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Lingua e storia nell'antico

mondo germanico -
Filologia
Università degli studi dell'Aquila
22 pag.

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LINGUA E STORIA NELL’ANTICO MONDO GERMANICO

(Dennis Howard Green)

CAPITOLO 1. LA RELIGIONE

Le principali fonti delle nostre conoscenze relative alla religione dei germani si estendono dal II sec. a.C. (e riguardano
i cimbri) al V sec. d.C. (caduta dell’Impero romano d’Occidente). Nonostante le difficoltà nell’interpretare queste
testimonianze, è possibile delineare le usanze religiose germaniche.

Le attestazioni in antico nordico pervenuteci (significative in quanto il cristianesimo arrivò nell’area del germ. sett.
molto più tardi e perché qui abbondano le attestazioni di poesia mitologica) contengono una varietà di termini
utilizzati per indicare le divinità pagane oggetto di adorazione:

- týr (sing.) usato come nome del dio Týr. È attestato anche nel germ. occ. con lo stesso valore nel nome di un
giorno della settimana (ingl. arcaico tiwesdaeg (Tuesday) aat. ziestag) e trova una corrispondenza in lat. deus.
e tívar (plur.).
- rögn e regin (due varianti), corrisponde a got. ragin ‘’decisione raggiunta da un’assemblea’’ e ad asass.
regano-giskapu ‘’decisione divina, decreto del fato’’, il che fa pensare ad uno sviluppo semantico da
‘’decisione’’ a ‘’decisione divina’’ e quindi a ‘’gli dei che decidono’’. regin indicava un corpo legislativo o
un’assemblea di coloro che detenevano il potere.
- bönd, höpt significano ‘’vincoli, legami’’, il che fa pensare che gli dei potevano essere considerati tali solo in
base alla loro combinazione, formando una rete compatta. Il sing. ricorre raramente per designare una
divinità femminile.
- Goþ è l’unico termine ad essere stato usato in tutte le lingue germ. per designare il Dio cristiano. Si
differenzia dagli altri perché, mentre tutti gli altri termini venivano usati al plur. per indicare gli dei nel loro
insieme (essendo una società politeista), quindi la loro funzione era collettiva e non propriamente plur.,
questo veniva usato anche al sing., specialmente nella poesia mitologica del tardo periodo pagano. Inoltre
poteva essere usato sia per un dio che per una dea.
Týr invece non può essere paragonato, in quanto è un nome proprio.

Secondo alcuni autori dalla radice ie. *ghutóm che diede origine a tali parole, deriva il nome generico degli dei: got.
guþ, ted. Gott, ingl. god. Altri studi invece, fanno risalire queste parole germ. all’elemento radicale *ghau ‘’chiamare,
invocare’’, il cui participio è anche *ghutóm, per cui in germ. ‘’dio’’ era inizialmente ‘’colui che è invocato’’.

Anord. goþ come termine pagano era neutro, mentre come termine cristiano venne mutato dalla Chiesa in maschile. Il
cambiamento da neutro a maschile avvenuto dopo la conversione al cristianesimo si verifica in tutte le lingue germ.
per distinguere il Dio cristiano dalle divinità pagane.

Nonostante la parola appaia, dal punto di vista morfologico (quindi a livello di flessione) come un sost. neutro, poiché
è senza desinenza, dal punto di vista sintattico è chiaro che si tratta di un sost. maschile, quindi non più neutro. Ad es.
nell’espressione di Wulfila guþ meins il sost. è declinato come neutro, poiché compare senza –s finale (caratteristico
dei neutri è infatti l’assenza della desinenza), mentre l’agg. poss. meins mostra la –s del maschile, il che significa che il
sost. goþ non può essere neutro.

Questo cambiamento di genere (da neutro a maschile) ha subito un ulteriore sviluppo in aat., vale a dire che il termine
aat. usato per designare il Dio cristiano (Krist) diventa un nome proprio attraverso l’aggiunta della desinenza –an
all’accusativo (Kristan), come nel caso del dio Týr dell’antico nord., ma a differenza di quest’ultimo, che compare
anche al plur. (tývar), rimane isolato, ovvero al sing.

Un altro termine legato alla sfera religiosa è heil, sost. che indica la buona sorte che gli dei erano tenuti a concedere, o
a rifiutare, e l’agg. derivato heilag usato per qualificare il dono soprannaturale della buona sorte, gli intermediari che
la trasmettevano e i luoghi, gli oggetti o le persone che la personificano.

L’agg. heilag è attestato in ogni lingua germanica. Anche se la forma got. non venne usata da Wulfila, compare
nell’iscrizione runica sul collare di Pietroassa.

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Si è messo etimologicamente in relazione heil all’antico slavo cělu, ‘’sano’’, ‘’intero’’. Così heil avrebbe il significato di
sano, integro e heilag significherebbe ciò che è durevole, invulnerabile. Anche Benveniste trova nel got. hails il
significato di ‘’in buona salute, che gode della sua integrità fisica’’. Baetke ritiene che il senso etimologico di sanus,
integer dato a heil non sia del tutto certo, poiché i testi mostrano che *hailaz significa salvezza, benedizione fortuna.
L’ags. hoel e l’aat. heil in senso neutro designano il presagio, omen, augurium, auspicium. Ciò mostra un legame tra
heil e omen, salvezza e volontà divina.

Siamo in un contesto religioso totalmente conforme al senso religioso degli antichi germani, che cercavano di
determinare la volontà degli dei per mezzo degli oracoli. Tuttavia heil indica una relazione con la divinità. Non si tratta
di una fortuna profana, ma di una fortuna procurata attraverso il culto: il neutro *hailaz ha il significato religioso di
salvezza, benedizione, fortuna in senso magico-religioso. Il legame tra heil e l’oracolo è significativo.

In anord. il sost. è heill (femminile) col significato di ‘’buona sorte’’ (questo significato è presente anche nel sost.
neutro aat.), termine che ricorre anche col significato di ‘’amuleto’’. È chiaro quindi che si passa da un significato
astratto (‘’buona sorte’’) a uno concreto (‘’presagio’’). Quindi un presagio, avendo un significato concreto, potrebbe
essere considerato come una personificazione della buona sorte, quindi come un segno premonitore dell’avvenire (es.
il volo degli uccelli).

Tacito nella sua Germania, capitolo 10, insiste sul carattere religioso degli oracoli germanici, e spiega che per poter
ricevere un segno (che portasse fortuna) dagli dei, veniva praticata la consultazione degli oracoli da una persona con
una funzione sacerdotale. Questa pratica religiosa non solo consisteva nel pregare agli dei, ma prevedeva anche un
sacrificio, come testimonia la locuzione in anord. fella blótspán ‘’consultare l’oracolo’’ il cui elemento blót significa
‘’sangue’’.

Tutto questo implica che heil, la salvezza, era tra le mani degli dei, una salvezza intesa non in senso profano o magico,
ma in senso religioso, essendo quest’ultimo legato al culto.

Secondo Baetke heilig deriva dal got. hails, hāl in ags., heil in aat., aggettivi a cui corrispondono i sost. heill in anord.,
hoel in ags. (due sost. f. e neutri) e il sost. neutro heil in aat.

Jan de Vries conferma l’interpretazione religiosa ottenuta grazie ai testi che parlano della volontà degli dei, ed evoca
un passaggio nel Landnámabók, precisamente quello in cui il colonizzatore Ingolfr consacra la sua terra al dio Thor e
quindi la chiama þórsmörk. Non si tratta di una semplice operazione magica, ma siamo in un contesto strettamente
religioso, nel quale si incontrano l’oracolo, il culto e la volontà divina.

I numerosi testi di Baetke sembrano decisivi per l’interpretazione religiosa e culturale dell’agg. heilig e del sost. heil
nell’antico pensiero germanico.

Per quanto riguarda il modo con cui i favori degli dei venivano conquistati, quindi il rito di adorazione, soprattutto
attraverso i sacrifici, bisogna dire che questa pratica religiosa veniva compiuta pubblicamente. Non esiste un termine
generale per tale rito, bensì molteplici termini, ognuno dei quali designa aspetti diversi della pratica religiosa.

Uno di questi, attestato in aat. e in ia. è bigang (insieme al verbo bigangang). Originariamente significava ‘’andare in
giro, procedere in corteo’’, ma poiché aat. bigang glossa lat. ritus e cultus esso deve essere stato applicato ad atti di
adorazione religiosa che implicavano una processione, come attestato per il culto della dea Nerthus.

Tali pratiche vennero percepite dalla Chiesa come ostili, ma col tempo vennero adattate all’uso cristiano. Così che in
ted. mod. si può ancora dire die Felder begehen per indicare il girare per i campi nei giorni delle Rogazioni, e das Fest
begehen per il celebrare una festività. In aat. il termine veniva usato per qualunque festa, cristiana, pagana o ebraica
che fosse, ma la rarità di questi riti processionali nel mondo cristiano fa pensare ad un’origine pagana.

Il termine ia. lāc ‘’danza’’, attestato nel mondo germ., indica chiaramente che la cerimonia sacrificale comprendeva
una danza. Questo termine significava anche ‘’sacrificio’’, significato attestato solo in ia., il che rende difficile attribuire

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un’origine germ. a questa pratica, se non fosse per la presenza dell’elemento lāc negli antroponimi in aat. latinizzato
Ansleicus, in anord. Ásleikr, e in ia. Oslāc, che indicano qualcuno che praticava riti in onore degli dei germanici,
conosciuti da Giordane come Anses e in anord. come Aesir.

I sacrifici potevano coinvolgere sia gli esseri umani o gli animali che gli oggetti o armi del nemico sconfitto. Il sacrificio
più importante era quello degli animali, in particolare cavalli, di cui alcune parti venivano sacrificate agli dei, e altre
consumate secondo il rituale degli adoratori. Quanto al sacrificio umano, le testimonianze storiche mostrano che ciò
non avveniva solo in caso di guerra (era solito sacrificare qualcuno nel momento della battaglia per allontanare il
pericolo), ma anche al di fuori di questo contesto. Infatti Tacito spiega che venivano compiuti sacrifici umani per
conquistare il favore di Mercurio = Odino.

Il verbo aat. bluozan ‘’sacrificare’’ (sost. bluostar) presenta corrispondenti in tutte le lingue germ., eccetto in asass., e
ricorre in tutti i dialetti dell’aat., ma deve essere scomparso dopo l’800, probabilmente a causa dell’emergere dell’aat.
opfarôn. Il aat. il verbo traduceva termini lat. come ‘’sacrificare, immolare, libare e victimare’’, e fa pensare ad alcune
forme di sacrificio (libagione, offerta bruciata, ecc.), ma è probabile che questa serie di forme corrispondenti possa
derivare dai vari termini latini che la parola dialettale traduceva solo in maniera approssimativa.

In aat. e in ia. si conservano anche tracce di sacrifici pagani, ma il verbo got. blotan è stato cristianizzato attraverso un
cambiamento di costruzione: non regge più il DAT. ‘’sacrificare a un dio’’, ma l’ACC. con un significato diverso
‘’adorare Dio’’, così che viene reso con il significato di ‘’devoto, che adora dio’’. Dunque Wulfila ha tratto la parola
dalle sue origini pagane, quindi il termine indica il culto che avviene senza sacrificio.

Un solo termine sacrificale venne cristianizzato nella forma ia. blētsian ‘’benedire’’. Le varianti dialettali blēdsian e
blœdsian derivano dal verbo blōdisōn, il cui elemento blōd ‘’sangue’’ lascia sottintendere un chiaro sacrificio di
sangue.

Vi sono alcuni termini che indicano gli animali che potevano essere sacrificati per un pasto rituale, e quelli che invece
non potevano esserlo. Nel primo caso gli animali erano considerati come zebar, termine attestato in tutti i dialetti. In
aat. la parola glossa lat. sacrificium, ma anche hostia, victima, holocaustoma, sono altri termini che implicano il
sacrificio di animali. La parola germ. è imparentata con il termine lat. daps ‘’pasto sacrificale’’, ma anche con il termine
armeno tawn ‘’mandria di bestiame’’ o ‘’montone’’. Per di più l’idea di un animale adatto al consumo di gruppo è
indicata chiaramente dalla forma negativa dell’aat. conservata nel mat. unzifer, ungezibere (che indicava un pasto
rituale impuro, quindi immangiabile) ted. mod. Ungeziefer ‘’insetti parassiti’’.

Un altro termini con derivazioni simili, got. hunsl, si trova anche in anord. nell’iscrizione nordica di Rök e in ia., ma non
in asass. o in aat. Wulfila utilizzò il termine non solo con il significato generale di ‘’offerta sacrificale’’, ma anche in un
contesto dove il Nuovo Testamento designava il ‘’cibo sacrificale’’ e quindi l’idea di sacrificio animale era ancora
presente nel got. Ciò è confermato dal corrispondente ia. hūsel che originariamente dava l’idea di ‘’sacrificio’’, come in
got., ma che in seguito alla sua cristianizzazione come termine indicante ‘’comunione’’ implicava l’associazione con un
pasto rituale. Se poi il termine anord. ha acquistato questo significato cristiano, è probabile che ciò sia avvenuto
tramite un calco semantico dell’ia., e non tramite un prestito, poiché l’esempio di Rök mostra che la parola era
conosciuta in Scandinavia già molto tempo prima.

Un ultimo indizio di animali sacrificati a fini religiosi ci viene fornito da got. sauþs ‘’sacrificio’’, il cui corrispondente
anord. sauðr ‘’pecora’’ fa pensare che questo era l’animale in questione.

