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di Lorenzo Pampanini
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16/08/2023, 09:14 L'inoperosità in Giorgio Agamben - Benvenuti su gazzettafilosofica!
Oggi la libertà è un tema del dibattito pubblico. Invocazioni della libertà sono tipiche di
esistenze stressate: chi non ce la fa più a ‘fare’ qualcosa, che la situazione gli impone,
reclama di essere libero. Il modo in cui si avverte la mancanza di libertà nella routine è
la costrizione a fare qualcosa. L’essere umano, per evitare il disfacimento fisico,
psichico, e sociale, sembrerebbe costretto ad impiegare gran parte del tempo a darsi da
fare.
Non-fare sarebbe indegno delle capacità superiori di Homo sapiens. Penderebbe sulla
specie umana la condanna all’operosità. Ma l’operosità è davvero la nostra condizione
esistenziale fondamentale? È davvero la nostra condanna?
Giorgio Agamben ha criticato la condizione umana destinata all’operare, individuando
l’essere umano come l’unico vivente capace, anzi, di non fare. La nozione agambeniana
di ‘inoperosità’ si inserisce nel ripensamento filosofico della libertà nella vita
contemporanea, legandosi alle considerazioni di Sloterdijk, Floridi, e Ferraris.
Homo Faber
A lungo è perdurata la visione dell’umano come homo faber, che oggi viene messa
seriamente in discussione anche sul piano politico, già criticata da Herbert Marcuse, da
John Maynard Keynes, e anche da Karl Marx. L’idea che l’uomo, data la sua naturale
capacità tecnica di trasformare la Natura, sia fatto per lavorare culmina nella
elaborazione filosofica della servitù hegeliana, la quale descrive come abbiamo costruito
la ‘seconda Natura’: il ricettacolo artificiale dell’Antropocene.
La Lezione di Aristotele
In Karman. Breve trattato sull’azione, la colpa e il gesto (2017) Agamben, riprendendo la
domanda aristotelica quale sia ‘l’opera dell’uomo’, precisa che ergon, come il latino
opera, indica l’esecuzione dell’azione, più che il suo prodotto finale (p. 105). Il filosofo
ripensa la distinzione tra poiesis e praxis, tra agire volto alla produzione di qualcosa
che resta, e azione che ha il suo fine in sé stessa.
Aristotele, distinguendo le attività produttive da quelle pratiche, nell’Etica Nicomachea,
evidenziò come il requisito per una buona opera, e una buona azione, sia il volerla
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fare: controvoglia (per esempio, se imposta) qualsiasi azione perde il proprio potenziale
di perfettibilità di esecuzione. La eupraxia è ottenibile soltanto finché viene mantenuto
il nesso tra esecuzione dell’azione e volontà libera del soggetto agente nell’eseguirla.
Vi sono oggi le condizioni economico-culturali affinché l’insegnamento di Aristotele
riacquisisca un senso concreto. Ciascuno può e deve essere libero di svolgere le azioni
che più predilige, senza costrizione, né livellamento. Ciò comporta un bene per lo
sviluppo culturale della civiltà. La collettività attuale può fare cose più efficaci e
benefiche, se rispetta questo principio fondamentale dell’etica di ogni ‘pratica’.
Inoperosità
Con l’inoperosità, anziché porre al centro della natura umana la capacità tecnica, vi si
pone la libertà concepita come un aggiornamento del bios theoretikós, non in quanto
speculazione filosofica, bensì nel senso più pragmatico: tempo libero di coloro che si
sono liberati dalla necessità e si dedicano alle attività spirituali. Una condizione che
Platone chiamava apragmasyne, e Aristotele, nella Politica, scholé.
Mentre per noi l’inoperosità è intesa in senso negativo come privazione del darsi da
fare, per gli antichi questa condizione era espressa con parole positive, scholé, otium.
Era, invece, il cessare della inoperosità ad essere espresso con termini negativi: a-
scholia, neg-otium.
Agamben nel saggio Il fuoco e il racconto (2014) rileva come l’uomo moderno non
riesca a concepire l’inoperosità che come festa, vacanza, o riposo dal lavoro.
Occorre, perciò, comprendere che l’inoperosità riattiva la riflessione liberando lo
spirito dalle innumerevoli occupazioni che vessano la mente e riducono il tempo, quelle
che appartengono alla sfera del necessario. Pensare il farsi carico della necessità come
cifra della responsabilità, è una impostazione che, per quanto utile, contrasta con ciò
che potrebbe migliorare le nostre immaginazioni e il nostro stile di vita, il nostro
temperamento e la nostra cultura.
La necessità - le circostanze avverse cui fare fronte - è nemica della vita umana. Inibisce
il lavoro spirituale che compete all’essenza dell’essere umano (Ferraris, 2021).
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Inoperosità e modernità
Inoperosità è vita incondizionata nell’aperto di un mondo emancipato in cui le forze
culturali sono sviluppate a sufficienza da evitare la cattiva gestione del tempo libero,
universalizzato dallo sviluppo economico. L’inoperosità libera, come condizione
esistenziale dell’avveniristica economia del tempo libero (Floridi, 2020), è anzitutto una
postura etica, che disattiva la sindrome della compensazione eccessiva esasperata dal
capitalismo, riscoprendo l’ethos propriamente umano: osservare per conoscere, agire
liberamente per il benessere.
