Una città assomiglia in qualche modo al corpo umano (anthropei6-i
somati); infatti l'uno e l'altra sono composti da molte parti (ek pol/6n
meran), e nessuna delle parti che sono in essi ha la stessa fWlZione e
neppure presenta bisogni uguali.

Esso serve a mettere in rilievo le conseguenze disastrose di una


sedizione (stasis) interna alla città, raffigurata dalle membra che si
ribellano allo stomaco cessando di svolgere le loro funzioni. Conse­
guenze che Menenio Agrippa così indica: «Ora, se le parti del corpo
umano prendessero tale risoluzione e cessassero di svolgere le loro
funzioni, il corpo potrebbe sussistere a lungo? Non periranno esse
stesse in pochi giorni per la fame, il più crudele dei mali?>>. La rispo­
sta non lascia adito a dubbio alcuno: «Non se ne può non conveni­
re>>. Segue l'applicazione della metafora: <<Persuadetevi dunque che
lo stesso è anche di una città (kai peri poleos), composta di diversi
cittadini che le rendono ciascuno un servizio particolare, come fanno
le membra riguardo al corpo>>. I plebei, conclude Dionigi, devono
essere coscienti della funzione necessaria svolta dallo stomaco nel­
l'organismo umano: si sottomettano dunque all'autorità costituita
(VI,86-87).
In Seneca invece la metafora dell'organismo esprime la necessa­
ria subordinazione dei singoli cittadini al bene comune della patria:
Che cosa accadrebbe se le mani volessero nuocere ai piedi, gli occhi
aDe mani? Come tutte le membra s'intendono tra loro, poiché la con­
servazione delle singole membra interessa al tutto, cosl gli uomini
usano riguardo ai singoli, perché sono stati generati per l'unione (ad
coetum geniti sunt) (De ira Il,31,7).

Da parte sua Aristotele mette l'accento sull'interazione delle


membra e sulla loro solidarietà: «Se una delle membra dell'uomo
soffre, tutto l'uomo sente dolore>> e lo stesso vale per la tristezza e la
gioia; così è dello stato (Politica 5, 462d): <<come infatti il corpo con­
sta di diverse membra e queste devono crescere in giusto rapporto,
258 Capito/o 25

perché persista la simmetria [ ... ), così anche la città consta di diver­


se parti>> (1302b, 33-40). Non manca infine un'applicazione della
metafora corporativa che distingue tra corpo e testa, popolazione e
capo politico. Così Seneca parla dell <<immane imperii corpus» con
'

l'imperatore come testa (caput), la cui buona salute (bona valetudo)


si diffonde su tutte la parti del corpo (De clementia I,2,1). Saranno le
lettere della prigionia, Colossesi ed Efesini, a far leva su questa
variante della metafora del corpo, accentuando il ruolo di Cristo
come capo del corpo che è la Chiesa.
Paolo ha assunto chiaramente la metafora dal mondo greco­
romano piegandola però alla sua prospettiva di fede. Anzitutto, ad
analogia del corpo politico, evidenzia la dimensione orizzontale d'in­
tegrazione dei singoli nella comunità e dei loro rapporti vicendevoli.
Poi con grande originalità ne mette in rilievo la fondazione cristolo­
gica, cioè la comune partecipazione dei credenti alla morte e risurre­
zione di Cristo: essi formano un solo corpo perché hanno in comune
l'essere in Cristo. In concreto egli ne parla trattando dei carismi,
«doni di grazia» (charismata), e della loro attuazione nelle riunioni
comunitarie. In lCor 12 afferma che il medesimo Spirito li ripartisce
(diairoun) tra tutti i credenti, di modo che nessuno li possiede tutti e
nessuno ne è del tutto privo; e tale elargizione mira all'utilità e alla
crescita spirituale della comunità (vv. 4ss). La comunità riunita in
assemblea è come un organismo umano caratterizzato da unità (<<un
solo corpo>>) e pluralità delle membra, pluralità diversificata e com­
plementare: le membra diversamente concorrono al benessere del­
l'organismo, tutte necessarie perché le une sono bisognose delle altre
secondo la legge della mutua solidarietà: è \Lolere del Creatore che
«le une debbano prendersi cura delle altre>> (hyper allelon merimno­
sin). Per non dire della condivisione di gioia e sofferenza (vv. 12ss). È
su questa base che si può parlare di un solo corpo.
Ed ecco la definizione corporativa della comunità: <<Bene, voi
siete corpo di Cristo (soma Christou) e membra ciascuno per la sua
parte» (v. 27). <<Voi>>, i credenti di Corinto che formano l'ekklesia
locale riunita in assemblea. A differenza della metafora greco­
romana qui è Cristo che fonda e crea il corpo sociale della comuni­
tà, che dunque gli appartiene. Ad onor del vero molti studiosi inter­
pretano la formula <<corpo di Cristo>> in senso mistico: è il corpo per-
Paolo in dialogo con /Q cullura greca del sun tempo 12.59

