Sei sulla pagina 1di 279

GIUSEPPE DE VIRGILIO - ANGELA GIONTI

LE PARABOLE DI GESÙ.

ITINERARI: ESEGETICO-ESISTENZIALE; PEDAGOGICO - DIDATTICO

con postfazione di
BRUNO SCHETTINI

2007

2
e;rcetai w[ra o[te ouvke,ti evn paroimi,aij lalh,sw u`mi/n(
avlla. parrhsi,a| peri. tou/ patro.j avpaggelw/ u`mi/n

…verrà l'ora in cui non vi parlerò più in similitudini,


apertamente vi parlerò del Padre.

(Gv 16,25)

__________________________________________________________________________________________
Volume elaborato sulle indicazioni e riflessioni tenutesi nel corso della
VIII Settimana Biblica promossa dall’Associazione Biblica «San Vitaliano» di Caserta
CASERTA, Eremo di San Vitaliano 5 – 9 luglio 2004 e del seminario biblico svolto dal prof. G. De Virgilio presso
L’Istituto Teologico Abruzzese-Molisano di Chieti.

3
ABBREVIAZIONI E SIGLE

ABBREVIAZIONI

AA.VV. Autori Vari


Art. cit. Articolo citato
Cap. Capitolo
Col/coll. Colonna/e
Cfr. Confronta
Ed./edd. Editore/i
Ebr. Ebraico
Ibid. Ibidem
n./nn. Numero/i
op. cit. Opera citata
p./pp. Pagina/e
s./ss. Seguente/i
v./vv. Versetto/i
vol./voll. Volume/i

SIGLE

AT Antico Testamento
CCC Catechismo della Chiesa Cattolica
NT Nuovo Testamento
NPG Note di Pastorale Giovanile
Pq. Aboth Pirqué Aboth – Detti dei Padri
PL Patrologia Latina
PG Patrologia Greca
PSV Parola Spirito e Vita
RivB Rivista Biblica Italiana
SB Studi Biblici
SRB Supplementi Rivista Biblica
SBBF Società Biblica Britannica e Forestiera

4
INTRODUZIONE

Mentre stiamo vivendo nel contesto della «nuova evangelizzazione» la ricerca delle forme e
delle modalità della predicazione evangelica all’uomo contemporaneo, intendiamo riscoprire il valore e
la forza delle parabole evangeliche, che costituiscono senz’altro uno dei modi più vivaci e diretti che
Gesù ha usato per annunciare il Regno di Dio e il suo mistero.
Il tema affrontato in questa pubblicazione risulta quindi di attualità, sia sul versante della ricerca
biblica che su quello della riflessione pastorale. E’ facilmente rilevabile come nei vangeli sinottici lo
spazio riservato alle parabole sia di tutto rilievo e giustifichi una particolare attenzione da parte nostra a
questa prospettiva feconda aperta da Gesù e rielaborata nelle testimonianze evangeliche.
Numerosi autori hanno riconosciuto che l’uso del metodo parabolico sia stato scelto da Gesù per
veicolare in modo avvincente e con un linguaggio efficace la dinamica del «regno dei cieli» e la
situazione spirituale dell’uomo e del suo bisogno di Dio. Se questo dato biblico appare inconfutabile e
straordinario, ancora più significativa rappresenta la strategia comunicativa propria della forma
parabolica. La parabola, oggetto di svariati studi, è comunque una similitudine sviluppata in un
racconto, che coinvolge pienamente il lettore in una ricerca personale e irripetibile del «senso
misterico» del trascendente. Ci troviamo di fronte ad una ricca testimonianza di evangelizzazione nella
quale si coglie il contenuto e il metodo dell’annuncio e della strategia del messaggio cristiano. La
tradizione dei detti di Gesù, mediata nella rilettura delle prime comunità cristiane, consegna oggi ai
lettori un tesoro di grande rilevanza per conoscere ed approfondire la persona di Gesù e il senso della
sua testimonianza.
Nel riflettere sulla realtà del metodo parabolico e sulle sue ricadute esistenziali, didattiche e
pastorali, vanno tenuti in debito conto i risultati della ricerca scientifica e il cammino fatto soprattutto
in quest’ultimo secolo, alla luce degli sviluppi legati all’approccio storico-critico del testo e
segnatamente alla prospettiva narratologica dell’ermeneutica biblica.
Senza la pretesa di offrire nuove scoperte scientifiche e di esaurire la conoscenza di questo
ambito tematico, il nostro lavoro consisterà nel rileggere una serie di parabole evangeliche secondo
l’approccio scientifico e di interrogarci sul loro messaggio sapienziale e sulla loro attualizzazione.
Protagonisti di questo «incontro» sono i partecipanti alla VIII Settimana Biblica svolta presso l’Eremo
di San Vitaliano a Caserta, i quali hanno condiviso la fatica dell’ascolto e della condivisione nei lavori
di gruppo. Guidati dalla prof.sa A. Gionti, la riflessione biblica proposta nelle lezioni del mattino, è
stata poi rielaborata mediante i lavori in gruppo svolti nel pomeriggio. Il lavoro mira ad offrire a quanti
operano nel campo scolastico e pastorale, un sussidio utile per riproporre la strada evangelica della
parabola come «profezia» di annuncio della vita e della felicità dell’uomo.
Per l’analisi di ciascuna parabola articoleremo lo studio in tre parti: la panoramica contestuale
della parabola (studio del contesto) che comprende l’esplorazione del testo (analisi del testo); le
risonanze teologiche che il testo offre e le applicazioni pedagogico-didattiche (messaggi,
attualizzazione, applicazione). Una riflessione sintetica sul metodo narrativo è proposta nella
postfazione dal Prof. B. Schettini, a cui va la nostra gratitudine per il prezioso contributo offerto.
Intendiamo proporre la riflessione sulle parabole tenendo conto delle tradizioni sinottiche che
soggiacciono alla formazione dei testi evangelici. Diamo qui di seguito un quadro generale delle
parabole evangeliche, per fornire al lettore una visione complessiva del materiale parabolico reperibile
nei Sinottici1.

Giuseppe De Virgilio – Angela Gionti

1
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo. Dalla sorgente alla foce, Leumann (TO) 2002, 5-6.

5
QUADRO SINOTTICO DELLE PARABOLE EVANGELICHE

Parabole Marco Matteo Luca

1. Il seminatore 4,3-8 13,3-8 8,4-8


2. Il granello di senapa 4,30-32 13,31-32 13,18-19
3. I vignaioli omicidi 12,1-9 21,33-41 20,9-16
4. Il fico che germoglia 13,28-29 24,32-33 21,29-31
5. I due contendenti 5,25-26 12,58-59
6. le due case 7,24-27 6,47-49
7. i fanciulli sulla piazza 11,16-17 7,31-32
8. il lievito 13,33 13,20-21
9. la pecora perduta 18,12-13 15,3-7
10. gli invitati alle nozze 22,1-14 14,16-24
11. lo scassinatore 24,43 12,39
12. il maggiordomo buono /cattivo 24,45-51 12,42-46
13. i talenti/le mine 25,14-30 19,12-27
14. il seme che cresce da sé 4,26-29
15. il portiere vigilante 13,34-36
16. la zizzania 13,24-30
17. il tesoro nel campo 13,44
18. la perla preziosa 13,45-46
19. la rete 13,47-48
20. il debitore spietato 18,23-34
21. gli operai della vigna 20,1-15
22. i due figli 21,28-31
23. le dieci vergini 25,1-12
24. il giudizio universale 25,31-46
25. i due debitori 7,41-43
26. il buon samaritano 10,30-37
27. l’amico importuno 11,5-8
28. il ricco insensato 12,16-20
29. i servitori vigilanti 12,36-38
30. il fico improduttivo 13,6-9
31. la porta chiusa 13,25-27
32. il costruttore di una torre 14,28-30
33. il re guerriero 14,31-32
34. la dracma perduta 15,8-10
35. il padre misericordioso 15,11-32
36. l’amministratore astuto 16,1-8
37. Lazzaro e il ricco epulone 16,19-31
38. il padrone e il servo 17,7-10
39. il giudice e la vedova 18,1-7
40. il fariseo e il pubblicano 18,9-14

6
INTRODUZIONE

«IL METODO PARABOLICO DI GESÙ


E LA SUA IMPORTANZA PEDAGOGICO-ESISTENZIALE»

1. Il metodo parabolico: un’evidenza narrativa

- L’impiego del metodo parabolico è conosciuto nelle scritture ebraiche (AT) e nella letteratura
intertestamentaria e rabbinica. I vangeli tuttavia presentano una concentrazione singolare del metodo.
- Il metodo parabolico è la strada scelta da Gesù per comunicare ai suoi interlocutori il mistero del
Regno di Dio, la dinamica della fede e per rivelare se stesso. [Cf. Mc 4,33-34: Con molte parabole di
questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non
parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.] Nel contesto della sua passione [Gv
16,25] Gesù afferma invece che «verrà l’ora in cui egli non parlerà più in similitudini» (en paroimiais),
ma con parresia egli parlerà del Padre»
- Possiamo interrogaci se la «strada parabolica» sia una forma concreta con cui «comunicare»
l’esperienza misteriosa della fede all’uomo di oggi (cf. i recenti documenti del magistero pontificio e
dell’episcopato italiano; il dibattito sul catecumenato e sul progetto catechistico).
- Nei vangeli sinottici lo spazio riservato alle parabole è di tutto rispetto, non solo per la quantità del
materiale (tra le 30 e 40 parabole), ma soprattutto per la qualità della rivelazione di Gesù e del Regno.
Fusco ha definito le parabole come la «frontiera dell’evangelo», con cui Gesù continua a parlare agli
uomini per farsi capire, ma anche per farsi carico delle loro domande e per assumere la ricchezza del
messaggio di Dio.
- Ci sono molteplici modi di dire Dio e la verità della vita. Nei testi evangelici troviamo forme (generi)
diversificati: il kerigma (annuncio di Cristo morto e risorto), i discorsi (elaborati secondo stili retorici
che risentono del linguaggio semitico), i racconti dei miracoli (che costituiscono episodi riletti nella
luce della fede pasquale), i detti sapienziali (che riprendono antiche forme di comunicazione popolare,
proverbi e similitudini tratte dalla vita) e le parabole. Leggendo le molte parabole presenti nei vangeli
canonici (secondo le tradizioni letterarie sinottiche) si possono individuare alcuni principi semplici che
ci aiutano ad entrare nella strategia comunicativa adottata da Gesù in una forma sublime ed
imparagonabile con nessun altro protagonista dell’antichità.
- Dobbiamo affrontare la nostra settimana biblica avendo presente una doppia prospettiva: a)
l’interpretazione esegetico-teologica della parabola nei vangeli; b) l’attualità della parabola oggi, per
comprendersi e per comprendere e annunciare il mistero del Regno. Una profonda lettura del testo non
basta se non si passa alla vita e non ci si lascia stupire dal messaggio evangelico. Scrive B. Maggioni:
Occorre confrontarsi con la parabola, specchiarsi in essa, perché il suo scopo è quello di risvegliare la
nostra coscienza. La regola fondamentale è di lasciarsi ancora sorprendere. Solo così si può capire la
parabola».

2. Cosa si intende per parabola?

Il dato semantico: para-ballein (gettare accanto, presso…), indica l’avvicinamento di due realtà,
di cui una è in relazione con l’altra, allo scopo di permettere una ricezione unitaria. Da questa
accezione possiamo ricavare alcuni significati insiti nella «parabola»:
ü la parabola non significa solo qualcosa in sé (un racconto bello, edificante, significativo moralmente)
ma «accosta» il suo racconto ad una «realtà» diversa dal contenuto narrato; dunque una parabola non
può essere significante che in virtù della sua relazione ad un suo «oltre»;
ü la parabola coglie il suo obiettivo quando l’accostamento tra i suoi due poli (due atteggiamenti
antitetici descritti) produce nel lettore un «salto», cioè permette di passare dalla realtà raccontata alla
realtà «altra» a cui il racconto fa riferimento;

7
ü per capire bene il senso della parabola allora è importante cogliere l’occasione e il contesto in cui la
parabola è collocata (talvolta è detto dallo stesso evangelista: cf. Lc 19,11; Lc 15,1-2). E’ anche
possibile che le stesse parabole vengano poste da due evangelisti in contesti diversi (cf. Lc 15,4-7; Mt
18,12-14).
Definizione (V. Fusco):
la parabola è un racconto fittizio utilizzato in funzione dia una strategia dialogico-argomentativa che
opera in due momenti: dapprima sollecitando, in base alla logica interna del racconto, una certa
valutazione e trasferendola poi, in forza di un’analogia di struttura, alla realtà intesa del parabolista.

3. Le caratteristiche

Per capire che cosa «non è» una parabola, dobbiamo osservare le costanti delle parabole
evangeliche. Si discute ampiamente sul numero delle parabole dei vangeli perché non tutti gli autori
assumono gli stessi criteri di individuazione. Seguiamo un percorso induttivo, senza grandi pretese:
- una caratteristica comune: nelle parabole si fa attenzione ai personaggi, agli atteggiamenti, ai modi di
fare alle scelte e alle azioni. Si tratta sempre di qualcosa che si fa, di un movimento, di una concretezza
(seminare, lavorare, considerare il pane che lievita. il mercante che cerca, il figlio che parte, gli uomini
che pregano al tempio, un giudice che è annoiato dall’insistenza di una vedova, un poveretto
derubato…)
- Ci viene chiesto, più che riflettere su idee e categorie teoriche, di fermarci a considerare «gli
atteggiamenti dei personaggi», che sono vere chiavi di lettura della relazione con un «oltre». Anche
l’identificazione con la realtà: esempio «il regno dei cieli è simile…» non vuol significare che la
parabola riveli tutta la realtà, ma essa invita il lettore ad entrare con un paragone, in un mistero che si
avvicina all’oltre, senza definirlo né limitarlo.
Possiamo individuare tre macro-gruppi di parabole:

1. le parabole dei comportamenti e delle decisioni degli uomini:


- buon samaritano (Lc 10,30-37), ricco insensato (Lc 12,16-20), Lazzaro e il ricco epulone (Lc
16,9.31), il fariseo e il pubblicano (Lc 18,9-14),
- il tesoro nascosto (Mt 13), la perla preziosa (Mt 13), l’uomo che calcola prima di costruire (Lc 14),
l’amministratore scaltro (Lc 16).

2. le parabole che presentano le situazioni che intendono far comprendere il comportamento di Dio
l’amico importuno (Lc 11) il giudice iniquo (Lc 18) il servo spietato (Mt 18), l’atteggiamento del padre
verso i figli (Mt 7; Lc 11).

3. Le parabole che si riferiscono alle situazioni vissute da Gesù e ci spiegano il suo modo di pensare
Vanno qui distinte: a) le parabole dalle «due situazioni fondamentali» (i due debitori: Lc 7; la pecora
smarrita: Lc 15; la dramma perduta: Lc 15; il figlio prodigo: Lc 15; gli operai dell’ultima ora: Mt 20; b)
le situazioni createsi con la venuta di Gesù: il seminatore e il seme che cresce (Mc 4), il granello di
senapa (Mc 4); la zizzania (Mt 13) il lievito (Lc 13) il fico (Mc 13; Lc 13).

4. Il funzionamento della parabola

- La parabola si presenta come un racconto sapienziale, tratto dalla vita quotidiana, che mira a far
conoscere una realtà invisibile. Essa si esprime sotto forma di «similitudine», ampliata in una storia.
Per capire il funzionamento è utile il raffronto con l’allegoria.
- La parabola non è una allegoria. L’allegoria è una lettura simbolica della realtà, costruita mediante un
raffronto evocativo tra due livelli già conosciuti (esempio: la storia dell’infedeltà di Israele in Ez 16;

8
Gesù buon pastore che dà la vita per il gregge: Gv 10). L’allegoria funziona attraverso una diretta
corrispondenza simbolica tra l’immagine e la realtà, in cui si sovrappongono intenzionalmente e
costantemente le immagini e la realtà prefigurata.
- Nel caso della parabola il narratore cerca di creare un racconto, alla luce del quale il lettore può
scorgere gli aspetti della realtà che va oltre il racconto. Attenzione: non si tratta di un particolare nel
racconto, ma dell’intero messaggio del racconto (il seme, il padre misericordioso, il fariseo/pubblicano;
ecc.). Non bisogna fermarsi ai dettagli, ma dai dettagli bisogna interpretare la totalità della narrazione.
Ora il punto strutturale in cui il racconto (primo elemento di comparazione) converge con la realtà
(secondo elemento di comparazione) è detto terzo elemento di comparazione.
- Si vuol dire che ogni parabola possiede tre elementi: il racconto / la realtà prefigurata / il lettore che
coglie il nesso dei due precedenti elementi. Il lettore non è solo un ascoltatore, ma diventa l’interprete
primario della parabola ed è chiamato ad entrare nella dinamica spirituale del racconto.
- La parabola è paragonabile alla nube: dice una presenza, ma lascia velato il mistero. Essa ha bisogno
del lettore/ascoltatore che esce fuori da se stesso e si mette a «cercare». Ecco perché la parabola rimane
«aperta» di fronte al lettore/ascoltatore, creativa, dialettica, lasciando al lettore la spiegazione (non
abbiamo nel vangelo spiegazioni delle parabole, che solo in due casi, con delle allegorizzazioni
tipicamente redazionali: il seme e il grano e la zizzania).

- esempio: la parabola della donna e le 10 dracme (Lc 15,8-10)

8 O quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e


Primo elemento di
spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata,
comparazione chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la
(racconto) dramma che avevo perduta.

Secondo elemento di
10 Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per
comparazione
un solo peccatore che si converte».
(realtà prefigurata)

Secondo elemento di Il punto di vista del lettore che è chiamato a


comparazione interpretare il messaggio per se stesso!
(lettore)

5. L’interpretazione antica delle parabole

- Dalla patristica al 1800 l’interpretazione delle parabole è stata dominata dall’allegoresi, con una
prevalente motivazione morale ed esortativa. Frequentemente gli autori antichi tentavano di interpretare
le parabole evidenziando i singoli significati come aspetti autonomi che avevano un messaggio
allegorico per i credenti, mentre si attribuiva poco valore alla dinamica dell’intero racconto e del suo
contesto evangelico. Questo metodo era coerente con l’usuale lettura spiritualistica presente
nell’antichità cristiana (famosa rimane l’interpretazione allegorica di Sant’Agostino a Lc 10,30-37, che
legge la storia della salvezza nel samaritano-Cristo).
- La svolta si ha alla fine del 1800 con A. Jülicher che studia il meccanismo interpretativo del racconto
ed intende la parabola come un paragone prolungato, che si appoggia un un «punto di forza» e che apre
all’interpretazione del lettore. Alcune decenni dopo C. H. Dodd arricchisce il metodo dello studioso

9
tedesco in chiave escatologica. J. Jeremias ha maturato ulteriormente il percorso spostando l’accento
dall’escatologia alla cristologia. Nella stessa prospettiva si è mosso J. Dupont. Al contrario si pongono
alcuni autori americani )O. Via. E.W.Funk, J. D. Crossan).
- Alla luce dei nuovi metodi letterari e retorici, lo studio delle parabole ha conosciuto in questi ultimi
30 anni impressionanti sviluppi (E. Linnemann, E. Jungle, P. Picoeur, H. Weder, V. Fusco). La
parabola costituisce un racconto che fa corpo con il mistero del Regno, l’unico linguaggio possibile che
riesce a fondere l’inesprimibile con la realtà umana. Si riprende la concezione della metafora antica e si
attribuisce una nuova prospettiva di senso. Non si tratta di un semplice paragone, ma di una forma
unica che «mette in cammino» il lettore e lo coinvolge in una ricerca personale, attraverso un
linguaggio comune.

6. La questione pastorale

Quale approccio pastorale, catechistico e didattico alle parabole ci viene chiesto di fare oggi?

- Il CCC (n. 546) riferisce del metodo parabolico di Gesù. Come vengono usate nei nostri strumenti
catechistici? C. Bissoli in un suo contributo nota come nei catechismi vengono usati oltre una decina di
parabole (anche riprese dall’AT). In alcuni casi le parabole sono ripetute in più punti (il buon
samaritano, il giudizio universale?, ecc.). Il livello interpretativo offerto dai catechismi è duplice: si
interpreta il testo in vista della vita cristiana e sacramentale dei ragazzi, come illustrazione (esempio)
del comportamento di Dio e della risposta dell’uomo.
- C. M. Martini si interroga sul senso del parlare oggi in parabole ed afferma che Gesù ha seguito due
finalità: a) introdurre gradualmente la gente nella trascendenza di Dio e del suo Regno; b) presentare se
stesso e la sua vita come vera ed unica «parabola». Come conseguenza il metodo parabolico invita il
credente alla lectio della Parola, cioè all’incontro con la Parola «dentro» il racconto. La parabola è un
processo educativo che dalla vita ci permette di entrare ed accostare il dinamismo del mistero di Dio.

7. Approccio pedagogico-didattico

- La riflessione ha conseguenze nell’aspetto e pedagogico e didattico. Lo studio delle parabole va


considerato come una delle più feconde strade dell’insegnamento e dell’incontro con la realtà religiosa.
Infatti il metodo parabolico permette:
a) di leggere un testo biblico secondo l’approccio esegetico (contesto, genere letterario, struttura,
vocabolario, analisi teologica, messaggio);
b) cogliere nella narrazione le costanti universali del comportamento umano (amore, giustizia,
sofferenza, onesta/disonestà, imprevisti della vita, conflitti, fiducia, ecc.) e di vedere come il processo
di apprendimento nasce dall’esistenza dell’uomo stesso;
c) dal livello linguistico, la parabola aiuta il lettore a passare al livello esistenziale, mediante la
relazione tra racconto e vita, lasciando aperta l’interpretazione del testo.

- Secondo l’esperienza di alcuni studiosi inglesi, vengono registrati sei aspetti limitativi
dell’interpretazione della parabola nell’insegnamento didattico:
1. uniformità del concetto
2. interpretazione allegorica
3. separazione del significato dal segno
4. puro insegnamento dottrinale o etico o religioso
5. emarginazione della dimensione storica del racconto
6. incidenza primariamente cognitiva

10
- E’ chiaro che la presentazione delle parabole deve tener conto di alcuni presupposti psico-pedagogici
(ad esempio: i preadolescenti coglieranno alcuni aspetti del racconto, diversamente dai giovani o dagli
adulti, ecc.)
- G. Baudler propone un itinerario fondato su tre poli:
a) insegnare la parabola significa incontrare la persona di Gesù in un momento preciso della sua
missione storica e non solamente illustrare un messaggio di Gesù;
b) nelle parabole Gesù invita ad una fusione di esperienze, comune a lui e a noi oggi;
c) per raggiungere questo effetto Gesù utilizza due tipi di parabole: le parabole di evento (il seme, il
lievito) che richiedono un’intensa meditazione e le parabole di azione (il samaritano, il servo spietato,
ecc.) che vogliono rappresentare una situazione concreta, in chiave drammatica e scenica.
- In sintesi: l’approccio didattico implica una circolarità ermeneutica dal testo alla vita e dalla vita verso
il Regno. Imparare a leggere la parabola significa imparare a guardarsi dentro, a guardarsi nel cuore e
ad interpretare la propria storia in relazione al dinamismo del Regno.

8. Prospettive per l’utilizzazione didattico-pastorale

Vorrei tentare infine di rispondere a quattro ultime domande:


1. nel discorso pastorale quale obiettivo dare all’impiego delle parabole?
Æ in primo luogo la cristologia collegata all’antropologia;

2. si possono utilizzare oggi le parabole di Gesù prescindendo dalla sua storia?


Æ sarebbe molto limitativo e tendenzialmente ideologico staccare la parabola dal contesto della
storia di Gesù e della narrazione evangelica;

3. oggi ha senso avvalersi della «forma enigmatica» nella catechesi e nella didattica?
Æ si sta riscoprendo sempre meglio il ruolo sapienziale della forma enigmatica, che genera la
tensione del racconto e aiuta a porre la domanda nella ricerca della verità;

4. si possono creare oggi «nuove parabole» alla maniera di Gesù?


Æ si possono oggi valorizzare i linguaggi parabolici con buoni risultati. L’esempio è esteso alla
letteratura rabbinica antica e recente (es.: M. Buber) ed applicato alla cinematografia e ad una serie di
strumenti comunicativi.

11
VANGELO SECONDO MATTEO

12
I.
LA PARABOLA DELLE DUE COSTRUZIONI (Mt 7, 24-27)

Introduzione

La parabola di Mt 7,24-27 è contestualizzata alla fine del discorso della montagna (Mt 5-7) ed esorta il
lettore (uditore) di concretizzare l’ascolto della parola del Signore, fondando la propria vita sulla
«roccia» che è Cristo. Gesù vuole sottolineare alla fine del discorso della montagna la serietà del
cammino di fede che il credente è chiamato a compiere.

I. Analisi letteraria e teologica

La nostra parabola è definita con l’immagine delle «due costruizioni» (o case) ed appartiene alla
fonte comune Q, in quanto appare presente alla fine del discorso delle «beatitudini», compiuto da Gesù
sul monte (cf. Mt 5-7) o nella valle (cf. Lc 6). Lo studio della pericope seguirà l’analisi sintetica del
contesto, la possibile struttura interna del testo e le sue articolazioni.

I.1 Contesto, struttura e articolazioni della parabola

Secondo Raymond E. Brown la parabola delle due costruzioni (o case) si inserirebbe nella prima
parte del vangelo di Matteo: 3,1-7,29 denominata proclamazione del regno2. Questa prima parte si
divide in due sezioni:
1. Narrazione: ministero di Giovanni Battista, battesimo di Gesù, le tentazioni, inizio del ministero
galilaico (3,1-4,25);
2. Discorso: discorso della montagna (5,1-7,29).
Per quanto riguarda il discorso della montagna, di cui la nostra parabola fa da conclusione, possiamo
individuare la seguente struttura3:
I) Mt 5,1-48 (statuto e compito dei discepoli)
II) Mt 6,1-7,12 (nuovo stile di vita)
III) Mt 7,13-29 (veri e falsi discepoli).
A sua volta la terza sezione è articolata nelle seguenti unità4:
1. Le due vie, 7,13-14 (Lc 13,24);
2. Come riconoscere i falsi profeti, 7,15-20 (Lc 6, 43-44);
3. Criterio fondamentale: attuare la volontà del Padre celeste, 7,21-23 ( Lc 13,25-27);
4. Le due costruzioni, 7,24-27 ( Lc 6,47-49);
5. L’autorità di Gesù, 7,28-29.
Il discorso del monte si conclude con una serie di inviti ed esortazioni che ricordano ai discepoli
l’urgenza di una scelta radicale e l’impegno ad attuare le istruzioni ricevute. L’orientamento pratico del
discorso si avverte nella preponderanza del verbo “fare” (poiein) che ricorre ben undici volte nella
sezione di Mt 7, (12) – 26, su un totale di ventidue volte del discorso intero. La prospettiva del giudizio
divino, che determina la salvezza o la rovina dei discepoli, è richiamato con diverse immagini almeno
tre volte: l'albero infruttuoso viene gettato nel fuoco (7,19), gli operatori di iniquità sono esclusi dal
regno (7, 23), la casa costruita sulla sabbia è destinata ad una rovina totale (7, 27).
L’invito ad una scelta radicale è marcato dal parallelismo antitetico delle immagini abbinate: le due
porte, stretta e larga; le due vie, spaziosa/angusta; molti/pochi; pecore e lupi; i due alberi,

2
Cfr. R.E.BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001, 253.
3
Cfr. R. FABRIS, Matteo, Roma 1982, 107.
4
Cfr. R. FABRIS, 182.

13
buono/guasto; frutti buoni e cattivi; le due case; l'uomo saggio e stolto. Si può anche rilevare la gamma
di immagini e metafore che sono mobilitate in questa parte finale del discorso che suona come serio
avvertimento ed esortazione ai discepoli: alcune riprese dal mondo vegetale (alberi) e animale
(pecore/lupi), altre dall'edilizia, la porta, la strada e le due costruzioni. All'interno di questa unità
costituita dal clima spirituale e dall'orientamento tematico generale, risaltano le diverse unità nelle quali
si articola il discorso.

I.2. Senso della narrazione e retrospettiva veterotestamentaria

L’intenzione pratica del primo evangelista può esprimersi questa volta con un pezzo che già
nella tradizione concludeva la raccolta delle sentenze di Gesù. A sua volta questa duplice prospettiva di
solidità felice o di caduta rovinosa si inserisce nella tradizione biblica a conclusione dell'alleanza,
quando si annunciano le promesse di benedizione per quelli, che ne osservano gli impegni, e si
comminano le minacce di maledizione per i trasgressori (cf. Dt 28; Lv 26; Gr 17,5-8). Anche il
binomio «ascoltare» e «fare» richiama il contesto dell'alleanza, in cui si esortano quelli che vi si
impegnano ad «ascoltare» (eb. shema',) e a «fare» (ebr. asha', cf. Lv 26, 14; Dt 28, 1-2). Ma ora nel
discorso evangelico le parole di Gesù prendono il posto della legge o meglio sono le ultime parole del
Signore, sulle quali si fonda l'alleanza per la felicità o la rovina di ogni uomo credente.
L 'impegno e la serietà nell'accogliere queste «parole» si misura dalla prassi. Solo chi le mette in
pratica con perseveranza mostra di «dare ascolto». Questi è il vero discepolo «saggio» (phronimos) che
merita l'elogio del suo Signore e alla fine l'accoglienza nel regno (cf. Mt 24,45; 25,1-13). Stolto
(mōros) invece è colui che, sul modello degli scribi e farisei ipocriti, separa il dire e il fare, le parole
dalla loro attuazione. Il discepolo saggio e fedele, che mette a fondamento della sua esistenza la pratica
assidua delle parole del Signore è assimilato a chi costruisce sulla roccia. La sua casa solidamente
fondata può sfidare senza danno la stagione delle piogge e la tempesta improvvisa. Al contrario capita
allo stolto che ascolta senza praticare; la sua esistenza è come una costruzione senza solido fondamento
che viene spazzata via dalla tempesta. Il commento conclusivo al v. 27 «la rovina fu grande» (ē ptōsis
autēs megalē), spezza l'involucro della parabola per lasciare intravedere in tutta la sua serietà le
conseguenze di una fine irreparabile.5 È il giudizio di Dio che metterà allo scoperto la precarietà di
un’esistenza cristiana fallimentare nonostante l’adesione di fede formale alle parole del Signore.

I.3. Contesto sinottico della parabola

Il discorso della montagna si conclude con una parabola, che riprende la prospettiva
escatologica sul giudizio della precedente pericope e la ferma esigenza di mettere in pratica del v. 21.
Nella sua struttura parallela antitetica essa concorda con ampie parti del discorso. Matteo ha quasi del
tutto messo in atto lo stile della ripetizione letterale, sia nel paragonare l'ascolto e l'esecuzione delle
parole alla costruzione della casa, sia nella descrizione dell'irrompere della tempesta.6 L’antitesi è tra il
fare e il non fare, e corrisponde alle contrapposizioni saggio/stolto, costruzione sulla roccia/
costruzione sulla sabbia, stabilità / crollo della casa. La terza contrapposizione è svolta più
ampiamente. Nella descrizione della tempesta i cinque kai fanno l'effetto di cinque martellate (vv. 25 e
27). Quanto al genere letterario, abbiamo che fare con una parabola che narra di due destini particolari.
Anche l'uso dei verbi al passato è caratteristico. Non è il caso di parlare di una doppia parabola. I due
destini non si possono separare - come è possibile invece nel caso della doppia parabola della pecora

5
La pioggia torrenziale che si scatena contro il muro intonacato dai falsi profeti è immagine del giudizio di Dio, Ez 13,9-14;
dr. 15 28,16-17; 30, 27-30. La tradizione giudaica sottolinea l'importanza di unire la pratica al sapere. In alcuni detti su
questo tema si riscontrano alcune immagini contrapposte che ricordano quelle evangeliche (cf. Pq. Aboth, III, 17; RN 24).
6
Il parallelismo è interrotto in due punti: 1. Ostis Akuei… kai poiei del v. 24 corrisponde nel v. 26 una costruzione
principale: o acuon… cai me poion ; 2. In luogo di prosepesan del v.25 abbiamo nel v. 27 prosecopsan te oikhia echeine. In
alcuni manoscritti le differenze sono eliminate.

14
perduta e della dramma perduta (Lc. 15.3 ss.) -, ma devono essere valutati insieme. L’oggetto del
paragone è menzionato all'inizio della parabola, il che avviene di rado nelle parabole: «chiunque
ascolta queste mie parole...». Perciò Jülicher osserva che propriamente si tratterebbe soltanto di una
comparazione. La parabola è a sua volta attinta dalla fonte dei detti. Ricorrendo anche in Lc 6,47-49
alla fine del discorso della valle, si può supporre che già in Q essa concludesse il «discorso di
ammaestramento dei discepoli». Entrambi gli evangelisti hanno inserito la parabola nel proprio
contesto: Matteo parla di «queste mie parole» (riferendosi al discorso della montagna); Luca di
«chiunque venga a me» (forse con riferimento al sommario di 6,18). Differenze importanti sono le
seguenti: la caratterizzazione dell'uomo come saggio o stolto, per la quale l'ipotesi migliore è che sia da
attribuire alla redazione matteana. Mt. presenta questi concetti anche altrove.7 Lc. 6,47b: «vi mostrerò a
chi è simile» potrebbe rimandare ad un'antica più lunga introduzione, abbreviata da Mt. per amore del
parallelismo. La descrizione della costruzione della casa si sofferma in Luca nel primo caso sulla fatica
del costruttore che si dà un gran daffare per le fondamenta, mentre nel secondo non si pongono
fondamenta. Matteo invece parla soltanto della costruzione sulla roccia o sulla sabbia, ma presuppone
anche che nel primo caso siano state poste delle fondamenta e nel secondo no, come mostra il v.25c.
Non dovremo quindi supporre che Matteo pensi ad una tecnica edilizia di tipo giudaico e Luca ad una
di tipo ellenistico.
Potrebbe darsi benissimo che Matteo abbia reso più conciso il testo. Per lui era importante
soprattutto la descrizione della tempesta. Mentre Lc. parla della piena e dello straripare (v. 48) e
colloca la casa nella vicinanza di un fiume, Matteo menziona la pioggia, le alluvioni e i venti. Come
ogni racconto, anche questo poteva essere sviluppato nell’una o nell'altra direzione. Per Matteo era
importante l'ordine ripetuto delle parole. L 'influsso veterotestamentario è avvertibile in due contesti: i
concetti di saggio/stolto sono sapienziali e ricorrono assai spesso in Prov. e Siracide, come coppia di
opposti soprattutto in Siracide (cfr. la concordanza dei LXX, ad es. Sir 21,11- 28). L’ascolto e
l'esecuzione delle parole che Dio pronuncia sono deuteronomici.

1.4 Il Testo di Mt 7,24-27


24
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio,
che costruì la sua casa sulla roccia.
25
E cadde la pioggia e vennero le alluvioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa,
ed essa non crollò, perchè era fondata sopra la roccia.
26
E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto
che costruì la sua casa sulla sabbia.
27
E cadde la pioggia, e vennero le alluvioni e soffiarono i venti e cozzarono contro quella casa,
ed essa crollò. E il suo crollo fu grande»8.

I.5. Analisi esegetica

v. 24
Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio, che
costruì la sua casa sulla roccia.

Il brano ha un'introduzione deduttiva: «Perciò chiunque...». In esso viene riassunto il significato di tutto
il discorso. L’esempio positivo precede. Non soltanto l'ascolto di queste parole è decisivo; bisogna
anche metterle in pratica. Anche nel Deuteronomio l'ascoltare e l'agire stanno ripetute volte insieme.
Così Dio dice a Mosè: «Raduna il popolo..., perchè ascoltino... e mettano in pratica tutte le parole di

7
Nei sinottici moros è usato solo da Mt. (7 volte); phronimos ricorre in Mt 7 volte, in Lc 2 volte e nessuna in Mc. La
contrapposizione saggio/stolto si ha anche nella parabola di Mt 25,1 ss.
8
Seguiamo la traduzione di J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 413-415.

15
questa legge» (L XX Dt 31,12; cfr. 4,1.6.10; 5,1.27; 6,3 ecc.). La conclusione del Deuteronomio si
presta al confronto anche perché pure qui il popolo è posto di fronte alla decisione di scegliere tra vita e
felicità o morte e infelicità (30,15). Come nella scena introduttiva del discorso della montagna e nelle
antitesi ci si era riportati a Mosè, così anche qui si può supporre la stessa visuale. Al posto della legge è
subentrata la parola di Cristo. Essa ha un significato di rilevanza salvifica: può salvare, ma il suo
disprezzo porta rovina. Questo intende illustrare la parabola, di cui va notata la formula introduttiva
enunciata al futuro (omoiothesetoi). Occorre prestare attenzione a ciò che avverrà alla fine.9 Saggezza e
stoltezza non sono misurate in base a criteri terreni. Esse non s'identificano con intelligenza e mancanza
d'intelligenza. Neppure si danno regole di saggezza. In questo punto il vangelo supera la sapienza
veterotestamentaria. Eppure la parabola, nella parte figurata, descrive un comportamento assennato dal
punto di vista della saggezza mondana. L’uomo saggio costruisce, fonda la propria casa sulla roccia.
Nel mondo rurale ognuno era certamente il costruttore della propria casa. Le fondamenta possono
essere state di roccia grezza e i muri costruiti in argilla. A differenza di Lc., Mt. descrive non lo sforzo
del costruttore, ma la saldezza della roccia. Se ne può dedurre che il suo interesse è rivolto alla
fidatezza della parola (Lc può essere interessato alla difficoltà e allo sforzo di accettare la parola) .

v. 25
E cadde la pioggia e vennero le alluvioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa
non crollò, perchè era fondata sopra la roccia.

La saldezza delle fondamenta della casa si dimostra quando essa è in pericolo. In Israele è il pericolo
che può venire da alluvioni e tempeste nel periodo delle piogge (ottobre/novembre). I corsi d'acqua
possono diventare torrenti. Nella tradizione del testo il verbo è stato più volte modificato: si
abbatterono (prosepesan), urtarono (prosecopsan), cozzarono (prosecrusan), s'infransero contro quella
casa (proserrexan). È da preferire il primo.10 Essendo un verbo non specifico, può riferirsi tanto alle
alluvioni quanto alle tempeste. A che cosa va riferita l'immagine di questa estrema minaccia? Certo
all'imminente giudizio finale, ma forse anche alle prove del tempo finale (cfr. Mt. 24). L'insolita
immagine consiglia questa interpretazione allargata.

vv. 26 – 27
E chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica, sarà simile a un uomo stolto che costruì
la sua casa sulla sabbia. E cadde la pioggia, e vennero le alluvioni e soffiarono i venti e cozzarono
contro quella casa, ed essa crollò. E il suo crollo fu grande

Nell’esempio negativo è tratteggiata un'immagine contraria. Lo stolto costruisce la sua casa in


un altro luogo. Leggerezza e balordaggine gli fanno scegliere la sabbia a base della casa. L'improvvisa
catastrofe produce le relative conseguenze. Anche in Gb 1,19 abbiamo la descrizione del crollo di una
casa per effetto della tempesta, in Ez. 13,10 ss. di un muro in seguito a pioggia torrenziale, uragano e
grandine. In entrambi i casi gli abitanti sono sepolti sotto le macerie. Michea si accontenta di
constatare: «e il suo crollo fu grande».11 Il vocabolo greco pitiosis, al pari dell'italiano 'rovina', è usato
sia per il crollo di una casa, sia anche in senso figurato (dr. Lc. 2.34). Il messaggio della parabola si può
così riassumere: come un uomo che costruisce la propria casa sulla roccia supera la tempesta, così
chiunque faccia affidamento sulle massime di Gesù supera l'esame del giudizio finale. Fare affidamento
sulle direttive di Gesù significa però metterle in pratica. Chi non le osserva perisce nel giudizio.
Saggezza e stoltezza diventano parole che definiscono la qualità della vita di un uomo. La parola di
Gesù è stabile e sopravvive alla catastrofe (cfr. 24,35). Il saggio riconosce il valore di questa parola e si

9
Mt. distingue tra omoiothe (13,24; 18,23; 22,2) e omoiothesetai. Il futuro si trova anche in 25,1. C L W f h sy che leggono:
onioso auton.
10
I mss. 33 e 1224 leggono la variante 2, W la variante 3, Θ Σ la variante 4. Analoghe varianti si riscontrano per il v. 27.
11
Alcuni manoscritti (Θ ſ 3 ) aggiungono sphodra.

16
sforza di metterla in pratica nella propria vita. Il tanto discusso problema della grazia nel vangelo di
Mt. riceve luce da questo passo. L 'uomo è salvato dalla parola di Cristo, non dal proprio agire. Ma la
preveniente parola di Cristo salva l'uomo solo quando questi la mette in pratica.
«Una parabola rabbinica di Elisha ben Abuja (circa 120) è assai simile alla parabola sinottica. Racconta
di due uomini, di cui l'uno pone le fondamenta alla propria casa e l'altro no. Molte masse d'acqua non
riescono a distruggere la prima casa, mentre poche bastano a distruggere l'altra. Un uomo che ha
appreso molte opere buone e molta torà è simile al primo; un uomo che non ha da mostrare opere
buone e che apprende la torà, al secondo. Jülicher potrebbe aver ragione a supporre che la parabola di
Elisha costituisca uno sviluppo di Lc. 6,47ss.»12.

I.6 Risonanze

“Chiunque ascolta queste mie parole e le fa”, dice Gesù, compie la volontà del Padre mio: edifica qui in
terra la sua dimora eterna, costruita su quella stabile roccia che è Dio stesso. Chi invece le ascolta e non
le fa, Matteo si rivolge ai credenti che ascoltano e non sempre fanno, per quanto faccia cose buone, non
fa la volontà di Dio: costruisce sulla sabbia del proprio io la rovina di se stesso. Matteo si trova di
fronte una comunità carismatica, ricca di fede ed entusiasmo: adora il Signore, nel suo nome fa
profezie, miracoli ed esorcismi. Ma questo non basta. Infatti, senza l’amore, tutto è nulla (cf. 1Cor
13,1-3). E l’amore è, innanzitutto, fare ciò che piace all’amato. La comunità di Matteo piena di doni
anche straordinari, rischia di trascurare il quotidiano “fare la volontà del Padre”, amando e servendo i
fratelli nelle piccole cose di ogni giorno13. Questo paragone è di una potenza inaudita. Con pochi tratti
vigorosi Gesù disegna due quadri: la casa che un uomo prudente si è costruita sulla roccia e la casa che
un uomo stolto fondò sulla sabbia. Bisogna rappresentarsi un po' l'ambiente e il modo di costruire le
case in Palestina. La casa è fatta alla meglio con pietre, fango e legno. La pioggia cade per lo più
improvvisa e violenta, e, non trovando il terreno permeabile di boschi e prati, si raccoglie in ruscelli e
torrenti che precipitano impetuosi sul fondo roccioso. La casa fondata sulla roccia non viene spazzata
via: il furore delle onde le passa ai fianchi senza poterne minare le fondamenta. L’altra invece è subito
in pericolo, perché l’acqua, sottraendole con tutta facilità la sabbia su cui è costruita, la travolge
irrimediabilmente. Gesù presenta i due costruttori come esempio agli uditori. A chi volete assomigliare
nella costruzione della casa della vostra vita? Nel giudizio degli uomini l'uno è saggio e prudente,
l'altro è uno stolto che ha giustamente «il danno e le beffe». È proprio così anche nei riguardi della mia
dottrina: chi la ascolta e la segue è un uomo prudente, chi invece la ascolta soltanto, ma non la segue, è
uno stolto. Si danno soltanto queste due possibilità, e anche qui l'unica cosa veramente decisiva è il
fare. «Mettetela in pratica, la parola, e non vi contentate di udirla» (Giac. I, 22). Ma questa non è, come
nell'immagine, una prudenza o stoltezza semplicemente umana e terrena. Giacche qui non si tratta di
ciò che ha successo nella vita presente, di ciò che assicura e fonda saldamente la casa materiale.
L'uragano dell'immagine è descritto con colori cosi violenti da far pensare all'immane catastrofe che
chiuderà la storia. Cadde la pioggia a dirotto, i fiumi strariparono, soffiarono i venti e s'abbatterono su
quella casa. Quest'immagine richiama l'uragano escatologico, che decide una volta per tutte la sorte
della casa: nessuno può cominciare a edificare una seconda volta. Se la casa è crollata, resta in rovina:
per sempre. Queste parole danno a tutto il discorso della montagna una profondità ed efficacia
particolare. Tu puoi costruirti una casa soltanto nell'uno o nell'altro modo. Le parole di Gesù ci dicono
dove dobbiamo porre le fondamenta per poter resistere all'uragano del giudizio; ma ascoltarle e
conoscerle non basta se non costruisci effettivamente sulla roccia, se non pratichi cioè queste parole
che conosci. Tutto è incalzante; non soltanto perchè Dio vuole cosi o perchè cosi fu rivelato da Gesù,
ma anche perchè per ognuno il tempo urge. La vita è una e irrepetibile, e alla fine il giudizio è

12
J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 417.
13
S. FAUSTI, Una comunità legge il Vangelo di Matteo, Bologna 20043, 123.

17
inevitabile. Lo potrà superare soltanto colui la cui vita sia stata costruita con un unico ideale: Dio, il
regno di Dio e la sua giustizia.
a) Matteo conclude il discorso della montagna con la prospettiva escatologica del giudizio. Certo,
egli fa questo in dipendenza dall'archetipo Q, tuttavia tale orientamento diventa decisivo anche
negli altri discorsi raccolti dal nostro evangelista. La sua comunità vive nell’attesa della completa
basileia dei cieli. La condotta corrispondente a questa attesa è quella della saggezza. Nella parabola
delle vergini sagge e delle vergini stolte egli riprenderà questa idea e mostrerà che la saggezza
comporta soprattutto la vigile attesa di questo giorno e di questa ora. Il discorso escatologico è però
l'ultimo dei discorsi matteani. All'inizio sta il grande discorso delle direttive. Essere saggi nell'attesa
del giorno significa quindi impegnarsi nella parola di Gesù, metterla in pratica e costruivi sopra la
casa della vita. Oltre l'incalzante imperativo non vanno trascurate la fiducia e la certezza che
l’evangelista con la parabola della tempesta intende comunicare a coloro che accolgono la parola.
b) Con la sua vicinanza al tempo finale, la parabola si inserisce nella predicazione di Gesù. In vista
dell'imminente basileia egli richiede un agire corrispondente. A suo avviso questo agire sta al di
sopra dell'ascoltare e anche del dire e del teologizzare. Si tratta di una mentalità ancora
fondamentalmente giudaica. L'agire comporta però un convertirsi, ma non un convertirsi alla torà,
come, in confronto, avviene nella setta di Qumran, bensì alla sua parola. Per questo la parabola è
importante anche rispetto all'autorità di Gesù. Egli esige obbedienza alla sua parola. Chi presta
questa obbedienza può raggiungere la salvezza. Chi la rifiuta è perduto.

I.7 Analisi teologica e prospettive pastorali14

Possiamo ora affrontare la parte finale del discorso. E' concentrata su una parola importante, il
verbo « fare » (poiein) che ritorna undici volte tra i vv. 12 e 26. Mt ha raccolto qui tre sentenze di Gesù,
ognuna delle quali sviluppa una antitesi che invita a prendere una decisione effettiva di fronte al regno
dei cieli: le due vie del regno (vv. 13-14), i due generi di profeti (vv. 15-20), le due specie di discepoli
(vv. 21-23). L'insieme termina con I'apologo delle due case (vv. 24 -27), che riassume una volta ancora
la necessità di passare agli atti. La parola di Dio non è solamente un discorso da comprendere e
interpretare; è soprattutto una persona che deve divenire in noi vita e azione. La preghiera del Padre
nostro deve incarnarsi nelle nostre vite, sotto pena di non essere che un «vaniloquio » di pagani (cf. 6,
7). Per entrare nel regno dei cièli (7, 13-14), occorre seguire un « cammino » e penetrare nella vita
attraverso una « porta » (pylē = porta di città). E' facile riconoscere il tema delle « due vie », caro
all’antico testamento (cf. D t 11,26-28; 30,15-20; Ger 21,8; Sal 1,6; 118, 29-30; 138, 24; Sap 5,6-7;
ecc.) e alla regola della comunità di Qumran (cf. 1 QS III, 13 -IV, 26), ma il discorso della montagna,
identificando il regno dei cieli con Gesù, dà a questo tema un significato totalmente nuovo.
L’avvertimento contro i falsi profeti (7, 15-20) è seguito dal loghion sul discernimento delle opere, che
presso Luca ritroviamo nello stesso contesto (6, 43- 46), congiunto come presso Mt a quello della verità
dell'invocazione del Signore. Mt ha appena citata la «regola d'oro» come realizzazione della legge e dei
profeti. Ha ripreso il primo tema in quello delle due vie, poichè la legge appariva come il cammino
verso Dio; sviluppa ora il secondo evocando una questione essenziale nel profetismo: il discernimento
del vero e del falso profeta (cf. Dt 18, 18-22; Ger 14, 14-16; 23, 16-17; 27, 14-15).15 discernimento del
vero discepolo, messaggero del vangelo, avverrà in modo analogo, a partire dalle sue opere, dai suoi
frutti, come già annunciava Giovanni Battista nella sua predicazione (cf. Mt 3, 10), ma alla luce di
Gesù. Infine, è il giudizio definitivo del Signore, « in quel giorno » (cf. 24, 36.42. 50; 25, Il-13), che

14
Cfr. J. RADERMAKERS, Lettura pastorale del vangelo di Matteo, Bologna 1974, 161-162.
15
In tutto il vangelo di Mt, questo titolo non viene rivolto a Gesù che da parte di credenti, cioè di discepoli o di persone che
lo stanno per divenire: 8,2.6.8.21 (cf. 8,19).25; 9,28; 13,27; 14,28-30; 15, 22.25.27; 17,4.15; 20,30.31.33; (21,29);
25,11.20.22.24.37.44; 26,22 (cf. 26,25).

18
costituirà il vero discernimento (7, 21-23). Qui, per la prima volta, Mt cita delle persone che si
rivolgono a Gesù come al loro « Signore ».
Certo, « nessuno può servire a due padroni » (6, 24), ma è importante che il servizio esclusivo del
regno si esprima in verità. Che significa riconoscere Gesù come il «Signore», se non manifestare con
l'opera della nostra vita che il risuscitato vi è presente? Non basta infatti protestare che la nostra azione
è compiuta nel nome del Signore perché sia effettivamente; ancora una volta bisogna accogliere «la
volontà del Padre» che guarda «nel segreto». «Quindi, chiunque ode queste mie parole...» (7, 24-26): si
sa quale importanza abbia per l'ebreo il verbo « udire » (shema'), poichè significa a un tempo intendere,
ascoltare e obbedire. La parola di Gesù, che è la sua presenza di risuscitato nel mondo, è il fondamento
solido che dà consistenza a ogni parola umana sul regno. Ma per chi non lascia che la parola di Gesù
divenga azione nella propria vita, la rovina è grande. E' l'azione, cui la preghiera del Padre ci impegna,
che rivelerà in modo decisivo chi noi siamo. Mt puntualizza il suo discorso con una riflessione
sull'impatto della parola di Gesù nel cuore degli ascoltatori di tutti i tempi. Gesù rivela l'amore effettivo
del nostro Padre comune. Vivere sotto lo sguardo del Padre cambia le nostre persone e trasforma i
nostri rapporti con i fratelli e il nostro modo di vedere le cose materiali, i beni, la ricchezza, gli affari.
Si capisce allora che Gesù è in grado di darci un insegnamento «di autorità» sulla legge, e che richiede
un impegno senza compromessi al servizio di questo «Padre che è nei cieli» e un comportamento
altrettanto radicale verso i fratelli. Questa «autorità» non può non meravigliare le folle (e porre loro dei
problemi: 7, 28-29); si tratta evidentemente di altra cosa che di un'interpretazione della legge alla
maniera degli scribi: Gesù è al tempo stesso esegeta ed esegesi della legge e dei profeti. Quelli che
hanno sentito che egli è l'adempimento definitivo possono discendere con lui dalla montagna (8, 1; cf.
5, 1) e mettersi al suo seguito (8, 1), cominciando a scoprire che egli è più di un semplice guaritore (cf.
4, 25).

III. Applicazioni Pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di unità di apprendimento per i piani delle attività e di studio
personalizzati della scuola dell’infanzia e della scuola primaria.

Bisogno formativo: Conoscere la persona di Gesù dai Vangeli e comprendere, gradualmente il concetto
di fede.

Obiettivo specifico di apprendimento ( O.S.A.scuola dell’infanzia, bambini di quattro/cinque anni)

Scoprire la persona di Gesù di Nazaret come viene presentata dai vangeli.

Obiettivo specifico di apprendimento ( O.S.A.scuola primaria, classe II e III)

conoscenza abilità

Cogliere attraverso alcune pagine


evangeliche, come Gesù viene incontro alle
attese di perdono e di pace, di giustizia e di
La Chiesa, il suo credo e la sua missione. vita eterna.

Riconoscere nella fede e nei sacramenti di


iniziazione (battesimo-confermazione-
eucaristia) gli elementi che costituiscono la
comunità cristiana

19
Competenze attese ( Dal P.E.CU.P., Profilo educativo, culturale, professionale, 6 – 14 anni)

L’allievo”…dà un senso alle esperienze e ai problemi di cui è protagonista…mantiene aperta la


disponibilità all’ascolto, al dialogo alla collaborazione e al rispetto anche quando richiedono sforzo e
disciplina interiore…elabora, esprime, argomenta un prorio progetto di vita… fa ipotesi sul proprio
futuro e sulle proprie responsabilità…”

Le competenze da raggiungere si connotano in forma evolutiva, legate all’età degli alunni e delle
alunne, al cui raggiungimento contribuiscono tutte le conoscenze ed abilità che la scuola propone per
la formazione personalizzata.

Apprendimento unitario

Comprendere che la vita è dono di Dio creatore e cammino di fede per il cristiano.

Obiettivo formativo

Riconoscere l’importanza della fede, testimoniarla nella relazione con gli altri, rafforzando la propria
identità.

Attività

- Narrare la favola dei tre porcellini con l’ausilio del linguaggio iconico;
- discutere sul perché i tre porcellini costruiscono tre case diverse;
- chiedersi se il porcellino che ha costruito la casa di mattoni è stato quello che ha usato di più la
ragione ed ha avuto più fede nella sua scelta;
- ricercare nella favola il personaggio che rappresenta il nemico, il male, la falsità;
- discutere sul momento in cui i tre porcellini si ritrovano nella casa di mattoni, il lupo cattivo viene
messo in fuga e il bene, la gioia regnano nel momento in cui i tre fratelli porcellini si ritrovano
insieme.

- Leggere la parabola delle due costruzioni;


- ricercare il punto di similarità con il testo della favola letta e discussa precedentemente;
- organizzare una caccia al tesoro sui due testi per la raccolta di termini simili;
- ricercare le azioni di Gesù nella parabola:
- ricercare le azioni dell’uomo nella parabola;
- mettere a confronto le azioni dell’uomo e quelle di Gesù;
- fare sintesi delle conoscenze con la discussione guidata dall’insegnante
- produrre graficamente la conoscenza acquisita.

Ologramma

Scuola dell’infanzia

Obiettivo formativo: riconoscere l’importanza della fede, testimoniarla nella relazione con gli
altri, rafforzando la propria identità.

20
“Soffermarsi sul senso… delle origini della vita
Il sé e l’altro e del cosmo,… del ruolo dell’uomo
nell’universo, dell’esistenza di Dio, a partire
dalle diverse risposte elaborate e testimoniate
in famiglia…”

Corpo, movimento, salute “Controllare l’affettività e le emozioni in


maniera adeguata all’età, rielaborandola
attraverso il corpo e il movimento.”

“Parlare, descrivere, raccontare, dialogare, con


Fruizione e produzione di messaggi i grandi e con i coetanei, lasciando trasparire
fiducia nelle proprie capacità di espressione e
comunicazione e scambiandosi domande,
informazioni, impressioni, giudizi e
sentimenti.”

“Adoperare lo schema investigativo del chi,


che cosa, quando, come, perché, per risolvere
Esplorare, conoscere e progettare problemi, chiarire situazioni, raccontare fatti,
spiegare processi.”
“Ricordare e ricostruire, attraverso diverse
forme di documentazione, quello che si è visto,
fatto, sentito, e scoprire che il ricordo e la
ricostruzione possono anche differenziarsi.”

Scuola primaria

Obiettivo formativo: riconoscere l’importanza della fede, testimoniarla nella relazione con gli
altri, rafforzando la propria identità.

Conoscenza:”Relazioni di connessione
lessicale, polisemia, iper/iponimia, antinomia
fra parole sulla base di contesti.”

Italiano

Abilità: “Avvalersi di tutte le anticipazioni del


testo (contesto, tipo, argomento, titolo,…) per
mantenere l’attenzione, orientarsi nella
comprensione, porsi in modo attivo
nell’ascolto”

21
Conoscenza:”Espressioni utili per semplici
interazioni”
Inglese Abilità: “Scoprire differenze di vita e di
abitudini all’interno dei gruppi”

Conoscenza:” Passaggio dall’uomo preistorico


all’uomo storico nelle civiltà antiche”
Storia
Abilità:”Leggere ed interpretare le
testimonianze del passato presenti sul
territorio”.

Conoscenza:”Il proprio territorio comunale,


provinciale, regionale con la distribuzione dei
più evidenti e significativi elementi fisici e
Geografia antropici e le lorto trasformazioni nel tempo.”
Abilità:”Riconoscere gli elementi fisici e
antropici di un paesaggio, cogliendo i principali
rapporti di connessione e interdipendenza.”

Conoscenza:”Analisi di analogie e differenze


in contesti diversi; le principali figure
geometriche del piano e dello spazio; sistema
di misura”
Abilità:”In contesti vari…riconoscere analogie
Matematica e differenze; costruire mediante modelli
materiali, disegnare, denominare e descrivere
alcune fondamentali figure geometriche del
piano e dello spazio; effettuare misure dirette
ed indirette di grandezze (lunghezze, tempi,…)
ed esprimerle secondo unità di misure
convenzionali e non convenzionali.”

Conoscenza:”Definizione elementare di
ambiente e natura in rapporto all’uomo”

Scienze

Abilità:”Descrivere un ambiente esterno


mettendolo in relazione con l’attività umana”.

Conoscenza:”La videoscrittura e la
Tecnologia e informatica videografia”.
Abilità:”Disegnare a colori i modelli realizzati

22
o altre immagini, adoperando semplici
programmi di grafica”.

Conoscena:”Brani musicali con differenti


repertori”.
Abilità:”Eseguire per imitazione, semplici
Musica canti e brani, individualmente e in gruppo,
accompagnandosi con oggetti di uso comune e
coi diversi suoni che il corpo può produrre, fino
all’utilizzo dello strumentario didattico,
collegandosi alla gestualità e al movimento di
tutto il corpo.”

Conoscenza:”Le forme di arte presenti nel


proprio territorio”
Arte ed immagine Abilità:”Utilizzare tecniche grafiche e
pittoriche, manipolare materiali plastici
epolimaterici a fini espressivi.”

Conoscenza:”Modalità espressive che


utilizzano il linguaggio corporeo”.
Scienze motorie e sportive Abilità:”Interagire positivamente con gli altri
valorizzando le diversità.”

Conoscenza:”Il sé, le proprie capacità, i propri


interessi, i cambiamenti personali nel tempo:
Convivenza civile possibilità e limiti dell’autobiografia come
strumento di conoscenza di sé.”
Abilità:”Attivare atteggiamenti di
ascolto/conoscenza di sé e di relazione positiva
nei confronti degli altri.”

I.8 Conclusione

La parabola rappresenta un’immagine che ci aiuta a riflettere sulla relazione fede/opere. La fede
sola non basta, perche una fede che non si esplichi nell'opera non è vera fede. È come una nuvola da cui
non cade pioggia, come una gemma che non si schiude, come una scintilla che non accende. La santità
del lavoro, giustamente intesa, è schiettamente biblica.
Tuttavia anche l'altro estremo però è sbagliato. Le opere senza la fede sono prive di contenuto,
sono come una magnifica automobile senza carburante, come un robot tecnicamente perfetto e
senz'anima. Senza la fede l'azione umana rimane sul piano puramente umano. Non conta davanti a Dio.
Dio solo è buono; perciò, se nelle opere dell'uomo non c'è nulla di divino, esse non sono buone. Opere
buone senza la fede derivante da Dio non sono opere buone. La via di mezzo cattolica dice perciò: la

23
fede è un dir di sì alla parola di Dio, ma con l'azione. Azioni, quindi, che provengono dalla fede. Prima
premessa è la parola di Dio. « Chi ascolta queste mie parole... ».
Il primo passo vien compiuto da Dio, precisamente attraverso la sua parola. L’ascoltare, con
interiore disposizione all'ascolto, è condizione essenziale da parte dell'uomo. Poi viene, veramente
essenziale, il secondo punto: « Chi ascolta queste mie parole e vi agisce in conformità... ». La parola di
Dio è un richiamo obbligante, che mette l'uomo della necessità di dare una risposta, e lo grava quindi di
una responsabilità. La parola di Dio non è un mero discorrere, ma un'azione: Dio parlò e fu fatto! La
sua azione è parola e la sua parola è azione, perchè la parola è diventata carne. Perciò anche la risposta
dell'uomo, allorchè vien data con vera responsabilità, dev'essere azione. Le parole costano troppo poco.
Le spiegazioni teoriche non contano. Soltanto la risposta dell'azione è risposta viva al richiamo della
vita. La parola di Dio è azione e discorso proveniente dall'amore. Perciò la risposta dell'azione umana
dev'essere l'azione dettata dall'amore. San Paolo parla di una « fede, la quale agisce nell'amore ». In
questo senso si svolge il discorso della montagna, in cui parla il Verbo fattosi uomo, l'amore di Dio
diventato azione. Chi ascolta queste parole agendo in conformità, dà la risposta dell'azione amorosa,
abbandonandosi realmente all'amore diventato uomo. Soltanto questo cristianesimo è costruito sulla
roccia, perchè si basa sulle fondamenta incrollabili della parola e dell'azione, quindi dell'amore di Dio.
Ogni altro cristianesimo, per quanto formulato con profondità teologica e sorretto da sentimenti ed
esperienze vive, è costruito sulla sabbia, perche il suo fondamento è qualcosa di umano. Tutto ciò che è
umano è sabbia mobile. Il cristianesimo, che è la risposta dell'amore attivo alla parola di Dio e
dell'azione amorosa, vince ogni tempesta, come la casa costruita sulla roccia, anche a quella del
giudizio finale nel giorno dell'ira divina, perche si avrà allora l'incontro non col Dio della collera, ma
con quello dell'amore. La legge dell'Antico Testamento si chiude con la minaccia della maledizione per
colui che non vi si attiene, e con una promessa di beatitudine per colui che l'osserva. La legge del
Nuovo Testamento, il discorso della montagna, contiene anch'essa una minaccia e una promessa. Ma
l'una e l'altra si adempiranno soltanto nel giorno del giudizio; Il cristianesimo non è una garanzia per il
benessere terreno, bensì un'indicatore della via alla parusìa. Qui, e in questo momento, si ha la
decisione. Essa diventerà però visibile soltanto allora, nell’al di là.
Concludendo possiamo affermare che il discorso della montagna ha una conclusione degna
della sua apertura: l'immagine dell'edificio innalzato sulla roccia che non crolla, in contrasto con quello
costruito sulla sabbia. Il discepolo di Gesù è 'un uomo saggio che edifica su solide basi: l'ascolto e la
messa in pratica degli insegnamenti del Maestro. Il brano è costruito sulla legge della simmetria, in cui
parallelismo antitetico e parallelismo sinonimico s'intrecciano e si fondono in una sintesi armonica.
Questa è una parabola dove ci fa benissimo comprendere che il cristianesimo deve essere un
cristianesimo dell’azione.

24
II.
LA PARABOLA DEL GRANO E DELLA ZIZZANIA (Mt 13, 24-30)

Introduzione

Il nostro intento è quello di compiere uno studio sistematico sulla nota parabola del grano e
della zizzania di Mt 13, 24-30 all’interno della propria dimensione letteraria e teologica, cercando di
svilupparne un’accurata analisi unitamente ad adeguate interpretazioni. Sono questi infatti i due nuclei
centrali da cui vuole snodarsi la presente riflessione che, sebbene non sia svincolata da esigenze
puramente didattiche, intende approfondire in tutte le sue dinamiche un particolare testo appartenente al
genere parabolico, notevole peculiarità nell’ambito dei generi letterari. Infatti nessuna parabola ci è
stata mai tramandata da tutta la letteratura rabbinica anteriore a Gesù, e parimenti anche se andassimo a
confrontare le parabole ad esempio con il linguaggio figurato di Paolo o con qualche altro testo
analogo, queste si contraddistinguerebbero comunque per una marcata originalità personale, una
singolare chiarezza e scioltezza, una padronanza inaudita della forma, derivanti da una tradizione
particolarmente fedele che unisce il destinatario immediatamente al Gesù Maestro.16 Tale genere
letterario è fondato sostanzialmente sulla roccia primordiale della tradizione, facendo riferimento a
situazioni ed immagini immediatamente comprensibili, tanto da condurre il lettore in un mondo
conosciuto, familiare, dove tutto risulta essere semplice e chiaro, non senza ardui problemi, primo fra
tutti la determinazione del significato originario. Per secoli infatti, sin dai primi decenni dopo Cristo, si
sono trattate le parabole come se fossero vere e proprie allegorie, e questa allegorizzazione non ha
potuto che nascondere il vero contesto e significato delle parabole, probabilmente sotto la spinta di
trovare un senso più profondo nelle semplici parole di Gesù sul modello dei miti delle culture
precedenti, letti come chiave di conoscenze esoteriche.17
La nostra analisi verterà sulla relazione intercorrente fra le tre fasi componenti la parabola, che
si potrebbero denominare fasi-spigolo, o fasi-cardine: l’epoca della semina, il periodo della
maturazione, il momento della raccolta che determina la sorte sia del grano che della zizzania. Sarà
dunque da questa relazione che nel corso di questo studio emergeranno tanto la pregnanza quanto
l’emblematicità dei simboli del grano e della zizzania, i quali istintivamente farebbero pensare ad un
rimando unicamente escatologico, ma che in realtà celano dinamiche ben più profonde ed attuali come
si vedrà nella seconda sezione dell’elaborato, nella sezione propriamente teologica.
Si evince dunque come un passo importante dello studio e della riflessione sarà il cercare di
risalire sino alla sorgente della parabola stessa, ovvero la predicazione di Gesù nella vita della comunità
di Matteo, per cercare di vedere cosa per essi questa parabola ha significato e che cosa continua a
significare per l’uomo di oggi e per l’uomo di ogni tempo della storia.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto, struttura ed articolazioni della parabola

Per raggiungere l’obiettivo prefissato nell’introduzione, non possiamo non partire da una prima
visione ed analisi contestuale. Risulterebbe improprio parlare di contesto della parabola in sé svincolato
dal contesto generale della sezione del vangelo di Matteo in cui la parabola è situata. Si tratta di un
capitolo che riunisce a sé, per affinità ed analogie, sette parabole. Nello specifico stiamo parlando delle
parabole del seminatore (Mt 13, 3-9), del grano e della zizzania (Mt 13, 24-30), del granellino di

16
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Brescia 19732, 11.
17
Cfr. Ibidem.

25
senapa (Mt 13, 31s), del lievito (Mt 13, 33), del tesoro (Mt 13, 44), della perla (Mt 13, 45s) e della rete
(Mt 13, 47-50). Nell’ambito dell’intero vangelo matteano siamo nella sezione dove Gesù si concentra
in maniera più piena e profonda sui suoi discepoli (Mt 13-17), in una costruzione e successione di
eventi che lasciano trasparire un Maestro premuroso che istruisce essenzialmente sulla necessità della
croce e sull’atteggiamento di fronte alle istituzioni giudaiche.18 È in questo contesto dove
fondamentalmente trova spazio il terzo grande discorso di Gesù, dopo il Discorso della montagna (Mt
5-7) e il discorso di invio in missione (Mt 10), costituito dalle sette parabole segnalate sopra. Ma ancor
prima di questa considerazione, avremmo dovuto premettere sin dal primo momento che a ciascuna
parabola non appartiene esclusivamente una collocazione generale nell’ambito del vangelo in cui si
trova ad essere situata, ma appartiene anche un contesto storico generale originario. Ogni parabola di
Gesù, così come ci è stata tramandata, presenta una duplice collocazione storica.19 Prima che fossero
redatte, le parabole avevano vissuto nella Chiesa primitiva come un qualcosa che nella sua azione
missionaria, nelle assemblee comunitarie e nelle catechesi, la Chiesa stessa annunciava e predicava.20
Ora analizzare il contesto di una parabola significa non in ultimo enucleare la parabola dal contesto
vitale della Chiesa primitiva per reinserirla nel contesto originario della vita di Gesù, quel contesto nel
quale la parabola è stata raccontata con tutto il suo impeto, tutta la sua autorità. Gesù ha parlato in
galileo-aramaico.21 Tale conclusione sarebbe stata confermata da studi di G. Dalman, contrariamente a
quanto si era sempre pensato che Gesù parlasse ebraico, dal momento che questa sarebbe stata la lingua
delle classi inferiori del popolo giudeo.22 La traduzione delle sue parole in greco avrebbe già portato
inevitabilmente ad un primo slittamento dei significati, dunque la ricomposizione della parabola nella
lingua originaria di Gesù diventa pertanto uno dei mezzi più importanti e fondamentali per il recupero
del significato originale. Insieme al linguaggio anche il patrimonio figurativo sarebbe stato tradotto
secondo l’ambiente ellenistico, come ad esempio espressioni che presuppongono elementi di
architettura tipicamente ellenistica (es. case con le stanze sotterranee, non abituali in Palestina), di
orticoltura (es. seminagione del seme di senape, in Palestina era proibito), di agricoltura, di diritto
penale, insieme ad un ulteriore bagaglio di altre immagini extra-palestinesi.
A questo c’è anche da aggiungere l’influsso dell’Antico Testamento e delle narrazioni popolari che
avrebbero inevitabilmente condizionato la stesura del testo sacro.23 Sono elementi da tenere molto in
considerazione nello studio della parabola, perché offrono chiavi di lettura di notevole importanza,
come poi meglio vedremo in seguito nella sezione teologica. Entrando ora più nel vivo nell’analisi
contestuale, occorre partire dal presupposto che è merito delle ricerche condotte dalla scuola della
Formgeschichte se ora è possibile valutare l’inquadratura data alla storia di Gesù. Si è dunque potuti
giungere alla constatazione di come la tradizione aggiunga ad una parabola o alla sua interpretazione
particolari riguardanti la situazione. È questo il caso della circostanza nella quale Gesù ha tenuto un
discorso davanti alla folla, ma spiegandone il senso profondo al solo gruppo dei discepoli. Questo
risulterebbe molto verosimile, dal momento che indubbiamente Gesù a seguito di discorsi e polemiche
conseguenti a sue affermazioni, abbia ripreso tali discorsi in forma molto più esaustiva ed approfondita
trovandosi da solo con i suoi discepoli. Sarebbe smentita dunque l’ipotesi di una finctio letteraria, a
maggior ragione che i versetti di transizione per inserire gli ammaestramenti rivelano il lessico proprio
degli evangelisti, ad esempio constatando in tali stralci la sospensione del presente storico.24

18
Cfr. R. A. MONASTERIO, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, Brescia 1995, 82.
19
Cfr. J. JEREMIAS, 25.
20
Cfr. Ibidem.
21
Cfr. Ibidem.
22
Cfr. Ibidem.
23
Cfr. Ibidem.
24
Cfr. Ibidem.