Per quanto riguarda il luogo in cui veniva celebrato il culto sappiamo da Tacito che: i luoghi sacri erano all’aperto, nelle
foreste o nei boschi; esisteva un boschetto sacro per gli adoratori di Nerthus; gli svevi si radunavano per i loro sacrifici
in un bosco consacrato; Civilis (capitano dei Batavi) convocava i capi delle tribù per l’assemblea in un boschetto
consacrato; vicino al fiume Weser c’era una foresta consacrata al dio che Tacito considerava uguale a Ercole.

Un’informazione più ricca sui luoghi di culto dei pagani proviene dagli antichi toponimi sopravvissuti all’avvento del
cristianesimo, e sono di due tipi, ognuno composto da due elementi: il primo contenente il nome di un dio (toponimi
teoforici) il secondo un termine per un luogo di culto.

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I toponimi teoforici possono contenere un nome generico per gli dei in generale, o il nome di un singolo dio. I
toponimi scandinavi Gudhjem, Gudme, Gudum (< Gudhem) derivano da un sost. che significa ‘’casa degli dei’’, oggetto
di un rito speciale, passato ad indicare i luoghi dove tale culto era celebrato.

Oltre a gud- viene usato un altro termine collettivo per indicare gli dei: *ansu-, come in sv. Asum (< germ. com. *Ansu
+ *haim- ‘’patria degli Asi), norv. Oslo e ted. mod. Aβlar.

Molto più comuni in tutta la Scandinavia sono i nomi di luoghi che indicano un dio specifico, come ad es. Freyr, Oðinn,
þórr (ma anche Ullr, Freyja e Týr). I nomi di luogo teoforici indicanti un dio specifico sono riscontrabili anche nel
germanico occ.: Wodan in Germania, come per es. in Wudinisberg poi passato a Godesberg, e in Inghilterra, come per
es. Wednesbury, Wenslow.

Questi toponimi presentano problemi di interpretazione legati al secondo elemento, ovvero è indubbio se il secondo
elemento sia riferito necessariamente a una divinità. Come esempio si possono analizzare i termini che sono stati
considerati come corrispondenti non scandinavi di un toponimo teoforico come anorv. Frøysaker, nomi simili come
Oðinsakr, Ullinsakr, che suggeriscono l’idea di un dio singolo. Considerare questi nomi come teoforici significherebbe
non solo supporre l’esistenza di un dio germ. occ. Frô, ma si ignorerebbe anche la conservazione del significato non
religioso della stessa parola frô ‘’signore, sovrano’’ che in Scandinavia arrivò ad essere utilizzato come nome di un dio.
È probabile che questi esempi del germ. occ. non si riferiscano a un dio pagano, ma alla proprietà di un capo
germanico o addirittura feudale.

Vi sono anche sost. indicanti i luoghi di culto. La maggior parte di essi implica che il luogo fosse all’aperto o un terreno
boscoso. Il termine aat. harug ha corrispondenti in ia. e in anord. In aat. ricorre nelle fonti più antiche e permane fino
al X sec., traducendo termini lat. come ara, delubrum, fanum, lucus, nemus , passando cioè da ‘’altare’’ attraverso
‘’santuario, tempio’’, a ‘’bosco sacro’’.

Nessun es. ted. mostra harug come traduzione di lat. silva (con funzione non religiosa). In ia. invece hearg può
designare sia ‘’bosco’’, che ‘’boschetto sacro’’, ma può riferirsi anche a un ‘’santuario’’ o ad un ‘’idolo’’ pagano. In
anord. hörgr è attestato non solo come ‘’mucchio di pietre’’, ma anche come ‘’luogo di culto’’ e ‘’montagna’’. Se si
ipotizza che la corrispondenza etimologica è con il termine airl. carn ‘’mucchio di pietre’’, e con il lat. carcel ‘’luogo in
pietra recintato’’, il significato di partenza potrebbe essere stato ‘’altare’’, per poi assumere il significato di
‘’santuario’’ e infine ‘’boschetto sacro’’. Il termine può anche riferirsi a un nome di luogo, ma la duplice funzione del
sost., religiosa o no, significa che non si può essere certi se il toponimo si riferisca a un luogo di culto.

La persona che praticava il rito era il sacerdote. Cesare sosteneva che, diversamente dai celti con i druidi, i germani
non avevano sacerdoti incaricati di questioni religiose, mentre Tacito distingue il rituale religioso celebrato publice, di
cui era responsabile un sacerdos civitatis, e quello celebrato privatim, di cui era responsabile il pater familias. Tacito
non fa mai riferimento all’esistenza di una casta sacerdotale, quindi da questo punto di vista, le sue opinioni non
vanno in contrasto con quelle di Cesare, il quale giudicava la situazione delle popolazioni germaniche in base alle
conoscenze che lui aveva dei celti.

Riguardo al ruolo di questi sacerdoti si è mal informati e bisogna basarsi sulla testimonianza linguistica per avere
ulteriori chiarimenti. L’aat. possedeva 3 parole che potevano designare il sacerdote pagano: harugari, parawari, e
bluostrari. Vi è l’ipotesi che questi termini non sarebbero potuti esistere nel periodo pre-cristiano. Tuttavia abbiamo
termini come l’ia. heargweard, il cui elemento hearg deriva da harug.

Nonostante parawari sia attestato in tre manoscritti, solo uno attesta anche la parola base paro, quindi il derivato
poteva essere più conosciuto.

Questi tre termini erano perciò probabilmente pagani in origine.

Harugari veniva usato per rendere lat. plur. (h)aruspices, il che indica una connessione originaria tra il sacerdote e
l’interprete dell’oracolo. Allo stesso modo parawari traduce lat. (h)aruspex, ‘’colui che fa sacrifici presso l’altare’’.
Parawari era dunque responsabile dei riti celebrati in un boschetto sacro. La parola può essere considerata di
formazione tarda, non solo per il suo suffisso, ma anche perché altre lingue germ. pur avendo un termine equivalente
(baro), non presentano tracce di questo derivato. Lo stesso può essere vero per harugari, perché il suo corrispondente
ia. heargweard era formato da diversi elementi. Bluostrari traduce lat. sacrificatores e indica il sacerdote che
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praticava il sacrificio. Il termine ia. mostra perciò il declino semantico da sacerdote pagano nel suo ruolo di
sacrificatore.

Wulfila adattò questo termine alla cristianizzazione attraverso il composto guþblostreis, con il significato di colui che
venera Dio. Questo processo fa pensare all’esistenza iniziale in germ. di una parola che indicava il sacerdote
nell’esercizio di questa funzione che è più antica rispetto a quelle attestate nei tre termini dell’aat.

CAPITOLO 3. LA PARENTELA

La prima attestazione dettagliata del clan germanico proviene dalla Germania di Tacito, dove illustra, seppur in
maniera non sistematica, come le diverse famiglie venivano raggruppato nel séguito, l’importanza dell’avunculato
perché i figli sono strettamente legati agli zii, le lotte tra clan e la loro risoluzione.

Già al tempo di Cesare la società germanica era formata da clan, che costituivano l’unità sociale di base ed erano
raggruppati insieme allo scopo di formare unità più grandi. All’interno di queste società tribali le relazioni di parentela
non costituivano un semplice legame, ma erano una forma di garanzia per la protezione dell’individuo, in quanto
assicuravano assistenza legale e militare e, sulla base del guidrigildo, che era il prezzo che i parenti di un uomo
appartenente a un clan doveva pagare alla famiglia dell’ucciso (quindi un risarcimento), per riscattarsi dalla vendetta,
garantivano uno status sociale.

È chiaro quindi che la condizione legale dell’individuo dipendeva dai suoi parenti, al punto che un uomo senza parenti
era considerato un uomo non libero, quindi privato dei diritti.

La Lex Salica, ovvero la raccolta di diritto dei Franchi Salici o Sali contenente norme penali, mostra come il clan
provvedesse al sostegno legale, in merito a questioni riguardanti soprattutto il pagamento del guidrigildo da parte dei
parenti e l’aiuto al giuramento, tramite il quale i testimoni giurati, che nel mondo germanico erano essenzialmente i
parenti della parte in causa, sostenevano il caso dell’imputato.

L’altra forma di protezione da parte del clan riguarda la vendetta di sangue e la prosecuzione di una faida, che non
rappresenta solo uno stato di ostilità tra clan, ma un mezzo per risolvere dispute tra clan attraverso la violenza o la
negazione, o entrambe. La faida era un istituto giuridico in virtù del quale la Sippe di un soggetto ucciso, leso o
danneggiato dal membro di un’altra Sippe poteva vendicarne la lesione, per poter ripristinare l’equilibrio sociale
violato.

Compiere una faida attraverso la vendetta costituiva, in mancanza di un’autorità statale, la migliore protezione per
l’individuo, e l’attacco ad una singola persona da parte del clan nemico, era considerata un’offesa a tutti i membri.
Pertanto la faida veniva intrapresa non dai singoli individui, ma da tutto il clan. Un rifiuto ad agire arrecava umiliazione
o vergogna al clan, mentre per la Chiesa era considerato la virtù dell’umiltà, una virtù pronta a perdonare i propri
nemici. Questo diversa mentalità è attestata nella parola humilitas che per i germani significava ‘’umiliazione’’, mentre
per la Chiesa ‘’umiltà’’.

I membri di un clan che prendevano parte a una faida lavoravano per la propria unità, ma per poter raggiungere
questo stato era necessario che all’interno del clan regnasse la pace. La parola germ. corrispondente a aat. sippa
sviluppa così due significati: ‘’clan, parentela’’ e ‘’pace’’. Allo stesso modo aat. friunt ‘’parente’’ (ma anche ‘’amico’’) è
collegata a fridu ‘’pace’’.

In caso di conflitto tra clan di forze diseguali, il più debole, se colpevole, preferiva ricorrere al pagamento della
satisfactio o guidrigildo, che coinvolgeva non solo il singolo, ma tutti i membri.

Che la pace fosse strettamente connessa alla pratica di offrire una satisfactio quanto lo erano gli obblighi per il clan è
dimostrato in una parola got. Wulfila tradusse la parola greca ‘’pace’’ con gawairþi, con tema neutro in –ja formato
con il prefisso collettivo –ga sullo stesso modello di gawaurdi ‘’conversazione’’. I derivati di questo tipi sono formati da
un sostantivo, per cui è probabile che gawairpi non derivi dall’agg. wairþs ‘’di valore, prezioso’’, ma dal sost. wairþ
‘’valore, prezzo’’. Dato che Wulfila utilizza questo termine come equivalente di lat. pretium per indicare un oggetto di
valore che poteva essere usato nel pagamento o nello scambio, ne consegue che originariamente gawairþi indicava un
insieme di tali oggetti, ossia ciò che noi chiameremmo ‘’denaro’’. L’uso di questa parola per ‘’pace’’ da parte di Wulfila
implica che era usata anche nel senso legale di un pagamento attuato per risolvere un conflitto.

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Al fine di aumentare la propria possibilità di protezione, il clan ricorreva al matrimonio, poiché in questo modo la
persona estranea ammessa nel nuovo clan poteva godere della protezione del nuovo clan così come del vecchio. La
parola che attesta l’unione di due clan tramite il matrimonio è presente nel Beowulf ed è friðusibb folca. Ci sono dubbi
riguardo il significato di questo composto, poiché potrebbe significare ‘’pace protettiva’’, o suggerire che la pace o la
protezione (friðu) fossero stabilite da una parentela acquisita attraverso il matrimonio (sibb).

Sempre nel Beowulf il termine sibb compare sia con il significato di parentela acquisita che parentela di nascita.
Dunque questo termine veniva impiegato anche per indicare parentela per matrimonio. Nelle glosse aat. il sost.
sibba/sippa glossa sia di parentela di sangue (lat. propinquitas), sia parentela per matrimonio (lat. affinitas), così come
l’agg. sibbi traduce sia lat. consanguineus sia lat. affinitas. La parentela per matrimonio o artificiale era un’usanza
costante nell’aat., come dimostra il sost. sippa sia per lat. propinquitas, che per lat. affinitas, e il verbo gesippôn
‘’unirsi in matrimonio’’.

Questa pratica era diffusa anche in anord, come testimonia la parola corradicale sifjar, che designa la parentela
acquisita tramite il matrimonio, mentre sifjungr e sifkona fanno riferimento a parenti per affinità, e la parola sifjaslit è
stata così ristretta alla relazione matrimoniale che significa ‘’adulterio’’.

Un altro termine che mostra l’unione di due clan attraverso il matrimonio e che conferma Tacito è aat. ôheim (ia. ēam)
che traduce lat. avunculus che si riferisce precisamente al fratello della madre, quindi allo zio. La forma
protogermanica ricostruita *awahaima- è formata da due elementi: il primo elemento è corradicale di lat. avus
‘’nonno’’ e di got. awo ‘’nonna’’. La forma contratta (*auhaima-) avrebbe condotto alla forma dell’aat., mentre la
perdita di h- intervocalica avrebbe condotto a ia. ēam. Per quanto riguarda il secondo elemento è preferibile vedere in
esso il termine standard germ per ‘’proprietà’’, così che la parola deve essere intesa come un composto bahuvrihi
‘’colui il quale ha la casa del nonno materno’’.

Questo presuppone che lo zio in quanto erede della casa si assuma il compito di proteggere sua sorella e il figlio di lei,
non perché sia suo nipote, ma piuttosto per la discendenza dal nonno (aat. eninchil, ted. mod. Enkel ‘’nipote’’,
diminutivo di aat. ano ‘’nonno’’).