sonale di Cristo risorto in cui si identifica la comunità. Ma a mio


avviso è preferibile una lettura sociale: è il corpo sociale della
comunità costituito dai credenti che, avendo in comune la parteci­
pazione a Cristo, alla sua morte e risurrezione, come leggiamo in
Rm 6,lss, forma un solo corpo, una sola grandezza sociale. Gioca a
favore di questa lettura non solo l'evidente richiamo al motivo
greco-romano della città come unico organismo dalle molte mem­
bra, ma anche la formula parallela alla suddetta che troviamo in Rrn
12,4-5: <<Come infatti in un solo corpo abbiamo molte membra ma
non hanno tutte la stessa azione da fare, così noi, molti, siamo un
solo corpo in Cristo (hen soma en Christo-i)>>, un solo corpo sociale
unito profondamente a Cristo. Nella stessa direzione deve essere
interpretato il passo di lCor 12,13: «Giacché noi tutti mediante un
solo Spirito fummo battezzati per formare un solo corpo (eis hen
soma), sia giudei sia greci, sia schiavi sia liberi; e tutti fummo abbe­
verati di un solo Spirito>>. Un solo corpo costituito nel battesimo e
rinsaldato nella cena del Signore: «Il calice della benedizione che
benediciamo non è forse partecipazione (koinonia) al sangue di
Cristo? Il pane che spezziamo non è forse partecipazione (koino­
nia) al corpo di Cristo?>> (v. 16). I credenti hanno parte alla morte
salvatrice di Gesù. Ne consegue la costituzione del corpo «significa­
ta>> dal pane condiviso: «Essendoci un solo pane, noi, i molti, siamo
un solo corpo (hen soma), condividendo (metechein) tutti l'unico
pane>> (v. 17). La comune unione verticale con Cristo genera il
nuovo corpus sociale dei credenti, la loro unione orizzontale. I due
aspetti intrecciati di «comunione» tra loro e di comune «partecipa­
zione>> a Cristo sono espressi nel vocabolo koinonia. In una parola,
a lui vincolati, hanno in questo vincolo la ragione costitutiva dell'es­
sere vincolati tra loro.
Per concludere, ritorniamo al confronto con la metafora del
corpo presente nel mondo greco-romano. Come è presentata da Tito
Livio nella persona di Menenio Agrippa, vi si esprime la subordina­
zione degli uni agli altri, cioè dei plebei ai senatori. Nella variante di
Paolo la metafora corporativa evidenzia invece l'uguaglianza cari­
smatica dei membri della comunità, parimenti dotati di capacità
costruttive della sua crescita spirituale e reciprocamente solidali. Per
questo a ragione vi si è vista una concezione democratica, come dice
260 Capilolo 25