26
Parabola raccontata alle folle (Mt 13, 1-9 // Mt 13, 24-33)
Motivazione delle parabole (Mt 13, 10-17 // Mt 13, 34-35)
Interpretazione riservata ai discepoli (Mt 13, 18-23 // Mt 13, 36-53)

Andando ora ad approfondire la struttura della parabola, potremo suddividerla, sebbene tutti gli studiosi
non siano unanimi su questo, secondo lo schema riassuntivo riportato di seguito:

SITUAZIONE

Semina del grano (v. 24) Semina della zizzania (v. 25)
Crescita del grano (v. 26a) Crescita della zizzania (v. 26b)
Semina del grano (v. 27) Semina della zizzania (v. 28a)

SOLUZIONE

Raccogliere la zizzania ora (rifiutata) (v. 28b) Raccogliere il grano (v. 29)
Lasciare crescere insieme grano e zizzania (accettata) (v. 30a)
Raccogliere la zizzania alla fine (v. 30b) Raccogliere il grano (v. 30c)

Analizzando più da vicino questo schema, possiamo accorgerci di come ad ogni sezione vi sia una
costruzione a chiasmo, dove a poli esterni corrisponde un polo centrale.25 Questa disposizione richiama
per la sua armoniosità la disposizione più generale della parabola nell’ambito della sezione nella quale
essa è situata.

DISPOSIZIONE DELLE PARABOLE

Parabola del seminatore e spiegazione parabola e spiegazione

Parabola del grano e della zizzania (parabola)


Parabola del granello di senapa;
parabole gemelle
parabola del lievito
Spiegazione della parabola del grano e
(spiegazione)
della zizzania;
Parabola del tesoro;
parabole gemelle
parabola della perla
Parabola della rete e spiegazione parabola e spiegazione

Come notiamo la struttura della parabola riflette in un certo senso questa armoniosità in cui si
alternano parabole e rispettive spiegazioni con altre parabole considerate gemelle per la loro vicinanza
ed analogia, quasi nell’insieme a formare un disegno di disposizione ben definito.26
Altri studiosi ridurrebbero la suddivisione ad uno schema tripartito, ravvisabile in parallelo anche
nella parabola del seminatore.

25
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, dalla sorgente alla foce, Leumann 2002, 29-30.
26
Cfr. Ibidem.

27
Infine riguardo ai destinatari della parabola, potremmo fare un’ulteriore articolazione, dal momento che
la parabola in sé viene proclamata alla folla, mentre la spiegazione in privato ai discepoli, stesso
criterio che ritroviamo nella parabola del seminatore, potendo risalire ad un ordine di alternanza che
genera lo schema sottostante.

Mt 13, 1-23 Mt 13, 24-53

Insegnamento alle folle (Mt 13, 1-9.24-35)

Insegnamento ai discepoli (Mt 13, 10-23.36-53)

Questo schema ha il pregio di basarsi su indicazioni esplicite dell’evangelista, che anche


rappresentano un ulteriore criterio di suddivisione del testo.27 Delineata la struttura, entriamo ancora
più profondamente nel dettaglio della parabola entrando nel vivo del testo.

I.2 Il testo e la sua struttura

Viene ora presa in considerazione la singola parabola oggetto dello studio per analizzarne in seguito la
struttura. Come sempre in uno studio biblico è opportuno partire da una lettura integrale del testo.
24
Un’altra parabola espose loro così: «Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha
seminato del buon seme nel suo campo. 25 Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico,
seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26 Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco
apparire anche la zizzania.27 Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero:
“Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la
zizzania?”. 28 Ed egli rispose loro: “Un nemico ha fatto questo”. E i servi gli dissero: “Vuoi
dunque che andiamo a raccoglierla?”. 29 “No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la
zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30 Lasciate che l’uno e l’altra crescano insieme
fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Cogliete prima la zizzania e
legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio”». […] 36 Poi Gesù
lasciò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si accostarono per dirgli: «Spiegaci la
parabola della zizzania nel campo». 37 Ed egli rispose: «Colui che semina il buon seme è il
Figlio dell’uomo. 38 Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i
figli del maligno, 39 e il nemico che l’ha seminata è il diavolo. La mietitura rappresenta la fine
del mondo, e i mietitori sono gli angeli. 40 Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel
fuoco, così avverrà alla fine del mondo. 41 Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali
raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità 42 e li getteranno
nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. 43 Allora i giusti splenderanno come
il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi intenda!». (Mt 13, 24-30.36-43)

Nell’analizzare la struttura della parabola possiamo certamente ravvisare sin da una prima vista una
struttura che si articola in due parti fondamentali, costituenti i due momenti centrali della parabola: la
descrizione del problema e la soluzione. Ciascuna di queste due sezioni principali presenta però al suo
interno elementi particolari di suddivisione e struttura, le cui particolarità non possono passare
inosservate ad uno studio più approfondito ed accurato.
Come si sarà ben intuito, la delimitazione della parabola nonché della sua esplicita spiegazione non
presenta alcuna difficoltà. Questo in maniera ancor più evidente per quanto riguarda l’incipit della

27
Cfr. Ibidem.

28
parabola: «Un’altra parabola espose loro così…», peraltro tipica formula espressiva matteana, che si
ritrova anche per introdurre la parabola del granello di senapa e la parabola del lievito. L’attribuzione
di tale formula a Matteo piuttosto che ad una fonte è dato dal fatto che questa si ritrova
nell’introduzione della parabola del granello di senapa, mentre è assente nel parallelo della redazione
precedente di Mc 4, 30.28
L’inconfondibile redazione matteana si rileva anche nell’espressione «Il regno dei cieli si può
paragonare a un uomo»29, dal momento che altre parabole di Matteo, anche in altri contesti, iniziano
allo stesso modo, particolarmente la parabola del debitore spietato e quella del banchetto di nozze.30
All’introduzione si susseguono una serie di sequenze narrative che strutturano la parabola di Matteo in
uno schema ben definito:

Struttura generale di Mt 13, 24-30

Storia del grano e della zizzania


13, 24b-30

Primo dialogo fra servi


Narrazione Secondo dialogo
e padrone
13, 25-26 13, 28b-30
13, 27-28a

Introduzione
Semina del buon
redazionale Domanda: questione Proposta di raccogliere la
grano
13, 24a circa la semina zizzania

Semina della
zizzania

Risposta: semina della Proposta respinta per il rischio


Germinazione e zizzania da parte del di sradicare il grano e rimando
crescita di nemico alla cernita nella mietitura
entrambi

L’introduzione redazionale funge come formula di transizione mediante la quale l’evangelista


connette la parabola al contesto già analizzato.31 Segue la sequenza della semina del buon grano a cui si
contrappone la semina della zizzania. Questa antitesi pone in essere il dilemma che è il centro della
parabola e della vita di ciascuno, e vuole esserlo di tutta la storia dell’umanità, ovvero l’antitesi tra il
bene ed il male, dilemma attorno al quale si avvolge tutta la misteriosità di questo linguaggio
parabolico, ma non per questo fortemente attrattivo, che rimanda a reali significati e contenuti come
vedremo nel corso dell’analisi teologica. In un secondo momento questo contrasto fra grano e zizzania
viene drammatizzato nel dialogo fra i servi e il padrone, e questo risulta maggiormente evidente nella

28
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, dalla sorgente alla foce, 31.
29
Cfr. Mt 7, 24.26; Mt 18, 23; Mt 22, 2; Mt 25, 1.
30
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, dalla sorgente alla foce, 31.
31
Cfr. R. FABRIS, Matteo, Traduzione e commento, 303.

29
ripresa da parte dei servi della frase della prima sequenza narrativa con il particolare accento su una
precisazione (v. 24) che a prima vista risulterebbe del tutto superflua, ovvero la sottolineatura della
bontà del seme seminato perché fruttificasse grano: «Non hai seminato del buon seme nel tuo campo?»
(v. 27). La parabola del seminatore, ad esempio, non riporta alcuna spiegazione o specificazione sul
seme usato per seminare.32 Si nota come il dialogo occupa la maggior parte del racconto. Nella
drammatizzazione emerge distintamente la decisione di rinviare la separazione alla mietitura,
prospettata mediante i verbi al futuro. Il testo può dunque essere considerato un dramma che si articola
in tre atti: semina, crescita e mietitura, ciclo che si rompe soltanto al momento della separazione
definitiva.33

I.3 Analisi esegetica

Nel vivo dell’analisi testuale, volgiamo ora la nostra attenzione ai versetti del testo per una lettura
esegetica:
v. 24: Un’altra parabola espose loro così… introduzione che rivela particolarità linguistiche matteane,
sebbene sia la parabola che la spiegazione rivelano incoerenze interne; homoiòthe = fu paragonato,
aoristo; un uomo: poi risulterà essere un padrone con «servi» (v. 27) scandalizzati che ci siano le
erbacce; seme buono: precisazione del tutto superflua, a chi verrebbe in mente di seminare del seme
non buono? già si prelude ad un seme non buono…
v. 25: mentre gli uomini dormivano, venne il suo nemico… il nemico giunge di nascosto, si infiltra per
guastare la semina. Il male non è originario ma parassitario, qualcosa di subdolo e di inavvertito.34
Risulta sorprendente il sonno degli uomini, elemento che a differenza di altri non verrà ripreso nella
seguente esplicita spiegazione;
v. 26: apparvero anche le zizzanie… semplice narrazione del racconto sino alla maturazione della
messe; il male non appare subito, anzi all’inizio appare come buono e desiderabile (cfr. Gen 3, 6): i
botanici spiegano che la pianta della zizzania sul nascere ha la particolarità di essere difficilmente
distinguibile dal grano sino alla formazione della spiga, per la quale apparrebbe evidente la differenza;
v. 27: Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? i vv. 27-28 introducono i servi che
interrogano il padrone (oikodespòtes e non ànthrōpos) sull’origine della zizzania; questo versetto
introduce immediatamente la denuncia da parte dei servi di aver rilevato la zizzania in mezzo al grano;
questa espressione si ricollega al v. 24b (kalòn spèrma) e la risposta del padrone si ricollega al v. 25 (ò
ektròs diventato adesso ektròs ànthrōpos);
vv. 28-29-30a: i vv. 28b-30a si pongono in contrasto con quanto descritto al v. 26 e pongono la
questione al presente se la zizzania debba essere raccolta prima della mietitura; al v. 28 abbiamo il
verbo syllègo = raccogliere, riunire. Al v. 29 il padrone usa lo stesso verbo, ma seguito da ekrizoo =
estirpare. Il v. 30b illustra infine ciò che capiterà alla zizzania e al grano al momento del raccolto,
distinguendo dunque nella parabola tre segmenti diversi, ovvero: lo sviluppo fondamentale che va dal
periodo della semina (v. 24b) mediante quello della maturazione (v. 26) fino a quello del raccolto (v.
30b); la semina del nemico (v. 25); la questione dello sradicamento della zizzania e risposta negativa
del padrone (vv. 28b-30a).
La sezione della spiegazione (vv. 36-43) fino al v. 39 consiste in una spiegazione sistematico-allegorica
di ogni elemento della parabola, quasi formante un piccolo glossario di interpretazione, mentre fino al
v. 43 ci si sofferma sul destino dei peccatori e dei giusti nell’ultimo giorno rappresentato dalla
mietitura. Ciò che colpisce in questa sezione, come meglio analizzeremo in seguito, riguarda la
mancata relazione con i significati profondi della parabola, oltre a locuzioni che sul piano linguistico
sarebbero inverosimilmente utilizzate da Gesù. È il caso di ò kósmos (= il mondo) al v. 38: come hanno
dimostrato ricerche di Dalman, l’equivalente ‘alema nel campo semantico ha potuto possedere tale

32
Cfr. M. GOURGUES, 32.
33
Cfr. S. GRASSO, Il vangelo di Matteo, Roma 1995, 347.
34
Cfr. S. FAUSTI, Una comunità legge il vangelo di Matteo, 264.

30
accezione nell’epoca precristiana. Stesso discorso per ò poneròs (= il diavolo) sempre al v. 38 e per
basileìa (= Regno di Dio): l’aramaico biša non è attestato come appellativo del diavolo, né tantomento
malkhuth senza aggiunte indica un governo al di fuori di quello terreno.35 Diverse particolarità
esegetiche non si inseriscono nella predicazione di Gesù. Da questo si è anche giunti alla conclusione
che l’interpretazione della parabola della zizzania tra il grano proviene dallo stesso Matteo. Potremmo
concludere questa nostra sezione esegetica constatando che ciò non sarebbe del tutto inverosimile, a
maggior ragione se osservassimo più profondamente le intenzioni dell’evangelista: Matteo, in una
prima intenzione di utilizzare la parabola per invitare gli impazienti alla pazienza, dal momento che
non sta a noi decidere chi è buon grano e chi invece zizzania, e con questa alla perseveranza nel
continuo e proficuo adoperarsi per il Regno di Dio, avrebbe in un secondo momento utilizzato la
parabola per scuotere gli animi da una falsa sicurezza, a servizio della parenesi.36

I.4 Messaggi principali

Il testo di Mt 13, 24-30 si presenta come un testo alquanto breve ma ricco di significati. La
contemporanea crescita del grano e della zizzania, di contro a chi avrebbe proposto lo sradicamento di
quest’ultima, bene starebbe a rappresentare la convivenza fra la proclamazione della Parola di Dio e gli
ostacoli nell’incarnarla per farla fruttificare nella propria vita. Il male, zizzania infestante e velenosa, si
insinua nella vita dei figli di Dio, e dunque nella comunità, generando un vero e proprio campo di
battaglia nel quale viene a generarsi una netta dualità, quale bene e male. Questa parabola sottolinea il
mistero della convivenza nel regno dei cieli dei buoni e dei cattivi.37 Dunque il desiderio di una
comunità perfetta, pura e senza difetti ci spinge ad operare affinché vengano sradicate le zizzanie. Da
questo emerge un grande messaggio: la Chiesa non è fatta di persone pure, senza peccato, nella Chiesa
c’è e continuerà ad esserci posto per tutti. Il male non è per la sconfitta, ma per l’esaltazione del bene,
collaborando al suo pieno trionfo. Il Padre fa piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45-48), l’umanità
è racchiusa nella disobbedienza perché Dio vuole usare a tutti misericordia (Rm 11, 32), e dove
abbonda il peccato, là sovrabbonda la grazia (Rm 5, 20). Le vie del Signore rimangono imperscrutabili
ed inaccessibili (cfr. Rm 11, 33), Dio lascia le zizzanie perché possiamo conoscerlo ed amarlo come
grazia, e perché possiamo conformarci a lui, supremo esempio di amore gratuito. Il bene frammisto al
male rappresenta il popolo santo e peccatore nello stesso tempo, senza possibilità di soluzione.
Passando ora ai messaggi teologici ancora più immediati veicolati dalla parabola del grano e della
zizzania, che peraltro si trovano soltanto nel vangelo di Matteo, questi consisterebbero più che in una
convivenza, in una separazione netta fra bene e male, che si rende evidente sia nella domanda dei servi
riguardo alla possibilità di sradicare immediatamente la zizzania all’atto della germinazione dei semi,
sia nell’epilogo in sé della parabola. In questa visione la separazione tra bene e male, nonostante sia
attesa dall’ambiente giudaico-apocalittico, diventa un atto escatologico che deve essere atteso con
pazienza e perseveranza.38 L’attenzione si pone dunque esclusivamente sulla zizzania seminata per
contaminare il Regno di Dio, pericolo che permarrà lungo tutto il corso della storia sino all’ultimo
giorno, al quale la parabola sembra fare esplicito riferimento. Ma anche nella visione di voler sradicare
immediatamente la zizzania dal campo il divieto categorico della separazione sul momento sembra
provenire da una saggezza particolarmente profonda basata sull’esperienza: l’estrazione della zizzania
comprometterebbe anche la buona crescita del grano per via di un involontario quanto inevitabile
sradicamento anche di quest’ultimo. La separazione delle due erbe avverrebbe proficuamente soltanto
dopo la mietitura, dal momento che non andrebbe perduta la minima quantità di grano e la zizzania
verrebbe interamente separata e distrutta. È facile evincere sotto questo punto di vista come il

35
Cfr. J. JEREMIAS, 98.
36
Cfr. Ibidem.
37
Cfr. A. LANCELLOTTI, Matteo (NVB, 33), Roma 1975, 193.
38
Cfr. S. GRASSO, 348.

31
discernimento è in prospettiva anche di una contrapposizione che si esplica poi nelle figure del fuoco e
del granaio. Conseguenti messaggi teologici derivanti dalla zizzania risultano essere la straordinaria
fiducia del padrone nel valore della sua semente, dal momento che egli sa che la zizzania non avrà il
sopravvento39, e il risultato dell’azione contrastante del nemico nei confronti di Dio, che si rivela nella
pienezza della missione di Gesù: la storia è l’alveo della coesistenza del bene e del male; nel tempo
intercorrente fra il peccato originale e l’ultimo giorno non è possibile operare alcuna distinzione, opera
riservata esclusivamente a Dio; tutto questo potrebbe concretizzarsi in una esortazione alla radicale
sequela di Gesù mediante la conformazione della propria vita ai principi del vangelo, e dunque agli
insegnamenti del Maestro.

II. Analisi teologica

II.1 Temi teologici nel contesto della parabola e dell’intero vangelo

Partendo dai presupposti del significato originale della parabola posti nel paragrafo riguardante
il contesto, potremo per il momento mettere da parte la spiegazione e l’interpretazione che risultano
immediatamente evidenti per cercare di ravvisare temi teologici nella situazione storica reale, in
funzione della quale Gesù avrebbe pronunciato la parabola stessa.
Secondo alcuni studiosi sarebbe inverosimile una certa relazione con riferimenti più o meno espliciti
ad una certa situazione ecclesiastica o escatologica, dal momento che Matteo, al contrario del parallelo
in Marco, insiste oltremodo sull’aspetto dello sforzo umano, senza poter individuare elementi che
riflettano con sicurezza una problematica della situazione ecclesiale in cui poter riconoscere le
preoccupazioni dell’evangelista. Per cui in questo caso sarebbe necessario interpretare la parabola
diversamente. Ma questo crea, sotto qualsiasi punto di vista, non poche difficoltà, prima fra tutte la
considerazione di come poter ritrovare il senso e il quadro originale, se Matteo ha ricevuto la parabola
dalla tradizione.40
Ad ogni modo un tema teologico universale che prescinde dai contesti e dalle culture riguarda la
relazione esistente tra il Regno di Dio e la fede dell’uomo, che viene chiamato a fare parte di questo
Regno. Proprio questa chiamata, essendo tale, pone in essere il grande dilemma del bene e del male con
una conseguente negatività seppur parziale, rappresentata dalla seminagione di un seme concorrente
contrastante il buon seme. Ma è proprio in questo ambito che si esplica il tema del Regno di Dio, il
quale nella vita della fede dell’uomo non si manifesta mediante risultati mirabilmente e proficuamente
positivi necessitando, non in ultimo, della missione di Gesù nella storia, portata poi avanti nel tempo e
nello spazio della storia mediante la successione apostolica. In questo senso sarebbe possibile e
auspicabile una lettura ecclesiale della parabola, sempre in riferimento al tema del Regno di Dio.
Questo infonderebbe coraggio e speranza seppure siano presenti le forze del peccato e del male, anche
all’interno dell’umano prolungamento all’azione di Dio nel corso della storia, che di per sé sarebbe
umanamente incomprensibile, ed inoltre svaluterebbe in una sorta di scandalo e di delusione l’avvento
del Regno di Dio che in realtà non avrebbe mai cambiato nulla.
Di contro, un altro fondamentale tema teologico ravvisabile nella parabola e ancora meglio nell’intero
vangelo di Matteo è la presenza di un certo ottimismo riguardo all’avvenire.41 Sempre cercando di
risalire al contesto originario, la parabola testimonia infatti una duplice reazione di Gesù. Constatato il
male che sembra governare la storia, occorre essere fiduciosi, non in ultimo proprio perché è anche
questo il modo per poter verificare l’autenticità della propria fiducia e quindi della fede in Dio, che non
è un patto commerciale, ma che si esplica nell’amare e nel donarsi comunque al fratello, anche quando
questo sembra essere tanto irrilevante quanto una goccia nell’oceano. Uno semina, poi è la sapienza

39
Cfr. J. RADERMAKERS, Lettura pastorale del vangelo di Matteo, Bologna 1974, 221.
40
Cfr. M. GOURGUES, 36-37.
41
Cfr. M. GOURGUES, 38.

32
dello stesso Vangelo che ci insegna che è il Signore che moltiplica. È proprio questo tipo di fiducia
incontrollata ed incondizionata che possiamo ravvisare nelle poche righe del racconto della parabola,
una fiducia che si tramuta in abbandono, come Cristo ha sempre fatto, finanche all’agonia nel
Getsemani.
Importante è anche valutare la situazione ambigua dell’ora presente: «Lasciate che l’una e
l’altro crescano insieme fino alla mietitura» (Mt 13, 30). Alcuni studiosi ravviserebbero nella domanda
posta dai servi «Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla?» una certa tendenza dei discepoli ad
escludere dalla comunità le resistenze, senza per questo creare appositamente una comunità di puri
separata dagli altri.42 Di questo avremmo una buona quantità di esempi in tutta la tradizione evangelica,
ad esempio quando Giacomo e Giovanni vorrebbero punire l’opposizione incontrata da Gesù in
Samaria: «Vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9, 54), o quando Gesù
ammonisce: «Come puoi dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio…» (Mt 7, 4
// Lc 6, 42), o pensando alle esortazioni di Gesù di amare i propri nemici e i propri persecutori, o anche
agli innumerevoli atteggiamenti di Gesù nei confronti dei peccatori… su questa considerazione globale
dell’intero vangelo la reazione della parabola potrebbe anche essere netta: ora è il tempo della
missione, questa è rivolta a tutti senza eccezioni.43 Nella missione di ogni cristiano è fondamentale
anzitutto il non anteporre il proprio giudizio a quello di Dio, e dunque l’evitare di fare qualsiasi tipo di
distinzione fra gli uomini, senza fare una netta distinzione fra il buono ed il malvagio; sarà Dio nella
sua onniscienza ad occuparsi di tali distinzioni; a noi è lasciato solo di perdonare «fino a settanta volte
sette» (Mt 18, 22).

II.2 Alcune connessioni interdisciplinari

Sarebbe opportuno a questo riguardo centrare la nostra attenzione sulla spiegazione della parabola,
ovvero Mt 13, 36-43. La parabola del grano e della zizzania è fra le uniche ad avere una spiegazione
esplicita fatta dallo stesso Gesù, seppur in forma privata ai discepoli, contrariamente alla parabola in sé
proclamata alla folla. Già una sommaria prima lettura permette di distinguere nette sezioni:
l’introduzione al v. 36, la sezione dei vv. 37-39, consistente in una specie di lessico identificante i vari
elementi della parabola, infine la sezione dei vv. 40-43 che descrive il significato sommario della
parabola. Nel seguente schema viene messa a confronto in una visione sinottica la parabola con la
spiegazione, dai cui elementi partiremo per verificare possibili connessioni interdisciplinari.

Parabola Spiegazione della parabola

Il regno dei cieli si può paragonare ad un Colui che semina il buon seme è il Figlio
uomo che ha seminato del buon seme nel dell’uomo. Il campo è il mondo. Il seme
suo campo. (v. 24) buono sono i figli del regno. (v. 37-38a)

Ora mentre tutti dormivano venne il suo


La zizzania sono i figli del maligno, e il
nemico, seminò zizzania in mezzo al grano
nemico che l’ha seminata è il diavolo. (v.
e se ne andò.
38b-39a)
(v. 25)

La mietitura rappresenta la fine del mondo,


Lasciate che l’una e l’altro crescano
e i mietitori sono gli angeli. (v. 39b)
insieme fino alla mietitura e al momento

42
Ibidem.
43
Ibidem.

33
della mietitura dirò ai mietitori: (v. 30a)

Cogliete prima la zizzania e legatela in Come dunque si raccoglie la zizzania e la si


fastelli per bruciarla; il grano invece brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del
riponetelo nel mio granaio. (v. 30b) mondo. (v. 40)

Alla luce della spiegazione resa esplicita dallo stesso Gesù, emergono evidenti connessioni con altre
tematiche interdisciplinari, prima fra tutte l’essenza della santità del cristiano come apostolo di Cristo
nell’ambito della teologia spirituale («Il seme buono sono i figli del regno»). Il cristiano è l’apostolo di
Cristo per il Regno di Dio, persona scelta ed impegnata a servizio per la salvezza di tutti gli uomini.
Nonostante i suoi eminentissimi valori, il servizio apostolico ha suscitato riserve e diffidenze in
spiritualità.44 Era visto come un pericolo per la vita di preghiera, sebbene si sia poi intensificata una
certa predisposizione a riconoscere all’opera apostolica un atteggiamento spirituale. Si rischia di cadere
nello spiritualismo. La parabola del grano e della zizzania, seppur indirettamente, ci aiuta non poco a
saper discernere nella visione globale del bene rappresentato dal grano sia l’essere appartenenti come
figli di Dio aventi intimità nella preghiera e nelle opere dello spirito, sia l’essere operanti con fede,
speranza e carità al servizio del Regno di Dio. È proprio anche in questa dinamica che, come abbiamo
visto precedentemente, viene ad insinuarsi la zizzania del peccato, che non deve spegnere l’impegno
nella carità e la maturazione nella santità personale. Nella grazia di salvezza infatti distinguiamo tre
piani: opera, processo e mediazioni;45 dunque risultano essere di grande rilevanza le dinamiche del
cristiano nei suoi atteggiamenti spirituali e nei suoi servizi concreti cercando di contrastare il peccato e
la debolezza umana, sempre conviventi. Non a caso il magistero della Chiesa ci esorta a vivere un
apostolato «nello Spirito di Cristo» ed anche «in modo sincero ed instancabile» (PO 13).
Nella stessa direzione si situa la tematica della conversione del peccatore come risposta a Dio che
chiama alla santità nell’ambito della teologia dogmatica. La convivenza di grano e zizzania durante il
periodo di maturazione anziché della prematura selezione richiamerebbe il tema della sempre possibile
conversione come ritorno a Dio e della partecipazione del peccatore alla morte e Risurrezione di Cristo.
Emerge anche a questo riguardo il nesso intercorrente fra la morte di Gesù e il peccatore che ne
beneficia degli effetti.46 Come i benefici del grano sono nel tempo della maturazione anche i benefici
della zizzania, Cristo opera l’unione fra Dio e l’uomo; ed è in questa comunione che consiste la
salvezza. Ecco perché sotto questa prospettiva la parabola non deve possedere unicamente una valenza
escatologica. La decisione del padrone del campo rispecchia appieno l’iniziativa di Dio Padre che ha
progettato un piano di salvezza per il quale invia nella travagliata storia umana il suo unico Figlio
unigenito, perché dando piena obbedienza d’amore alla volontà del Padre, liberi gli uomini dalla
miseria del peccato e li introduca in una via di comunione.47 Come si nota, paradossalmente la parabola
possiede una lettura che non necessariamente debba giungere all’epilogo, e questa rilettura si esplicita
maggiormente nella parabola matteana degli operai dell’ultima ora (Mt 20, 1-15). È in questa forte
valenza che dunque assume tutto il suo pieno significato l’annuncio del Regno di Dio, un Regno che
non si verificherà nel futuro, ma che è vicino, ed anzi è già da ora presente in mezzo agli uomini: «Il
regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: eccolo qui, o: eccolo là. Perché
il Regno di Dio è già in mezzo a voi» (Lc 17, 20). Mediante la predicazione del Regno di Dio, Gesù

44
F. RUIZ, Le vie dello spirito. Sintesi di teologia spirituale, Bologna 1999, 281.
45
Cfr. Ibidem.
46
R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria, Milano 1999, II, 156-
157.
47
N. BUSSI, Il mistero cristiano, Milano 1992, 90.

34
annuncia un Dio misericordioso il cui intervento avrebbe liberato gli esseri umani dalla morsa del male
e del peccato per consegnare loro una nuova e definitiva età di salvezza.48
Il tema del peccato così emergente rappresentato dalla zizzania («Come dunque si raccoglie la
zizzania e la si brucia nel fuoco, così averrà alla fine del mondo») nell’ambito della teologia morale
trova notevoli spunti per una riflessione più approfondita, utile non in ultimo ad una maggiore
comprensione globale della parabola seppure nella diversità delle varie dinamiche ed interpretazioni.
La zizzania seminata nel campo, a prescindere dalle varie letture che della parabola possono essere
fatte, rappresenta indubbiamente il male e il peccato, ed è dunque il simbolo del male che si
contrappone al grano, che è il simbolo del bene. Simbolo notevole dunque che potremo definire come
un qualcosa di essenziale all’interno della parabola. Infatti mentre altri elementi potrebbero omettersi
od essere sostituiti da altri, la zizzania rimane un elemento fondamentale che realizza l’antitesi del bene
e del male, ragione prima della parabola. Il peccato così inteso come contrapposizione all’amore
diviene dunque un qualcosa di eccessivamente ampio, che nell’ambito della teologia morale potremmo
sommariamente classificare come mancanza contro l’amore di Dio, come mancanza contro l’amore del
prossimo, come seduzione, come scandalo e come cooperazione.49 Da questo panorama emerge
chiaramente anche il tema della libertà, facoltà che Dio ha lasciato all’uomo con la quale diventa
possibile il trascurare di meditare, di riflettere, di esplorare l’amore di Dio, e che diventa dunque causa
della mancanza di amore verso Dio, la più drastica delle contraddizioni del nostro essere autentico.50 È
la libertà nell’agire che ha reso necessaria la giustificazione dell’uomo, sebbene la stessa volontà libera
debba essere considerata un bene grande, dono di Dio: Quoniam satis mihi manifestatum est inter bona
et ea quidem non minima numerandam esse liberam uoluntatem, ex quo etiam fateri cogimur eam
diuinitus datam esse darique oportuisse; (a questo punto ho capito che la volontà libera deve essere
annoverata tra i beni e certamente non tra i più piccoli; siamo dunque costretti a riconoscere che è stata
data da Dio e che era necessario che fosse così),51 come ci testimonia Evodio dietro le argomentazioni
di Sant’Agostino. È chiaro che la libertà che conduce ad un odio contro Dio si esplichi di fatto in
idolatria o in una falsa immagine di Dio, così come può ben essere che i cristiani più santi e le
comunità più sante suscitino la più violenta opposizione di gente senza Dio.52 «Come hanno
perseguitato me, perseguiteranno anche voi; non seguiranno il vostro insegnamento come non hanno
seguito il mio» (Gv 15, 20). Ritroviamo dunque il tema del peccato convivente con la santità, che non
deve scoraggiare il cristiano maturo ad un abbandono allo Spirito di Dio perché possa produrre frutto.
Ma la maggior parte dei peccati consiste anche nella mancanza di carità verso il fratello, verso il
prossimo. Gesù insegna all’uomo chi è il suo prossimo nella parabola del buon Samaritano (Lc 10, 30-
37). I peccati principali contro il prossimo sono sostanzialmente l’inimicizia, la vendetta, l’odio
coscientemente diretto contro il bene spirituale o la salvezza di un altro, l’invidia.53 La seduzione è il
tentativo di indurre altri al peccato, e in questo potrebbe farsi strada l’egoismo, l’egocentrismo. La
seduzione non è esente anche dal vasto campo delle scienze sociali e dell’opinione pubblica, se
pensiamo a forme subdole di ateismo organizzato o su pressanti questioni di bioetica, prime fra tutte
aborto ed eutanasia.54 Lo scandalo, di cui lo stesso Cristo è stato portatore dichiarandosi Figlio di Dio,
ha accezioni diverse in ambito biblico ed in ambito della teologia morale. Tale termine, in greco
skàndalon, generalmente significa una mancanza di responsabilità per la salvezza del prossimo. Cristo
stesso è diventato un grande scandalo per il mondo che da parte sua si riteneva giusto,55 ma occorre in
teologia morale fare una distinzione fra lo scandalo e lo scandalo peccaminoso. È quest’ultimo ad
assumere valenza di peccato, ad esempio vivendo livelli mediocri senza minimamente cercare un
48
Cfr. G. O’COLLINS, Cristologia, Uno studio biblico, storico e sistematico su Gesù Cristo, Brescia 19992, 60.
49
Cfr. B. HÄRING, Liberi e fedeli in Cristo, Teologia morale per preti e laici, Milano 1989, II., 567-586.
50
Cfr. Ibidem.
51
S. AGOSTINO, De libero arbitrio, III/1.
52
Cfr. B. HÄRING, 567-586.
53
Cfr. Ibidem.
54
Cfr. Ibidem.
55
Cfr. Ibidem.

35
riscatto per il meglio dalla situazione nella quale ci si trova, il che va contro il cercare il bene per sé e
per gli altri, indipendentemente dal fatto che il peccato rimanga comunque presente. Da questa
sommaria panoramica possiamo renderci conto di come questa parabola costituisca un vasto campo di
riflessione che intreccia diversi ambiti teologici esulando dal campo strettamente biblico.

II.3 Risonanze pastorali

Un posto di riguardo spetta agli aspetti pastorali derivanti dalla parabola stessa. Lo spezzare la
Parola in una comunità sempre genera sentimenti di condivisione unitamente al desiderio di vivere la
Parola incarnandola nella propria vita. Partendo dal come la parabola del grano e della zizzania abbia
operato nella comunità di Matteo, ci chiediamo ora come possa operare nel contesto odierno per
rispondere alle diverse domande che specialmente l’uomo moderno pone. Dunque ritorniamo a quanto
ci eravamo prefissati precedentemente nell’introduzione.
Una prima dinamica su cui sarebbe opportuno far leva nella pastorale di oggi è certamente il tema del
peccato emergente. Tutta la parabola lo richiama. Oggi più che in tempi passati viene ad assumere
notevole rilievo per il radicale mutamento di cultura che la nostra epoca sta vivendo. Il peccato
imperversa nel mondo, verrebbe da chiedersi: «Come si spiega questo? Se la redenzione è attuata
perché il peccato continua ad esistere?», domanda che molto facilmente conduce allo scandalo; può
essere tramutata ad esempio in una domanda di questo tipo: «Ma la salvezza di Gesù Cristo in cosa ha
cambiato il mondo, dal momento che la morte e il peccato non solo continuano ad esistere ma
sembrano anche vincere?». Il peccato che invade il mondo sembra incalcolabile. La parabola risuona sì
come una esortazione al bene, ma ribadisce anche che la salvezza non viene imposta, così come non
viene imposta l’accettazione del Regno di Dio.56 Il vangelo da solo non può cambiare il mondo,
essendo presenti sull’uomo altre influenze ed avendo questi il dono della libertà, quale è reso
magnificamente da S. Agostino nel suo De libero arbitrio. Sarebbe a questo riguardo opportuno nella
predicazione e nell’evangelizzazione nei tempi odierni porre l’accento non solo ed unicamente sul tema
del peccato, ma anche e soprattutto della misericordia. La parabola può essere utilizzata come preludio
all’annuncio del grande amore di Dio e della sua infinita misericordia per l’uomo peccatore e senza
speranza, presentando la situazione creata dal peccato ma rispondendo con l’annuncio del grande
amore di Dio per l’umanità. È ciò di cui l’uomo odierno al pari di qualunque uomo di questa storia ha
bisogno di sentirsi annunciato. La catechesi nella pastorale dovrebbe maggiormente essere incentrata su
questo aspetto kerigmatico piuttosto che su aspetti puramente dottrinali. Si evince dunque come il
centro della parabola da un punto di vista pastorale sia costituito dall’atteggiamento degli operatori del
Regno in un mondo segnato da così tanta ambiguità.57
Altro livello da prendere in esame è lo sfondo agricolo della parabola, facilmente collegabile con
l’esperienza spirituale del seguace di Cristo, nella cui profondità la mescolanza fra opere di vita eterna
e opere del demonio è inevitabile a causa della debolezza umana. Se si nota, il filo conduttore rimane
sempre lo stesso. Però un passo ulteriore che possiamo compiere nello specifico di questa riflessione è
il prevenire che negli operatori per il Regno di Dio si insinui l’idea di separarsi dal resto degli uomini
“ghettizzandosi” alla maniera dei farisei o degli esseni;58 «Voi siete il sale della terra; ma se il sale
perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? Voi siete la luce del mondo […] così
risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al
Padre vostro che è nei cieli» (Mt 5, 13-16). Obiettivo primario è dunque saper costruire questa
coscienza, sebbene questo non esenti da una lotta, dal misurarsi con modi diversi di vedere le cose.
La paura del padrone che i servi oltre sradicare la zizzania sradicherebbero anche il grano potrebbe
essere giustificata dal fatto che, come abbiamo visto nell’esegesi, le due piante sul nascere siano molto
simili. Questo ci aiuterebbe non poco nella consapevolezza dell’insegnamento di Gesù sul non

56
Cfr. M. GOURGUES, p. 38.
57
Cfr. Ibidem.
58
Cfr. Ibidem.

36
giudicare (cfr. Lc 6, 36s), leggendo in questa parabola gli effetti che ne deriverebbero. L’uomo non
saprebbe distinguere perfettamente tra bene e male, e giudicando ciò che per lui sarebbe male,
rischierebbe di giudicare anche il bene “frammisto”. Questa parabola potrebbe dunque essere nella
catechesi anche un ottimo strumento per penetrare più a fondo gli insegnamenti del Maestro; la Parola
si approfondisce con la Parola. Ecco dunque come la parabola del grano e della zizzania investe in
modo del tutto particolare l’ambito pastorale; se si nota, il filo conduttore risulta sempre essere la
catechesi e l’evangelizzazione.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di unità di apprendimento per i piani di studio personalizzati nella
scuola secondaria di primo e secondo grado.

Bisogno formativo: Conoscere l’esistenza del male non come sconfitta ma come conquista del bene.

Obiettivo specifico di apprendimento (O.S.A. scuola secondaria di primo grado, classi I e II)

L’identità storica di Gesù e il riconoscimento di Lui ome figlio di Dio fatto uomo, Salvatore del mondo.

Obiettivo specifico di apprendimento (O.S.A. scuola secondaria di secondo grado, classi I e II)

conoscenza abilità
Individuare in Gesù i tratti fondamentali della
rivelazione di Dio, fonte della vita e
Origine e fine dell’uomo secondo la religione dell’amore, ricco di misericordia.
cristiana.
Confrontare la novità della proposta cristiana
con scelte personali e sociali presenti nel
tempo

Competenze attese ( Dal P.E.CU.P., Profilo educativo, culturale, professionale, 6 – 14 e 18 anni)

L’allievo “… prende coscienza delle dinamiche che portano all’affermazione della propria
identità…cerca soluzioni per i suoi problemi esistenziali, operativi, sociali e intellettuali…opera scelte
consapevoli e se ne assume la responsabilità…sa riflettere con spirito critico per prendere
decisioni…riflette sulla dimensione religiosa dell’esperienza umana e l’insegnamento della Religione
Cattolica impartito secondo gli accordi concordatari e le successive Intese…”

Apprendimento unitario

Apprendere che la Chiesa è per tutti e che il male non è sconfitta ma esaltazione del bene; vivere in
comunità significa dare valore alle differenze e rafforzare la propria identità.

Obiettivo formativo

Distinguere il male dal bene con senso critico, alla luce degli esempi storici, della parola di Gesù e del
contemporaneo contesto di vita per orientare le opportune scelte esistenziali.

37
Attività

- Partire dall’esperienza degli allievi;


- brainstorming sul concetto di bene;
- brainstorming sul concetto di male;
- distribuire ad ogni allievo il testo della parabola del grano e della zizzania, chiederne una lettura
silenziosa ed un’evidenziazione dell’espressione che maggiormente suscita interesse o curiosità di
conoscenza per ognuno;
- discussione guidata e dibattito sul testo della parabola;
- dalle considerazioni emerse dal dibattito l’insegnante raccoglie informazioni sull’esperienza degli
allievi;
- con la strategia del problem solving invitare gli alunni ad emettere giudizi critici sul testo e sulla loro
esperienza;
- un allievo osservatore registrerà i momenti significativi dell’azione didattica (con un registratore, una
macchina fotografica digitale o con appunti cartacei ) e li presenterà all’intero gruppo classe a
conclusione del tempo previsto, per chiedere la condivisione su quanto registrato e riorganizzare il
lavoro con l’ausilio di idonei software didattici.

Ologramma

Scuola secondaria di primo e secondo grado, classi I e II

Obiettivo formativo: distinguere il male dal bene con senso critico, alla luce degli esempi storici,
della parola di Gesù e del contemporaneo contesto di vita per orientare le opportune scelte
esistenziali.
Conoscenza: “Meccanismi di costituzione dei
significati traslati (metonimia, metafora, ecc) e
altre figure retoriche”
Abilità:”Comprendere ed interpretare in forma
guidata o autonoma testi letterari e non,
attivando le seguenti abilità:
Italiano a)individuare informazioni ed elementi
costitutivi dei testi,
b)individuare il punto di vista narrativo e
descrittivo,
c)comprendere le principali intenzioni
comunicative dell’autore,
d)operare inferenze e anticipazioni di senso,
e)comprendere impliciti e presupposizioni.”
Conoscenza:”Espansione dei campi semantici
Inglese relativi alla vita quotidiana”
Abilità:”Descrivere con semplici frasi di senso
compiuto la propria famiglia e i propri vissuti”

Conoscenze:”Brevi espressioni finalizzate ad


Seconda lingua comunitaria un semplice scambio dialogico nella vita
sociale quotidiana”
Abilità:”Narrare semplici avvenimenti”
Conoscenza:”In relazione al contesto fisico,

38
sociale, economico, tecnologico, culturale e
religioso fatti, personaggi, eventi ed istituzioni
Storia caratterizzanti”.
Abilità:”Distinguere e selezionare vari tipi di
fonte storica, ricavare informazioni da una o
più fonti.”
Conoscenza:”Sistema territoriale e sistema
antropofisico”
Abilità:” Analizzare mediante osservazione
Geografia diretta/indiretta, un territorio per conoscere e
comprendere la sua organizzazione, individuare
aspetti e problemi dell’interazione uomo –
ambiente nel tempo.”
Conoscenza:”Concetto di sistema di
Matematica riferimento: la coordinate cartesiane, il piano
cartesiano.”
Abilità:”Rappresentazioni sul piano
cartesiano”.
Conoscenza:”Concetti di habitat, popolazione,
catena e rete alimentare.”
Scienze Abilità:”Collegare le caratteristiche
dell’organismo di animali e piante con le
condizioni e le caratteristiche ambientali.”
Conoscenza:”Disegno tecnico e sistemi di
rappresentazione.”
Tecnologia Abilità:”Individuato un bisogno, realizzare il
modello di un sistema operativo per
soddisfarlo, seguendo la procedura.
Ideazione/progettazione…”
Conoscenza:”Introduzione di un semplice
linguaggio di programmazione.”
Informatica Abilità:”Utilizzare programmi specifici per
presentazioni e comunicazioni di idee,
contenuti, immagini, ecc.”
Conoscenza:”Relazioni tra linguaggi.”
Musica Abilità:”Elaborare materiali sonori mediante
l’analisi, la sperimentazione e la manipolazione
di oggetti sonori, utilizzando semplico software
appropriati.”
Conoscenza:”Il rapporto immagine-
comunicazione nel testo visivo e narrativo.”
Arte ed immagine Abilità:”Leggere ed interpretare i contenuti di
messaggi visivi, rapportandoli ai contesti in cui
sono stati prodotti.”

Conoscenza:”L’attività sportiva come valore


etico.”
Scienze motorie e sportive Abilità:”Relazionarsi positivamente con il
gruppo, rispettando le diverse capacità, le
esperienze pregresse, le caratteristiche

39
personali.”
Conoscenza:”Testi letterari e non che
affrontino il problema della conoscenza di sé,
Convivenza civile dell’autostima, della ricerca dell’identità.”
Abilità:”Approfondire la conoscenza e
l’accettazione di sé, rafforzando l’autostima,
anche apprendendo dai propri errori.”

Conclusione

La nostra analisi ci ha permesso di capire come nel linguaggio parabolico sia il reale uditore del
Maestro che il lettore del testo sacro sono chiamati a situarsi nella parabola stessa per vedere in quale
personaggio identificarsi. Si è fatta più chiara l’esigenza di pensare ad una pastorale nuova, adatta alle
esigenze del tempo presente, che inglobi tutti i mezzi possibili di cui possa disporre, in modo tale da
sconvolgere con la forza del Vangelo i valori determinanti e le fonti ispiratrici dell’umanità che sono in
contrasto con la Parola di Dio. Questa parabola è la rappresentazione della pratica nella vita quotidiana
dei grandi insegnamenti di Gesù, ovvero di ciò che rende gloria a Dio. Ed è glorificando Dio con la
propria vita che si percorre la strada indicataci dallo stesso Gesù, il quale traluce dietro la Parola per
condurre ogni suo figlio alla Salvezza eterna.

40
III.
LE PARABOLE DEL TESORO, DEL MERCANTE E DELLA RETE
(Mt 13,44-52)

Introduzione

Le tre parabole oggetto di questo terzo capitolo sono tipicamente matteane. Collocate all’interno
del “discorso delle parabole” (Mt 13) sono in linea con la dimensione ecclesiale dell’intero vangelo ma
offrono anche interessanti spunti per una riflessione cristologica ed escatologica. Dal punto di vista
pastorale parlano soprattutto dell’atteggiamento che l’uomo deve avere nei confronti del Regno dei
cieli, cioè di Gesù. E’ opportuno segnalare la situazione in cui si trovava la comunità di Mt quando
venne scritto il vangelo (e quindi anche le nostre parabole!) per capire ancora meglio perché il
parabolista insista su alcuni aspetti piuttosto che su altri. La comunità viveva delle difficoltà e Mt
attraverso le parabole cerca di spronarli a trovare il modo giusto di vivere la fede e la vita comunitaria.
Infatti, nella comunità matteana c’erano alcuni, i “chiamati”, che si ritenevano a posto semplicemente
per il fatto che appartavano alla comunità, ma non perseveravano in un impegno vigile e responsabile.
Altri, invece, si consideravano “puri” e avrebbero voluto l’immediato allontanamento dalla comunità
dei “peccatori” e dei “traditori”. C’erano, poi false attese messianiche che creavano confusione e
allarmismo tra i fedeli. La parabola della rete, come vedremo, sarà proprio una esortazione e una
denuncia contro tali situazioni. Così come le parabole del tesoro e del mercante saranno un chiarissimo
invito, per i membri della comunità matteana segnata da un’aspra contestazione farisaica, ad accogliere
in pieno e radicalmente la persona di Gesù Cristo. La Chiesa, la comunità cristiana di Mt, insomma,
vive la tensione che è propria del regno di Dio: già presente e operante nella storia, non ha ancora
raggiunto la sua piena rivelazione e attuazione. Vive quindi in questo tempo intermedio in cui “buoni”
e “cattivi” devono coesistere e al credente spetta solo accogliere totalmente il Risorto ed annunciarlo
senza riserve nella viva attesa del suo ritorno. Tutto il resto lo farà Dio a tempo opportuno!
Nell’esposizione seguiremo questo ordine: partendo dal contesto del vangelo in cui collochiamo le
parabole, passeremo poi a vedere le strutture più significative proposte dai vari autori, e dopo qualche
accenno sulla storia della redazione verrà dato ampio spazio ad un’approfondita riflessione esegetica e
teologica. Le possibili applicazioni pastorali, non prive anche di qualche “provocazione”
concluderanno la trattazione.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto della parabola, struttura e articolazioni

Inserite nel capitolo 13 del Vangelo di Matteo le parabole del tesoro, del mercante e della rete
hanno un ruolo eccellente nel discorso parabolico di Gesù. Prima di addentrarci nello studio specifico
di queste parabole, mi sembra opportuno ricordare che c’è una varietà di proposte da parte dei diversi
esegeti sulla suddivisione del vangelo di Matteo: Alberto Mello ritiene che i primi 11 capitoli di Mt
sono il riflesso della Torah, del Pentateuco; Kümmel e Trilling propongono uno schema temporale-
geografico (nascita e infanzia di Gesù, preparazione al ministero, ministero in Galilea, ministero in
Gerusalemme, ultimi giorni di vita di Gesù, risurrezione); Leon-Dufour propone uno schema fondato
su motivazioni teologiche (dramma della rivelazione ad Israele, rapporto Gesù-Israele, rapporto
Chiesa-Israele); Stonehouse e Kingsbury optano, infine, per una ripartizione in base alla formula di 1,1;
4,17; 16,21 (“Da allora Gesù iniziò…”).
La suddivisione presentata in questo elaborato, sebbene abbastanza datata e ormai seguita da pochi
autori, è quella che però più semplicemente, e allo stesso tempo in modo più diretto, mette in risalto

41
proprio il contenuto e la specificità di questo seminario biblico: il “discorso in parabole”. Proposta per
primo da Bacon agli inizi del secolo scorso, questa tesi ritiene che Mt può essere suddiviso in cinque
parti. Sono dello stesso parere anche Gourgues e soprattutto Monasterio il quale afferma: “questo
vangelo presenta un grande discorso dottrinale strutturato in cinque sezioni nelle quali l’autore intende
istruire la propria comunità sui diversi aspetti del regno dei cieli:
1. 5,1-7-29. Discorso della montagna: Gesù proclama il regno dei cieli e le esigenze che comporta;
2. 9,35-10,42. Discorso di missione: l’espansione del regno dei cieli;
3. 13,3b-52. Discorso in parabole: la natura del regno dei cieli;
4. 18, 3-34. Discorso ecclesiale: la comunità che accoglie il regno dei cieli;
5. 23, 1-25,46. Discorso escatologico: pronti per la venuta del regno dei cieli”59.
Dopo questa importante premessa passiamo ora ad analizzare più da vicino la terza parte, all’interno
della quale sono inserite le tre parabole oggetto del nostro studio. Tra le varie strutture proposte,
Gourgues ne ha sviluppate due particolarmente interessanti in quanto, con molta chiarezza evidenziano
il ruolo specifico delle tre parabole all’interno del capitolo 13.
La prima struttura prevede due parti all’interno delle quali si può ritrovare una ulteriore bipartizione in
base ai destinatari60:

I. Mt 13, 1-23
A. Insegnamento alle folle: seminatore (13,1-9)
B. Insegnamento ai discepoli: seminatore-spiegazione (13, 10-23)

II. Mt 13, 24-53


A’. Insegnamento alle folle: zizzania, senapa, lievito (13, 24-35)
B’. Insegnamento ai discepoli: zizzania-spiegazione, tesoro, mercante, rete, rete-
spiegazione (13, 36-53)

La particolarità che emerge da questa struttura, ribadita con forza anche da Gnilka61, è che le tre
parabole non sono rivolte a tutti, ma sono un discorso riservato esclusivamente ai discepoli. Nella
seconda struttura62, invece, vengono indicate con A le parabole seguite da una spiegazione (A’) e con B
e B’ le parabole che sia Gourgues che Fabris chiamano “gemelle”:

I. 1. a) Seminatore (13,3-9 =A
b) Seminatore – spiegazione (13,18-23) = A’

II. 2. a) Zizzania (13,24-30) =A


3. Granello di senapa (13,31-32) =B
4. Lievito (13,33) = B’

III. b) Zizzania – spiegazione (13,36-43) = A’

59
Cfr. R. A. MONASTERIO-A. R. CARMONA, Vangeli sinottici e Atti degli Apostoli, in Introduzione allo studio della Bibbia ,
VI, Brescia 1995, 171-174.
60
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Matteo e Marco, Leumann 2002, 26. Secondo Gourgues questa struttura ha il
vantaggio di appoggiarsi su indicazioni esplicite di Matteo, poiché tre delle quattro sezioni (A, B, B’) sono fornite di una
introduzione propria (A: 13,1-3a; B: 13,10; B’: 13,36) e la sezione A’ di un sommario finale (13,34-35) che svolge un ruolo
equivalente (“Tutte queste cose Gesù disse alla folla in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si
adempisse…”). In ciascuna delle due ultime sezioni (A’ e B’), poi, le tre parabole che esse contengono sono introdotte allo
stesso modo (formula praticamente identica ai vv. 24, 31 e 33: “Un’altra parabola disse loro…”; così pure ai vv. 44, 45 e
47: “Il Regno dei cieli è simile a…”) e questo offre un indizio supplementare di un raggruppamento letterario voluto
dall’evangelista.
61
Cfr. J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo (CTNT), I, Brescia 1990, 735.
62
GOURGUES, 75.

42
5. Tesoro (13,44) =B
6. Mercante (13,45-46) = B’
7. a) Rete (13,47-48) =A
b) Rete – spiegazione (13,49-50) = A’

Questo schema così ripartito fa risaltare due messaggi fondamentali:


1. le tre parabole sono le ultime del settenario, a dimostrazione del fatto che si tratta di un
climax63, di una progressione che trova nell’atteggiamento dell’uomo che trova il tesoro e del mercante
una grande radicalità: lasciano tutto per avere ciò che hanno trovato;
2. le parabole del tesoro e del mercante sono state inserite volutamente tra quelle della zizzania e
della rete perché, come sostengono diversi esegeti, esse addolciscono il clima di tensione creato
dall’inclusione dei vv. 42 e 50: “dove sarà pianto e stridore di denti”. Gourgues infatti rileva: “le due
parabole presentando un aspetto positivo e complementare del Regno verrebbero ad addolcire ed
equilibrare la prospettiva dopo il richiamo minaccioso precedente64”. E con lui sono d’accordo anche
Weder quando afferma che “le due parabole creano un effetto di contrasto col tono minaccioso dei vv.
41s. 49s” e Gnilka quando sottolinea che “nel contesto le parabole creano un’atmosfera di letizia in
confronto ai minacciosi detti di giudizio che si hanno in 13,40ss.49”65.

I.2 Il testo

44 “Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde
di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo.
45 Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; 46 trovata una
perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra.
47 Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di
pesci. 48 Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei
canestri e buttano via i cattivi. 49 Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e
separeranno i cattivi dai buoni 50 e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e
stridore di denti.
51 Avete capito tutte queste cose?”. Gli risposero: “Sì”. 52 Ed egli disse loro: “Per questo ogni
scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo
tesoro cose nuove e cose antiche”.

I.3 Cenni alla storia della redazione

La sezione che va dal v. 44 al v. 52 è tipicamente matteana. Si tratta infatti di un’unica attestazione sia
per le parabole che per il detto figurato del padrone di casa. La stessa introduzione ci fa pensare che
Mt le abbia volute mettere insieme per un motivo ben preciso. Vediamo, ora, le singole parti che
compongono questa sezione.
vv. 44-46:
Le “parabole gemelle” del tesoro e del mercante pongono una questione interessante: le ha unite Mt o
le ha già trovate così dalla tradizione?

63
Figura retorica nella quale il discorso aumenta gradatamente di forza e di intensità.
64
GOURGUES, 54.
65
GNILKA, 735.

43
Per Weder “le due introduzioni (44a e 45a) di forma perfettamente uguale, dovrebbero essere state
riprese così da Matteo; in tal caso le due parabole furono riunite in una doppia parabola già prima di
Mt”66. Anche Gourgues non ha dubbi sul fatto che Mt le abbia trovate già unite. Egli infatti ritiene che,
poiché al v.44 il regno viene paragonato a un oggetto (tesoro) mentre al v. 45 è paragonato al soggetto
(mercante), questo è un chiaro indizio a favore della trasmissione di queste parabole dalla tradizione: se
le avesse scritte Mt, infatti, le avrebbe certamente armonizzate67. Per Gnilka, invece, sebbene sia
difficile stabilire se Mt le abbia trovate già unite, certamente in origine non lo erano (il Vangelo di
Tommaso, infatti le tramanda separate!). L’opposto sfondo sociologico che le assegna a due luoghi
totalmente diversi, potrebbe essere indice del fatto che inizialmente erano divise e che in un secondo
momento sono state riunite68.
Un’altra sottolineatura interessante di queste due parabole messa in risalto da Gourgues, Fabris e
Gnilka è questa: i tre momenti principali nei due avvenimenti sono scanditi dagli stessi verbi: trovare,
vendere, comprare, anche se per il secondo verbo Fabris fa notare che: “questo è però tradotto in due
diversi modi nei due racconti parabolici: polèin nel primo e pipràskein nel secondo, per specificare che
il primo può riferirsi a un affare più modesto rispetto al secondo”69.
vv.47-48:
In base agli studi di Weder, per la parabola della rete, nulla ci impedisce di ricondurla al Gesù storico,
cioè che fosse proprio così nella sua predicazione70.
Ma Gourgues porta avanti una tesi diversa più plausibile e che, in qualche modo, smentisce l’idea
precedente. Egli fa notare che, dal punto di vista grammaticale, i due versetti, non sono ben congiunti
tra di loro; è come se la parabola risultasse dall’unione, avvenuta in un secondo momento, di due
elementi diversi. Infatti, mentre il paragone del v. 47 porta sulla rete, la descrizione del v. 48 porta
sull’opera dei pescatori71. Il v. 48 sembrerebbe come il seguito di un racconto il cui protagonista (i
pescatori) era stato indicato nel versetto precedente (come succede, invece, nella parabola della perla al
v.46 e 45), ma in realtà non è così. Quindi, secondo tale autore, per essere coerenti, i fatti dovrebbero
essere presentati in questo modo: “Il Regno dei cieli è simile a pescatori che gettano la loro rete in
mare, ed essa raccoglie pesci di tutte le qualità. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi,
sedutisi, raccolgono i pesci buoni in canestri e buttano via i cattivi”: solo così si avrebbe da cima a
fondo lo stile narrativo con lo stesso soggetto e termine di paragone72.
vv. 49-50:
La sezione che contiene la spiegazione della parabola della rete si accosta fortemente a quella della
spiegazione della parabola della zizzania (vv. 40-42) e rivela, dal punto di vista linguistico, i caratteri
tipici di Mt (la prima parte, invece, non rivelava caratteristiche linguistiche di questo evangelista).
Molti autori convergono sull’idea che si tratta di un’aggiunta di Mt. E dai loro studi soprattutto tre
motivazioni mi sembrano degne di nota. La prima è di Weder il quale ritiene che le parabole della
zizzania e della rete già esistevano e Mt, rendendosi conto della loro somiglianza, le ha interpretate allo
stesso modo73. Le altre due sono, invece, di Gourgues. Egli ci fa notare soprattutto queste due
situazioni:
1. l’espressione “…là sarà pianto e stridore di denti”, è presente nella parabola del banchetto e
dell’abito nuziale di Mt ma non nella corrispettiva parabola di Lc74;

66
H. WEDER, Metafore del Regno. Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione (BCR, 60), Brescia 1991, 170s.
67
Cfr. GOURGUES, 61.
68
Cfr. GNILKA,731.
69
R. FABRIS, Matteo, Roma 1996, 326, n. 3.
70
Cfr. WEDER, 177.
71
Questi, poi, nel testo greco non sono neanche nominati espressamente, e che il verbo principale al plurale rimanda ad essi
bisogna indovinarlo.
72
Cfr. GOURGUES, 76.
73
Cfr. WEDER, 176-177.
74
Cfr. GOURGUES, 82.

44
2. questi due versetti, espressi al futuro, sono un’aggiunta in chiave escatologica di Mt, rispetto ai
versetti 47 e 48 che sono invece espressi al presente75.

vv. 51-52:
La tesi di Gnilka è che questi versetti siano patrimonio esclusivo di Mt e che, soprattutto il detto del
padrone (v.52), potrebbe essere stato composto in analogia a 12,35: “L’uomo buono dal suo buon
tesoro trae cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae cose cattive”76. E’ una
conclusione, dice Trilling, che pone l’intero capitolo nella luce voluta dall’evangelista77.
Per Schniewind, invece, è possibile anche che il v. 52 fosse originariamente un detto autonomo,
indipendente dal discorso delle parabole, ma che ciò che valeva costantemente delle parole di Gesù e
dei suoi discepoli venne riferito, a maggior ragione, anche alle parabole nei vv.10ss78.

I.4 Analisi esegetica

v.44:
“Il regno dei cieli è simile a …”: Una parte di questa espressione è presa dalla tradizione (simile a =
homoia estin è usato già da Luca) mentre l’altra è propria di Mt (infatti sostituisce all’espressione
“Regno di Dio” di Luca l’espressione “Regno dei cieli”).
“…un tesoro nascosto in un campo”: Il tesoro è un immagine molto usata nei vangeli. Per Gourgues,
alla nostra parabola è possibile associare soprattutto queste due forti affermazioni di Gesù:
• “Va’ vendi quello che hai e avrai un tesoro in cielo” (Mc 10,21). Il tesoro ha un valore che giustifica
tutte le rinunce;
• “Non accumulatevi tesori sulla terra…perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore” (Mt
6,19). Qui il tesoro è ciò che smuove il cuore, l’oggetto degli attaccamenti, ma anche ciò che fa vivere
e quindi merita un investimento per possederlo79.
Il termine “tesoro” rievoca nell’immaginazione popolare “un cassone o vaso di terracotta, pieno di
monete d’oro e d’argento”80, “qualcosa di favoloso, un cumulo di beni di inestimabile valore”81. E
questo è il regno: è superiore a ogni altro patrimonio.
“un uomo lo trova”: l’uomo non va’ in cerca del tesoro (come invece fanno il seminatore e il mercante
che iniziano un attività) ma se lo ritrova per pura fortuna avanti.
“e lo nasconde di nuovo”: Questo versetto ha diviso gli studiosi a proposito del comportamento
dell’uomo, poiché hanno dato risposte assai divergenti a due quesiti che esso pone: perché l’uomo
nasconde di nuovo ciò che ha trovato? E’ moralmente accettabile il suo atteggiamento?
Alla prima domanda Gourgues risponde che l’uomo non avrebbe potuto fare altro perché “non
essendoci banche, abitualmente si nascondevano sotto terra i beni di cui si voleva garantire la
sicurezza”. E a sostegno di questa tesi porta due testimonianze: una dello storico Giuseppe Flavio
secondo il quale i Romani, dopo la conquista di Gerusalemme nel 70 d.C. scoprirono nascosti sotto
terra grandi quantitativi di oro, argento e oggetti di gran valore che i proprietari avevano sotterrato; e
l’altra degli archeologi contemporanei di Qumran che hanno fatto scoperte dello stesso genere82. Ma
sull’assenza di banche a quei tempi non è d’accordo Gnilka. Per lui, infatti, le banche c’erano e
addirittura nell’Israele antico funzionavano in maniera abbastanza simile a quelle dei nostri giorni: “I
banchieri (trapezitai, sulhanim, a Roma i mensularii o collectarii) svolgevano in sostanza tre funzioni:

75
Idem, 77.
76
GNILKA, 738.
77
W. TRILLING, Commenti spirituali del Nuovo Testamento. Vangelo secondo Matteo, II, Roma 1968, 16.
78
J. SCHNIEWIND, Il Vangelo secondo Matteo, Brescia 1977, 308.
79
GOURGUES, 59.
80
GNILKA, 732.
81
ORTENSIO DA SPINETOLI, Matteo. Commento al “Vangelo della Chiesa” , Assisi 1983, 406.
82
Cfr. GOURGUES, 59-60.

45
cambiare denaro (anche valuta estera), custodire denaro (senza interessi), farne maturare gli
interessi”83.
Questa divergenza di opinione non è rilevante ai fini del messaggio che vuole lanciare l’autore della
parabola. Il suo intento, infatti, è solo quello di evidenziare l’atteggiamento estremo di chi trova
qualcosa di grande valore ed è pronto a tutto pur di entrarne in possesso.
La seconda domanda, poi, ponendo l’accento sulla moralità del comportamento dell’uomo che trova il
tesoro, ha prodotto anch’essa due posizioni diametralmente opposte. Infatti, per alcuni questo modo di
fare è giudicato profondamente scorretto e immorale, un vero raggiro nei confronti del proprietario del
terreno. Tra questi il più drastico è senza dubbio Scott che vede addirittura in quell’atto qualcosa di
scandaloso, frutto di corruzione e di narcisismo: “Il tesoro non è solo grazia, ma anche possibilità di
corruzione”84. Per altri esegeti, invece, l’intento della parabola è tutt’altro. Sia Gourgues che Ortensio
da Spinetoli, infatti, sono concordi nell’affermare che la parabola vuole solo sottolineare l’alternativa
irrinunciabile che il messaggio evangelico presenta all’uomo: o il regno o gli altri possedimenti. La
dimensione morale è totalmente assente nelle intenzioni del parabolista.
Anche se questa seconda posizione è certamente la più convincente, mi sembra interessante presentare
anche una terza posizione, anch’essa abbastanza benevola verso l’uomo che trova il tesoro. E’ quella di
alcuni autori come J. Dauvillier che, per scagionare il nostro uomo, invocano a suo favore il diritto
rabbinico, secondo il quale solo il legittimo proprietario aveva il diritto di estrarre un tesoro nascosto85.
E’ una tesi, però, non priva di perplessità in quanto gli autori che la sostengono non si sono preoccupati
di accertarsi se tali disposizioni erano già in vigore ai tempi di Gesù.
“Poi va”: Il termine “va” è particolarmente importante perché segna un passaggio fondamentale. Il
cambio di luogo e di scena che determina, non indica solo uno spostamento fisico, ma l’inizio di una
nuova scelta. Gorgues infatti dice: “E’ l’atto iniziale di un nuovo impegno”86 e Gnilka conferma:
“Tutto ciò significa che l’uomo orienta in modo nuovo la propria vita”87.
“Pieno di gioia”: Segno di ottimismo e di speranza, la gioia è il punto culminante del racconto: essa
non è di tutti ma solo dei possessori del regno, cioè di coloro che hanno capito il bene inestimabile che
il dono di Dio racchiude e l’hanno accolto.
Sono su questa linea molti studiosi tra i quali Ortensio da Spinetoli e soprattutto Jeremias che afferma:
“Il motivo che spinge il discepolo a lasciare tutto e ad aderire è la gioia di aver trovato88”. Ci sono poi,
altri autori che preferiscono mettere in risalto il sacrificio che l’uomo deve compiere per entrare in
possesso del tesoro. E in questo filone si passa dalla tesi di Dodd che reputa troppo scontato e ovvio
soffermarsi sulla gioia rispetto al gran valore del sacrificio di quell’uomo, fino ad arrivare alla lettura
allegorizzante, sicuramente esagerata, di O. Glombitza: “il protagonista della parabola è Dio, che per
redimere il mondo ha sacrificato tutto, anche il proprio Figlio”89.
A questa linea “sacrificale” si oppongono categoricamente Weder e Gnilka. Il primo, più prudente,
vede in questo solo il rischio di porre come elemento centrale l’attività dello scopritore a scapito
dell’oggetto scoperto, cioè il Regno, mentre Gnilka è più deciso e così afferma nella sua opera Il
Vangelo di Matteo: “Va’ respinta un’interpretazione che parte dal principio che l’uomo deve sacrificare
tutto per il Regno. Nella narrazione non vi è nessuna traccia dell’idea del sacrificio”90.
Determinante non è quindi il sacrificio dei loro beni, dice A. Kemmer, ma il motivo che lo spinge a
rinunciare a tutto il resto, pur di arrivare a possedere ciò che ha rinvenuto91. E Schniewind così

83
J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo (CTNT), vol. II, , Brescia 1990, 525.
84
B. B. SCOTT, cit. in GOURGUES, 60, n. 18.
85
Cfr. J. DAUVILLIER, cit. in GOURGUES, 60, n. 19.
86
GOURGUES, 57.
87
J. GNILKA,734.
88
J. JEREMIAS, cit. in B. MAGGIONI, Il racconto di Matteo, Assisi 1983, 183.
89
O. GLOMBITZA, cit. in ORTENSIO DA SPINETOLI, 406, n. 46.
90
GNILKA, 734.
91
A. KEMMER, Le parabole di Gesù (SB, 93), Brescia 1990, 60.