Un’altra associazione che poteva essere assimilata al clan era il séguito germanico, i cui membri potevano essere visti
come vincolati l’un l’altro dallo stesso tipo di legami che univano gli appartenenti a uno stesso clan. Il séguito
reclutava le proprie forze al di fuori del clan, e i legami tra i membri del séguito erano rafforzati dall’essere visti come
legami di parentela non naturali. Un termine per indicare coloro che appartengono al clan, aat. friunt, è utilizzato
quando questi vengono definiti nôtfriunt ‘’amici di battaglia’’. Nel Beowulf ricorre un’altra parola per indicare colui
che è parente all’interno di un séguito (māgas).

Vi sono tre parole che in aat. designavano il clan inteso come parentela di nascita: friunt ‘’uomo del clan’’, sibba/sippa
e kunni ‘’clan’’.

La parola friunt da un lato, come risulta chiaro nella forma got. frijonds, può essere vista come participio presente
sostantivato del verbo frijon ‘’amare’’, utilizzato come sost. indipendente. Frijonds sarebbe stato perciò ‘’colui che
ama’’, il che lo rende giustificato e coerente nel contesto del corteggiamento e del matrimonio, ma anche col
significato di amico (got. frijonds è l’equivalente del gr. ‘’amico’’).

Questa spiegazione non esclude la relazione con la nozione di parentela dato che il verbo frijon originariamente
significava ‘’trattare qualcuno come parte del clan’’.

Frijonds potrebbe risultare anche una formazione ie. in –nt- da un sost. attestato in germ. come *frijo ‘’moglie’’,
quindi quest’ipotesi fa derivare frijonds direttamente dal sost. ‘’moglie’’ (di conseguenza la parola avrebbe identificato
‘’coloro i quali appartengono ad una donna sposata’’), mentre la prima ipotesi fa derivare il sost. da un verbo che a
sua volta era formato da un agg. sostantivato con il significato di ‘’moglie’’.

Entrambe le spiegazioni dipendono dal ruolo del matrimonio e del prendere moglie, includendo così i significati di
amore o amicizia al pari di quello di parentela per matrimonio.

Entrambe le ipotesi riconoscono una somiglianza della parola frijonds con la radice di due termini giuridici aat. fridu e
frî.

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C’è una connessione concettuale tra pace e parentela evidente dal collegamento linguistico tra aat. fridu e got.
frijonds, poiché fridu indicava la pace nel clan garantita attraverso il mantenimento dell’ordine all’interno della società
tribale, mentre got. frijonds indicava l’uomo del clan. Questo collegamento è dimostrato anche dal doppio uso di aat.
sippa per indicare sia ‘’pace’’ sia ‘’parentela’’.

Il got. frijonds è collegato concettualmente anche all’agg. aat. frî, il cui valore semantico originario era ‘’proprio’’,
specialmente riguardo a un parente per nascita. In questo senso la libertà, così come la pace, dipende dalla
protezione, militare e giuridica, garantita dal clan, e dal fatto di essere parte di un proprio clan.

Le attestazioni di frijonds nell’area germanica rimandano al duplice contesto della parentela e dell’amicizia. Amore e
amicizia potrebbero far parte del contesto del matrimonio (got. frijon, aat. freien), e al tempo stesso la nozione di
parentela potrebbe rientrare in tale contesto in seguito all’ammissione della donna all’interno del clan del marito. La
distribuzione di questi due significati nelle lingue germ. è incerta. Il fatto che il significato di ‘’parente’’ sia attestato in
ogni lingua (eccetto il got.) e che il significato di ‘’amico’’ non ricorre in anord. (lingua conservatrice), ciò potrebbe far
pensare che quest’ultimo significato sia stato un’innovazione più tarda, e che di conseguenza il punto di partenza sia
la parentela.

Consideriamo alcuni esempi di questi due usi nelle varie lingue germaniche. In ia. il significato di ‘’parente’’ è chiaro
quando frēond viene utilizzato in un contesto giuridico, mentre l’uomo che non ha parenti che lo sostengano
legalmente è frēondlēas. Oltre a questo, ia. frēond sta anche per ‘’amico’’, soprattutto quando è in contrasto con
fēond ‘’nemico’’ quando qualcuno ad es. è appellato Godes frēond ‘’amico di Dio’’.

In anord. invece si trova solo il significato di ‘’parente’’, nello specifico ‘’parente di sangue’’, espresso dalla parola
fraendi, mentre il termine fraendlauss (come ia. frēondlēas) si riferisce a colui che è privo di parenti. Il significato di
‘’parente’’ è conservato tuttora nelle lingue scandinave (es. sved. frände ‘’parente’’), dove il concetto di ‘’amico’’ è
espresso da una parola totalmente diversa (sved. vän, cfr. aat. wini). Di conseguenza in Scandinavia questo concetto
non è stato mai espresso da una parola corrispondente a got. frijonds.

In asass. invece si trovano entrambi i significati. Nel Heliand ‘’Salvatore’’ (poema allitterante di circa 6000 versi in
asass. a tema bibilico) friund ‘’parente’’ presenta tre variazioni sinonimiche (swâs man, an sibbius bilang e mâgskepi).
Il significato di ‘’parente’’ persiste anche in medio basso ted.: vrünt ‘’parente’’, vründe rāt ‘’decisione di famiglia’’
(specialmente nel contesto del matrimonio), vründe unde mage (cfr. la doppia formula in asass. sopra citata) ‘’parenti
vicini e lontani’’. Inoltre Heliand utilizza friund anche per esprimere il concetto di ‘’amico’’.

Anche in aat. sono attestati entrambi i significati. Una testimonianza indiretta riguardo il significato di ‘’parente’’,
almeno per il francone, proviene dal termine lat. medievale ‘’amicus’’ che, a differenza del latino classico, indica sia
parentela che amicizia. Una prova più diretta invece ci viene fornita dalla glossa che rende lat. parentes ‘’parenti’’ con
friunt o dall’endiadi ricorrente nell’opera di Otfrid, il quale offre un esempio evidente di impiego di friunt
nell’accezione ‘’parente’’: filu manag friunt e ther lantliut (lat. vicini et cognati, Luca 1,58). Questo significato è stato
conservato anche nei dialetti ted. moderni. A parte ciò, in ted. è documentato il significato di ‘’amico’’ dall’inizio della
tradizione scritta, ma non possiamo basarci sui glossari in cui friunt glossa lat. amicus, poiché non si è certi che il
significato del latino debba essere ‘’amico’’. Infatti lat. amicus potrebbe aver assunto il significato di ‘’parente’’ dal
germ. Si hanno meno incertezze invece laddove friunt equivale a parole quali wini e trût, entrambe col significato di
‘’amico, caro’’. Infine got. frijonds traduce il gr. ‘’amico ‘’ e denota solamente amicizia. Il termine che invece esprime
parentela è (ga)niþjis.

La parola ted. friunt denota in primis qualcuno i cui obblighi includono la protezione ad un altro friunt nella faida,
come è espresso dal termine nôtfriunt o dal lat. amicus necessarius. La protezione includeva l’assistenza militare e
legale nell’aiuto al giuramento e veniva offerta dal clan. Colui che era privo o separato dal suo clan a causa dell’esilio
era esente da questo servizio ed esposto a punizioni più dure. Il termine che esprime questo pericolo è l’agg. ia.
frēondlēas, anord. fraendlauss, attestato anche nel Carme di Ildebrando. Quest’ultimo come un esule era escluso dal
suo clan e di conseguenza era privo di ogni assistenza, tra cui la protezione legale la cui mancanza rendeva l’uomo
impotente in quanto individuo isolato.

Infine friunt può anche tradurre lat. cliens ‘’seguace, protetto’’, analogamente a Beowulf che viene considerato come
il figlio di Hrōðgār.

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La seconda parola, ovvero aat. sibba/sippa ‘’parentela’’, è attestata in tutte le lingue germ e risale a una radice con
valore di riflessivo *s(w)e-, in quanto esprime l’idea di ‘’sé stesso’’ o ‘’proprio’’, ed è presente anche in alcuni nomi
tribali come anord. Svíar ‘’svedesi’’ e lat. Suēbi. Tale radice poteva produrre nomi indicanti un’associazione basata
sulla nascita, che si distingue sia dal clan che dalla tribù. Probabilmente il significato originario di sibba/sippa era
‘’quelli del proprio genere’’. Di conseguenza questo termine venne utilizzato per indicare un insieme di parenti ad un
livello inferiore di consanguineità.

Aat. sibba/sippa (con le varianti sippia, sippea) oltre ad esprimere il concetto di parentela, indica, così come la parola
aat. fridu, anche la pace che doveva regnare tra i membri del clan. Con l’avvento del Cristianesimo questo concetto
non venne più considerato una necessità sociale, ma una virtù, e si affermò lentamente nel mondo germanico. Infatti
il significato precristiano di pace non era semplicemente uno stato passivo (assenza di ostilità), ma uno stato attivo
(prontezza ad aiutarsi e a difendersi l’uno l’altro).

Quando parliamo di sibba/sippa bisogna stabilire dove questo termine indichi il clan e dove designi la pace. Questa
parola compare in got. come sost. (sibja), come verbo (gasibjon) e come agg. negativo (unsibjis). Poiché il verbo
significa ‘’riconciliare’’, quindi ripristinare la pace tra due popoli, è stato ipotizzato che questo fosse il significato
originale senza tenere conto dell’etimologia, e che da ciò fossero derivate le altre accezioni, ma non è
necessariamente così. Infatti la riconciliazione, quindi la pace, può essere quella che dovrebbe regnare tra gli uomini
del clan. Ciò è testimoniato dal fatto che il sost. suniwē sibja ‘’adozione di figli’’ e il verbo che rende esplicita una
relazione con in fratello, vengono utilizzati nel contesto di parentela. Anche l’agg. negativo può essere associato al
clan e quindi al contesto di parentela, nonostante il suo significato sia ‘’illegale’’ o ‘’empio’’, poiché se ricordiamo che
l’uomo senza clan era privato della protezione legale dovuta a un uomo libero e non era così diverso dallo status di
fuorilegge.

In anord. la parola corradicale viene quasi sempre usata al pl. e indica la parentela acquisita attraverso il matrimonio.
Un es. è dato dal part. pass. sifjađr che significava ‘’imparentato attraverso il matrimonio’’. Mancano invece
attestazioni della parola con il significato di ‘’pace’’.

In ia., come in got., sono attestati entrambi i significati. Dunque la parentela è vista nella sua funzione di garanzia del
rispetto della pace. Il concetto di parentela viene espresso nel Beowulf dal termine sibling ‘’parente’’, o da composti
come brōðorsibb ‘’parentela tra fratelli’’, da nēahsibb ‘’stretta relazione attraverso il matrimonio’’, da sibbgebyrd
‘’parentela di sangue’’ come per esempio nel contesto in cui un re, avendo relazioni di parentela con il beneficiario, gli
offre un dono. La parola sibba inoltre può assumere il significato di ‘’pace’’ quando si dice che i due re mantengono tra
di loro lo stato di sibbe.

In aat. sono attestati entrambi i significati. Il concetto di parentela è sottinteso quando lat. propinquitas o progenies
sono glossati con sippa o lat. consanguineus con gisibbo. A volte la relazione può essere determinata dalla parentela
(come nel caso del lat. affinis, affinitas quando sono glossati con sibbi, sippa), ma il contesto resta sempre quello della
parentela.

Ciò non esclude il fatto che sibba possa significare anche ‘’pace’’. Infatti sibba può essere strettamente associata a lat.
foedus ‘’patto’’ come base giuridica di una relazione pacifica, gisibbo sta per lat. foederatus, mentre sippon traduce
lat. foederare. A volte il significato di ‘’pace’’ (come in ia.) può diventare primario in aat. infatti nella traduzione del
Diatessaron di Taziano, nel contesto delle Beatitudini, sibbisam corrisponde a pacificus (come in ia.), mentre sibba vale
come equivalente di lat. pax.

Sibba è l’unica parola a non designare solamente la parentela di sangue, ma sottintende anche la pace come base di
quel legame.

L’ultima parola, aat. kunni, è attestata in tutte le lingue germaniche ed è corradicale di gr. γεvoς ‘’discendenza,
nascita’’, lat. genus ‘’discendenza, parentela, tribù’’, e gigno ‘’generare’’. Il segmento linguistico, o formante –ja venne
usato per la formazione di sost. neutri come *kunja-. La parola significava perciò ‘’ciò che è generato’’, quindi
‘’progenie, parentela’’.

Wulfila usa got. kuni per tradurre una varietà di termini di parentela greci come γεvoς, γεvεά ‘’generazione’’. In ia. cyn
è strettamente correlato al clan. Nei Beowulf un giovane guerriero può essere descritto come ‘’l’ultimo del nostro
clan’’ perché tutti gli altri uomini del clan (māgas) sono stati spazzati via dal fato.
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Nelle glosse antico alto tedesche kunni è usato regolarmente per tradurre termini latini relativi alla parentela come
genus, cognatio, sanguis o progenies.

Oltre a questa valenza semantica di parentela, aat. kunni assume il significato di ‘’tribù’’ o ‘’popolo’’. Nel caso di
‘’tribù’’, aat. kunni può essere usato come equivalente di lat. tribus e spesso può essere applicato alle dodici tribù di
Israele, mentre nel caso di ‘’popolo’’ può essere impiegato non solo per una delle tribù di Israele, ma anche per
l’intero popolo ebraico, e in un contesto non biblico. Altre estensioni semantiche della parola kunni, che sembrano
essere calchi semantici di lat. genus, sono ‘’umanità’’ e ‘’genere’’ (con la parola ‘’genere’’ ci si riferisce al ‘’genere’’ di
spirito malvagio che deve essere allontanato con preghiere e digiuno, uso presente sia in got. che in aat.).