Lindemann.5 Paolo si dimostra più vicino invece ad Aristotele poi­


ché, non diversamente dal grande filosofo greco, mette l'accento sul­
l'interazione delle membra e sulla loro solidarietà all'interno dell'or­
ganismo:
Non può allora l'occhio dire a una mano: Non bo bisogno di te, o a sua
volta la testa dire ai piedi: Non ho bisogno di voi. Al contrario, molto
più le membra del corpo ritenute più deboli sono necessarie; e le mem­
bra del corpo che riteniamo più vili, proprio queste circondiamo di
maggior rispetto e le indecenti da noi ottengono maggior decoro, men­
tre le decenti non ne hanno bisogno. Ma Dio compose il corpo dando
maggior onore a ciò che ne manca, perché non vi sia scissione nel
corpo, bensì le membra abbiano la stessa cura le une per le altre. Un
membro soffre? Thtte le membra soffrono con lui. Un membro è glori­
ficato? Thtte le membra gioiscono con lui (lCor 12,21-26).

3. DuE PAROLE DI CONCLUSIONE

Questa duplice esemplificazione ci permette di comprendere in


che senso Paolo ha dialogato con il mondo culturale in cui era
immerso. Certo non si è isolato, racchiudendosi dentro la fortezza
della sua credenza religiosa e della tradizionale cultura giudaica, di
cui ha conservato tante tracce nelle sue lettere, lui uomo di due
mondi culturali. La vocazione e missione divina lo hanno spinto in
mare aperto; si è fatto dunque greco con i greci, come afferma in
lCor 9 a proposito dello stile di vita: «per i senza-legge sono diven­
tato come un senza-legge (anomos), io che non sono un fuori-legge
rispetto alla legge di Dio (anomos theou), f:Tla uno dentro la legge di
Cristo (ennomos Christou), per poter guadagnare i senza-legge>> (v.
21). Ha fatto propri diversi motivi culturali del mondo greco, appli­
candoli, non senza grandi novità, alla sua interpretazione del vange­
lo di Cristo. Non aveva altra strada da percorrere se voleva comuni­
care ai gentili l'annuncio di gioia che il Dio di Gesù Cristo voleva
che risuonasse sulla sua bocca. Ne andava della significatività della

' A. LINDEMANN, «Die Kirche als Leib: Beobachtungen zu "demokratiscben" Ekkle­


&iologie bei Paulus•, in ZTK 92(1995), 140-165, qui 153.
Paolo in dialogo con la cultura greca del suo tempo 261

sua parola comunicativa: così ai credenti della Galazia che la propa­


ganda aggressiva di giudeo-cristiani reazionari obbligava a circonci­
dersi, assumendo sulle proprie spalle il giogo della legge mosaica,
egli annuncia il vangelo di Cristo come annuncio di gioiosa libertà
dalla religione giudaica e da ogni religione costruita sul dualismo tra
inclusi ed esclusi, diventando «il teologo della libertà», come è stato
detto. Ai credenti delle sue comunità ha saputo presentare una loro
carta d'identità significativa nel loro ambiente culturale: costituisco­
no un'assemblea simile alle ekkesiai della polis greca e un corpo
sociale analogo a quello politico che non pochi autori paragonavano
all'organismo umano, uno e dalle molte membra.
Senza però svendere la straordinaria ricchezza della realtà cri­
stiana, il vangelo e la comunità, di fronte al mondo greco-romano. Al
contrario, sottoponendo i motivi culturali assunti dall'ambiente a un
processo di approfondimento e di arricchimento offerto dalla cre­
denza cristiana. In breve, il suo dialogo con il mondo culturale greco
è stato creativo, diremmo di innovativa interpretazione della creden­
za cristiana. Un processo che accompagna la storia del cristianesimo
nei due millenni della sua esistenza e che non può essere arrestato
per paura e arroccamento su prospettive di ossilicata ortodossia.
INDICE

l.
IL SENTIRE DI GESÙ

l.
LE EMOZIONI E I SENTIMENTI DI GESÙ .................... p. 7
l. G ESÙ EBBE COMPASSIONE / Gioi / SI STIJPI / SI ADIRÙ /
SI RAITRISTÙ / FU PRESO D'AFFETIO . .. . ........ . . . ... . ......... . ... . .. >> 9
2. LE EMOZIONI DEI PERSONAGGI DELLE SUE PARABOLE ........ IO 14