46
brillantemente conclude: “Il regno di Dio vale questo sacrificio: esso è gioia sconfinata proprio fra i
dolori e i sacrifici”92.
v. 45:
“Mercante” (émporos): E’ un termine raro e non si trova in altri punti dei Vangeli.
“Va in cerca”: Da una parabola all’altra il livello varia in modo notevole. Dal quadro domestico
campagnolo, modesto e stabile, si passa a quello del grande commercio, degli oggetti di gran lusso e
della mobilità. Gourgues infatti ci fa notare che il verbo emporéuomai (va in cerca), connota insieme
all’idea del commercio anche quella del viaggio e dello spostamento93. Questo verbo, inoltre, rispetto
alla parabola del tesoro sottolinea anche un’altra importante differenza: lo sforzo di ricerca che occorre
compiere per imbattersi con la perla preziosa.
v. 46:
“Trovata una perla di grande valore”: Per comprendere a pieno il senso profondo di questa espressione
è necessario vedere il testo greco. Qui viene chiaramente indicata la straordinarietà di ciò che avviene:
il mercante trova una “perla di grande valore” (polùtimon margarìten), di valore eccezionale, e non
soltanto “belle perle” (kaloùs margarìtas) come quelle che cercava abitualmente per il suo commercio.
La scoperta del mercante, quindi, non è meno inattesa di quella dell’uomo che trova il tesoro nel
campo. Gourgues, a proposito, ci fornisce questa felice intuizione: “Pur essendo stata mille volte
desiderata, certamente, perché questo era il suo mestiere, una tale scoperta è una pura fortuna, che il
nostro personaggio non poteva aspettarsi”94.
Degno di nota, poi, è anche ciò che dice Ortensio da Spinetoli per evidenziare l’eccezionalità della
scoperta, capace di farci fare anche cose umanamente inspiegabili. Egli infatti sottolinea che il
comportamento del mercante è strano: acquista non per rivendere, bensì per impossessarsi di un a perla
rara ma infruttuosa. Preferisce spogliarsi di tutto, ridursi quasi a mendicare pur di avere con sé il
cimelio prezioso anche se improduttivo95.
Nella concentrazione su quell’unica perla, che fa trascurare tutte le altre, si esprime, in un modo che
merita di essere meditato, un orientamento che è pienamente ed esclusivamente rivolto verso il Regno.
“Vende tutti i suoi averi”: Lo fa sia l’uomo che si presuppone essere povero che il mercante, che invece
si presuppone più agiato. Sebbene sia l’uno che l’altro devono vendere tutti i loro averi per poter
acquistare i beni preziosi che hanno avuto la fortuna di trovare, c’è una differenza: nel primo caso
l’uomo non deve versare il prezzo del tesoro stesso, ma soltanto quello del campo dove lo ha trovato,
mentre nel secondo caso il mercante deve pagare interamente il prezzo della perla. Sembrerebbe
l’indizio di una radicalità più profonda ma in realtà, come giustamente sottolinea Gourgues, le due
parabole non sembrano badare a questa differenza. In ambedue i casi si sottolinea che il prezzo da
pagare richiede tutta la fortuna del personaggio: “un’appropriazione che esige una totale
disappropriazione”96.
E’ possibile che nel caso del mercante “tutti i suoi averi” sono quelli che portava con sé durante quel
viaggio, cioè solo tutto il suo carico di merci (e non tutto il suo patrimonio!!). Questa idea scaturisce
dal confronto della parabola con il Vangelo di Tommaso che dice così: “Il regno del Padre è simile a un
mercante, che ha un carico di merci e ha trovato una perla. Quel commerciante è astuto. Egli ha
venduto la merce e si è comprato l’unica perla”. Ma in questo problema non si può giungere alla
certezza. E Gnilka senza esitazioni dichiara: “La versione della parabola usata dal Vangelo di
Tommaso non è utilizzabile per una ricostruzione”97.

92
SCHNIEWIND, 305.
93
GOURGUES, 61.
94
Idem, 62.
95
Cfr. ORTENSIO DA SPINETOLI, 408.
96
Cfr. GOURGUES, 62.
97
GNILKA, 732.

47
v. 47:
“Rete” (segéne). E’ usato una sola volta nei Vangeli. Altrove, specialmente nei racconti vocazionali,
vengono utilizzate altre espressioni: amphìblestron (4,18) e dìktuon (4,20-21). In realtà questi termini
non sono semplici sinonimi ma, come fanno osservare gli specialisti, indicano tipi di reti e tecniche di
pesca diversi, che all’inizio del XX secolo e prima dell’industrializzazione si usavano ancora sul lago
di Tiberiade.
Di tutti i generi la sagéne98 era la più larga e la più estesa, quella che poteva prendere e contenere la
maggior quantità di pesci: la rete che tutti i pescatori sognavano di poter possedere un giorno (un po’
come il tesoro e la perla che tutti avrebbero voluto trovare!). Più la rete è ampia, più c’è spazio per
l’abbondanza e la diversità. Ed è precisamente quest’aspetto che la parabola vuole sottolineare.
v. 48:
“Raccolgono”: Viene usato lo stesso verbo (sullégo) della finale della parabola della zizzania:
“Cogliete prima la zizzania…” (v. 30). I pesci buoni e cattivi sono insieme come il grano e la zizzania.
La separazione avveniva in base a due criteri: bisognava gettare via sia i pesci non commestibili sia
quelli leviticamente impuri99.
v. 50:
“Dove sarà pianto e stridore di denti”: La sorte finale dei cattivi viene descritta con un linguaggio
tipicamente veterotestamentario100. Negli scritti apocalittici, infatti, la sheol, intesa come sede della
punizione, è presentata come luogo della tenebra, dove regnano pianto e stridore di denti.
v. 52:
“Discepolo del regno dei cieli”: Questo discepolo si distingue dagli altri dal fatto che “comprende” le
cose che ha detto Gesù, cioè gli è dato di conoscere i “misteri del regno dei cieli”. Perciò Gesù
definisce la loro identità con una similitudine che ne sottolinea anche la responsabilità. Dice Fabris: “Il
discepolo non è un aderente ad una scuola o dottrina, ma è colui che entra nella logica del regno dei
cieli come è stata illustrata dal discorso in parabole: è un discepolo del e per il regno dei cieli”101.
In essi avviene una trasformazione radicale: sono diventati a loro volta i maestri (grammatèus) bene
istruiti nelle questioni del regno102. Senza dimenticare però quello che ci ricorda Schniewind: “I
discepoli di Gesù, di fronte al regno di Dio che appare in Gesù, restano allievi per tutta la vita: solo così
possono essere dei veri maestri!”103.
“Cose nuove e cose antiche”: In questo ruolo ideale dello “scriba divenuto discepolo del regno dei
cieli”, forse si può intravedere il ritratto dell’evangelista che armonizza sapientemente la novità
messianica, rivelata e attuata da Gesù, con la promessa biblica antica. Sono insieme: fedeltà all’antico
(5,17ss) e apertura al nuovo sconvolgente (5,21ss). A differenza degli scribi giudaici, dice Ortensio da
Spinetoli, i maestri formati da Gesù sanno offrire nuovi insegnamenti accanto agli antichi. E a scanso di
ogni equivoco, prima le “cose nuove”. Non distruggendo il vecchio ma rinnovandolo e vivificandolo
essi assolveranno il loro compito di maestri del regno104.

I.5 Messaggi

Due sono i messaggi che chiaramente si impongono ad una prima lettura, anche superficiale, di questo
testo:

98
Detta anche rete a strascico perché al bordo inferiore erano fissati pezzi di piombo o pietre che gli permetteva di calare
sul fondo dopo essere stata gettata, e al bordo superiore dei pezzi di sughero le permettevano di galleggiare, sicchè poteva
essere trascinata a riva (da una barca o tra due barche) catturando nelle sue maglie i pesci.
99
Tra i pesci considerati impuri in Lv 11,10s. rientrano tutti quelli senza pinne e squame.
100
Cfr. Sal 35,16; 37,12; 112,10.
101
FABRIS, 328.
102
ORTENSIO DA SPINETOLI, 411.
103
SCHNIEWIND, 307-308.
104
Cfr. ORTENSIO DA SPINETOLI, 411.

48
1. Radicalità. La particolarità di ciò che avviene nelle prime due parabole non è il fatto che i
personaggi acquistino qualcosa di grande valore (è ovvio e lo farebbero tutti!), ma il fatto che per fare
l’acquisto debbano entrambi “vendere tutto quello che hanno”. I due personaggi devono “sacrificare”
tutto quello che hanno.
Si tratta però di una radicalità umanamente incomprensibile che richiede a chi la vive anche il rischio
dell’umiliazione. Quello che dice Ortensio da Spinetoli a proposito deve farci riflettere: “Si può
immaginare con quale affanno si sia messo all’opera e di quanto scherno si sia coperto agli occhi del
pubblico quest’uomo che vende tutto, casa, averi, provviste per acquistare una terra di poco o nessun
valore, com’è ordinariamente in Palestina, brulla e infruttuosa. Alla stessa contraddizione sono
condannati i figli del regno. Essi hanno acquistato un bene d’inestimabile prezzo, ma esteriormente,
agli occhi del pubblico, appaiono dei falliti, degli illusi. La loro ricchezza è sconfinata ma nascosta,
essa traspare solo dalla grande gioia che trabocca dai loro cuori”105.
2. Giudizio. La parabola della rete lancia questo messaggio: è certo, è sicuro che un giorno
avverrà una separazione. A noi oggi il compito arduo ma possibile di essere ”pesci buoni” per essere in
eterno conservati nel “canestro” del Cielo, nel cuore del Padre.

II. Analisi teologica

II.1 Temi teologici

I temi teologici che emergono da una lettura attenta delle nostre parabole sono diversi e tutti rilevanti.
Sebbene verranno presentati uno dopo l’altro, non mi sembra superfluo specificare che è solo per dare
ordine all’esposizione in quanto molto spesso vanno presi insieme per comprendere a fondo il
messaggio che l’autore vuole lanciare.

• Cristologia. E’ un tema che ricorre in modo imponente e sotto varie sfaccettature soprattutto nelle
parabole del tesoro e del mercante perché in esse, l’unica intenzione del parabolista è quella di
trasmettere all’uditore questa verità: Il Regno è Gesù.
Il vero protagonista delle due parabole, dice giustamente Weder, non è l’uomo o il mercante ma è il
Regno, quando l’uomo si imbatte in esso. Il Regno non è di certo in ogni luogo ed in ogni momento,
bensì, per gli uditori di Gesù, innanzitutto in Gesù stesso. Gesù da parte sua appartiene alla realtà che
viene scoperta106. E aggiunge Fusco: “C’è un misterioso rapporto tra il regno proclamato e la persona
del suo proclamatore Gesù”107.
La parabola del tesoro trovato nel campo ci parla di Dio che svela il Mistero di Cristo, “cioè il mistero
nascosto da secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere
la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria”
(Col 1, 26-27).
Ma si possono anche leggere le due parabole del tesoro e del mercante in relazione con il dono di Dio
in Gesù Cristo, come si è rivelato ai pagani e ai giudei. Dio infatti ha svelato la ricchezza del suo
disegno di salvezza sia ai pagani che non lo conoscevano e quindi non potevano attendersi nulla da Lui
(come l’uomo nel campo), sia ai giudei che al termine di una lunga preparazione, la desideravano con
tutto il cuore (come il mercante). Oppure come dice Schniewind: “Si potrebbe pensare a come il
richiamo di Gesù coglie inaspettatamente i pubblicani e i peccatori, mentre i discepoli di Giovanni
sono già alla ricerca, e troveranno poi il Messia”108. Ma nonostante questa giusta riflessione, la venuta

105
IDEM, 407.
106
WEDER, 174.
107
V. FUSCO, Parabole, in G. ROSSANO - G. RAVASI - A. GIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello
Balsamo 1988, 1084.
108
SCHNIEWIND, 305.

49
di Cristo in mezzo agli uomini rimane pur sempre un fatto incalcolabile e sorprendente. Gourgues
giustamente dice: “Dio rivela Gesù in maniera inattesa: nessuno se l’aspettava!”109.
C’è infine da notare anche che in ambedue le parabole è indubbio che l’autore sacro, lancia anche una
frecciata al giudaismo ufficiale. A riguardo, infatti, Bruno Maggioni dice: “Le parabole del tesoro e
della perla rimproverano ai farisei di non volersi svestire dei loro miserabili schemi religiosi di fronte
all’abbagliante ricchezza di Cristo”110. Sono ingabbiati e non riescono a comprendere quello che invece
Trilling, ispirandosi certamente a Paolo (cfr. Fil 3,8-9), brillantemente sottolinea: “Le molte cose
diventano spazzatura di fronte all’unico vero possesso per cui vale la pena vivere”111.

• Ecclesiologia. La parabola della rete è un avvertimento riguardo a un certo modo di vivere il presente,
e in particolare la fede e il rapporto con i fratelli all’interno della comunità matteana; è un
’ammonizione per coloro che continuano ad essere cattivi membri del regno. Come dice Josf:
“L’appartenenza alla chiesa non è per i cristiani una tessera di garanzia per la salvezza… Le parole di
giudizio rivolte ai farisei e agli scribi vanno perciò riferite alla chiesa come degli ammonimenti”112. A
proposito Fabris afferma: “L’accento del racconto parabolico è sul contrasto tra due momenti: la
raccolta di ogni genere di pesci nella rete e la loro separazione sulla riva. In questo contrasto della
parabola è riflessa la situazione storica per la quale essa è stata raccontata. Ai giudei integristi, che
sognano una comunità di puri e vorrebbero anticipare nella storia il giudizio di Dio, la parabola
risponde invitando a rispettare il ritmo della storia della salvezza: ora è il tempo della pesca al largo,
senza discriminazioni, poi alla fine del mondo ci sarà il giudizio riservato a Dio”113. E aggiunge
sapientemente Trilling: “Qui e ora, buoni e cattivi si trovano accanto senza distinzione, e lo sguardo
dell’uomo è troppo offuscato per poterli distinguere e separare; anzi l’uomo non ha alcun diritto di
farlo: è cosa che spetta a Dio soltanto”114. Per Mt la chiesa, come la rete tesa nel grande mare della
storia, deve raccogliere senza distinzione ogni essere umano che viene a contatto con le sue maglie.
La parabola, riflette la solita fatale situazione terrestre del regno. Finchè è in questo mondo non può
andare esente da contrarietà e contraddizioni, da errori e colpe. La “comunità dei santi” è
un’aspirazione costante del suo fondatore e delle anime fervorose, ma in realtà la chiesa sarà un’accolta
di peccatori e di giusti destinati a vivere insieme fino alla fine dei tempi. Nella chiesa nascente infatti
era così: in essa il bene e il male erano confusi115. E conferma Dodd: “La morale è che nella Chiesa ci
sono membri buoni e cattivi e che il Signore non desidera che si cerchi di escludere i cattivi prima del
Giudizio universale”116.
“Nell’intenzione di Gesù, dice Josf, la parabola è una risposta a rimproveri a lui mossi a causa della
composizione poco convenzionale della sua cerchia di seguaci: accanto a cittadini onorati stanno
prostitute e pubblicani, accanto a fanatici zeloti fantasticatori apocalittici, accanto a pacifici e miti
quelli che hanno fame e sete di giustizia, uomini ardenti e passionali secondo il modello dei figli di
Zebedeo…Tutti i tentativi di creare già in questo tempo una chiesa perfetta sono respinti col richiamo
alla decisione di Dio alla fine del mondo”117.
Mt ha di mira la “cura d’anime” nella comunità perché lo stesso Dio vuole che nessuno vada perduto e
quindi nei confronti dei fratelli e delle sorelle in pericolo (vedi parabola della pecorella smarrita!) la
chiesa deve particolarmente sforzarsi in loro favore. C’è un costante richiamo alla premura per il
“fratello”. L’immagine di Chiesa in Mt è questa: “la ekklesìa si raduna nel nome del Signore, poiché il
Signore rimane presente nel mezzo della comunità fraterna, le preghiere trovano ascolto, gli

109
GOURGUES, 70.
110
MAGGIONI, Il racconto di Matteo…, 173.
111
TRILLING, Commenti spirituali…, 44.
112
J. ERNST, Matteo. Un ritratto teologico, Morcelliana, Brescia 1992, 70.
113
FABRIS, 328.
114
TRILLING, 46.
115
Cfr. 2Tim 2,20s; 1Cor 5,1ss; 11,19.
116
C. H. DODD, Le parabole del regno, Brescia 1970, 170.
117
ERNST, 69.

50
svantaggiati ottengono aiuto, gli erranti sono ricondotti sulla retta via, e quelli che se ne sono
allontanati non sono ripudiati, nonostante la disciplina ecclesiastica e le decisioni più dure: la
misericordia del Signore vede ancora una possibilità lì dove la comunità dei discepoli non ne vuole più
sapere oltre. I cristiani sono chiamati a orientarsi sul comportamento di Dio nei rapporti
reciproci…Come la pensa Dio, così devono pensarla anche coloro che si sono sottomessi alla sua
volontà regale”118.
Ma come tutte le parabole del capitolo, anche la presente contiene un messaggio di salvezza e di
consolazione. Dice Weder: “La parabola infonde fiducia: la certezza di un giudizio che raggiungerà
tutto il mondo e dello splendore radioso dei giusti incoraggia la comunità a compiere senza esitazione
la volontà del Padre”119. In altre parole la sorte del regno, nonostante le reali o apparenti contrarietà e
contraddizioni, è sicura.

• Missione. La rete gettata in mare può essere applicata alla missione dei discepoli associati al compito
messianico di Gesù (4,19). L’immagine della rete è collegata a quella dei pescatori di uomini. Dice
Schniewind: “Gli uomini vengono catturati e messi a disposizione di Dio; ma solo nel giudizio finale si
vede chi è buono”120.
Letta in funzione delle altre due parabole della zizzania e del seminatore anche questa va compresa
anzitutto in funzione del presente, cioè in chiave missionaria. Questo era il senso della parabola
nell’insegnamento stesso di Gesù: per ora, è tempo di seminare, anche se una parte del grano resta
sprecata; per ora, è tempo di crescere, anche se la zizzania germoglia insieme al grano; per ora, è tempo
di pescare, anche se la rete raccoglie di tutto. E aggiunge Fabris: “Compito della Chiesa è la missione,
non il giudizio”121.
Per Josf, l’idea che emerge dall’intero vangelo è quella di una “chiesa per il mondo”. La parola sul sale
“voi siete il sale della terra” e quella sulla luce “voi siete la luce del mondo” indicano ciascuna in un
modo proprio una responsabilità mondiale della comunità dei discepoli…L’evangelista ha dunque
davanti agli occhi la chiesa universale. Alla venuta degli astrologi dall’Oriente (2,1) all’inizio del
Vangelo corrisponde alla fine l’andare dei missionari verso tutti i popoli (28,19). Inizio e fine fanno
echeggiare la medesima esigenza missionaria”122.
E per Ortensio da Spinetoli si tratta di una missione tutta speciale. Infatti, sebbene tutti gli evangelisti
ricordano il tema della missione di Gesù in Galilea, solo in Mt si trova questa precisazione
determinante: “Non sono stato mandato se non per le pecore perdute della casa di Israele” (15,24) e
l’invio dei dodici per la stessa direzione: “Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei
Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (10,5-6)123. Queste
sottolineature non sono di poco conto anche perché prese così radicalmente entrano in contraddizione
con la dimensione missionaria e l’universalità della salvezza, ambedue punti fermi della teologia
matteana. Il senso di quelle espressioni così forti va quindi ricercato e interpretato esclusivamente
all’interno della contestazione furibonda esistente tra la comunità e la sinagoga degli anni Settanta e
ben difficilmente può essere riferito all’antico popolo di Dio nel suo insieme.

• Escatologia. E’ soprattutto la parabola della rete che ci permette di cogliere questo tema. Se si
considera la parabola nei vv. 47-48 indipendentemente dall’interpretazione dei vv. 49-50 non ci
sarebbe alcun motivo per vedere in essa una parabola di giudizio escatologico. Ma in una lettura
sincronica del testo, ci accorgiamo che i due momenti fondamentali della raccolta e della selezione
sono correlati l’uno all’altro in modo tale che l’uno non è possibile senza l’altro. Nel regno di Dio,

118
Idem, 62.67.
119
WEDER, 159.
120
SCHNIEWIND, 307.
121
FABRIS, 328.
122
Cfr. J. ERNST, 87.
123
Cfr. ORTENSIO DA SPINETOLI, 8.

51
sottolinea Weder, il futuro indubitabile della separazione è indissolubilmente intrecciato al presente
della raccolta incondizionata. Questo intreccio deve essere mantenuto e non può essere eliminato, né
col privilegiare il presente a scapito del futuro (nel senso di un processo graduale dalla raccolta alla
separazione, iniziato già nel presente, per cui il futuro si riduce a perfezione del presente), né col
privilegiare il futuro a scapito del presente (nel senso di un giudizio apocalittico futuro, del tutto
indipendente dalla raccolta in atto nel presente). Viene così manifestato il rapporto presente-futuro e
allo stesso tempo viene salvaguardato il rapporto futuro-presente in quanto la indubitabile separazione
consente a Gesù di vedere se stesso come l’unico inviato a raccogliere, e a raccogliere senza
condizioni124. Dice Gourgues: “Mt ha voluto intenzionalmente che una parabola dell’oggi del Regno
venisse trasformata in parabola del giudizio escatologico”125.
La sottolineatura escatologica presente nella parabola della rete, comunque, se è vero che è un’aggiunta
voluta da Mt è anche vero che rispecchia in pieno l’orientamento generale di tutto il vangelo. Infatti,
dice Ortensio da Spinetoli, il tema del giudizio è la prospettiva tenuta costantemente aperta davanti ai
fedeli della comunità matteana. Il tema ritorna più che in ogni altro Vangelo. Delle 148 pericopi
dell’intera opera 68 (quasi la metà) trattano o toccano tale argomento (in Marco solo 10 su 92 pericopi,
in Luca solo 28 su 146). E poi l’espressione “dove sarà pianto e stridore di denti” appare come un
lugubre ritornello126.

II.2 Risonanze pastorali

Commentando le parabole del tesoro e della perla rileva Raniero Cantalamessa: “C’è il rischio di
scambiare queste due parabole per due simpatici quadretti di vita. Invece ci troviamo davanti a due
potenti squilli di tromba, capaci, se uno ne comprende il significato, di non lasciarlo più tranquillo per
il resto della vita”127. Ed è vero!
Infatti, se la teologia ringrazia Mt per l’enorme contributo che offre alla sua riflessione, la pastorale
moderna non può far altro che esultare per la possibilità offertagli dall’evangelista attraverso le tre
parabole che abbiamo studiato. Sono davvero tre “tesori”, tre “perle preziose” da sfruttare a pieno nella
predicazione, affinché tutti i credenti possano vivere autenticamente nella “rete” delle loro comunità.
Come dicevo gli spunti sono tantissimi ma qui di seguito voglio presentare solo quelli che ritengo
particolarmente urgenti nella vita della Chiesa di oggi.
• Gesù è un’occasione unica, arriva quando meno te l’aspetti (come il tesoro nel campo), a prescindere
dai meriti personali. Forse si presenta una sola volta nella vita e quindi non bisogna lasciarsela
scappare!
• Il Regno è un bene messo a disposizione di tutti, ma non tutti lo “trovano” perché non tutti lo cercano.
Il mercante che c’è in ogni battezzato si rimetta al lavoro, senza però dimenticare che alla fine “tutto è
grazia”!
• Il tesoro e la perla non sono realtà astratte ma vengono trovate in luoghi ben precisi. Così è anche per
Gesù: lo incontri in un luogo ben preciso, attraverso delle persone ben precise, cioè in una storia di
salvezza concreta!
• “Non vendere tutto” significa condannarsi ad una vita mediocre, insignificante e deprimente: ad un
cristianesimo che non fa rumore. Nella totalità della rinuncia c’è la pienezza della realizzazione.
Direbbe Santa Teresa d’Avila: “Dio solo basta!”
• A coloro che sono chiamati ad una particolare consacrazione. Una sola parola sia oggetto della nostra
meditazione: radicalità! Nell’amore, nella donazione, nell’annuncio. Gli “sconti” e i “saldi” lasciamoli
fare agli altri.

124
Cfr. WEDER, 178-179.
125
GOURGUES, 81.
126
Cfr. ORTENSIO DA SPINETOLI, 7.
127
R. CANTALAMESSA, Gettate le reti. Riflessioni sui Vangeli, I, Casale Monferrato 2003, 249.

52
• Ai sacerdoti: “Amate il vostro sacerdozio! Siate fedeli fino alla fine! Sappiate vedere in esso quel
tesoro evangelico per il quale vale la pena di donare tutto”128.
• Evangelizzare, evangelizzare, evangelizzare! Rinchiudersi in sé stessi, nel proprio orticello significa
avviare la barca di Pietro nell’oceano della sterilità fino agli abissi della morte. Anche perché la Chiesa
se non è missionaria… non è Chiesa. Duc in altum!
• Non spetta a noi giudicare nè sulla bontà o meno dei fratelli e delle sorelle della nostra comunità, né
su chi si salverà e chi no. A noi spetta solo amare tutti e sperare che tutti si salvino…sino alla fine!
• Chi incontra Gesù incontra anche se stesso. Chi incontra la perla preziosa riscopre anche la preziosità
della propria vita. “Chi segue Gesù uomo perfetto, diventa anch’egli più uomo”129.
Hai compreso tutte queste cose? Se sì, allora và, e fa anche tu lo stesso per essere un vero discepolo del
Regno.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di un laboratorio di scuola dell’infanzia e di scuola primaria.

Scuola dell’infanzia, (bambini di tre, quattro e cinque anni)


Scuola primaria (classi IV e V)
Tipologia del laboratorio

Il laboratorio sarà progettato con tipologia trasversale agli obiettivi specifici di apprendimento
riferiti a:
- Religione cattolica;
- Il Sé e l’altro;
Scuola dell’infanzia
- Corpo, movimento, salute;
- Fruizione e produzione di messaggi;
- Esplorare, conoscere e progettare.

- Italiano, inglese, storia, geografia,


- matematica, scienze, tecnologia e
- informatica, musica, arte ed Scuola primaria
- immagine, scienze motorie e sportive,
- convivenza civile.

Metodologia

L’azione di laboratorio didattico realizzerà la rielaborazione del focus attraverso l’espressione e


la produzione creativa.

128
GIOVANNI PAOLO II, Dono e Mistero, Città del Vaticano 1996, 109.
129
Cfr. CONCILIO VATICANO II, Gaudium et Spes, n. 41.

53
Focus di attenzione

Le parabole del tesoro, del mercante e della rete.

Items di conoscenza (dagli O.S.A.)


Scuola dell’infanzia
Religione cattolica: La comunità cristiana e le espressioni del comandamento evangelico.

Il sé e l’altro: Lavorare in gruppo, discutendo per darsi regole di azione, progettando insieme e
imparando sia a valorizzare le collaborazioni, sia ad affrontare eventuali defezioni.

Corpo, movimento, salute:Muoversi con destrezza nello spazio circostante…prendendo


coscienza della propria dominanza corporea e della lateralità, coordinando i movimenti degli
arti.

Fruizione e produzione di messaggi: Disegnare, dipingere, modellare, dare forma e colore


all’esperienza, individualmente e in gruppo, con una varietà creativa di strumenti e materiali,
lasciando traccia di sé.

Esplorare, conoscere e progettare:”Osservare chi fa qualcosa con perizia per imparare; aiutare a
fare e realizzare lavori e compiti a più mani e con competenze diverse.

Scuola primaria
Italiano: prendere appunti; interazione fra testo e contesto; strategie di scrittura adeguate al testo
da produrre.

Inglese: lessico relativo alle parole /chiave delle parabole del tesoro, del mercante e della rete.
storia: la nascita della religione cristiana.

Geografia: I luoghi della vita di Gesù.

Matematica :relazioni tra oggetti e le loro rappresentazioni.

Scienze: l’acqua del mare.

Tecnologia e informatica: lavori antichi e moderni; uso di sotware enciclopedici.

Musica: musica religiosa.

Arte e immagine: comunicazione iconica.

Scienze motorie e sportive: consolidamento di schemi motori e posturali.

Convivenza civile: relazioni tra coetanei e adulti.

54
Prodotto atteso

Scuola dell’infanzia

Illustrazione su grande foglio delle parabole del tesoro, del mercante e della rete con la tecnica dei
colori a dito. (bambini quattro/cinque anni)

Realizzazione di una scatola colorata con i colori a dito e contenente un tesoro (fatto di ciò che è più
prezioso per ognuno dei bambini di tre anni)

Scuola primaria

Fumetto realizzato con il contenuto delle parabole del tesoro, del mercante e della rete, arricchito da
rielaborazioni condivise dal gruppo e da semplici didascalie in lingua inglese.

Attività

Scuola dell’infanzia

- Nell’ambiente adibito a spazio laboratoriale diffondere un sottofondo di musica sacra.


- L’insegnante chiede ai bambini che cos’è un tesoro, poi che cos’è una perla, poi che cosa significa
pesce buono e pesce cattivo.
- Durante la discussione guidata sui tre focus: tesoro, perla, pesce buono e pesce cattivo, l’insegnante
registra servendosi delle risorse materiali della scuola .(la registrazione sarà utile al rilevamento di altri
bisogni formativi).
- L’insegnante legge, con la tecnica della lettura animata, le tre parabole : del tesoro, del mercante,
della rete.
- L’insegnante spiega, con un’idonea comunicazione, le parabole lette, raccogliendo le riflessioni dei
bambini.
- L’insegnante comunica il prodotto atteso dall’attività laboratoriale.
- I bambini organizzano tavoli, spazi e materiali da lavoro con l’aiuto dell’insegnante (degli
insegnanti).

Scuola primaria

- Nell’ambiente adibito a spazio laboratoriale diffondere un sottofondo di musica sacra.


- L’insegnante chiede agli alunni il significato di similitudine e, successivamente il significato del
regno dei cieli.
- Durante la discussione guidata, l’insegnante registra, servendosi delle risorse materiali della scuola
.(la registrazione sarà utile al rilevamento di altri bisogni formativi).
- L’insegnante legge, le tre parabole : del tesoro, del mercante, della rete.
- L’insegnante spiega, le parabole lette, raccogliendo le riflessioni degli alunni.
- L’insegnante comunica il prodotto atteso dall’attività laboratoriale.
- Gli alunni ricercano dalle risorse didattiche della scuola, software utili alla realizzazione dell’attività
laboratoriale.
- Gli alunni organizzano tavoli, spazi e materiali da lavoro con l’aiuto dell’insegnante (degli
insegnanti).

55
Conclusione

Dall’analisi sembrano emergere due provocazioni che rivolgo prima di tutto a me, e poi a tutti quelli
che nella loro vita hanno trovato quel Tesoro e quella Perla dal valore inestimabile.
La prima è questa: se siamo davvero felici di aver incontrato Gesù se ne devono accorgere tutti, perché
non possa mai avere ragione Nietzsche quando, parlando dei credenti del suo tempo, diceva:
“Dovrebbero rivolgermi uno sguardo più redento, se vogliono che io creda al loro redentore!”.
E la seconda, non meno tagliente, è: poiché la pesca con quel tipo di rete (la segéne) di cui parla la
parabola veniva praticata solo in acque poco profonde e con il fondo poco sassoso si conclude che
bisogna sì gettare la rete, ma è anche necessario che il posto sia favorevole. Ma, poiché il “mare”, cioè
il mondo in cui oggi si butta l’annuncio del Regno è molto sassoso, perché difficile e inserito in un
processo di scristianizzazione, allora dovremmo forse concludere che è meglio rinunciare ad
annunciare il Vangelo?

56
IV.
LA PARABOLA DEL PADRONE GENEROSO (Mt 20,1-16)

Introduzione

In questo quarto capitolo cerchiamo di elaborare la parabola matteana del “padrone generoso”, nota
come la parabola “degli operai dell’ultima ora” (Mt 20,1-16). Già questo cambiamento di titolazione
può indirizzare la nostra attenzione al contenuto principale che cercheremo di sottolineare in varie
dimensioni: la centralità dell’infinita bontà e misericordia del Padre, tema centrale e motore di tutta la
dinamica narrativa e teologica del racconto parabolico stesso. Ad un primo sguardo superficiale e
generale, il testo potrebbe apparire povero di contenuti e di messaggi teologici ma, approfondendo il
contesto in cui esso è incorniciato all’interno dell’intero Vangelo di Matteo, si apre dinanzi al nostro
sguardo un orizzonte molto più ampio che ci permette di cogliere le tante sfumature che sono in esso
nascoste. Potremmo quasi dire che il nostro impegno è quello di andare alla ricerca del “tesoro nascosto
nel campo” (Mt 13, 44) per gustarne così la bellezza e al contempo la sua ricchezza spirituale e
culturale.

I. Analisi letteraria

I.1 Alcune problematiche preliminari

Soltanto il Vangelo di Matteo, tra i sinottici, riporta la parabola del padrone generoso, parabola sulla
cui interpretazione gli studiosi avanzano molteplici proposte. Una premessa da fare è quella relativa al
testo che prendiamo in esame: la parabola in se stessa si articola nei primi 15 versetti del capitolo 20,
ma, per poter comprendere in pienezza il messaggio del racconto, è necessario prendere in
considerazione il logion che Matteo riporta subito dopo, al v. 16.
Una prima problematica da affrontare è quella riguardante il titolo. Sembrerebbe una questione
apparentemente marginale ma, di fatto, non lo è. Infatti, in poche battute e in modo puntuale, il titolo
che si attribuisce ad una parabola, è la chiave di lettura della dinamica dell’intero racconto e del
messaggio in esso contenuto. Per questo motivo gli studiosi hanno avanzato diverse proposte: “il
padrone della vigna”130, “parabola del padrone generoso”131, “parabola della ricompensa uguale per un
lavoro disuguale”132… ma, al dire dello studioso J. Gnilka, “prevale e va preferita l’antica designazione
di parabola degli operai della vigna”133. Tuttavia non è dello stesso parere Gourges, il quale sostiene
che la denominazione classica non tiene conto del rilievo che il brano stesso dà al personaggio del
padrone: in tutte le scene le azioni degli altri personaggi sono viste in funzione del padrone della vigna,
anche quando quest’ultimo non compie azioni dirette (il momento della paga: vv. 8-11), ad esempio,
anche se vede come protagonista il fattore, tuttavia questi non fa altro che eseguire gli ordini del
padrone). Per questo motivo, il noto studioso, ritiene che siamo dinanzi allo stesso caso della parabola
di Lc 15, 11-32, “in cui l’attenzione è portata non tanto sul comportamento del figlio prodigo quanto su
quello del padre, in funzione del quale è definita tutta la dinamica del racconto”134. Il titolo più
indicato, quindi, sarebbe quello di “ parabola degli operai dal salario uguale ”135 poiché, seppure in
modo germinale, rimanda tutto all’iniziativa primaria del padrone. Non meno interessante è la proposta

130
Cfr. R. FABRIS, Matteo, Roma 1996, 429.
131
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Brescia 1967,167.
132
Cfr. J. SCHMID, L’evangelo secondo Matteo, Brescia 1972,.350.
133
Cfr. J. GNILKA, Il vangelo di Matteo(CTNT), II, Brescia 1991, 262.
134
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo,dalla sorgente alla foce, Leumann 2002, 119.
135
Ibidem.

57
che fa il noto studioso Jeremias indicando questo brano con il titolo “parabola del padrone
generoso”136: a mio avviso, questa designazione è la più appropriata poiché pone l’attenzione del
lettore su colui che è il protagonista principale dell’intera vicenda, intorno al quale si sviluppa tutta la
dinamica della racconto (piano narrativo) e il suo contenuto (piano teologico). Dopo aver presentato la
posizione di alcuni autori circa la questione della designazione della parabola, ci soffermeremo
brevemente sulla questione relativa al contesto in cui il racconto è inserito all’interno dell’intero
Vangelo secondo Matteo.

I.2 Il contesto

L’evangelista Matteo ha “incastonato” la parabola che stiamo considerando in un contesto ben


delineato e preciso, alla cui base è possibile scoprire una solida trama che intreccia abilmente il
racconto con le diverse tematiche teologiche presenti nell’intero Vangelo. In questo studio cerchiamo
di delimitare il contesto del racconto parabolico partendo inizialmente da una visione più ampia che,
tenendo presenti le tematiche teologiche, ci permette di gettare uno sguardo su tutto il Vangelo, per poi
“stringere l’obiettivo” sui brani che incorniciano il nostro testo.
Innanzitutto una prima tematica che ci permette di contestualizzare questo racconto parabolico è quella
della vigna. Infatti, il capitolo 20 di Matteo apre una “trilogia parabolica”137 (capp. 20-22), incentrata
su questo simbolo: gli operai della vigna (Mt 20, 1-16), il padre e i due figli (Mt 21,28-32) e i contadini
ribelli (Mt 22,33-41). Tale elemento, nell’AT e soprattutto nella letteratura profetica, è utilizzato per
indicare il popolo eletto (cfr. Is 5,7; Os 10,1; Ger 2,21; Ez 19,10) nel suo rapporto di fedeltà-infedeltà
all’amore di Dio. Matteo evidenzia il fatto che ora la vera vigna è Gesù, circondato di cure e mondato
dal Padre affinchè porti un frutto abbondante (Mt 15,13), il frutto della fedeltà. Ma vigna è anche la
Chiesa, il nuovo Israele, i cui membri sono in comunione con il Maestro. Tale elemento ci permette di
individuare nella sezione dei capitoli 20-22 una “tematica di transizione”: dal discorso ecclesiale (che
precede il capitolo 20) al discorso escatologico (che inizia al capitolo 23), dal nuovo Israele (la Chiesa)
al campo di azione di Dio (il Regno)138.
La tematica teologica del simbolo della vigna non è l’unica che ci permette di delineare il contesto di
Mt 20. Infatti, possiamo notare che lo scenario in cui è collocata la parabola del padrone generoso è
quello che ha come estremi di riferimento il secondo (17,22) e il terzo (20,18) annuncio della
passione139. Intrecciata con questa sezione è quella che ha come tematica l’istruzione dei discepoli e la
polemica con i capi del popolo (capp. 19-22) . È una sezione molto ampia che riporta prevalentemente
dialoghi, dibattiti e istruzioni.
Dopo il capitolo 17, infatti, Matteo presenta l’insegnamento di Gesù sul discepolato: per essere figli del
Padre come Gesù è necessario essere piccoli. Egli presenta due tipi di piccolezza: quella del discepolo e
quella del debole della comunità che deve essere cercato (Mt 18,10ss: la pecorella smarrita). Anche
l’episodio del giovane ricco, che precede immediatamente la nostra parabola, presenta l’allusione al
tema della piccolezza. Gli stessi brani che poi seguono il terzo annuncio della passione (20,17-19),
hanno come tematica centrale la modalità del discepolato (20,20-28; 20,29-34): la figura del discepolo,
così, ci rinvia anche al grande discorso ecclesiale dell’intero Vangelo.
Per quanto riguarda la disputa con le autorità religiose del popolo, un primo dibattito è presente già nel
cap. 19, in cui i farisei pongono la domanda a Gesù circa la liceità del divorzio. A questo seguono le
diatribe del cap. 21 in cui i capi dei sacerdoti pongono a Gesù l’interrogativo sulla sua autorità, e tre
parabole che costituiscono un unico blocco: la parabola dei due figli (21, 23-27), dei vignaioli omicidi
(21, 33-46) e delle nozze (22, 1-14). La narrazione parabolica dei vignaioli omicidi è indirizzata

136
Cfr. J. JEREMIAS, 167.
137
Cfr. R. FABRIS, 431. Anche lo studioso S. Grasso accoglie e sostiene questa proposta.
138
Cfr. M. F. LACAN, Vite-vigna, in X. LÉON-DUFOUR (ed.), Dizionario di Teologia Biblica, Casale Monferrato 1982,
1393-1395.
139
Cfr. M. GOURGUES, 117.

58
proprio ai sacerdoti e ai farisei, i quali dopo averla ascoltata decidono di uccidere Gesù (22, 46). A
queste tre parabole seguono nuovamente quattro dispute: con i farisei e gli erodiani circa la liceità del
pagamento del tributo a Cesare (22, 15-22), con i sadducei circa la questione della risurrezione dei
morti (22, 23-33), con l’esperto della legge mandato dai farisei a interrogare Gesù circa il
comandamento più grande (22, 34-36), con i farisei circa l’identità del Messia (22, 41-46). Questa
sezione è stata elaborata da Matteo sia con un intento polemico verso il giudaismo che non accoglie il
Messia umile, sia per educare la comunità ecclesiale a cui indirizza lo scritto, affinché i discepoli non
corrano il rischio di camminare sulla strada dell’infedeltà giudaica: in questo modo le due tematiche
(modalità del discepolato e disputa con i capi) non sono accostate tramite elementi letterari evidenti,
bensì per mezzo dell’intento dell’evangelista140.
In maniera più particolare, H. Weder, evidenzia che il filo conduttore che segue Matteo all’interno
di 20,1-16, scaturisce dalla domanda di Pietro a Gesù circa la ricompensa della sequela (Mt 19, 27)141.
Questo appare evidente se prendiamo in considerazione il termine che introduce l’intero racconto in
20,1 e che le nostre traduzioni non riportano: è presente un gar («poiché») che, nell’intenzione
dell’evangelista, rimanda il lettore a quanto Gesù ha insegnato prima ai suoi discepoli. Si tratta della
risposta del Maestro a Pietro riguardo alla ricompensa promessa a coloro che lasciano tutto per
seguirlo (19,27-30). Matteo riprende questo contesto dalla tradizione marciana adattandolo alla sua
teologia: a differenza di Mc 10,30 che presenta una ricompensa “nel presente”, egli, omettendo questo
particolare, manifesta un orientamento escatologico.
Un altro elemento importante sottolinea il legame esistente tra la nostra parabola e il brano che lo
precede: il versetto di Mt 19,30. È proprio questo “ritornello” posto alla fine del capitolo 19 («Molti
dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi») e al termine della parabola stessa in maniera rovesciata
(«Così gli ultimi saranno i primi, e i primi ultimi»), a costituire una sorta di cornice all’intero racconto:
“Queste due frasi a forma di slogan, la cui terminologia «primo» e «ultimo» viene ripresa all’interno
della parabola nella direttiva del padrone del pagamento degli operai (v. 8), costituiscono il motivo
guida del racconto” 142. In questo senso i versetti 1-15 del capitolo 20 diventano l’applicazione di
19,30: il tema della promessa fatta ai discepoli si prolunga così all’interno della parabola. Su questa
linea lo studioso Marguerat, pur condividendo con altri studiosi la relazione tra Mt 19,27-30 e Mt 20,1-
16, si distanzia circa il tema: egli non vi scorge la promessa di una ricompensa bensì un avvertimento
a non cadere nella presunzione di ritenersi i primi nel regno di Dio143.
Differente è la posizione di Gourgues, il quale sostiene che il nostro testo si relaziona a quello che lo
precede semplicemente come applicazione del tema dei primi e degli ultimi e non va collegato
direttamente alla domanda di Pietro circa la ricompensa (e quindi alla tematica che sottolinea la
modalità del discepolato) perché altrimenti la sentenza finale di Mt 20,16 come applicazione
significherebbe che gli ultimi saranno primi, cioè passeranno davanti a Pietro e gli Undici che hanno
fatto di più. Inoltre, Gourgues muove un’ulteriore osservazione. Egli nota che l’affermazione del v. 16
si trova nella stessa forma, ma in maniera isolata, in Lc 13,30: Luca non riporta il logion nella forma
presente in Mc 10,31 (i primi ultimi) forse per evitare di ripetere un logion che un’altra fonte gli
trasmetteva in forma diversa (gli ultimi primi) e che poi inserisce in 13,30? Se questa ipotesi risultasse
vera, allora Matteo, riporta entrambe le formule per cercare di unirle nell’ambito di un contesto affine.
Si tratta allora di una parola di Gesù di cui si era perduto il contesto originario e che Matteo avrebbe
posto dopo la parabola? Se questo è vero, secondo Gourgues, non è il caso di “spremere il contesto” per
ricavare il significato e il messaggio della parabola144.
140
Cfr. S. GRASSO, Il Vangelo di Matteo, 57-62.
141
Cfr. H. WEDER, Metafore del Regno, Brescia 1991, 262.
142
Cfr. S. GRASSO, 473.
143
Cfr. nota 4 in M. GOURGUES, 117.
144
Questa posizione contraddirebbe ciò che Gesù afferma in 19, 28-29: “siederete anche voi su dodici troni a giudicare le
dodici tribù di Israele”. Inoltre, se come dice Gourgues il racconto parabolico di Mt 20 non va relazionato direttamente a
Pietro ma al tema degli ultimi e dei primi, dov’è il legame tra 19,30 con quello che lo precede? Dobbiamo considerare 19,
27-30 come una parentesi di cui non tener conto? Se si considera l’attività letteraria di Matteo, possiamo scorgere nel suo

59
I.3 La struttura

Se per quanto riguarda la questione del contesto di questa parabola le problematiche sono diverse e,
come abbiamo potuto costatare, ancora disparate tra i vari studiosi, diverso è, invece, lo studio della
strutturazione del testo per la quale prenderemo in considerazione la parabola in quanto tale (vv. 1-15)
escludendo il logion del v. 16. Tuttavia più che di una strutturazione è meglio parlare di
un’articolazione della parabola: il racconto nella sua linearità narrativa, temporale e direi anche
teologica, non ci permette di rintracciare al suo interno elementi tali da poter arrivare ad una possibile
strutturazione.
La maggioranza degli esegeti ritiene che l’elemento in base al quale è possibile trovare l’articolazione
del testo è quello di ordine cronologico: «di mattino» (v. 1) e «venuta la sera» (v. 8). Le affermazioni
temporali di questi due versetti, infatti, permettono di individuare nel brano due parti:
1. Il giorno (dall’alba al tramonto) 20, 1-7
2. La sera 20, 8-15
Tuttavia Gourgues, pur difendendo la legittimità del riferimento all’elemento temporale, intuisce la
possibilità di una nuova suddivisione tenendo presente il movimento dell’azione all’interno della
dinamica narrativa. Pertanto avremo un racconto in tre momenti:
1. l’ingaggio 20, 1-7
2. la paga 20, 8-10
3. la giustificazione 20, 11-15
Questa possibilità sembra essere avvalorata e confermata se si pone l’attenzione all’intervento dei
personaggi nell’ambito dell’azione narrativa:

1. il padrone e gli operai 20, 1-7


2. il fattore e gli operai 20, 8-10
3. il padrone e gli operai 20, 11-15145

I due schemi proposti, come abbiamo potuto notare, presentano come criteri due parametri diversi: il
primo segue l’ordine cronologico che si sviluppa nell’arco di una giornata, mentre il secondo prende in
considerazione l’azione interna del racconto parabolico. Se la prima articolazione, che ha come cardini
di riferimento i due momenti della giornata, rimane ad un livello esterno all’azione narrativa, la
seconda penetra in maniera più particolareggiata nel testo, tenendo conto dell’evolversi dell’intera
vicenda narrata.

I.4 Il testo
1 “Il regno dei cieli, infatti, è simile a un padrone di casa che uscì di mattina presto per
assoldare braccianti per la sua vigna. 2 Accordatosi con i braccianti per un denaro al giorno, li
mandò nella sua vigna. 3 Uscito verso le nove, ne vide altri che stavano nella piazza inoperosi 4
e disse loro: Andate anche voi alla vigna e vi darò il giusto. Quelli andarono. 5 Uscito di nuovo
verso mezzogiorno e verso le tre del pomeriggio, fece lo stesso. 6 Verso le cinque del
pomeriggio, uscito trovò altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il
giorno inoperosi? 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha assoldati. E lui: Andate anche voi alla
vigna.

vangelo una certa linearità e chiarezza: Matteo dà unità letteraria a raccolte di sentenze e insegnamenti diversi collegandoli
insieme mediante parole-gancio: egli sistema il tutto attraverso 5 discorsi. Non esiste tra loro nessuna connessione?
L’evangelista è semplicemente un raccoglitore di materiale, oppure nella sistematizzazione di quest’ultimo segue un intento
teologico ben preciso?
145
Cfr. M GOURGUES, 118.

60
8 Venuta la sera, il padrone della vigna dice al suo fattore: Chiama i braccianti e dá loro il
salario, cominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio,
ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando vennero i primi, pensarono che avrebbero ricevuto
di più, ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro.

11Ricevendolo mormoravano contro il padrone di casa dicendo: 12 Questi ultimi hanno fatto
un’ora sola e li hai considerati uguali a noi che abbiamo sopportato il peso della giornata e il
caldo. 13 Quello, rivolgendosi a uno di loro, disse: Amico, non ti sto trattando ingiustamente.
Non ti eri accordato con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a
quest’ultimo quanto a te. 15 Non mi è lecito fare delle mie cose quello che voglio? O il tuo
occhio è cattivo perché io sono buono? 16 Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.

Da un punto di vista testuale questa parabola non presenta al suo interno nessun elemento che ci
permette di riscontrare ritocchi redazionali146. Tuttavia, è da notare, che diversi manoscritti antichi
presentano un’aggiunta ulteriore al v. 16: «perché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti».
Quest’attestazione, tuttavia, manca nei manoscritti di maggior interesse per lo studio della critica
testuale: probabilmente si tratta di una ripresa di Mt 22,14 tipica degli ambienti ecclesiastici del
secondo secolo147.

I.5 Analisi esegetica148

v. 1:
Il regno dei cieli, infatti, è simile a un padrone di casa che uscì di mattina presto per assoldare
braccianti per la sua vigna.

“ Il regno dei cieli è simile… ”: come già notato sopra, la traduzione CEI non riporta il termine gar
(«poiché»). Questa congiunzione da un punto di vista tematico permette di precisare il contesto in cui è
inserito il racconto parabolico che stiamo esaminando. Siamo di fronte ad un tipico dativo d’inizio:
nelle parabole di Gesù è presente quando il racconto costituisce una risposta ad una domanda
precedente (elemento che avvalora quanto detto a proposito del contesto).
L’espressione “è simile” è una contrazione dell’espressione più corretta «la cosa sta nei riguardi
di…come con…»: in tal senso il Regno non è paragonato al padrone, alla vigna o ai lavoratori ma trova
analogia con la resa dei conti: qui è concepito in senso escatologico, come di solito avviene nella
predicazione di Gesù.
Ama proi sta per “al levar del sole”.
“… padrone di casa… ”: il ruolo primario e centrale del padrone è messo in evidenza dal fatto che otto
dei dieci verbi all’indicativo contenuti nei vv. 1-7 si riferiscono a lui. I due verbi rimanenti, apelthon e
legousin, sebbene hanno come soggetto gli operai, si tratta in tutte e due i casi di un'azione in risposta a
quella del padrone che sempre prende l'iniziativa. Qui è chiaro il riferimento a Dio al quale appartiene
il Regno e l’iniziativa della chiamata.
“ uscì ”: quest’azione del padrone è sottolineata ben cinque volte: l’azione è sempre la stessa, cambiano
solo le circostanze di tempo. Infatti, il padrone esce (è usato quattro volte il verbo exerchomai) a
intervalli regolari dall’alba fino al crepuscolo. Ogni volta trova dei disoccupati e li manda nella sua
vigna.

146
Cfr. WEDER, 262.
147
Cfr. nota n. 41 di WEDER, 262.
148
Per l’analisi esegetica: cfr. J.-M. LAGRANGE, Saint Matthieu, Parigi 1927, ad locum; A. LANCELLOTTI, Matteo,
(NVB, 33), Roma 1975; J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Brescia 1967.

61
“ per prendere a giornata lavoratori ”: gli uomini che erano senza lavoro, il lunedì si raggruppavano
tutti presso una piazza comune di Gerusalemme attendendo che qualcuno li assumesse per tutta la
settimana, come era usanza allora: la retribuzione era giornaliera. Nel caso della parabola in questione,
il tempo è ristretto ad una sola giornata.
“ vigna ”: questa immagine è tipica delle regioni montagnose di Giuda ed è usata nell’AT per designare
il popolo eletto (cfr. Is 1,8; 5,1). Tuttavia non bisogna fermarsi a questo simbolismo. Infatti,
l’evangelista introducendo questa icona rimanda il lettore ad una “necessità lavorativa”, se così si può
dire: la vigna necessita un lavoro fatto in fretta poiché bisogna terminare la vendemmia prima che la
stagione delle piogge arrivi con le sue notti fresche.

v. 2:
Accordatosi con i braccianti per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.

“… per un denaro al giorno ”: il verbo symphoneo è il termine tecnico usato per i contratti di lavoro e
vendita, anche presso le antiche civiltà vicine a Israele.
Ten hemeran ha senso distributivo. Un denaro era la paga normale di una giornata lavorativa (cfr. Tb
5,15).
v. 3:
Uscito verso le nove, ne vide altri che stavano nella piazza inoperosi

“ Uscito “: è la seconda uscita.


“… verso le nove del mattino …”: trites oran, letteralmente sarebbe l’ora terza. In Oriente la giornata
lavorativa iniziava con il sorgere del sole fino all’apparizione delle prime stelle e veniva computata
nominalmente di 12 ore. Qui, l’invio degli operai nei diversi momenti della giornata ha semplicemente
lo scopo di mettere in risalto l’ineguaglianza delle loro prestazioni, a cui il padrone attribuirà uguale
ricompensa.

v. 4:
e disse loro: Andate anche voi alla vigna e vi darò il giusto. Quelli andarono.

“…Andate anche voi nella mia vigna… ”: non ci sono discussioni e i lavoratori accettano la proposta
senza contrattare la paga immaginando che avranno una paga rapportata alle ore lavorative che
svolgeranno (dikaion “ vi darò il giusto”) e quindi, nel loro caso, corrispondente a una somma inferiore
ad un denaro. È da notare che, di volta in volta, il contratto diventa sempre meno preciso.
v. 5:
Uscito di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre del pomeriggio, fece lo stesso.

“…Uscì di nuovo …”: è la terza uscita.


“… fece altrettanto …”: epoiesen hosautos è una formula tipica dell’evangelista Matteo (cfr. 21,36)
poiché non ha riscontri in Luca e Marco. Questo fatto, come altri elementi dello stile e del vocabolario
usato, dimostrerebbero che Matteo ha ricevuto questa parabola dalla tradizione e l’ha riscritta.

v. 6:
Verso le cinque del pomeriggio, uscito trovò altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state
qui tutto il giorno inoperosi?
“…Uscito…”: è la quarta uscita che sottolinea ulteriormente la necessità di terminare il lavoro al più
presto. Lo studioso Lancellotti, invece, sostiene che questa uscita non è motivata da una necessità bensì
mette in evidenza la bontà del padrone149.

149
Cfr. A. LANCELLOTTI, 270.

62
“ verso le cinque ”: questa chiamata sembra inverosimile150.
“… Perché ve ne state qui tutto il giorno inoperosi?…”: tale domanda non esprime meraviglia bensì
rimprovero.

v. 7: .
Gli risposero: Perché nessuno ci ha assoldati. E lui: Andate anche voi alla vigna.

“… Perché nessuno ci ha assoldati...”: pigre scuse che indicano una indifferenza tipicamente orientale.
Se l’elezione di Israele sembrava escludere dalla salvezza i popoli pagani, con l’avvento dei tempi
nuovi Dio vi pone rimedio.

v. 8:
Venuta la sera, il padrone della vigna dice al suo fattore: Chiama i braccianti e dá loro il salario,
cominciando dagli ultimi fino ai primi.

“…Venuta la sera…”: secondo la Legge, la paga dell’operaio doveva essere corrisposta la sera stessa
(cfr. Dt 24,15)
“…il padrone della vigna…”: mentre al primo versetto viene definito come padrone “di casa”, in
questo punto è appellato come “signore della vigna” (kurios tou ampelonos): sebbene l’appellativo
kyrios sia un termine che può riferirsi ad ogni uomo e che non ha una pretesa teologica, tuttavia appare
importante questa sottolineatura.
“…dice al suo fattore…”: in questo momento, diversamente da come avvenuto finora, il padrone non
agisce direttamente nelle sue azioni.
“… Chiama i braccianti e da loro il salario, cominciando dagli ultimi fino ai primi…”: la particolarità
di questa decisione non vuole sottolineare il fatto che la retribuzione inizi dagli ultimi operai assoldati,
ma nel dare a tutti la stessa paga. Da un punto di vista narrativo questo fatto è molto importante perché
la presenza dei primi operai alla paga serale degli ultimi assoldati, costituisce l’argomento in base al
quale i primi potranno lamentarsi della apparente ingiustizia loro fatta. Inoltre, il motivo stesso che essi
vengano pagati nel senso inverso del loro ingaggio ha un chiaro scopo didattico: risaltare il
capovolgimento delle situazioni, già annunciato in 19,30.
Apodos tov miston: “ paga il salario (completo) ”.
Arxamenos: potrebbe significare “compresi”151.

vv. 9-11:

9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando vennero i
primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più, ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro.
11Ricevendolo mormoravano contro il padrone di casa dicendo:
“…mormoravano…”: il padrone si dimostra generoso, ma il suo modo di agire suscita le lagnanze dei
primi lavoratori che, da un punto di vista umano e lavorativo, sono giustificabili.

v. 12:
Questi ultimi hanno fatto un’ora sola e li hai considerati uguali a noi che abbiamo sopportato il peso
della giornata e il caldo.

150
Cfr. A. POPPI, I Quattro Vangeli. Commento sinottico, Padova 1997, 192.
151
Weder non è dello stesso parere di Jeremias perché non corrispondente al testo che cita esplicitamente i primi. È una
necessità narrativa che permette di comprendere la reazione dei primi che vengono pagati alla fine.

63
I primi lavoratori si lamentano perché hanno subito una doppia ingiustizia. Infatti, hanno lavorato per
più ore e sotto il calore dello scirocco a differenza degli ultimi operai che hanno lavorato solo un’ora e
al fresco: la durata e la pesantezza del lavoro dà loro il diritto ad una paga superiore. Sul piano
teologico sottolinea il fatto che il comportamento di Cristo urta contro il dogma dell’elezione e della
sua superiorità d’Israele sugli altri popoli .

v. 13:
Quello, rivolgendosi a uno di loro, disse: Amico, non ti sto trattando ingiustamente. Non ti eri
accordato con me per un denaro?
Il termine etaire di solito è usato per chiamare persone di cui non si conosce il nome e assume in
Matteo una sfumatura di rimprovero pur rimanendo un appellativo pieno di bontà. Nel corso del primo
vangelo, questa parola viene solitamente rivolta a persone che hanno compiuto qualcosa di sbagliato
(cfr. 22,12; 26,50).

v. 14 :
Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te.

“… Prendi il tuo e vattene …”: hypaghe non ha una connotazione di cattiveria ma semplicemente invita
l’operaio a non cercare più nulla.
“…ma io voglio…”: la retribuzione scaturisce dalla libera decisione del padrone.

v. 15:
Non mi è lecito fare delle mie cose quello che voglio? O il tuo occhio è cattivo perché io sono buono?

“…Non posso fare delle mie cose quello che voglio?…”: en tois hemois deve essere tradotto in senso
strumentale e quindi come “con quel che è mio”152.
“ …O il tuo occhio è cattivo…”: secondo la mentalità semitica questa espressione sottolinea le
intenzioni del cuore cattivo che si manifestano negli occhi. Spesso si traduce con “invidia”, termine che
non esprime appieno l’atteggiamento a cui si riferisce la parabola: non si tratta di un sentimento
immotivato dell’uomo, condannabile moralmente, ma di un malumore oggettivo fondato, che si basa
sulla riflessione razionale dei primi operai. Pertanto la traduzione letterale rimane la migliore.
“… perché io sono buono?…”: poiché l’intervento del padrone è un atto di libera volontà, la bontà a
cui si riferisce Matteo non va intesa come compassione.

v. 16:
Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”.

Come abbiamo già notato, tale versetto richiama 19,30 seppure in maniera rovesciata. È un proverbio
noto anche nel giudaismo: per questo è più volte riportato dagli evangelisti, sebbene in contesti diversi
(Mc 10,30; Lc13,30). Nel contesto matteano, esso funge da applicazione dell’intera parabola: è da
notare che, a questo punto, l’attenzione del lettore, a differenza dell’intero testo, viene orientata alla
figura degli operai. Questo spostamento non coinvolge solo il piano narrativo, bensì ha un chiaro
intento teologico. Infatti, l’intero testo diventa una parabola del giudizio e della retribuzione
escatologica153, spostando l’accento dal presente al futuro. Riprendendo l’enunciato di Mt 19,30 che
concludeva l’episodio sulla ricompensa promessa ai discepoli (la rinuncia del discepolo che si fa’
ultimo, meriterà il primo posto nel giudizio escatologico ), il detto orienta sulla stessa linea: quando il
“Figlio dell’uomo” separerà “le pecore dai capri” (cfr. Mt 25), gli ultimi saranno i primi e viceversa.

152
Questa interpretazione è accettata anche da Weder ma Jeremias sostiene che se avesse senso strumentale avremmo
trovato ek tōn hēmōn.
153
Cfr. M. GOURGUES, 131.

64
Tuttavia, l’evangelista non si preoccupa di offrire una identificazione su chi sono i primi e gli ultimi: il
contesto induce a pensare ai piccoli. Si potrebbe pensare anche al valore simbolico della vigna. Infatti
quest’ultima immagine consente anche il riferimento ai discepoli e alla chiesa, perché ad essa ora è
assegnata la vigna (21,43). Tuttavia non dobbiamo forzare l’immagine poiché probabilmente
l’agiografo vuole semplicemente presentare la realtà del giudizio escatologico.
Se come abbiamo detto a proposito del contesto, la parabola acquista una dimensione ecclesiale ed
escatologica, possiamo affermare che Mt 19,30 aggancia il testo al discorso ecclesiale che lo precede
(pur tuttavia aprendo una dimensione escatologica), mentre Mt 20,16 lo unisce al discorso escatologico
dei capitoli successivi154.

I.6 Paralleli extra-biblici

Sorprendente è notare come nella letteratura rabbinica sia presente un racconto, trasmessoci dal Talmud
di Gerusalemme, in cui è possibile notare un forte contatto con la narrazione parabolica di Mt 20.
Questo testo gerosolimitano, infatti, riporta la seguente storia: “Un eccellente dottore della legge, Rabbi
Bun bar Hijja, morì in giovane età verso il 325 d.C, nel giorno stesso in cui nasceva suo figlio, il futuro
Rabbi Bun 11. I suoi vecchi maestri, diventati, poi, suoi colleghi, si raccolsero per tributargli le estreme
onoranze. Uno di essi, Rabbi Ze'era, tenne l'orazione funebre sotto la veste di una parabola. Un re, così
cominciò, assoldò un gran numero di operai. Due ore dopo l'inizio del lavoro, venne a visitare gli
operai. Vide allora che uno degli operai si distingueva sopra tutti gli altri per la sua diligenza e abilità.
Lo prese per mano e passeggiò con lui qua e là fino a sera. Quando i lavoratori vennero a ricevere il
loro salario, quegli ottenne la stessa paga degli altri. Allora si misero a mormorare e a dire: noi abbiamo
lavorato tutto il giorno e questi soltanto due ore; tuttavia tu gli hai dato il salario intero! E il re di ri-
mando: Io non vi faccio ingiustizia, perché quest'operaio ha fatto in due ore lo stesso lavoro che voi
avete compiuto in un giorno. Allo stesso modo, così concludeva l'orazione funebre, Rabbi Bun bar
Hijja in soli 28 anni ha fatto più di molti altri dottori della Legge in cento anni”155.
Dopo la lettura di questo testo talmudico appare evidente, e quasi sorprendente, notare l’affinità
esistente con la parabola del padrone generoso trasmessaci dal primo vangelo. Un primo interrogativo
che sorge spontaneo è quello che riguarda l’esistenza di una possibile relazione o addirittura
dipendenza tra i due testi presi in esame. È il maestro di Nazareth che ha utilizzato una “parabola” già
esistente nella tradizione giudaica trasformandola in quella di cui siamo in possesso? Oppure, si
potrebbe azzardare l’ipotesi che il rabbi Ze’era abbia utilizzato la parabola di Gesù, senza conoscerne la
provenienza?
Nel suo studio, Jeremias ritiene che la priorità spetta a Gesù per diversi motivi156; a questi facciamo
seguire alcune riflessioni personali per cercare di formulare delle ipotesi probabili e plausibili.
Secondo il noto studioso, un’iniziale motivo, se vogliamo anche scontato e superfluo, è il dato storico:
il rabbi cui fa’ riferimento il testo del Talmud è vissuto ben 300 anni dopo il Cristo. Ma questo, seppur
è un dato certo e incontestabile, rimane tuttavia un elemento che non dà ragione all’affermazione
sostenuta poco sopra.
Un’ulteriore motivo è il seguente: la parabola talmudica riporta alcuni elementi secondari (il
personaggio principale intorno al quale è costruita la narrazione non è il padrone della vigna bensì un
re) che la rendono anche poco verosimile (il re passeggia con l’operaio per ben dieci ore): dato questo
che si distanzia molto dalla realtà delle parabole riportate dai Vangeli, i quali seppure presentano
alcune realtà paradossali che ribaltano la logica umana, tuttavia esse conservano il loro carattere di
verosomiglianza. Ma l’argomento che più di tutti apporta una prova, secondo Jeremias, della priorità

154
Gourgues ritiene che la connessione tra Mt 20 con ciò che lo precede e ciò che lo succede non è data dal contenuto, ma
solamente tramite l’affermazione sui primi egli ultimi.
155
Cfr. J.JEREMIAS, 169s.
156
IBIDEM.

65
gesuologica157, è il fatto che la reazione degli operai trova spiegazione solamente nello sviluppo
narrativo della parabola con la quale Gesù vuole illustrare un determinato messaggio. Sebbene il piano
narrativo è molto simile nelle due versioni, tuttavia vi è un punto fondamentale che li differisce
essenzialmente. Nel documento rabbinico l'operaio che ha lavorato per poco tempo, ha prodotto più
degli altri, meritandosi quindi la paga intera: il racconto così ha lo scopo di evidenziare il fatto che
l’impegno e la produttività sono ricompensati. Nella parabola matteana, al contrario, si vuole
sottolineare il fatto che se gli ultimi che hanno lavorato solo un’ora hanno ricevuto il salario completo è
grazie alla bontà del padrone. Così è chiara la logica di due modi di vedere e fare le cose
completamente diversi e contrastanti: nel racconto del Talmud ciò che conta è il merito, in Mt 20 la
grazia: da una parte la Legge, dall'altra l'Evangelo.
A questi rilievi di Jeremias si potrebbero, come già accennato sopra, affiancare alcune possibili ipotesi
che sorgono legittimamente. È da escludere la dipendenza della parabola evangelica da quella rabbinica
per la evidente distanza storica, mentre rimangono alcune domande sul collegamento tra il testo
evangelico e la successiva fonte rabbinica. È possibile che un racconto sia circolato nell’ambiente
giudaico provenendo da una fonte cristiana anonima e sussistendo, seppur con modifiche, in
concomitanza con essa, visto che ormai nel IV secolo la rottura tra giudaismo e cristianesimo era un
dato già certo? Sarebbe plausibile ipotizzare che le due versioni abbiano avuto una fonte comune della
tradizione giudaica precristiana, che poi sia il maestro di Galilea che il rabbino di cui parla il testo
gerosolimitano hanno adattato al proprio contesto, pubblico e fine.

I.7 Interpretazione patristica

Per quanto riguarda questo tema prenderemo in esame semplicemente il pensiero di due autori
dell’epoca patristica, uno proveniente dall’ambiente occidentale ed uno da quello orientale. È chiaro
che nella lettura dei commenti di questi grandi personaggi non è da riscontrare una finalità di studio
eminentemente esegetico bensì una riflessione che aveva scopi catechetici e pastorali.
Il primo autore che prenderemo in considerazione è Gregorio Magno158. Nella sua omelia XIX
trattando di questa parabola non pone direttamente la sua attenzione sui personaggi di cui parla il testo,
bensì elabora un parallelo tra il dato temporale che scandisce l’intera narrazione con le ore della
chiamata divina.
Una prima applicazione di questa chiave di lettura, riguarda la possibile comparazione tra il popolo
dell’antica alleanza e il nuovo popolo. Infatti, egli ritiene che gli operai assoldati nelle ore meridiane
indicano l’antico popolo ebraico che fin dagli inizi del mondo ha onorato il suo Dio impiegando tutte le
sue forze nel coltivare la sua vigna, mentre l’operaio chiamato per ultimo all’undicesima ora
indicherebbe la chiamata dei pagani, che per molto tempo non hanno lavorato per la propria esistenza
standosene “tutto il giorno oziosi” (v. 6). Ciò che reca particolare inquietudine al grande papa, è la
risposta che l’operaio, e quindi i pagani, rivolge al padrone: “ Perché nessuno ci ha assoldati ” (v. 7).
Questo diventa così per ogni pastore e per l’intera Chiesa un monito al dovere della predicazione:
nessuno ha predicato la via della salvezza ai pagani.
La seconda applicazione viene vista, invece, in relazione al singolo uomo e alle sue fasi di crescita. Ad
ogni ora del giorno viene fatto corrispondere un momento particolare della esistenza umana: il mattino
è la puerizia, l’ora terza l’adolescenza, l’ora sesta la gioventù, l’ora nona la maturità, l’undicesima ora
la vecchiaia. Ogni persona così è simboleggiata dai lavoratori assoldati nelle diverse “ore” della vita:
per ogni uomo la chiamata a lavorare nella vigna del Signore è imprevedibile e non giunge
necessariamente nell’età della fanciullezza.
Particolare attenzione viene posta all’operaio dell’ultima ora, poiché diventa motivo per sottolineare
ulteriormente la bontà paziente e misericordiosa del Signore, che non si stanca di chiamare l’uomo fino

157
In riferimento a questa parabola Jeremias, a differenza delle altre, non ne studia la possibile origine gesuologica ma
possiamo supporre che dal suo modo di porsi nei suoi confronti, possa essere considerato come un dato certo.
158
Cfr. GREGORIO MAGNO, Hom. XIX, PL 76, 1510-1514.