Il clan ha subito delle vicissitudini durante il periodo delle migrazioni e in quello successivo. Prima che si stabilisse il
potere regale, il potere della giustizia veniva esercitato dal clan attraverso la faida, che non veniva intrapresa per dare
sfogo alla propria rabbia, ma piuttosto era un obbligo dovuto alla società, in quanto mezzo per mantenere legge e
ordine.

Con lo stabilirsi di un potere statale la faida venne vista come una minaccia all’autorità del sovrano oltre che come
causa della disintegrazione della società. Con la fine delle migrazioni il clan e la faida furono incapaci di sviluppare
mezzi per fornire un’autorità legale e amministrativa su aree tribali a quell’epoca di ampiezza maggiore.

Numerose fonti attestano l’opposizione al clan nelle situazioni in cui l’autorità centrale era messa in pericolo dalla
faida. Una di queste fonti era la legge romana, che rifiutava la faida, quindi ogni intervento da parte del clan, poiché
considerava il colpevole l’unico responsabile del crimine da lui commesso.

Anche la Chiesa era contraria alla faida. In primo luogo perché si opponeva allo spargimento di sangue ed essendo
dipendente dall’autorità centrale, decise di sostenere il mantenimento dell’ordine del sovrano. Per questo motivo
sostenne la composizione della faida per concordato e per guidrigildo invece che per vendetta, poiché quest’ultima
doveva essere eseguita da Dio il giorno del Giudizio Universale.

Secondo quanto stabilito dalla Chiesa e dalla legge romana, il colpevole era l’unico responsabile delle proprie azioni, di
conseguenza era l’unico a dover essere punito. Ciò contrasta con la mentalità del clan, dove la punizione riguarda
l’intero clan a cui l’individuo colpevole appartiene.

L’ingresso delle tribù germaniche nel mondo romano e la loro adozione dei principi giuridici di Roma misero in crisi le
idee germaniche sulla faida e sulla funzione del clan.

CAPITOLO 4. LA CULTURA DELLA GUERRA

Il sorgere di numerosi séguiti veniva incentivato dalle relazioni mutevoli di parentela e di potere, che a loro volta erano
determinate dalle condizioni di vita variabili. I seguaci di queste istituzioni erano la famiglia che fungeva da gruppo
combattente e l’esercito tribale. Senza di essi nessun capo germanico poteva rivendicare il potere, tanto che era
costretto a offrire incentivi sufficienti a convincere i guerrieri a restare con loro, perché questi non provenivano
necessariamente dallo stesso clan o dalla stessa tribù.

Gli incentivi erano essenzialmente dei doni che il capo o il signore, detto ‘’donatore di anelli’’ (ia. bēahgifa), offriva al
suo seguace, detto ‘’ricevente di anelli’’. Queste denominazioni derivano dal fatto che i doni in questione erano
appunto anelli veri e propri o metalli preziosi, ma non solo: Tacito parla anche di cavalli da battaglia o di lance.

Affinché il capo potesse garantire delle ricompense generose, che legava i suoi seguaci in un vincolo di fedeltà, era
necessario un contesto di guerra e violenza da cui poter ricavare bottino e tributi. Pertanto un periodo di pace
significava un momento di crisi non solo nell’elargizione di doni, ma anche nella struttura del potere di una società
tribale in cui il séguito cominciò ad occupare una posizione di rilievo a partire dal I sec. d.C.

L’elargizione di doni alimenta lo spirito bellico del guerriero e porta alla guerra. Molte delle fonti classiche trattano le
usanze belliche dei germani, ponendo in rilievo la loro mancanza di disciplina militare, intesa come il controllo
generale del combattimento, e di controllo tattico, due fattori che ponevano in netto svantaggio i germani di fronte ai
romani, i quali erano legati ai loro seguaci da un rapporto di obbedienza (mentre ciò che univa i capi germanici ai loro
seguaci era il rapporto di fedeltà).

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Un altro svantaggio per i germani era la scarsità del ferro nel loro equipaggiamento. Infatti l’equipaggiamento più
comune del guerriero germanico, lo scudo, era per lo più di legno con una piccola quantità di metallo. La spada invece
era interamente fatta di metallo ed era un oggetto di prestigio usato solo dai capi che potevano permettersela. Solo
nel periodo delle migrazioni la spada divenne sempre più frequente, acquistando sempre più valore. Essa era lavorata
in diversi modelli per colpire con violenza o per trafiggere e diede origine ad una serie di designazioni, tra cui aat.
brant ‘’spada’’ e ‘’lama di spada’’, got. hairus e meki, aat. sahs ‘’spada, coltello, pugnale’’, presumibilmente una spada
a lama corta.

Tacito ci parla di un’altra arma offensiva del guerriero germanico, ovvero la lancia, usando una parola nativa, framea.
Queste armi erano indubbiamente inferiori rispetto a quelle possedute dai romani. Innanzitutto la lancia, usata sia per
trafiggere che per essere lanciata, era essenzialmente un’asta di legno con un puntale o una lama di ferro. Altri
lessemi per la lancia sono aat. ger (spesso ricorrente nei nomi di persona come per es. Geisericus < germ. com.
*gaiza), spioz e sper. Le attestazioni onomastiche mostrano che numerose lame di spada nel germanico sett. e in
quello orientale presentavano iscrizioni runiche, che danno un nome all’arma stessa quasi per conferirle una funzione
magica. Ad es. raunijaR ‘’che è pronto alla prova’’, ranja ‘’cha va alla carica’’, tilarids ‘’che va all’attacco’’.

Secondo quanto dichiarato da Tacito i germani non solo andavano in battaglia nudi o con addosso abiti leggeri, ma
davano anche un’importanza maggiore alle armi d’attacco rispetto a quelle di difesa, rappresentate dallo scudo. Infatti
l’unica protezione era lo scudo, in genere di legno, ricoperto di pelle e rafforzato da una bordura di ferro lungo il
perimetro esterno. Inoltre poteva essere utilizzato sia dal singolo guerriero per parare i colpi, che da un gruppo che si
ricopriva con gli scudi, come suggerisce il termine ia. per designare un ‘’muro di scudi’’ scildweall, scyldburh,
bordhaga.

Meno diffuse erano l’armatura e l’elmo (di legno o metallo), indossate soltanto dai capi. La parola aat. brunna per
indicare l’armatura è di origine celtica, ed è probabile che i germani l’avessero adottata proprio dai celti, i quali erano
più evoluti. L’uso di queste protezioni era talmente sporadico che alcune fonti classiche negano che i germani
usassero tali oggetti o arrivano a dedurre che potevano averle prese come bottino di guerra. La rarità di questi oggetti
è dovuta al loro prestigio e valore, tanto che la parola helm ‘’elmo’’ venne impiegata per essere riferita a qualcuno di
rango elevato, il re (cfr. ia. cynehelm, aat. chunichelm ‘’corona’’).

Per quanto riguarda le modalità di combattimento dei germani le testimonianze al riguardo non suggeriscono nessuna
formazione a schiera (presente invece nell’esercito di Roma). L’unica formazione di cui parla Tacito è quella a cuneo
(cuneus), dove il capo e i suoi uomini scelti, i quali erano equipaggiati meglio degli altri, stavano alla punta del cuneo,
mentre i fianchi andavano allargandosi verso la retroguardia ed erano protetti da scudi sovrapposti. In questo modo il
cuneo caricava i soldati romani nella speranza di rompere le loro file con il semplice peso dell’urto, evitando il
combattimento corpo a corpo.

I termini germ. per questo tipo di formazione sono anord. svínfylking ‘’formazione a cinghiale’’, rani ‘’grugno’’ per
designare la punta del cuneo. Questi termini corrispondono a quelli usati dagli autori latini, caput porci e caput
porcinum attestati per la prima volta nel IV sec., al posto del precedente cuneus. Sono quindi prestiti dal mondo
germanico, trasmessi dai soldati mercenari germanici al servizio dell’esercito imperiale.

L’esercito germanico era costituito soprattutto da manipoli di fanteria e da truppe di cavalleria occasionali. Questo
perché i costi di mantenimento del cavallo erano piuttosto elevati. Le tribù germaniche orientali (quelle che migrarono
verso est) scoprirono un uso militare del cavallo che le tribù germaniche occidentali non conoscevano grazie ai
contatti avvenuti con le popolazioni nomadi delle steppe. Inoltre l’impiego della cavalleria era presente anche nel
mondo romano.

Il fatto che i guerrieri germanici spogliassero delle loro armature e armi i morti dell’esercito romano, indica che i
guerrieri germanici era consapevoli della superiorità tecnica dei romani. Eppure fu l’impero romano ad essere
sopraffatto dagli invasori barbari. Sono varie le spiegazioni plausibili di questa vittoria, tra cui il fronte esteso lungo il
quale le migrazioni dei popoli germanici li spinsero al conflitto con l’impero, il bisogno di terre nuove e la pressione da
parte di altre tribù alle loro spalle.

Un altro aspetto da considerare è il duello, di cui abbiamo un lessico nativo (ovvero centrale, quindi non periferico,
non dovuto ai contatti con altre lingue) specifico. Ad es. il sost. urhêtto, che rappresenta un tratto comune del germ.

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occ., condiviso da Germania e Inghilterra, compare solamente una volta in aat. all’inizio del Carme di Ildebrando
laddove padre e figlio si scontrano da soli in un duello. Il problema è stabilire se urhêttun, che è abitualmente tradotto
con ‘’sfidanti’’, ‘’avversariìì, ‘’condottieri’’, ‘’campioni’’, riferito a Ildebrando e suo figlio Adubrando mentre sono
intenti ad aggiustarsi le armi in vista di uno scontro corpo a corpo, trasmetta qualcosa del ruolo che essi hanno in uno
scontro frontale combattuto in nome dei loro rispettivi eserciti.

Dato che il termine ricorre solo una volta in aat., è meglio fare affidamento ad altre forme parallele, come ad es. il
verbo biheizzen con il significato di ‘’essere così audace da affermare qualcosa’’. Questo termine, che compare nella
traduzione di Isidoro, è corradicale del sost. urhêttun e compare, sempre insieme a urhêttun, quando Otfrid usa nel
Carme di Ildebrando (quando Pietro e gli altri apostoli proclamano con orgoglio che staranno accanto a Cristo nell’ora
del bisogno) il verbo biheizzen ‘’fare un’audace, orgogliosa affermazione’’ in unione con il sost. urheiz. In got. Wulfila
usa il verbo ushaitan nel senso di ‘’provocare (con sfida e orgoglio)’’. In anord. il verbo heita può ancora assumere il
significato di ‘’minacciare’’.

È comunque in ia. che sono attestati sostantivi corrispondenti all’aat., quali ōret ‘’battaglia’’, ōretta ‘’guerriero,
campione’’ che chiarisce l’impiego del termine urhêttun in senso militare. Beowulf viene designato come ōretta in due
contesti: mentre combatte da solo con un essere mostruoso, dove fa una promessa solenne a Hrōðgār utilizzando la
stessa radice verbale (Ic hit þē gehāte) e dopo che si è impegnato ad affrontare da solo l’impresa, accettando con
parole orgogliose (bēotwordum) di combattere contro il drago (si noti che bēot derivato da *bīt-hāt presenta la stessa
radice).

Un altro contesto nel quale compare il nome d’agente con il significato di ‘’guerriero, campione’’ e una radice che
trasmette una promessa audace e orgogliosa è il passo che contiene il nome composto ōretmecg, termine riferito ai
guerrieri riuniti nella sala della birra che brindano al loro desiderio audace di affrontare il mostro Grendel.

Nella letteratura religiosa ia. il termine ōretta ‘’guerriero, campione’’ è attestato anche nel combattimento di Davide
re d’Israele, il quale viene anche definito Cristes cempa (ingl. Christ’s champion or soldier) ‘’campione o soldato di
Cristo’’. Quindi entrambi i termini (ōretta e cristes cempa) esprimono lo stesso concetto da un punto di vista cristiano.
In altri casi invece il vanto e l’orgoglio del guerriero viene percepito da un punto di vista non cristiano: in got. ad es.
viene espresso dal parallelo tra ushaitan ‘’provocare’’ e bihaitja ‘’colui che si vanta, che è orgoglioso’’; in Otfrid viene
espresso con l’uso di urheiz e biheizan per criticare la promessa di Pietro per morire per Gesù.

Nel diritto medievale germanico è attestato lo iudicium Dei o ordalia, un’antica pratica giuridica basata su un duello o
una prova fisica dolorosa a cui l’accusato veniva sottoposto. Le prove erano varie: prove di fuoco o dell’acqua, per es.
far passare tra due roghi l’accusato vestito di una camicia imbevuta di cera; immergere la mano o il braccio in una
caldaia piena d’acqua bollente o gelida per estrarne uno o più oggetti e verificare poi le ferite; immergere l’accusato in
un fiume e riconoscerlo innocente se affondava, colpevole se galleggiava; prove della bara: porre il presunto uccisore
a contatto con il corpo della vittima e verificare in questo strane reazioni; della croce: collocare accusato e accusatore
in piedi con le braccia a croce, durante la recita del vangelo, premiando chi resisteva più a lungo; prove della caldaia
pendente: l’accusato era colpevole se, recitando certe preghiere, la caldaia piena d’acqua sospesa sopra di lui iniziava
a girare; il iudicium offae: era dichiarato innocente chi riusciva a trangugiare una data quantità di pane e formaggio.