Senza la rivalutazione dell’inoperosità la modernità continuerà ad essere solo una
versione aggiornata di sé stessa, non si compirà mai il superamento della centralità
della competenza professionale e dello stress verso «la tirannia del reale» (Sloterdijk,
2012, 2017).
Concepire la libertà non come libertà per l’azione, ma come libertà di fare-non-facendo
niente, lo giudichiamo ancora un atteggiamento da correggere. Come se l’essere umano
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L’essere umano, lungi dall’essere il vivente che è condannato ad agire, può sottrarsi alla
sartriana impossibilità di non scegliere.
Secondo la prospettiva di libertà aperta da Agamben, è proprio dell’essenza umana
poter non fare senza sceglierlo.
In L’aperto. L’uomo e l’animale (2002), Agamben riflette sull’inoperosità, descrivendo un
quadro di Tiziano che rappresenta l’idillio bucolico, l’inoperosità come beatitudine.
Agamben vi vede la «natura umana resa perfettamente inoperosa», «l’inoperosità e il
desœvrement come figura suprema e insalvabile della vita» (p. 90). Il significato di
insalvabile Agamben lo spiega così: ciò che è perduto e dimenticato, di cui non resta
niente. Nel caso dell’inoperosità, una condizione originaria che è mutata nel suo
opposto: nell’intensificazione illimitata dell’operosità, quale condotta umana prediletta,
che Homo sapiens ha scelto per sé stesso.
Inoperosità, performance
Per quanto insalvabile, la condizione di beatitudine inoperosa, resta la forma suprema
di vita in cui si esprime a pieno l’esistenza umana. Nell’attuale società di transizione dal
potenziamento estremo delle competenze, dei titoli, a quella fondata sull’economia del
tempo libero e sulle attività spirituali, siamo portatori di un oblio. Nel torpore del
riposo, come nella frustrazione, giunge lo spettro dell’oblio della soggettività inoperosa.
L’inoperosità è oggi, infatti, fraintesa nella sua reale essenza, tanto dalla prospettiva
dell’azione, quanto da quella dell’inattività.
L’inoperosità è caratteristica in chi riesce a pensare il senso, il valore, e i diversi utilizzi
di un’opera. Essa comporta anche l’ermeneutica dell’operare. È la capacità di fare-non
che fonda l’azione umana stessa. Quando Agamben afferma che l’inoperosità «fa girare
a vuoto le opere e le funzioni del vivente umano», disattivandole le apre a nuove
possibilità e a nuovi usi, fa pensare alla forma di vita umana della Yolo economy,
sempre più diffusa, che non si rassegna a svolgere la stessa operazione tutta la vita, ma
giudica opere e mestieri.
Inoperosità e contemplazione stanno, perciò, alla base dell’antropogenesi, in quanto
suoi ‘operatori metafisici ci liberano «dal destino biologico e sociale e da ogni compito
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Il gesto
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La capacità di fare-non non va confusa con l’incapacità. È la capacità di esprime la
possibilità di non compiere un’azione o realizzare un’opera da parte di chi ha la
capacità di realizzarla e di compierla.
Non c’è, per noi, alcun vincolo necessario per agire, né biologico, né etico, né
esistenziale. Lo spazio di inoperosità, che coincide con la condizione esistenziale di
partenza, non si identifica, però, con la rinuncia all’azione o l’astensione ad agire, bensì
con il poter non agire, con l'inversione dei presupposti dell’azione. Inoltre, questa
inoperosità si sottrae al gioco semantico su cui si fonda l’etica della responsabilità, per
cui anche scegliere di non agire è un’azione. L’inoperosità mostra che non-fare non è
nessuna scelta, in quanto precede ogni scelta come condizione esistenziale, pace la
“condanna alla libertà” di Jean-Paul Sartre.
Se vi fosse una condanna, sarebbe piuttosto quella all’inoperosità. Dalla condizione
esistenziale inoperosa, ineliminabile in quanto originaria condizione di partenza, deriva
il senso di colpa, l’ansia, lo stress e la scelta di fare o non fare. Tuttavia, bene intesa,
l’inoperosità è una condizione prossima all’idillio, intanto perché assegna ad ogni
operazione, lavoro, e funzione antropica il posto che spetta loro: impedisce che l’agente
si identifichi con l’azione che compie, con l’opera che realizza, con il lavoro che svolge.
Nell’inoperosità sperimentiamo come l’essenza di ciascun uomo non sia reificabile, né
possa essere completamente rappresentata in erga e in praxeis, per quanto esse siano
performative.
Agamben è giunto a ripensare la prassi umana, né come lavoro, né come opera, e
neppure come azione, bensì come gesto. In quanto si sottrae alla logica della colpa,
dell’imputazione, e del finalismo, il gesto destituisce il rapporto fini-mezzi, e perciò è la
più libera delle attività umanamente possibili:
« Il gesto non è, infatti, semplicemente privo di opera, ma definisce piuttosto la
propria speciale attività attraverso la neutralizzazione delle opere cui era legato in
quanto mezzo [..] Esso è un'attività o una potenza che consiste nel disattivare e
rendere inoperose le opere umane, e in questo modo le apre a un nuovo possibile
uso » (Agamben, Karman, 2017)
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