66
all’ultimo momento della sua vita. Lo stesso ladrone fu accolto da Gesù nel paradiso, ancor prima di
Pietro che fu chiamato sin dagli inizi della vita ministeriale del Messia.
Passiamo ora ad analizzare la interpretazione Giovanni Crisostomo159. Prima di commentare la
parabola il nostro autore si interroga circa la finalità della parabola: essa è stata composta al fine di
incoraggiare gli uomini che si sono convertiti e hanno cambiato vita in età avanzata per evitare che si
ritengano inferiori e per quelli che si sono convertiti in giovane età affinché non si insuperbiscano e
non insultino gli ultimi arrivati. È interessante notare che, a differenza di Gregorio Magno, Giovanni
sottolinea il fatto che l’iniziativa di Dio avviene in un momento puntuale e in maniera da conservare il
primato dell’azione divina: il Signore ha chiamato tutti gli uomini nella prima ora. La diversità delle
ore non dipende quindi dalle diverse uscite del padrone bensì dalla risposta dell’uomo: se Dio ha
chiamato tutti la prima ora, non tutti gli uomini hanno risposto prontamente in quel medesimo istante
ma nel momento in cui sono pronti ad ascoltare la voce del Maestro. A conferma di ciò, il Crisostomo
sottolinea il fatto che il padrone esce di buon mattino da casa al fine di assoldare lavoratori. A questa
argomentazione aggiunge l’esempio dell’apostolo Paolo, convertito al cristianesimo nel momento in
cui egli era pronto ad obbedirgli.
Aggiungiamo a questi riferimenti più teologici e pastorali, una particolarità testuale degna di
attenzione. Abbiamo accennato sopra a riguardo del testo strutturato, che alcuni manoscritti di minore
importanza riportano alla fine del v. 16 l’espressione “molti saranno i chiamati ma pochi gli eletti”.
Ebbene, entrambi questi autori hanno come riferimento testi che hanno trasmesso questa aggiunta.
Infatti nei commenti a questa parabola entrambi i padri fanno riferimento al logion in questione;
addirittura il Crisostomo mostra in maniera evidente questo riferimento. Nel suo commento riportando
il v. 16 per intero leggiamo: “i primi saranno ultimi e gli ultimi primi e molti saranno i chiamati e
pochi gli eletti”.

II. Analisi teologica

II.1 Motivi dominanti

L’approfondimento esegetico ci permette di cogliere alcuni motivi teologici che emergono dall’analisi
del contesto matteano e più specificamente dallo studio di questa singolare parabola. Individuiamo
cinque motivi teologici:

a) Il tema della retribuzione

Il momento narrativo finale della parabola di Mt 20, che coincide con l’ora vespertina della giornata
lavorativa, presenta la paga degli operai da parte del padrone. Questo elemento narrativo,
apparentemente irrilevante, orienta la nostra attenzione e la nostra riflessione, ad un tema teologico e al
contempo antropologico che interessa l’essenza del rapporto religioso di ogni uomo con Dio: è il
famoso rapporto tra le opere di Dio e quelle dell’uomo, tra la grazia e la natura, tra la libertà di Dio e
quella dell’uomo. In termini più teologici la parabola, quindi, ci riporta alla dottrina della retribuzione.
Come abbiamo detto sopra, a proposito del contesto della parabola, il racconto di Mt 20 si colloca,
all’interno dell’intero vangelo, nella sezione riguardante la disputa con i capi del popolo e in particolare
i farisei. Il modo di agire del Maestro di Nazareth mette seriamente in crisi la mentalità legalista
farisaica: la vita di Gesù, icona della generosità e della gratuità del Padre, è tutta impegnata alla ricerca
dei derelitti della società, delle “pecore disperse d’Israele”, di coloro che non rientrano nella categoria
dei puri e che sono catalogati dalla mentalità “benpensante” dei farisei come peccatori e pubblicani. È
la logica di Dio che si scontra con la logica umana. La vita stessa di Cristo è tutta orientata alla ricerca
degli ultimi affinché diventino i primi nel Regno, già presente nella sua persona. Da qui la dialettica

159
Cfr. G. CRISOSTOMO, In Matthaeum, Homil 64,3, in PG, 58.

67
«primi/ultimi» che viene annunciata nell’intero capitolo 19 e dopo la parabola, culmina con la
dichiarazione kerigmatica (Mt 20,17-19): Gesù è rifiutato da chi non accetta la rivelazione dell’amore
del Padre, che si rivolge a tutti gli uomini, anche agli ultimi affinché diventino i primi a partecipare
della bontà stessa di Dio.
Per comprendere appieno il messaggio e la novità della predicazione di Gesù si richiede agli ascoltatori
del tempo, ma anche ai lettori di ogni epoca, un atteggiamento di disponibilità. Possiamo così rilevare,
l’esigenza di una duplice conversione: una teologica e una morale. La prima investe la sfera del sapere
teologico: alla religione contrattuale sottolineata soprattutto dalla teologia farisaica, Gesù contrappone
la gratuità della salvezza, del perdono e del Regno che non è condotta arbitrariamente o ingiustamente
ma è il comportamento di un padre amoroso che va incontro a chiunque lo cerca con un “cambiamento
di mentalità” sincera. Conseguenza della conversione teologica è quella morale: dalla chiusura
all’accettazione del fratello e dall’autosufficienza farisaica che vede la salvezza come qualcosa di
dovuto per le opere buone, alla misericordia propria di Dio che oltrepassa ogni giustizia umana. Infatti i
doni di Dio, la sua grazia, il suo invito alla fede e l’ingresso nel suo Regno sono sempre immeritati e
unicamente effetto della sua generosità. Lo stesso Lutero prende in riferimento questo passo del
Vangelo di Matteo per illustrare la sua dottrina della giustificazione in cui si sottolinea la libera e
gratuita donazione di Dio contro ogni pretesa di salvezza da parte delle sole forze umane160.

b) La storia come «storia della salvezza»

L’interpretazione patristica ha cercato di delineare una lettura allegorica della parabola del padrone
generoso, volta a identificare le diverse ore della giornata con le diverse epoche della storia personale
di ogni uomo, di ogni comunità e potremmo dire dell’intera storia del genere umano. Abbiamo visto,
soprattutto nel pensiero di Gregorio Magno, le diverse chiamate di Dio a partire dal popolo ebraico fino
alla chiamata dei pagani nell’ultima ora: il passaggio dal vecchio al Nuovo Israele (la Chiesa), tema
molto caro all’evangelista Matteo (cfr. 21,40. 43).
Seppure i padri presentino una lettura allegorizzante che si distacca dalla finalità del nostro studio,
tuttavia possono darci dei suggerimenti sull’interpretazione che l’evangelista Matteo fa della storia. Nel
contesto narrativo di Mt 20 possiamo certamente identificare l’arco della giornata con lo scorrere del
tempo cadenzato dalla puntualizzazione delle ore come il tempo di Dio, in cui la sua azione è il centro
di ogni momento (ricordiamo a tal proposito che tutta la parabola è incentrata sulle azioni del padrone).
Una particolarità letteraria ci permette di delineare l’atteggiamento fondamentale del Padre: la
sottolineatura insistente dell’uscita del padrone della vigna. Questa continua uscita evoca su un piano
teologico l’insistenza, e direi quasi l’ansia, del Padre che vuole coinvolgere l’uomo nella sua storia, far
coincidere la sua storia con quella dell’umanità: Dio vuole prendere parte alla realtà umana al fine di
far partecipare l’uomo alla realtà divina del Regno. Non è una forzatura perché basta pensare al fatto
che il padrone della vigna esce a chiamare operai anche all’undicesima ora, un’ora prima del tramonto:
tutto è mosso da un’urgenza. Sul piano narrativo l’urgenza è data dal fatto che bisogna terminare la
vendemmia prima della stagione delle piogge, sul piano teologico è “l’urgenza” di far entrare e lavorare
per la sua vigna, per il Regno, per la Chiesa e dunque per la salvezza, ogni uomo. Il tempo di Dio
coincide così con il tempo della Chiesa: le uscite del padrone sono riferite all’ingaggio per il lavoro
nella vigna. Fino all’ultimo momento a ogni uomo è proposto l’annuncio e l’invito della salvezza,
anche nel momento finale, anche nel momento più impensabile: il Padre ha ordinato l’intera storia
dell’uomo ad un unico fine cioè la salvezza in Cristo nella vita del Regno. Un altro elemento letterario
ci permette di fare un’ulteriore riflessione. Abbiamo detto che il testo parabolico di Mt 20 non presenta
una strutturazione vera e propria: non sono presenti figure chiastiche che elaborano il testo in un
movimento circolare. Al contrario tutto il racconto segue un ordine temporale lineare scandito dalle
diverse ore del giorno. È la concezione tipica del cristianesimo che legge la storia e il suo trascorrere

160
Cfr. J. GNILKA, 273.

68
nel tempo non secondo una dimensione circolare, tipica del pensiero greco, ma lineare: la storia del
mondo e della vita dell’uomo ha il suo inizio in Dio nella creazione (l’alba) e avrà una sua
ricapitolazione in Dio al momento del giudizio e dell’entrata nel Regno (il momento della paga serale).
Certamente l’intento della parabola non è quello di delineare una teologia del tempo né tanto meno di
presentare il pensiero teologico cristiano della dimensione temporale della vita umana, tuttavia non la
contraddice, anzi ne presenta i punti cardine: la prima chiamata all’inizio della giornata (inizio del
tempo salvifico) e la paga vespertina (la verità dell’escaton).

c) Il tema del Regno dei cieli in Matteo e la sua dinamica divino-umana

Nei sinottici il tema del Regno è il nucleo fondamentale della predicazione di Gesù. Anche in Matteo,
quindi, questa tematica appare centrale nella teologia dell’intero Vangelo: Gesù è la realizzazione del
Regno di Dio nella storia, è il compimento delle promesse antiche (il Vangelo di Matteo riporta molte
citazioni veterotestamentarie per indicare in Gesù la realizzazione della Scrittura). È da notare subito
che tale argomento si riallaccia anche a quanto detto prima riguardo al concetto di retribuzione.
Nell’analisi del contesto abbiamo visto come la parabola sia posta dall’agiografo nella sezione
riguardante l’insegnamento di Gesù ai suoi discepoli. Istruzione questa che riguarda anche il rapporto
di ogni uomo che si pone alla sequela di Cristo con il Regno. Infatti, alla domanda di Pietro relativa alla
ricompensa destinata a coloro che hanno lasciato ogni sicurezza per seguire Gesù (19,28), il Maestro
ribadisce la certezza di un premio nel Regno del Padre aprendo così lo sguardo dell’uomo verso
l’escaton, portandolo a vivere la propria storia personale in vista di una realtà futura. Ora, però, se da
un lato il racconto parabolico del padrone generoso ribadisce tale realtà, dall’altro pone in guardia ogni
uomo: il Regno dei cieli è riservato a coloro che accolgono la chiamata del padrone a lavorare nella
vigna del mondo e della Chiesa, cioè a tutti coloro che attendono e desiderano tale realtà, come quei
uomini che attendono tutto il giorno qualcuno che l’ingaggiasse per il lavoro. Ritorna così il rapporto
tra la bontà e la grazia di Dio e la collaborazione dell’uomo. Il Regno non si “merita” in base a un
rapporto di giustizia umana secondo la quale a ciascuno viene dato in base alla propria prestazione, ma
in base alle categorie sconvolgenti della logica divina, essenzialmente basata sull’amore, la bontà e la
misericordia. Così anche questo tema riporta la nostra attenzione alla bontà infinita del padrone della
vigna. Il Regno è dono del Padre ai suoi figli, ma tuttavia non si esclude la collaborazione dell’uomo
all’instaurazione del Regno su questa terra. Il Regno è già presente e anticipato nel suo principio
attraverso l’opera del Figlio ma tuttavia il suo fine deve essere ancora raggiunto. La prima parola e
l’ultima sul Regno appartengono sempre all’amore smisurato del Padre: l’uomo si inserisce nel mezzo,
disponendo il proprio cuore con la vigilanza per rispondere alla chiamata del padrone e inserendosi
nella tensione verso la realtà non ancora realizzata pienamente.

d) Il tema escatologico-giudiziale

La dinamica narrativa di questo testo preannuncia già quello che è il tema principale del quinto
discorso del Vangelo di Mt (capp.24-25) che ha come tematica centrale l’escatologia. Ciò che è
importante sottolineare è il fatto che l’evangelista non vuole fare una previsione di quelle che sono le
realtà ultime e della modalità con cui esse si riveleranno ma piuttosto mette in evidenza quelli che sono
gli atteggiamenti necessari richiesti ad ogni uomo affinché possa essere un vero discepolo di Cristo. La
paga serale (20, 8ss) certamente porta il nostro pensiero all’imbrunire della vita di ogni uomo ma ancor
di più a quello della storia dell’intera umanità, chiamata al grande incontro finale con il Signore della
storia. Matteo, tra i sinottici, è colui che tende maggiormente a sottolineare quella che è la dimensione
escatologico-giudiziale del messaggio cristiano ma non per creare una sorta di timore nei discepoli,
anzi per far fiorire nel cuore dei cristiani un atteggiamento fondamentale dell’intera esistenza dei figli
del Padre: quello dell’attesa e della vigilanza. Gli operai dell’ultima ora (20, 6s) diventano così il
prototipo dell’attesa e della vigilanza cristiana. Infatti da un confronto con la realtà quotidiana nessun

69
operaio attende una proposta di lavoro fino alla sera e per di più fino ad un’ora prima della fine della
giornata lavorativa. Questo elemento, realmente impossibile, ci fa scoprire ancora una volta la dinamica
eccezionale dell’azione di Dio e del cristiano al contempo: il Padre esce a chiamare l’uomo fino alla
sera e dall’altro lato il cristiano attende la sua venuta senza disperare ma con pazienza e vigilanza.
L’incontro ultimo rivela pienamente l’identità vera del Signore, il cui atteggiamento e la cui essenza e
quella dell’amore. L’amore, unico sentimento che muove ogni atto e giudizio di Dio si oppone a ogni
pretesa farisaica di “giustizia sociale” calcolata: egli vuole che tutti gli uomini siano primi nel Regno.
Inoltre il pagare chi ha lavorato un’ora sola come chi ha lavorato tutta la giornata rivela sempre la
preoccupazione per gli ultimi, il fatto che Gesù è venuto per salvare ciò che è perduto (10, 6), come già
l’evangelista ha fatto notare a proposito della parabola della pecora perduta (18, 10ss).

e) Il ruolo missionario della Chiesa

I discepoli di Cristo sono chiamati a vivere nel mondo nella costante imitazione del Padre celeste (5,
48): per questo l’intera comunità dei discepoli, la ekklesia, il nuovo Israele (cfr. 21,40. 43), trova
nell’atteggiamento del padrone generoso il typos, l’icona del proprio agire nel mondo e dunque in
ultima analisi il modello della missione. Sicuramente l’accento posto sulle incessanti uscite del padrone
(vv. 1. 3. 5. 6.) oltre a rivelare la costante e continua attenzione all’uomo, rivela alla Chiesa la necessità
e la primarietà dell’annuncio ad gentes. La comunità non può rimanere chiusa in se stessa in una sorta
di idillica comodità. Essa è chiamata a scomodarsi e ad avvertire l’ansia e l’urgenza di uscire da se
stessa fin tanto che non vede anche gli ultimi arrivare al primo posto. La sua missione non è solo ad
intra, come sembra preannunciare in un primo momento il Vangelo stesso di Matteo (), ma anzi la
dimensione universale dell’annuncio cristiano diverrà esplicito quando il Signore risorto e glorificato
invia i suoi discepoli ad “ammaestrare tutte le nazioni” (28, 16-20). Questo annuncio solenne è la
conclusione e il culmine dell’intero Vangelo di Matteo dove possiamo veder confluire tutte le
tematiche emerse nell’analisi del testo parabolico.

II.2 Applicazioni pastorali

Dall’analisi letteraria ed esegetica della parabola del padrone generoso è possibile rilevare almeno
un’applicazione pastorale, articolata in due momenti, che coinvolge da vicino il nostro impegno
cristiano, ecclesiale ed anche di “chiamati per il Regno”, nell’annuncio del messaggio salvifico di
Cristo Gesù: la dimensione missionaria ecclesiale universale e l’annuncio del “Vangelo della
vocazione”. Nella trattazione teologica abbiamo elaborato, nell’ultimo punto, il tema della
missionarietà della comunità cristiana. Se per molto tempo la Chiesa ha concepito la missione
primariamente come una dimensione applicativa nell’ambito di quei territori non ancora illuminati
dalla Verità evangelica (ad gentes), tuttavia, nell’approfondimento della sua propria natura e dei
dettami della Rivelazione, ha scoperto sempre più una nota irrinunciabile: la vocazione missionaria di
ogni singolo cristiano e di tutta la comunità ecclesiale. Il contenuto del testo parabolico di Mt 20, può
essere così ritenuto un valido contributo e modello della dinamica evangelizzatrice dei pastori in primo
luogo, e di tutta la comunità. L’insistente “uscita” del padrone della vigna e il suo ripetuto invito a
lavorare nella vigna si pone dinanzi ai nostri occhi come paradigma ed elemento di confronto con
l’intera prassi pastorale della Chiesa del nostro tempo: per poter annunciare il Vangelo del Regno e la
sua presenza in mezzo agli uomini è necessaria una continua uscita da se stessi, un continuo invito che
non tenga conto essenzialmente delle logiche umane, bensì quelle del Regno stesso. L’evangelizzatore
non deve mai stancarsi di proporre sino all’ultimo, e in ogni circostanza apparentemente illogica
(l’ultima uscita delle cinque –Mt 20, 6-), l’invito ad entrare nella vigna del Signore (la Chiesa) per
poter operare al suo interno. È quest’ultimo ciò che abbiamo designato come “Vangelo della
chiamata”: ogni uomo che accoglie l’appello del Padre, mediata attraverso l’annuncio ecclesiale, scopre
il proprio posto, la propria vocazione, il proprio ministero all’interno della comunità stessa. Allora,

70
non è più fruttuosa una pastorale vocazionale che assuma un vero e serio impegno missionario a tutto
tondo che funga da orizzonte, criterio e modello? E’ una provocazione e una seria riflessione da porsi
in un contesto che non favorisce più interrogativi vocazionali e cristiani.
A questo punto, appare evidente, e quanto mai doveroso, far riferimento agli orientamenti pastorali
assunti dalla Chiesa cattolica italiana per il prossimo decennio. Nel documento programmatico
“Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”, emanato il 29 giugno 2001, la CEI riconosce la
necessità e l’importanza della “prospettiva della missione”161 nella azione evangelizzatrice della
Chiesa. Questa dimensione è stata, poi, ripresa da un ulteriore documento, pubblicato il 30 maggio
2004: “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia”. Seppure non si fa’ esplicito
riferimento alla nostra parabola, tuttavia, al n. 1162 la CEI riporta il riferimento scritturistico di Mt 28,
19, al quale ci siamo richiamati per sottolineare nell’ambito dell’intero vangelo di Matteo, questa
apertura universale dell’annuncio cristiano. La Chiesa assume per la sua pastorale una connotazione
missionaria (n. 1) come primo annuncio del Vangelo che deve essere riscoperto in una società sempre
più lontana dai valori cristiani (n. 6).

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di un laboratorio di scuola secondaria di I e II grado.

Scuola secondaria di I e II grado ( classe II)

Tipologia del laboratorio

Il laboratorio sarà progettato con tipologia trasversale agli obiettivi specifici di apprendimento
riferiti a:

Religione cattolica

Italiano, inglese, seconda lingua comunitaria, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia,
informatica, musica, arte ed immagine, scienze motorie e sportive, convivenza civile

Metodologia

L’azione di laboratorio didattico realizzarà la rielaborazione del focus attraverso la ricerca e la


progettazione.

Focus di attenzione

La parabola del padrone generoso

161
Cfr. CEI, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia. Orientamenti pastorali dell’Episcopato italiano per il primo
decennio del Duemila, Milano 2001, 3.
162
Cfr. CEI, il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, Milano 2004, 10.

71
Items di conoscenza (dagli O.S.A.)

Religione cattolica

La Chiesa, il suo credo e la sua missione (Scuola secondaria di I grado).

Valori e leggi, libertà e responsabilità: caratteristiche fondamentali della morale cristiana


(Scuola secondaria di II grado).

Italiano: Ascolto critico di testi narrativi; rapporto esistente tra evoluzione della lingua e

contesto storico - sociale.

Inglese e seconda lingua comunitaria: Espansione di campi semantici relativi alla vita
quotidiana.

Storia: L’apertura dell’Europa ad un sistema mondiale di relazioni: la scoperta dell’altro e le sue


conseguenze.

Geografia: La popolazione: densità, movimento naturale e flussi migratori.

Matematica: Concetto di popolazione e di campione; dati e previsioni.

Scienze: lavoro ed energia.

Tecnologia: I settori dell’economia.

Informatica: Comunicazione in rete in tempo reale.

Arte ed immagine: Il rapporto immagine – comunicazione nel testo visivo e narrativo.

Scienze motorie e sportive: Norme fondamentali di prevenzione degli infortuni legati all’attività

fisica nei vari ambienti.

Convivenza civile: Il rapporto centro – periferia nel governo e nella gestione delle attività sociali,

educative, economiche, culturali.

Prodotto atteso

Scuola secondaria di I e II grado

72
Realizzare un progetto di accoglienza extracomunitaria per il proprio comune.
La progettazione dovrà ispirarsi al :

ü Senso cristiano dell’incontro con l’altro;


ü Ruolo missionario della Chiesa cattolica;
ü Tema escatologico;
ü Tema del lavoro occasionale;
ü Tema della retribuzione.

Attività

- Lo spazio adibito all’attavità laboratoriale avrà la disposizione di una biblioteca, con tavoli (almeno
tre per un gruppo classe di 25 alunni) e sedie intorno.
- Su ogni tavolo, e per ogni posto è distribuito il testo della parabola e lo schema della struttura del
“progetto”
- Ogni allievo legge, come in una biblioteca, il testo della parabola del padrone generoso, evidenziando
i periodi ritenuti particolarmente significativi.
- Rispettando tempi condivisi con l’insegnante (con gli insegnanti) ed il turno di intervento, ogni
gruppo elettivo discute sul messaggio e sull’insegnamento del testo.
- La condivisione della discussione è riportata in tabelle di facile lettura
- L’intergruppo evidenzia gli elementi comuni alle tre tabelle per la condivisione e compilazione della
struttura progettuale.
- Gli allievi, organizzandosi spontaneamente, ricercano su internet ed altre fonti di informazione, tutto
quanto risulti utile alla progettazione del prodotto atteso.

Conclusione

Nell’introduzione ci siamo posti l’obiettivo di evidenziare e di considerare la centralità della figura del
padrone (Dio). Ripercorrendo a volo d’uccello l’intero iter proposto nella trattazione è emerso
chiaramente, sia sul piano dello studio letterario che su quello teologico, l’importanza e la preminenza
della figura del “signore della vigna”. Nell’analisi esegetica abbiamo notato che il centro unificatore di
tutte le azioni riportate nel racconto parabolico è il padrone (kyrios), unico soggetto dell’intera
dinamica narrativa, anche quando il soggetto dell’azione è un altro. Nell’analisi dei temi teologici
emergenti dal testo, infine, è venuto fuori come la bontà di Dio sia la fonte prima e il fine ultimo di
ogni azione umana: certamente l’uomo e Dio entrano in una rapporto di dialogo, tuttavia il primato
spetta al Padre che coinvolge l’uomo in una dinamica di chiamata-risposta.

73
V.
LA PARABOLA DEI DUE FIGLI (Mt 21, 28-31)

Introduzione

La parabola di Mt 21,28-31 è collocata in contesto di Mt 21, mentre Gesù è già entrato in Gerusalemme
e sta rivelando il Regno dei cieli come imminente. Il Regno implica l’obbedienza alla volontà del
Padre, significata dalla strategia narrativa racchiusa nelle tre parabole familiari: la prima è quella dei
due figli (Mt 21,28-32), la seconda è costituita dalla storia dei vignaioli omicidi (Mt 21,33-45), la terza
è il banchetto delle nozze del figlio del re (Mt 22,1-10). In questa trilogia emerge la centralità di Dio e
il ruolo positivo e negativo che giocano i personaggi dei racconti. L’approfondimento di questo
racconto parabolico di tradizione matteana, ci consentirà di cogliere in modo più approfondito la
prospettiva teologica del primo evangelista e la sua ricchezza spirituale.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto della parabola

Il contesto della parabola dei due figli è ambientato a Gerusalemme, mentre Gesù sta insegnando nel
tempio, tappa ultima del cammino e ministero di Gesù. Notiamo che fino al capitolo 23 l’ordine di
Matteo è simile a quello di Marco.

1. Ingresso a Gerusalemme Mc 11,1-11 Mt 21,1-10 Lc 19,28-38


2. Espulsione dei mercanti 11,15-19 21,12-17 19,45-46
3. Maledizione del fico 11,12-14 21,18-19 -
4. Questione sul fico 11,20-25 21,20-22 -
5. Questione sull'autorità di Gesù 11,27-33 21,23-27 20,01-08
6. Parabola dei due figli - 21,28-32 -
7. Parabola dei vignaioli 12, 1-19 21,33-46 20, 9-19
8. Parabola del banchetto di nozze - 22, 1-14 (14,15-24)
9. L'imposta 12,13-17 22,15-22 20,20-26
l.0. La risurrezione dei morti 12,18-27 22,23-33 20,27-38
11. Il primo comandamento 12,28-34 22,34-40 (10,25-27)
12. Il Messia, figlio di Davide 12,35-37 22,41-46 20,41-44
13. Allerta contro gli scribi e i farisei 12,37-40 23, 1-12 20,45-47
14. Guai contro gli scribi e i farisei - 23,13-36 (11,39-52)
15. L'obolo della vedova 12,41-44 - 21, 1-04

Si osserva che in tutta questa sezione Matteo ha riunito i contenuti secondo uno schema ternario: 3
attività di Gesù (n. l,2,3); 3 parabole (n. 6,7,8); 3 controversie (n. 9,10,11); offensiva di Gesù in 3 tappe
(n. 12,13,14). E può darsi che sia per mantenere lo stesso schema ternario che Matteo ha tralasciato
l’episodio finale della vedova, l’unico di questo tipo in Marco. Matteo al contrario di Marco, non ha
separato la domanda dei discepoli riguardo al fico (n. 04) dalla maledizione dello stesso (n. 03)”163
L’unico episodio di Matteo (21,23-27), che precede la nostra parabola (21,28-32) è l’unico dei capitoli
21–23 a rimanere fuori dallo schema trinitario. Sembra che per Matteo la controversia sull’autorità di
Gesù (21,23–27) appartenga allo stesso insieme della parabola dei due figli (21,28-32) in modo che lo
schema tipico di Matteo, e cioè quello ternario rimanga invariato e quindi confermato. Il v.28 della

163
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, dalla sorgente alla foce, Leumann 2002, 139.

74
nostra parabola fa da introduzione, ma fa anche da ponte con la controversia sull’autorità di Gesù
(vv.23-27). La domanda di Gesù (v.28) come la stessa parabola (vv.29-32) si rivolgono ai sommi
sacerdoti e agli anziani (21,23) che sono gli ascoltatori della nostra parabola. Secondo Ggourgues
possiamo affermare che sia la parabola che la controversia si riferiscono alla persona di Giovanni
Battista. L’applicazione della parabola è data dal versetto 32 che fa eco alle relazioni riferite
precedentemente nella controversia, al v.25.

“Controversia (21,25) Applicazione (21,32)


Se diciamo: «Dal cielo», È venuto a voi Giovanni nella via
ci risponderà: della giustizia
«Perché dunque non gli avete creduto?» e non gli avete creduto
(ouk episteusate autoi) (ouk episyeusate autoi);
i pubblicani e le prostitute, invece,
gli hanno creduto (episteusan autoi!).”164

I.2 Denominazione e struttura

La nostra parabola è si collegata alla controversia, ma è anche collegata alla parabola dei vignaioli
omicidi (21,33-46) con la quale in comune ha il tema della vigna. Il titolo della nostra parabola è molto
vago, è interessante sottolineare come Michel Gourgues la intitola. Egli la chiama parabola dei due figli
dissimili. L’aggettivo dissimile vuole sottolineare che i due figli hanno delle cose in comune, come il
Padre, ma hanno delle “cose” che sono tipiche di ognuno di loro, come il modo di comportarsi dopo
una risposta verbale cioè questo titolo Gourgues lo usa per sottolineare che a tutti e due viene posta non
una domanda, ma la stessa domanda, ma la risposta è diversa proprio perché ognuno è unico e
irripetibile.
Le due domande che fanno da cornice alla parabola sono: “che ve ne pare?” (21,28a); “chi dei due
ha fatto la volontà del Padre?” (21,31a). Questa seconda domanda, che fa da cornice alla nostra
parabola, invita chi la legge ha dare un suo “giudizio”. Una applicazione esplicita è data dalla sentenza
di Gesù, introdotta dall’espressione: “In verità vi dico…”(21,31b). “Di fatto esistono due edizioni della
parabola:

Ø Il primo figlio dice “no”, si pente e va a lavorare nella vigna;


il secondo figlio dice di “si”, ma non va a lavorare nella vigna;
ü Chi ha fatto la volontà del Padre? Il primo.
Ø Il primo figlio dice di “si”, ma poi non va a lavorare nella vigna;
il secondo figlio dice “no”, ma poi va a lavorare nella vigna;
ü Chi ha fatto la volontà del Padre? L’ultimo (il secondo).
È difficile scegliere per l’una o l’altra forma del testo dal momento che la parabola di Matteo non ha
paralleli negli altri due sinottici. La scelta della prima è raccomandata dalla sua coerenza con la prima
applicazione che prescinde da preoccupazioni storico – salvifiche: prima gli osservanti(giudei) e poi i
peccatori (pagani)”165.

I.3 Strategia narrativa del racconto

La nostra parabola si trova solo nel vangelo di Matteo ed è sistemata con una terminologia
caratteristica del primo vangelo. Il racconto, sicuramente appartiene alle tre parabole sulla vigna (Mt

16
M. GOURGUES, 140.
165
R. FABRIS, Matteo, 452.

75
19,30- 20,16; 21,33-46). Il simbolo della vigna nell’antico testamento indicava Israele con Gesù non
indicherà solo Israele, ma Egli estende l’ambito all’azione universale di Dio. Come abbiamo già detto
la parabola è introdotta da un interrogativo: “che ve ne pare?”. È una parabola semplice: notiamo che
mentre il primo figlio dice subito di si alla proposta del padre, in maniera esuberante e vivace, il
secondo senza farsi problemi rifiuta all’istante la proposta del padre. Ma notiamo che a questa risposta
verbale dei due figli, c’è un diverso comportamento, dal punto di vista pratico. Il primo che aveva
subito, senza esitazione, risposto di si alla fine non compie quello che il padre li ha chiesto; mentre il
secondo che rifiuta all’istante ed in maniera categorica, va poi a lavorare nella vigna. Il cambiamento
dell’atteggiamento del secondo figlio è sottolineato dal verbo gr. metamelomai dove indica il
cambiamento di sentimento di opinione (cfr. Mt 27,03). Parlando da un punto di vista spirituale
possiamo dire che l’atteggiamento del primo figlio è come quello del fariseo che dice Signore,
Signore… e poi risulta una persona che giudica, ecc…, mentre l’atteggiamento del secondo figlio è
come quello del pubblicano che afferma: “Signore abbi pietà di me che sono peccatore”; il
cambiamento del secondo figlio, che prima dice di no e poi ci va, si può definire conversione.
L’atteggiamento del vero credente cristiano è l’atteggiamento di colui che si riconosce peccatore di
fronte a Dio e ai fratelli, ma sicuro che Dio perdona le sue colpe e che ha cura di lui come una madre a
cura dei suoi figli. Ritornando al termine metamelomai viene poi ripreso nell’applicazione della
parabola data dal (v.32) per indicare il pentimento dei pubblicani e delle prostitute. La domanda che
conclude la parabola (v.31) rivela il significato del racconto incentrato in realtà sul tema del
compimento della volontà del padre. La risposta senza esitazione alla domanda di Gesù da parte degli
ascoltatori: “l’ultimo”, mostrano che loro hanno veramente compreso che chi ha adempito alla volontà
del padre è stato proprio colui inizialmente ha rifiutato la proposta del padre. Notiamo che nella
parabola non si dice in maniera esplicita chi sono gli ascoltatori, ma dal contesto si può comprendere
chi sicuramente essi sono: i capi sacerdoti e dagli anziani del popolo, i quali nel testo della controversia
avevano posto a Gesù la domanda circa l’origine della sua autorità (21,23). Gesù con la nostra parabola
vuol far comprendere agli ascoltatori che l’azione di Dio, che si è rivelata prima nel profeta Giovan
Battista e ora in Lui, è stato accolto non dai sommi sacerdoti, ma dai pubblicani e dalle prostitute, cioè
dagli ultimi che secondo il giudaismo erano esclusi dell’appartenenza al popolo di Dio, però Gesù, con
la nostra parabola, farà comprendere che proprio loro entreranno nel regno dei cieli. Matteo vuol far
riflettere la comunità ecclesiale su come giungere ad una fede matura che si raggiunge attraverso un
reale, e non solo verbale, compimento della volontà di Dio. L’applicazione della parabola esprime una
“condanna” nei confronti dei “devoti” che pensano di essere arrivati alla salvezza, mentre la salvezza
viene donata a chi inizialmente era escluso, e che ora aderendo alla volontà di Dio, e quindi
convertendosi, l’acquista. La nostra parabola, come abbiamo già detto, è frutto della redazione mattana,
la seconda è presa da Marco, la terza da Q. “Possiamo anche affermare che di fatto la nostra parabola è
un commento midrascico su 21,23-27. tutte e tre le parabole sono indirizzate ai medesimi destinatari:
sommi sacerdoti e anziani (v.23). Chi sono i due figli? La distinzione non corre tra giudei e i pagani,
bensì tra i due tipi di giudei: i capi infedeli e i fedeli emarginati (v.31)” 166.
“ La storia dei due figli è stata adattata al contesto con una nota redazionale (v. 32) che la ricollega alla
disputa precedente (vv. 25-27). È certo una felice idea del parabolista aver dato ai protagonisti della
parabola una comune provenienza (paternità). Era un richiamo che urtava già da solo la suscettibilità
razzistica giudaica. Gli uomini sono tutti uguali e hanno tutti uno stesso padre (Dio). Tra questi c’erano
anche gli ascoltatori di Gesù che credevano di essergli amici prediletti di Dio (popolo eletto) e che tutti
gli altri fossero goyim (cani). La risposta formale del secondo è dura, un no secco, (non ho voglia), ma
poi di fatto va a lavorare nella vigna (v.30). L’atteggiamento del primo figlio è ossequioso. Egli chiama
il padre “signore”, ciò che all’altro non era passato neanche per la mente nonostante che il padre
l’avesse interpellato con tenerezza (figlio mio). Il parlare è preciso, corretto, ma smentito dai fatti. La

166
B. T. VIVIANO, Il Vangelo secondo Matteo, in R.E. BROWN, J.A. FITZMYER, R.E. MURPHY (edd.), Nuovo grande
commentario biblico, Brescia 1997, 843.

76
domanda del parabolista: “chi ha fatto la volontà del Padre?” riassume tutta la morale evangelica, in
particolare quella di Matteo. Fare la volontà di Dio significa portare avanti al sua opera (di salvezza)
nella propria vita e nella storia (nella vita degli altri). Gesù sta realizzando il programma scomodo per
tener fede al volere del Padre (4,4). Sono molti quelli che parlano come Cristo, ma pochi agiscono
come Lui. Al posto della vigna subentra il “regno di Dio” (vv. 31b-32); i due figli identificano da una
parte i giudei (voi), dall’altra gli esattori di imposte e le prostitute, gli uni e le altre esclusi sino all’ora
dalla comunità del popolo di Dio. La famigliarità o amicizia che Gesù dimostrava per i pubblici
peccatori era motivo di scandalo per i ben pensanti del suo mondo e ambiente, ma di fatto essi avevano
cambiato vita dimostrando che il contatto con Gesù era salutare e non deleterio (v. 31). Il versetto 32
riporta il discorso alla controversia precedente. I capi non hanno voluto pronunciarsi sul Battista, ma
ciò non impedisce a Gesù di precisare la sua linea di condotta e i successi della sua missione. Giovan
Battista “è venuto nella via della giustizia”: il termine chiave del discorso della montagna (cfr.
5,6.10.20; 6,1.33) richiama in ultima analisi l’adesione alla volontà di Dio che in Giovan Battista è
stata coerente fino al martirio. Il “va a lavorare oggi” sottolinea l’intenzione del padre affidare al Figlio
la coltivazione e la manutenzione della vigna. Erano i giudei che avrebbero dovuto portare avanti
l’evangelizzazione, ma la storia dimostrava che la loro opera veniva, invece, svolta dai pagani, cioè dai
peccatori e dai pubblicani convertiti. Matteo unisce in un medesimo rifiuto il Battista, Gesù, la Chiesa;
il Precursore, il Messia, i suoi continuatori. I profeti non sono inviati solo scuotere i peccatore ma
anche i giusti, i sicuri, coloro che confidano nel loro abituale o abitudinario contatto con Dio. Tutti
possono diventare figli ribelli, come tutti i ribelli possono tornare docili. Non ci sono posti o posizioni
di privilegio nel conseguimento del salvezza. Occorre essere desti e impegnati ininterrottamente.”167
Anche Weder è d’accordo con Ortensio da Spinetoli e con Gourgues nel dire che il v.32 stabilisce una
stretta connessione con la pericope precedente. Weder aggiunge, con chiarezza che qualunque ipotesi si
preferisca per il v.32, risulta comunque chiaro che esso non apparteneva alla parabola originaria.
Weder si pone un interrogativo se veramente sia appartenuto alla parabola originaria le parole proprie
dette da Gesù sui pubblicani e le prostitute: “vi passano avanti nel regno di Dio”; anche se egli arriva a
concludere dicendo che comunque si tratta di parole dette da Gesù sicuramente antiche. Dalla soluzione
di questo “problema” dipende anche quello degli ascoltatori originari cioè se le parole dette da Gesù
appartenevano già in partenza alla parabola, gli ascoltatori presupposti da Matteo, ossia i sommi
sacerdoti e gli anziani del popolo, dovevano essere i destinatari della parabola; ma se le parole dette da
Gesù non sono state dette nel contesto della parabola all’ora è difficile identificare gli ascoltatori.
Weder propone come ipotesi più verosimile l’ultima, che fa terminare la parabola con il v.31a. Queste
parole dette da Gesù pertanto vanno considerate un’applicazione della parabola aggiunta dalla
comunità anteriore a Matteo o da Matteo stesso. Weder arriva a questa conclusione che la parabola
originari è composta dai vv.28 (senza il “che ve ne pare”) 31a. Secondo lo stesso anche la trasmissione
del testo presenta delle difficoltà: la parabola è testimoniata in tre varianti:
1. dapprima compare il figlio che dice di si, ma non va, dopo quello che dice di no, ma va: la risposta
alla domanda al v.31a è: “l’ultimo”;
2. Prima compare il figlio che dice di no, ma va, poi quello che dice di si, ma non va: la risposta alla
domanda al v.31a è: “il primo”;
3. Prima compare il figlio che dice di no, ma va, poi quello che dice di si, ma non va: la risposta alla
domanda al v.31a è: “l’ultimo”;

Questa terza variante va considerata in ogni caso, secondo Weder, secondaria perché è stata
attestata solo da pochi manoscritti. Le prime due testimonianze considerate da Weder concordano con
quelle testimoniate da Fabris. Le prime due testimonianze potrebbero essere entrambi originarie: se si
presuppone che Matteo aveva interpretato la parabola in senso storico – salvifico; considerando come
rappresentanti del primo figlio i farisei e come rappresentanti del secondo i pubblicani, il questo senso

167
O. DA SPINETOLI, Matteo, Commento al “Vangelo della Chiesa”, Assisi 1983, 576- 578.

77
il testo originale di Matteo era sicuramente quello della prima “ipotesi”. “L’origine della seconda
“ipotesi” potrebbe spiegarsi con l'ipotesi che col passar del tempo i pubblicani e le prostitute, che
dissero di no e tuttavia andarono, vennero contrapposti non più ai farisei ma ai cattivi cristiani che
verbalmente confessavano Cristo, ma non facevano la volontà del Padre: di qui l'inversione tra i due
figli. In ogni caso l’ipotesi 3 è dipendente dall’ipotesi 2. Il problema testuale non può essere risolto
con certezza. Ne risulta la seguente ipotesi di ricostruzione della tradizione e della redazione: la
parabola originaria"' fu provvista dalla comunità anteriore a Matteo dell'applicazione al v.31b. Allo
stesso modo da essa, o da Matteo stesso, deriva il riferimento a Giovanni Battista al v. 32. La parabola
cosi intesa fu collocata da Mt. nel contesto della questione sull'autorità di Gesù e della parabola dei
vignaioli malvagi.”168
Soffermandoci sulla narrazione, la nostra parabola, mira ad evidenziare i due comportamenti dei
figli. Notiamo in maniera chiara che un si iniziale si trasforma, da un punto di vista pratico, in un no,
mentre un no iniziale si trasforma, da un punto di vista pratico, in un si. Weder nota che la perfetta
simmetria formale che regge le due frasi sui due figli viene spezzata in un punto: tra la risposta verbale
del secondo figlio ed il conseguente comportamento viene inserito un metameletheis. Del secondo
figlio si dice in maniera esplicita che ci ripensò, comportamento che, invece, manca per il primo figlio.
L’interesse principale della parabola è rivolto al comportamento del secondo figlio. Weder afferma
anche che la nostra parabola potrebbe riguardare la richiesta di Dio e la risposta dell’uomo. La parabola
fa anche notare che anche se uno risponde no inizialmente, all’invito di Dio, l’importante e che poi si
rende conto del suo errore e corregge tale risposta: per Dio è importante più il comportamento del
secondo figlio che quello del primo cioè non serve a nulla rispondere si se poi non ci si comporta di
conseguenza a tale proposta, meglio dire un no iniziale, ma che poi con la “conversione” si trasforma in
un si Gioioso e Vero. La parabola è invito all’obbedienza, alla proposta del padre, e dono di poter
accogliere tale proposta. Il tema centrale della nostra parabola è il cambiamento, o in un linguaggio
spirituale potremmo definire conversione, della decisione iniziale del secondo figlio. Lo scopo della
nostra parabola è quello di distogliere i peccatori dal loro no iniziale e riportarli sulla via
dell’obbedienza che poi li porterà alla salvezza. “Sarà la comunità anteriore a Matteo che con
l’applicazione della parabola (v.31b) riferirà i due figli a due gruppi sociali ben definiti: da una parte
coloro che con il loro no a Gesù rivelano il vero volto che si celava dietro il loro iniziale si a Dio, che si
rivela puramente verbale: i farisei, i potenti, i giusti di Israele. Dall'altra parte, coloro che con il loro si
a Gesù manifestano un ripensamento e si staccano dal loro iniziale no a Dio: «pubblicani e prostitute».
Questa applicazione, per quanto non esente da rischi, preserva per lo meno la dimensione
cristologica della parabola; anzi: può essere ben definita un'interpretazione cristologica, anche se può
essere dettata in parte dall'esperienza della comunità, in quanto riflette il no di Israele ed il si dei reietti
e dei pagani nei confronti della predicazione cristiana. Matteo a sua volta sembra interpretare la
parabola in senso storico - salvifico, vedendo rappresentato nel primo figlio il comportamento di
Israele, nel secondo invece quello della comunità cristiana. Stabilendo un riferimento a Giovanni
(v.32), egli salvaguarda il senso cristologico della parabola ribadendo che con Giovanni è arrivato quel
tempo in cui deve manifestarsi chi realmente compie la volontà del Padre. Col Battista inizia il tempo
del Messia; Israele si è mostrato incredulo già nei confronti di Giovanni (v. 32, cfr. v. 25), e in questo
modo il suo si a Dio si è rivelato un no. Al posto di Israele è subentrato un altro popolo che percorre la
«via della giustizia», compiendo la volontà del Padre e dando frutti ( cfr. Mt. 21,43!). Anche questa
interpretazione della parabola può ritenersi valida, a patto però di non perdere assolutamente di vista
che il nuovo popolo non è esente nemmeno lui dal rischio di capovolgere il suo iniziale si in un
concreto no. E che anche adesso coloro che hanno detto di no attendono di essere liberati dal loro no.”
169

168
H. WEDER, Metafore del regno, 278.
169
Cfr. H. WEDER, 281 – 283.

78
I.4 Il testo
28
«Che vi pare? Un uomo aveva due figli e, andato dal primo, disse: «Figlio, va’ oggi a lavorare
nella vigna».
29
E quello rispondendo disse: «Non voglio». Ma poi, pentitosi, andò.
30
Andato dal secondo, disse la stessa cosa. È quello rispondendo disse: «Si, signore». Ma poi non
andò.
31
«Chi dei due ha fatto la volontà del padre?». Dicono: «Il primo». Dice loro Gesù: «Amen, vi
dico: i pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio.
32
Infatti è venuto a voi Giovanni sulla via della giustizia, e non gli avete creduto. I pubblicani e le
prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, che avete visto ciò, nemmeno dopo vi siete
pentiti, sì da credere a lui».170

I.5 Analisi esegetica171

vv.28-30
28
«Che vi pare? Un uomo aveva due figli e, andato dal primo, disse: «Figlio, va’ oggi a lavorare nella
vigna».
29
E quello rispondendo disse: «Non voglio». Ma poi, pentitosi, andò.
30
Andato dal secondo, disse la stessa cosa. È quello rispondendo disse: «Si, signore». Ma poi non
andò.

La domanda argomentativa «Che vi pare?» coinvolge sin dall'inizio gli uditori (che sono ancora i
sommi sacerdoti e gli anziani del v. 23) nel dibattito. Costoro sono invitati a prendere posizione nei
riguardi di un breve racconto che narra di un padre proprietario di un vigneto presumibilmente di
modeste dimensioni, il quale si rivolge, in due momenti successivi, ai suoi due figli, per chiedere loro
di andare a lavorare nella vigna. L'appellativo «figlio» è affettuoso, implorante. La determinazione
temporale «oggi» va riferita alla richiesta di recarsi nella vigna. Che si tratti del figlio più anziano non
viene precisato e non avrebbe alcuna importanza per lo svolgimento del racconto. Al rifiuto verbale del
figlio non segue alcuna reazione del padre, ma un cambiamento d'idea dello stesso figlio, il quale
peraltro non è mosso da pentimento. il figlio cambia idea.
Nella vigna ci andrà più tardi. Non lo sa il padre? Comunque, questi rivolge la stessa richiesta
anche all'altro figlio, la cui reazione verbale è esageratamente positiva (alla lettera: «Io, signore»).
L’«io» è espressione di uno zelo per il quale l'obbedienza è un dato del tutto ovvio. Con ciò concorda il
deferente appellativo «signore», in luogo di «padre». Ma questo figlio non va nella vigna. La vicenda è
realistica. Chi non conosce l' ostinata difesa della propria libertà entro la cerchia familiare?
L’interpretazione della vicenda - anzitutto considerata in se- deve oltrepassare una comprensione
moralistica. Ricondurla alla sostanza del detto rabbinico: «I giusti promettono poco e fanno molto; gli
empi parlano molto e non fanno nulla», sarebbe troppo riduttivo. Al centro stanno la richiesta di Dio e
la risposta dell'uomo. La prima reazione dell'uomo è correggibile. Il punto decisivo è dove egli si
ferma, al no o al si. Se si li pone l'accento sul passaggio dal no al si, la parabola risulta un appello
pressante a coloro che dicono no, a dire si. Se invece si sottolinea il cambiamento dal si al no, essa
diventa un monito. La decisione è provocata dalla parola di Gesù. Essa trasforma il passato in
preistoria. Salvezza e giudizio hanno luogo e ora. La posticipazione del disubbidiente invita a porre in
primo piano l'aspetto ammonitore della parabola. Nella parabola manca il cambiamento d'idea del
primo. A motivo della sua composizione tardiva, non si pone il problema di una dipendenza.

170
Seguiamo la traduzione di J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 325.
171
Cfr. J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, 328 – 331.

79
v.31
«Chi dei due ha fatto la volontà del padre?». Dicono: «Il primo». Dice loro Gesù: «Amen, vi dico: i
pubblicani e le prostitute vi precedono nel regno di Dio.
Richiesti del loro parere, gli uditori approvano l’operato del figlio che dice di no e poi si pente.
Approveranno anche la successiva applicazione della parabola? L’applicazione consiste in una frase
estremamente sconvolgente. La conversione di pubblicani e prostitute era considerata assai difficile.
Gesù dice che costoro giungono al regno dei cieli prima delle autorità che gli stanno davanti. Qui
abbiamo che fare con un cosiddetto logion d'ingresso, che menziona determinate condizioni per entrare
nella Basileia (cfr. 5,20; 7,21; 18,3; 19,23). Sorprende in questo detto che il verbo sia al presente. Ciò
si spiega nel modo migliore come constatazione di una situazione attuale. Gesù constata che pubblicani
e prostitute accolgono con buona volontà il messaggio salvifico della Basileia, mentre coloro che si
vorrebbero considerare i chiamati si rifiutano. In questo passo Mt. ha conservato l'espressione «regno di
Dio» senza mutarla in «regno dei cieli». Ma non si può dire se ciò sia legato ad una specifica intenzione
teologica. Comunque, con l'applicazione del detto alla parabola Mt. fa capire che egli vede raffigurati
nel figlio che dice di si e disubbidisce, i gerarchi; in quello che dice di no e si pente, i pubblicani e le
prostitute. Proprio grazie a questa combinazione proagousin assume un significato di esclusione. I
gerarchi sono esclusi dalla Basileia, o si escludono essi stessi da essa?

v.32
Infatti è venuto a voi Giovanni sulla via della giustizia, e non gli avete creduto. I pubblicani e le
prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, che avete visto ciò, nemmeno dopo vi siete
pentiti, sì da credere a lui».

L’apporto specifico di Matteo va colto nel fatto che egli pone la parabola in relazione con
l'attività di Giovanni il Battista. Evidentemente, egli è interessato ad una assimilazione, che risulta
chiara dal fatto che i gerarchi restano sul no, persistono nell'incredulità e non si pentono, come il figlio
che nella parabola dice di no. Pertanto il versetto può essere inteso rettamente solo se si parte dal
presupposto di un coinvolgimento totale del Battista nel vangelo. La fede in lui significa perciò
l’accettazione della sua predicazione, che - come la predicazione di Gesù - proclamava il regno dei cieli
(3,2). L'accettazione avveniva nella disponibilità a convertirsi e a ricevere il suo battesimo. In ciò si
deve vedere la via della giustizia, sulla quale è venuto Giovanni. È possibile addirittura stabilire un
collegamento con 3,15, dove Gesù, ricevendo il battesimo di Giovanni, dice che dovremmo compiere
ogni giustizia. Pertanto anche qui la giustizia va posta in relazione con la Basileia e con ciò che il Padre
celeste esige dall'uomo in vista della Basileia.
La domanda del v.31a ci parla della volontà del Padre. Fare la volontà del Padre significa non
solo rispondere «si» a tale volontà, ma si tratta di realizzare, da un punto di vista pratico, tale volontà.
L’affermazione più “bella” in questo senso è sicuramente quella del v.21: “non chiunque mi dice:
Signore Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. Si
tratta di un “fare” piuttosto che di un “dire”. L’opposizione tra il dire e il fare è un opposizione che
caratterizza l’evangelo di Matteo. In sintesi il v.31a ci viene a sottolineare che il cristiano è colui che
segue la volontà di Dio in tutto e per tutto senza esitazioni senza condizioni, è colui che cerca tale
volontà ed una volta trovatala l’abbraccia e la realizza; cosi solo potrà rispondere con sincerità e verità
al progetto e quindi alla volontà di Dio. Un altro messaggio che la nostra parabola ci dona è quello che
possiamo trarre dal v.31b: “In verità vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di
Dio”. Qui l’opposizione è tra giusti e peccatori. Attraverso il comportamento dei due figli la nostra
parabola vuole sottolineare gli atteggiamenti che sono in opposizione all’insegnamento del Padre: i
giusti sono coloro che hanno accettato, verbalmente, la volontà del Padre, ma che poi, in realtà, quando
si è trattato di adempiere a tale volontà si sono tirati indietro; mentre coloro che erano considerati
peccatori e che inizialmente avevano rifiutato la volontà del Padre saranno, poi, coloro che invece la
seguiranno e la realizzeranno. È facile notare che il messaggio che il testo ci vuole comunicare è il

80
seguente: nessuno può considerarsi giusto, l’unico giusto è Cristo Gesù, tutti noi siamo peccatori è
nella misura in cui ci riconosciamo peccatori,. e pentiti sinceramente dei nostri peccati, che adempiamo
alla volontà di Dio e saremo ammessi nel Suo regno. La nostra parabola non concede scampo: solo chi
compie di fatto la Parola vive veramente l’obbedienza della fede, il resto sono chiacchiere.
L’ambiguità di fondo tra un apparente “si” e un concreto “no” non è solo un fatto personale, ma mina
anche la vita della comunità cristiana. Gesù nella nostra parabola sottolinea l’importanza del fare, non
l’obbedienza apparente, l’entusiasmo facile, la disponibilità ipocrita. Matteo richiama l’attenzione su
una obbedienza reale, e gli ascoltatori non hanno difficoltà a dare la risposta esatta. Ma in questo modo
Gesù li condanna, perché la risposta che essi danno a Dio li identifica con il figlio che ha contraddetto
con un no di fatto il si pronunciato con le labbra. Non possono illudersi di obbedire alla volontà di Dio
perché dicono di aderire alla legge. Invece, i peccatori, da loro tanto disprezzati, rappresentano il figlio
che ha obbedito veramente al Padre, perché essi hanno creduto a Gesù. Fare la volontà di Dio era il
cardine su cui ruotava tutta la religione dell’antico testamento e del giudaismo. La parabola si rivolge a
ciascuno di noi, che siamo invitati scegliere pro o contro il Regno, ad accettare o a rifiutare la grazia di
lavorare nella vigna del Signore. Gesù è l’esempio di come si obbedisce a Dio. Obbediente è l’uomo in
ascolto della volontà del Padre.

I.6 Temi teologici

Il primo tema teologico che la parabola ci suggerisce è quello di saper cogliere i passaggi di
Dio; per i credenti si tratta di saper discernere gli interventi di Dio nella storia collettiva. Anche oggi
come ai tempi di Gesù, il cristiano, la Chiesa, rischiano di non cogliere gli interventi di Dio. Come nel
tempo di Gesù, sommi sacerdoti e anziani del popolo erano convinti di aver trovato e raggiunto la
salvezza, così oggi i cristiani rischiano di non riconoscere gli interventi di Dio nella loro vita perché
presi dal benessere e dal conformismo si trascura o si ignora quale “cosa” è veramente importante per
l’uomo di oggi affinché si salvi e quindi conquisti il premio eterno promesso da Gesù.
Un altro tema teologico che si può cogliere nella nostra parabola è il seguente: Gesù è venuto
per i peccatori e non per i giusti. È interessante notare il fatto che Gesù trova il cuore di coloro che
erano considerati peccatori disponibile ad accogliere e realizzare la volontà del Padre al contrario di
coloro che invece conoscevano la legge, ma che però non l’anno interiorizzata. Un altro tema è quello
della volontà del Padre. Fare la volontà del Padre non può ridursi semplicemente ad una disponibilità
verbale e alle buone intenzioni, ma deve concretizzarsi da un punto di vista pratico: “questo popolo mi
onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me” (Mt 15,8). Non basta conoscere i comandamenti,
ma bisogna concretizzarli, cioè per non cadere nel peccato devo evitare di trovarmi nella situazione che
poi mi porterebbe a peccare. Non posso chiedere agli altri di comportarsi in maniera evangelica se io
per primo non do testimonianza, non solo con le parole, ma anche a livello pratico.

II.7 Risonanze pastorali

La nostra parabola ci parla di due figli, di cui il primo è risultato obbediente ed il secondo
disobbediente. Essa intende sollecitare la disponibilità sincera verso Dio rappresentato dal padre di
famiglia e insieme denunciare la contraddizione che si può instaurare tra le parole e la vita, cioè il
fariseismo. Gesù ha inteso la vita cristiana come unità degli atteggiamenti interiori e di quelli esteriori:
“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del
Padre mio che è nei cieli” (Mt 7, 21). I due figli della nostra parabola hanno una condotta
apparentemente strana: un rifiuto diventa accettazione ed un’accettazione diventa rifiuto: due modi di
comportamento assunti di fronte a Gesù al tempo della sua vita terrena rispettivamente da parte dei
farisei, che si ritenevano giusti, e da parte dei peccatori che in quanto tali erano disponibili alla
conversione. Per acquistare i beni della salvezza è richiesta un’adesione personale, libera, all’invito
della grazia affinché si realizzi il cambiamento di vita. Il privilegio non ha valore davanti a Dio, che

81
attende la nostra risposta sincera nei riguardi della sua volontà. I giusti che esaltavano se stessi non
incontrano Cristo salvatore, mentre i peccatori che si riconoscono tali vanno in contro a Cristo che poi
li salva. Come la Maddalena, così Zaccheo: la prima cambia vita lasciando la prostituzione, il secondo
dal mestiere di strozzino. Nell’ottica di Cristo il giusto non è colui che osserva la legge esteriore, ma
chi è capace di liberare se stesso, di compiere un esodo dalle proprie posizioni di sicurezza e di aderire
a Dio, chi è capace della metànoia, del cambiamento di lotta, della rinascita, della conversione, del
passaggio dall’uomo vecchio all’uomo nuovo. “Giusto” è colui che opera per la propria rinascita,
“peccatore” è colui che si allontana dalla vita.

I.8 Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la ricerca – azione nella scuola secondaria di I e II grado.

Scuola secondaria di I e II grado (classe III)

R.A. Ricerca Azione

Il pentimento nel dominio del peccato

Focus di attenzione della R.A.

La parabola dei due figli

Items della R.A.

Problem solving Chi dei due figli ha fatto la volontà del padre?

L’intero gruppo classe è coinvolto nella ricerca


Presenza - azione per acquisire conoscenze e abilità per
lo sviluppo di competenze attese.

I risultati della ricerca vanno contestualizzati e


resi utili ad eventuali implementazioni per
Contesto contesti simili.

Il contesto preso in esame dal gruppo di ricerca


è quello della” parabola dei due figli”

Il testo della parabola va analizzato;

Ordine logico dall’analisi si passa all’azione di ricerca di


gruppo;

dalla ricerca si procede alla fase della

82
riflessione;

dalla riflessione il gruppo ritorna sull’analisi


del testo, contestualizzandola.

Riflessione Riflettere sulla teoria acquisendo


consapevolezza delle azioni.

Spendibilità Far confluire pratica e teoria in un’azione


dinamica e circolare di esperienza vissuta.

Competenze attese dalla R.A.

ü Disponibilità all’ascolto, al dialogo, alla collaborazione e al rispetto, anche quando


richiedono sforzo e disciplina interiore.
ü Riflessività critica sulle proprie decisioni e comportamenti nel rispetto di se stessi e degli
altri in una visione cristiana di vita.

Azione didattica

ü Gli allievi, prima singolarmente, poi in gruppo, analizzano il testo della parabola nella
prospettiva della relazione tra gruppo e problem solving.
ü Gli allievi realizzano una mappa delle espressioni significative del testo.
ü La cooperazione tra gli allievi e l’ascolto reciproco avvicina tutti verso lo scopo della
ricerca: Il pentimento nel dominio del peccato.
ü Costruzione di un differenziale semantico tra due termini: Peccato e pentimento.
ü Realizzazione di una teoria della ricerca attraverso domande come.

Che cos’è il peccato?


Che cos’è il pentimento?

Ha senso parlare di peccato positivo?


Ha senso parlare di pentimento negativo?

Quando commettiamo peccato?


Quando esercitiamo il pantimento?

Io pecco se…
Io mi pento se…

‫ ٭‬la ricerca continua calata nell’azione quotidiana di scuola e di extrascuola attraverso la


narrazione.

‫ ٭‬ogni avanzamento della ricerca va riportato all’analisi del testo e al contesto di provenienza
della conoscenza.

83
Conclusione

A conclusione del nostro lavoro sulle due parabole matteane, possiamo sinteticamente
evidenziare la ricchezza di questa ricerca e la sua efficacia. Le parabole ci consentono di conoscere il
messaggio di Gesù, rivelato mediante questa intelligente forma di comunicazione. In particolare le
nostre due parabole, pur in contesti diversi, indicano l’ambiente familiare e la consistenza della fede in
Dio.
La parabola delle due costruzioni, posta all’epilogo del discorso della montagna, simboleggia la
capacità del credente di aderire alla Parola di Dio, edificando il proprio progetto di vita sulla roccia
salda della fede in Cristo. Parimenti, la parabola dei due figli, sta ad indicare come l’obbedienza nella
fede sia la condizione per realizzare in pienezza la volontà del Padre. Nel quadro della vita familiare
(casa / padre-figli / vigna) si coglie in modo ampio la dialettica del credente di fronte alla Parola che si
rivela nella storia. I racconti parabolici ci aiutano a vedere come l’incontro con il Cristo implichi scelte
radicali: la capacità di edificare una casa che possa resistere di fronte alle minacce esterne e la forza di
lavorare nella vigna sul mandato del Padre.
Il rischio per i cristiani del nostro tempo è quello di smarrire tragicamente l’orientamento verso
Dio e la sua verità. I fallimenti che stanno alla base della vita dei credenti spesso sono provocati dalla
incapacità di accogliere la Parola del vangelo e dalla fatica di credere. L’evangelista stigmatizza
l’atteggiamento degli scribi e dei farisei, la falsità e l’inconsistenza delle loro concezioni spirituali,
mentre esalta il bisogno fondamentale di verità e di autenticità che si trova nei poveri e in coloro che si
aprono alla misericordia di Dio. Queste due parabole indicano la responsabilità che incombe su quanti
sono raggiunti dall’annuncio del Vangelo. Nel contesto odierno tale responsabilità si evidenzia con
sempre maggiore forza: Dio ci chiama a rispondere con coraggio al suo progetto di salvezza. Non
possiamo rifiutare l’appello del Padre a lavorare nella sua vigna!

84
VI.
LA PARABOLA DEL BANCHETTO (MT 22,1-14 E LC 14,16-24)

Introduzione

La parabola del banchetto e degli invitati alle nozze è attestata nella tradizione duplice di Mt e
Lc (Mt 22, 1-14; Lc 14, 16-24). Un utile confronto che ci aiuta nella ricostruzione della parabola può
essere individuato nell’apocrifo del cosiddetto vangelo di Tommaso, una preziosa raccolta di logia che
contiene anche la parabola del banchetto. Infatti la parabola contenuta nel Vangelo di Tommaso è
molto simile alla versione di Lc, tanto da essere considerata la versione più vicina alla parabola
originale. Tuttavia nel confronto diretto dei due brani sinottici, si può constatare che i testi presentano
elementi comuni, ma spiccano numerose differenze, tanto da far dubitare i biblisti ed esegeti circa
l’ipotesi, che vedremo nel corso della trattazione, di una fonte comune Q comune alle due parabole172.
L’aspetto comune a tutte e tre le redazioni è il rifiuto degli invitati che non convengono al
banchetto e la convocazione al loro posto dei primi che capitano. In Mt. la parabola è alquanto
allegorizzata e le segue una seconda parabola, quella dell’abito nuziale (22,11-13), che nulla ha a che
fare con la precedente, alla quale sembra giustapposta. Al contrario in Lc. il brano parabolico serve
come narrazione dell’invito ad invitare i poveri quando si prepara un banchetto (con una chiara finalità
anti-farisaica). Da una analisi attenta e dettagliata, perciò, questa pagina risulta essere ricca di
movimento interno e di problematiche che non ne rendono affatto semplice lo studio e la
comprensione, ma che ci apre ad una serie di implicazioni teologico-letterarie, oltre che pastorali,
affatto prive di significato e importanza.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto della parabola, struttura e diffierenze sinottiche

a) Contesto

Matteo173 inserisce la sua parabola tra quella dei vignaioli malvagi e la domanda dei farisei,
realizzando così una sequenza di tre parabole (21,23-22,14) dove è creato un parallelismo tra Gesù e il
Battista. La parabola del re che organizza il banchetto di nozze per il suo figlio, continua la polemica
tra Gesù e i capi giudaici che va da 21,23 fino a 22,46174. La serie dei confronti ha inizio con la
domanda dei sommi sacerdoti e degli anziani, che chiedono conto della cacciata dei profanatori dal
tempio, e con la risposta di Gesù, che li sorprende con una controdomanda alla quale non sanno
replicare (21,23-27); seguono le parabole dei due figli mandati nella vigna dove vi è il rifiuto del
Battista ad essere al centro: i capi giudaici gli hanno opposto un atteggiamento di incredulità (22,28-
32); dei vignaioli omicidi dove è Gesù, il Figlio di Dio, che occupa il centro di interesse e costituisce il
culmine degli inviati divini (22,33-36); delle nozze regali che qualificano il pranzo imbandito dal re
(22,1-14)175. Dopo di esse la polemica prosegue con le provocazioni che vedono intervenire anche

172
Cfr. H. WEDER, Metafore del Regno. 216.
173
Cfr. F. MONTAGNINI, La parabola del banchetto di nozze in Mt 22,1-10.11-14, in E. FRANCO (a cura di), Mysterium
Regni Mysterium Verbi. Scritti in onore di Mons. Vittorio Fusco (SRB 38), Bologna 2000, pp. 345ss.
174
S. GRASSO, Il vangelo di Matteo, 223.
175
Cfr. G. BARBAGLIO, La parabola del banchetto di nozze nella versione di Matteo, in AA.VV., La parabola degli
invitati al banchetto. Dagli evangelisti a Gesù, Brescia 1978, p. 71.

85
farisei ed erodiani e riguardano il tributo a Cesare (22,15-22), la risurrezione dei morti (22,23-33) e il
più grande dei comandamenti (22,34-40), e si chiude con Gesù che mette definitivamente a tacere gli
avversari con la domanda riguardante il figlio di Davide (22,41-46). Il racconto redazionale di apertura
menziona esplicitamente il contesto al v. 1, dove si evince che i destinatari sono gli stessi delle due
parabole precedenti cioè «i capi dei sacerdoti e i farisei» (21,45). Luca176 raggruppa vari episodi
collegati dal tema comune del banchetto, così che la parabola gli serve da risposta alla domanda di un
commensale.
Il brano si trova inserito nella sezione del vangelo riguardante la predilezione di Gesù per gli
ultimi; precedono il brano della cena l’episodio della guarigione dell’idropico in giorno di sabato (14,1-
6), della scelta degli ultimi posti (14,7-11), dell’invito ad accogliere i poveri alla propria mensa (14,12-
14). Per poi incorniciare il discorso proprio dell’episodio che andremo a studiare, e quindi la necessità
di lasciare tutto di fronte all’invito di Gesù e del Regno, seguono i brani riguardanti la rinuncia a tutto
per la sequela di Gesù (14,25-33) e quello circa la necessità dell’essere sale (14,34-35). A chiudere
abbiamo poi tutta la sezione del capitolo 15° riguardante le bellissime parabole della misericordia e
della benevolenza di Dio nei confronti dei peccatori: la pecorella smarrita (15,3-7), la dramma ritrovata
(15,8-10), il padre misericordioso (15,11-36).

b) Struttura

La strutturazione della parabola è organizzata attorno all’iniziativa del personaggio principale, il


padrone di casa, che ha imbandito questa mensa e vuole che gli invitati vi partecipino. Per ciò che
riguarda la versione matteana gli autori presi in considerazione sembrano divisi tra una struttura
bipartita e una tripartita, incorniciate dalla introduzione parabolica e una sentenza conclusiva.
Tra i sostenitori di una struttura bipartita abbiamo soprattutto Trilling177 e Fabris178 che concludono la
prima parte al v. 10 con l’invito di nuovi ospiti al posto dei primi invitati mentre la seconda al v. 13 con
l’allontanamento dell’ospite privo di veste nuziale. Gnilka179 e Grasso180, invece, vi vedono una
struttura tripartita con la prima fase (vv. 2-7) in cui il re manda due volte i suoi servi per chiamare gli
invitati al banchetto, la seconda (vv. 8-10) in cui vi è la sostituzione degli invitati con altri presi dai
crocicchi delle strade e la terza (vv. 11-13) caratterizzata dal particolare brano dell’invitato senza abito
nuziale.
Da un confronto iniziale delle due proposte di strutturazione si nota come i vari studiosi sono
divisi circa la suddivisione da fare nei primi dieci versetti ma concordi circa il fatto che la parte
riguardante l’invitato senza abito nuziale sarebbe una sezione a parte. Presenteremo la nostra scelta
strutturale dopo aver visto le suddivisioni all’interno della versione di Luca.
Per quanto riguarda, invece, la versione lucana, anche qui i vari studiosi propendono chi per una
struttura bipartita e chi per una tripartita. Tra le più interessanti proponiamo ancora quella di Gnilka181
e di Bagni182 che parlano di due quadri, il primo ai vv. 16-21a con la chiamata-rifiuto degli invitati e il
secondo ai vv. 21b-24 con la sostituzione degli invitati che hanno rifiutato. Dal canto suo Ortensio da
Spinetoli183 propone uno schema strutturale in tre quadri, caratterizzati dalle tre successive missioni che
il signore fa fare ai suoi servi nel corso della parabola; ne risulta che il primo quadro è dato dai vv. 16-
21a, il secondo dai vv. 21b-22 e il terzo dai vv. 23-24. Anche se interessante risulta la suddivisione del
Da Spinetoli incentrata sul comando dell’“uscire” da parte del signore, preferiamo scegliere la
divisione di Grasso-Fabris per la versione di Mt e quella di Bagni-Gnilka per la versione di Lc.
176
Cfr. H. WEDER, 216s.
177
Cfr. W. TRILLING, Vangelo secondo Matteo. Commenti spirituali al Nuovo Testamento, II, Roma 1994, 200.
178
Cfr. R. FABRIS, Matteo, 461.
179
Cfr. J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, 348.
180
Cfr. V. GRASSO, Il vangelo di Matteo, 367.
181
Cfr. J. GNILKA, 348.
182
Cfr. A. BAGNI (a cura di), Vangelo secondo Luca (Dabar-Logos-Parola. Lectio Divina popolare), Padova 2000, 104.
183
Cfr. O. DA SPINETOLI, Luca, Assisi 1982, 486.

86
Avremmo cosi i seguenti schemi:

Mt Lc

v. 1: Introduzione parabolica

I. vv. 2-7: invio dei servi I. vv. 16-21a: la chiamata-rifiuto


II. vv. 8-10: invito fatto ai crocicchi delle strade
III. vv. 11-13: l’abito nuziale II. vv. 21b-24: la sostituzione degli invitati
v. 14: Sentenza conclusiva

Poniamo ora di seguito le due parabole strutturate, in un lettura sinottica.