Lo stesso termine ordalia (dal lat. mediev. ordalium, che è dall’ia. ordal ‘’giudizio di Dio’’, cfr. ted. Urteil ‘’giudizio’’)
indica che l’esito di questa pratica era considerato come diretta manifestazione della volontà divina, quindi
determinante per il riconoscimento dell’innocenza o della colpevolezza dell’accusato stesso.

Nel diritto secolare serviva per stabilire la verità in mancanza di testimoni, una verità che veniva proclamata da Dio
con il suo intervento. Sia l’accusa che l’imputato avevano il diritto di essere tutelati giuridicamente da qualcuno che
fosse un professionista in campo giuridico. Il termine che indica colui che combatte a fini giuridici è lat. campio, e il
prestito corrispondente è aat. kempho, mentre l’ordalia era definita rispettivamente lat. campus e aat. kamph. Questa
pratica veniva definita anche aat. wehadinc (come equivalente del sintagma lat. pugna duorum), termine che chiarisce
meglio questo genere di combattimento, poiché aat. wehan ‘’combattere’’ conferisce al composto wehadinc il
significato di ‘’processo tramite combattimento’’.

Il giudizio ordalico si diffuse in Europa dopo la caduta dell’Impero romano per l’utilizzo fattone dalle popolazioni
germaniche come forma di sostituzione della faida. Secondo il modello di giustizia delle varie stirpi germaniche l’uomo

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libero, il guerriero, era indipendente dall’autorità di uno stato e non poteva quindi essere sottoposto ad un’indagine
giudiziaria né ad un potere repressivo espressione di un’autorità pubblica: non esisteva infatti un organo centrale
preposto alla soluzione giuridica delle liti, ma i conflitti dovevano essere risolti privatamente tra le parti in causa e le
rispettive famiglie (sippe), o attraverso forme di negoziazione e transazione privata che portassero subito ad una
composizione economica oppure, in caso di contestazione dell’accusa e mancata ammissione di colpevolezza,
attraverso altri mezzi di prova come il giudizio di Dio.

Scopo delle ordalie non era pertanto la ricerca della verità, ma semplicemente la soddisfazione del desiderio di
giustizia dell’offeso attraverso un rituale probatorio indiscutibile perché evocativo di un giudizio ultraterreno:
l’accusato, se soccombente nella prova, doveva pagare la compositio (guidrigildo), se vincitore restava purgato da ogni
addebito disonorante.

La storiografia prevalente ritiene che le stirpi germaniche praticassero le ordalie già nella fase del paganesimo e che
poi, in seguito all’incontro con la cultura romana a cui erano del tutto estranee e con la religione cristiana, ne
modificarono gradualmente la forma senza tuttavia mai abbandonarle. Assai diffuse tra i franchi, erano invece
scarsamente praticate dai longobardi i quali riservavano le ordalie solo agli schiavi, ad eccezione del duello cui
ricorrevano con maggior frequenza.

La Chiesa giocò un ruolo decisivo prima per sostituire alle credenze pagane (sacrifici e riti magici legati alla natura) la
fede nell’intervento risolutore e giusto dell’unico Dio, poi per contrastare con una maggiore fermezza il ricorso a tale
metodo di giudizio. Fino all’VIII secolo la Chiesa non condannò l’ordalia e anzi in alcune occasioni, specie nei sinodi tra
VIII e XII secolo, ne stabilì espressamente l’utilizzo per purgare i rei di qualche colpa. Dunque la Chiesa si avvaleva di
una procedura pagana per attestare la verità, ma la cristianizzava inserendola in una dimensione religiosa. Quest’
esigenza nasce dal fatto che la mentalità dell’epoca era ancora pervasa di elementi magici, per cui la Chiesa rende
questi elementi liturgici. Solo nel XIII secolo il giudizio ordalico iniziò a decadere, a causa dell’accresciuto potere
dell’autorità imperiale o regia sulle realtà feudali, della riscoperta dei testi giuridici romani e soprattutto del mutato
atteggiamento, ora decisamente ostile, delle istituzioni ecclesiastiche. Nel 1215 il IV concilio lateranense, per evitare la
legittimazione delle pratiche ordaliche, vietò ai chierici di eseguire riti di benedizione o consacrazione per qualsiasi
tipo di prova di purgazione dell’acqua bollente o gelida o del ferro rovente. La definitiva scomparsa dell’ordalia va,
dunque, posta in relazione con il corrispondente rifiorire della tortura all’interno del processo penale romanocanonico
a partire dal Duecento.

Oltre al combattimento vi era un’altra pratica dello iudicium Dei, il giuramento. Un parente accompagnato da
testimoni giurati poteva accettare il giuramento oppure il duello nell’interesse dell’accusato. L’assistenza giuridica da
parte di un parente e da testimoni rimanda alla protezione legale da parte del clan, ma tuttavia le pratiche legali
dell’ordalia (combattimento eseguito in nome dell’accusato e il giuramento da parte dei parenti) rafforzano
l’atteggiamento cristiano del componimento aat. Muspilli, laddove l’autore non solo stronca la prassi giuridica
riguardante l’assistenza dei parenti poiché la considera irrilevante di fronte al Giudizio Universale, ma rifiuta anche la
possibilità di un duello al fine di stabilire la verità, attraverso la descrizione di un duello tra Elia e l’Anticristo, entrambi
detti khenfun, in cui la convinzione (considerata dall’autore scorretta) che Elia sarà vittorioso e salverà gli uomini è
attribuita agli uomini di legge esperti di diritto secolare. Per contro, il punto di vista clericale è corretto: il duello è
innecessario, poiché gli uomini devono rispondere di sé stessi e non avvalersi di un combattimento, perciò Elia è
sconfitto.

Nel mondo germanico la guerra veniva intrapresa in tre modi diversi: dal clan (faide con altre famiglie), dal séguito
(nelle incursioni) e dalla tribù (nelle guerre su vasta scala con altre tribù o contro nemici esterni).

La prima tipologia di scontro, la faida, è meglio considerarla come una guerra intra-tribale il cui scopo era mantenere o
ristabilire lo stato di protezione del clan. Era l’equivalente germanico della guerriglia, che assumeva la forma di un
attacco improvviso o di un agguato. I termini usati in lat. per faida (faida, faidus) derivano dal germ. che mostra ia.
fāēhþ, e con prefisso gi- aat. gifēhida ‘’vendetta, inimicizia’’, dall’agg. gifēh ‘’ostile, nemico’’.

Quanto ai séguiti, le ostilità intraprese da questi assomigliano alle lotte all’interno dei clan per il fatto che entrambe si
discostano dalla tribù nel suo complesso, caratterizzandosi tuttavia per il loro carattere di incursione a scopo di
saccheggio su obiettivi esterni all’area tribale. Non si preoccupavano neppure di salvaguardare una sicurezza interna
al gruppo, ma piuttosto di indebolirlo al di fuori dei propri confini con la violenza.
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Infine le guerre tribali coinvolgono l’intero popolo in armi, ovvero da tutti gli uomini della tribù con diritti giuridici e
con qualifica per portare le armi. Questi venivano chiamati alle armi in seguito ad un’invasione del territorio della
tribù da parte di un altro popolo, ma anche le incursioni ripetute da parte dei séguiti all’interno della propria tribù
potevano sfociare in una vera e propria guerra tribale.

Nonostante alcune caratteristiche condivise da ognuno di questi conflitti o la possibilità che uno si risolvesse nell’altro,
Cesare distingueva il séguito e la guerra tribale, definendo l’incursione poco più di un latrocinium ‘’ladrocinio’’ e la
lotta tribale bellum ‘’guerra’’.

Alcuni studiosi moderni hanno distinto questi due tipi di scontri in base al ruolo del paganesimo germanico,
sostenendo che pratiche religiose diverse erano soggette ai diversi modi di condurre una guerra.

La guerra non è solo un conflitto bellico, ma è anche un’impresa dal carattere religioso. Vi era infatti la convinzione
che gli dei presiedessero alla battaglia e che guidassero il guerriero in tale circostanza. Tale credenza è attestata in
ambito scandinavo dalla frase þeim stýra goð ‘’gli dèi li guidano’’ riferita ai guerrieri in battaglia. L’uso di goð al plurale
indica che gli dèi che guidavano i guerrieri erano divinità nel loro complesso. In altri casi invece la protezione dei
guerrieri era affidata ad un solo dio in particolare. Un esempio può essere dato dalle matrici di Torslunda (Svezia) che
raffigurano Odino, o secondo l’interpretatio romana, Marte o Ares. L’intervento divino in battaglia è attestato anche al
di fuori della Scandinavia. Tacito infatti ci offre la descrizione della tribù dei Lugi (situati nell’alta valle dell’Oder) da cui
emerge la loro adorazione nei confronti degli Alci, divinità giovanili che secondo i romani corrispondevano ai due
gemelli eroici Castore e Polluce, detti anche Dioscuri ‘’figli di Zeus’’, i quali erano venerati allo stesso modo come capi
divini della tribù in battaglia.

Tacito ci informa anche di ciò che avveniva in campo di battaglia, ovvero che i germani portavano sul campo immagini
e alcune statue tolte dai luoghi di culto caratterizzati dai boschi (lat. lucis) come insegne militari o vessili.

Per poter conseguire la vittoria in battaglia era necessario compiere un atto sacrificale. Il più diffuso era il sacrificio dei
prigionieri di guerra a seguito di una battaglia vittoriosa. Le fonti archeologiche confermano l’annientamento di
queste vittime sacrificali, un atto che includeva anche la distruzione sacrificale di cavalli e di equipaggiamenti dei
prigionieri sconfitti.

Il sacrificio umano veniva compiuto dai berserkir, ovvero dai guerrieri nordici i quali avevano promesso di immolare le
proprie vittime al dio Odino. Questa testimonianza è soprattutto esplicita in Scandinavia, ma ciò non significa che
appartiene solo al mondo germanico.

Infatti l’origine del nome della divinità, attestato tanto in germanico occ. quanto in quello settentrionale, va in un’altra
direzione, perché Wôdan è formato dal suffisso germ. com. –an- che indica l’essere in possesso di qualcosa che viene
espresso dalla radice, in questo caso wôd. Ad es. il nome Wodan indica colui che è ‘’capo o signore del wôd’’ ovvero
‘’rabbia, furia’’, parola che sopravvive in ted. mod. Wut ‘’rabbia, furia’’.

Vi sono altri nomi teoforici (contenenti cioè il nome di una divinità) formati da un primo elemento, che corrisponde al
nome della divinità in genere o di un dio in particolare, e da un secondo che denota un guerriero o la battaglia nella
quale è impegnato (aat. Cotahilt, Gotafrid) oppure un animale aggressivo. In quest’ultimo caso si tratta di nomi
terioforici.

La presenza delle attestazioni onomastiche in tutto il territorio germanico conferma l’origine germanica comune. Ad
es. la parola germ. comune ‘’dio’’ ricorre nei nomi di guerrieri come anord. Guðbrandr (il secondo elemento denota la
spada che il guerriero brandisce) e l’ostrogotico Gudinandus.

Per quanto riguarda i nomi terioforici, questi sono formati da un primo elemento rappresentato da aat. ebur
‘’cinghiale selvatico’’ o da qualche suo equivalente, e da un secondo come hard ‘’duro, potente, coraggioso’’, wakar
‘’forte’’ oppure muot ‘’rabbia, ira, coraggio’’, che rafforzano il significato del primo termine, ovvero l’aggressività
dell’animale. Un esempio può essere il nome Eburhard che indica la speranza che il guerriero farà sue le qualità
dell’animale.

Vi sono anche antroponimi il cui nome designante un animale aggressivo è posto in seconda posizione, mentre il
primo elemento è rappresentato da un termine col significato di battaglia, come nel caso di aat. Hildulf ‘’lupo di

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guerra’’, Gundolf ‘’lupo in battaglia’’, asass. Hildebern, Wigbern ‘’orso in battaglia’’, ia. Heathwulf ‘’lupo di guerra’’,
anord. Gunnbjörn ‘’orso in battaglia’’. Il primo elemento può anche essere un termine designante l’esercito come in
aat. Heriulf, asass. Heribern, o un’arma o un oggetto dell’attrezzatura di difesa (ia. Heoruwulf dove è presente il
termine ‘’spada’’, ia. Helmwulf dove è presente il termine ‘’elmo’’).

Alcune kenningar tipiche della poesia eroica anglosassone mostrano notevoli paralleli con i nomi terioforici: il
guerriero viene indicato nella poesia anglosassone come hildewulf ‘’lupo nella battaglia’’, heorowulf ‘’lupo della
spada’’ o gūðbeorn ‘’orso della battaglia’’ (è da notare che il lessema ags. beorn ‘’giovane guerriero’’ è corradicale di
anord. björn e anord. jöfurr e significava originariamente ‘’cinghiale selvatico’’, assumendo in seguito il significato di
‘’principe’’ nella sua funzione di capo della battaglia.

L’usanza da parte dei popoli barbari di chiamare i propri figli con i nomi di animali e che rappresenta motivo di
orgoglio nel mondo germanico, viene criticata da un punto di vista cristiano dall’autore anonimo dell’Opus
imperfectum in Matthaeum del V e VI sec., il quale considera questi nomi il richiamo della devastazione delle bestie
feroci e degli uccelli rapaci.