2.
LA MITEZZA DI GESÙ ........................................................ ,. 19
1. M ITE E UMILE DI CUORE..................................................... » 19
2. I VIOLENTI E IL REGNO DI DIO ................ . ........ . ............... . . » 24
3. IL PRECElTO DI GESÙ DELLA NON-VIOLENZA ..................... » 26
4. AlTEGGIAMENTI E COMPORTAMENTI CONTRASTANTI
DI GESÙ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ....... ,. 28

3.
L'IMMAGINE PATERNA DI DIO
NEL VISSUTO DI GESÙ ....................................................... » 31
l. SIMBOLO DI AMORE INDISCRIMINATO ................................... » 31
2. SIMBOLO DI PERDONO ILLIMITATO....................................... » 33
3. SIMBOLO DI CORAGGIO E FIDUCIA NEL MONDO .. ... . ........... .. » 34
4. SIMBOLO DELLA FRATERNITÀ E DELL'UGUAGLIANZA ........... » 35
5. SIMBOLO DI RICONOSCIUTA DIPENDENZA............................. » 37
6. VALUTAZIONE CONCLUSIVA .... .......... . ......... .. ..... . . . ... . . ......... . » 37

4.
CRISTO PRINCIPE DELLA PACE ..................................... » 39
l. IL PRINCIPE DELLA PACE NELLA PROMESSA DI ISAIA............ » 39
2. CRISTO CREATORE DI PACE ................................................. » 41
264 Indice

5.
GESÙ E PAOLO DI FRONTE ALLA MALATIIA
E ALLA SOFFERENZA......................................................... p. 47
l. «EGLI HA PRESO LE NOSTRE INFERMITÀ
E HA PORTATO LE MALATTIE».............................................. >> 47
2. PAOLO E LA SUA MALATTIA E SOFFERENZA ......................... » 52

6.
RELAZIONI DEI PROTAGONISTI
NELLE PARABOLE DI GESÙ ............................................ » 57
l. LA STORIA DEL PADRE DEL PRODIGO
E DEL FRATELLO MAGGIORE (Le 15,11·32) ........................ » 58
2. IL SATRAPO E IL GRANDE RE (Mt 18,23-35) .. ... .. ............... » 62

7.
FIGURE EVANGELICHE DELL'ATIENDERE............. » 65

8.
LA PAURA l IL TIMORE ...................................................... » 71
l. LA LIBERTÀ DALLA PAURA O DAL TIMORE........................... » 72
2. «TEMI IL SIGNORE>> l «NON TEMERE>> ................................ » 75

9.
CAMMINARE: TESTIMONIANZA BIBLICA.................. >> 79
l. IL CAMMINO DI ABRAMO .................................................... » 79
2. LE TRIBÙ ISRAELmCHE !N MARCIA DALL'EGilTO
VERSO LA TERRA................................................................. » 81
3. IL CAMMINARE DELLA SPJGOLATRICE RUT . ... ..................... » 82
4. IL LUNGO CAMMINO DI ELIA FINO AL MONTE 0REB ........... » 83
5. GESÙ CAMMINA PER LA PALESTINA E VA A GERUSALEMME » 84
6. GESÙ FA CAMMINARE ........................... ...... .......... . .... ...... . .. )) 87
7. PERIPATETICI DELLO SPIRITO .............................................. » 88
8. CAMMINARE NELLA LUCE, NELLA TENEBRA......................... » 90
Indice 265