1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 15 Uno dei commensali, avendo udito ciò, gli
2 «Il regno dei cieli è simile a un re che fece un disse: «Beato chi mangerà il pane nel regno di
banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò Dio!». 16 Gesù rispose: «Un uomo diede una
i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, grande cena e fece molti inviti. 17 All'ora della
ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo cena, mandò il suo servo a dire agli invitati:
mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il Venite, è pronto. 18 Ma tutti, all'unanimità,
mio pranzo; i miei buoi e i miei animali cominciarono a scusarsi. Il primo disse: Ho
ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; comprato un campo e devo andare a vederlo; ti
venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne prego, considerami giustificato. 19 Un altro
curarono e andarono chi al proprio campo, chi disse: Ho comprato cinque paia di buoi e vado
ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, a provarli; ti prego, considerami giustificato. 20
li insultarono e li uccisero. Un altro disse: Ho preso moglie e perciò non
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue posso venire. 21 Al suo ritorno il servo riferì
truppe, uccise quegli assassini e diede alle tutto questo al padrone. Allora il padrone di
fiamme la loro città. 8 Poi disse ai suoi servi: Il casa, irritato, disse al servo: Esci subito per le
banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non piazze e per le vie della città e conduci qui
ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle poveri, storpi, ciechi e zoppi. 22 Il servo disse:
strade e tutti quelli che troverete, chiamateli Signore, è stato fatto come hai ordinato, ma c'è
alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi ancora posto. 23 Il padrone allora disse al
raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, servo: Esci per le strade e lungo le siepi,
e la sala si riempì di commensali. 11 Il re entrò spingili a entrare, perché la mia casa si
per vedere i commensali e, scorto un tale che riempia. 24 Perché vi dico: Nessuno di quegli
non indossava l'abito nuziale, 12 gli disse: uomini che erano stati invitati assaggerà la mia
Amico, come hai potuto entrare qui senz'abito cena».
nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re
ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e
gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e
stridore di denti. 14 Perché molti sono
chiamati, ma pochi eletti».

87
c) Differenze sinottiche

Come già rilevato, la maggioranza degli interpreti ipotizza una fonte letteraria comune
dei due testi. C'è chi parla di due varianti della medesima parabola, chi ritiene che nessuna delle
due versioni sia derivabile dall’altra, chi parla semplicemente di una fonte comune. Per quanto
riguarda lo studio su questa parabola, emblematico rimane lo studio di Weder184, accanto al
quale utilizzerò le indicazioni di Grasso185 per la riflessione circa i problemi testuali esistenti in
questa parabola. La struttura narrativa della versione matteana, di quella lucana (e del Vangelo di
Tommaso) è sostanzialmente identica, se si prescinde dall'epilogo matteano sull'ospite senza abi-
to nuziale: un uomo invita ad un banchetto — gli invitati si rifiutano - vengono chiamati ospiti
sostitutivi - costoro accettano e intervengono. Questo nucleo comune induce ad ipotizzare una
fonte comune anche se sussistono differenze notevoli. Così Mt. parla di due inviti ai primi ospiti
(vv. 3s.) mentre Lc dice che, dopo il rifiuto opposto dai primi, vengono invitati altri due diversi
gruppi (Lc. 14,21-23); Mt. sottolinea la pazienza di colui che invita nei confronti degli invitati e
della loro ostinazione. In Lc. abbiamo la distinzione tra i poveri, gli storpi e un terzo gruppo che
va identificato con i pagani. Per il rifiuto dei primi invitati Mt. s'accontenta di un lapidario «non
vollero venire» (v. 3), Luca invece riporta tre motivazioni scusanti (14,18-20). Le scuse
conferiscono al racconto vivacità e freschezza. Matteo ha cancellato quest’elemento narrativo
perché irrilevante ai fini del suo abbozzo storico-salvifico. Soltanto Matteo colloca il racconto
parabolico nel contesto della polemica tra Gesù e i responsabili del giudaismo in quanto
quest’aspetto conflittuale è rilevabile anche all'interno della parabola stessa, laddove si fa
riferimento a ingiustificate e sproporzionate azioni di violenza subite dai servi inviati.
Altra notevole differenza del testo matteano sta nella specificità del banchetto, che non è
un generico pranzo, ma una festa di nozze — il termine gr. gamos è ripetuto otto volte —
organizzata dal re per il proprio figlio, personaggio anch'esso assente nel racconto lucano.
Il punto di partenza è l'iniziativa del re che chiama gli invitati alle nozze del figlio che ci si
aspetterebbe di vedere protagonista accanto al padre, invece egli è soltanto menzionato
rimanendo poi sullo sfondo della scena per tutto il racconto: non si parla più di Lui nemmeno
quando si svolge la spedizione punitiva o quando il banchetto si apre a nuovi invitati; nemmeno
quando la festa finalmente ha inizio. Ma allora perché questa figura, carica di possibilità, è stata
introdotta nel racconto?
Annota infatti Buzzetti: «Cambierebbe molto il racconto se, più semplicemente, parlasse di un
re che fece un banchetto e invitò varie persone? Non pare. Ma forse l’accenno al figlio serve a
sottolineare che non si tratta di un banchetto qualsiasi: il re desidera in modo particolare il suo
successo , l’esservi invitati è un onore non comune e rifiutare l’invito o rispondervi male è colpa
straordinariamente grave»186.

Il primo invito è limitato ad un gruppo di privilegiati. La chiamata effettuata dai servi,


rappresentanti degli inviati di Dio ad Israele nella storia della salvezza (cfr. Mt 21,34.35.36), non
viene accolta dagli invitati. In realtà non si conosce il motivo del loro rifiuto. Si ha l'impressione
che non ne abbiano uno vero e proprio, ma che si tratti di un gesto di opposizione che però non è
sufficiente a far desistere il re dalla sua decisione.
Fa seguito un secondo invito, più pressante del primo, perché il pranzo è ormai pronto.
L'insistenza del re a ripetere l'invito mette in luce da una parte quanto egli desideri l'adesione
degli invitati e dall'altra quanto grave sia il loro boicottaggio. Il secondo rifiuto è descritto più
ampiamente del primo. La reazione inaspettatamente violenta e sproporzionata di alcuni che
percuotono e uccidono gli inviati è un'allusione alla fine dei profeti perseguitati nella storia del
popolo d'Israele (cfr. Mt 23,37-39). La loro aggressività è assimilabile a quella dei contadini, che

184
H. WEDER, 217ss.
185
S. GRASSO, 355.
186
C. BUZZETTI, Analisi letteraria del racconto matteano, in AA.VV., La parabola degli invitati al banchetto.
Dagli evangeli a Gesù, 33-34.
non solo uccidono i servi ma anche il figlio, nella parabola della vigna (cfr. Mt 21,35-39). Questa
violenza viene punita dal re che li fa uccidere e fa distruggere le loro città. Così il loro diniego
reciso diventa la causa della loro rovina.
Neppure questo secondo rifiuto è sufficiente per far arrendere il re, il quale invia ancora i
suoi servi, questa volta però nei crocicchi delle strade, con il compito di invitare indistintamente
tutti quelli che incontrano, siano essi «buoni» o «cattivi». La motivazione di quest’apertura della
cerchia degli invitati viene esplicitata dalle parole del re rivolte ai servi: «Gli invitati non ne
erano degni». Matteo rivela nell'espressione «buoni e cattivi» la sua prospettiva ecclesiologica.
La conclusione costituisce la chiave di lettura del racconto parabolico (v. 14). L'espressione
costruita sulla contrapposizione tra «molti»/«pochi» e «chiamati»/«eletti»187, condensa l'an-
nuncio fondamentale della parabola: nonostante le chiamate siano molteplici e i destinatari
diversificati, coloro che parteciperanno alla festa di nozze sono soltanto un piccolo numero (cfr.
Mt 7,13-14; 22,22.24).
L'immagine matrimoniale ha le sue radici nella tradizione biblica in cui la relazione tra
Dio e Israele viene trascritta mediante quella dì coppia. Gesù si presenta come un Messia Sposo
nel dibattito sul digiuno (Mt 9,15), e i discepoli, accusati di non astenersi dal cibo secondo il
costume dei movimenti impegnati giudaici, vengono equiparati agli invitati alle nozze. Qui
l'allegorizzazione si può toccar con mano in quanto ogni singolo tratto viene spiegato. Il re è Dio,
il figlio è Gesù, le nozze sono l'immagine della salvezza preparata da Dio per l'umanità. I primi
invitati sono i giudei, chiamati prima dai profeti poi dagli apostoli, ma essi maltrattano e
uccidono quelli che portano l'invito. La distruzione della città è una chiarissima allusione alla
distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. Gli ultimi invitati sono i pagani.
La redazione matteana mostra che la chiesa primitiva ha letto nella parabola tutta la storia
della salvezza, così che quella che sulla bocca di Gesù era una semplice parabola è diventata
un'allegoria storico-teologica. E tutto questo schizzo della storia della salvezza intende motivare
la missione della chiesa primitiva presso i pagani: poiché Israele non l'ha voluta, la salvezza è
passata ai gentili.
La terza macroscopica differenza che appare dal confronto con il terzo vangelo è la scena
conclusiva della parabola. II racconto di Matteo non si chiude con l'invito alla festa esteso a tutti,
ma prosegue con un terzo quadro in cui il re si premura di verificare se gli invitati indossano il
vestito di nozze. Alla domanda del re: «Amico, come hai potuto entrare senza abito nuziale?» (v.
12), l'ospite non sa rispondere. Allora il re ordina ai servitori di legarlo mani e piedi e di gettarlo
fuori nel fitto delle tenebre. Viene spontanea la domanda: Come possono avere un abito nuziale i
poveri chiamati dalla strada, se non ne hanno ricevuto uno al momento di entrare nella sala?
Perciò il re non può punire quell'uomo che non l'ha, escludendolo dalla cena.
Bisogna quindi supporre che qui si abbia una parabola a parte, che non ha nulla a che fare
con la precedente, ma che è stata poi saldata con quella dall'evangelista. Weder, convinto della
rielaborazione successiva di questa parabola in tre fasi successive, così afferma:
«La comunità pre-matteana trasformò il protagonista in un re e il banchetto in un banchetto
nuziale per il figlio del re, e rielaborò l’intera parabola da questo punto di vista; compendiò le
giustificazioni eliminando il discorso diretto; inserì infine l’espressione «buoni e cattivi». Matteo
a sua volta corregge il «servo» originario in «i servi», inserisce un secondo invito, la reazione
esagerata degli invitati (…); collega la parabola mediante il v. 1 a quella dei vignaioli e la
sviluppa con la parabola dell’abito nuziale e con la sentenza sui chiamati e gli eletti. Luca
interviene in misura minore nella parabola: al v. 21 preferisce la designazione di «padrone» al
posto di «uomo», descrive il secondo gruppo di invitati come «poveri, storpi, ciechi e zoppi»
(…); infine, mediante il v. 15 stabilisce un esplicito riferimento al banchetto escatologico e al v.
24 trasforma l’originaria pointe in una applicazione»188. Questa ipotesi è stata ripetutamente
proposta con richiamo alla parabola rabbinica, che narra di un re che invitò a banchetto senza

187
Il termine greco corrispondente eklektoi indica coloro che faranno parte del regno escatologico dopo aver risposto
alla chiamata del vangelo (cfr. S. GRASSO, 516).
188
H. WEDER, 223.

89
precisare il tempo189. Gli invitati avveduti indossarono il loro abito da festa e si posero in attesa,
gli stolti si recarono al lavoro. All'improvviso risuonò l'invito al banchetto e furono ammessi
soltanto coloro che erano vestiti in modo adeguato. Perché Matteo ha saldato queste due
parabole?
Evidentemente voleva evitare che si fraintendesse la prima. L'invito indiscriminato di
buoni e cattivi poteva portare il lettore a pensare che la condotta dell'uomo non ha alcuna
influenza ai fini del conseguimento della salvezza. Gesù non aveva bisogno di temere questo
malinteso, poiché faceva quel racconto ai suoi avversari. Ma l'equivoco dovette presentarsi quasi
inevitabile non appena la parabola venne applicata alla comunità. Per scuotere ogni falsa
certezza di salvezza, Mt. aggiunse la seconda parabola alla prima, intendendo dire che solo chi si
converte e si dimostra degno dell'invito di Dio può affrontare il suo giudizio. Agli altri è
riservata la medesima sorte di coloro che sono stati chiamati per primi. Le tenebre fitte sono
immagine della lontananza eterna da Dio mentre il pianto e lo stridore dei denti descrivono l'ira
di quelli che sono esclusi dalla salvezza. Ancora una volta la chiesa primitiva ha riferito alla sua
situazione concreta una parabola di Gesù, ampliandola in base alle sue esperienze missionarie.
Ci si domanda che cosa significhi precisamente l'abito nuziale. L'abito nuziale
rappresenta la salvezza, la giustizia concessa da Dio. Anche nella parabola del figlio perduto
l'abito di gala che il padre fa indossare al figlio che è tornato (Lc. 15,22) è simbolo del perdono e
della reintegrazione nella dignità filiale. Anche nell'Apocalisse si parla ripetutamente di una
veste bianca che Dio donerà all'uomo (3,4s;19,8) come simbolo dell'appartenenza alla comunità
di quanti saranno salvati per sempre. Nella spiegazione allegorica di Mt. quest'abito indica il
battesimo, mediante il quale l'uomo diventa membro della chiesa. Ma questo basta ad
assicurargli definitivamente la salvezza? No, risponde l'evangelista. Nella comunità terrena
buoni e cattivi vivono gli uni accanto agli altri (cfr. v. 10) e la loro appartenenza definitiva al
regno di Dio si decide solo nel giudizio finale, rappresentato dall'apparizione del re nella sala
della festa. Chi per negligenza e impenitenza non possiede l'abito nuziale della grazia, alla fine
viene scartato. Mt. dunque ricusa un cristianesimo fondato sul battesimo come via affatto sicura
per giungere alla salvezza così che i cristiani sono chiamati, ma non ancora eletti190.
Questo è il senso del v. 14, che certamente è stato aggiunto successivamente e non si
attaglia alla narrazione originaria. Infatti esso sembra dire che solo pochi ottengono la salvezza
eterna, mentre nella parabola tutta la sala è piena di ospiti e soltanto uno di loro viene
allontanato. Si tratta probabilmente di un detto autentico di Gesù; ma esso non vuole dare alcun
ragguaglio sul numero dei salvati, ma solo scuotere e guidare alla conversione. Così inteso,
comunque, esso si addice in certo qual modo alla parabola, che è anche una minaccia profetica
rivolta alle guide d'Israele. Dopo aver brevemente segnalato le differenze tra le due versioni
paraboliche, affrontiamo l’analisi esegetica del brano lucano, tenendo conto delle indicazioni
fornite.

I.2 Analisi esegetica di Lc 14, 15-24191

v. 15:
Uno degli invitati, udite queste cose, gli disse: «Beato chi mangerà pane nel regno di Dio!»
Uno dei commensali di Gesù prende spunto dall’allusione alla resurrezione dei giusti per
introdurre il banchetto nel Regno di Dio che a sua volta introduce la parabola degli invitati al
grande convito. La sua esclamazione mostra che egli e i suoi colleghi attendono la sua irruzione
con la calma di coloro che non hanno dubbi circa la loro convocazione. Il v. 15 funge quindi da
transizione e lega la parabola alla raccomandazione dei vv. 12-14 di invitare poveri, storpi, zoppi

189
Cfr. in b.Shab. 153, cit. in J. GNILKA, 350.
190
Così V. FUSCO, «parabola/e», in P. ROSSANO – G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo dizionario di teologia
biblica, Roma 1988, 1094-1095.
191
Cfr. G. ROSSÉ’, Il Vangelo di Luca: commento esegetico e teologico, Roma 1992, 580-588. In nota i riferimenti
al testo parallelo di Mt 22, 1-14.

90
e ciechi alla propria tavola. Gesù dichiara fortunato chi fa il bene senza ricompense terrene,
perché ne avrà una più grande nella vita futura. Per colui che ha preso la parola, la «beatitudine»
si consegue con il prendere parte al Regno di Dio, immaginato anch’esso come un convito192.
L’affermazione del convitato appare singolare: «mangiare il pane nel Regno di Dio» (phagetai
arton en tē basileia tou theou) indica una relazione stretta con l’idea escatologica della
ricompensa dei giusti. Va osservato come la parabola si colloca in un contesto didattico, ma
assume una valenza giudiziale ed escatologica. Sia il v. 15 che la conclusione nel v. 24 sembrano
alludere alla prospettiva finale del giudizio di Dio.

vv. 16-17:
Gesù gli disse: «Un uomo preparò una gran cena e invitò molti; e all'ora della cena, mandò il suo
servo a dire agli invitati: "Venite, perché tutto è già pronto".

L’introduzione narrativa della parabola non offre i tratti allegorici presenti nel racconto
parallelo di Matteo193 e appare quindi più primitiva. Con l’affermazione che «molti» sono stati
invitati, Luca sembra quasi preparare il secondo invito del v. 23. Venuto il momento, il padrone
invia il suo servo194. L’uso di mandare a chiamare i commensali195 era tipico dell’ambiente
palestinese che comportava dapprima un invito generico e che poi, indipendentemente da questo,
ne implicasse un secondo il giorno stesso del banchetto poco prima della cena precisandone
anche l’ora196. L’espressione ton doulon non indica necessariamente che avesse un solo servo
ma che questi fosse il vocator, cioè l’inviato a ricordare il momento esatto dell’invito.197
«Venite... è pronto!»: l’espressione etoima estin è sicuramente tipica della lingua parlata che è
uno dei mezzi preferiti per dare vivacità alla narrazione, confacendosi benissimo alla forma del
racconto parabolico. L'appello si legge già nella fonte e può risalire alla parabola primitiva.
Emerge la prospettiva escatologica della predicazione originale di Gesù: il Regno di Dio è
vicino; per mezzo del suo Inviato, Dio convoca Israele al banchetto di festa del Regno.
Il «già» - forse aggiunto dall'evangelista - situa l'appello nel presente della storia
diventato tempo salvifico con la venuta del Messia, e sperimentato come tale nella Chiesa,
secondo la concezione lucana. Si manifesta qui l’autocoscienza escatologica di Gesù: Gesù
interpreta se stesso e la sua opera come l’irruzione della basileia. Il Regno di Dio è vicino nella
sua opera e nella sua parola; in Lui è arrivato il tempo nuovo, comincia il grande banchetto di
gioia e chiunque sa cogliere il significato di questo nuovo tempo, accoglie l’invito. Gli invitati
accampano delle scuse non perché non gli piaccia colui che li ha invitati ma essenzialmente
perché non comprendono il tempo.
v. 18:
Tutti insieme cominciarono a scusarsi. Il primo gli disse: "Ho comprato un campo e ho necessità
di andarlo a vedere; ti prego di scusarmi".

Tutti rifiutano! Quello che l'ascoltatore ritiene ovvio -andare al banchetto, perché
significa mangiare e far festa - in realtà non avviene! I chiamati sono troppo occupati nei loro
192
O. DA SPINETOLI, Luca, 485.
193
In Matteo l’uomo diviene, al v. 2b un anthrōpos basileus, cioè un uomo-re che fa un banchetto di nozze per il
figlio, abbinamento tipico delle parabole della tradizione prematteana. Questo è anche uno dei motivi per cui si
ritiene più antica la versione lucana rispetto a quella mattana in quanto è molto più semplice passare da un grande
banchetto a un banchetto nuziale che non viceversa.
194
In Matteo abbiamo non una uscita dei servi ma tre uscite: i primi sono chiamati keklemenous, cioè persone
avvertite a suo tempo (si tratta evidentemente di amici del sovrano, di gente in buoni rapporti con lui). Al posto dei
primi partecipanti subentrano anche qui uomini di strada, gente senza nome e senza colore.
195
Matteo pone un accento più escatologico a questa chiamata usando il termine kalesai che è usato nei racconti di
vocazione (4, 21; 9, 13) e in Paolo può indicare l’appello ad entrare nella basileia di Dio.
196
J. JEREMIAS, Gerusalemme al tempo di Gesù, Roma 1989, 156.
197
Mt riporta numerosi servi che vengono allegorizzati per indicare i profeti. Secondo l’idea di Weder difficilmente
questo fatto si spiega supponendo che il protagonista sia diventato un basileus, ma è invece da considerarsi una
intenzionale correzione redazionale, connessa al secondo invito e alla distruzione della città.

91
affari. A partire da un fondo primitivo, Luca costruisce la scena delle scuse secondo la tecnica
narrativa del triplice esempio, ma anche alla luce delle proprie preoccupazioni parenetiche: egli
vede nei tre tipi di comportamento degli ostacoli caratteristici che impediscono la conversione o
frenano un'esistenza vissuta secondo le esigenze evangeliche.
Il primo invitato giustifica il rifiuto con la «necessità» di recarsi a vedere il campo che ha
comprato. Ma si compera forse un campo a occhi chiusi? E avendo già proceduto all'acquisto,
l'invitato poteva benissimo aspettare il giorno seguente per recarsi nella sua nuova proprietà. La
scusa non regge! In questo versetto Luca ci mostra un crescendo: il primo invitato giustifica il
rifiuto, il secondo non lo giustifica più, il terzo neanche si scusa. A parere di Weder le
giustificazioni, nella forma lucana, sono originarie perché già da un punto di vista formale
corrispondono meglio allo stile narrativo della parabola. Soprattutto perché la formulazione in
Mt 22,5 ha tutta l’aria di essere un riassunto di Luca. Mentre la versione di Lc mette in risalto la
ragionevolezza e la comprensibilità delle giustificazioni addotte, quella di Mt ne mette in risalto
la incomprensibilità198. I tre esempi di scuse concernenti gli affari terreni, il lavoro, i problemi
familiari, esprimono gli ostacoli che si frappongono all’adesione al vangelo: gli interessi umani
molto spesso distolgono gli uomini dal valore assoluto, costituito dalla ricerca del Regno di
Dio199.

v. 19:
Un altro disse: "Ho comprato cinque paia di buoi e vado a provarli; ti prego di scusarmi".

Anche il secondo esempio è tratto dalla vita rurale. Comprare cinque paia i di buoi implica che
il proprietario abbia la possibilità di lavorare molto terreno perciò è un uomo ricco. Ci si
aspetterebbe però che egli provasse i buoi prima di comprarli!

v. 20:
Un altro disse: "Ho preso moglie, e perciò non posso venire".

Il perfetto semitico gynaika egēma che sta alla base dell’aoristo egēma descrive qui l’azione
appena conclusa: “mi sono sposato or ora”. L'ultimo rifiuto appare inverosimile nel contesto
della parabola: prendere moglie non è un atto imprevedibile; l'invitato poteva conoscere con
buon anticipo la data del matrimonio ed evitare l'offesa di un rifiuto dell'ultima ora all'invito fat-
togli per il banchetto. Il vangelo di Tommaso vede la difficoltà e cerca di aggirarla: l'invitato
deve preparare il pranzo per un suo amico che si sposa! La scena lucana si comprende nella linea
della preoccupazione di Luca ed è, di conseguenza, un'aggiunta redazionale: il Regno esige un
amore che supera ogni affetto naturale, anche l'amore per la moglie (cfr. Lc 14,26).

v. 21:
Il servo tornò e riferì queste cose al suo signore. Allora il padrone di casa, irritato, disse al suo
servo: "Va' presto per le piazze e per le vie della città, e conduci qua poveri, storpi, ciechi e
zoppi". Il padrone non rinuncia al banchetto e agli inviti e manda il servo «per le piazze e i vicoli
della città» (cfr. Is 15,3 LXX). É lì che, per cause varie, si incontra tutta quella consistente fetta
di società israelitica ridotta alla mendicità: persone allontanate dalla vita sociale e religiosa,
segnate dal destino, senza futuro. Ed ecco che a loro viene offerta la possibilità del tutto inattesa
di partecipare al banchetto. Il motivo - l'ira dei padrone di casa contro i primi invitati - è un
elemento della narrazione. Non è difficile scorgere in questi emarginati i destinatari principali
dell'annuncio di Gesù sulla vicinanza del Regno di Dio (cfr. Lc 7,22). JHWH, come Re ideale, ha
deciso di prendere in pugno la sorte di chi non ha diritti in Israele.
Anche se la mano del redattore non è assente, il versetto appare in gran parte redazionale;
comunque, più primitivo del parallelo di Matteo che allegorizza il rifiuto degli invitati
198
Cfr. H. WEDER, 219, nota 67.
199
Matteo riferisce direttamente la parabola al popolo di Israele che si era autoescluso dalle nozze messianiche.

92
(l'uccisione dei servi) e la reazione d'ira del re (punizione dei colpevoli e incendio della città).
L’invito da parte del padrone ai suoi servi di andare celermente fuori a chiamare i nuovi
invitati, indicato dall’avverbio takeōs, non è dettato da impazienza ma dal desiderio che nulla di
ciò che è pronto vada consumato o deteriorato. L'elenco degli invitati trovati per le piazze200
corrisponde a quello del v. 13 (inversione tra ciechi e zoppi). È interessante notare come
l’articolo tous è unico per tutti gli elencati che così formano un’unica categoria, di quelli cioè il
cui invito non era previsto e che gli invitati non avrebbero considerato mai come loro sostituti.
Anche se non è possibile stabilire quale dei due versetti abbia influito sull'altro, il legame tra il v.
13 e il v. 21 è senz'altro intenzionale a livello redazionale. Secondo 2 Sam 5,8 ciechi e storpi non
possono entrare nel tempio così come non erano ammessi neanche nella comunità di Qumrân;
questo implica che i beneficiari201 del banchetto escatologico sono precisamente coloro che il
giudaismo escludeva dal tempio e dalla santa assemblea. Interessante da notare è anche il diverso
atteggiamento tra il padrone in Lc e il re in Mt. In Lc, il padrone si adira per il rifiuto dei primi
invitati, ma non fa nulla contro di loro per rappresaglia, mentre in Mt il re ordina non solo la loro
uccisione ma anche la distruzione della loro città202. La sua magnanimità davvero sorprendente
lascia trasparire l’immagine del Padre celeste, la cui bontà supera ogni aspettativa. Degno di nota
il fatto che la sezione successiva a questa parabola è proprio quella del grande capitolo 15° di
Luca.

v. 22:
Poi il servo disse: "Signore, si è fatto come hai comandato e c' è ancora posto".

L’osservazione del servo - «c'è ancora posto» - è necessaria per introdurre l'ultimo invito (v.
23), che appare come un ampliamento allegorico (secondario rispetto alla parabola di Matteo e
del vangelo di Tommaso, che conoscono soltanto un invito dopo l'insuccesso iniziale). Il
racconto acquista una dimensione storico-salvifica: la missione della Chiesa si apre al mondo
pagano. Il versetto non rivela lo stile del redattore, e potrebbe quindi essere pre-lucano.

v. 23:
Il signore disse al servo: "Va' fuori per le strade e lungo le siepi e costringili a entrare, affinché la
mia casa sia piena.
L'espressione «per le vie e lungo le siepi» distingue chiaramente quest'ultima categoria di invitati
dalla precedente: ora si tratta di gente trovata sulle strade dì campagna e lungo le siepi che
circondano i vigneti e gli orti situati fuori della città. L'inattesa formula «forzali a entrare» è stata
diversamente interpretata: come allusione all'urgenza dell'ora, nel significato teologico
dell’oportet (dei) evangelico: la partecipazione dei popoli al banchetto escatologico fa parte del
disegno di Dio. Non giustifica, in ogni modo, le conversioni forzate! Conviene tuttavia non
forzare il senso e capire il verbo anagkason alla luce dell'uso orientale: l'invitato, per cortesia,
oppone resistenza e si fa persuadere. Non deve essere perciò inteso come una costrizione ad
entrare nella comunità cristiana. Sant’Agostino pensa che il comando di costringere la gente a
venire non esprima un invito insistente ma una vera e propria costrizione, e ne desume il diritto
della Chiesa di convertire gli eretici alla vera fede e di portarli alla salvezza anche con la
coercizione.203

v. 24:
200
È difficile sapere se la lista di Luca sia primitiva rispetto a “tutti quelli che trovate” di Mt 22,9 o viceversa.
201
L’espressione diexodous ton odon di Mt 22,9 è secondario rispetto all’originario odous del v. 10 ma designa quei
punti nei quali le vie della città terminano trasformandosi in strade di campagna ed è perciò un’allusione alla
missione tra i pagani inquadrandosi bene nella rielaborazione matteana della parabola.
202
È già stato fatto notare come Matteo pensasse sicuramente alla distruzione di Gerusalemme del 70 d. C. che,
quando scrisse il Vangelo, sarebbe già avvenuta. Qui, in una storia tramandata, s’inserisce una spiegazione attuale
dell’evangelista e la comprensione che di quest’avvenimento ne aveva fatto la sua comunità.
203
A. KEMMER, Le parabole di Gesù (SB, 93), Brescia 1990, 111.

93
Perché io vi dico che nessuno di quegli uomini che erano stati invitati, assaggerà la mia cena"».

La persona che adesso si rivolge non al servo ma ad una pluralità, e che già nel v. 23 ha
ricevuto il nome di «signore» (kyrios), non può essere che Dio Padre e non il padrone di casa. È
però anche interessante citare ciò che dice Gaeta nel suo studio su questa parabola. Egli afferma
che:
«Senza con ciò voler giungere ad un’identificazione assoluta del padrone di casa con Gesù; il
banchetto escatologico è normalmente opera di Dio e così pure il giudizio; e tuttavia in altro
senso è il banchetto di Gesù, poiché è lui che lo rende possibile»204.
La parabola si chiude su questo secondo invito che continua tuttora nella storia dell'umanità.
Non la prossimità del Regno di Dio è accentuata, ma la possibilità di trovare «adesso» (v. 17:
ēde) l’accesso al futuro banchetto, mediante l’invito che la Chiesa rivolge al mondo. È, infatti, al
banchetto escatologico che Luca si sta riferendo con il suo mou tou deipnou, cioè la mia cena.
L'iniziale «perché io vi dico» conclude spesso le parabole e introduce ora una sentenza di
condanna perentoria - nella linea di Lc 13,25-27 - che riflette meglio l'esperienza della missione
post-pasquale nei confronti di Israele e non quella di Gesù che non ha mai chiuso la porta alla
speranza di conversione.

I.3 Messaggi principali

Nel contesto di un pasto Gesù racconta la parabola per costringere i suoi ascoltatori (farisei e
scribi) a cambiare il loro punto di vista circa Dio e la salvezza. Per fare questo egli non discute,
ma racconta una parabola ai farisei che si sentivano a parte tra i molti: essi rivendicavano un
primato rispetto al Regno205.
Per cogliere il senso di questa parabola si deve prima partire dal presupposto che il grande
banchetto, sia per il narratore che per gli uditori, era una metafora della gioia escatologica;
dall’altra si deve considerare quale ruolo abbia il pasto nella vita di Gesù: la sua comunanza di
mensa con le persone più svariate, coi farisei, coi pubblicani, coi peccatori, è il segno dell’amore
che accoglie, diventando perciò annuncio della basileia. In questo contesto assume pieno
significato la proclamazione «adesso è pronto tutto», che risuona nella nostra parabola. Adesso,
nella esistenza di Gesù è arrivato il tempo in cui si viene chiamati al banchetto di gioia del
Regno di Dio; adesso va accolto l’invito. Tutti gli uditori si trovano in un primo momento nella
stessa condizione dei primi invitati, se non comprendono che il Regno di Dio è iniziato in Gesù
Cristo. La parabola non si limita a imporre all’uditore di decidere a quale gruppo egli vuole
appartenere, ma si sforza di chiarirgli la situazione in modo tale che egli si renda conto di quanto
sia ovvio che la decisione giusta è quella di accettare l’invito di Gesù206.
Da qui scaturisce che come i notabili di una città, avendo rifiutato di accettare di intervenire
alla festa per dei motivi diversi, furono sostituiti da invitati presi a caso nelle strade, così le classi
dirigenti ebraiche, le quali ricevettero l’invito a entrare nel regno del Messia ma poi lo
rifiutarono, saranno sostituite proprio da quella feccia della società che essi disprezzavano, ma
che in realtà non si farà pregare ad accettare l’invito207. È chiara quindi che questa parabola
nasce in un clima di polemica contro il giudaismo del tempo. Accanto a questo primo messaggio
datoci dalla parabola, abbiamo sicuramente quello non secondario ma altrettanto importante che
ci viene dalla parabola della veste, nella quale possiamo leggere come non è solo il fatto di
essere stati chiamati che conta ma anche quello dell’operosa azione personale.

204
G. GAETA, Invitati e commensali al banchetto escatologico. Analisi letteraria della parabola di Luca, in
AA.VV., La parabola degli invitati al banchetto. Dagli evangeli a Gesù, 122, nota 7.
205
Cfr. A. BAGNI, 107-108.
206
Cfr. H. WEDER, 227-232.
207
Cfr. G. NOLLI, Evangelo secondo Luca, Roma 1983, p. 668.

94
II. Analisi teologica208

II.1 Considerazioni relative alla teologia matteana

La lettura della parabola in Mt evidenzia il sottofondo teologico che guida la presentazione


cristologica dell’evangelista, riflessa nel giudizio del racconto parabolico. Anzitutto il rapporto
con il giudaismo fu un problema fondamentale nella Chiesa primitiva ed è riflesso in quasi tutti
gli scritti del Nuovo Testamento ma è soprattutto nel Vangelo di Matteo che si intravede la
polemica antigiudaica più dura di tutto il Nuovo Testamento. Matteo sottolinea che Gesù è il
Messia inviato al popolo d’Israele. Le genealogie lo legano a Davide e ad Abramo al contrario di
Luca che lo mette in rapporto a tutto il genere umano. Da parte di Mt c’è il desiderio di
presentare Gesù alla luce dell’Antico Testamento, come compimento di quest’ultimo. A fare da
sfondo a questa volontà teologica sta l’importanza della problematica propriamente giudaica
delle opere di pietà giudaiche e ancora dei problemi legali e di interpretazione della legge. È
perciò un Vangelo profondamente radicato nel giudaismo.
Il Vangelo di Matteo sottolinea profondamente che Israele rifiuta il Messia che gli è stato
inviato; le tre parabole di 21,28-22,14 (perciò anche quella del banchetto di nozze) sono state
particolarmente rielaborate dal punto di vista redazionale e vi sia incontra un versetto centrale,
presente solo in Mt: «vi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttare»
(21,43). Questa è la conseguenza del rifiuto del figlio unigenito, cui tocca il destino di tutti gli
altri inviati di Dio. Non si sostiene l’opposizione tra giudei e gentili, ma tra Israele e il nuovo
popolo di Dio, dove evidentemente Mt pensa alla Chiesa cristiana. C’è ora un nuovo popolo di
Dio, aperto a tutte le nazioni, senza discriminazione tra giudei e gentili, popolo fondato
essenzialmente sulla fede in Gesù e sulla messa in pratica dei suoi insegnamenti, cioè sul portare
buoni frutti.
La polemica antigiudaica di Mt da molti è presentata come una conseguenza del suo essere
giudeocristiano palestinese che sostiene una controversia intra muros all’interno del giudaismo;
probabilmente la polemica viene condotta perché la comunità di Mt è giudeocristiana con una
importante componente ellenista. Matteo è anche stato considerato il vangelo ecclesiale per
antonomasia in quanto è l’unico in cui compare la parola ekklesia e ci viene spiegato il sorgere
della Chiesa e la sua vita, ma anche perché mostra in controluce la vita della Chiesa. A questo
aspetto si deve anche aggiungere l’aspetto morale dell’insegnamento di Gesù, l’insistenza sulla
pratica della giustizia, sul compimento delle opere, sul portare buoni frutti ecc.. La Chiesa è un
corpus mixtum, un corpo misto, composto di grano e zizzania, di buoni e cattivi (22,10); molto
istruttiva a questo proposito è proprio la piccola appendice (22,11-14: la parabola del vestito
nuziale) aggiunta alla nostra parabola del banchetto in quanto indica molto bene come non basta
essere invitati, cioè appartenere alla Chiesa, ma è anche necessario portare il vestito appropriato,
cioè praticare la giustizia cristiana. Mt combatte la presunzione della Chiesa, in quanto i cristiani
sono i chiamati ma non gli eletti (22,14). Quel che è accaduto ad Israele diventa un avvertimento
urgente e una sollecitazione critica su ciò che anche alla Chiesa può accadere.
Il Vangelo insiste sulla minaccia costituita dal giudizio per coloro che non operano secondo
giustizia, ripetendo una espressione che è quasi il solo ad usare: «là sarà pianto e stridore di
denti» con la quale parla del giudizio non tanto per consolare i buoni ma soprattutto per esortare
in modo perentorio e addirittura minaccioso alla conversione e a portare buoni frutti. Per
ciò che invece riguarda l’opera lucana essa presenta sicuramente una storia della salvezza,
presentata come via profetica e salvifica, disegnata e retta da Dio Padre che offre la sua salvezza
attraverso lo Spirito Santo, Gesù, i profeti e l’opera della Chiesa.

II.2 Considerazioni relative alla teologia lucana

208
Cfr. R. A. MONASTERIO- A. R. CARMONA, Vangeli Sinottici e Atti degli Apostoli (Introduzione allo studio
della Bibbia, 6), Brescia 1995, 199ss.

95
Nel Vangelo di Lc l’acquisizione della salvezza ci viene presentata soprattutto come un
cammino attraverso Gesù che è la via di Dio, la via della pace e della vita. Questo cammino
porta alla resurrezione ossia alla pienezza di vita. La salvezza è perciò uno dei temi più
importanti della teologia lucana che, di fronte al mondo giudaico, viene presentata come
promessa e attuata da Dio Padre in Gesù, si ottiene per pura misericordia e non per i propri
meriti. Questa salvezza offerta in Gesù è totale in quanto corrisponde a tutte le esigenze
dell’uomo, raggiunge tutti, pur privilegiando gli emarginati, ed è, per questo, motivo di gioia.
Nel quadro di questo universalismo gli emarginati, in particolare i peccatori, i poveri, le donne e
i samaritani, sono i destinatari privilegiati della salvezza. I poveri costituiscono un gruppo
eterogeneo, distinguibile in tre gruppi: i poveri-miserabili, gli ’anawim dell’Antico Testamento
(si tratta di un gruppo esteso, comprendente i miserabili, i mendicanti, gli umiliati, gli affamati,
gli storpi, gli zoppi, i paralitici, le povere vedove, le donne sterili) destinatari privilegiati del
Regno di Dio e quindi dell’opera di Gesù; i cristiani perseguitati, ridotti in condizioni di miseria;
chi vive la povertà come austerità. Alla luce delle considerazioni svolte sulla parabola è
opportuno sottolineare i temi teologici principali e svilupparne i messaggi, con una prospettiva
pastorale. La sezione di Lc 9-17 in cui è inserita la pagina lucana è definita dai critici il «grande
viaggio verso Gerusalemme». Nel corso di questo itinerario, Gesù annuncia l’evento della
salvezza e invita tutti ad accogliere l’avvento del Regno di Dio.
1. Il banchetto è tra le diverse immagini che costituiscono il tema del Regno. Abbiamo già
sottolineato il sottofondo biblico-teologico collegato al simbolismo del banchetto. Il tema appare
variamente impiegato nella elaborazione pastorale mediante diverse relazioni tra le quali le più
importanti sono sicuramente quella tra banchetto ed Eucaristia, tra banchetto e giorno del
Signore, tra alleanza e riconciliazione. L’immagine del banchetto indica sicuramente un
momento qualificante e visibile della comunità radunata nella fede, è altresì evocazione del tema
della solidarietà fraterna, del riconoscimento della persona umana, della festa, dello stare insieme
(come questo accade nel nostro contesto ecclesiale?)
2. L’annuncio della salvezza (il ruolo del servo). Il kyrios ha un servo che «obbedisce»
all’ordine del suo padrone. Egli si presenta all’«ora della cena» per invitare gi uomini al convito.
Il doulos (Is 42…) è Cristo che annuncia l’amore del Padre.
In che senso la salvezza deve poter raggiungere tutti gli uomini? C’è una resistenza di fronte
all’annuncio della salvezza di Dio! Perché? Come questo accade nel nostro contesto sociale ed
ecclesiale? L’iniziativa di Dio che prosegue nell’azione della Chiesa: evangelizzare e vivere in
uno stato di missione.
3. La risposta dell’uomo (vita come «vocazione»). Gli invitati non riconoscono l’importanza
del tempo «adesso», ma chiedono di essere giustificati. Il banchetto non può essere rimandato, in
quanto è più importante delle giustificazioni (per quanto esse siano plausibili). Quale modello di
vita cristiana emerge dalla lettura di Lc? Quali confronti con il nostro contesto socio-religioso?
4. Il giudizio finale di Dio nei riguardi degli invitati. La fine della giornata (sera), il disertare la
cena per altri motivi, il sopravvenire di altri invitati imprevedibili (la chiesa e l’ingresso dei
credenti provenienti dal paganesimo e dal mondo idolatrico): tutto culmina con il v. 24, che
contiene un’affermazione tassativa, perentoria, posta al futuro (nessuno di loro assaggerà).
L’importanza di saper cogliere il senso ultimo della nostra scelta di fede, senza vivere la paura
del rapporto con Dio.

II.3 Risonanze

Dall’analisi della parabola lucana possiamo individuare alcuni messaggi teologici che si
collegano all’intera visione teologica dell’evangelista. La parabola va anzitutto interpretata nel
contesto della vita di Gesù partendo dal presupposto del banchetto come metafora della gioia
escatologica e dalla considerazione del ruolo del pasto nella vita di Gesù. La rielaborazione della
parabola attuata dalla comunità anteriore a Matteo dimostra che essa aveva ben compreso la
relazione tra la venuta di Gesù e il banchetto di gioia escatologico. Identificando l’invito della

96
parabola con quello di Gesù, nella situazione postpasquale essa considera inammissibile
qualsiasi scusa accampata nei confronti di questo invito. La comunità ha perciò trasmesso nel
periodo postpasquale la parabola di Gesù interpretandola in senso cristologico ed ecclesiologico,
trasformandola altresì in un abbozzo storico del passaggio dalla missione ai giudei a quella ai
pagani. Con i suoi ritocchi interpretativi anche Luca fa capire di intendere la parabola di Gesù
nel senso di una cristologia postpasquale. Se si prende sul serio l’intima connessione tra l’appello
di Gesù ed il banchetto di dio, ben si comprende che, quando dopo la pasqua i discepoli
portarono l’appello del kyrios in tutto il mondo, la parabola doveva ricevere questa nuova
interpretazione209. Indichiamo quattro aspetti del messaggio teologico che emerge dalla lettura di
questo splendido testo parabolico:
1. In primo luogo il testo parabolico fa riferimento al compimento del «tempo messianico». La
narrazione si apre con due categorie tipiche dell’attesa messianica: il banchetto e il «regno di
Dio». Tale prospettiva messianica è presente fin dall’inizio del vangelo, nei racconti
dell’infanzia, ma viene accentuata soprattutto nella presentazione cristologica del discorso a
Nazareth in Lc 4,16-30. Nella prima parte dell’episodio della sinagoga, Gesù stesso attribuisce
alla sua persona il compimento messianico, riferendosi alle profezie di Isaia:
«Lo Spirito del Signore è sopra di me;per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha
mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore»
(Lc 4,18-19). Una tale applicazione scritturistica, posta l’esordio del ministero pubblico di Gesù,
diventa la chiave di lettura per poter interpretare anche questa parabola, incentrata
prevalentemente sul «riconoscimento del tempo messianico».
2. L’immagine del «banchetto»210 porta in sè la triplice prospettiva teologale come atto di fede,
di speranza e di carità. Il banchetto implica in se stesso un atto di fede; in colui che riceve
l’invito si impone una partecipazione attiva, da protagonista, tutt’altro che da spettatore. Credere
in questa presenza spinge ciascuno a prendere posto nel convito, a farne motivo di riflessione e
di fede, ad escludere ogni possibile inimicizia e discordia. Dopo aver considerato la dinamica
della fede, nella categoria del banchetto si può intravedere il dinamismo della speranza. La
speranza, che dice attesa di un compimento già annunciato, viene spesso raffigurata con l’idea di
un banchetto escatologico, a cui prendono posto tutti gli uomini. Nella vita di Gesù e nella sua
predicazione si coglie uno stretto legame tra il banchetto e l’annuncio della speranza e con la sua
presenza il Signore qualifica il significato del pasto, dandone pieno valore. Il banchetto è una
delle figure che accompagna l’annuncio del Regno dei cieli e la speranza escatologica. Al posto
della manna, il Signore inaugura una nuova alleanza nel suo corpo e nel suo sangue, in attesa
della sua apparizione definitiva. In tale contesto si innesta un ultimo aspetto della speranza: la
vigilanza. L’invito alla cena richiede la vigilanza fino alla fine: essere pronti ad aprire la porta al
Cristo per celebrare le nozze dell’Agnello. L’esercizio della carità, poi, può considerarsi come il
prolungamento simbolico-interpretativo dell’immagine biblica del banchetto, soprattutto inteso
nella prospettiva eucaristico-sacramentale. In definitiva il banchetto è il più reale atto di
proclamazione del mistero pasquale; esso, nell’ordine della carità, rinnova nei commensali la
vita del Figlio di Dio risorto dalla morte.
3. Un ulteriore messaggio teologico è costituito dalla «scelta preferenziale per i poveri», che
attraversa l’intera rilettura teologica del terzo vangelo. L’invito precedentemente rivolto ai
«destinatari» della cena viene poi indirizzato ai «poveri», identificati nelle categorie
veterotestamentarie di coloro che «attendono» la liberazione messianica. L’insistenza della
parabola sull’ingresso degli «ultimi» nella sala della cena evidenzia la «volontà» di Dio di
rivolgere l’invito della salvezza a tutti. Gesù stesso fa la scelta dei poveri, vivendo in prima
persona come «povero».

209
Cfr. H. WEDER, 227-232.
210
Per una sintesi biblico-pastorale, cfr. G. DE VIRGILIO, «La categoria biblica del banchetto e il suo simbolismo»,
NPG 5 (2003) 44-52.

97
4. Il dramma del rifiuto messianico, visibilizzato nelle tre giustificazioni addotte dagli invitati.
La venuta del Regno di Dio è segnata dal rifiuto di riconoscere il «tempo della salvezza». Cosa
impedisce a questi uomini, rappresentanti non solo del mondo farisaico, ma di tutti coloro che
rifiutano l’invito di Dio ad accogliere il Regno?

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di unità di apprendimento per i piani di studio personalizzati


della scuola primaria.

Scuola primaria, secondo biennio.

Bisogno formativo: Conoscere la vita di Gesù; la Sua comunanza di mensa con svariate persone,
segno dell’amore che accoglie.

Obiettivo specifico di apprendimento (O.S.A. scuola primaria, secondo biennio)

Gesù, il Signore, che rivela il Regno di Dio con parole e azioni.

Competenze attese (Dal P.E.CU.P:, Profilo Educativo Culturale Professionale, 6 – 14 anni)

L’allievo:…” Avverte interiormente, sulla base della coscienza personale, la differenza tra il
bene e il male ed è in grado di orientarsi di conseguenza nelle scelte di vita e nei comportamenti
sociali e civili…”

Apprendimento unitario

Comprendere che il grande banchetto rappresenta una metafora della gioia escatologica.

Obiettivo formativo

Saper donare gratuitamente, buoni sentimenti, aiuto, conoscenze e disponibilità personale,


soprattutto a chi ha bisogno.

Attività

- Gruppo di ascolto: gli alunni narrano esperienze vissute riferite al loro comportamento di
fronte ad una richiesta di aiuto.
- L’insegnante (gli insegnanti) registra le narrazioni degli alunni distinguendone insieme,
con una discussione guidata, i comportamenti positivi e negativi.
- L’insegnante legge al gruppo – classe la parabola del banchetto.
- L’insegnante invita gli alunni a segnare su foglietti “postit” almeno un comportamento
negativo e un comportamento positivo rilevato dal testo della parabola.
- Gli alunni attaccheranno al muro, da una parte i “postit” positivi e dall’altra (non
distante) i “postit” negativi.
- L’insegnante invita gli alunni a pronunciarsi sul confronto tra i loro comportamenti e
quelli emersi dalla parabola; ad ipotizzare scelte personali; a riflettere sul messaggio
evangelico.
- …

98
Ologramma

Obiettivo formativo: Saper donare gratuitamente, buoni sentimenti, aiuto, conoscenze e


disponibilità personale, soprattutto a chi ha bisogno.
Conoscenza:
Strategie essenziali dell’ascolto finalizzato e
dell’ascolto attivo.
Abilità:
Italiano Prestare attenzione all’interlocutore nelle
conversazioni e nei dibattiti, comprendere le
idee e la sensibilità altrui e partecipare alle
interazioni comunicative.

Conoscenza:
Inglese Chiedere e dare informazioni personali.
Abilità:
Descrivere aralmente sé e i compagni.

Conoscenza:
La nascita della religione cristiana, le sue
Storia peculiarità e il suo sviluppo.
Abilità:
Scoprire radici storiche antiche classiche e
cristiane della realtà locale.

Conoscenza:
concetto di sviluppo sostenibile.
Geografia Abilità:
Effettuare confronti tra realtà spaziali vicine e
lontane.

Conoscenza:
Nozione intuitiva e legata a contesti concreti
della frazione e loro rappresentazione
simbolica.
Matematica Abilità:
Effettuare consapevolmente calcoli
approssimati.

Conoscenza:
La luce: sorgenti luminose; ombra diffusione,
trasparenza, riflessione.
Scienze Abilità:
Riconoscere il significato e l’origine delle
tenebre.
Conoscenza:
Tecnologia e informatica Le principali vie di comunicazione utilizzate
dall’uomo.
Abilità:

99
Individuare, riconoscere e analizzare le
macchine e gli strumenti in grado di riprodurre
testi, immagini e suoni.

Conoscenza:
Canti appartenenti al repertorio popolare e
Musica colto, di vario genere e provenienza.
Abilità:
Esprimere graficamente l’andamento melodico
di un frammento musicale.

Conoscenza:
Il concetto di tutela e salvaguardia delle opere
Arte ed immagine d’arte del territorio.
Abilità:
Osservare e descrivere in maniera globale
un’immagine.

Conoscenza:
Affinamento delle capacità coordinative
Scienze motorie e sportive generali e speciali.
Abilità:
Cooperare nel gruppo, confrontarsi lealmente,
anche in una competizione con i compagni.

Conoscenza:
Convivenza civile La tradizione culinaria locale.
Abilità:
A tavola mantenere comportamenti corretti.

Conclusione

Il percorso svolto ci ha consentito di riflettere sulla parabola del banchetto e sulle sue
conseguenze per la vita cristiana. Siamo partiti da una analisi sistematica degli aspetti letterari di
questo testo che hanno messo in evidenza le caratteristiche fondamentali di questi testo e le sue
articolazioni. I temi più evidenti del racconto sono l’atmosfera di urgenza (perché il banchetto è
pronto e tale resta anche dopo il rifiuto da parte dei commensali); il desiderio del re di realizzare
la festa ad ogni costo; l’atteggiamento negativo, inspiegabilmente sordo o crudele o superficiale,
di molti chiamati; la severità del re di fronte alle risposte negative ecc. Possiamo sicuramente
stabilire che questa parabola si raggruppa attorno ad alcuni tipi rappresentativi molto ben
delineati:
- la parabola rappresenta l’azione di Dio. Ora in Gesù si ha il tempo della salvezza e il
compimento della promessa di Dio: se i figli del Regno non si curano del richiamo di Dio, allora
i disprezzati, i lontani da Dio prendono il loro posto. A livello lucano la parabola è stata perciò
letta a partire dalla situazione missionaria della Chiesa: è la Chiesa in stato di missione che
interpreta la parabola come comando missionario;
- il duplice invio che ha come destinatari i poveri nella città e quelli fuori sottolinea una
opposizione fondamentale: la città rappresenta Gerusalemme, simbolo di Israele, la periferia
rappresenta il mondo dei pagani. In Luca vi sono due opposizioni: da una parte i giusti
contrapposti ai peccatori di Israele e dall’altra Israele opposta ai pagani;

100
- Israele nella parabola è considerato come una totalità che gode del privilegio di una chiamata
storica. Il rifiuto opposto da Israele provoca perciò una auto-esclusione dello stesso dal convito
escatologico rifiutando l’annuncio della salvezza di Gesù e degli apostoli;
- la ricchezza è un pericolo al riconoscimento dell’ora e all’accettazione dell’invito di Dio a
partecipare alla sua festa con gli uomini211.
Per quanto riguarda il messaggio teologico, la parabola del banchetto ci ha permesso di
cogliere alcuni aspetti cristologici, soteriologici ed ecclesiologici. Ne evochiamo i principali:
- l’irruzione nella storia della persona di Gesù è anche stata irruzione del Regno di Dio: Gesù è
la basileia ed accogliere Lui significa accogliere l’invito del Padre alla salvezza oltre che alla
festa per sempre;
- la festa di nozze è immagine dei beni messianici in generale e del convito escatologico degli
ultimi tempi anticipato già ora nella celebrazione eucaristica e la veste nuziale come metafora
indicante l’esperienza del vincolo fraterno, che ha il proprio fondamento nel battesimo e trova
espressione nella comunione che si instaura fra i commensali212;
- Dio chiama la sua Chiesa ad attendere il giorno e l’“ora” del suo avvento e a vivere con Lui
per sempre. A noi il compito che la sua venuta non ci trovi indaffarati a fare altro così da essere
sostituiti con altri invitati.
- È a Dio che spetta l’ultima parola, è Lui che sceglie ma questa elezione non annulla
assolutamente la libertà umana nella quale ciascuno si deve rendere conto che ci può essere un
troppo tardi.
Il messaggio che oggi questa parabola può dare al lettore, di fronte alla situazione ecclesiale in
un «mondo che cambia» può essere sintetizzato nei seguenti aspetti:
- la basileia è la festa della gioia e l’uomo deve accogliere Dio nella gioia. La tristezza che
prende molti nel considerare la morte e l’incontro definitivo con il Signore è in netto contrasto
con la resurrezione di Gesù e le promesse della nostra fede in Lui;
- «Solo seguendo l’itinerario della missione dell’Inviato sarà possibile per la Chiesa (e per ogni
cristiano, di conseguenza) assumere uno stile missionario conforme a quello del Servo, di cui
essa stessa è serva»213;
- «La storia della salvezza non è segnata solo dalle ripetute chiamate di Dio, ma anche dai
ripetuti rifiuti da parte dell’uomo di accogliere la via della vita.(…)La radice della fede biblica
sta nell’ascolto, attività vitale, ma anche esigente. Perché ascoltare significa lasciarsi
trasformare, a poco a poco, fino a essere condotti su strade spesso diverse da quelle che
avremmo potuto immaginare chiudendoci in noi stessi. (…) la storia del peccato, infatti, è
sempre radicata nella storia del non ascolto»214;
- La via che conduce l’uomo verso il Regno «è fatta di ascolto della volontà del Padre, di
pratica della misericordia e della giustizia, di servizio umile e amoroso verso i fratelli; tutto per
giungere a condividere con ogni essere umano il banchetto escatologico, segno di quella
comunione che è la vita stessa di Dio»215.
- Ulteriore caratteristica fondamentale della vita del cristiano è quella dell’attesa. «Noi viviamo
tra il giorno della risurrezione di Cristo e quello della sua venuta. Egli è colui che verrà alla fine
dei tempi, per portare a compimento in tutto il creato la volontà del Padre. Per questo il
cristianesimo vive nell’attesa, nella costante tensione verso il compimento; e dove tale attesa
viene meno c’è da chiedersi quanto la fede sia viva, la carità possibile, la speranza fondata»216.

211
R. FABRIS, La parabola degli invitati alla cena. Analisi redazionale di Lc. 14,16-24, in AA.VV., La parabola
degli invitati al banchetto. Dagli evangeli a Gesù, 150-155.
212
F. MONTAGNINI, 351.
213
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, Roma 2001, n. 17.
214
IDEM, n. 22.
215
IDEM, n. 21.
216
IDEM, n. 29.

101
VII.
LA PARABOLA DELLA PECORA PERDUTA
(Mt 18, 12-13; Lc 15,3-7)

Introduzione

La parabola della pecora perduta appartiene alla fonte Q (cf. Lc 15,4-7), anche se il
contesto e la elaborazione che caratterizzano tale racconto parabolico cambia radicalmente in
Matteo e in Luca. Appare evidente dal confronto diretto come Matteo impieghi il racconto nel
quadro della vita ecclesiale e in funzione di essa (la pecora smarrita indica il credente che ha
bisogno di misericordia e di sostegno da parte della comunità). In Luca la stessa parabola è
inserita nel trittico dei racconti della misericordia di Dio verso i pubblicani e i peccatori (cf. Lc
15,1-3).

I. Analisi letteraria

Matteo, a differenza di Luca che colloca la parabola nel cap. 15 nell’inserzione del
viaggio verso Gerusalemme, la inserisce nel capitolo 18. Le differenze tra le due versioni saltano
subito all’occhio: in Mt la pecora è smarrita mentre in Lc è perduta, in Mt poi essa si trova
all’interno del discorso ecclesiastico, in Lc la parabola si trova invece nel all’interno del discorso
parabolico e più precisamente nella controversia contro i farisei dove Gesù si rivolge ai
pubblicani e ai peccatori.
La parabola riportata dai due vangeli Mt e Lc si rifà ad una tradizione sconosciuta e non
testimoniata comunque da Mc217. Tale parabola trascrive l’amore sollecito di Dio, che pone tutto
il suo interesse e la sua gioia nel cercare e trovare l’uomo perduto, bisognoso di accoglienza e di
perdono. Questo modo di fare del Signore, deve essere il modello e la fonte della prassi pastorale
e dello stile di relazione nella comunità cristiana. La figura del pastore è scolorita nel mondo
moderno ma per gli antichi era piena di significato e di suggestività. La Bibbia sulla figura del
pastore fissa il suo sguardo e vi vede Dio, come “pastore” del suo popolo, del suo “gregge”. Ci
viene presentato Dio sotto veste di pastore e mai il pastore come Dio. E’ il caso appunto della
parabola presa qui in considerazione.

I.1 Storia dell’interpretazione ed ipotesi redazionale

La lettura comparata dei vangeli ci fa scoprire facilmente l’impronta che vi hanno lasciato
gli autori. Gli evangelisti, infatti, non furono semplici collezionisti del materiale che avevano
trovato nella tradizione ma ne furono dei veri e propri rielaboratori. Lavorarono personalmente
sul materiale ricevuto, lo strutturarono, lo sistematizzarono e lo applicarono alle circostanze
concrete dei destinatari. Un esempio di questo fatto ci viene offerto dalla parabola della pecora
smarrita che ci è stata trasmessa da Luca e da Matteo e in questo lavoro vedremo le somiglianze
e le differenze che si notano fra loro. Prima di entrare nei particolari, è necessario ricordare che
ci troviamo davanti al genere della parabola e che per ciò, è facile imbattersi in delle
incongruenze e in paradossi. Non fa meraviglia per esempio che un pastore abbandoni
novantanove pecore per andare a cercare quella smarrita? A ciò si aggiunge il fatto che tornando
a casa, diffonde la notizia ai quattro venti e dispone tutto per celebrare l’avvenimento, come se si
trattasse di una cosa straordinaria. Questi particolari più o meno paradossali e illogici dal punto
di vista umano, sono utili per evidenziare la lezione principale della parabola. Nel primo vangelo
la parabola si trova inserita nel discorso noto come “ discorso comunitario o ecclesiale” (Mt 18,

217
R. FABRIS, Matteo, 394ss.

102
1-35 ). L’interpretazione cristologica di questa parabola è attestata anche da raffigurazioni
paleocristiane di Gesù come pastore con la pecora sulle spalle. Alla visione cristologica, si
affianca quella ecclesiologica: basti pensare al termine stesso pastorale e a tutta la letteratura ad
essa collegata (cf. la Regula pastoralis di Gregorio Magno, il Discorso 46 di Agostino). Il
protagonista in realtà, non è la pecora perduta o smarrita ma piuttosto l’uomo sollecito nella
ricerca e colmo di gioia nel ritrovare l’unica pecora perduta o smarrita rispetto alle 99 lasciate sui
monti o nel deserto.
Il cap. 15 è staccato da quanto precede mediante una introduzione che gli è propria (15,
1-3), come lo è da quanto segue mediante una transizione ben contrassegnata (16, 1). Circa
l’ipotesi della composizione di Lc15 è possibile ipotizzare che Lc raggruppò le tre parabole in
base alla loro affinità di argomento (peccatori, gioia, smarrimento, ritrovamento): le prime due
Lc le ha trovate già tramandate (vv. 7-10) dalla tradizione Q (?). In Mt, quell’inizio “che ve ne
pare”, non è originale così come Mt 18, 13 che va attribuito sicuramente a Q.
Circa la storia della tradizione si può pensare che la parabola originaria comprendesse Lc
15,4 e Mt 18, 15. In Mt questa parabola doveva essere norma per la comunità e Mt a tale scopo
vi ha apportato delle modifiche (domanda introduttiva vv 12-15, cambiamento del soggetto, lo
sbandarsi e il cercare). Da Q poi la parabola giunse anche nella comunità che possiamo chiamare
prelucana: Lc la collocò nel suo contesto narrativo e vi fece delle aggiunte, la unì alla parabola
della dracma perduta e al figliol prodigo e l’abbellì stilisticamente. Da Lc poi la parabola confluì
nel vangelo di Tommaso. La parabola della pecora smarrita presenta uno schema in tre tempi:
perdere, cercare, ritrovare. La dramma ritrovata così costituisce in buona parte un duplicato
della parabola della pecora perduta. All’abituale titolo “la pecora perduta”, non bisognerebbe
forse preferire come titolo : “La pecora ritrovata”? L’atteggiamento di gioia, infatti, messo in
evidenza dall’applicazione del v 10, non è certamente legato alla perdita ma al fatto di avere
ritrovato ciò che era perduto.

I.2 Il testo sinottico e la sua strutturazione

Mt 18,12-14 Lc 15,4-7
12 Che ve ne pare? Se un uomo ha 4 «Chi di voi se ha cento pecore e ne
cento pecore e ne smarrisce una, non perde una, non lascia le novantanove
lascerà forse le novantanove sui nel deserto e va dietro a quella
monti, per andare in cerca di quella perduta, finché non la ritrova? 5
perduta? 13 Se gli riesce di trovarla, in Ritrovatala, se la mette in spalla
verità vi dico, si rallegrerà per quella tutto contento, 6 va a casa, chiama
più che per le novantanove che non si gli amici e i vicini dicendo:
erano smarrite. 14 Così il Padre vostro Rallegratevi con me, perché ho
celeste non vuole che si perda trovato la mia pecora che era
neanche uno solo di questi piccoli. perduta. 7 Così, vi dico, ci sarà più
gioia in cielo per un peccatore
convertito, che per novantanove
giusti che non hanno bisogno di
conversione.

Per ricostruire la struttura218 dei due testi, si deve tenere conto del protagonista, di “un tale”
(ànthrōpos tis) e dello sviluppo della vicenda. Individuiamo due poli, attorno ai quali ruota
l’intera vicenda del racconto simbolico. Il protagonista viene presentato come un “tale”,

218
Cfr. R. FABRIS, 394.

103
proprietario “di cento pecore” (Mt 18,12; Lc 15,4). Il piccolo dramma si sviluppa in due atti. Il
primo atto è caratterizzato dalla rottura dell’equilibrio e della stabilità che da l’avvio alla storia:
la perdita di una pecora. Questo fatto mette in moto il seguito delle azioni dell’uomo proprietario
delle 100 pecore: lascia le novantanove incustodite, da sole, “nel deserto-sui monti” e parte si
mette in cammino per cercare quell’unica smarrita o perduta. Il motivo di questo modo di fare
dell’uomo è dato dalla preoccupazione o interesse per quell’unica pecora smarrita-perduta, posta
a confronto con le altre novantanove. La seconda parte in Matteo è introdotta da una nuova
proposizione condizionale, mentre Luca continua con una serie di costruzioni participiali
subordinate alla principale.
Anche questo nuovo atto è costruito mediante due sequenze, dove l’accento è posto sulla
seconda: “Se gli riesce di ritrovarla , in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le
novantanove che non si erano smarrite”. Il ritrovamento, è il motivo della gioia, posta in risalto
da una dichiarazione fatta dal parabolista stesso: “ in verità vi dico…”. Questo è un elemento
comune alle due edizioni. La motivazione della gioia è analoga a quella del mettersi in cammino
o cercare ( Mt). E’ una dichiarazione di carattere paradossale. Da questa analisi della struttura
fondamentale possiamo trarre alcune conclusioni. Quella che è stata chiamata “parabola”, è una
vicenda appena evocata nella forma della similitudine o del paragone ampliato.
Questo racconto è costruito in due parti bilanciate tra loro: 1. la perdita della pecora e
l’iniziative dell’uomo per cercarla; 2. il ritrovamento con il motivo accentuato della gioia.
E’ evidente che l’immagine interpretativa della pecora evoca quella di Gesù. Nell’ AT e
nella LXX e nel giudaismo coevo il gregge indica il popolo e la pecora sta a significare la
persona che si allontana dal popolo di Dio e che così si sottrae alle cure del pastore. Erano tali
appunto i pubblicani e i peccatori al tempo di Gesù. Al campo metaforico della pecora,
appartiene anche il pastore che simboleggia Dio stesso (come anche Mosè, il re o il capo di un
popolo). Altra caratteristica di strutturale importanza è il numero 99: esso mette in risalto
l’irrilevanza di una sola pecora di fronte al gregge. Si capisce bene che la sua ricerca non è
determinata dal suo valore ma soltanto dal fatto che essa esiste ed è importante per il pastore che
resta comunque sia il solo e vero soggetto della parabola: tutta la attenzione è posta sul suo
comportamento. La formulazione della parabola sottoforma di domanda retorica, fa capire
all’uditore quanto sia ovvio per il pastore seguire la pecora perduta . A ciò si unisce anche la
descrizione della gioia poi provata dal pastore nel ritrovarla: il confronto con le 99 mira solo ad
illustrare la gioia di quel momento.
Nel contesto della vita di Gesù, questa parabola si riferisce al suo comportamento nei
confronti dei pubblicani e dei peccatori. Ciò che Dio è stato per il popolo di Israele, ora lo è
Gesù. La vicinanza di Dio nei confronti dei perduti si realizza nella vicinanza di Gesù verso
pubblicani e dei peccatori: è un’ autotestimonianza di Gesù219. La comunità cristiana, quella
lucana per intenderci, infatti, leggeva la parabola in chiave cristologica implicita nella parabola
stessa: Gesù è il pastore. L’abbellimento del v. 5, che si richiama ad Isaia 40, 11; 49,22,
sottolinea che in Gesù si compie l’evento escatologico della ricerca dei perduti da parte di Dio.
In questo modo la comunità è riuscita a conservare tale parabola risalente al Gesù terreno,
interpretandola appunto nella prospettiva postpasquale.

I.3 Analisi esegetica

v. 12
Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le
novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta?

219
H. WEDER, Metafore del regno, 349 – 350.

104
Il discorso iniziato dall’evangelista continua a riguardare i piccoli. Il testo, infatti inizia e si
chiude con una frase introduttiva riguardante i piccoli. La domanda iniziale, in forma
condizionale oltre che a fare da introduzione sembra appellare al consenso e alla valutazione
degli interlocutori. Subito seguono due proposizioni in forma interrogativa. Tutto è incentrato
sulla ricerca (zetein) di quell’unica pecora messa a confronto con le altre novantanove. Matteo, a
differenza di Luca, lascia le novantanove sui monti e non nel deserto. Il primo evangelista fa
ricorso ad una terminologia tipica220: tutto si incentra attorno al tema cercare e trovare
(euriskein) e al verbo planan , errare, sviarsi, smarrirsi.

v. 13
Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che
non si erano smarrite.

Il versetto 13, si apre con un amen postumo e aggiunto dopo che pone l’accento sulla gioia per il
ritrovamento della pecora. Non era, infatti scontato per il pastore ritrovarla. Manca
l’abbellimento operato da Luca che aggiunge il particolare del pastore che amorevolmente si
mette la pecorella sulle spalle: Matteo arriva subito alla argomentazione che costituisce
l’ossatura portante dell’intera parabola.

v.14
Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli.

Il versetto 14 è un applicazione. La volontà del Padre è la sua istanza teologica, una volontà che
predilige i piccoli, emprosthen , vocabolo molto caro a Matteo. Qualcuno ha notato che l’andare
perduto potrebbe essere una reminiscenza proveniente dalla fonte della parabola.221

I.4 Messaggi teologici

In Luca c’è un’ insegnamento innanzitutto teologico e che si deduce anche


dall’implicazioni cristologiche come già ho indica sopra: Dio si preoccupa dei peccatori, della
loro conversione della quale si rallegra. La sollecitudine di Gesù testimonia la sua missione e
riflette quella di Dio. Bisogna imitare la cura e la sollecitudine che il Signore ha per i peccatori e
gli ultimi. La parabola della pecorella smarrita sottolinea in Mt la situazione del fedele che si
allontana dalla comunità e allo stesso tempo l’impegno che deve mettere chi presiede, per la sua
ricerca. Così se in Lc 15, 3-7 il parabolista è preoccupato del peccatore che si converte e dei 99
giusti (i farisei) che non hanno bisogno di conversione, in Mt si parla della pecora smarrita e
delle 99 che sono rimaste al sicuro. La pecora che ha perso i contatti con l’ovile rischia di
smarrirsi e di perdersi per sempre, per questo il pastore, per non lasciarla finire in un precipizio,
abbandona tutto e si mette alla sua ricerca. Mt toglie ogni equivoco mediante l’osservazione
finale che pone in bocca a Gesù : “ Non vuole il Padre vostro che è nei cieli che uno solo di
questi piccoli si perda.” (v. 14). Il comportamento del buon pastore coincide con quello di Dio,
ma rispecchia contemporaneamente quello di Cristo.
Gli evangelisti hanno calato l’esempio e l’insegnamento di Gesù, la vera buona novella,
nel loro ambiente ecclesiale e spingono l’attenzione della comunità o dei pastori verso quanti
hanno più bisogno di salvezza: i pagani e i peccatori. La gioia che il pastore prova per il
ritrovamento della pecora smarrita, fa passare in secondo ordine ogni altra cosa, persino ciò che
possedeva e non era andato perduto. La frase del v. 13, sottolinea la necessità e l’urgenza della
ricerca della pecora smarrita, la sollecitudine verso le persone più bisognose. Si ragiona qui in
termini paradossali: Dio mostra una sollecitudine di amore misericordioso, di un amore che si
220
R. FABRIS, 184.
221
Cfr J. GNILKA,197.