È stato ipotizzato che i nomi di animale presenti in questi antroponimi fossero attributi di alcune divinità germaniche,
ad es. l’aquila rimandava ad Odino, il cinghiale era attributo di Freyr. Secondo questa teoria questi nomi
testimonierebbero al pari di quelli teoforici lo stretto legame tra la guerra e gli dèi, ma la presenza di un nome di
animale in un antroponimo non indicava necessariamente la divinità cui era connesso. Ad es. interpretare il nome
Arnulf, formato dalle parole che designano rispettivamente l’aquila e il lupo, come significativo di un culto di Odino
perché entrambi gli animali erano a lui sacri, sarebbe come attribuire tutti questi nomi solo al culto di tale divinità.
Invece di considerare i nomi terioforici come teoforici, è meglio interpretarli come segno di rispetto e ammirazione
per l’animale in questione le cui qualità quali la forza, la velocità e l’aggressività necessarie in battaglia sono desiderio
imitativo del guerriero, il quale è convinto, come nel caso di Eburhard, di trasformarsi in animale con la forza
dell’autosuggestione.

CAPITOLO 5. IL POPOLO E L’ESERCITO

Le parole aat. heri, folk e liuti sono termini nativi indicanti il popolo, ma anche l’esercito. Originariamente heri indicava
l’esercito in generale, folk veniva impiegato per la formazione militare, mentre liuti indicava i maschi adulti che
prestavano servizio nell’esercito.

Aat. heri ha parole corradicali in tutte le lingue germaniche ed è attestato come primo elemento di nomi propri, quali
ad esempio Heribrant (padre di Ildebrando e nonno di Adubrando), personaggio chiamato più volte in causa nel
Carme. Da questo esempio possiamo vedere come dalla nozione di heri ‘’esercito’’ sia derivato un gruppo di nomi
personali che designano coloro che si dedicano alla vita militare. Traduce le voci latine exercitus, militia, acies. Da
iniziale appellativo è passato a primo o secondo elemento di nomi personali soprattutto maschili. Si pensi a Hermann,
Herrick, Walther, Werther e tanti altri. Tuttavia il termine non risulta attestato solo nell’onomastica, ma anche nella
toponomastica. Ad es. per il toponimo Ari, un comune della provincia di Chieti, pertinenza nel IX sec. dell’abbazia di
Montecassino, s’ipotizza un’origine longobarda, dal germ. hari.

L’unica accezione con cui la parola è usata nel Carme di Ildebrando è quella militare. Nelle lingue germ. più arcaiche e
conservatrici, l’antico nordico e l’antico sassone, poiché meno coinvolte nelle migrazioni e meno esposte agli influssi
esterni, la parola heri è attestata con una seconda valenza semantica: quella politico- giuridica indicante il popolo,
inteso come comunità di uomini liberi atti alle armi e al governo della società tribale. La doppia valenza di heri è un
riflesso della società germanica, poiché l’assemblea giuridica germanica era anche un’assemblea militare e il giovane
maschio ammesso allo status di guerriero era anche in grado di partecipare a deliberazioni politiche e giuridiche. Heri
comprende coloro che prendono parte al thing ‘’assemblea legislativa’’ del popolo, uomini liberi in grado di portare le
armi.

Gradualmente il significato nordico di ‘’popolo’’ andò scemando sotto l’onda espansiva francone dai territori
meridionali e centrali della Germania verso le pianure settentrionali. L’originaria funzione politica di heri finì per
essere assolta dal termine liuti, presente anche nel Carme, nel senso di ‘’gente’’ (ted. mod. Leute) e ‘’sudditi’’, la
comunità etnica considerata nel suo insieme, inclusi donne, anziani e bambini.

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Al contrario in got. la forma harjis ricorre solo con l’accezione militare (ciò potrebbe essere attribuito al lessico
ristretto della traduzione della Bibbia); stessa cosa in ia. la cui forma here viene usata nella Cronaca Anglosassone solo
nella sua accezione militare come se si trattasse di un termine tecnico per l’esercito vichingo, riservando fyrd
all’esercito inglese. Allo stesso modo here indicava anche il popolo in senso politico, precisamente gli abitanti del
Danelaw (eccetto gli anglosassoni). Anche in aat. è attestato solo il significato militare. A volte sia in aat. che nelle altre
lingue germ. poteva essere usato nel significato generico di ‘’folla, moltitudine’’, ma senza connotazioni politiche o
giuridiche.

L’atteggiamento conservatore dell’antico nordico e dell’antico sassone indica che in origine la parola heri aveva due
significati: ‘’esercito’’ e ‘’popolo’’ (in senso politico) e che designava l’insieme degli uomini liberi con i loro obblighi
militari e politici. Lo sviluppo semantico della parola heri in Germania (ad eccezione del nord) e in Inghilterra,
entrambi territori occupati dopo le migrazioni, è segno della disgregazione di una forma di organizzazione militare
basata sull’obbligo di ogni uomo libero di prendere parte all’assemblea della tribù e di impugnare le armi nelle guerre
tra tribù, e della fine della doppia valenza semantica di heri, che assume il mero significato di ‘’esercito’’. Vari sono i
fattori che hanno determinato questa frattura, nonché i cambiamenti linguistici, primo fra tutti l’indipendenza della
supremazia dell’esercito, che separa l’esercito stesso dall’autorità dell’assemblea tribale, un fattore che risulta
connesso con ciò che i germani appresero dai romani, ovvero la disciplina militare. Molti capi germanici infatti
prestarono servizio nell’esercito romano, imparando i metodi militari di tale civiltà e una volta tornati nel mondo
germanico tentarono di applicare contro i romani ciò che avevano imparato e di allontanare gli eserciti germanici dalla
tradizionale indisciplina. Fu quindi un periodo che vide non solo l’imbarbarimento dell’esercito romano sempre più
dipendente dai germani, ma anche l’addestramento militare dei capi germanici ai nuovi metodi. Oltre ai fattori storici
vi sono anche quelli linguistici: accanto alla sostituzione in lat. volg. di lat. class. bellum con una parola di origine
germ., werra, si trovano termini militari latini acquisiti come prestiti nel mondo germanico.

Per quanto riguarda la disciplina militare l’obbedienza che era dovuta al capo militare ha portato un cambiamento
nell’organizzazione dell’esercito, eliminando la parità dei diritti di tutti coloro che prendevano parte all’assemblea
della tribù.

Originariamente l’esercito germanico era basato su un’organizzazione orizzontale che conferiva meno autorità al capo
dell’esercito. Per poter prendere decisioni rapide durante il periodo delle migrazioni era necessario che quest’ultimo
fosse indipendente dall’assemblea (legislativa) della tribù, il che contribuì all’indebolimento dell’assemblea stessa,
indebolimento che si è evidenziato nei cambiamenti semantici subiti dalla parola thing. Nel mondo germanico
orientale era presente un regime monarchico più rigido, che fece sì che il capo potesse esercitare in modo diretto
l’autorità sui propri guerrieri.

Con l’invasione del territorio francone verificatosi alla fine delle migrazioni venne attribuita minore importanza
all’esercito germanico e all’aspettativa che un uomo con diritti politici avesse anche obblighi militari. Ciò fu dovuto
all’estensione geografica del regno francone che determinò una generale chiamata alle armi, e all’interruzione del
ciclo agricolo nei mesti estivi per partecipare alle campagne militari, che comportò un impegno economico
considerevole, specie per coloro che non appartenevano ad una posizione sociale elevata.

Eventi come questi, in aggiunta al progressivo indebolimento dell’esercito tribale, potevano essere tollerati dai capi
franchi solo se essi potevano ricorrere ad una forza militare meglio equipaggiata per affrontare i nuovi problemi sorti
alla fine delle migrazioni.

Nella risposta data a queste domande vanno ricercate le origini del feudalesimo, che si ritiene che abbia avuto origine
dal vassallaggio e dal beneficium: in origine i capi degli eserciti dei franchi, costituiti da soldati di fanteria, sentivano la
necessità di una forza permanente disponibile in ogni momento. Emerse così una nuova classe di guerrieri
professionisti stabili, che, in quanto vassalli, erano vincolati da un giuramento di fedeltà personale e servizio militare
ad un capo e per questo ricompensati da quest’ultimo attraverso il beneficium, ovvero l’assegnazione di una proprietà
in cambio del servizio militare. Il rapporto tra signore e vassallo era quindi di tipo personale e non era basato
sull’autorità politica e giuridica dell’assemblea della tribù.

Alcuni storici hanno opinioni diverse riguardo la datazione degli sviluppi militari dei franchi. Per Brunner, sostenitore
della teoria tradizionale dell’origine del feudalesimo, i cambiamenti politici e militari in area francone risalgono ai
merovingi, mentre per altri ai carolingi. Non importa quando siano avvenuti questi sviluppi. Essi cominciano
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abbastanza presto da lasciare tracce linguistiche in aat. all’inizio della sua tradizione scritta. Già in quel periodo la
lingua riflette ciò che era accaduto nella società francone: il disfacimento dell’organizzazione militare basata
sull’obbligo di ogni uomo libero di prestare servizio militare.

Gli sviluppi militari che sono alla base di questa disgregazione ebbero luogo in area francone, andando ad interessare
la tribù germanica occ. che venne coinvolta maggiormente nei cambiamenti. La Germania meridionale non fu l’unica
area ad essere influenzata dalle innovazioni dei franchi: anche i bavaresi e gli alemanni vennero coinvolti nelle
innovazioni, quali il vassallaggio. Il fatto che alla metà del VIII sec. aat. heri debba aver perso completamente il
significato di ‘’popolo’’ ci fa capire in che misura i cambiamenti militari franconi si siano estesi all’area centrale e
meridionale della Germania. Al contrario, l’antico sassone, essendo una lingua conservatrice, ha usato heri sia come
termine politico che militare, poiché venne esposto all’espansionismo francone solo più tardi. La Scandinavia rimase
immune da tale influenza.

Originariamente anche folk (termine attestato in tutte le lingue germaniche, fatta eccezione per il got.) indicava
‘’popolo’’ così come ‘’esercito’’. Siamo di fronte ad un termine usato anche nella sua accezione militare, nel senso di
manipoli di soldati, di reggimento o corpo all’interno dell’esercito, quindi folk indica un’unità militare più piccola
rispetto all’intero esercito. Nelle lingue delle popolazioni romane che occupavano i territori dell’attuale Francia
meridionale e Italia sett. sopravvivono i riflessi di quell’antico *fulk di origine presumibilmente ostrogotica, continuato
forse nel lat. vulgus e nelle forme latinizzate fulcus, folcus. È più plausibile la connessione con l’agg. plenus, che
suggerisce un significato originario di abbondanza, grande quantità (del resto gli agg. aat. fol, ted. mod. voll e ingl.
mod. full derivano dalla stessa radice). La presenza di antroponimi longobardi in Fulc-, di nomi propri alto tedeschi in
Folc- e Folch e di nomi comuni come folco ‘’moltitudine’’, attestato nei dialetti del territorio di Como, sarebbe una
traccia dell’antica colonizzazione germanica nell’Alta Italia e nella Francia meridionale.

L’accezione militare del termine è confermata dalle parole di Adubrando, il quale, dicendo del padre che stava folches
at ente, non si riferisce al fatto che Ildebrando fosse un principe a capo (at ente) di un popolo (folches), ma piuttosto
un militare avvezzo a combattere in prima linea. La decisione a favore di una schiera più piccola risulta chiara quando
Ildebrando afferma che gli veniva sempre assegnato un posto nella schiera degli arcieri, utilizzando il verbo scerita,
formato sul sost. scara che designa una truppa di minori dimensioni.

In antico sassone il termine folk viene impiegato col significato di formazione militare ridotta. Infatti in un passo del
Heliand (poema asass.), in cui Cristo profetizza la distruzione di Gerusalemme, l’esercito romano attaccante viene
indicato sia con heri che con la variante folk, ma mentre il primo termine viene usato al singolare, folk ricorre al
plurale. L’intero corpo dell’esercito era dunque formato da formazioni subordinate più piccole. Allo stesso modo,
quando folk viene usato al singolare (quando Cristo al momento della cattura si rivolge a Giuda) non indica nulla di più
che una banda di uomini armati.

Una situazione simile è riscontrabile in anord. non solo con la parola folk, ma anche con la forma derivata fylki. Il
primo sostantivo indica una schiera di guerrieri, come nel Primo carme di Helgi uccisore di Hundingr, dove si fa
riferimento ad alcune schiere che costituivano l’intera forza armata, mentre il secondo sost., probabilmente formato
come nome collettivo con il prefisso gi- (scomparso in anord.) è parallelo all’ia. gefylce ‘’schiera, divisione’’ ed indica
una formazione militare più piccola rispetto a un esercito.

Tacito usa la parola lat. cuneus sia quando fa riferimento a tali unità minori di combattimento, sia quando descrive lo
schieramento dei germani, che era costituito da formazioni a cuneo, ovvero da raggruppamenti per clan basati su
rapporti di parentela o, a volte, sulla tribù. Dunque folk era l’equivalente di cuneus ed indicava una suddivisione
all’interno dell’esercito basata, a volte, su legami di parentela.

Oltre alla funzione militare folk aveva anche il significato di politico-giuridico di ‘’l’intero popolo, gente’’ e non una
parte di esso. La funzione politico-giuridica di folk compare quando il termine è usato per indicare coloro che
partecipano all’assemblea della tribù, come nella scena del giudizio nel poema Heliand, laddove gli ebrei, presentati
come se fossero parte di un thing locale e ai quali viene chiesto se vogliono che sia messo a morte Cristo o il ladro,
vengono definiti folk. Da questo significato folk poté estendere il significato politico di ‘’popolo’’ per indicare l’autorità
di un capo o un re sulla sua tribù.