10.
IL SONNO: CARRELLATA ATTRAVERSO
LA BIBBIA................................................................................ p. 93
l . VALE LA PENA PARLARNE? ••..•.•. . . . . . • . . • • • • • . . . . . . • . . . . . • • • • . . . . . . . • • . • • » 93
2. l DATI SALIENTI DELLA TRADIZIONE SAPIENZIALE EBRAICA . » 94
3. LE ANNOTAZIONE SPORADICHE, MA NON BANALI,
DELLE ScR11TURE CRISTIANE .............................................. » 97

11.
LA PARRHES/A NEL NUOVO TESTAMENTO.............. » 101
1. LA CHIARA E CORAGGIOSA PAROLA DEL BATTISTA ............. » 102
2. GEsù: FRANCA, DECISIVA E PUBBLICA TESTIMONIANZA
DELLA VERITÀ..................................................................... >> 103
3. LA LIBERTÀ DI PAROLA DI PAOLO....................................... » 105
4. LA SFIDA DI PIETRO E GiOVANNI
ALLE AUTORITÀ GIUDAICHE................................................. » 108
5. UN ORIZZONTE MOLTO VASTO ............................................. >> 109

12.
OSTENTAZIONE E FIEREZZA DEL CRISTIANO ...... » 111
l . l BORIOSI DI CORINTO ........................................................ » 112
2. L'ESISTENZA CRISTIANA ALL'OMBRA DEL CROCIFISSO ......... >> 1 16

�l
13.
COSCIENZA, LIBERTÀ, AGAPE ..................:.................... >> 121
l. UN PROBLEMA DI COSOENZA
NELLA COMUNITÀ DI CORINTO............................................ » 122
2. VALUTAZIONI DI PAOW...................................................... » 124
3. INDIVIDUO E COMUNITÀ .................................... . ................. » 126

14.
LA COPPIA NEL NUOVO TESTAMENTO ...................... » 129
l. GLI IMPERATIVI DELL'APOSTOLO......................................... » 129
2. LA COPPIA CRISTO-CHIESA .... .................. ..... ............. .....
. .. » 131
3. CoME CRISTO E LA CHIESA ...... . .. . ............................ . .. ...... » 133
266 India

15.
LA POESIA NELLE PARABOLE DI GESÙ .................... p. 135
l. DI CHE COSA VOGLIAMO PARLARE? .................................... » 135
2. IL PASTORE E LA DONNA DI CASA CHE HANNO SMARRITO
UNA PECORA E UNA MONETA (Le 15,3-7 E 8-10) ............... » 137
3. IL PADRE E IL FRATELLO MAGGIORE DAVANTI AL PRODIGO
(Le 15,11-32) -.... » 139
.......... ................ . . . . . . . . . . . ........................

16.
L'AMORE DI DIO
NEL MESSAGGIO DI GIOVANNI...................................... » 143
l. D10 È AMORE (lGv 4,8; 4,16) . . ............. ............................ » 144
2. «CHIUNQUE AMA . . . CONOSCE Dro» (1Gv 4,7) .................. » 146
3. «QuESTO È t'AMORE m D1o:
OSSERVARE l SUOI COMANDAMENTI» (1Gv 5,3) .................. » 147
4. DALL'AMORE DI DIO ALL'AMORE DEI FRATELLI ................. » 149
5. AMORE DI DIO E AMORE DEL PROSSIMO ............................. » 151
6. «L'AMoRE È DA Dio» (1Gv 4,7) ...................................... ,. 153

Il.
LA CHIESA DI GESÙ

17.
GESÙ DI NAZARET
E LA REALTÀ DELLA CHIESA ....................................... . » 157
l. l DODICI, l DISCEPOLI, IL POPOLO ....................................... » 158
2. QUALE RAPPORTO CON LA CHIESA? ................................... » 161

18.
EXTRA FIDEM NULLA SAL US? ..... ................................. ,. 165
.

l. IL PRASSISMO DI MATTEO ................................................... )) 166


2. <<SE CREDERAI NEL TUO CUORE CHE D IO
LO HA RISUSCITATO DAI MORTI, SARAI SALVATO» >> 168 ••••••••••••••••

3. LA FEDE E LA SALVEZZA IN GIOVANNI ............................... » 170


llulice 267

19.
LO SPIRITO DI DIO NELLE LETTERE DI PAOLO ..... p. 173
l. Lo SPIRITO DI DIO E L'ARTICOLAZIONE CARISMATICA
DELLA CHIESA (l Cor 12) . . ............. . .. . ...... . .......... . ............. » 173 .