105
effonde proprio là dove c’è più miseria e va in cerca di chi è abbandonato, oltraggiato e tradito.
Solo Dio sa valutare il male che è il peccato, e solo lui, Bontà che può liberare. Stando
all’immagine del pastore, Gesù ha affermato di sé di andare sollecitamente in cerca della
pecorella smarrita e di riportarla all’ovile con gioia. Nel vangelo di Luca, dopo questa parabola
segue quella della moneta perduta e ricercata dalla donna che ne ha soltanto dieci, e poi il
dramma del figlio prodigo. La conclusione è sempre la stessa: Dio fa festa per un peccatore che
si converte, più che molti giusti che non hanno bisogno di convertirsi. E’ l’amore che gioisce nel
salvare, gioisce di aver salvato: tale è l’amore di Dio che si è incarnato in Cristo. Dobbiamo
chiedere a noi stessi quale premura abbiamo di riavvicinare chi ci ha offeso, di stringere una
mano che ci ha fatto del male, di riabbracciare come amico chi ci ha tradito. Questa immagine
così “umana” di Dio, è così adatta a ridare fiducia a quelli che la consapevolezza della loro
miseria rischierebbe di scoraggiare. Eppure la precedenza, trattamento di favore concesso ai
peccatori, urta una certa concezione della giustizia di Dio. “Non è giusto”: questa è la reazione
che già suscitava la parabola del pastore che abbandona le 99 pecore per correre dietro a quella
che è perduta. Dio ha questa preferenza ed è pronto anche ad assumere comportamenti
“ingiusti” e “irrazionali” agli occhi degli scribi e dei farisei.
Un altro bellissimo messaggio teologico ci viene offerto dalle “ Omelie “ di Sant’ Asterio
di Amasea, vescovo: “…Imitiamo l’esempio che ci ha dato il Signore, il Buon Pastore.
Contempliamo i Vangeli e, ammirando il modello di premura e di bontà in essi rispecchiato,
cerchiamo di assimilarlo bene. Nelle parabole e nelle similitudini vedo un pastore che ha cento
pecore. Essendosi una di esse allontanata dal gregge e vagando sperduta, egli non rimane con
quelle che pascolavano in ordine, ma messosi alla ricerca dell’altra , supera valli e foreste, scala
monti grandi e scoscesi, e, camminando per lunghi deserti con grande fatica, cerca e ricerca fino
a che non trova la pecora smarrita. Dopo averla trovata, non la bastona né la costringe a forza a
raggiungere il gregge , ma una volta presa sulle spalle, la tratta con dolcezza e la riporta al
gregge, provando una gioia maggiore per quella sola ritrovata, che per la moltitudine delle altre.
Consideriamo la realtà velata e nascosta della parabola. Quella pecora non è affatto una pecora,
né quel pastore un pastore, ma significano un'altra cosa: sono figure che contengono grandi
realtà sacre, che ci ammoniscono, infatti, che non è giusto considerare gli uomini come dannati e
senza speranza. Non dobbiamo trascurare coloro che si trovano nei pericoli, né essere pigri nel
portare loro il nostro aiuto: è nostro dovere ricondurre sulla retta via coloro che da essa si sono
allontanati e che si sono smarriti. Dobbiamo rallegrarci del loro ritorno e ricongiungerli alla
moltitudine di quanti vivono bene e nella pietà “222.

I.5 Prospettive matteane

La piccola storia del pastore che cerca la pecora è riportata dai due vangeli di Matteo e di
Luca riferiscono parole e sentenze di Gesù, rifacendosi ad una tradizione sconosciuta o
comunque non testimoniata da Marco. In Matteo, la parabola si trova inserita nel discorso
“comunitario ed ecclesiale”: si tratta di una raccolta di istruzioni rivolte ai discepoli. La prima
parte è introdotta dalla domanda rivolta a Gesù dai discepoli : “ Chi è dunque il più grande nel
regno dei cieli ? ” ( Mt 18, 1 ). La risposta di Gesù è articolata in una serie di due istruzioni :
una sull’ accoglienza dei piccoli e l’altra sulla gravità dello scandalo nei riguardi dei piccoli. ( Mt
18, 2-5. 6-14 ). Nel contesto di questa prima parte delle istruzioni, che hanno come tema “ i
piccoli”, viene collocata la parabola della pecora smarrita. Essa è incorniciata da due esortazioni
che richiamano ai doveri verso anche “uno” solo dei piccoli. ( cf. 18, 14). Dunque la parabola è
rivolta ai discepoli, in parte distinti dal gruppo dei “piccoli”, di fronte ai quali devono assumere
l’atteggiamento dell’accoglienza che diventa ricerca e preoccupazione, sullo stile di Dio e la
volontà del Padre che non vuole che neppure uno vada perduto. Il breve racconto parabolico, si
apre con una domanda che fa da introduzione e appella al consenso o valutazione degli

222
PG 40, 355 – 358. 362.

106
interlocutori: “che ve ne pare?“. Seguono due proposizioni, una in forma interrogativa e l’altra
come solenne dichiarazione. La prima frase è incentrata sulla “ricerca” (zêtèin); la seconda parte
pone l’accento sulla “gioia”. Il primo evangelista fa ricorso ad una terminologia tipica: oltre alla
coppia verbale richiesta dal tema “cercare” e “trovare” (eurìskein), il racconto è incentrato
attorno al gruppo semantico dal verbo planân, “errare, sviarsi, smarrirsi”. Questa applicazione
lucana della più grande gioia in cielo per l’unico a confronto dei 99, si differenzia
dall’applicazione di Matteo che mette in rilievo, riprendendolo dalla prima parte della parabola,
il motivo della sollecitudine del pastore, esplicitandola “come volontà del Padre celeste”. Questa
applicazione riprende ed esplicita il versetto di introduzione ( Mt 18, 10). Prima di tutto,
possiamo notare la forma interrogativa in apertura e poi l’evidente contrasto fra l’unica pecora,
cercata e trovata con la relativa gioia e le altre 99 lasciate sui monti o nel deserto. Anche la
terminologia di base, che sottende questo contrasto “trovare” e “gioire”, è comune alle due
tradizioni.
L’applicazione che Matteo fa del racconto del pastore in cerca della pecora, è quella di
porre in primo piano la sollecitudine nel cercare la pecora errante. In questa sollecitudine si
esprime la volontà del Padre celeste riguardo ai piccoli. L’agire dell’uomo-pastore è il modello
dello stile pastorale dei discepoli o della comunità nei confronti dei “piccoli”, cioè dei fratelli in
crisi, deboli, bisognosi di accoglienza, correzione e riconciliazione. Questi piccoli devono essere
accolti. Nel linguaggio di Matteo si deve evitare nei loro confronti lo “scandalo”, un modo di
fare che impedisce la loro reintegrazione nella comunità. I discepoli che vogliono attuare la
volontà del Padre, devono “ricercare” e recuperare i fratelli in crisi. Matteo accentua così questo
messaggio pastorale. Gesù così appare come il Messia compassionevole (Mt 4, 23; 9,35; 9,36):
in lui si rispecchia l’immagine di Dio, immagine ripresa nel contesto dell’esodo storico, ripreso
poi nei testi profetici e dei salmi ( 80,2-3; 95,7) in relazione al nuovo esodo (Es 15, 13; Is 40,11).
Ma l’immagine e il vocabolario della parabola del pastore, che cerca la pecora errante o perduta,
sono offerti in modo particolare da una pagina di Ezechiele : “ Poiché dice il Signore: “ Io
stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura” ( Ez.34,11). E’ ancora : “Andrò in cerca della
pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita”( Ez. 34,11). Sulla base di queste
connessioni con la tradizione biblica si comprendono le particolari accentuazioni della
reinterpretazione data da Matteo alla parabola del pastore: Gesù rivela e porta a compimento
l’amore sollecito di Dio, il pastore che ha riscattato e guidato il suo popolo lungo la storia
biblica.

I.6 Prospettive lucane

Si può dire che Luca 15 è la pagina del vangelo che ha convertito un maggior numero di
peccatori. Abbiamo tre parabole che hanno la stessa conclusione: invito alla gioia o il cantico di
gioia in cielo per il peccatore che torna al bene (15,7.10.32). Le prime due parabole, quella della
pecora e quella della moneta smarrita, descrivono la sollecitudine di Dio che va in cerca di ciò
che si era perduta. La terza, il figlio prodigo, mette in rilievo la pazienza di Dio che non vuole la
morte del peccatore, ma che si converta e viva. Il terzo evangelista pone in risalto la gioia di Dio,
manifestata nei gesti e parole di Gesù. Egli è colui che è venuto a cercare quello che era perduto.
Nella formula, infatti,
“ trovare quello che era perduto” viene riprodotta quattro volte nella composizione lucana.
Ireneo , in contrapposizione agli gnostici, che vedevano nella pecora perduta la parte staccatasi
dalla divinità, intravede in essa la umanità a cominciare da Adamo stesso e nel pastore Cristo che
discende fino a noi per risalire al Padre con l’umanità redenta. Per Origene, la pecora smarrita
simboleggia i pagani, trovati da colui che non avevano cercato che per primo li cercò. Il peso
della pecora sulle spalle è stato da alcuni Padri accostato al peso della croce. Tutta questa
tradizione cristiana che ha avuto il limite di confondere la parabola con l’allegoria, l’esegesi

107
liberale223 (da Julicher in poi) la ridusse ad un generico insegnamento sulla misericordia di Dio.
Con Jeremias è stata riscoperta all’interno della parabola una dimensione cristologia: essa non
vuole illustrare la misericordia di Dio ma il suo realizzarsi attraverso Gesù. L’intenzione di Luca
è di giustificare la condotta di Gesù, accusato dai farisei e dagli scribi di frequentare pubblicani
e peccatori. Le tre parabole della misericordia costituiscono allora la risposta di Gesù: in tutte e
tre il denominatore comune è la gioia del Padre. La risposta di Gesù allora a costoro sembra così
suonare: voi vi meravigliate del mio comportamento; io mi comporto esattamente come si
comporta il Padre mio. L’accento principale della parabola, secondo la redazione di Luca, cade
appunto sulla gioia che la conversione del peccatore provoca al cuore di Dio.

I.7 Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di un laboratorio di scuola dell’infanzia.

Scuola dell’infanzia, bambini di tre, quattro e cinque anni.

Tipologia del laboratorio

Il laboratorio avrà tipologia trasversale agli obiettivi specifici di apprendimento riferiti :

Alla religione cattolica;

Al sé e l’altro;

Al corpo, movimento, salute;

Alla fruizione e produzione di messaggi;

All’esplorare, conoscere e progettare.

Metodologia

L’azione di laboratorio didattico realizzerà la rielaborazione del focus attraverso la creatività di


espressione.

223
Cfr. H. WEDER, 252.

108
Focus di attenzione

La parabola della pecora perduta.

Items di conoscenza (Dagli O.S.A.)

Religione cattolica

Scoprire la persona di Gesù di Nazaret come viene presentata dai vangeli e come viene celebrata
nelle feste cristiane.

Il sé e l’altro

Rispettare e aiutare gli altri, cercando di capire i loro pensieri, azioni e sentimenti ; rispettare e
valorizzare il mondo animato e inanimato che ci circonda.

Corpo, movimento, salute

Controllare l’affettività e le emozioni in maniera adeguata all’età, rielaborandola attraverso il


corpo e il movimento.

Fruizione e produzione di messaggi

Ascoltare, comprendere e riesprimere narrazioni lette o improvvisate di fiabe, favole, storie,


racconti, parabole.

Esplorare, conoscere e progettare

Collocare persone, fatti ed eventi nel tempo; ricostruire ed elaborare successioni e


contemporaneità; registrare regolarità e cicli temporali.

Prodotti attesi

Libera espressione grafico – pittorica della parabola della pecorella perduta ( tre, quattro e cinque
anni)

Realizzazione una pecorella di pongo bianco (tre anni), rivestita con piccoli ciuffi di cotone
idrofilo (quattro e cinque anni)

Attività

Lo spazio adibito all’attività laboratoriale sarà a misura di bambino, con tutti i materiali didattici
ben visibili e di facile uso.

ü Qualche piccolo tavolo è disposto ai lati dell’ambiente di accoglienza.

ü Un tappeto al centro consente ai bambini di sedersi comodi per ascoltare la lettura della
parabola, fatta dall’insegnante.

109
ü Ogni bambino ha a disposizione fogli sul tavolo, fogli da adagiare a terra, fogli legati al
muro par la rappresentazione creativa della parabola

ü Dopo la lettura l’insegnante narra la parabola ai bambini, raccogliendo le loro


osservazioni e dando a tutti la possibilità di pronunciare curiosità e riflessioni.

ü Tolto il tappeto i bambini esprimono la loro comprensione e creatività attraverso la


rappresentazione grafico – pittorica e attraverso l’attività manipolativa.

ü L’insegnante riprende il contenuto della parabola dando ulteriori esempi di conoscenza


anche attraverso il canto e la filastrocca.

110
VIII.
LA PARABOLA DEL DEBITORE SPIETATO (Mt 18,21-35)

I. 1 Contesto introduttivo

La parabola del «debitore spietato» è collocata dall’evangelista all’interno del capitolo 18


che tratteggia le regole della comunità. E’ presentata come esempio di Gesù sul tema del
perdono (v. 22). Sulla domanda di Pietro a Gesù circa quante volte bisogna perdonare, Mt si
sofferma in modo particolare, quasi a sottolineare il ruolo specifico che Pietro riveste rispetto
agli altri 11. La formula introduttiva del v. 23 è un indizio chiaro del fatto che Mt trovò la
parabola nel suo materiale particolare. Il v. 31 rivela una maniera tipica e propria di Mt di
esprimersi. I versetti 32, 34 presentano analogie con i vv. 23, 34; ci fa pensare allora che i vv. 32,
34 sono stati aggiunti alla parabola in un secondo momento, sicuramente prima di Mt. La
parabola originaria (vv. 23-30) costituisce una forma più antica della tradizione e la sua origine
potrebbe darsi nel mondo palestinese. Nella comunità prima di Mt la parabola originaria (vv.23-
30) fu arricchita da una introduzione tipica di questa tradizione che fu completata dai vv 32-34.
Matteo poi collocò la parabola nel contesto della domanda di Pietro circa il perdono e vi inserì
altri ritocchi, come per esempio il v. 31 da intendere in senso ecclesiologico.
La parabola si articola in tre scene. Le prime due sono simmetriche e mettono in evidenza il
contrasto tra il diverso comportamento dei due creditori (vv.24-27. 28-30): la petizione dei due
debitori è formulata con le stesse parole (v.26-29) ma con esito opposto. La terza scena (vv. 31-
34) descrive il castigo del servo spietato. La narrazione è stata adattata alle esigenze della
comunità, soprattutto nella identificazione del re con Dio, del condono del debito con la
remissione dei peccati, del terribile castigo con il giudizio escatologico.

I. 2 La strutturazione del racconto

Questa pagina risente del lavoro redazionale di Matteo. Il dialogo introduttivo della
parabola trova riscontro in Lc 17,4: nel originale matteano c’è il ruolo di Pietro e la risposta di
Gesù. La storia del servo spietato non ha paralleli nella tradizione evangelica, anche se possiamo
fare degli accostamenti con due parabole di Lc, dove un servo è chiamato a rendere conto al suo
padrone, (Lc16, 1-2) e a due debitori viene condonato interamente il debito, Lc7,41-42. E’ chiaro
però che sia lo sviluppo che il significato delle due parabole è ben diverso224. In Lc la parabola
ha come titolo servo inetto e malvagio. Fa da introduzione a questa parabola uno scambio di
battute tra Gesù e Pietro. (18,21-22). Il discorso finale poi si rivolge a tutti i discepoli:
l’intervento iniziale di Pietro solleva un problema che riguarda i rapporti comunitari. La frase di
apertura richiama la situazione che da avvio all’intero dramma: la decisione del re di fare i conti
con i suoi servi, 18,23. Tutta la vicenda si svolge in tre atti. Sia i personaggi che le situazioni
hanno uno schema fisso: situazione, dialogo, parole, decisioni, azione. Il racconto della parabola
pone il suo accento sul modo di agire del re/padrone e quello del servo debitore condonato.
Questo contrasto emerge maggiormente per l’enorme sproporzione tra il debito del primo servo
verso il suo padrone rispetto a quello che il suo collega ha nei suoi riguardi, 1/600.000225.

224
R. FABRIS, 395.
225
La somma di “diecimila talenti” ha un valore suggestivo più che finanziario reale. E’ enorme come somma! Il
talento attico è unità di peso e monetaria pari a 36 kg di argento, a 6000 dramme o 100.000 denari (G.Flavio), per
avere un idea di valore economico di 100.000 talenti basti pensare che la rendita annua del regno di Erode era di 900
talenti e il gettito delle tasse per la Galilea e Perea era di 200 talenti (cfr. G. Flavio, Ant. XVII 11,4).

111
I.3 Ipotesi di ricostruzione delle fonti

Mt attinge a due fonti: nell’istruzione introduttiva che Gesù impartisce a Pietro risale alla
fonte Q. Gli interventi redazionali di Mt li troviamo all’inizio e alla fine della parabola
(passaggio con “perciò” nel v. 23 e applicazione della parabola nel v.35 , con un logion costruito
sul modello 5,15). L’evangelista determina in questa parabola il comportamento cristiano,
ricordando un detto (v.22) e una parabola di Gesù (v.23-35). Questa parabola è l’esegesi più
bella alla quinta domanda del “Padre nostro” e completa l’insegnamento di Matteo sul perdono.
Il brano è inquadrato da detti di Gesù sul perdono. Una è la parola di risposta a Pietro,
che chiede quante volte dovrà perdonare e si sente dire che deve perdonare fino a settanta volte
sette. La seconda è una parola conclusiva della parabola dei due servi, e insiste anch’essa sulla
necessità assoluta del perdono : “Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non
perdonerete di cuore al vostro fratello”. E’ una parabola in tre scene ben strutturata ed unitaria226.
Prendiamo in considerazione la prima e la seconda scena: esse sono perfettamente parallele fra
loro. La situazione di partenza è simile: un debitore sprovveduto, secondo la legge di quel tempo
era condannabile e viene condannato e che implora misericordia al creditore. L’esito delle due
scene è però contrastabile: nella prima scena il debito viene cancellato; nel secondo caso il debito
non viene condonato. Per vedere meglio tale contrasto, bisogna prendere in considerazione altri
elementi, tipo il valore della moneta di quel tempo. Appare subito chiaro come il rapporto tra le
due somme sia sproporzionato. C’è ancora un altro aspetto: la sproporzione tra le due cifre
supera la sproporzione tra i due personaggi. Non è la stessa cosa tra i due bilanci del re e del
servo. La prima è astronomica ed è troppo alta anche per un re; la seconda, invece, è piccola
anche per un semplice servo. Qui però c’è il paradosso. Il debito astronomico è condonato,
quello piccolo, no. Questo è il punto centrale di tutto il messaggio della parabola. Lo stesso
protagonista, nella prima scena appare nei panni della vittima, come debitore che chiede il
condono; nella seconda scena appare nel ruolo opposto di colui il quale non ha pietà e si rivela
appunto spietato. Nella prima scena, grande è il debito e grande è colui al quale si è chiesto di
condannarlo; nella seconda scena, il debito è piccolo ed piccolo è colui che viene implorato: ciò
rende più ammirevole la generosità del re e più abietta l’ostinazione del servo. Contribuisce a
dare un maggiore effetto anche il poco lasso di tempo che intercorre tra le due scene. Ci si
aspetterebbe che dalla gioia ancora viva dallo scampato pericolo, corrispondano sentimenti di
benevolenza verso gli altri, invece sembra che non sia successo niente.
Un uomo ha ricevuto il condono di un enorme debito, ma subito dopo rifiuta a sua volta
di condonare il debito ad un altro. Segue subito una terza scena, simile a quella di partenza. Il
protagonista si ritrova nuovamente davanti al re per sentirsi però dire che l’annullamento della
condanna è stato a sua volta annullato: il debito è ripristinato e la legge dovrà fare il suo corso.
Ci ritroviamo al punto di partenza con la differenza che la conclusione tragica prima evitata ora è
messa in atto. Qualcosa ha rovinato tutto. Il re prima ha perdonato ma ora non è disposto più a
perdonare più. Evidentemente il servo ha fatto sì che il re si comportasse in questo modo. È lo
stesso re a dare la risposta spiegando : “ Dovevi perdonare anche tu come io ho perdonato a te”.
Nel sovrano il condono era stato provocato da un moto di “compassione”: Il termine in greco
significa qualcosa di molto profondo che muove dalle viscere splanchnistheìs . Lo stesso re si era
immedesimato nel servo. Il rifiuto di solidarietà da parte del primo servo nei confronti del
secondo servo lo ferisce come ferisce un padre la situazione dei discordia fra due fratelli. Gli
ascoltatori di questa parabola non hanno avuto difficoltà nel comprenderla e approvano la
condanna da parte del servo spietato. Da questa parabola viene fuori una immagine
veterotestamentaria di Dio, di un Dio che si è rivelato solidale con l’uomo.

I. 4 L’articolazione e spiegazione

226
V. FUSCO, Oltre la parabola, Roma 1983, 22-45.

112
vv. 23-27: situazione del primo servo debitore di 10000 talenti;
vv. 28-30: situazione del secondo servo, debitore di 100 denari;
vv. 31-34: giudizio e condanna del primo servo da parte del padrone;
v. 35: applicazione ecclesiale;

In Matteo c’è un intento pratico pastorale nel proporre questa parabola. Egli intende
raccomandare la pratica del perdono fraterno illimitato sull’esempio e sullo stile di quello di Dio
rivelato in Gesù. Nel dialogo iniziale, Pietro si fa portavoce della comunità che ha come modello
di perdono le regole del mondo giudaico. Questa parabola illustra bene il passaggio da una
concezione quantitativa a quella qualitativa del perdono.
E’ interessante notare la frequenza di parole che indicano emozioni forti. Sappiamo
benissimo che solitamente i vangeli non indulgono alle emozioni; in questo caso il brano ha
parole ricchissime di pathos. Innanzitutto il primo servo si getta a terra in un gesto di intensa
supplica; il padrone si impietosisce e condanna. Il verbo “impietosirsi” , “commuoversi nelle
viscere” è lo stesso usato da Lc 10, 33 per indicare la reazione del samaritano di fronte al ferito o
in Lc 15, 20 per esprimere ciò che il padre della parabola sente quando vede il figlio prodigo che
ritorna. Un altro momento forte di emozione si ha quando il primo servo aggredisce con violenza
il suo debitore e questi, a sua volta, si getta a terra e lo supplica. E’ messa in evidenza
l’emozione degli altri servi che, secondo il testo greco, sono molto addolorati. Carico di pathos è
inoltre il rimprovero del padrone del servo, perché ha mancato di pietà: “ Non dovevi forse tu
aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? Il verbo “ impietosirsi”
splagchnizomai lascia il posto al verbo eleomai che viene usato in riferimento alla misericordia
di Dio verso l’uomo. Ancora un' altra parola di Gesù ricca di forza emotiva: “ Se non
perdonerete di cuore al vostro fratello”, anzi “ a partire dal vostro cuore”.
La parabola non parla del perdono reiterato ma della misericordia che deve avere la
meglio sulla rivendicazione inflessibile dei propri diritti. Per capire questa parabola essa va
collocata nel contesto ecclesiologico e cristologico. La misericordia di Dio, infatti, posta come
modello da imitare, si è manifestata concretamente nella missione del Figlio, espressione della
bontà del Padre. È in sintesi lo stesso messaggio del discorso della montagna: l’amore sommo di
Dio rivelato nel Cristo deve riflettersi nei rapporti interpersonali fra i suoi seguaci. Punto di
partenza sono le colpe dell’uomo nei confronti di Dio sono paragonabili ai debiti di questo
mondo. Questa metafora si ricollega anche alla diversa entità delle due somme di danaro: questo
contrasto tra il debito enorme col padrone, e quello irrisorio del servo ci rimanda alla differenza
tra il rapporto Dio - uomo e il rapporto uomo - uomo. Quindi Padrone e servo sono metafora di
Dio e dell’uomo. La parabola poi non parla della misericordia del padrone in generale ma del
realizzarsi di questa misericordia in un determinato evento. Questo evento viene a coincidere con
la persona di Gesù: l’amore che si rivela nel comportamento di Gesù nei confronti dei “debitori
di Dio”che ha il suo fondamento dell’amore di Dio.
Il nuovo contesto in cui collocare i rapporti umani, è Gesù stesso il quale dona agli
uomini l’amore proveniente da Dio. In Lui si rende visibile, come poi nella parabola stessa, la
radicale anteriorità dell’amore di Dio che in partenza va oltre il nostro comportamento e delle
nostre aspettative. Con l’aggiunta dei vv. 32-34 la comunità prima di Mt introduce nella
narrazione il giudizio che la parabola originariamente lasciava agli uditori. Si vuole così
sottolineare che il comportamento errato del servo nel giorno del giudizio: esso non rimarrà
impunito. Nel padrone è chiaramente celata la figura di Dio nel giorno del giudizio. Dio chiede a
noi la compassione nei confronti degli altri uomini. Mt indirizza la parabola alla sua comunità e
ciò risulta dal fatto che egli descrive lo sdegno dei servi (v.31) che corrisponde appunto allo
sdegno della comunità.

I. 5 Il testo

113
23 A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. 24
Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. 25 Non
avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la
moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito. 26 Allora quel servo,
gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa. 27
Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28 Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e,
afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi! 29 Il suo compagno, gettatosi a
terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il debito. 30 Ma egli
non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il
debito.
31 Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro
padrone tutto l'accaduto. 32 Allora il padrone fece chiamare quell' uomo e gli disse:
Servo malvagio, io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato. 33 Non dovevi
forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te? 34 E,
sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il
dovuto.
35 Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al
vostro fratello».

I. 6 Analisi esegetica

vv.23 – 24:
A proposito, il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi.
Incominciati i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti.

La parabola è illustrazione della basilea . E’ introdotta da una motivazione. Vengono proposte


due immagini: un re, i servi e due debitori. La somma del debito è enorme: diecimila talenti
indica il massimo di danaro immaginabile che fa pensare più che ad un semplice debitore ad un
satrapo.

v. 25:
Non avendo però costui il denaro da restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la
moglie, con i figli e con quanto possedeva, e saldasse così il debito.

Lo schiavo chiamato chiede una dilazione consapevole che il re potrebbe buttarlo in prigione, lui
e la sua famiglia. La vendita della moglie non era tuttavia conosciuta dal giudaismo.

v. 26:
Allora quel servo, gettatosi a terra, lo supplicava: Signore, abbi pazienza con me e ti restituirò
ogni cosa.

Il debitore e il padrone sono entrambi consapevoli che il debito non potrà essere estinto.
Nonostante questa consapevolezza il debitore si mette in atteggiamento di supplica.

v. 27:
Impietositosi del servo, il padrone lo lasciò andare e gli condonò il debito.

114
Accade l’impensabile: il re condona il debito e lo lascia libero. Va ancora una volta sottolineata
la forza dei verbi utilizzati dall’evangelista: la «pietà» indica l’azione interna (viscerale) di Dio
che ama in modo compassionevole l’uomo (splagchnistheis). Il re «condona» nel senso di
«sciogliere» dalla schiavitù (apelysen) il suo suddito debitore. Va considerato come il linguaggio
economico in realtà si trasforma in un linguaggio «teologico», che indica la profonda relazione
insaurata tra il re e il suo interlocutore.

v. 28:
Appena uscito, quel servo trovò un altro servo come lui che gli doveva cento denari e,
afferratolo, lo soffocava e diceva: Paga quel che devi!

La scena si sposta su di un altro ambiente. Entra in gioco un altro personaggio: è un compagno di


schiavitù che non è in grado di restituirgli la somma irrisoria di cento denari. L’evangelista in
modo enfatico propone il contrasto tra il comportamento precedente e l’attuale. Il contrasto
accade anzitutto nella linea del tempo: «appena uscito». L’asimmetria costruita nella relazione
precedente tra il re e il suo suddito, ora è annullata nell’incontro con il conservo. Malgrado
questo cambiamento, il servo liberato non è in grado di costruire una relazione di misericordia
con il suo simile.

v. 29:
Il suo compagno, gettatosi a terra, lo supplicava dicendo: Abbi pazienza con me e ti rifonderò il
debito.

Si ripete la scena della implorazione che non trova questa volta la stessa comprensione. La
promessa della restituzione questa volta è realistica eppure non si ammette in questo caso alcuna
dilazione.

v. 30:
Ma egli non volle esaudirlo, andò e lo fece gettare in carcere, fino a che non avesse pagato il
debito.

Il creditore è irremovibile e lo fa chiudere in prigione. Qui c’è un richiamo implicito a Matteo


5,5 s.

v. 31:
Visto quel che accadeva, gli altri servi furono addolorati e andarono a riferire al loro padrone
tutto l'accaduto.

Alcuni colleghi dello schiavo assistono indignati alla scena e si fanno portavoce dell’accaduto
presso il padrone. E’ facile intravedere in questa figura della parabola il ruolo della comunità
cristiana che giudica il caso.

v. 32:
Allora il padrone fece chiamare quell'uomo e gli disse: Servo malvagio, io ti ho condonato tutto
il debito perché mi hai pregato.

L’ira del padrone domina questa scena. L’ira nella prospettiva dell’evangelista applicata alla
figura del Kyrios va intesa nel senso del giudizio finale verso l’uomo. Il servo è definito
«poneròs» (malvagio) e l’intero dialogo è un vero giudizio finale non solo sull’atteggiamento del
servo, ma sull’intera sua esistenza!

v. 33:

115
Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?

E’ la domanda ammonitrice con la quale egli chiede conto dell’operato del debitore. Tale
domanda sembra rivolta come monito all’intera comunità che assiste alla scena. Si evince
chiaramente come il testo abbia una notevole finalità persuasiva e pedagogica. L’accento viene
posto sulla dimensione etica dell’impegno cristiano. In gioco non è la visione di Dio e della sua
misericordia, ma la scelta dell’uomo di vivere fino in fondo il suo impegno cristiano, definito
come «condivisione della pietà».

vv. 34-35:
E, sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non gli avesse restituito tutto il
dovuto. Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al
vostro fratello».

L’epilogo indica la destinazione finale del servo (esclusa la sua famiglia). L’espressione sembra
indicare un lasso temporale (finchè non…), secondo la stessa richiesta che il servo aveva
anticipato precedentemente al re (cfr. v. 26). Tale indicazione ha la funzione di lasciare aperta la
prospettiva del giudizio e della misericordia.
Il v. 35 E’ la dichiarazione della parabola, che alcuni autori attribuiscono all’evangelista o alla
comunità. Infatti l’interpretazione che emerge dell’idea di Dio «giudice» contrasta con la
prospettiva della misericordia e del perdono. Anche in questa conclusione va considerata la
latenza pedagogica ed ecclesiale dell’invito alla riconciliazione, probabilmente necessario nel
contesto della comunità matteana.

II.7 Messaggi teologici

Il giudaismo conosceva già il dovere del perdono delle offese, aveva tariffe ben precise a
cui riferirsi. La grettezza umana è sempre sollecita a ricercare una misura, una norma che le dia
soddisfacimento. Perdonare, si, ma quante volte? I rabbini per sottolineare la liberalità di Dio,
dicevano che Egli perdona tre volte: le scuole rabbiniche esigevano dai loro discepoli di
perdonare un certo numero di volte e questo tariffario variava da scuola a scuola. Ecco che
Piretro chiede a Gesù quale sia il suo tariffario. Gesù precedentemente aveva detto di amare i
nemici e di pregare per quelli che ci perseguitano per essere figli del Padre che è nei cieli (cf. Mt
5-6). Pietro, dal contatto con Gesù ha capito che le misure fino ad allora ritenute valide ora non
servono più e tenta di dare una risposta : “fino a sette volte?”. Gesù formula la sua risposta
riprendendo un numero simbolico che sta a significare sempre. La parabola che poi segue, da
ragione di questo dovere di perdonare sempre, senza limiti.
Il senso della parabola è che Dio perdona gratuitamente il peccato a chi gli chiede
perdono, dimostrando una benevolenza nei confronti dei peccatori assolutamente disinteressata.
Come conseguenza di questa esperienza di perdono di Dio l’uomo deve imparare a perdonare i
propri fratelli, sia perché queste offese sono nulla di fronte alla gravità del peccato, sia perché
per primo egli ha fruito del perdono di Dio. Il perdono delle offese e l’amore verso i nemici
costituiscono una delle caratteristiche della morale evangelica. Quanto ha influito la morale del
vangelo sul comportamento pratico dei cristiani? Tanti cristiani lungo il corso della storia della
Chiesa hanno preso sul serio la parola di Gesù: l’agiografia cristiana è piena di esempi e di gesti
eroici di perdono e di riconciliazione. Tutto il vangelo ha avuto una importanza capitale nella
educazione dei popoli. La responsabilità dei cristiani è enorme nei confronti del mondo. Non c’è
relazione umana, per piccola che sia, che non possa trovare un miglioramento attraverso la
riconciliazione e il perdono.
Volendo considerare il messaggio teologico di questo brano, potremmo dire che il
perdonare gli altri settanta volte sette è un dovere evangelico assoluto, indiscutibile: esso è un

116
dovere per il cristiano. E’ un messaggio consono con tante altre parole di Gesù, con il discorso
ad esempio della montagna. In 6, 14 Gesù dopo aver insegnato il Padre nostro, riprende: “ Se
perdonate agli uomini le loro trasgressioni, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi”. Infatti
così ci fa pregare : “ Perdona a noi i nostri debiti come anche noi abbiamo perdonato ai nostri
debitori “. E’ significativo questo verbo al passato, come a dire : noi abbiamo perdonato e
dunque ora tu puoi perdonarci. Dunque il testo del capitolo 18 di Matteo, che conclude il
discorso ecclesiastico, esprime un’istanza evangelica fondamentale e irrinunciabile, pur se ardua,
difficile, al limite eroica: è una istanza che solo la forza dello Spirito Santo può spingerci a
compiere. Quindi, quando si parla di perdono non intendiamo un atteggiamento ovvio, ma di un
dono gratuito dello Spirito, che è caratteristico del cristianesimo, della grazia. Questa parabola
insiste sul perdono che noi diamo. Noi siamo chiamati ad offrire un quadruplice perdono: al
mondo moderno, all’opinione pubblica e ai suoi strumenti, ai confratelli del presbiterio, al
mondo intero. Per poter arrivare a perdonare, dopo aver ascoltato, accolto questa parabola,
dobbiamo fare silenzio nel nostro cuore, descrivendo un largo perdono alle molte situazioni che
ci hanno ferito o ci feriscono, con la fiducia che il Signore stesso opera questo perdono in noi.
Lo stesso Santo Padre ha chiesto perdono a livello universale, a livello della storia della
Chiesa, dei popoli, delle civiltà. Se pur in modo più semplice, anche noi siamo chiamati ad
elargire questo perdono in modo particolare nella celebrazione della stessa Eucaristia. Dopo aver
espresso il perdono che diamo e che chiediamo, ci sentiamo perdonati, abbiamo diritto di sentirci
perdonati perché il Signore stesso ce lo ha promesso. Percepiamo che la nostra invocazione (che
poi è la stessa del servo di questa parabola)” rimetti a noi i nostri debiti”, è esaudita dal momento
che ci siamo sforzati di perdonare a chi ci ha offeso, deluso, trascurato. Si realizza così in noi la
conclusione della parabola: “ Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste
perdonerà anche a voi”.227 La parabola descrive le relazioni dell’uomo peccatore, di ogni uomo,
al quale Dio perdona per pura grazia. L’atteggiamento del servo spietato riflette bene la
meschinità del cuore umano. Quale deve essere allora la reazione dell’uomo nei confronti del suo
prossimo? Dio apre la grazie del suo perdono in un modo che l’uomo non possa sospettare e mai
ritirare questa ondata d’indulgenza di fronte ai cuori meschini che non sanno perdonare il
prossimo. E, nel giorno del giudizio, il debitore spietato sarà misurato con la misura della sua
giustizia228.

I.8 Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la ricerca – azione nella scuola secondaria di I e II grado

Scuola secondaria di I e II grado (classe II)

R.A. Ricerca Azione

L’esercizio del perdono

Focus di attenzione della R.A.

La parabola del debitore spietato.

227
Cfr. C. M. MARTINI, La pratica del testo biblico, Casale Monferrato (Al) 2000, 211 – 224.
228
AA. VV., Commento della Bibbia liturgica, Cisinello Balsamo (Mi) 1999, 966.

117
Items della R.A.

Perché il debitore del re, ricevuto il perdono


Problem solving non perdonò a sua volta il servo che gli doveva
100 denari?

Presenza L’intero gruppo classe è coinvolto nella ricerca


– azione per acquisire conoscenze e abilità per
lo sviluppo di competenze attese

I risultati della ricerca vanno contestualizzati e


Contesto resi utili ad eventuali implementazioni per
contesti simili.

Il contesto preso in esame dal gruppo di ricerca


è quello della “parabola del debitore spietato”.

Il testo della parabola va analizzato;

dall’analisi si passa all’azione di ricerca di


gruppo;
Ordine logico
Dalla ricerca si procede alla fase della
riflessione;

dalla riflessione il gruppo ritorna all’analisi del


testo, contestualizzandola.

Riflessione Riflettere sulla teoria acquisendo


consapevolezza delle azioni.

Spendibilità Far confluire pratica e teoria in un’azione


dinamica e circolare di esperienza vissuta.

Competenze attese dalla R.A.

L’alunno sa interloquire con pertinenza e costruttività nelle situazioni comunitarie.

L’alunno opera scelte consapevoli e se ne assume la responsabilità


Azione didattica

ü Gli allievi, prima singolarmente, poi in gruppo, analizzano il testo della parabola nella
prospettiva della relazione tra gruppo e problem solving.

ü Gli allievi realizzano una mappa delle espressioni significative del testo.

118
ü La cooperazione tra gli allievi e l’ascolto reciproco avvicina tutti verso lo scopo della
ricerca: L’esercizio del perdono.

ü Costruzione di un differenziale semantico tra due termini: Perdono e giustizia.

ü Realizzazione di una teoridella ricerca attraverso domande come:

Che cos’è il perdono?


Che cos’è la giustizia?

Ha senso parlare di perdono negativo?


Quando esercitiamo il perdono?

Io perdono se…
Io sono giusto se…

‫ ٭‬La ricerca continua calata nell’azione quotidiana di scuola e di extrascuola attraverso la


narrazione.

‫ ٭‬ogni avanzamento della ricerca va riportato all’analisi del testo e al contesto di provenienza
della conoscenza.

Conclusione

La storia di Gesù, l’intreccio della sua vita con la nostra vita, non può lasciarci
indifferenti. Gesù non è stato un grande filosofo che ha lasciato scritti o detto teorie che
riguardano la vita o la sua origine: Egli si è offerto per la remissione dei peccati del genere
umano e lo ha fatto offrendo la sua vita ricca di esempi di amore, ponendosi Egli stesso come
modello di amore, quell’amore trinitario, fonte di misericordia e di pace.
Cristo, oltre che essere Dio, è stato un uomo tra gli uomini che ha usato il linguaggio
umano per far comprendere le mirabilia Dei. Attraverso i Vangeli, in modo particolare attraverso
le parabole da noi prese in considerazione, vieni fuori l’immagine di un Dio premuroso, attento,
docile, che a tutti i costi cerca il bene dell’uomo e per l’uomo. Parabole chiare che si intrecciano
con la vita quotidiana dell’uomo di allora e che interpellano e interrogano anche l’uomo di oggi.
Quale altra filosofia o grande personaggio di ieri e di oggi hanno parlato e inciso nel cuore
dell’uomo come ha fatto Gesù di Nazaret? Cosa ancora più sorprendente è che Gesù lo ha fatto
con un linguaggio semplice, senza ragionamenti alti o elucubrazioni di sorta. Nonostante la
semplicità e la chiarezza delle parabole, a volte i discepoli non comprendevano e chiedevano al
maestro ulteriori spiegazioni. Il cuore dell’uomo è talmente indurito e accecato che ha bisogno
ancora di Lui, ancora di un Suo intervento. In questo io vedo il desiderio dell’uomo di capire e
la sollecitudine di Dio nel donarsi e di farsi comprendere.
Mi chiedo: cosa sarebbe stato il vangelo senza le parabole? Secondo me sarebbe stato un
libro senza indice. Non avremmo avuto chiaro il messaggio e ci sarebbe stata meno chiara
l’immagine di Dio come pastore premuroso, come padre giusto e sollecito. Gli evangelisti hanno
saputo ben esporre non solo il contenuto ma anche la forma delle parabole stesse. Essi miravano

119
ad offrire alla comunità nascente un messaggio che potesse aiutare ogni cristiano a camminare
secondo la legge di Dio seguendo l’esempio di Gesù. Era ben nota ad essi lo stile di vita
dell’uomo di allora. Fatto sorprendente della Parola di Dio è che essa è sempre attuale! La
parabola ha parlato e parla al cuore dell’uomo di ieri e di oggi, alla società di ieri e di oggi, al
cristiano di ieri e di oggi. Come pastori di questa Chiesa dovremmo improntare la nostra
catechesi proprio partendo dalle parabole. D'altronde il Signore non ha usato questo strumento
per farsi comprendere e per annunciare il Regno? Solo un cuore indurito, freddo non riesce a
comprendere. E quand’anche ci fosse un “cristiano” simile, gli è lecito chiederci: spiegami la
parabola! Cristo parla attraverso di noi, noi usando il suo linguaggio, avendo come esempio il
suo amore e la sua sollecitudine siamo chiamati a dare spiegazioni all’uomo di oggi che non
“comprende questo linguaggio troppo duro e difficile” e poco adatto alle condizioni in cui versa
la società odierna. In fondo penso che all’uomo di oggi manchi un linguaggio semplice, schietto,
diretto e allo stesso tempo penetrante. E’ stanco di teorie e ragionamenti filosofici astratti. Come
Chiesa siamo chiamati ad offrire all’umanità una Parola che giunga al cuore e lo trasformi: è la
Parola di Gesù di Nazaret.

120
IX.
LA PARABOLA DELLE DIECI VERGINI (MT 25,1-13)

Rilievi preliminari

Mt 25 si compone di tre racconti parabolici: le dieci vergini, i talenti e il giudizio


universale. Tutte e tre questi riacconti sono stati collocati nel contesto escatologico, secondo cui
la tensione narrativa dei racconti non è rivolta tanto al presente, quanto al futuro. L’invito verte
sul vegliare, l’attesa è legata alla figura del Signore, che arriverà nell’ora impensabile e
giudicherà per quello che si è veramente, per la vita personale, per il progetto di vita che
realizzato durante l’esistenza.
In questo racconto la sposa, la persona più importante di tutti, manca e ciò costituisce una
prima stranezza. Anche lo sposo, che normalmente arriva un po’ prima della sposa, non c’è,
ritarda e non si sa quando giungerà. L’assenza della sposa ed il ritardo dello sposo sono due
elementi lontani dal nostro modo di intendere il matrimonio. Infine nel racconto si parla di dieci
vergini, dieci ragazze che facevano il corteo con le lampade accese e generalmente oltre alle
lampade portavano un piccolo contenitore di olio alla cintola, per riserva. Infatti normalmente
l’olio si consumava e bisognava ricaricare le lampade. Loro compito era attendere lo sposo con
le lampade accese. È da notare la forzatura impressionante del testo. Il racconto inizia come il
racconto di un matrimonio e finisce come il racconto di una sentenza da tribunale con tanto di
giudizio.
I v.1 e v.13 sono la cornice narrativa, iniziale e finale, del testo. Importantissimo il v.1
che annuncia il Regno dei cieli, vero soggetto della parabola. Il Regno dei cieli è simile a dieci
vergini che uscirono incontro allo sposo. È una similitudine non statica, ma dinamica, si tratta di
un’azione, che è un’esperienza di cammino, è un esodo, un’ekstasis, un’uscita dalle proprie case
per andare non verso il matrimonio, ma verso lo sposo. La dinamica interna dell’amore, della
sponsalità e della nuzialità evidenzia il punto fondamentale dell’esperienza cristiana. Il
cristianesimo è l’incontro con una Persona che si chiama Sposo, la vita cristiana è nuzialità , è
sponsalità, è amore, è agàpe, è offerta di se stesso, è un uscire dal proprio mondo per andare
verso un altro. Allora il Regno di Dio accade in questa dinamicità, in quest’uscita, in questo
andare verso Qualcuno che sta arrivando.

I. Analisi letteraria

Siamo nel contesto del discorso escatologico in Matteo. La parabola delle dieci vergini
infatti porta la “firma” di Matteo, ma non è del tutto sua propria; la sua ultima parte (25,10b-12)
ha un equivalente in Luca nella parabola della porta stretta. Questo tipo di metafora – vale a dire
il banchetto – è spesso utilizzata nei vangeli per parlare del Regno.
Essa fa parte del grande discorso escatologico che comprende i capitoli 24-25.
Abbiamo così cinque parabole aventi un denominatore comune: l’arrivo di un personaggio:

1. Il ladro (kléptes; erchomai 24,43)


2. Il padrone di casa (Kyrios; Erchomai 24,46)
3. Lo sposo (nymphòs; erchomai 25,10)
4. Il padrone (Kyrios; erchomai 25,13)
5. Il Figlio dell’uomo (ho houiòs toù anthrōpou erchomai)

121
Le parabole che ha riunito Matteo in questo capitolo sono tutte incentrate sulla stessa realtà: la
venuta del Figlio dell’uomo “alla fine del mondo”. Esse sottolineano questa venuta che tarda ad
arrivare e mettono l’accento sulla vigilanza e il discorso escatologico si presenta come un invito
agli atteggiamenti che i credenti devono assumere nell’attesa di questa venuta:

1. attiva
La vigilanza 2. impegnata
3. responsabile.

I.1 Il genere letterario e l’ipotesi redazionale

Gnilka sostiene che siamo di fronte ad una narrazione di genere parabolico. Schniewind
evidenzia la parabola delle Vergini sia da intendersi come “un’oscura allegoria determinata dalla
preoccupazione della comunità di risvegliare l’accortezza e la prontezza”. Su altre fonti si
sostiene invece che la narrazione in questione sia “solo in parte” un’allegoria frutto di un lavoro
di redazione di Matteo c attinge da Lc 12, 35-38229. Anche Gnilka affronta il problema riguardo a
come intendere la narrazione parabolica. Egli infatti ritiene che sia conveniente riconoscere quali
siano gli elementi allegorici che ineludibilmente sono presenti nella narrazione che comunque è
da considerarsi come parabola.
La possibile ricostruzione secondo Weder è che la parabola “fu collocata da Matteo nel
contesto di due parabole della parusia (Mt. 24,45-51; Mt. 25,14-30)”230. La formula introduttiva
risale ad una speciale tradizione prematteana che aveva già raggruppato quattro parabole. Altro
elemento di nota è il duplice “Signore! Signore!” che ricorda il brano analogo Mt. 7,22 s. La
duplice invocazione risulta eccessiva rispetto alla situazione narrativa e venne certamente
inserita dalla comunità anteriore a Matteo. Lo stesso vale per il “In verità vi dico” che non ha
ragione di essere su uno sposo di questo mondo. Originario può essere il “Non vi conosco”.
Elemento indispensabile alla struttura narrativa della parabola è il ritardo dello sposo.
Possiamo dire che la parabola originaria comprendeva i vv. 1.3-12, senza “stolte” e
“sagge”, “Signore! Signore!” e “in verità ti dico”: elementi che risalgono alla comunità
prematteana. Matteo premette “allora” (v. 1) ed aggiunge il v. 13 per inserire la parabola nel
contesto del discorso della parusia.

I.2 Il contesto di Mt 25

La nostra parabola è contestualizzata nel discorso escatologico di Mt 24-25. L’organizzazione


del materiale è così disposto:
24,1-3: annunzio della distruzione del tempio
24,4-14: l’inizio dei dolori
parte discorsiva
24,15-25: la grande tribolazione
24,26-28: la venuta del Figlio dell’uomo
24,29-35: dimensione cosmica di questo avvento
24,36-44: l’invito alla vigilanza

229
FABRIS, 508
230
H. WEDER, Metafore del Regno, 283.

122
24,45-51: la parabola del servo fidato
25,1-13: la parabola delle dieci vergini
parte parabolica
25,14-30: la parabola dei talenti
25,31-46: il giudizio universale

Gnilka considera la narrazione delle Vergini come “unica” nel discorso escatologico ad
essere presentata come parabola del Regno dei Cieli e ciò è testimoniato dalla formula di
introduzione (Mt 25,1). Questa parabola quindi si inscrive in quel grande discorso di Gesù
(l’ultimo dei cinque discorsi matteani) che è tutto incentrato su un messaggio ben preciso:
“prima di veder soffrire e morire il figlio dell’Uomo Gesù, bisogna prima comprendere che solo
Lui ha il diritto di rivelarci il mistero dell’uomo e di invitarci alla pienezza di comunione”
(Regno). In questo discorso Gesù parla dunque della fine dei tempi e della sua venuta non per
attenderla passivamente o per capire come avverrà ma per darsi da fare per trovarsi pronti e
preparati “con le lampade dell’amore e della carità accese”.
La nostra parabola racconta le azioni di dieci vergini giovani. Le loro azioni sono
determinate da quelle dello sposo; lo svolgimento della parabola ruota intorno a lui e alla sua
venuta. Possiamo semplificare il tutto con un semplice schema231

Lo sposo Le vergini
I 25, 1-4 è in arrivo Prendono/
Non prendono olio
II 25, 5 Tarda a venire Tutte si addormentano
III 25, 6-9 Sta per venire Sono pronte/ non sono
pronte ad accoglierlo
IV 25, 10-12 Arriva entrano/ non entrano nella
sala delle nozze

Sappiamo che “le vergini e le vergini stolte” è la designazione tradizionale della nostra parabola,
ma il termine parthénoi è da intendere più generalmente come giovani ragazze, al quale si
aggiunge il termine phrònimoi (sagge) o moraì (stolte).
L’attenzione però non è da concentrare sulle giovani. Questa parabola come le altre è centrata
sulla venuta di un personaggio, il ritorno di questi si rivela sempre decisivo.

I.3 Proposta di strutturazione di Mt 25,1-13

Tra le varie suddivisioni segnaliamo tre principali: Weder; Gnilka; Fabris.


Weder232 propone l’articolazione in tre scene:
prima scena vv.1-5:
seconda scena vv. 6-9
terza scena vv. 10-12
sentenza finale v.13

Suddivisione secondo la proposta di R. Fabris233.

231
Cfr. M. GORGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, dalla sorgente alla foce, 126.
232
Cfr. H. WEDER, 287-288.
233
Cfr. R. FABRIS, 507.

123
Tripartita:
vv. 2-5: preparazione e attesa
vv. 6-9 arrivo dello sposo nel cuore della notte
vv. 10-12 inizio della festa di nozze
v. 13 monito che è applicazione pratica del racconto simbolico

J. Gnilka234 preferisce una suddivisione tematica:


vv. 3-5 preparativi alla festa
vv. 6-10 arrivo dello sposo e inizio della festa nuziale
v.11 epilogo dedicato alle stolte
v. 13 è l’imperativo che percorre come motivo dominante la parenesi del discorso
escatologico.

Sul piano narrativo la parabola contiene quattro quadri.


vv 2-4 La sposa in realtà non c’è perchè in senso teologico la sposa è la nostra anima.
Nella descrizione delle ragazze si parla di dieci vergini e non di dieci donne, perché le vergini
sono coloro che aspettano l’incontro con la persona che riempirà la loro esistenza e la loro vita. Il
testo dice che cinque di esse erano stolte, in greco morai, e le altre cinque erano sagge, in greco
fronimos. Analoghe espressioni in opposizione sono nel primo discorso di Gesù al cap. 7:
“L’uomo stolto (moròs) costruisce la sua casa sulla sabbia e l’uomo saggio (phronimòs)
costruisce la sua casa sulla roccia”. Tutta la teologia di Matteo si completa quando la parabola
della casa sulla roccia termina con un’analoga considerazione: “Non chi dice Signore, Signore
entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà di Dio” (Mt 7,32).
La parabola delle dieci vergini termina con il dialogo delle ragazze stolte con lo sposo:
“Signore!, Signore!” mostrando un collegamento stretto tra il cap.7 e il cap.25.
Va rilevato che il numero dieci era, secondo la tradizione ebraica, il numero di testimoni
sufficienti per benedire i fidanzati o gli sposi novelli. Gli ebrei hanno molto a cuore il
matrimonio. Il mondo ebraico in questo è speciale e attento. Il matrimonio in Israele si festeggia,
ancora oggi, per una settimana, notte e giorno. Ecco perchè viene a mancare il vino alle nozze di
Cana. Hanno sempre bisogno di approvvigionamento, facendo festa di notte e di giorno. Le
donne ebraiche sono molto belle, come bellissime sono le danze alla sera del venerdì. Gli
israeliani ci tengono molto al matrimonio e vivono molto seriamente questo rapporto
matrimoniale. La famiglia è l’elemento unificante del mondo ebraico.
Questo tema della famiglia lo ritroviamo già nell’AT nei libri dei profeti Osea, Isaia ed
altri. Lo sposo, nell’AT, è Dio e la sposa è Israele.

- Primo quadro: la descrizione delle ragazze – Le ragazze fin dall’inizio vengono divise in stolte
e sagge, perchè le prime presero le lampade ma non presero la ricarica dell’olio, mentre le
seconde, insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi.
L’attesa davanti la porta di casa prima dell’incontro con lo Sposo si prolunga fino ad ora tarda e
questo ritardo riguarda sia le stolte che le sagge. La vita le fa addormentare, la vita le fa cadere
nel sonno, nella stanchezza, nell’abitudine, nel dimenticarsene. All’arrivo dello sposo solo le
vergini sagge saranno pronte.

234
Cfr. J. GNILKA, Il vangelo di Matteo,, 507.

124
- Secondo quadro: lo sposo – Lo sposo tardava, in greco kronizontos, ed il tempo, il kronos,
passava. Il kronos indica il tempo che passa. C’e’ un’altra parola per indicare il tempo in greco
ed è kairos, che indica il tempo che dà senso alla vita. Un uomo sposato da ventidue anni ha
ventidue anni di Kronos, ma il momento in cui nasce il primo figlio, in cui la moglie ha detto sì
per sempre, quelli sono momenti di kairos. Nel tempo ordinario della vita si hanno dei momenti
centrali, che hanno dato il gusto alla vita. Questo è il Kairos. Non facciamo un ragionamento
teologico, ma molto pratico. Il kairos è qualcosa che dà senso all’essere. Il Kronos è il tempo che
passa. Con il cronometro noi misuriamo il chronos.
Kronizontos, dunque, è il tempo che sta scorrendo, è il tempo dell’attesa. Il verbo è
all’imperfetto perché si tratta di un’azione che si prolunga. Poiché lo sposo tardava, tutte e dieci
le vergini si assopirono, in greco emistiasai, e poi si addormentarono. Tutte si addormentano,
non soltanto le stolte, ma anche le sagge. La vita fa dormire, fa assopire, fa stancare tutti.
Nessuno è perfetto. Anche i più saggi, anche i migliori, anche i più santi si stancheranno, si
affaticheranno, si abbatteranno e si butteranno giù. Addirittura qualche autore dice che dormire
vuol dire morire, perchè all’arrivo dello sposo si ode il grido escatologico della resurrezione “e
si alzarono”. Il ritardo dello sposo, che non arriva, le mette alla prova. La vita è un uscire verso
qualcuno che non c’è. Questa è la domanda del dolore: “Signore, dove sei adesso?” nel dolore
gridiamo: “Dove sei Signore adesso?”, e gridiamo nel dolore della guerra, della morte,
dell’incidente. Sorge in me la domanda esistenziale di chi sono io, che sono venuto a fare, che ci
sto a fare?
- Terzo quadro: l’imprevedibilità – vv.6-9 Al centro della notte un grido: “Ecco lo
sposo!Andategli incontro”. Il grido è tipico del linguaggio apocalittico, come il corno è lo
strumento tipico del linguaggio apocalittico, indice dell’inizio dello scontro decisivo.
“Andategli incontro!” l’arrivo dello sposo provoca lo scontro. Le ragazze si destano e si
alzano. Qui è usato un verbo che ci ricorda molto da vicino la Risurrezione. L’incontro con lo
sposo è imprevedibile, coglie di sorpresa. Le stolte sono senza olio e senza la lampada accesa
non ha senso andare incontro allo sposo. Le vergini stolte pretendono l’olio, che qui rappresenta
la fede. Ma se la fede una persona non ce l’ha, nessuno può dargliela. Attenzione, però, perchè la
fede all’ultimo momento non la si può comprare più, specie quando manca il tempo.
- Quarto quadro: la porta chiusa – Le vergini che hanno l’olio entrano in casa con lo sposo e poi
la porta viene chiusa. Il tempo dell’incontro, il chronos, è finito. La grande occasione della vita è
andata persa. Le ragazze arrivano dopo e restano fuori. “Signore aprici!” ma lo sposo, in greco
nynphios, ora è il Signore, in greco kyrios, Signore, che risponde: “Io non vi conosco”.
Al centro di questa parabola c’è lo sposo: prima è atteso, poi sta arrivando, infine è
arrivato. Le omissioni delle vergini stolte non sono segno di trascuratezza, ma ci rivelano la
presunzione di chi vuole gestire da solo il proprio rapporto con Dio. Questo è un falso
presupposto! L’uomo, invece, deve entrare nel tempo di Dio, imparare ad aspettare Dio,
altrimenti il tempo dell’incontro con Dio si consuma subito. L’incontro con lo sposo, l’amore,
non si può calcolare, non si può prevedere: Dio è l’incondizionato. Per capire allora chi è Dio
occorre abbandonarsi al tempo in cui Dio arriverà e prepararsi all’incontro. Il tempo di Dio non è
il nostro tempo e a noi viene chiesto solo di essere sentinelle e di vigilare (v.13).
All’uomo di oggi è vitale questo messaggio: il regno di Dio è vicino, ma occorre
imparare a vivere pienamente l’attesa di questo tempo e l’imprevisto che è proprio del regno di
Dio. Infatti il progetto e l’amore di Dio sono imprevedibili come è imprevedibile la sua venuta.
Il Regno di Dio non è una giornata della tua agenda, ma tutta l’agenda. La fede deve
andare oltre i calcoli, la santità non consiste nel non addormentarti, nel non cadere, ma nel
saperti piuttosto rialzare. La santità è proprio nel cadere e sapersi rialzare. All’incontro ci si
prepara. La trascuratezza è l’incapacità di prepararsi al grande incontro della tua vita.
La vita cristiana è come un’esperienza matrimoniale, è il cammino verso l’amore pieno e
richiede capacità di amare fino in fondo.
Le porte furono chiuse e dal matrimonio si passa al giudizio. Lo sposo non è cattivo, lui
ha fatto di tutto, ma sono le ragazze che hanno sbagliato il loro progetto di vita. Allora affiorano

125
le domande: ci salveremo tutti? L’inferno esiste veramente? Ci sarà la possibilità di un secondo
appello tra la morte e il giudizio finale? Nel giudizio finale Dio ci viene incontro, rispettando la
libertà di ogni essere umano, ma non tutti rispondono, alcuni hanno rifiutato fino alla fine.
Questo però è un problema più teologico che biblico.
In questa parabola è importante il tempo che ha funzione di stimolo: ti viene dato il
kronos perchè tu realizzi il kairos. La pedagogia dello stimolo esalta il valore della vigilanza,
verso il progetto di Dio. Le espressioni “non ti conosco”, e “le porte furono chiuse”, mirano più
pedagogicamente a spingerci alla vigilanza invece di mirare alla descrizione di come Dio si
comporterà. Questa è la vera finalità della parabola. Difatti nel versetto 13 troviamo
l’espressione “siate vigilanti”, però non viene descritto quello che accadrà poi nell’aldilà: è la
pedagogia di stimolo, è la provocazione per farci stare attenti e non arrivare impreparati
all’attimo finale della nostra vita. Alla luce di questa parabola, si può però dire che la vita
cristiana non è altro che un atto d’amore: Dio mi ama e farà di tutto, con segni ed avvenimenti
per far sì che io trasformi il mio Kronos nel Kairos migliore per me! La parabola sottolinea
l’aspetto negativo del giudizio sulla fine, per stimolare alla vigilanza. Dunque siate vigilanti,
perchè non sapete nè il giorno nè l’ora. Non spostiamo questa attenzione dal compito di stimolo
che ha la parabola, altrimenti poniamo domande alle quali la parabola non può rispondere in
modo esaustivo e rischiamo di fare una teologia sbagliata.
Dio parla alla coscienza?
Sì, illumina la coscienza affinché la tua storia abbia un senso. Dio è provvidenziale e in
questa provvidenza è un padre che pensa sempre a te, in qualunque momento tu sei e chiunque tu
sia. Io credo che la porta chiusa di cui parla terribilmente questa parabola non è il frutto di un
accidente occasionale ma è il frutto di un cammino progettuale che è stato sbagliato
completamente. Si può anche sbagliare nella vita perché ci si addormenta e si prende sonno.
L’importante, invece, è come hai impostato tutta la tua vita, se è stata impostata per questo
incontro e se hai capito che questo incontro è determinante oppure hai assolutizzato solamente te
stesso e il tuo mondo.
La parabola vuole farci capire la vigilanza sul progetto globale di vita e non sui suoi
aspetti secondari. Le ragazze stolte non avevano dato la giusta importanza al momento
dell’incontro. L’amore di Dio non guarda al calcolo ma guarda veramente alla fede, a questo
incontro, a questo tentare di rimettere la nostra vita nella strada dell’amore: quindi alla nostra
vigilanza.

I.5 Il testo
1 Il regno dei cieli è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro
allo sposo. 2 Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; 3 le stolte presero le lampade,
ma non presero con sé olio; 4 le sagge invece, insieme alle lampade, presero anche
dell'olio in piccoli vasi. 5 Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e dormirono. 6 A
mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! 7 Allora tutte quelle
vergini si destarono e prepararono le loro lampade. 8 E le stolte dissero alle sagge: Dateci
del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono. 9 Ma le sagge risposero: No, che
non abbia a mancare per noi e per voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene. 10
Ora, mentre quelle andavano per comprare l'olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano
pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. 11 Più tardi arrivarono anche le
altre vergini e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici! 12 Ma egli rispose: In
verità vi dico: non vi conosco.
13 Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l'ora.
I.6 Analisi esegetica

v. 1a:

126
l’introduzione mette in rapporto il racconto successivo con il Regno dei Cieli. Qui va notato che i
verbo è al futuro. Benché occorra tenere presente l’intera parabola, tale forma verbale e sposta il
punto focale alla fine, laddove si parla del destino diverso dei due gruppi all’arrivo dello sposo.

vv. 1b-5:
Consideriamo il racconto nel suo aspetto figurato. Nella prima parte presentano dieci damigelle
in attesa dello sposo. È una festa nuziale. Il numero dieci serve alla suddivisione in due gruppi,
di cinque stolte e cinque prudenti. Questa caratterizzazione invita a tendere l’orecchio. Sorge il
desiderio di sapere in che cosa si paleseranno stoltezza e prudenza. Il compito delle damigelle
consiste nell’andare incontro allo sposo per riceverlo con lampade accese. Il modo migliore di
interpretare il v.1 è vederlo come prolessi del v.6 e non nel senso che le ragazze escano già ora,
fuori del villaggio per affrettarsi di là incontro allo sposo. Esse attendono nella casa o davanti
alla casa, s’intende dello sposo.
Dove si trova la sposa?
Nel testo non se ne fa menzione. Ma si può presupporre che essa si trovi già nella casa
dello sposo. Infatti, secondo il v. 10 ha inizio la festa nuziale. L’avvedutezza delle vergini
prudenti consiste nel fatto che esse tengono pronta una riserva di olio per le lampade, mentre le
vergini stolte non ci hanno pensato. Le prudenti calcolano un lungo tempo di attesa. Poiché è
notte, tempo in cui si dorme, le ragazze si stancano e si addormentano tutte. Sulle caratteristiche
e sull’impiego delle lampade si fanno diverse ipotesi. Si pensa o a comuni o lampade ad olio, che
potevano ardere per ore ed ore, oppure a fiaccole, fasciate di stracci nella parte superiore ed
imbevute d’olio, che bruciavano per breve tempo. Le seconde avrebbero dovuto essere accese
soltanto poco prima dell’arrivo dello sposo. Jeremias pensa a questo secondo tipo poiché egli
assegna alle ragazze anche il compito di eseguire poi nella casa delle nozze, la danza delle
fiaccole in onore degli sposi. La vicenda dovrebbe presupporre lampade ardenti, poiché secondo
il v. 8 esse minacciano di spegnersi (certo dopo essere rimaste accese per un tempo piuttosto
lungo). In età romana ci si serviva per cortei anche di lanterne oltre che di fiaccole (Gv, 18, 3).
A caratterizzare le prudenti è il fatto che le loro lampade restano accese. Gli studiosi si
sono dati da fare per mostrare che le condizioni descritte corrispondono alle usanze nuziali della
regione del tempo. Ma si è trattato di indagini orientate di volta in volta in una sola determinata
direzione. Altri studiosi hanno riso di questi sforzi o li hanno stimato inutili perché hanno
ritenuto che il tutto sia inteso sin dall’inizio in senso allegorico e improntato al concetto che si
vuole illustrare. I testi citati Jeremias sono di vario tipo e testimoniano diverse usanze. L’usanza
paesana prevedeva che le amiche della sposa accompagnassero separatamente prima la sposa e
poi lo sposo nella casa di quest’ultimo, al calar della notte. nell’altro caso, che si svolge a
Gerusalemme lo sposo viene di notte, accompagnato nella casa della sposa, dalla quale poi la
coppia si reca nella casa del padre dello sposo. Ad ogni modo, gli esempi addotti hanno il grande
svantaggio di riferirsi ad usanze nuziali arabo-palestinesi risalenti alla fine del secolo XIX e
all’inizio del XX. Si può ritenere che le usanze siano rimaste immutate per duemila anni?
Dobbiamo ammettere che le nostre informazioni sulle usanze nuziali anteriori all’anno 70 sono
relativamente scarse. In Mac 9, 37-39 a proposito di una festa di nozze si racconta del corteo che
accompagna a casa la sposa, alla quale va incontro lo sposo. Anche per il periodo rabbinico è
attestato il corteo che accompagna la sposa in lettiga nella casa dello sposo. Ciò tuttavia non
esclude che ci fosse l’usanza (locale), di recarsi a ricevere lo sposo. Jeremias riesce addirittura a
fornire un valido motivo del ritardo dello sposo. Il mercanteggiare dello sposo con i genitori
della sposa sull’ammontare del valore matrimoniale per la cessione della sposa, avrebbe richiesto
molto tempo. L’elevata valutazione della sposa lusingava lo sposo. Pur sforzandoci di cogliere
nel racconto aspetti che sono vicini alla realtà, dovremmo non escludere tratti inventati e tener
presente che la vicenda è esposta come parabola (coi tempi dei verbi al passato), la quale di
norma racconta un caso particolare.

vv. 6-10:

127
Un alto grido che annuncia l’arrivo dello sposo, scuote le ragazze dal sonno. L’omissione del
verbo nell’espressione: “Ecco lo sposo!” sottolinea la repentinità. Siamo nel cuore della notte,
non proprio esattamente a mezzanotte. Non si dice chi lanci il grido. Può trattarsi di qualcuno
che ha notato per primo l’avvicinarsi dello sposo. Nel preparare le lampade, che tra l’altro
dovevano essere liberate dalla fuliggine, le une constatano la conseguenza del proprio
comportamento stolto, il fatto cioè di non aver portato con sè olio di scorta in vasi. Le loro
lampade minacciano di spegnersi. Per non fare una figuraccia, chiedono olio alle altre. Il
consiglio di queste, di andare dai venditori a comprare olio, è stato inteso a partire da Agostino,
in senso ironico. Ma qui hanno ragione quegli interpreti che presuppongono condizioni di vita
paesana. In un villaggio, un matrimonio è una occasione sufficiente perché l’intera popolazione
resti in piedi. Né è intenzione delle prudenti di disapprovare le stolte, ma con il loro corteo
intendono garantire l’accoglimento dello sposo, anche se ora esso avrà una forma più modesta.
Altrimenti l’intero corteo d’onore potrebbe finire in burla. Andando dai venditori, le stolte
ritardano. Nel frattempo lo sposo è entrato con le altre nella casa per la festa nuziale. Le stolte si
trovano davanti ad una porta chiusa. Hanno perso l’occasione di questo devono ora rendersi
conto. Qui ritorna un tema fondamentale nell’insegnamento di Cristo sulla teologia della
salvezza. Non ci sono tempi supplementari offerti all’uomo al di là del tempo del nostro
pellegrinaggio terreno. Il ritorno dello sposo in questa parabola rappresenta la conclusione dello
stato di pellegrinaggio, del tempo che ci è dato per scegliere, per rispondere alla grazia, e per
schierarci con lui. Una volta scaduto questo tempo non è possibile neppure varcare quella soglia
che viene chiusa con l’arrivo dello sposo.

vv. 11-13:
Con l’epilogo l’atmosfera della vicenda subisce un mutamento decisivo, assumendo una
colorazione tragica. Soltanto nell’epilogo sentiamo qualcosa della partecipazione interiore delle
ragazze. Esse si mettono davanti alla porta chiusa e chiedono di poter entrare. La formulazione al
presente “arrivano e cominciano a dire” indica, nel pensiero di Matteo il drammatico punto
culminante della vicenda. Già la duplice invocazione “Signore, Signore” spezza la scena. Lo fa
ancor più la reazione dello sposo. Con la formulare sentenza di rinnegamento “Non vi conosco”
egli sconfessa le ragazze stolte (Cfr. 7,23; Lc 13, 25c). senza dubbio qui viene prospettata la
situazione di giudizio.