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Casi simili sono presenti in anord. e in ia. Nel primo caso, nel Secondo carme di Helgi uccisore di Hundingr, un principe
viene descritto come fólks iaðar ‘’signore di un popolo’’, mentre in ia. quando Beowulf va a trovare i Sūðdena folc, egli
sta cercando il popolo dei danesi dell’area meridionale, non una formazione militare composta dai danesi del sud.

La doppia funzione semantica di folk la troviamo anche in aat. Nelle glosse aat. il significato giuridico di folk è evidente
quando esso rende lat. contio ‘’assemblea del popolo’’, mentre il valore etnico e probabilmente anche politico emerge
maggiormente quando lat. tribus, definito come una divisione all’interno del popolo, è tradotto con kunni, folkes
ziteilitha. Nel Carme di Ildebrando ad es. viene chiesto al figlio Adubrando chi potrebbe essere suo padre tra ‘’gli
uomini del popolo’’ (fireo in folche), ovvero i guerrieri del popolo in armi. Nei versi successivi Ildebrando dice ad
Adubrando che non sa ancora di essere suo figlio, perché spera di farsi riconoscere dal giovane, menzionando eroi
dell’esercito di lui, e di evitare così la ‘’singolar tenzone’’ tra loro (ibu du mir enan sages, ik mi de odre wet, chind, in
chunincriche ‘’se tu me ne nomini uno, io conosco gli altri, giovane, nel regno conosco tutte le stirpi’’). In questo verso
compare la variazione di folk, ovvero chunincriche, col significato di ‘’regno’’. Pertanto folk può essere interpretato nel
senso di ‘’popolo’’ all’interno di un regno, come emerge anche in asass. e in ia., significato che indica un legame tra il
signore e il popolo su cui egli regna.

Nel tardo antico alto ted. il termine folk comincia a cadere in disuso, dapprima come termine militare, ma poi anche
come termine politico-giuridico dall’830 circa. È probabile che questa diminuzione dell’impiego di folk sia dovuta alla
perdita della sua connotazione politico-giuridica precedente (da Otfrid in poi) e al notevole impiego del sost. pl. aat.
liuti indicante ‘’popolo’’.

Il sost. sing. aat. liut ha in comune con heri e con folk il fatto di avere due significati, uno dei quali è ‘’popolo’’ in senso
giuridico, ma differisce da essi per il suo secondo significato, che non è militare, ma indica piuttosto uno stato di
subordinazione cioè quello di ‘’sudditi, vassalli’’. Questa parola attestata in tutte le lingue germ. (eccetto in got.)
deriva da una radice verbale ie. che indica ‘’crescere’’ e che ha lasciato tracce nel got. liudan ‘’crescere’’. Da ciò
possiamo supporre che il significato originario fosse quello della generazione di coloro che sono cresciuti e divenuti
maturi, quindi ‘’popolo’’ in senso politico-giuridico, dato che il giovane uomo acquisiva il diritto di partecipare
all’assemblea della tribù solo dopo aver raggiunto la maturità.

Il valore politico-giuridico di liuti, che implica anche un valore etnico (che distingue una tribù dall’altra) è presente
anche in aat., precisamente in un verso del Carme di Ildebrando, dove il figlio usa il termine ostarliuto ‘’gente
d’oriente’’ per indicare le tribù nomadi degli Unni.

Il numero di esempi del termine liuti in aat. con valore politico è abbastanza ridotto (infatti compare solo 2 volte nel
Carme di Ildebrando). Questo perché in tutta la Germania il termine più comunemente usato per ‘’popolo’’ non era
liuti, ma folk (almeno fino all’830). Ciò significa che liuti assunse il significato politico di uomo libero che
precedentemente era esclusivo di folk, per poi indicare uno stato di subordinazione, lo status dei sudditi di un re, di
seguaci o vassalli di un signore.

Questa trasformazione linguistica riflette i cambiamenti giuridici della società franca. Primo tra tutti la centralizzazione
del potere regale: nel periodo in cui i franchi occuparono la Francia sett. Clodoveo dopo aver sradicato i reguli (sovrani
di secondaria importanza) e sconfitto i visigoti nel 507 riuscì a instaurare la monarchia e ad estendere il proprio potere
fino ad includere i sudditi romani. Di conseguenza l’influenza delle idee politiche romane come l’autoritarismo
rafforzò il potere regale.

Anche l’assemblea legislativa subì un cambiamento radicale. Questa infatti venne sostituita da un’assemblea di nobili
che rappresentavano il re. Di conseguenza la scelta dei funzionari era fatta dal sovrano e non più dall’assemblea
popolare. Scomparve anche l’obbligo di prendere parte al thing, abolito in favore di un corpo di legislatori
professionale nominati dai re.

Mentre in passato era l’assemblea della tribù ad eleggere il re, nel periodo merovingio il potere regale derivava da Dio
(rex Dei gratia ‘’re per grazia di Dio’’) e non dal popolo. In altre parole si trattò di una monarchia teocratica secondo la
quale il monarca godeva di un’autorità legittimatagli direttamente da Dio. Ciò svincolava il re dai controlli del popolo
(l’insieme degli uomini liberi forniti di propri diritti politici e giuridici) a cui non spettava più il potere decisionale.
Pertanto il popolo poteva ora essere considerato come l’insieme dei ‘’sudditi del re’’.

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Queste riforme giuridiche si diffusero poi nella Germania centrale e meridionale, e nei territori dei sassoni. CAPITOLO

6. L’AUTORITÁ DEL SIGNORE

Vi sono tre termini (aat. frô, truhtin e hêrro) utilizzati per designare il ‘’signore’’.

Dal punto di vista etimologico il primo termine (frô) deriva da ie. *pro ‘’davanti, in testa’’. Termini quali lat. primi,
priores, principes e aat. furisto possono chiarire il significato di ‘’signore’’, in quanto i termini derivati dal lat. venivano
utilizzati in epoca merovingia per designare i nobili, mentre furisto (letteralmente ‘’il primo, il più importante’’) veniva
impiegato per indicare il principe.

Frô indica ‘’il signore di una casa’’, vale a dire di una famiglia. Ciò è indicato da got. heiwafrauja ‘’signore della casa’’,
dove il primo elemento del composto got. risulta legato ad altri termini germ. che designano la ‘’famiglia’’ (es. aat.
hiwun ‘’coppia sposata’’, hiwiski ‘’famiglia’’) ma anche con got. haims ‘’villaggio’’, ia. hām ‘’villa’’ e ia. hīd
‘’appezzamento di terreno’’. Ciò fa pensare che la famiglia risiedesse in un piccolo stabilimento o persino in un
villaggio.

La famiglia è intesa in questo contesto come nucleo familiare con una numerosa schiera di schiavi, servi ed altri
dipendenti. Ciò è confermato da alcune forme parallele in altre lingue ie. come lat. dominus ‘’padrone di casa,
proprietario’’ (da domus).

Frô poteva anche designare una figura simile al ‘’capo della tribù’’ ed era probabilmente l’equivalente nativo dei
principes cui si riferisce Tacito. L’associazione di questi due termini è resa possibile dall’uso regolare di principes al
plurale e dall’agg. frôno, genitivo plurale di frô.

L’agg. frôno veniva impiegato per qualificare i princeps germanici, i quali rappresentavano l’autorità pubblica
all’interno della tribù. Pertanto questo agg. poteva essere usato come corrispettivo di lat. publicus o communis.
Questo termine veniva impiegato anche per riferirsi al tributo pubblico reso alle autorità: frônagelt traduce lat. fiscus
(così che il tributo è visto come una tassa).

La parola in questione poteva essere applicata anche al re o a chi governa. Esempi di questo uso sono attestati in ia.,
laddove il composto folcfrēa ‘’signore, governante del popolo’’ indica l’autorità (frēa) esercitata sulla tribù (folc),
ovvero il suo re.

Il termine frô trova corrispondenza in tutte le lingue germaniche anche se in anord. compare soltanto nei nomi delle
divinità Freyr e Freya, mai però come appellativo. In aat. la parola continua ad essere attestata solo nella locuzione
vocativa frô mîn e come forma aggettivale (frôno). In ia. il termine frēa viene usato frequentemente come appellativo
di un signore secolare (e di Dio), ma anche in composti dove funge da prefisso rafforzativo (es. frēamicel ‘’molto
grande’’). In got. Wulfila usa frauja come appellativo religioso e secolare. Tralasciando il got. assistiamo perciò ad un
uso sempre più ridotto del termine frô. Ciò fa pensare che questa parola fosse piuttosto antica e che possa essere
stata sostituita da un termine più attuale, soprattutto da hêrro come termine originale francone per designare la
nuova istituzione sociale del vassallaggio.

Frô era anche in competizione (questa volta in ambito religioso) con un altro termine (aat. truhtin) utilizzato per
designare il concetto cristiano di lat. dominus. Ciò fa pensare che in epoca pre-cristiana il termine frô poteva esser
stato usato anche come termine religioso. Per poter stabilire ciò occorre considerare il termine fossilizzato frôno che
nonostante abbia funzioni di agg., esso è la forma del genitivo plurale del sost. frô, divenuto quindi agg. indeclinato e
normalmente posto dopo il nome cui si riferisce.

L’agg. frôno possiede tre significati: il primo è simile a quello di frô ‘’capo’’, cioè ‘’appartenente a un signore o ai
signori’’. Ad es. la duplice espressione frono ioh friero Franchono erbi indica la proprietà ereditaria di due classi di
persone: frôno erbi sta per hereditas dominica, quindi indica tutte quelle persone col titolo di frô, mentre friero
Franchono erbi indica i contadini franchi nati liberi. Ciò che precedentemente era considerato proprietà dei principes,
è ora, dopo la centralizzazione regale e l’ascesa del feudalesimo, proprietà di un signore.

Il secondo significato di frôno è quello di ‘’pubblico, comune’’, dal momento che il corpo collettivo di tutti quelli
chiamati frô rappresentava l’autorità pubblica. Questo termine compare anche in relazione ai tributi pubblici destinati

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all’autorità della tribù, ovvero ai principes, che erano chiamati frô: frônagelt traduce lat. fiscus, mentre frônereht
traduce respublica.

Il terzo significato è quello di ‘’sacro, santo’’. Affiancato spesso come aggettivo alle figure di Cristo e Maria risulta
cozzare semanticamente col contesto in cui viene espresso in quanto indicando di base un concetto di pluralità o
collettività si confaceva bene all’aspetto dell’originaria religione politeista e agli dei germanici che doveva descrivere,
ma non a quella monoteista cristiana.

Il secondo termine per ‘’signore’’ è rappresentato da truhtin, derivato dal sost. truth, che la maggior parte degli
studiosi interpreta come l’originario equivalente del séguito descritto da Tacito quale istituzione centrale nella società
germanica e in guerra. Truhtin sarebbe stato quindi il capo di tale séguito. In Beowulf abbiamo dimostrazione di come
un princeps venisse chiamato frô (ia. frēa) nell’ambito della sua attività, mentre truhtin (ia. dryhten) in un contesto
militare.

Cesare e Tacito descrivono in maniera del tutto diversa il séguito germanico. Il primo lo presenta come una squadra in
grado di fare incursioni, un raggruppamento militare con un capo che proponeva all’assemblea di agire e portava con
sé un gruppo di uomini scelti. Il comitatus presentato da Tacito è ben diverso in quanto è impostato su una relazione
più duratura, voluta da capo e seguaci che rimanevano insieme anche in tempi di pace.

Lo storico e filosofo statunitense Kuhn definisce il séguito come un’associazione di uomini liberi al servizio regolare di
un uomo più potente, a cui essi devono prestare servizio militare e con cui hanno un rapporto di fedeltà reciproca.
Secondo Kristensen il capo di un seguito era il princeps, i seguaci i comites e l’associazione stessa il comitatus. Un’altra
caratteristica sociale del séguito era la sua natura intertribale (vale a dire che i membri del séguito provenivano da più
tribù). Tacito descrive questo elemento distintivo, in quanto contraddistingue il séguito dal clan o dall’esercito tribale,
in ‘’Germania’’, quando racconta di come in tempo di pace i giovani erano soliti recarsi nelle tribù dove era in atto una
guerra per offrire i loro servizi al capo di un séguito. Anche quest’ultimo poteva convincere i guerrieri estranei ad
entrare a far parte della propria tribù, promettendo loro futuri successi. Inoltre questi, nel creare le fondamenta del
suo potere, acquisiva indipendenza dal proprio clan tanto quanto dall’assemblea tribale. Di conseguenza la vittoria
militare di un capo potente poteva perfino mettere a rischio gli interessi della tribù. In questo modo il séguito, che era
l’unico a trarre beneficio da tutto ciò, contribuiva a minare la stabilità e l’armonia della tribù in cui esso si era stabilito.

Il séguito richiedeva ingenti sforzi economici per poter essere mantenuto e ciò era possibile, come sottolinea Tacito,
solo in tempi di gravi agitazioni, quali gli scontri militari e le migrazioni che spiegherebbero la crescita del séguito negli
anni tra Cesare e Tacito. Al contrario, periodi di pace creavano difficoltà nel sostenere economicamente
quest’istituzione. Con la fine delle migrazioni capo e seguaci cessarono di costituire un’associazione permanente in
pace come in guerra, in quanto i loro rapporti divennero feudali. Ciò significa che i seguaci venivano ricompensati con
la donazione di terre. L’istituzione del séguito venne perciò soppiantata da quella del feudalesimo.