2. Lo SPIRITO DI D10 ANIMA LA VITA DEI CREDENTI


(Gal 5.13-25) .. . . . .. . . ... . .. ............ . . ..... . ... . . . .. .... . .................. . » 177 .

3. «LA "LEGGE" DELLO SPIRITO CREATORE DI VITA>>


(Rrn 8,1-17)...................................................................... )) 180

20.
L'ORDINE E LO SPIRITO NEL MONDO
E NELLE ASSEMBLEE ECCLESIALI............................... » 189
l. L'ORDINE DEL MONDO:
n. REGNO DI DIO BUSSA ALLE PORTE ... ............................... >> 191
2. L'ORDINE NELLA COMUNITÀ ............................................... >> 193

21.
CONFLITruALITÀ E RICONCILIAZIONE
NELLE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE ....................... » 199
l. I L CONCILIO DI GERUSALEMME........................................... » 200
2. LA COLLETTA .... . ........ ...... .......................... .................... )) 203
. . . .

3. IL CONFLITTO DI ANTIOCHIA............................................... » 206


4. IN CONCLUSIONE ................................................................. » 208

22.
VITA ETERNA E RISURREZIONE DELLA CARNE
NEL NUOVO TESTAMENTO ... ......... . ........ ...................... . .. » 211
l . STATUS QUAEST/ON/S .... .... . ......... .. .. . .. .......... . . . .................. . .. )) 211
2. TESTIMONIANZA DELL'ANTICO TESTAMENTO ...................... » 212
3. GESù . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . ............ . . . . . . . . . . . . . . . .. 215
4. TESTIMONIANZA DI PAOLO E DI GIACOMO.......................... » 217
5. SINTESI ............................................................................... .. 223
268 Indice

23.
LA «VOSTRA GIUSTIZIA».
LETTIJRA DI MATfEO 6,1-6.16-18 .. . ... ...... . .. ...... ...... . .. .... . . p. 227
l. L'ARTICOLAZIONE STRUTTURALE DEL BRANO...................... » 228
2. IL CONTESTO LETTERARIO ................................................... » 230
3. L'ANIMA DELL'ESORTAZIONE DI CRJSTO.............................. » 231
4. LA REDAZIONE DI MATTEO ........... .. . ............ . . .. .. ....... ... ...... » 234
5. INTRODUZIONE AL DISCORSO INTERPRETATIVO
O ERMENEUTICO.................................................................. » 236

24.
«IO VOI LORO>>.
LETTIJRA STRUTTURALE DI 1Cor 15 ....... ... . ......... .... .... » 237
l. EsEGESI IN MOVIMENTO ········································ ····--······· » 237
2. INTRODUZIONE ALLA LETI1JRA STRlJITURALISTA ..... ... .... .... » 238

3. RILEVAZIONI ······································································ )) 241


4. STRUTTURE TEOLOGICHE DEL TESTO ... .. ................ .............. >> 246

25.
PAOLO IN DIALOGO CON LA CULTURA GRECA
DEL SUO TEMPO ................................................................... » 251
l . L'EKKLESIA • • · • • · · • · • • · • • • • • • • • • • • · · · • · • • • • · · • • • • • • • · • · • • • • • • • • • · • • •• • • • • · • • · • • • • · )) 253
2. UN SOLO CORPO, MOLTE MEMBRA ....................................... » 255
3. D uE PAROLE DI CONCLUSIONE . . . ......................................... » 260

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