I.7 Messaggi teologici

I.7.1 la parabola ha un valore simbolico

Gesù vuol dare un insegnamento di grande contenuto dottrinale e spirituale, valido per sempre e
per tutte le categorie di persone, e perciò usa l’espressione letteraria-sapienziale della parabola,
che deve essere interpretata, perché si distacca dalla realtà concreta e storica normalmente
vissuta.
• Si parla del Regno dei cieli è evidente che lo Sposo è il Signore;
• Le nozze ed il banchetto nuziale, secondo una allegoria biblica, rappresentano il rapporto
d’amore tra Dio e le sue creature e la felicità eterna per la quale Egli le ha create;
• Le vergini con le lampade accese rappresentano le singole persone e l’umanità intera, in attesa
che giunga il Signore nel momento della propria morte e poi al termine della storia;
• L’olio della lampada rappresenta la fede, la vita buona e perseverante, la grazia santificante: è
una realtà strettamente personale, non è prestabile, non è delegabile;
• Il sonno delle vergini, nell’attesa dello Sposo, rappresenta il vivere quotidiano, impegnato nei
propri affari e nei propri interessi: la vita infatti ha le sue molteplici esigenze familiari, sociali,
politiche, culturali; non si può vivere e impegnarsi nei propri doveri con la continua e
assillante ansia della morte, dell’incontro con il Signore, del giudizio! Bisogna lavorare nel

128
proprio posto, essere preparati, e cioè –secondo la parabola – con le lampade accese e con
l’olio di riserva;
• L’arrivo dello Sposo a mezzanotte – avvenimento normalmente impossibile! – significa
l’assoluta inconoscenza circa il momento del suo arrivo: la morte infatti è la realtà più certa ed
ineluttabile, ed è anche la realtà più incerta circa il momento, il luogo, il modo. Importante è
sapere che la vita non è “essere per il nulla”, come afferma la filosofia atea-nichilista; non è
una “cifra incomprensibile” come affermano correnti di pensiero razionalista ed
esistenzialista; importante è sapere che la vita è un cammino verso l’eternità, di cui si deve
rendere conto a Dio Creatore e Signore: “È stabilito che gli uomini muoiano una sola volta,
dopo di che viene il giudizio” (Ebr 9,27). Infatti: “non abbiamo quaggiù una città stabile, ma
andiamo in cerca di quella futura” (Eb 13,14);
• Il cammino notturno delle vergini stolte che si recano dai venditori per acquistare l’olio
necessario per le lampade significa l’ineluttabilità del momento morte: non si torna indietro!
Quel che è stato, è stato!
• La risposta inderogabile dello sposo: “in verità: non vi conosco!”, indica la tremenda serietà
della vita. La risposta dello Sposo è la frase più tragica del Vangelo e di tutta l’intera storia
umana: infatti non essere riconosciuti da Dio, Creatore, Redentore, significa essere condannati
per sempre al tormento e all’angoscia del disamore, al terribile e perennemente insoddisfatto
bisogno di Dio-Amore, che Gesù stesso paragona ad un fuoco spirituale, che brucia e non
consuma.

A motivo di questa spaventosa tragedia incombente, Gesù conclude la parabola dicendo:


“Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno, né l’ora!”. E con una altra parabola simile
Gesù afferma: “Siate pronti, con la cintura ai fianchi e le lucerne accese, siate simili a coloro che
aspettano il padrone quando torna dalle nozze, per aprirgli subito, appena arriva e bussa. Beati
quei servi che3 il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli… e se giungendo nel mezzo della
notte o prima dell’alba, li troverà ancora così, beati loro!.. anche voi tenetevi pronti, perché il
Figlio dell’uomo verrà nell’ora che non pensate!” (Lc 12,35-40).

I.7.2 La valenza didattica della parabola

a) La parabola ci fa pensare prima di tutto al vero senso della nostra esistenza sulla terra: per
quale fine Dio ci ha creati? Qual è lo scopo della nostra vita? Gesù, il Verbo Incarnato,
l’unico e vero Maestro, afferma chiaramente che si vive solo per diventare partecipi della
gioia eterna di Dio! il banchetto nuziale è simbolo del Paradiso.
b) La parabola ci esorta alla vigilanza e alla prudenza: il tempo della vita è breve e fragile, e
certamente si conclude; la venuta del Signore è improvvisa e perciò bisogna essere sempre
pronti per il giudizio. Qualunque cosa succeda su questa terra, ciò che conta veramente è
l’eternità e la salvezza della propria anima, perché solo salvando l’anima salviamo il corpo
e saremo eternamente felici.
c) La parabola ci porta a pensare alla serietà della vita, per cui bisogna essere saggi. Bisogna
possedere la vera saggezza, quella di cui parla il libro della Sapienza, che è paragonata ad
una donna avvenente ed affascinante di bellezza radiosa ed indefettibile. Gesù stesso poi
definisce la persona saggia: “Chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, sarà
simile ad un uomo saggio che ha edificato la sua casa sulla roccia”. (Mt 7,27).
I.7.3 La valenza decisionale della parabola

Gesù ci fa comprendere che la vita deve essere una “attesa”, ma non passiva ed inerte,
bensì impegnata ed attiva. Purtroppo la cultura moderna nella storia contemporanea, partita da
uno stato di esaltazione di autonomia ideologica ed etica, è giunta alle soglie del nichilismo,
sereno e disperato. Così diceva S.S. Giovanni Paolo II, nel discorso tenuto ai partecipanti al V
Simposio del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa il 3 ottobre 1982: “Dove sono

129
oggi i solenni proclami di uno scientismo che prometteva di dischiudere all’uomo spazi infiniti
di progresso e di benessere? Dove sono le speranze che l’uomo, proclamata la morte di Dio, si
sarebbe finalmente collocato al posto di Dio nel mondo e nella storia, avviando un’era nuova in
cui avrebbe vinto da solo tutti i propri mali? Le tragiche vicende che hanno insanguinato il suolo
di Europa, gli spaventosi conflitti fratricidi; l’ascesa di regimi autoritari e totalitari, che hanno
negato e negano la libertà e i diritti fondamentali dell’uomo; i dubbi e le riserve che pesano su un
progresso che, mentre manipola i bene dell’universo per accrescere le opulenze ed il benessere
non solo intacca l’habitat, ma costruisce anche tremendi ordigni di distruzione; L’epilogo fatale
delle correnti filosofico-culturali e dei movimenti di liberazione chiusi alla trascendenza; tutto
questo ha finito per disincantare l’uomo europeo, spingendolo verso lo scetticismo il relativismo,
se non ancora facendolo piombare nel nichilismo, nella insignificatezza, nell’angoscia
esistenziale”.
La cultura e le società moderne sembrano davvero vivere l’esperienza negativa delle
vergini stolte della parabola! Gesù Cristo vuole invece che ognuno sia ben inserito nei suoi
quotidiani doveri nell’attesa della sua venuta. Dobbiamo pregare con il salmista: “O Dio, tu sei il
mio Dio, all’aurora ti cerco; di Te ha sete l’anima mia, a te anela la mia carne, come terra
deserta, arida, senza acqua… quando nel mio giaciglio di Te i ricordo, e penso a Te nelle veglie
notturne, a Te che sei stato il mio aiuto, esulto di gioia all’ombra delle tue ali” (Sal 62). Santa
Teresa d’Avila, così esortava: “Nulla ti turbi, nulla ti rattristi: tutto passa, ma Dio non cambia!
La pazienza tutto ottiene; a che ha Dio nulla manca, solo Dio gli basta!”.

I.8 Risonanze pastorali

Sono come quegli avvisi di pagamento che non amiamo mai trovare nella cassetta della
posta. La pagina matteana ci ricorda che dobbiamo tenere in ordine i nostri conti, quelli della
nostra vita…gli unici che contano. Essa ci avverte, inoltre, che non dobbiamo farci cogliere alla
sprovvista dalla chiamata al rendiconto. Col sottinteso di non fraintendere la misericordia di Dio
con i condoni senza motivo, di cui beneficiano tante volte sulla terra gli evasori, coloro che non
hanno rispettato le leggi o hanno sprecato il proprio patrimonio. Insomma la vita terrena è una
cosa seria, dobbiamo rendere conto di come l’abbiamo gestita perché ne va di quella definitiva,
eterna. E una volta scattato l’appello non potremo più aggiustare nulla allora…bisogna pensarci
prima…finché si è in tempo. La parabola delle vergini sagge e stolte è una pagina dura, severa; è
l’immagine dell’avvento del Regno di Dio al termine di un percorso nella notte della storia:
Sposo da attendere nella vigilanza e nella preveggenza!
Dieci vergini: il “dieci” è il numero della collettività; “vergini”, perché ogni cristiano è
una creatura nuova. Le stolte «presero le lampade ma non presero con sé l’olio», a differenza
delle sagge che «insieme alle lampade, presero anche dell’olio in piccoli vasi». Le prime
rappresentano chi vive alla giornata, preoccupate di se stesse, del loro apparire e non del servizio
da rendere allo Sposo. Moda dell’effimero, pigrizia, trascuratezza, incapacità di guardare alle
cose che davvero contano. La differenza dalle vergini sagge sta in quel vasetto d’olio
supplementare la cui immagine ha un valore simbolico, che va riempito dal lettore. C’è il senso
dell’attesa e della vigilanza nel DNA del cristiano. Una attesa che non è impaziente, tanto da far
dimenticare gli impegni del mondo, ma non permette nemmeno di buttarsi a capo fitto nelle
realtà terrene come se tutto si giocasse quaggiù. Nell’attesa della vigilia si gioca gran parte della
riuscita della buona riuscita della festa. Essendo l’unica che conta, sarebbe da stolti non
prepararsi! Capita, tuttavia, anche alle vergini prudenti di addormentarsi nell’attesa, ma al grido
di mezzanotte sono pronte con la loro lampada accesa ed entrano nel Regno. Alle altre, che
arriveranno in ritardo perché andate a comprare l’olio, verrà sbattuta la porta in faccia dalla
Sposo in persona.
L’aspetto consolante è che può anche capitare di prendere sonno nella veglia e di avere
un calo di attenzione nell’attesa. E’ la voce di Dio a risvegliare nella notte: non ci avverte
quando viene, ma non vuole nemmeno coglierci in flagrante. L’importante è non aver sciupato la

130
propria vita da svegli. Non è infatti importante possedere la tessera di appartenenza, ma aderire
profondamente allo stile di vita evangelico. Essere credenti e magari praticanti va bene, ma non
dobbiamo dimenticare che essere cristiani significa impegnarci per poterci conformare
totalmente a Cristo.

I.9 Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per attività di cooperative learning.

Scuola secondaria di I grado (classe I)

In situazione di apprendimento cooperativo, l’allievo raggiunge risultati vantaggiosi per sé e per


i compagni collaboratori. E’ attività strutturata che utilizza il piccolo gruppo.

Items organizzativi

Il lavoro con piccoli gruppi consente


Analisi della situazione l’integrazione e la valorizzazione di ogni
allievo; è pertanto importante conoscere
motivazioni, interessi e capacità di ciascuno.

L’insegnante indica i modi specifici del lavoro


per piccoli gruppi come:
Cooperative informale ü La discussione a due prima della
lezione.
ü La preparazione alla lezione a due.
ü La spiegazione intermittente.
ü La trascrizione di appunti a due.

ü Predisporre un piano di studio/lavoro.


Cooperative formale ü Stabilire obiettivi e compiti.
ü Prendere decisioni organizzative.

Analisi della situazione

Dall’analisi della situazione emerge il bisogno formativo:

Comprendere e ricercare il rapporto d’amore tra Dio e le sue creature

Cooperative informale

L’insegnante:

Comunica agli allievi le modalità di lavoro svolto in due, secondo affinità elettive:

Distribuisce il testo della “parabola delle dieci vergini”.

Comunica l’obiettivo specifico di apprendimento (O.S.A. scuola secondaria II grado, classe I)

131
ü Desideri e attese del mondo giovanile, identità personale ed esperienza religiosa
(conoscenza).
ü Confrontare aspetti della propria identità con modelli di vita cristiana (abilità).

Comunica la competenza attesa:

ü Avere consapevolezza, sia pure adeguata all’età, delle proprie capacità e riuscire, sulla
base di esse, ad immaginare e progettare il proprio futuro, predisponendosi a gettarne le
basi con appropriate assunzioni di responsabilità.

Comunica l’obiettivo formativo:

ü Riconoscere nelle azioni di vita quotidiana e in tutto il mondo che ci circonda il dono
dell’amore di Dio.

Invita gli allievi a leggere e discutere con il compagno scelto, il testo della parabola.

Invita gli allievi spiegarsi il testo in forma intermittente (una sequenza ciascuno, fino alla
conclusione).

Invita gli allievi a trascrivere appunti condivisi da entrambi.

Cooperative formale

Il gruppo classe si divide in cinque piccoli gruppi di cinque allievi ciascuno.

Per ogni allievo dei cinque gruppi, vengono assegnati compiti di approfondimento e di studio
(Gruppi di competenza cooperativa)

1) Riflettere sul significato dell’olio delle lampade.


2) Riflettere sul significato del sonno.
3) Riflettere sul cammino notturno delle vergini stolte.
4) Riflettere sulla risposta dello sposo:<< …in verità non vi conosco…>>.
5) Riflettere sul significato del banchetto nuziale.

Dopo l’assegnazione dei compiti di studio, i gruppi si ricompongono in forma omogenea riferita
al tema di approfondimento.

Approfondito il tema con i cinque compagni, i gruppi si ridistribuiscono in forma eterogenea per
tema, cioè cinque allievi con conoscene approfondite per temi diversi.

Secondo l’ordine stabilito, gli alunni spiegano a turno le riflessioni fatte sul tema di studio

L’insegnante osserva, ascolta, valuta.

132
Conclusione

Matteo ha dato a questo racconto edificante una conclusione che concorda con la finale
del discorso della montagna (Mt 7,24-27). Anche là troviamo la contrapposizione tra il saggio e
lo stolto. Nel discorso della montagna essere saggio significa: non limitarsi ad ascoltare le parole
di Gesù, ma metterle in pratica. Questa disposizione viene trasferita anche al presente racconto
delle dieci ragazze che rappresentano la comunità cristiana. Sono pronti ad andare incontro al
Signore quei cristiani che fanno la volontà di Dio come l’ha insegnata Gesù nel discorso della
montagna.
Vigilare nell’attesa del Signore che viene in maniera improvvisa, vuol dire essere pronti;
ed essere pronti significa essere fedeli alla volontà del Padre, facendo quelle opere di amore sulla
base delle quali verrà fatto il giudizio finale. Questa è la vera “saggezza” cristiana: attuare con
perseveranza la volontà del Padre che il Signore Gesù ha definitivamente rivelato. Nella parabola
del giudizio finale (Mt 25, 31-46) il Signore ci indicherà dettagliatamente quali sono le opere
buone che dobbiamo fare “nell’attesa della sua venuta”.

133
X.
LA PARABOLA DEI TALENTI / MINE (Mt 25,14-30; Lc 19,12-27)

Preliminari

La narrazione di Mt 25,14-30 è conosciuta dalla maggior parte degli studiosi con il titolo
“parabola dei talenti”235 per evidenziare l’oggetto che è al centro della narrazione stessa: appunto
i beni finanziari che il padrone affida ai servi. Altri autori cercano di perfezionare ulteriormente
questo titolo esplicitando l’affidamento dei talenti che il padrone stesso stabilisce236. Ciò avviene
allo scopo di richiamare più chiaramente il contesto (quello della vigilanza) in cui il racconto è
inserito dall’evangelista stesso: ed è per questo che la si nomina “parabola dei talenti affidati”.
Alla luce di quanto premesso una domanda si impone legittima: quale dei due titoli
privilegiare? Nel primo caso possiamo constatare come il complemento di specificazione “dei
talenti” non sia assolutamente fuori luogo perché, nel menzionare i soldi, echeggia
effettivamente l’implicito richiamo ai due dinamismi fondamentali che caratterizzano la vicenda
parabolica in esame, ossia l’affidamento e l’amministrazione che viene compiuta dai servi nell’
hic et nunc in vista del rendiconto finale parusiaco.
Nel seconda tipologia di titolo della parabola si intende invece presentare (comunque
sempre nella sfera dell’implicito), con maggior peso l’azione del padrone rispetto a quella dei
servi. E’ indubbio come anche in questo caso ci siano degli ovvii vantaggi rispetto al primo
titolo: in primis una maggiore accentuazione del fatto che i denari non sono dei servi ma del
padrone e, conseguentemente a ciò, una più marcata sottolineatura del fatto che con tale
narrazione si è nel contesto evangelico della costante vigilanza che si richiede al discepolo per
non essere impreparato quando verrà il Signore nella parusia.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto della parabola e le sue articolazioni

a) Il Contesto

Innanzitutto c’è da premettere che la narrazione in questione è riconosciuta come una


parabola e non primariamente come un discorso sul giudizio ultimo perché, anche se si intende il
rendiconto dei servi come metafora del giudizio, comunque quest’ultimo viene evocato solo
all’interno del genere letterario parabolico237. E’ quasi unanimemente riconosciuto che la
parabola in questione dipendente dalla fonte Q e successivamente rielborata in entrambe le
versioni di Mt e di Lc238. La narrazione in esame è posta da Mt nell’ambito dell’importantissimo
discorso sulla parousia: ciò è testimoniato dal fatto che essa è preceduta e seguita da altre
parabole che hanno il suo stesso fulcro tematico, ossia la vigilanza nell’attesa della seconda
venuta futura del Cristo glorioso239. In riferimento a ciò, Poppi per esempio è fermamente
convinto del fatto che la narrazione è effettivamente una “parabola della basileia” (del Regno)

235
Cfr. A. POPPI, Sinossi dei Quattro Vangeli Greco – Italiano, Padova 1992, 169.
Cfr. H. WEDER, Metafore del Regno, 233 – 238; A. PUIG I TARRECH, La parabole des talents (Mt 25,13-30) ou des
mines (Lc 19,11-28), in A cause de l’Evangile, Mélanges offert a dom Jacques Dupont, Paris 1985, 165-193.
Cfr. O. DA SPINETOLI, Matteo - il Vangelo della Chiesa, Assisi 1998, 662 - 667.
236
Cfr. J. GNILKA, Il Vangelo di Matteo, 519 – 533.
237
Cfr. H. WEDER, 248.
238
IDEM, 235.
239
Cfr. A. POPPI, 216.
Cfr. O. DA SPINETOLI, 663.

134
anche se Matteo la presenta con le dovute redazioni come una parabola del giudizio240” per
incastonarla nel miglior modo possibile nel grande Discorso Escatologico che Gesù tiene a
Gerusalemme poco prima della Passione. E’ possibile evidenziare in questo stesso discorso una
notevole continuità tematica che si esplicita anche dal punto di vista linguistico: p.es. la
particella gar (infatti) e l’avverbio hōsper (come) presenti nella parte introduttiva della nostra
parabola, (v.14 - “Infatti accade come”-) la collegano di fatto alla parabola precedente delle
vergini stolte e sagge (v.13)241. Successivamente alla parabola dei talenti affidati abbiamo la
parabola del giudizio finale. Weder fa invece constatare come in Lc la parabola dei talenti, che
prende il nome “delle mine”, sia posta “dopo l’episodio di Zaccheo, ambientato a Gerico, e
prima dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme242”. L’introduzione lucana (v.11) ha la funzione di
presentare la parabola come risposta all’opinione della gente secondo la quale il Regno di Dio
era ormai in procinto di manifestarsi, in coincidenza con l’arrivo di Gesù in città243. Non è della
stessa opinione Hoffmann che invece è fermamente convinto del fatto che la parabola non abbia
alcun riferimento esplicito col desiderio dei cristiani di sapere perché la seconda venuta tardava a
venire e questo lo si può desumere dal fatto che la parabola non rivela nessun interesse al
riguardo. Alcuni autori hanno avuto addirittura la pretesa di considerare gli elementi che
caratterizzano il pretendente al trono che parte e prolunga la sua assenza, come una parabola a sé
stante. Secondo questa posizione di cui si fa maggior promotore Jeremias, il principe che nella
narrazione lucana affronta il viaggio è sicuramente Archelao che nel 4 a.C. si recò a Roma per
ottenere dall’imperatore il riconoscimento del proprio governo sulla Giudea. Tra i tanti studiosi,
Gnilka tuttavia si oppone apertamente a questa ipotesi e altresì aggiunge che la parabola delle
mine va quindi intesa come un unicum che è “allegoria pura” la quale quindi non si adatta a
Gesù244.

b) Le articolazioni

Molti studiosi con a capo P. Tarrech245, sono convinti che sull’azione narrativa si possa
operare una tripartizione:
I) vv. 14-15: affidamento dei beni del padrone ai tre servi prima della sua
partenza;
II) vv. 16-18: diverso atteggiamento dei tre servi durante l’assenza del padrone; III) vv.
19-30: al ritorno del padrone, resa dei conti con la ricompensa o punizione dei servi in relazione
al rendimento che ha ottenuto il loro operato durante il periodo intermedio che va dall’assenza
dello stesso padrone al suo ritorno246
Se è plausibile accettare il I e la II punto di articolazione non possiamo affermare lo
stesso per quel che concerne la terza parte che risulta obiettivamente troppo lunga. Ipotizziamo
quindi una suddivisione strutturale del testo che consti di cinque parti:

I) vv. 14-15: affidamento dei beni del padrone ai tre servi prima della sua partenza;

II) vv. 16-18: diverso atteggiamento dei tre servi durante l’assenza del padrone;
III) vv. 19-23: premiazione dei due servi buoni e fedeli;
240
Cfr. A. POPPI, 215.
241
Cfr. H. WEDER, 234.
242
IDEM, 234.
243
Cfr. IBIDEM.
Cfr. A. POPPI, 215;
244
Cfr. J. GNILKA, 522.
245
Cfr. A. PUIG I TÀRRECH, La parabole des talents (Mt 25,13-30) ou des mines (Lc 19,11-28), 173ss.; WEDER
favorisce una tripartizione sulla fonte Q che è possibile desumere purificando Lc e Mt dagli elementi redazionali. Le
tre fasi descritte sono rispettivamente l’antefatto, il ritorno del padrone e la resa dei conti dei servi (cf. H. WEDER,
237).
246
Cfr. J. GNILKA, 520.

135
IV) vv. 24-28: condanna del servo malvagio e infingardo;
V) vv.29-30: motivo guida del racconto (“A chi ha sarà dato…) con raddoppiamento della
punizione247;

La figura che unifica il tutto è il padrone che più volte in Matteo è indicato con il termine
greco kyrios248 e del quale conosciamo i due movimenti fondamentali dell’andare e del venire
(vv. 15.19).

I.3 Proposta di struttura in Lc 19,11-28 e in Mt 25

Struttura della Parabola proposta da De La Potterie249: Lc 19,11 - 28


v. 11 (inclusione): Mentre ascoltavano queste cose, disse aggiungendo una parabola, perché era
VICINO A GERUSALEMME ed essi pensavano che sull’istante il Regno di Dio deve
manifestarsi
v. 12: A. Disse dunque (oun): un uomo di nobile origine partì per una regione lontana per
RICEVERE LA REGALITA’, e TORNARE.
v. 13: B. AVENDO CHIAMATO dieci suoi servi, DISTRIBUI’ LORO DIECI MINE e disse
loro: FATELE FRUTTARE, mentre io vengo.
v. 14: C. Ora i suoi concittadini lo odiavano, e mandarono dietro a lui una ambasciata dicendo:
:non vogliamo che costui regni su di noi.
v. 15: A’ E avvenne che quando RITORNO’, dopo aver RICEVUTO LA REGALITA’
B’ Disse che gli FOSSERO CHIAMATI QUEI SERVI ai quali aveva DISTRIBUITO
IL DENARO per sapere quanto ognuno l’ AVESSE FATTO FRUTTARE.
v. 16: Si presentò il primo dicendo: “Signore, la tua mina, dieci mine ha reso!” […]
v.27: C’ Ma questi miei nemici, che non volevano che io regnassi su di loro, conduceteli qui e
sgozzateli dinanzi a me”
v. 28: (inclusione): E dopo aver detto queste cose, andava innanzi SALENDO VERSO
GERUSALEMME.
Dal punto di vista strutturale possiamo sottolineare i seguenti elementi:
Gnilka e con lui altri esegeti evidenziano come il rapporto tra i primi due servi e il terzo
(espresso nella seconda parte) si ponga in termini antitetici:
• ciò è espresso per esempio quando alla logica del “darsi da fare” dei primi due (vv. 16 - 17) si
oppone apertamente la logica del “dolce far niente” del terzo servo (v.18) oppure, allo stesso
modo, è doveroso considerare la contrapposizione (buono – cattivo)250.
Non è possibile inoltre trascurare la simmetricità e l’armoniosità di tutta la struttura testuale251:
• si pensi ad esempio alla rispondenza tra il fare e il risultare (“Colui che aveva ricevuto cinque
(ovvero due) talenti…ne guadagnò altri cinque (ovvero due)”- “Signore, cinque (ovvero due)
talenti mi hai consegnato; ecco altri cinque (ovvero due) ho guadagnato”
Sono di notevole rilevanza anche le ripetizioni che caratterizzano la terza parte del resoconto
finale sapientemente sottolineate da vari studiosi tra cui Gnilka252:
• Il padrone replica sia riprendendo le parole del servo cattivo sia lodando i primi due servi per il
loro diligente operato. Evidentemente ne dobbiamo desumere che le suddette ripetizioni sono
importanti e sono presenti proprio perché si imprimano nella mente dell’uditore
Da notare i cambiamenti dei tempi delle azioni dal passato (I e II parte) al presente (III parte):

247
Cfr. H. WEDER, 241.
248
Cfr. A. POPPI, 216:”Si noti l’insistenza con cui Mt nomina il kyrios (che simboleggia evidentemente il Cristo
risorto…”
249
Cfr. G. ROSSÉ, «La parabola delle mine (LC 19,11-28)», PSV 37(1998) 131-142.
250
Cfr. O. DA SPINETOLI, 663.
251
Cfr. J. GNILKA, 521:”…i dialoghi che si svolgono nella III parte tra il padrone e gli schiavi sono tra di loro
armonizzati e posti in parallelo…”.
252
IDEM, 521:”…Evidentemente le ripetizioni sono importanti e devono imprimersi nella mente dell’uditore…”

136
• Ciò al fine di sottolineare l’importantissima categoria escatologica del già e non ancora: ORA
INFATTI IL PADRONE ARRIVA E FA I CONTI. (“Dopo molto tempo VIENE il padrone di
quegli schiavi”)253.
La parte III è caratterizzata da una gnome o formula futura (v. 29) con al v.30 la
personale aggiunta Matteana che allude al giudizio finale non più da intendersi come metafora.
E’ opinione comune a più studiosi tra cui Gnilka, Weder e Angelico Poppi che le costruzioni
narrative della parabola in esame presenti nelle versioni di Mt e di Lc, riportino delle palesi
concordanze: dunque si desume che la parabola risalga al Gesù storico e abbia origine da una
fonte previa alle due sinottiche e a noi ignota (la famigerata fonte Q). Tra gli studiosi citati, in
riferimento alla possibilità di ricostruire la parabola nel suo sviluppo, Weder ha l’ardire di
presentare una bozza della parabola così come essa doveva essere stata raccontata dal Gesù
storico poi trascritta fedelmente in Q, mentre Poppi si sofferma a riconoscere semplicemente che
una tale ricostruzione risulta alquanto problematica254. Il contributo di Weiser sembra essere una
delle poche voci fuori dal coro che ha la pretesa di sostenere che Mt e Lc abbiano attinto la
parabola da due tradizioni distinte e non da un’unica tradizione a noi sconosciuta255.
Ovviamente se è vero che Matteo e Luca attingono da una stessa fonte è anche assodato
che essi adattano la stessa parabola alle proprie comunità che sono tra di loro diverse. E’
inevitabile dunque che gli Evangelisti introducano nella parabola di Q degli elementi secondari.
In Mt 25, 14-30:
• Innanzitutto la designazione dei servi con l’espressione “colui che aveva ricevuto cinque o due
o un talento” (vv. 20-22).256
• la diversa formulazione della risposta dei servi:” mi hai consegnato cinque o due talenti, ecco
ne ho guadagnati altri cinque o due257”.
• Di notevole impatto è anche l’aggiunta in Mt di una seconda ricompensa che è aliena al
racconto stesso (vv.21-23) ma che l’Evangelista ha voluto introdurre per sollecitare la sua
comunità a vigilare sulle sue azioni accentuando notevolmente più “il comportamento dei
cristiani nel mondo che la scoperta dell’esigenza insita nel dono258”.
In Lc 19:
• La trasformazione del protagonista del racconto da “un uomo” a “un pretendente al trono”
(c.19, v. 12) e l’aggiunta di tutto ciò che Lc ci rivela del sovrano, l’aver portato il numero dei
servi al numero di 10 unità (v.13), l’annotazione del fatto che il terzo servo colpevole nasconde
la mina assegnatagli non per terra ma nel fazzoletto e l’assegnazione delle città ai servi fedeli.
Per quel che riguarda invece la maggiore fedeltà a Q che possiamo desumere dal confronto delle
due versioni pervenuteci, è evidente come Lc conservi meglio i resoconti dei servi mentre Mt dal
canto suo riesce a preservare meglio la risposta del padrone: ”Bene, servo bravo; sei stato fedele
nel poco, ti darò autorità su molto” e il luogo dove il terzo servo nasconde il talento
assegnatogli259.

253
Cfr. J. GNILKA, Ibid., 521:”nel v.19 il tempo della narrazione al passato, che determina la vicenda si cambia in
presente. In tale modo si intende sottolineare l’arrivo del padrone che ora fa i conti.”
254
IDEM,521.
Cfr. H. WEDER, 243.
Cfr. A. POPPI, 216.
255
Cfr. J. GNILKA, 521. WEISER viene contraddetto da GNILKA senza appello:” L’idea di Weiser…non può
convincere”.
256
Cfr. H. WEDER, 237.
Cfr. O. DA SPINETOLI, 664 dove dice :”Il proprietario…ha infatti una somma di otto talenti”.
Cfr. J. GNILKA, 523:”..lo schiavo è partito da 5 talenti, secondo Lc da una mina..”
257
Cfr. H. WEDER, 237.
258
IDEM, 233-238.
Cfr. J. GNILKA, 523:”.Sicuramente opera sua è il v. 30, che alla fine rappresenta la punizione del servo infingardo nel
giudizio messianico..”
259
Cfr. H. WEDER, op. cit., 238: ”Matteo racconta che il terzo servo nascose il talento sottoterra”. Nascondere i
talenti sottoterra era una pratica molto diffusa nell’antico Israele perché si riteneva fosse il miglior posto dove
occultare gli oggetti”

137
I.4 Testo sinottico

Mt 25,14-30 Lc 19,11-27

Mt 25,14 Avverrà come di un uomo che, 11 Mentre essi stavano ad ascoltare queste
partendo per un viaggio, chiamò i suoi cose, Gesù disse ancora una parabola
servi e consegnò loro i suoi beni. 15 A uno perché era vicino a Gerusalemme ed essi
diede cinque talenti, a un altro due, a un credevano che il regno di Dio dovesse
altro uno, a ciascuno secondo la sua manifestarsi da un momento all'altro. 12
capacità, e partì. 16 Colui che aveva Disse dunque: «Un uomo di nobile stirpe
ricevuto cinque talenti, andò subito a partì per un paese lontano per ricevere un
impiegarli e ne guadagnò altri cinque. 17 titolo regale e poi ritornare. 13 Chiamati
Così anche quello che ne aveva ricevuti dieci servi, consegnò loro dieci mine,
due, ne guadagnò altri due. 18 Colui invece dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. 14
che aveva ricevuto un solo talento, andò a Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli
fare una buca nel terreno e vi nascose il mandarono dietro un'ambasceria a dire:
denaro del suo padrone. 19 Dopo molto Non vogliamo che costui venga a regnare
tempo il padrone di quei servi tornò, e su di noi. 15 Quando fu di ritorno, dopo
volle regolare i conti con loro. 20 Colui che aver ottenuto il titolo di re, fece chiamare i
aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò servi ai quali aveva consegnato il denaro,
altri cinque, dicendo: Signore, mi hai per vedere quanto ciascuno avesse
consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnato. 16 Si presentò il primo e disse:
guadagnati altri cinque. 21 Bene, servo Signore, la tua mina ha fruttato altre dieci
buono e fedele, gli disse il suo padrone, sei mine. 17 Gli disse: Bene, bravo servitore;
stato fedele nel poco, ti darò autorità su poiché ti sei mostrato fedele nel poco,
molto; prendi parte alla gioia del tuo ricevi il potere sopra dieci città. 18 Poi si
padrone. 22 Presentatosi poi colui che presentò il secondo e disse: La tua mina,
aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, signore, ha fruttato altre cinque mine. 19
mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho Anche a questo disse: Anche tu sarai a
guadagnati altri due. 23 Bene, servo buono capo di cinque città. 20 Venne poi anche
e fedele, gli rispose il padrone, sei stato l'altro e disse: Signore, ecco la tua mina,
fedele nel poco, ti darò autorità su molto; che ho tenuta riposta in un fazzoletto; 21
prendi parte alla gioia del tuo padrone. 24 avevo paura di te che sei un uomo severo e
Venuto infine colui che aveva ricevuto un prendi quello che non hai messo in
solo talento, disse: Signore, so che sei un deposito, mieti quello che non hai
uomo duro, che mieti dove non hai seminato. 22 Gli rispose: Dalle tue stesse
seminato e raccogli dove non hai sparso; 25 parole ti giudico, servo malvagio! Sapevi
per paura andai a nascondere il tuo talento che sono un uomo severo, che prendo
sotterra; ecco qui il tuo. 26 Il padrone gli quello che non ho messo in deposito e
rispose: Servo malvagio e infingardo, mieto quello che non ho seminato: 23
sapevi che mieto dove non ho seminato e perché allora non hai consegnato il mio
raccolgo dove non ho sparso; 27 avresti denaro a una banca? Al mio ritorno l'avrei
dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e riscosso con gli interessi. 24 Disse poi ai
così, ritornando, avrei ritirato il mio con presenti: Toglietegli la mina e datela a
l'interesse. 28 Toglietegli dunque il talento, colui che ne ha dieci 25 Gli risposero:
e datelo a chi ha i dieci talenti. 29 Perché a Signore, ha già dieci mine! 26 Vi dico: A
chiunque ha sarà dato e sarà chiunque ha sarà dato; ma a chi non ha
nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto sarà tolto anche quello che ha. 27 E quei
anche quello che ha. 30 E il servo miei nemici che non volevano che
fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là diventassi loro re, conduceteli qui e
sarà pianto e stridore di denti. uccideteli davanti a me».
138
I.5 Analisi esegetica di Mt 25,14-30

v. 14 :
“Infatti (gar), accade come (hōsper) per un uomo che partì per un viaggio. Egli chiamò i suoi
schiavi e consegnò loro i suoi beni…”

Si dovrebbe indugiare di più su questa prima scena che sembra quasi sfumata, quasi
impercettibile. Il verbo “avverrà come di un uomo”, significa avverrà la venuta del Figlio di Dio,
ponendo immediatamente la parabola in un contesto escatologico. Chiamare indica la vocazione
e ciò vuol dire che c’è stato un dialogo di fiducia tra il padrone e i suoi servi e che tra i molti che
aveva ne ha chiamato solo tre. È importante non perdere di vista questa prospettiva altrimenti
sembrerebbe che il padrone è un usurpatore, mentre ha affidato loro un compito e li ha messi a
parte della sua vita.
La parabola, come la precedente sulle vergini stolte e sagge ha come argomento centrale “la
basileia”, ossia il Regno di Dio. L’introduzione, molto breve, esplicita quanto appena asserito ed
è evidente come l’invito che vuole echeggiare per bocca dell’Evangelista sia la necessità di
vigilare (come al v. 13). Nella narrazione parabolica viene citato un uomo che forse è più
preferibile considerare come commerciante, che decide di partire.
Molto interessante e degno di nota è il fatto che, nel prosieguo della parabola, si dice solo che il
padrone affidò i suoi beni a tre dei suoi schiavi (ekalesen tous idious doulous)260. Gnilka
evidenzia come lo schiavo potesse gestire la somma affidatagli dal padrone ma ovviamente, in
quanto si trattava di una gestione, il ricavato non andava nelle sue tasche.261

v.15:
“E a uno diede cinque talenti, a uno due, a uno uno, a ciascuno secondo le sue capacità. E partì.”

Agli schiavi vengono date somme notevoli da amministrare, ma di quantità differente. Gnilka
tende a giustificare questo aspetto con l’ argomentazione alquanto riduttiva secondo la quale è in
questo modo che al Signore piace mettere alla prova i suoi servi262. Di maggior peso è invece il
contributo di Ortensio da Spinetoli perché spiega che i talenti sono distribuiti diversamente per
dare a tutti la possibilità di dare il massimo rendimento263.

vv.16 – 18:
”Subito colui che aveva ricevuto i cinque talenti…”

Gnilka è convinto del fatto che gli schiavi buoni riescano a raddoppiare la somma acquisita
attraverso la tecnica dei depositi bancari. I banchieri (trapezitai o sulhanim; a Roma i collectarii)
avevano il compito di vendere e comprare denaro cercando di ottenere da queste stesse
operazioni il guadagno attraverso gli interessi. Delle banche di questo genere, erano presenti in
tutte le maggiori città dell’ Impero Romano e ciò ovviamente permetteva una grande
circolazione di ricchezza in tutto l’Ecumene del tempo. Guadagnare denaro attraverso questa
tecnica richiedeva molta diligenza e molta attenzione a non perdere il denaro per operazioni
avventate. L’atteggiamento di nascondere sotto terra il denaro acquisito che è proprio del servo
cattivo, è di fatto una scorciatoia per scrollarsi di dosso la responsabilità perché nella società

260
Cfr. J. GNILKA, 524 dice espressamente che non si poteva trattare di specialisti della finanza, che lavorassero con
capitale di terzi e questo perché nella società israelita anche uno schiavo poteva utilizzare con frutto il denaro
assegnatogli dal padrone. Ovviamente il guadagno che ne derivava non andava allo schiavo bensì al padrone.
261
Cfr. J. GNILKA, 525.
262
IBIDEM.
263
Cfr. O. DA SPINETOLI, 665.

139
ebraica vi era una regola che vietava espressamente il risarcimento di denaro affidato qualora
esso veniva occultato sotto terra e successivamente trafugato264.

vv. 19 :
“Dopo molto tempo viene il padrone di quegli schiavi e fa i conti con loro”
«polun kronon» (molto tempo) è inteso dagli autori come un’allusione al prolungamento della
parusia, con conseguenze notevoli nell’ambito della co,munità matteana.
Angelico Poppi sottolinea come sia importante il ritorno del padrone improvviso e inaspettato
perché richiama alla venuta finale del Figlio dell’ Uomo che è di fatto il momento in cui a
ciascuno sarà dato secondo le sue opere265. Qui va notato i cambiamenti dei tempi dei verbi dal
passato al presente. Questa variazione vuole porre in primo piano l’arrivo del padrone, che ora fa
i conti266. Il significato è chiaro: se è vero che si è in attesa della Seconda venuta futura del
Cristo glorioso è anche vero che l’escatologia si esprime anche e soprattutto nel qui e ora. E’
per questo quindi che il cristiano deve essere da subito disposto ad accogliere il Signore che
vuole abitare nel suo cuore.

vv. 20-23:
“Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque, dicendo: Signore, mi hai
consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. Bene, servo buono e fedele, gli
disse il suo padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del
tuo padrone”. “Presentatosi poi colui che aveva ricevuto due talenti, disse: Signore, mi hai
consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele, gli rispose
il padrone, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto; prendi parte alla gioia del tuo
padrone”.

Di fronte al padrone che chiede conto dell’amministrazione dei servi, i primi due
mostrano i propri effettivi guadagni. Di fronte ai ricavi il padrone reagisce lodandoli e
ringraziandoli entusiasticamente per aver dimostrato fedeltà e fidatezza. Per la loro efficienza e
diligenza nella gestione dei beni, gli schiavi ricevono potere su “molto”. E’ da sottolineare
l’imperativo con il quale il padrone esorta lo schiavo buono a prender parte alla sua grandezza.
Si possono notare quindi i dialoghi tra padrone e servi buoni che sono tra di loro armonizzati e
messi tra di loro in parallelo con delle palesi ripetizioni che hanno lo scopo di imprimersi nella
mente dell’uditore. L’appellativo kyrios che viene utilizzato dagli schiavi per rivolgersi al
padrone richiama evidentemente il Cristo risorto, che ha affidato il tesoro del regno ai discepoli,
di cui ne domanderà conto ponendosi apertamente come il giudice escatologico267. Il servo ha
vissuto nell’amore e nella fede il tempo dell’assenza del padrone. Fede e amore sono le chiavi di
lettura della parabola e sono i due punti cardini nella vita del credente. L’ espressione bene è
indice di un giudizio positivo come pure l’espressione “prendi parte alla gioia”. La gioia non
deriva dal possesso, ma dalla condivisione e dalla festa.

vv. 24-25
Venuto infine colui che aveva ricevuto un solo talento, disse: Signore, so che sei un uomo duro,
che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso per paura andai a nascondere il
tuo talento sotterra; ecco qui il tuo”.

Anche per quel che riguarda il terzo schiavo rientra il motivo del kyrie con il suo
riferimento alla prospettiva cristologica ed escatologica. Gnilka evidenzia come lo schiavo si
giustifichi per il fatto che egli ha timore (phobetheis) del suo padrone perché questi è da lui

264
Cfr. J. GNILKA, 525 – 526.
265
Cfr. A. POPPI, 216.
266
Cfr. J. GNILKA, 521.
267
Cfr. A. POPPI, 216.

140
considerato come persona molto severa, attaccata al suo denaro come un avaro268. E’ molto
interessante l’ipotesi di Rosenhofft secondo il quale il terzo schiavo fino al rendiconto si è sentito
sicuro ma l’insicurezza poi è piombata su di lui soltanto con il confronto diretto con gli altri
schiavi, di cui era stato testimone269.
Gnilka non ha tentennamenti nel giudicare il suo stolto operato come frutto della sua
pigrizia. Si può dire quindi che egli è fondamentalmente un vigliacco, un uomo avvinto dai lacci
della più completa deresponsabilizzazione, che non percepisce l’importanza di trafficare i beni a
lui affidati perché non li ritiene come suoi, talmente stressato dall’incarico ricevuto da evitarlo
temendo le aspettative del padrone. E’ la paura del padrone che lo ha indotto a non impiegare il
denaro inibendolo a tal punto da non permettergli di constatare le esigenze a cui il dono lo
richiamava nel qui e ora rimanendo di fatto in uno stato di ebetaggine, di catalessi, “di
abbacchiamento”, appeso come un lampadario, nella erronea consapevolezza di dover vivere il
rapporto con il suo padrone nella logica del “do ut des” (“Eccoti il tuo..”).
In definitiva quest’uomo ha vissuto il tempo dell’assenza del padrone, l’assenza del
kyrios, non nella responsabilità di una condivisione, ma nella paura, alla luce di una concezione
di un «Dio terribile», non quindi nell’amore e nella fede. Egli ha avuto paura, perchè in realtà
non ha avuto alcuna relazione con Dio, anzi l’ha subita. Prima ha accettato il talento e poi lo ha
interpretato in chiave passiva, nascondendolo. Nell’antichità il modo migliore per salvare
un’eredità era di nasconderla in una buca nella terra.

v. 26:
“Il padrone gli rispose: Servo malvagio e infingardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e
raccolgo dove non ho sparso”

Si constata come il padrone rimproveri il servo malvagio e infingardo (ponerē doule kai
oknerē) con le sue stesse parole perché è la sua stessa mentalità che lo condanna
all’insignificanza. Poppi non ha dubbi nel ritenere che in questo frammento si esprime tutta
l’esigenza del padrone nei confronti del Regno che non è dono naturale ma che va annunziato da
ogni discepolo270.

v. 27:
“avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con
l'interesse”.

Il padrone dice allo schiavo quello che avrebbe dovuto fare e che non ha fatto:
consegnare il denaro ai banchieri sull’esempio degli schiavi fedeli. Ortensio da Spinetoli
sottolinea il fatto che lo schiavo non ha compreso il suo padrone rannicchiandosi nella sua
sordità egoistica. E’ importante riflettere su come, nel racconto, cambino funzione le proposte
del padrone: da occasione per poter ricevere onori a motivo di sentenza e condanna.

v. 28:
“Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti”.

Gnilka spiega che il padrone conferisce il talento del terzo schiavo al primo perché il narratore
vuole sottolineare l’ abisso che c’è tra i due rievocando una dinamica che deriva dall’ambito
capitalistico – finanziario.

268
Cfr. J. GNILKA, 527.
269
IBIDEM.
270
Cfr. A. POPPI, 216.
Cfr. O. DA SPINETOLI , 665 – 666.

141
v. 29:
“Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello
che ha”.

Si può riscontrare come il motivo guida in esame abbia delle palesi analogie con la letteratura
sapienziale in particolare quando si cita il famoso detto: “Dio dona sapienza a colui che possiede
sapienza” (Prv 9,9). Probabilmente si tratta di un detto a sé stante, che in origine non faceva
parte della narrazione parabolica. Weder in particolare, sottolinea come esso sia presente in
forma embrionale anche nel Vangelo si Tommaso al logion 41. La sua funzione è chiara:
focalizzare in modo sintetico quello che è il senso di tutta la narrazione parabolica.

v. 30:
“E il servo fannullone gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.

Questa espressione, chiaramente redazionale, ha come fine quello di scuotere emotivamente il


lettore per porlo dinanzi alla realtà del dono ricevuto e alla necessità conseguente di farlo fruttare
nel qui e ora con l’effettivo ascolto della parola e la pratica esistenziale del vangelo271.

II. Analisi teologica

a) La parabola apre senza alcun dubbio una prospettiva sull’aldilà, un post mortem che evidenzia
sia gli aspetti del giudizio negativo sia quelli legati all’agire fruttuoso degli amministratori.
Per l’esito positivo infatti abbiamo evidenziate le tematiche della gioia eterna e dell’incontro
festoso accentuato dall’Evangelista con diverse immagini tra cui spicca quella del banchetto
celeste strettamente connessa al famoso Discorso delle Beatitudini272.

b) Il tema della responsabilità e quindi della vigilanza: nell’attesa del Signore glorioso
(interpretato cristologicamente è Gesù Risorto) che verrà all’improvviso, il cristiano è chiamato a
non starsene con le mani in mano, nella pigrizia o tantomeno nell’inerzia ma è invitato a sfruttare
il kairos (tempo favorevole) dell’ora per compiere la volontà di Dio servendo secondo le proprie
capacità la comunità cristiana di cui fa parte273.
A tal proposito si manifesta una evidente ipotesi: è possibile che l’Evangelista abbia
assimilato e trasmesso questa parabola perché nella sua comunità cristiana molti fratelli e sorelle
erano convinti che ormai i tempi della parousia erano quasi giunti e che quindi non si riteneva
importante attivare le proprie capacità interessandosi alle problematiche e alle difficoltà che la
comunità poteva patire274. Oppure si potrebbe ipotizzare addirittura che l’Evangelista abbia
voluto rivolgersi con questo racconto parabolico a quei fratelli cristiani giudaizzanti che erano
poco entusiasti di dover condividere l’Alleanza (intesa come dono: nella parabola = mine date ai
servi) con i pagani.

c) Molto importante è anche il tema teologico della ricompensa: si può ipotizzare che il tema sia
stato posto per motivi esclusivamente venali legati all’avarizia che attanagliava qualche fratello
cristiano della comunità. Matteo quindi avrebbe raccontato la parabola delle mine solo per
invogliare i fratelli ricchi della comunità (che ahimè erano alquanto spilorci) a condividere le

271
Cf. J. GNILKA, 530.
272
Cfr. J. GNILKA, 530.
273
Cfr. A. POPPI, op. cit., 215.
Cfr. O. DA SPINETOLI, op. cit., 667. In riferimento a questo aspetto egli così si esprime:”Il momento attuale è il
banco di prova per la futura destinazione… La vita cristiana non è stasi o comodo riposo. Sia nella fase presente che
futura occorre sempre il medesimo impegno e dedizione…”
274
Cfr., J. GNILKA, op. cit., 531

142
ricchezze (che sono intese come un dono magnanimo di Dio Elargitore di ogni bene) per non
tenersele per sé impiegandole quindi “per il Regno275”.

d) Nel Medioevo si volle interpretare il passo parabolico collegando i servi ai detentori di cariche
e ministeri nella chiesa del tempo e quindi i vescovi, i sacerdoti, i consacrati in genere e i
beneficiari dei doni dello Spirito. In questo caso i talenti sono gli strumenti di santificazione che
Dio ha donato ai suddetti ecclesiastici e che di conseguenza essi sono tenuti ad utilizzare,
soprattutto la parola divina e la sana dottrina.

Con Lutero addirittura i talenti dei servi sono identificati con la fede che ciascun discepolo di
Gesù Cristo ha. In questa interpretazione il terzo servo disgraziato è colui che non ha la fede276.
La necessità di far fruttare i beni che il Signore ha affidato ai servi nel qui e ora manifesta la
tematica evangelica della responsabilità nell’attesa della parousia futura. Lo sforzo e la fatica di
“mettere in gioco” i talenti che il Signore ha donato a ciascun uomo, stigmatizza l’essenza del
cammino spirituale e l’askein (salita) che ciascun uomo deve compiere per entrare in una
comunione sempre più profonda con Dio.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la costruzione dell’ologramma sul tema della “Ricompensa”

Scuola primaria,( classe I)

Obiettivi formativi:
ü Sapersi relazionare con i pari e con gli adulti, privilegiando la gratuità cristiana nel
rapporto di relazione.
ü Acqusire consapevolezza del fatto che un’azione di dono porta sempre una ricompensa.
ü Acquisire consapevolezza del fatto che le ricompense non si connotano solo come
oggetti materiali.

Conoscenza:
Dio creatore e Padre di tutti gli uomini.
Religione cattolica Abilità:
Descrivere l’ambiente di vita di Gesù nei suoi
aspetti quotidiani, familiari, sociali e religiosi.

Conoscenza:
Organizzazione del contenuto della
Italiano comunicazione orale e scritta secondo il
criterio della successione temporale.

Abilità:
Narrare brevi esperienze personali seguendo un
ordine temporale.

275
Cfr. A. POPPI, Ibid., 216.
276
Cfr., J. GNILKA, op. cit., 533

143
Conoscenza:
Semplici istruzioni correlate alla vita di classe.
Inglese Abilità:
Comprendere ed eseguire istruzioni e
procedure.

Conoscenza:
Successione e contemporaneità delle azioni e
Storia delle situazioni.
Abilità:
collocare nel tempo fatti ed esperienze vissute.

Conoscenza:
Organizzatori temporali e spaziali.
Geografia Abilità:
Descrivere verbalmente, utilizzando indicatori
topologici.

Conoscenza:
Concetto di maggiore, minore, uguale.
Matematica Abilità:
Esplorare, rappresentare e risolvere situazioni
problematiche.

Conoscenza:
Caratteristiche proprie di un oggetto e delle
Scienze parti che lo compongono.
Abilità:
Ordinare corpi in base alle loro proprietà.

Conoscenza:
i principali componenti del computer.
Tecnologia e informatica Abilità:
Utilizzare il computer per eseguire semplici
giochi didattici.

Conoscenza:
Musica Filastrocche , proverbi, favole, racconti.

Abilità:
Attribuire significati a segnali sonori.

144
Conoscenza:
Arte ed immagine le relazioni spaziali.
Abilità:
Distinguere la figura dallo sfondo.

Scienze motorie e sportive Conoscenza:


Le posizioni che il corpo può assumere in
rapporto allo spazio e al tempo.
Abilità:
Collocarsi in posizioni diverse.

Attività:

- L’insegnante invita gli alunni a narrare esperienze vissute di dono o ricompensa per qualche
prestazione effettuata ( per esempio ai nonni).
- L’insegnante legge la “parabola dei talenti /mine”
- L’insegnante attiva una discussione guidata con gli alunni sul tema e sul significato della
parabola.
- L’insegnante istruisce gli alunni per una breve rappresentazione della parabola.

Conclusione

Abbiamo visto come la parabola si articola in tre scene: la chiamata e l’affidamento di


una responsabilità (vv.14-15), il ritorno del Signore (vv.19-25) e il giudizio finale (vv.26-30). Il
cuore di questa parabola richiama al rapporto che l’uomo ha con Dio. Se non si ha fiducia in Dio
non si ha neanche fiducia in se stessi. La paura del padrone si traduce in realtà nella paura di
guardarsi dentro. Occorre accettarsi per quello che siamo. Abbiamo il compito di capire che
dobbiamo accettarci per quello che siamo e per dove ci troviamo a vivere. O si vive nella paura o
si vive nella fede e nell’amore. L’uomo è fatto per la gloria di Dio. È un discorso di maturità.
Dio ci ha dato la fiducia e la forza di essere noi stessi per cui non bisogna chiudersi. Il talento è
qualcosa che è dentro di noi, può manifestarsi anche in un letto di dolore e non bisogna mai
sotterrarlo.
Della narrazione parabolica ciò che rimane al lettore è sicuramente l’incessante e il
pressante richiamo evangelico ad essere “esperti dell’accoglienza fruttuosa della Parola fatta
carne, Cristo Gesù” nel tempo favorevole per agire secondo il cuore di Dio. Il “qui e ora” è
infatti l’unico tempo che invoca la responsabilità dell’uomo. Si è chiamati a vivere con genuino
trasporto evangelico questo tempo per far fruttare quanto ricevuto da Dio, altrimenti sarà grande
il rimpianto quando ci sarà la resa dei conti e si constaterà con rammarico che ciò che si doveva
far fruttare è rimasto egoisticamente chiuso “nelle proprie tasche”.

145
XI.
LA PARABOLA DEL GIUDIZIO UNIVERSALE (Mt 25,31-46)

Introduzione

«Un sommario sguardo alla Wirkungsgeschichte di questa pagina conferma subito che
essa è stata sempre molto letta e citata, però in maniera un po’ frammentaria e senza porre tutti
gli interrogativi che essa suscita in noi oggi»277. Con queste parole Vittorio Fusco apre un suo
brevissimo articolo sul testo di Mt 25,31-46, esprimendo in pochi tratti come esso provochi
interesse su un piano esegetico. Tuttavia, Fusco lascia intendere come il brano del giudizio
universale vada a sollevare temi che toccano il lettore, credente o non, nell’intimo della sua
esistenza (anche tramite un approccio sommario e superficiale!). Effettivamente la pagina
matteana riguarda l’uomo nel contesto ultimo dell’eschaton e questo non può che scuotere il suo
cuore, perennemente incerto su ciò che accadrà. Soprattutto in una società come quella odierna
in cui la questione dei tempi ultimi non viene più sollevata nella frenesia del quotidiano, il testo
di Matteo giunge di fronte all’uomo moderno come un invito a fermarsi un attimo, anche solo un
attimo, per aiutarlo a riflettere su quella domanda che accompagna da sempre il genere umano:
«qual è il nostro destino?».
Lo scontro, poi, con la parola «giudizio», che acquista sempre più un’accezione negativa
e alienante nella mentalità comune, porta il lettore a non rimanere impassibile davanti alla verità
schiacciante di un confronto finale, “faccia a faccia”, con Dio. Anche l’idea di essere giudicati
sulle opere e sulla scelta scomoda degli ultimi, dei poveri (che richiedono uno sporcarsi
costantemente le mani senza scendere a nessun tipo di compromesso!), non può che produrre
inquietudine nel cuore dell’uomo e destare la coscienza da quel sonno diabolico che manda
nell’oblio la necessità di manifestare la fede nella prassi cristiana.
L’eticità è, in effetti, il richiamo ultimo che scaturisce dalle righe evangeliche, senza finire,
tuttavia, per sminuire la portata del racconto con una lettura miratamente orizzontalistica,
causando quella frammentarietà da cui Fusco ha messo in guardia. Il giudizio universale
richiama sicuramente il cristiano ad una costante e gravosa responsabilità, affinché questi non
dimentichi mai che la sua vocazione si esplica e trova senso nel servizio, però tutto ciò non va in
alcun modo ad intaccare la gioia e la pace interiore dell’impatto, le quali fioriscono dalla
certezza di poter incontrare l’Amato in ogni fratello che si ama.

I. Analisi letteraria

I.1 trasmissione e contesto della pericope di Mt 25,31-46

Mt 25,31-46 si introduce all’interno del quinto grande discorso del vangelo di Matteo,
conosciuto come il discorso escatologico (Mt 24-25), e segna la fine della vita pubblica di Gesù.
La sua delimitazione non genera alcun problema tra gli esegeti, sulla quale trovano una certa
concordanza di parere: il testo inizia dopo le due parabole delle dieci vergini (25,1-13) e dei
talenti (25,14-30) e si presenta netto il distacco con il v. 30, «là sarà pianto e stridore di denti»,
che corrisponde all’applicazione della parabola che lo precede. Anche il limite inferiore è netto
visto che il cap. 26 segna in maniera esplicita, nei suoi versetti introduttivi, la fine dei discorsi e
l’inizio del racconto di passione.
Per quanto riguarda la trasmissione del testo, le edizioni critiche riferiscono una sola difficoltà
quasi irrilevante278: al v. 41 alcuni manoscritti presentano: «il fuoco eterno preparato per il

277
V. FUSCO, «Carità, Chiesa, Mondo nella descrizione del giudizio finale (Mt 25,31-46)», Rassegna di Teologia
3(1985) 270.
278
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo. Dalla sorgente alla foce, 202.

146
diavolo e per i suoi angeli», mentre altri riportano: «il fuoco eterno preparato dal Padre mio per
il diavolo e i suoi angeli». Potrebbe costituire una differenza sostanziale per la comprensione
testuale, tuttavia l’appellativo «Padre mio», indispensabile per identificare chiaramente in Gesù
il re della parabola, si riscontra già in precedenza al v. 34. Per questo motivo gli specialisti non
trovano grosse resistenze nel dare maggior credito alla lectio brevior, dove la mancanza di tale
specificazione assume un grosso significato teologico279.
Con il nostro racconto, dunque, Matteo fa terminare il discorso escatologico, esattamente come
avviene in Marco con la parabola del portiere vigilante (Mc 13,33-37). Il v. 31 si apre facendo
menzione della venuta del Figlio dell’uomo, collegandosi così con l’ultima parte del cap. 24,
dove dal v. 26 al v. 44 una serie di pericopi avevano trattato sia della «parusia» sia della
«venuta» (verbo érchomai280) del Figlio dell’uomo, generando un distacco evidente rispetto alla
prima parte del capitolo, che è incentrata su avvenimenti anteriori alla manifestazione finale.
Emerge con forza la vicinanza della descrizione, in Mt 25,31-32, della venuta del Figlio
dell’uomo con quella presente in Mt 24,30-31, vicinanza data non solo dalla tematica trattata ma
anche dalla struttura espositivo-semantica:

Mt 25,31-32 Mt 24,30b-31

Quando …e vedranno
il Figlio dell’uomo il Figlio dell’uomo
verrà (verbo érchomai) venire (verbo érchonai)
sopra le nubi del cielo
nella sua gloria con grande potenza e gloria.
con tutti i suoi angeli (…). Egli manderà i suoi angeli
E saranno riunite (verbo synágo) ed essi raduneranno (verbo episynágo)
davanti a lui tutte le nazioni… dai quattro venti

Di fronte a tali paralleli espliciti, non pochi esegeti si sono chiesti se, per questioni di coerenza,
fosse stato meglio collocare il racconto alla fine del cap. 24 e precisamente in successione al v.
44 che menziona per l’ultima volta il Figlio dell’uomo. Tuttavia, seppure non si parli più del
Figlio dell’uomo e della sua venuta da 24,45 a 25,30, da una lettura attenta emerge chiaramente
come questa sia la tematica che, sottintesa nelle tre parabole precedenti, sarà esplicitamente
presente in Mt 25,31-46. È interessante notare anche il chiaro collegamento con le quattro
parabole che si succedono da Mt 24,42 a 25,30281:

1 2 3 4
Il padrone e Il servo e il suo Le dieci vergini I tre servi e
il ladro padrone e lo sposo il loro padrone

24,42-44 24,45-51 25,1-13 25,14-30

In queste parabole si parla della venuta di un personaggio che rispettivamente è: il ladro in 24,43,
il padrone di casa in 24,46, lo sposo in 25,10 e il padrone in 25,19. Ora, questi personaggi
rappresentano simbolicamente il Figlio dell’uomo e lo si capisce con certezza dal fatto che al
termine della prima parabola, in Mt 24,44, l’applicazione effettua in modo evidente
l’accostamento: «Perciò anche voi (…), perché nell’ora che non immaginate il Figlio dell’uomo
verrà». In questo modo si rende evidente il collegamento del racconto di Mt 25,31-46 con ciò

279
Per ulteriori spiegazioni occorre far riferimento alla parte prettamente teologica del seguente lavoro.
280
Il verbo érchomai si ritrova in 24,30 («vedranno il Figlio dell’uomo venire sopra le nubi del cielo») e in 24,44
(«nell’ora che non immaginate, il Figlio dell’uomo verrà»). Il termine parusia, invece, è presente in 24,27.37.39 (tra
volte la stessa formula: «così sarà la venuta del Figlio dell’uomo»).
281
I seguenti schemi che arricchiscono la riflessione sul contesto del brano sono presi da M. GOURGUES, 202-204.

147
che lo precede, prospettandosi non come brano isolato ma come la conclusione di una lunga
evocazione della manifestazione finale del Figlio dell’uomo, espressa inizialmente in modo
diretto (24,26-41) e poi mediante l’uso delle parabole (24,42-25,30).
Un’ulteriore contestualizzazione della pericope matteana con le parabole precedenti è
garantita da una sorta di logica interna all’intero discorso escatologico che si rende manifesta nel
passaggio dall’indicativo all’imperativo, riscontrabile quest’ultimo a partire dalla prima
parabola, quella del ladro. Si può dire che dall’evocazione della parusia in sé si passa
all’esortazione dei discepoli per indurli ad assumere nella loro vita terrena quegli atteggiamenti
di vigilanza e di responsabilità in vista dei tempi ultimi e del giudizio finale. Le stesse parabole,
inoltre, nascondono una sottile, ma comunque presente, alternanza tra questi due tipi di
atteggiamenti: si può, dunque, parlare di parabole della vigilanza (V), in cui si ritrova
l’esortazione «vigilate», sottolineando quindi la necessità di vegliare, e di parabole della
responsabilità (R), in cui i personaggi hanno dei compiti da svolgere durante l’assenza del loro
padrone:

V R V R
Il padrone e Il servo e il suo Le dieci vergini I tre servi e
il ladro padrone e lo sposo Il loro padrone

Mt 25,31-46 si distacca dalle altre parabole perché mette in scena direttamente il Figlio
dell’uomo; ciò, tuttavia, non comporta una sua estraneità con gli atteggiamenti consigliati ai
discepoli, e di conseguenza con le parabole precedenti, perché la pericope ha il compito di
esprimere con chiarezza e concretezza in che cosa consistono quella vigilanza e quella
responsabilità che Matteo ha voluto esaltare.
Essendo a conclusione del discorso escatologico e quindi dei cinque grandi discorsi che
scandiscono il vangelo di Matteo, Luigi Di Pinto è spinto ad affermare che «la scena del giudizio
costituisce dunque l’ultimo passo dell’ultima istruzione del Signore alla sua chiesa. Per Matteo,
questa scena e il messaggio che racchiude nascono e si comprendono nel segno dell’ultimità,
recano il valore del definitivo. Oltre non c’è più da cercare. Si è approdati alla situazione finale
che illumina retrospettivamente tutta la storia umana e il presente del cristiano. Il ricordo più
prezioso che deve imprimersi nella memoria del discepolo, mentre Gesù si avvia verso la sua
pasqua, è nascosto qui»282.

I.2 struttura e articolazioni di Mt 25,31-46

Mt 25,31-46 presenta «una costruzione molto armoniosa»283, usando le parole di


Gourgues, il quale individua una tripartizione del testo (accettata, tra l’altro, da diversi esegeti):
ad un quadro centrale (vv. 34-45), sul quale poggia la maggior parte del racconto, fanno da
cornice una breve introduzione (vv. 31-33) e una conclusione, costituita da un semplice accenno
finale all’esecuzione del giudizio (v. 46). Ciononostante la parte centrale, per via della sua
ampiezza e della sua palese forma di dittico, è diventata oggetto della fantasia interpretativa degli
esegeti.
Gourgues stesso concentra la propria attenzione su questa costruzione parallela nella
quale entrambe le parti, che presentano un tóte iniziale («allora»), sono divisibili in altre due
sezioni: la sentenza (positiva nei vv. 34-36, negativa nei vv. 41-43) e la spiegazione o
giustificazione di questa, generata dallo stupore di entrambi i gruppi. Gourgues,
presumibilmente, propone il suo schema sulla base della presenza ripetitiva dell’elenco delle sei

282
L. DI PINTO, Il giudizio finale sul servizio ai fratelli (Mt 25,31-46): punto focale del discorso escatologico, PSV
8 (1983) 176.
283
M. GOURGUES, 204.

148
opere, nominato due volte dal re e due volte rispettivamente da quelli che sono alla sua destra e
da quelli che sono alla sua sinistra. Vista la centralità contenutistica di questo elenco, non a caso
presente più di una volta, è facile pensare che la struttura del testo vuole proprio esaltare le sei
opere, la cui ripetizione risulterebbe altrimenti un appesantimento inutile del brano.
Joachim Gnilka284, soffermandosi di meno sullo stile letterario del racconto, non ha intenzione di
creare ulteriori spaccature ed esemplifica la struttura dividendola semplicemente in tre parti,
senza prendere in considerazione il versetto conclusivo: all’introduzione, identica a quella di
Gourgues (vv. 31-33), seguono il dialogo con quelli di destra (vv. 34-40) e il dialogo con quelli
di sinistra (vv. 41-45).
Una suddivisione molto più articolata è data, invece, da Di Pinto285 il quale, pur
mantenendo la tripartizione, considera il corpo centrale come un dittico con quadri simmetrici e
contrapposti. La parte di ogni dialogo, infatti, presenta una sentenza (v. 34//v. 41), una prima
motivazione (vv. 35-36//vv. 42-43), una reazione di sorpresa (vv. 37-39//v. 44) e una seconda
motivazione (v. 40//v. 45). Questa struttura, molto probabilmente, segue l’andamento altalenante
del dialogo, nel quale la parola viene presa ora dal re, ora dai due gruppi. Simile alla struttura di
Di Pinto è quella riscontrabile in Rinaldo Fabris286 il quale, pur ragionando con lo stesso criterio
di giudizio, denomina diversamente le varie sezioni. Alla sentenza (v. 34//v. 41) e alla
motivazione (vv. 35-36//vv. 42-43) si susseguono la domanda (vv. 37-39//v. 44) e la risposta del
re (v. 40//v. 45). Prendo in considerazione la struttura di Gourgues287 perché, senza esagerare
nelle suddivisioni (come in Di Pinto e in Fabris), riesce ad essere moderato, fornendo, inoltre,
una motivazione più approfondita degli aspetti tematici di quel parallelismo che Gnilka, invece,
giustifica a livello stilistico e, solo in modo generico, a livello contenutistico.

I.3 genere letterario di Mt 25,31-46

Nell’affrontare lo studio del testo di Mt 25,31-46 ci si imbatte in una questione alquanto


accesa inerente al genere letterario cui appartiene, visto la divergenza riscontrabile nei diversi
pareri che provengono dal mondo esegetico.

284
Cfr. J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 535.
285
Cfr. L. DI PINTO, Il giudizio finale sul servizio ai fratelli (Mt 25,31-46): punto focale del discorso escatologico,
177-178.
286
Cfr. R. FABRIS, Matteo, 504.
287
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, 205-206.

149
Mt 25,31-46
I. Preparativi del giudizio
31
Quando il Figlio dell’uomo verrà nella gloria, insieme con tutti i suoi angeli, si sederà
sul suo trono glorioso.
32
Tutte le nazioni della terra saranno riunite di fronte a lui ed egli le separerà in due
gruppi, come fa il pastore quando separa le pecore dai capri:
33
metterà i giusti da una parte e i malvagi dall’altra.
II. Giudizio
A. Sentenza positiva A’. Sentenza negativa
34
Allora il re dirà a coloro (che saranno) alla 41Poi dirà a quelli (che saranno) alla sua
sua destra: «Venite,benedetti dal Padre mio, sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel
ricevete in eredità il Regno (che è stato) fuoco eterno, (che è stato) preparato per il
preparato per voi fin dalla fondazione del diavolo e per i suoi angeli.
42
mondo. Perchè ho avuto fame e non mi avete dato
35
Perchè io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete
da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato dato da bere,
43
sa bere; ero forestiero e mi avete ospitato, ero forestiero e non mi avete ospitato,
36
nudo e mi avete vestito, malato e mi avete nudo e non mi avete vestito, malato e in
visitato, carcerato e siete venuti a carcere e non mi avete visitato».
trovarmi».
B. Spiegazione B’. Spiegazione
37
Allora i giusti gli risponderanno: 44Anch’essi allora risponderanno dicendo:
«Signore, quando mai ti abbiamo veduto «Signore, quando mai ti abbiamo visto
affamato e ti abbiamo dato da mangiare, affamato o assetato o forestiero o nudo o
assetato e ti abbiamo dato da bere? malato o in carcere e non ti abbiamo
38
Quando ti abbiamo visto forestiero e ti assistito?».
abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo
vestito?
39
E quando ti abbiamo visto ammalato o in
carcere e siamo venuti a visitarti?»
40
Rispondendo, il re dirà loro: «In verità vi 45Ma egli risponderà: «In verità vi dico: ogni
dico: ogni volta che avete fatto queste cose volta che non avete fatto queste cose a uno
a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete
l’avete fatto a me». fatto a me».
III. Esecuzione del giudizio
46
E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna.