Per capire quale fosse l’equivalente germanico per designare il séguito, i suoi singoli componenti e il suo capo bisogna
prestare attenzione a una serie di parole in lat. utilizzate da Kristensen, ovvero comitatus, comites e princeps.

Kuhn sosteneva che i termini originariamente legati al séguito potessero essere il neutro aat. gisindi ‘’scorta’’ e il
maschile gisindo ‘’seguace’’ o asass. gitrôst ‘’séguito’’ e (helm) gitrôsteo ‘’guerriero’’, in quanto definiscono il seguace
come membro di un gruppo permanente.

Bisogna anche riconoscere una connessione con un’altra coppia lessicale le cui origini nel séguito sono questa volta
discusse da Kuhn: got. drauhti (witoþ) ‘’campagna’’ e gadrauhts ‘’soldato’’ o aat. truht e truhting/truhtigomo. Queste
coppie indicano che in passato truht designò il séguito esattamente come gisindi e gitrôst.

Truht e truhtin indicano la stretta relazione tra il gruppo e il suo capo. Questo termine è l’unico a designare la figura
del capo, e la sua radice è l’unica a offrire termini germanici corrispondenti alle tre parole latine usate da Tacito
(comitatus = truht; comites o comes = truhting/truhtigom; princeps = truhtin).

Truhtin possiede forme corradicali in tutte le lingue germaniche eccetto in got., nonostante in questa lingua siano
presenti parole correlate che testimoniano che la parola in questione sia esistita anche se non venne usata da Wulfila.
La parola è formata da un suffisso germ. com. –in che indica l’autorità su ciò che è espresso dalla radice, per cui
truhtin significava ‘’capo/signore di un truht’’.
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Inoltre truht è un termine germanico comune attestato con i significati collettivi di ‘’séguito’’ (significato militare) e di
‘’assemblea di persone’’, sia nel senso generale di ‘’gente’’ sia nel senso particolare di ‘’riunione per un
festeggiamento’’ (significato celebrativo).

Truht è attestato in got. in composti e derivati quali drauhtiwitoþ ‘’campagna militare’’ e gadrauhts ‘’soldato’’. In ia. e
anord. entrambi i concetti (‘’seguito’’ e ‘’assemblea di persone’’) sono espressi da un’unica parola: i termini ia. druht e
anord. drótt indicano sia un ‘’manipolo di guerrieri, seguito’’ che un ‘’gruppo di persone’’.

Kuhn rifiuta il significato militare di truht (‘’séguito’’), considerando solo il significato celebrativo di ‘’riunione per una
festa’’, e indica come forma germanica comune *drūht- < *drunkt- ‘’festa (in cui si beve)’’. Questa sua ipotesi, che
vede *druht- come forma derivazionale comune a tutte le lingue germaniche, è teoricamente valida, eccetto in got.,
dove *drūht- avrebbe dovuto produrre *drūhti- invece di drauhti-, pertanto si è indotti a rifiutarla poiché
bisognerebbe considerare due radici distinte con il significato di ‘’riunione per una festa’’ e ‘’manipolo di soldati’’.
Inoltre la funzione militare di *druht- potrebbe risalire a sua volta ad uno stadio ancora precedente se si considera la
radice *drug- da cui deriva *druht- (l’aggiunta di ti- a –g- avrebbe prodotto regolarmente –h-). Questa radice sta in
rapporto apofonico con got. driugan ‘’muovere guerra’’, ma anche con ia. drēogan e anord. drýgja, entrambe col
significato di ‘’eseguire, compiere’’, generalmente usate in contesto militare.

Si può concludere che aat. truht designasse originariamente il séguito e truhtin il suo capo, sebbene l’utilizzo di questi
termini in testi scritti non implichi che essi debbano ancora riferirsi alla stessa istituzione. Da quando truht assunse
anche il significato di festa famigliare la parola iniziò ad essere applicata anche a contesti non militari. Il motivo per cui
il significato di ‘’capo’’ ricorre raramente in aat., è dovuto alla quasi completa cristianizzazione della parola, che da
quel momento venne utilizzata per designare Dio o Cristo.

La terza parola che designa il ‘’signore’’ è aat. hêrro, meno diffusa in germanico poiché la forma corrispondente è
attestata con deboli echi in ia. e anord. Osservando le forme piene hêrôro/hêriro e i superlativi hêrôsto/hêristo,
possiamo affermare che la forma contratta hêrro è nata come comparativo dell’agg. hêr per poi essere usata come
sost.

Le forme corrispondenti a questo agg. ted. (ia. hār, anord. hárr) significano ‘’grigio’’ e ‘’vecchio’’. La prima accezione
(‘’grigio’’) non risulta attestata in aat., mentre sono rari i casi in cui hêrro significa ‘’anziano’’. Questo significato
compare ad es. nella Regola di San Benedetto che usa heriro/heroro per tradurre lat. senior nel senso di ‘’più
vecchio’’. Questo esempio testimonia il fatto che il comparativo hêrro rimanda ancora per un certo tempo al concetto
di età (in questo caso adulta), un concetto che deve essersi poi indebolito con l’aggiunta dell’agg. alt anteposto all’agg.
hêrro, ottenendo così althêrro, per la traduzione di lat. presbyter ‘’più vecchio’’ o di senex ‘’uomo anziano’’, per poi
scomparire con il composto juncherre nell’XI sec. Perso tale significato quindi aat. hêr acquista quello di ‘’nobile,
distinto, che incute rispetto’’, perdendo il suo precedente significato di ‘’vecchio’’. Questo slittamento semantico è
dovuto all’esistenza del comparativo hêrro con il significato di ‘’signore’’ e alla comparsa di hêrôro e del superlativo
hêrosto per tradurre monarchus e princeps, che trasmisero il loro significato di autorità e potere all’agg. hêr.

Per capire come hêrro abbia acquisito il significato di ‘’signore’’ è necessario sottolineare il fatto che esso era in
origine, come lat. merovingico senior, un agg. comparativo con il significato di ‘’vecchio’’, usato come sost. nel
significato di ‘’signore’’. Lo stretto parallelismo (morfologico e semantico) tra aat. hêrro e lat. senior e l’origine tedesca
di hêrro (presente sporadicamente nelle altre lingue germaniche), indicano che si tratta di un calco semantico coniato
in Germania e imitato in anord. e ia.

L’antico nordico aveva il proprio agg. hárr ‘’grigio, vecchio’’, ma anche le forme sostantivate herra e harri che meritano
un’analisi articolata. Herra è indubbiamente un prestito tardo dalla Germania in antico nordico per due motivi: in
primis perché la presenza di -e- è irregolare in anord. e in secondo luogo perché ricorre in più tardi in antico nordico,
sia nella letteratura di corte sia per indicare il Dio cristiano. Stessa cosa vale per l’altra forma, harri, la cui presenza
della vocale –a- breve è irregolare in anord., mentre è regolare in ia. (hearra). Pertanto si tratta di un prestito
dall’antico inglese.

Anche quest’ultima lingua aveva il proprio agg. hār ‘’grigio, vecchio’’, con diverse varianti: hearra, heorra, herra,
hierra, nessuna delle quali può essere un comparativo regolare dell’agg. antico inglese. Stessa cosa vale per herra, la
cui origine è probabilmente tedesca.

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L’assenza di irregolarità fonetiche e fonologiche non ci permette di stabilire se l’origine, all’interno della Germania, sia
stata in asass. o aat., ma se si considera la probabilità che questa parola possa esser stata introdotta a sud e ad ovest,
in seguito ai contatti sempre più frequenti con Roma, si è portati a pensare che la parola sia nata in aat., più
verosimilmente in francone, poiché l’attestazione più antica di hêrro è in francone. Tuttavia si pensa che l’origine del
termine possa essere anche bavarese, poiché hêrro venne utilizzato come glossa nel Codex Abrogans, perciò deve
essere stato trasmesso in bavarese e deve essersi affermato prima del 770. Ma se consideriamo la trasmissione dal
francone sembra verosimile che sia stato coniato dai franchi nel VII sec. o anche prima.

Hêrro è un calco semantico dipendente da lat. senior (‘’più anziano’’) e ciò è confermato dal fatto che quest’ultimo
termine designa l’età per denotare il rango o l’autorità, poiché nel mondo mediterraneo l’età era un fattore
strettamente connesso con lo status sociale.

Per poter esprimere tale visione le lingue germ. hanno ricorso alla creazione di calchi sul greco e sul lat. diversi per
ciascuna lingua germ. Alcuni es. possono essere aat. mêro come equivalente di lat. maior ‘’più vecchio’’, ma anche
‘’maggiore, superiore’’; ia. yldra, possibile calco sul lat. merovingico senior. Ciascuno di questi termini oltre ad
esprimere l’autorità con l’uso dell’età, rispecchia anche l’abitudine greca o latina di usare un agg. comparativo o
superlativo come sost. Entrambe queste caratteristiche sono condivise da aat. hêrro, perciò tale termine è
considerato un calco sul lat. senior.

Questo è confermato dalla testimonianza di senior nella società galloromana durante l’occupazione dei franchi. La
parola ricorre nelle fonti a partire dal VI sec., per designare coloro che esercitavano l’attività secolare o spirituale sul
suo dipendente o vassallo. Inoltre, quando hêrro sostituì frô per designare il signore feudale secolare, anche il termine
più antico dominus venne sostituito da un termine più rencente (senior) a partire dal VI secolo. Quest’ultimo
mutamento di terminologia sembra aver avuto luogo nel nord della Francia, in particolare nell’area occupata dai
franchi. In quest’area dominus era utilizzato raramente come termine per designare il signore secolare ed era usato in
posizione proclitica che portava, con indebolimento fonetico, a domnus.

L’innovazione linguistica rappresentata dall’adozione di lat. senior (con la sua successiva espansione nelle altre lingue
romanze) riflette quindi l’innovazione sociale come il sorgere del vassallaggio in area francone.

L’ultimo dei tre termini sopra analizzati (hêrro) fu probabilmente una creazione dei franchi merovingi nel VII sec.
Inizialmente hêrro, in qualità di comparativo, veniva utilizzato per esprimere una posizione relativa nella società,
quella tra un signore e il suo subordinato, stabilendo così un confronto tra due persone. Successivamente hêrro
acquisì il valore di superlativo attraverso la forma hêrosto, che venne utilizzato per denotare l’autorità assoluta.

Per quanto riguarda i termini frô e truhtin, questi hanno un aspetto in comune: il declino. Al tempo della prima
documentazione scritta in aat. entrambi i termini subirono un declino come termini secolari nel momento in cui hêrro
aveva raggiunto la Germania dall’area dei franchi e stava iniziando la sua vittoriosa espansione.

Il primo termine subì una progressiva atrofizzazione in contesto secolare da got. a ia., poi a asass. e a aat. e una
concorrenza da parte dei termini rivali: dryhten e hlāford in ia. e drohtin e hêrro in asass. In asass. e in aat. il termine
non venne più utilizzato nei composti, mentre in aat. continuò ad essere impiegato come sost. semplice in una
formula convenzionale di saluto (frô min).

Un declino analogo lo riscontriamo in truhtin, che cadde in disuso come termine secolare. Mentre l’ia. utilizza dryhten
in alcuni composti secolari, asass. utilizza drohtin in un solo composto: mandrohtin (sigidrohtin è riferito a Cristo o a
Dio). In aat. invece non compare nessun composto.

Frô e truhtin presentano anche degli aspetti che li differenziano. Il primo termine in origine designava il signore della
casa nei suoi rapporti con coloro che dipendevano da lui, inclusi gli schiavi. Al contrario truhtin riguardava il rapporto
che intercorreva tra il signore e i seguaci che erano liberamente entrati in rapporto con lui. Tuttavia l’uso di truhtin è
attestato come termine secolare per designare il rapporto con uno schiavo. Ciò significa che frô perse la sua valenza
primitiva che venne poi assunta da truhtin.

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Questo confronto spiega forse perché truhtin poté essere adottato come termine cristiano per lat. dominus, mentre
frô, eccetto le parole corradicali in asass. e ia., non compare mai come termine cristiano per indicare Dio.

L’indebolimento semantico delle due parole in questione è dovuta alla nuova forma di regalità emersa alla fine delle
migrazioni in seguito alla crescita del potere militare del capo germanico, che a partire da quel momento cominciò ad
essere chiamato truhtin, facendo cadere così in disuso il termine frô. Quest’ultimo, tipico della società germanica
tribale, fu soggetto a pressioni da parte di hêrro o di hêrosto, all’inizio usati come termini indicanti un rango sociale,
poi come termini tecnici del vassallaggio dei franchi, i quali sostituirono la figura dei principes. La concentrazione di
potere nelle mani del sovrano franco determinò la scomparsa del termine frô in contesto politico-giuridico. Questo
riflette la traduzione di respublica con frônereht, ma anche con kunicriche in cui l’autorità dei principes venne
sostituita da quella del re franco.

Il declino di truhtin è forse dovuto alle stesse ragioni sociali. Come termine designante il capo di un séguito, esso deve
essere stato determinante durante le migrazioni, ma una volta che i seguaci vennero ricompensati con terre di loro
proprietà il comitatus scomparve. Ciò non significa che anche il termine ad esso relativo fosse destinato a scomparire.
Truhtin infatti continuò ad essere utilizzato in contesto religioso. Perse invece la funzione secolare che venne acquisita
dal termine hêrro. Quest’ultimo termine soppiantò anche frô acquisendone i ruoli semantici (ad es. la funzione di frô
come signore della casa. Pater familias può quindi essere glossato come husherre).

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