Nel presente lavoro di seminario, che vede come tema lo studio del metodo parabolico
nella pericope matteana, non si è voluto appositamente nominare il testo d’esame con
l’appellativo di parabola, perché non tutti gli studiosi la identificano come tale. Per un lavoro
completo si è pensato di riportare le differenti opinioni, con le eventuali motivazioni (lì dove
sono presenti), che giustificano l’appartenenza del testo ad un genere letterario anziché ad un
altro. L’idea di una parabola in Mt 25,31-46 è stata introdotta all’inizio, molto probabilmente, da
Jeremias, il quale proseguendo gli studi di Julicher e di Dodd, porta a segno un grande momento
della storia della ricerca sulle parabole evangeliche, «approfondendo meglio il collegamento tra
le parabole e le situazioni concrete del ministero di Gesù, proprio per metterne in luce i contenuti
decisamente escatologici, ed almeno implicitamente anche cristologici»288.
Nella sua opera, oramai classica, Le parabole di Gesù, Jeremias dedica alcune pagine al
brano evangelico in questione, sottolineando in nota che «tutta la pericope è mašal»289. L’esegeta

288
V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, 17.
289
J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 251.

150
fornisce, inoltre, una spiegazione puntuale di come vada inteso il termine, che altrimenti si
presterebbe ad una troppo estesa interpretazione; in effetti, sostiene Jeremias, in questo caso
mašal va considerato come «discorso apocalittico di rivelazione» e, per non generare le premesse
ad ulteriori interpretazioni, il suo significato viene da lui paragonato a quello dei mešalim
[l’etiopico mesal] dell’ Henoch aethiopicus, i quali erroneamente sono di solito indicati come
«discorsi simbolici». Infine, anche l’immagine della separazione del gregge (vv.32s) viene
designata dall’autore come mašal, in questo caso, però, nella sua accezione di «paragone».
Un altro piccolo accorgimento, meno dettagliato, ma certamente non irrilevante per
questo studio, è riscontrabile quando Jeremias tratta del terzo strato della tradizione, cioè quello
concernente il testo proprio del primo vangelo canonico: Mt 25,31-46 compare, infatti, tra le
parabole proprie a Matteo290 (13,24-30(con 36-43).44.45s.47-50; 18,23-35; 20,1-15; 21,28-32;
22,11-14; 25,1-13). Un ultimo riferimento è, peraltro, rintracciabile all’interno del discorso sulla
parusia, dove il testo è incluso in una collezione di «parabole sulla parusia» (Mt 24,32-25,46)291 ,
insieme a quelle parabole che lo precedono. Anche Gourgues, nel suo studio sulle parabole,
dedica un intero paragrafo al genere letterario di Mt 25,31-46: egli riconosce che abitualmente il
testo è considerato una parabola «perché si presenta come un racconto che descrive una
trasformazione di situazioni»292, ma preferisce distanziarsi da questa convinzione letteraria
perché individua al suo interno l’alternarsi di due registri, quello fittizio, tipico della parabola, e
quello reale. Se nella prima scena, infatti, il personaggio principale è il Figlio dell’uomo (vv. 31-
32a), subito dopo paragonato al pastore, nella seconda scena, il personaggio assume le
sembianze di un re, dando così al racconto un carattere fittizio.
Tuttavia, l’espressione «benedetti del Padre mio» (v. 34b) permette di identificare il re
con lo stesso Gesù, favorendo in tal modo un ritorno del racconto su di un piano reale, così come
accade nuovamente, in seguito, mediante l’espressione «i miei fratelli più piccoli» (v. 40).
L’autore nota anche una sovrapposizione simile in relazione agli altri personaggi che compaiono
nella scena: inizialmente identificati in maniera realistica con «tutte le genti» (v. 32a), sono poi
paragonati alle pecore e ai capri (vv. 32b-33). E ancora, nella seconda scena si realizza il
passaggio al registro fittizio, quando il racconto parla di «quelli alla destra» (v. 34) e di «quelli
alla sinistra» (v. 41) del re, per poi ritornare, un’ultima volta, sul piano reale con la designazione
di «giusti» (v. 37.46) e di «maledetti» (v. 41). Sono individuati, in aggiunta, dall’autore ulteriori
elementi del racconto che attestano uno spostamento analogo dal simbolico al reale: quando i
beneficiari della sentenza positiva si vedono attribuire in eredità il «regno preparato fin dalla
fondazione del mondo» (v. 34), si potrebbe intendere l’azione in senso simbolico, in accordo, in
qualche modo, con la condizione regale di colui che pronuncia la sentenza; differentemente,
invece, bisogna considerare la sentenza negativa, la quale vede condannati con realismo i reprobi
al «fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (v. 41). La stessa cosa va detta per
il versetto finale in cui l’esecuzione del giudizio è descritto in modo realistico in termini di
«supplizio eterno» e di «vita eterna».
Dopo aver mostrato, dunque, delle motivazioni che allontanano dal considerare la
pericope una parabola in senso stretto, Gourgues cerca di esaminare altri generi per poter dotare
Mt 25,31-46 di una identità letteraria. Esamina, innanzitutto, se si tratta di un racconto
esemplare; ma, nonostante l’interesse per i comportamenti umani messi direttamente in scena,
l’autore si ritrova con la stessa difficoltà di prima per via della presenza di elementi reali,
abitualmente assenti nella trama fittizia di un racconto esemplare. Altro tentativo viene realizzato
a partire dagli elementi allegorici presenti nel testo, come l’identificazione del re con il Figlio
dell’uomo e quella delle persone alla destra con i giusti però, anche in questo caso, non è
possibile fare un discorso unitario, perché non tutti gli elementi possono essere ricondotti al
genere allegorico, con il rischio, tra l’altro, di forzare la pericope verso un’allegoresi
inopportuna. Gourgues, nel tirare le conclusioni, delinea l’«incoerenza» letteraria di Mt 25,31-

290
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 96.
291
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 66.
292
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo, 206.

151
46, che egli stesso definisce «una specie di genere ibrido»293, perché ad elementi parabolici si
mischiano dei tratti tipici del racconto esemplare, senza peraltro escludere il genere
dell’allegoria. È solamente accennato il genere apocalittico che l’autore svilupperà durante
l’esegesi, ma che avrebbe potuto benissimo approfondire in questo paragrafo per un discorso più
ampio e completo sul genere letterario.
Anche nell’opera dedicata al primo vangelo canonico di Joachim Gnilka294 è possibile
trovare delle notizie sul genere di Mt 25,31-46 e, seppure manchino di sistematicità, offrono dei
buoni spunti per una collocazione letteraria del testo. L’autore si pone esplicitamente in una
posizione di contrasto nei confronti della tesi di Jeremias e di Friedrich, i quali, secondo lui,
includono la pericope nei loro libri sulle parabole (considerandola in tal modo una parabola) per
un’errata interpretazione dell’iniziale paragone tra l’azione del Figlio dell’uomo e quella
effettuata dal pastore. Egli, infatti, controbatte questa ipotesi sia facendo perno sull’insufficienza
del contenuto nel testo(in effetti si tratta appena di un solo versetto all’interno di una pericope
corposa) sia facendo forza sulla forma futura del verbo, inusuale per il genere parabolico, che
abitualmente preferisce i verbi al presente o al passato (in quanto parabole appunto!). Gnilka
continua, inoltre, poggiando la sua argomentazione sul legame del brano con Mt 24,29-31,
evidenziando un parallelismo non solo a livello contenutistico, ma anche per la forma verbale
utilizzata. Egli, infine, tira le sue conclusioni riguardo al genere letterario di Mt 25,31-46 e,
seppure ha scartato fin dall’inizio l’idea di Jeremias, come è stato già detto, per altre vie e,
paradossalmente, senza alcuna esitazione, afferma che ci si trova di fronte ad un «discorso
apocalittico di rivelazione», senza, quindi, affermare nulla di nuovo rispetto al collega tedesco.
Ora, appare chiaro e piuttosto logico pensare a delle incomprensioni sorte tra i due autori: non è
possibile, infatti, parlare di contrapposizione di visioni se poi queste approdano ad un’identica
conclusione! Effettivamente, la critica apportata da Gnilka risulta, in questo modo, irrilevante,
visto che non la pensa diversamente dall’altro esegeta sulla questione del genere letterario.
È vero che la medesima conclusione, in Jeremias è riportata in una semplicissima nota,
ma non è fattibile porre una critica omettendo la lettura e la considerazione delle note, che, delle
volte, si presentano, come in questo preciso caso, esplicative e concludenti su ciò che si è
discorso nel testo. Tuttavia, va presa in considerazione quella parte della critica che è stata
rivolta all’ipotesi di una parabola alla base del testo, avvalorata da quelle motivazioni attribuite,
da Gnilka, a Jeremias. Ma c’è da aggiungere, anche, che Jeremias parla di mašal, da intendere
come paragone, e non di parabola: l’accostamento risulterebbe lecito solo nel caso in cui
l’autore manifestasse una vicinanza del concetto di mašal con l’idea di parabola. A sua difesa,
infatti, occorre evidenziare che egli non vede la parabola come una semplice comparazione
prolungata, secondo una visione riduzionista e sterile (attribuibile al massimo al suo maestro
Jülicher!), perchè la realtà dinamica, che avvolge il genere parabolico, non può banalmente
ridursi alla staticità di un paragone o di una comparazione295. Inoltre, Jeremias non usa mai
espressioni come «la parabola di Mt 25,31-46» o «la parabola del giudizio universale», ma
l’ipotesi che vede nel brano evangelico una parabola è, in ultima analisi, soltanto implicitamente
presente nella sua opera.
L’idea di parabola in Jeremias, infatti, si distacca da una concezione troppo moderna, che
trova forza sui principi di una classificazione storico-morfologica, la quale ricondurrebbe
brutalmente le parabole all’interno di categorie risalenti, in realtà, ad una legge ad esse estranea.
Contrariamente, il criterio di lavoro adottato dall’autore parte dal termine greco parabolé,
utilizzato varie volte nei vangeli sinottici, il quale non può essere semplicemente tradotto con
parabola. Soltanto una corrispondenza del termine con l’ebraico mašal e con l’aramaico mathla
permette di unire tutte queste categorie e, ancor più, di evitare un così forte restringimento del

293
M. GOURGUES, 208.
294
Cfr. J. GNILKA, 536-537.
295
Cfr. V. FUSCO, «parabola/parabole», in P. ROSSANO-G. RAVASI-A. GIRLANDA (edd.), Nuovo Dizionario di
Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (MI) 19893, 1088-1089.

152
campo interpretativo296. Certamente in questo modo, come ha dedotto Weder, il metodo della
storia delle forme non è più in grado di cogliere il vero significato delle parabole297, ma una
scelta ermeneutica comporta inevitabilmente delle rinunce. Per Jeremias occorre, dunque,
partire necessariamente dalla concezione ebraica di mašal, nascosta dietro il termine
neotestamentario di parabolé, però, solamente dopo aver liberato il termine da tutte quelle
congetture, risultanti da un approccio semantico moderno, il quale anacronisticamente allontana
dall’interpretazione originale e provoca disastrose confusioni, come è accaduto per il testo di Mt
25,31-46.
Ritornando all’interpretazione di Gnilka, egli afferma anche che, «per quanto riguarda il
genere letterario, la parte maggiore del testo (vv. 34-45) va considerata dialogo di giudizio»298,
escludendo così da questo esame solo ciò che fa da cornice al brano. Interessante è, soprattutto, il
confronto che, a partire da questa convinzione, l’autore opera con alcuni dialoghi di giudizio di
fattura rabbinica, marcando, inoltre, il contrasto esistente tra questo confronto, certamente
fecondo, e quello attuabile con i testi appartenenti alla letteratura apocalittica, dai quali, invece,
emergono ben poche affinità ed esigue somiglianze con la pericope evangelica. Nella nota
Gnilka avverte l’utilità di riportare un testo midrašico del salmo 118 mediante il quale è resa
evidente questa vicinanza argomentativa ed espositiva di cui si è fatto cenno: «Nel mondo futuro
si dirà all’uomo: - Che cos’è stato il tuo operato? – Se costui risponde: - Ho nutrito gli affamati -,
gli si dirà: - È questa la porta di Jahvè. Poiché hai nutrito gli affamati, entra nella porta di Jahvè -
»299. Il racconto segue con la stessa forma e il medesimo stile menzionando ulteriori opere:
dissetare gli assetati, vestire gli ignudi, allevare gli orfani, fare elemosina, fare opere buone. Altri
frammenti di tali dialoghi di giudizio sono, comunque, presenti nel primo vangelo canonico (Mt
7,22s.; 25,11s.), ma unicamente in Mt 25,34-45 ci si trova di fronte all’esempio più ampio di tale
genere letterario.
Questa panoramica di punti di vista continua facendo solo menzione a due esegeti, come
Trilling e Fabris, dei quali non esiste un lavoro accurato sulla questione presa in esame.
Trilling300 si limita, infatti, con semplicità e senza alcun tipo di approfondimento a dire che il
brano conclusivo del grande discorso escatologico di Matteo non è una parabola, a differenza di
Rinaldo Fabris il quale, con altrettanta assenza di giustificazioni delle sue affermazioni, parla di
«parabola del giudizio finale»301, anche se, a sua difesa, nel suo specifico studio sulla malattia
nella Scrittura, egli non aveva effettivamente alcun interesse a motivare il genere letterario del
brano matteano.
Virgilio Pasquetto302, dal canto suo, dedica un capitolo intero di una sua opera
all’insegnamento in parabole e, sulla scia di Jeremias (che cita in nota), non dimentica di far
comparire nei diversi elenchi di parabole il testo di Mt 25,31-46, nel quale riscontra vari elementi
tipici del genere parabolico. Nonostante le innumerevoli citazioni del brano, lo studio dell’autore
non offre validi spunti di riflessione per inquadrare la sua precisa visione letteraria sul testo
evangelico, bisogna, quindi, accontentarsi solo di trovarlo inserito in lunghi elenchi assieme ad
altri passi dei sinottici. Pasquetto, di fatto, elabora un identikit delle parabole evangeliche,
secondo cui la parabola è riconducibile al genere letterario delle metafore e delle similitudini,
all’interno delle quali è presentata come parabola del giudizio universale tra i racconti veri e
propri, unitamente alle altre grandi parabole evangeliche. Altro elemento sottolineato dall’autore
è l’inserimento di molte parabole in speciali raccolte o raggruppamenti, di cui il capitolo
venticinquesimo del vangelo di Matteo risulta, con evidenza, un esempio lampante.

296
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 15-16.
297
H. WEDER, Metafore del Regno, 39.
298
J. GNILKA, 536.
299
J. GNILKA, 536, nota 1.
300
Cfr. W. TRILLING, Commenti spirituali del NT. Vangelo secondo Matteo, Roma 1968, 266.
301
R. FABRIS, «Ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,31-46), iPSV 40 (1999/2) 89.
302
Cfr. V. PASQUETTO, Annuncio del regno, Napoli 1985, 305-316.

153
Passando, poi, ad un’identificazione più articolata, l’esegeta esamina l’oggetto proprio
del genere parabolico: il materiale di cui è costituita una determinata parabola ha lo scopo di
indurre l’ascoltatore a vedere il Regno di Dio, non tanto in una realtà statica, come può essere il
personaggio stesso della parabola, ma, nella dinamica che scaturisce dall’agire (ad esempio,
l’agire di una persona nei confronti della natura circostante). Il giudizio universale costituisce,
anche sotto questo aspetto, una delle parabole che meglio evidenziano la dinamicità del Regno.
Mt 25,31-46 rientra, inoltre, per Pasquetto, anche tra quelle parabole che sono in diretto rapporto
con la vita intima di Gesù, dato che nascono dalla sua esperienza di trascendenza: per questo
motivo esigono l’assenso di fede del lettore per poter essere accettate e comprese. Sebbene l’idea
venga ripresa da Fusco303, attenendosi a ciò che è riportato in nota, nell’elencare le parabole
Pasquetto si rende completamente autonomo, dal momento che in Oltre la parabola non si parla
mai del testo del giudizio universale ( perché non è vista da Fusco come una parabola!). Il testo
evangelico trova nuovamente posto in un altro elenco di parabole, le quali, questa volta, vengono
classificate dall’autore secondo la loro capacità di offrire a chi legge una vera e propria catechesi
sul regno annunciato: in quest’ultimo caso, il giudizio universale viene individuato tra quelle
parabole che, in modo tematico, trattano della presenza del Regno in un contesto di giudizio.
Questo classificazione delle parabole, effettuata da Pasquetto, non risolve di certo la questione
del genere parabolico di Mt 25,31-46, perché non fornisce alcuna spiegazione riguardo alle
grosse incongruenze che, all’interno del testo, generano un netto distacco con quanto
abitualmente viene catalogato dagli studiosi con il termine parabola.
È bene concludere questa carrellata di autori con Vittorio Fusco che nel suo celebre libro,
sopraccitato, Oltre la parabola, non affronta direttamente il diverbio se si possa parlare o meno
di parabola per il testo matteano; la sua posizione, tuttavia, è resa evidente dal mancato
inserimento nella sua opera del racconto del giudizio universale e, addirittura, dall’assenza della
più insignificante citazione, nonostante il testo voglia proporsi come un’introduzione alle
parabole e come una riflessione più generale sul metodo parabolico. È deducibile, quindi, come,
per Fusco, Mt 25,31-46 con va classificata come parabola, anche se non è possibile aggiungere
altro, perché si rischierebbe di far dire all’esegeta ciò che non ha mai pensato. Analogamente,
nel nuovo metodo di interpretazione parabolica di Weder risulta assente la pericope matteana
come materia da esaminare: occorre, quindi, anche con lui, tirare le medesime conclusioni
deludenti per risottolineare come il testo evangelico lasci trasparire una sua enigmaticità
letteraria, persino di fronte a coloro che, con accuratezza scientifica, hanno voluto studiare il
metodo parabolico.
In generale, conviene non ritenere Mt 25,31-46 propriamente una parabola, in accordo
con Gourgues e Gnilka (e con quella scia di studiosi che hanno lasciato intendere in modo
indiretto questa idea); tuttavia, non va dimenticata, né tanto meno trascurata, l’ipotesi di
Jeremias, il quale mantenendosi all’interno delle stesse categorie bibliche, fa sorgere una
illuminante visione interpretativa, ricca di riferimenti accostabili a quel genere letterario
accantonato da altri: considerare, in effetti, il brano di Mt 25,31-46 un mašal, preclude alla
ricerca esegetica una possibile lettura interamente parabolica, senza, del resto, ingabbiare il testo
in un altro genere letterario e, soprattutto, senza escludere a priori quel ‘sapore’ parabolico che,
con fatica e incertezza, è avvertito da alcuni studiosi nel complesso mondo del mašal.

I.4 storia redazionale di Mt 25,31-46

È possibile distinguere due grandi orientamenti circa la derivazione del testo da materiale
della tradizione304, nonostante le posizioni degli esegeti affiorino molto più numerose e con
notevoli varianti: innanzitutto, c’è chi ritiene che l’intera composizione è originaria della
redazione matteana, ma, dall’altra parte, c’è anche chi pensa che l’evangelista abbia ripreso una

303
In Annuncio del Regno, p. 314, Pasquetto rimanda in nota a V. FUSCO, Oltre la parabola…, 159-176 in cui non è
mai menzionato il testo di Mt 25,31-46 né tanto meno compare l’espressione “parabola del giudizio universale”.
304
Le notizie sono prese da J. GNILKA, 537-541.

154
tradizione, specificata, in linea di massima, come giudeo-cristiana, rielaborandola più o meno
ampiamente. Questa tradizione può essere fatta risalire anche a Gesù, seppure partendo da una
forma base del testo, nella quale, però, il re che giudica e si identifica con i più piccoli non è
tanto il Figlio dell’uomo, bensì Dio. L’evangelista avrebbe semplicemente ritoccato il testo
aggiungendo l’introduzione esplicativa e soprattutto il genitivo «del Padre mio» nel v. 34.
Nonostante la tesi possa presentarsi accattivante, risulta troppo accomodante e infondata per il
semplice fatto che nei vangeli è totalmente assente un rapporto di fratellanza di Dio con l’uomo.
Da tenere in considerazione è, invece, il logion di 12,50 che sviluppa un’idea più prossima alla
pericope matteana del giudizio universale.
Gnilka considera plausibile, piuttosto, l’ipotesi riguardante la sola introduzione (vv. 31-
32a) la quale può essere, senza grosse opposizioni, ritenuta appartenente alla redazione matteana.
Due concetti costitutivi dell’introduzione mostrano, con grande probabilità, la mano del redattore
del primo vangelo: il «trono della sua (=del Figlio dell’uomo) gloria», riscontrabile nei vangeli
sinottici soltanto in Mt 19,28, e l’espressione «tutti i popoli» (pánta tà étnē), presente nel primo
vangelo anche in altri testi di rilievo (24,9; 28,19).
La parte più interessante da valutare rimane, in ogni caso, quella sul dialogo di giudizio.
Nonostante la compattezza della pericope faccia pensare ad una composizione unitaria,
evidenziata anche dalle varie parallelizzazioni e contrazioni che rimandano al modo di lavorare
del redattore matteano, occorre far emergere due argomentazioni che Gnilka ha ritenuto valide
per poter contrastare la tesi secondo cui l’intero brano è riconducibile alla redazione matteana.
Anzitutto, è da evidenziare il passaggio dal titolo di Figlio dell’uomo (v. 31) a quello di re (vv.
34 e 40), il quale ha fatto anche pensare che l’immagine regale fosse da attribuire a Dio. È vero
che in Mt 5,35; 18,23 e 22,2 Dio è detto «re», ma non si può nemmeno dimenticare che Matteo
«ha celebrato Cristo come re nella pericope del suo ingresso in Gerusalemme (21,5),
collegandosi ad una citazione profetica»305. Ulteriore elemento essenziale è dato dalla
concezione di basileía del Figlio dell’uomo di cui solo il vangelo di Matteo parla. Non si
dovrebbe, quindi, reagire con aria sorpresa di fronte al passaggio dei due titoli cristologici che,
come si è ben notato, rispecchiano la concezione cristologica matteana. Altra argomentazione
viene offerta dal passaggio dalla raccolta di tutti i popoli (v. 32) al giudizio sui singoli uomini
(vv. 34ss.). Tuttavia, in questo caso, occorre creare un raffronto con alcuni dialoghi di giudizio
rabbinici, in cui è presente la medesima dinamicità del racconto, il quale passa ai dettagli solo
dopo aver creato il quadro generale. Il v. 46 sembra dare conferma al chiaro parallelismo con
questi testi extra-biblici: un dialogo di giudizio in un midraš del Salmo 31, al § 6, presenta una
finale che suona familiare: «Allora egli (Dio) fa tornare i giusti nel giardino dell’Eden e gli empi
nel gehinnom»306. Eliminata l’improponibile ipotesi di Matteo come fonte dei testi rabbinici, è
possibile pensare ad una forma giudaica antica, dalla quale sia l’evangelista che gli altri autori
hanno potuto attingere. Gnilka ritiene che anche questa argomentazione vada a gettare peso
sull’idea di una composizione di Matteo, «poiché tale conoscenza può essere considerata
qualcosa di tipicamente suo»307.
Senza riportare tutte le citazioni, occorre, tuttavia, sottolineare la presenza di alcuni
vocaboli che presentano sfumature squisitamente matteane: «fuoco eterno», «i giusti» (díkaioi),
proprio di Matteo, ed eventualmente il nome diabólos per indicare il diavolo. In sostanza,
secondo lo studio di Gnilka, l’idea di attribuire la pericope alla redazione matteana si dimostra
sostenibile. Il lavoro svolto da Gourgues308, a riguardo dell’intervento del redattore matteano, si
gioca su i vari punti di frattura individuabili all’interno della pericope, i quali vengono
evidenziati dallo spostamento costante dal fittizio (o simbolico) al reale. In breve, si nota che
«l’intrecciarsi dei registri risulta dall’identificazione dei personaggi in una linea realistica: il
Figlio dell’uomo accompagnato dai suoi angeli (v. 31), tutte le genti riunite (v. 32), i «benedetti

305
J. GNILKA, 539.
306
Cfr. BILLERBECK, IV 1203-1212, cit. in J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 536.
307
J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 540.
308
Cfr. M. GOURGUES, 208-211.

155
del Padre mio» (v. 34), i giusti (v. 37), i «miei fratelli» (v. 40b)»309. Fondandosi su degli studi di
Friedrich, per Gourgues il testo è mancante dello stile e del vocabolario matteani, tranne nel
caso di sporadici interventi. Egli elabora l’ipotesi di una parabola trasmessa dalla tradizione, che
il redattore matteano avrebbe preso sotto mano per ritoccarlo, con una parziale, ma evidente,
operazione di allegorizzazione. In questo modo, trovano una valida giustificazione sia gli
spostamenti di registro sia l’alterazione del genere letterario. Non dà, però, alcuna precisazione
sulla parabola primordiale della tradizione, ma dai tratteggi tipici del redattore, riemerge, in
modo nitido, quello che è «il racconto di un giudizio esercitato da un personaggio regale sulla
base dei comportamenti attuati nei confronti dei più piccoli»310. Gourgues nota, inoltre, anche la
sintonia esistente tra questi elementi visto che nell’antichità la funzione del re si esplicava anche
nell’esercizio del giudizio, oltre che nella cura dei poveri e nella protezione dei più sprovveduti.
In ultima analisi, è prudente ritenere di difficile attuazione approdare ad una conclusione
redazionale trasparente, la quale sia in grado di lasciar intravedere tutta la dinamica di
formazione della pericope. In effetti, Gourgues, pur dimostrando con maestria il perché dei vari
punti di frattura, non convince molto sull’idea, poco fondata, di una parabola precedente (anche
se spiegherebbe l’introduzione della figura del re). E Gnilka, invece, che non elimina l’idea di
una redazione matteana del testo, trovando un punto di appoggio su riferimenti di matrice
giudaica, provoca una sorta di forzatura con il suo continuo tentativo di ricondurre il tutto alla
mano e alla mente dell’evangelista. Senza spingersi troppo oltre, bisogna far rientrare con molta
semplicità l’intero testo di Mt 25,31-46 nella redazione del vangelo stesso, anche se è innegabile
l’assenza di un’uguale certezza per ogni parte testuale. Questa disparità, senz’altro, è fonte di
perplessità e di dubbi, i quali però non hanno quella forza necessaria per scardinare l’idea di una
derivazione matteana integrale (come è il caso, sopra esposto, della possibile parabola
prematteana nascosta dietro la pericope), dato che non esiste oggi la possibilità di giungere, con
le fonti conosciute, a delle sicurezze redazionali contrarie inopinabili e, quindi, accettabili da
tutti.

I.5 analisi esegetica di Mt 25,31-46

Scena I: preparativi del giudizio (25,31-33)

In questa prima scena che funge da presentazione alla pericope, il Figlio dell’uomo
appare mediante un duplice paragone. Inizialmente, in modo implicito, viene illustrato nei panni
di un re mediante l’immagine del trono di gloria, presente nel v. 31; In seguito, è paragonato ad
un pastore (vv. 32b-33). Tra i due (v. 32a) si trova l’espressione «tutti i popoli».

v. 31
Si è già visto abbondantemente sopra, trattando della contestualizzazione della pericope, il chiaro
parallelo di questo versetto con 24, 30b-31, anche se qui la gloria della sua epifania è posta
ancora più in risalto, sebbene privata della descrizione di fenomeni cosmici. Infatti, mentre nelle
teofanie veterotestamentarie la venuta di Dio si riconosce dalle circostanze concomitanti, ma Dio
stesso non si fa vedere, nella pericope matteana il Figlio dell’uomo può essere visto direttamente.
Dóxa, ággeloi autou, trónos dóxēs autou (senza articolo = stato costrutto) sono, secondo la
logica testuale, attributi del Figlio dell’uomo.
Egli viene (//Dn 7,13) nella sua gloria (//Mt 16,27: «nella gloria del Padre suo»; 24,30: «con
grande gloria»): è possibile il riferimento a Zc 14,5, dove però, descrivendo la battaglia
escatologica, si dice: «Verrà il Signore, tuo Dio, e con lui tutti i suoi santi» (così come in Hen.
aeth. 1,9). Alla concomitanza tematica, come si può vedere, non segue quella terminologica311.

309
M. GOURGUES, 208.
310
M. GOURGUES, 211.
311
Nei LXX si ha infatti il verbo hèko («venire»), mentre si ha érchomai in Mt 25,31; e Jahvè, anziché il Figlio
dell’uomo, è accompagnato da hàgioi («santi») anziché da àngeloi («angeli»).

156
Le figure degli angeli (//13,41; 24,31: «i suoi angeli»), inoltre, nel testo matteano non esercitano
alcuna funzione giudicante, come invece avviene nei passi menzionati e, altrove,
nell’apocalittica. Nel brano del primo vangelo essi vogliono, perlopiù, sottolineare la regalità del
Figlio dell’uomo di cui costituiscono la corte. La formula «con i suoi angeli» si trova identica in
Dt 33,2, ma in un passo che descrive una manifestazione di Dio. Tuttavia, il passo al quale il
testo ha fatto sicuramente riferimento, sia per le immagini che per il linguaggio, è la celebre
descrizione di Dn 7,13-14: «Ecco apparire (stesso verbo érchomai) uno simile a un Figlio
d’uomo (…) e gli fu dato ogni potere e insieme tutte le nazioni (pánta tà étnē, //Mt 25,32) della
terra (…) e ogni gloria»: qui manca, in effetti, solo la menzione degli angeli, ma potrebbe
benissimo darsi che l’inizio del racconto matteano ricordi più di un passo dell’AT.
Infine, egli si siede «sul trono della sua gloria» (25,31b): è introdotta dall’evangelista una
rara ma importante metafora dell’escatologia veterotestamentario-giudaica. Nei pochi passi in
cui ricorre, riguarda soprattutto i troni assegnati da Dio a personaggi umani (cf. 1 Sam 2,8; Is
22,23; Sir 47,11); ma, in particolar modo, sono i salmi che ricorrono occasionalmente al trono di
Dio (Sal 11,4; 47,9; 93,2; 103,19). Inversamente, l’AT applica poco a Dio il motivo del «trono di
gloria», tranne nel caso di Ger 17,12: «il luogo del nostro santuario è un trono glorioso (LXX:
tronos dóxēs) sin dall’inizio». Secondo la teologia rabbinica, il trono è una delle cose che Dio ha
creato prima del mondo e solo Lui può prendere posto su di esso. Interessante è Dn 7,9-14 dove
un misterioso Figlio d’uomo è ammesso a sedere accanto al Vegliardo: è, quindi, a partire dal
testo di Daniele che Matteo elabora l’introduzione al giudizio universale, ma non è l’unico passo
preso in considerazione. Esistono, infatti, dei testi della letteratura apocalittica giudaica che
uniscono l’immagine del trono celeste alla figura del Messia o del Figlio dell’uomo: «Questo è il
rampollo di Davide che sorgerà in Sion alla fine dei giorni», proclama, per esempio, un passo del
Florilegio di Qumran312 e, ancora, uno scritto contemporaneo di Matteo, l’Apocalisse siriana di
Baruch, rappresenta il Messia che siede «in pace per sempre sul trono del suo regno» (73,1)
dopo aver chiamato «tutti i popoli» per il giudizio (72,2). Tuttavia, soltanto secondo i discorsi in
parabola del Primo Libro di Enoch etiopico313, Jahvè (il Signore degli spiriti) ha concesso
all’Eletto, cioè al Figlio dell’uomo, di assidersi sul trono della sua gloria (62,2 e 5; cf. 45,3; 51,3;
55,4; 61,8; 62,2-5; 69,27.29): «In quel giorno il mio Eletto sederà sul trono della gloria e
sceglierà le loro azioni», quelle degli uomini identificati per metà come giusti e per metà come
peccatori. A partire dalla terza parabola (58-69), la figura del Figlio dell’uomo sostituisce
l’Eletto, apportando così un evidente parallelo con Mt 25,31: «Una metà di loro guarderà l’altra
metà: si spaventeranno, abbasseranno i loro volti e l’afflizione li afferrerà, quando vedranno quel
Figlio dell’uomo sedere sul trono della sua gloria» (62,5); o ancora: «Il Figlio della madre dei
viventi è seduto sul trono della sua gloria e gli è stato dato il principato sul giudizio. (…) Da
quel momento non vi sarà chi si corrompa, poiché quel Figlio dell’uomo si è rivelato e si è
seduto sul trono della sua gloria» (69,27.29).
vv. 32-33
Lo splendore dell’apparizione del Figlio dell’uomo apre il sipario all’evento centrale del giudizio
di tutte le genti radunate. Chi avvii questo raduno, non è detto, ma nei possibili paralleli
veterotestamentari l’operazione è svolta da Dio (cf. LXX Gl 4,2; Zc 14,2; Is 66,18). Curioso è il
verbo greco impiegato, synágo, appartenente al linguaggio pastorale, quasi voglia preparare il
lettore a visualizzare l’immagine che segue immediatamente. Il passivo, secondo Jeremias314, è
descrizione perifrastica dell’azione di Dio, che crea un gioco di contrasto con l’azione attiva del

312
4Q174, testo in I manoscritti di Qumran, a cura di Luigi Moraldi, Torino 1971, p. 575, cit. in M. GOURGUES, 212.
Confrontare anche 4Q161 (framm. D): «Questo è il rampollo di Davide, che si eleverà in Sion alla fine dei giorni,
gli sarà dato un trono, una corona di santità e vestiti di vario colore». Tuttavia, il testo di questi due passi,
specialmente la menzione del trono nel primo, è oggetto di ricostruzione.
313
Le affinità con il NT e in particolare con Mt 25 sono tali che alcuni hanno potuto vedere nelle Parabole di Enoch
un’opera cristiana. Tuttavia, la maggioranza degli specialisti sembra più favorevole all’origine giudaica e
precristiana.
314
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 251.

157
venire del Figlio dell’uomo, tuttavia è pensabile che esso intenda semplicemente rimandare
l’azione agli angeli, la cui presenza nel testo rimane altrimenti ingiustificata.
Ma cosa si intende con l’espressione «tutti i popoli»? L’insicurezza degli esegeti porta ad una
serie di interpretazioni, delle volte addirittura contrastanti. In definitiva, la stessa interpretazione
di Mt 25,31-46 può variare a seconda di come viene intesa tale espressione: Giudizio universale
o parziale? Bisogna vedervi tutti i popoli pagani senza Israele o con Israele incluso? Oppure
l’insieme dei discepoli, ovvero di tutti i popoli chiamati da Gesù? Si tratta delle nazioni pagane
esclusi i cristiani o semplicemente l’intera umanità, cristiani inclusi? È possibile trovare una
classificazione delle varie posizioni in sei categorie nell’opera Matthew di W. D. Davies e di S.
C. Allison. L’idea del giudizio universale che raccoglie l’intera umanità è, a parere di Gnilka,
l’interpretazione da preferire. Secondo J. Jeremias, invece, la pericope sarebbe una risposta
proprio allo specifico quesito: come si salvano i pagani? Egli afferma: «Sicuramente il primo
vangelo è debitore dell’AT, in cui la convocazione delle nazioni è un motivo conosciuto
soprattutto dai testi profetici nelle loro parti escatologiche e apocalittiche»315. Eppure, occorre
trarre il significato, innanzitutto, dal vangelo di Matteo e non da precedenti descrizioni
veterotestamentarie del giudizio: è Matteo che deve interpretare se stesso! L’uso del termine
éthnē nella LXX (circa 145 volte) non è unitario, perché, nonostante faccia ricorso quasi sempre
a tale termine per tradurre gôyym per indicare i popoli pagani attorno a Israele, esso traduce
anche altre parole, come ad esempio ‘am. Inoltre, ci sono anche passi in cui è incluso pure
Israele, quindi il senso del termine non risulta unitario e rigido. Per il primo vangelo, in effetti, il
concetto di éthnē assume una valenza missionaria, la quale non esclude nemmeno i Giudei. «Una
esclusione dei Giudei da tutti i popoli non è ammissibile come non è ammissibile la
contrapposizione dei popoli alla chiesa. Proprio la chiesa deve rendere conto di sé davanti al
tribunale del Figlio dell’uomo»316. In effetti, Matteo, che ha intenzionalmente orientato la fine
dei suoi grandi discorsi a quello escatologico, rivolgendosi, ancora una volta, in particolare ai
discepoli, non può che rimanere fedele alla sua logica, nel momento in cui giunge al
coronamento conclusivo del suo insegnamento sulla fine del mondo.
Il termine éthnos, usato 15 volte in Matteo, per lo più si riferisce ai pagani e alle nazioni
pagane. Certi passi, è vero, sono meno chiari in questo senso [cf. Mt 4,15 («Galilea delle genti»);
6,32 («Di tutte queste cose si preoccupano i pagani»); 12,18 («annuncerà il giudizio alle genti»);
12,21 («nel suo nome spereranno le genti»); 20,25 («I capi delle nazioni le dominano»)], ma altri
sono indiscutibili. Mt 10,5, per esempio, tipicamente di Matteo, è di grande aiuto: «Non prendete
la via dei pagani (éthnē) e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore
perdute della casa d’Israele». O ancora, sempre nel discorso sulla missione: «Sarete condotti
davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani (éthnē)»
(10,18): anche qui il termine dev’essere applicato ai pagani, poiché nel versetto precedente si
può verificare che le autorità di cui si parla appartengono al popolo giudaico. L’esclusività del
significato tentenna, tuttavia, davanti ad altri passi in cui si trova, come in Mt 25,32a,
l’espressione «tutte le nazioni» (panta tà éthnē)317. Due di questi passi, inoltre, si ritrovano nel
grande discorso in cui è inserito anche Mt 25,31-46. In Mt 24,9, Gesù parla ai discepoli così:
«Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno; e sarete odiati da tutte le nazioni (hypò
panton tôn éthnôn) a causa del mio nome». È certamente preferibile tradurre con «nazioni»,
poiché appena due versetti prima lo stesso termine non presentava ostacoli interpretativi: «Si
solleverà nazione contro nazione (éthnos epì éthnos) e regno contro regno» (24,7). L’universalità
del termine emerge anche in Mt 24,14: «Frattanto questo Vangelo sarà annunziato in tutto il
mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le nazioni (pâsin toîs éthnesin), e allora verrà la
fine». Anzi, è proprio in questo versetto che è possibile realizzare l’equivalenza «tutte le

315
S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli. Contributo allo studio della cristologia e dell’antropologia del Vangelo di
Matteo (SRB 29), Bologna 1994, 103.
316
J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 543.
317
L’espressione non è tipica di Matteo, ma si riscontra anche nel NT in Mc 11,17; 13,10; Lc 21,24; 24,47; Rm 1,5;
15,11; Gal 3,8.

158
nazioni» = «il mondo (oikouméne) intero». Un terzo passo si trova al termine del primo vangelo,
in Mt 28,19, proprio all’interno del mandato finale: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in
terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni (panta tà éthne), battezzandole nel nome del
Padre e del Figlio e dello Spirito Santo…».
Interessante aggiungere ancora il passo di 26,13, che ribadisce l’apertura globale
dell’azione evangelizzatrice: «Dovunque sarà predicato questo Vangelo, nel mondo intero (en
óloi tôi kósmoi), sarà detto anche ciò che essa ha fatto in ricordo di lei», in riferimento alla donna
che ha versato il profumo sul capo di Gesù.
A questo punto, si è capito che l’espressione «tutte le nazioni» è chiaramente da intendere in
senso universale in tutti i passi di Matteo. Non bisogna, allora, interpretarla allo stesso modo in
Mt 25,32? D’altronde era già stato preannunziato in Mt 16,27: «Poiché il Figlio dell’uomo verrà
nella gloria del Padre con i suoi angeli, e renderà a ciascuno (hekástoi) secondo le sue azioni».
Infine c’è chi vorrebbe escludere i discepoli, per la loro missione che li esonererebbe dal giudizio
riservato alle sole nazioni. . Tuttavia risulta evidente che si tratta di una di quelle questioni di
“lana caprina”, visto che l’argomento scende troppo nel particolare. Infatti come si può pensare
che i discepoli possano essere esclusi? Forse non appartengono anch’essi a quel mondo che è
destinatario dell’annuncio cristiano? Si tratta senz’altro di un modo di esprimersi che non vuole
escludere alcuno e che non è ha nemmeno l’intenzione iniziale. L’interpretazione, tuttavia, non
può neanche fermarsi alla semplice analisi testuale che porta esclusivamente a sviscerare la
pericope da un punto di vista letterale. Donahue318 limita, ad esempio, l’idea dell’universalità
del giudizio ad un modo per esprimere uno sfondo missionario del testo. Il termine non
indicherebbe così una divisione etnica o religiosa, ma apparterrebbe al vocabolario della prima
Chiesa per indicare i destinatari della missione e, senza ombra di dubbio, l’evangelista voleva
focalizzare l’attenzione innanzitutto sull’intera comunità matteana, senza ampliare
eccessivamente la visuale, con il rischio di sfumare inutilmente la concretezza e il realismo del
messaggio. Certamente, questa intentio primaria non va in nessun modo a cozzare con l’idea di
un giudizio universale, ma è introdotta all’interno di questa visione più ampia, la quale va,
quindi, ugualmente creduta. Trilling319, a sua volta, giustifica la presenza di tale espressione
generando un collegamento con Mt 21,43, in cui il rifiuto d’Israele da parte di Gesù diviene il
segno evidente di un’estensione del raggio della missione a tutte le genti. Pertanto, mentre egli
sta progressivamente esperimentando il diniego dei suoi connazionali, annuncia se stesso come il
Figlio dell’uomo, la cui missione acquista connotati universali nel momento del giudizio. Il Gesù
escatologico, infatti, non è solamente una figura gloriosa, ma, a suo personale parere, diventa
punto di convergenza di tutta la storia dell’umanità. Del resto, che il giudizio universale debba
riguardare anche i discepoli risulta dal contesto. «Mt 25,31-46 viene dopo quattro parabole che si
riferiscono tutte ai discepoli e agli atteggiamenti di vigilanza e di responsabilità che devono
essere loro propri, nell’attesa della venuta del Figlio dell’uomo»320.
Gnilka con finezza lascia intuire il rapporto che c’è tra l’umanità intera e i soli discepoli
mediante un altro confronto: quello della Chiesa con la basileia del Figlio dell’uomo. «Quando il
Figlio dell’uomo radunerà tutti i popoli davanti al suo trono, allora si manifesterà la sua basileía,
fino allora non riconosciuta e non riconoscibile nella sua universalità. La chiesa, ovviamente,
non è esclusa da questo spazio della sua sovranità»321.
Il giudizio del Figlio dell’uomo si esplica nel segno espressivo della separazione. In effetti, la
pericope matteana non lascia solo percepire un’eco di tale immagine, ma esprime, in modo
esplicito, il paragone dell’azione del Figlio dell’uomo con il compito del pastore che, arrivata la
sera, deve separare le pecore dai capri. Josef Ernst afferma: «Ciò che era vietato ai discepoli
nella parabola della zizzania in mezzo al grano (13,24-30) è compiuto ora dal giudice celeste:
egli separa per sempre buoni e cattivi». Il termine aphorísei appartiene nuovamente al linguaggio

318
Cfr. DONAHUE, Parable, 16, cit. in S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, 104.
319
Cfr. W. TRILLING, Israel, pp. 62-63, cit. in S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, 105.
320
M. GOURGUES, 215.
321
J. GNILKA, 543.

159
dei pastori e il tempo al presente indica l’abitudinarietà dell’azione. Secondo Jeremias «il pastore
palestinese non separa pecore e 322montoni (cioè i maschi e le femmine), bensì pecore e capre. In
Palestina i greggi misti sono la regola; pecore e capre durante il giorno vengono pascolati
insieme, alla sera il pastore separa le une dalle altre, perché le capre di notte abbisognano di
maggior calore, dato che il freddo è loro nocivo, mentre le pecore di notte devono avere aria
fresca»323. Inoltre le pecore, aggiunge Jeremias, sono gli animali di maggior valore e,
considerando anche che il loro colore è bianco, in contrapposizione al nero delle capre,
divengono, a tutti gli effetti, il simbolo dei giusti. Da parte di Gnilka324 vi è opposizione di
parere: egli rifiuta sia la motivazione pratica sia la significazione simbolica. Non si può dire con
certezza, secondo lui, se i pastori della Galilea possedessero recinti e, quindi, avanza l’idea che i
greggi passassero la notte in aperta campagna o che venissero spinti all’interno delle caverne. Il
motivo della separazione è quindi di tipo sessuale con finalità pratiche: occorreva separare i
maschi dalle femmine che poi venivano munte. Gnilka325 ritorna così alla traduzione classica di
pecore e capri (intesi come montoni). Anche Omero, nell’Odissea, narra che Polifemo divide i
montoni e i capri dalle femmine per poter mungere le ultime. Ciò che resta, però, immotivato è
l’utilizzo di due termini nel giro di due versetti per indicare lo stesso concetto (evidenziato
maggiormente dal legame allegorico!): mentre nel v. 32 si riscontra ériphos (attestato anche in
Lc 15,29), nel versetto successivo è presente eríphion. I lessici registrano il significato di
«capra» (maschio) e sembra far cadere l’ipotesi di Jeremias. Gourgues, però, mantiene la
distinzione apportata da Jeremias e preferisce tradurre ériphos con «capretto», anziché con
«becco», che pone l’accento sulla distinzione sessuale e per il quale esiste un altro termine
trágos, usato in Eb 9,12.13.19; 10,4. In Lc 15,29, sottolinea l’autore, ériphos è tradotto
normalmente con «capretto» e non vede motivazioni per tradurlo diversamente in Mt 32-33. In
definitiva, gli animali non sono opposti secondo il sesso (pecora e montone o capra e becco), ma
secondo il colore.
Altro elemento da sottolineare è la contrapposizione tra destra e sinistra. La parte destra è, da
sempre, di buon auspicio, così come la sinistra di cattivo auspicio: concezione riscontrabile in
tutta la cultura antica. Si tratta quindi di un simbolismo abbastanza universale che collega il
positivo al lato destro e il negativo a quello sinistro (la sinistra pars dei Latini). Gnilka pone nel
suo scritto anche una citazione dell’Eneide di Virgilio, per marcare la diffusione esistente di tale
concezione. La destra, infatti, è considerata come luogo privilegiato già nell’ambito
propriamente biblico(Gn 48,13-22; Sal 16,11; 110,1). L’idea probabilmente proviene, secondo
Grasso326, dall’osservazione empirica dell’uso delle mani nell’attività umana, trasposta poi a
livello teologico per indicare il posto del Messia (Mt 22,44; 26,64). Ed è per questo che Matteo
mette in relazione al pastore solo quelli della destra.

Scena II: il giudizio (25,34-45)

È la sezione centrale ed è anche la più corposa. Consiste in una specie di dittico che presenta da
una parte e dall’altra gli stessi elementi.

v. 34
È la spiegazione dell’operazione compiuta dal Figlio dell’uomo e la giustificazione per chi si
ritrova alla sua destra. Emergono con vigore quei tratti regali che erano stati solamente velati
all’inizio: il giudice è chiamato, ora, esplicitamente re.

322
J. ERNST, Matteo. Un ritratto teologico, Brescia 1992, 157.
323
J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 251-252.
324
Cfr. J. GNILKA, 543-544.
325
Cfr. M. GOURGUES, 216.
326
Cfr. S. GRASSO, Il vangelo di Matteo, 590.

160
Stare alla sua destra significa avere in eredità il regno ed averlo una volta per sempre, non a caso
egli li definisce come i benedetti del Padre suo. La basileía riceve qui una precisazione
eccezionale: è preparata dal Padre per loro fin dalla creazione (fondazione: cf. 13,35). Secondo
l’espressione finora usata da Matteo, essa è la basileía tōn ouranōn e l’accostamento con il
Figlio dell’uomo, nell’accezione di re, non è irrilevante. Non è possibile, come alcuni hanno
pensato, accostare il testo a 1 Cor 15,28, la cui idea non è da riscontrare nell’espressione
matteana. Gnilka tuttavia non si lascia scappare che: «La preparazione del regno dalla creazione
del mondo significa che il regno va oltre la creazione stessa, comunque sia intesa questa
preparazione: o in senso ideale o nel senso di una preesistenza reale. Presumibilmente
quest’ultimo è il senso giusto. Secondo una concezione giudaica, le cose che servono alla
salvezza sono state fatte prima della creazione (ad esempio, la Torah). Ne risulterebbe che la
basileía preesistente si manifesta nel giorno del giudizio del Figlio dell’uomo»327 e, secondo il
parere di Jeremias, questa espressione «esprime la certezza della promessa»328. Il Figlio
dell’uomo, rivolgendosi a coloro che stanno alla sua destra, li invita, «venite», e li chiama
«benedetti», nonostante il termine risulti raro in Matteo, così come il verbo da esso derivante (lo
stesso si dica per il verbo maledire del v. 41): ciò ha fatto pensare che l’ipotetica parabola
ricevuta dalla tradizione si limitasse all’utilizzo di queste due designazioni. La benedizione, che
nella tradizione biblica è sinonimo del destino di felicità e partecipazione all’esistenza di Dio,
suggella la loro appartenenza definitiva al regno. Da sottolineare è anche l’invito «venite», déute,
il quale ricorre in contesti di vocazione (Mt 4,19; 11,28; 22,4). Il re, inoltre, si esprime in questo
versetto come avviene di solito con il Gesù matteano, che ama indicare Dio come «mio Padre»
(almeno 16 volte).

vv. 35 s.
La separazione effettuata riceve anche la sua dovuta motivazione. Inizia da questo versetto la
presenza, più volte ripetuta (con delle varianti), di un elenco di opere di misericordia, le quali
inizialmente sono sei e non hanno la pretesa di essere esaustive, ma semplicemente esemplari. In
fin dei conti, Matteo non introduce nulla di innovativo, perché il compiere opere di misericordia
trova terreno fertile già nel giudaismo e in contesti veterotestamentari (particolarmente nei testi
profetici). È facile scontrarsi di fronte a dei passi che contengono l’invito a dar da mangiare agli
affamati e a vestire gli ignudi (Is 58,7; Ez 18,7.16; Midraš Sal 118 § 17; Henoch slavo 9,1; 10,5;
42,8; 63,1). Così non mancano all’appello la visita agli ammalati (Sir 7,35) e il dare da bere agli
assetati (Gb 22,7). In ambiente rabbinico, la reminiscenza dell’episodio delle querce di Mamre
assicura la sacralità e l’importanza dell’ospitalità. Inoltre, in queste tradizioni, possono essere
menzionate altre prove di misericordia: assistere parenti bisognosi (Is 57,8), seppellire i morti,
consolare gli afflitti (Sir 7,33 s.), liberare i prigionieri. Anche in questo caso, Matteo trova forti
analogie con tradizioni extrabibliche, come nel caso di testi similari della religione egiziana e
mandea: «Ho dato pane all’affamato e acqua all’assetato e vestiti al nudo e a chi era senza barca
un traghetto ecc.» (Libro dei Morti, cap. 125) e «Se vedete uno che ha fame, saziatelo. Se vedete
uno che ha sete, dategli da bere. Se vedete un ignudo, ponetegli sulle spalle vestiti e coperte»
(Ginza R. I 105). Tuttavia, Gnilka329 non opta per l’idea di una dipendenza che straripa al di fuori
del testo sacro, anzi ritiene necessario radicare la pericope alle stesse tradizioni bibliche, seppure
non si riscontri, con facilità, un passo a cui ben adattarla. La concordanza interreligiosa rimanda,
più che altro, all’esistenza di un fenomeno religioso antichissimo, che consiste, in sostanza,
nell’invitare l’uomo ad aprirsi a quanti si trovano nel bisogno. Occorre, però, tenere presente il
contesto in cui è collocata la direttiva e coglierne le eventuali affinità con il testo di Matteo: si
notano delle analogie con quei testi in cui le opere di misericordia diventano il criterio in base al
quale il giudice divino pronuncia il suo verdetto. È il caso, ad esempio, del Libro di Enoch slavo
(9-10) o del Midraš del Salmo 118, ma anche nell’egiziano Libro dei Morti. Nel primo esempio

327
J. GNILKA, 545.
328
J. JEREMIAS, 252.
329
Cfr. J. GNILKA, 545-547.

161
si ritrova addirittura la contrapposizione tra i due gruppi e il loro invio nel luogo che è stato
preparato come eredità eterna (9,1; 10,6). Nel Midraš del Salmo 118, le opere della misericordia
diventano la porta che dischiude l’eternità330. Nel Libro dei Morti è lo stesso defunto a rendere
note le proprie azioni: «Ho fatto ciò che gli uomini (lodano) e ciò di cui gli dèi compiacciono».
Alle evidenti somiglianze dei testi con Mt 25,35-36, segue, tuttavia, un’enorme differenza che
genera un forte distacco ed un’originalità della pericope evangelica rispetto a ciò che di
extrabiblico è stato esaminato. In effetti, la novità è data dall’accostamento delle opere di
misericordia con il Figlio dell’uomo, re e giudice, il quale vede rivolte a sé le situazioni di
bisogno e le azioni di soccorso.
I due verbi peinàō e dipsàō, l’aver fame e l’aver sete, simboleggiano il bisogno primario,
spontaneo, elementare, che accomuna tutti gli uomini; esprimono, cioè, il desiderio che
scaturisce dalla necessità di sopravvivenza dell’uomo. I due verbi spesso si trovano assieme e,
quando sono collegati (Gb 22,7; Sal 107,5; Is 5,13; 32,6; 49,10), indicano un bisogno naturale
che afferra e penetra la totalità della persona.
Sulla terza opera di carità, il termine synághein, «accogliere ospitalmente», è greco di traduzione
e vuole rendere l’aramaico kenas, che significa sia raccogliere sia accogliere ospitalmente. Sulla
quinta opera si parla di infermi intesi come povera gente, senza assistenza, di cui nessuno si cura.
È interessante notare che l’opera di carità, elencata per ultima, ossia la visita ai carcerati, non si
trova nelle enumerazioni ebraiche delle opere di carità. Secondo Santi Grasso331 le situazioni di
disagio, in sintesi, abbracciano tre settori: l’alimentazione (mancanza di cibo e d’acqua),
l’inserimento sociale (patria e vestito) e la libertà (malati e prigionieri).
Forestiero, xénos, va inteso come colui che, possedendo una propria nazionalità, religione,
cultura, abita in terra straniera (Gn 23,4; Es 2,22). La diversità dell’immigrato genera tensione e
incute paura (2 Sam 15,19; 2 Mac 5,9; Sap 19,14) e la reazione più immediata tende ad
eliminarla, sopprimendo innanzitutto tutti i diritti di cui gode (Gn 23,4; Lv 25,23.35; Ez 47,22):
la pagina evangelica invita ad assumere un atteggiamento che è l’esatto opposto!
L’aggettivo gymnós indica uno stato di povertà (Gn 3,7; Tb 1,16; Gc 2,15; Ap 3,17) che,
valicando il solo aspetto materiale, interessa anche quello psicologico, morale e intellettuale,
senza trascurare che la nudità può essere, in taluni casi, segno e conseguenza di una violenza
subita (Gb 22,6; Os 2,5; At 19,16). Il verbo astenéō e l’aggettivo astenēs indicano uno stato di
debolezza (Gdc 6,15; 16,7; 1 Sam 2,4; 2 Re 19,26), che nel NT è legata spesso ad una condizione
di malattia (Mt 10,8; Mc 6,56; Lc 4,40; 9,2; 10,9). Nel Getsemani Gesù sperimenta la debolezza
della propria condizione umana, sarx astenēs (Mt 26,41), indicando con tale espressione la realtà
caduca dell’uomo che si ritrova in balìa della tentazione. La prigionia, infine, evoca alla mente,
non solo, delinquenti come Barabba (Lc 23,19.25), ma, anche e soprattutto, gli annunciatori del
Regno come Giovanni Battista e i primi missionari cristiani (Mt 14,3.10; Lc 22,33; At
5,19.22.25; 8,3; 12,4.5.6.10.17; 16,23-24.27.37.40; 22,4; 26,10). In conclusione, «Le povertà
annunciate dal Figlio dell’uomo, il re, sono quelle più reali e vere, presenti in ogni cultura, forma
di vita e società, anche in quelle più elevate ed evolute; esse contrassegnano e condizionano
fortemente l’identità e l’esistenza dell’uomo che le subisce»332. Sorprende come l’evangelista si
esprima utilizzando maggiormente l’aoristo, per l’enumerazione delle necessità e delle azioni
compiute, tempo che nella sua indeterminatezza riesce a visualizzare quelle necessità e quelle
azioni ben definite, temporalmente e spazialmente, nella loro puntualità.
Inoltre, l’idea di una ricompensa ( che è di gran lunga più grande del servizio svolto, che è in
ultima analisi un dono!), legata ad un gesto, non è unica in Matteo, nel solo contesto esaminato,
330
Midraš del Salmo 118,17: «Nel mondo futuro sarà chiesto: “Quale opera hai compiuto?”. Se uno risponde: “Ho
dato da mangiare all’affamato”, si sentirà dire: “La porta di Jahvè è là: puoi entrarvi perché hai nutrito l’affamato”.
Se uno risponde: “Ho dato da bere all’assetato”, si sentirà dire: “La porta di Jahvè è là: puoi entrarvi, perché hai
dissetato l’assetato”. Se uno risponde: “Ho vestito uno che era nudo”, si sentirà dire: “La porta di Jahvè è là: puoi
entrarvi, perché hai vestito l’ignudo”. La stessa cosa sarà per chi avrà avuto cura degli orfani, ha fatto l’elemosina e
ha praticato le opere dell’amore».
331
Cfr. S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, 98.
332
S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, p. 98.

162
ma è rintracciabile anche in Mt 10,42 (//Mc 9,41): «Chi avrà dato anche solo un bicchiere di
acqua fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità vi dico: non perderà la sua
ricompensa».

v. 37-40
La motivazione data dal Figlio dell’uomo e fondata sulla misericordia lascia scaturire una
immediata reazione di stupore da parte dei salvati, i quali si esprimono mediante una triplice
doppia domanda in cui permettono di mettere nuovamente in evidenza le sei opere di
misericordia. Lo stupore nasce dall’identificazione inaspettata, quasi scioccante, del Figlio
dell’uomo, ma l’amen della risposta ammette la veridicità del parlare del re, che non tarda a
dimostrare l’esistenza di un intimo legame tra sé e i «fratelli più piccoli» (v. 40).
Eppure l’idea non risulta del tutto nuova, anzi, si ritrovano dei paralleli nel giudaismo, benché a
creare questa sorta di paragone è Dio in persona: «Figli miei, se avete dato da mangiare ai
poveri, io ve lo computo come se aveste dato da mangiare a me» (Midraš di Deuteronomio
15,19), dove, però, l’incontro con il bisognoso non è riconosciuto come incontro con Dio. In
Sota 14a si esorta all’imitazione di Dio e il legame dell’uomo con Dio è deducibile dal suo
esserGli immagine: «Chi insulta il volto dell’uomo, insulta il volto di Dio» (Enoch slavo 44,1).
Comunque la questione più accattivante ed interessante, necessaria per la comprensione e
l’interpretazione dell’intera pericope di Mt 25,31-46, sta nell’esaminare a chi si riferisce
l’evangelista con il termine «fratelli» (adelphós). Generalmente, secondo Gnilka333, nel primo
vangelo si usa il termine fratello per designare il membro della comunità, colui che è venuto alla
fede, ma Grasso334 non è d’accordo, perché il termine, associato all’aggettivo mou, esula
dall’indicare il rapporto che intercorre tra i membri della stessa comunità, ma si eleva ad una
relazione verticale con lo stesso Gesù. In definitiva, è chiaro che i fratelli sono essenzialmente i
discepoli e, ad avvalorare questa tesi, altri due passi vengono in soccorso: Mt 12,48-50 e 28,10.
Il secondo caso, in un contesto di risurrezione, non pone grosse possibilità di scelta e con «i miei
fratelli» l’evangelista si riferisce univocamente agli apostoli. In Mt 12,48ss., invece, la stessa
espressione si apre ad un’interpretazione più vasta e ad orizzonti che sono svincolati dalle
categorie spazio-temporali, come è dimostrato dal «chiunque fa la volontà del Padre mio».
In realtà, uno studio più preciso non può assolutamente permettersi di fermarsi alla semplice
espressione «miei fratelli», perché la risposta del re risulta più complessa e deve essere
esaminata così come l’evangelista ce la riporta. Occorre, quindi, dibattere sull’espressione: «a
uno di questi miei fratelli più piccoli» (enì toútōn tōn adelphōn mou tōn elakístōn). Le ipotesi dei
vari esegeti restano, tuttavia, alquanto disparate: c’è chi li riduce ai missionari/predicatori, chi vi
vede i poveri della comunità cristiana e chi lascia che abbracci l’intera categoria dei poveri.
Certamente la prima accezione va subito scartata, perché non è affatto in sintonia con lo sfondo
universalistico del testo e, poi, va solo ad esaminare la prima parte dell’espressione matteana.
Non è detto, inoltre, come ricorda Gourgues, che le situazioni elencate nel giudizio universale
debbano per forza di cose riguardare tutti coloro che annunciano il vangelo. Lo stesso passo di
Mt 16,27 in cui il Figlio dell’uomo «renderà a ciascuno secondo le sue azioni» non dà, infatti, la
possibilità di restringere il senso di una ricompensa legata ad un gruppo esiguo di persone. È da
notare che il re premette alla parola, tōn adelfōn, l’aggettivo dimostrativo, toútōn, che
normalmente ha la funzione di indicare qualcosa o qualcuno vicino alla persona che parla.
L’universalità, inoltre, trova la sua certezza dalla presenza di enì, pronome che non vuole avere
valore numerico, ma intende chiaramente lasciare nell’indeterminatezza il senso
dell’espressione.
Ciò nonostante, la vera chiave di lettura, l’indizio più prezioso che permette di dare una lettura
definitiva della motivazione del re e di comprendere a fondo la profondità del brano stesso, sta

333
Cfr. J. GNILKA, II, 548.
334
Cfr. S. GRASSO, 95.

163
nel superlativo elakìstōn. Matteo, in effetti, non si limita ad utilizzare il più noto mikrós che nel
primo vangelo ricorre con quattro significati ben diversi: i discepoli-missionari (10,42), il
minimo nel regno dei cieli (11,11), il granello di senapa (13,32) e i credenti (18,6.10.14). Il
superlativo elakìstōn è presente altre due volte in Matteo in riferimento a Betlemme (2,6) e ai
precetti e a chi li trasgredisce (5,19). Non si può, quindi, far confluire i vari contesti in cui è
presente ad un significato univoco e standardizzato, per poter focalizzare quale gruppo di
persone della comunità matteana stia dietro l’espressione del re. In due passi, infatti, il
superlativo si riferisce a cose e non a persone e, cosa ancor più importante, non si ritrova mai nel
primo vangelo accostato al termine adelphós.
Con uno sguardo critico ed attento, Grasso335 fa caso ad un piccolissimo particolare, una
sottigliezza che assicura la tesi finora appoggiata: esaminando il passo parallelo, quando il re si
rivolge a coloro che si trovano alla sua sinistra, la risposta manca del termine adelphōn. Di per sé
può sembrare un fatto insignificante, ma è chiaro che il redattore matteano non aveva alcuna
intenzione di alludere ad una categoria di persone ben precisa, altrimenti quella che appare una
semplice omissione diverrebbe una carenza grave.
Questo modo di leggere l’espressione genera inoltre un’armonizzazione con l’intera pericope che
sin dall’inizio (con l’espressione «tutti i popoli») ha assunto caratteristiche universalistiche e non
può, in alcun modo, presentare forme di riduzionismo al suo interno. Lo sconvolgente «l’avete
fatto a me», che chiarisce l’identificazione sopra espressa, non va, inoltre, a cozzare con la vita
pubblica di Gesù di Nazaret, anzi viene ad essere una splendida sintesi di come il Messia si sia
relazionato con l’umanità.

vv. 41-45
Dopo il confronto del Figlio dell’uomo, nei panni del re, con coloro che sono alla sua destra, la
pericope del giudizio universale sposta la sua narrazione alla seconda parte del dittico con una
struttura identica, il cui annuncio però è diametralmente opposto. Il re ora si rivolge a coloro che
sono alla sua sinistra e, similmente a come aveva già fatto, inizia un dialogo con l’assegnazione
del luogo e la sua motivazione. Li chiama «maledetti», perché hanno rifiutato di essere
misericordiosi, nonostante il verbo maledire (kataráomai) sia, in genere, molto raro nel NT: è
talmente forte e duro che, dopo questa pericope, non si ritroverà più nel vangelo di Matteo. In
contrapposizione alla benedizione, in cui si menzionava il Padre, ora questi appare assente per
voler indicare la non-appartenenza. Il re, inoltre, li aveva già allontanati da sé, «Andate via da
me», in netta contrapposizione con l’invito, «Venite», rivolto ai benedetti dal Padre. La
destinazione è il «fuoco eterno», espressione ricorrente in Matteo (12 volte: tante quante negli
altri vangeli messi insieme), dove assume sempre un’accezione negativa con un senso
escatologico-giudiziale (3,10.12; 5,22; 7,19; 13,40.42.50; 18,8-9). A differenza del regno dei
cieli «preparato per voi fin dalla fondazione del mondo», il fuoco eterno è «preparato per il
diavolo e i suoi angeli», quasi a voler sottolineare che Dio non l’abbia pensato intenzionalmente
per l’uomo336. Nuovamente si ripetono le sei opere di misericordia, con una specie di contrazione
delle ultime due in un’unica espressione: «ero malato e in carcere e non mi avete visitato». Come
nel caso di coloro che sono a destra, anche ora la reazione è di meraviglia e stupore, ma, come è
pensata Gnilka, essa«è destinata a incutere timore e spavento»337.
La risposta di reazione di coloro che sono a sinistra presenta nuovamente l’elenco delle
sei opere di misericordia per la quarta ed ultima volta, ma in quest’ultimo caso si arriva ad una
massima contrazione, perché l’elenco è interamente racchiuso in un’unica domanda. La
particolarità è data, infatti, dal servizio non svolto, perché non vi è più una specificazione dei
verbi di soccorso per ogni singola opera, ma tutto confluisce in un solo verbo: «servire»
(diakonéō). In Matteo questo verbo ha come soggetto Gesù (20,28), gli angeli (4,11), la suocera

335
Cfr. S. GRASSO, 97.
336
Quest’ultima rilettura è presente in modo analogo sia in Gnilka, con un’accentuazione più teologica, sia in Santi
Grasso (cf. S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, 136; J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 550).
337
J. GNILKA, Il vangelo di Matteo, 550.

164
di Pietro (8,15), i maledetti (25,44), le donne (27,55); e Gesù è sempre il destinatario dell’azione
di servizio. Indica generalmente il servire a tavola, ma, in senso lato, assume anche l’accezione
di provvedere al sostentamento. Nel contesto evangelico, diakonéō richiama la logica nuova di
Gesù, che genera un forte contrasto con la logica di potere del mondo: servire vuol dire dare la
vita e Gesù stesso si offre come modello. All’interno del testo di Mt 25,31-46 il verbo presenta
anche un «tu» (soì) di riferimento, con il quale stabilire un rapporto secondo la logica della
sottomissione di chi presta servizio e in base all’atteggiamento di solidarietà che ad essa è
strettamente legata.
Ciò che colpisce in questo caso è che, in fin dei conti, l’azione richiesta dal re presenta un
duplice destinatario: innanzitutto, essa va diretta a chi vive la situazione di difficoltà e di
indigenza, ma continua, su di un piano più profondo, nei confronti dello stesso re, nei confronti
di Gesù, in forza di questa sua identificazione “escatologica”. In ultima analisi, la sostituzione
con questo verbo, nel contesto negativo di opere non effettuate, mette ancor più in risalto
l’inadempienza dei maledetti: essi non sono soltanto venuti meno a delle azioni di soccorso, ma
al «servizio».
Seguendo parallelamente la struttura del dittico, al v. 45 viene riportata la risposta del re (che
non viene nominato), ma questa volta è al negativo e viene a mancare la parola «fratelli», come è
stato già ricordato sopra.

Scena III: esecuzione del giudizio (25,46)

v. 46
L’ultimo versetto del brano, che segna anche la chiusura del cap. 25, rappresenta la scena finale.
Se il testo fosse una parabola, si avrebbe a che fare con una specie di applicazione di essa, ma è
meglio considerarlo come la conclusione dell’evento e la conseguente attuazione del giudizio
emesso. Ancora una volta occorre attingere dall’AT e, come nel quadro iniziale, è di nuovo
Daniele a presentare delle marcate analogie con la pericope matteana. Il testo di Dn 12,2 fa parte
di una descrizione (Dn 11,40-12,10) riguardante il «tempo della fine» (11,40) e presenta il tema
della retribuzione finale. Come in Mt 25,46 si mette in contrapposizione la sorte dei giusti e
quella dei peccatori338.
Ecco i due versetti a confronto:

Mt 25,46 Dn 12,2
E se ne andranno ...si risveglieranno
questi (hoûtoi) questi (hoûtoi)
al supplizio eterno alla vita eterna
(eis kólasin aiōnion) (eis zoēn aiōnion)
invece i giusti e gli altri alla vergogna
alla vita eterna e per l’infamia eterna
(eis zoēn aiōnion). (eis aischýnēn aiōnion).

Data la concentrazione eccezionale di titoli cristologici all’interno di un unico brano


neotestamentario, si è pensato di svolgere un lavoro a parte per completare, seppure in forma
sintetica, l’analisi esegetica di Mt 25,31-46.
1. Figlio dell’uomo. Questa espressione (o uiòs tou antrópou) si ritrova nei vangeli
esclusivamente sulla bocca di Gesù, in terza persona, e nel primo vangelo ricorre molto più
abbondantemente degli altri (31 volte). Da un punto di vista filologico, la locuzione va fatta
risalire ad un retroterra semitico alquanto vago, visto che si presentano ben tre possibili
derivazioni. Nel libro di Ezechiele il profeta viene spessissimo (ben 95 volte) interpellato come

338
Lo schema è nuovamente offerto dal lavoro di GOURGUES, 223.

165
«figlio dell’uomo», traduzione dell’ebraico ben ’adam, per indicare molto semplicemente
«uomo, essere umano», evidenziando, in tal modo, la solidarietà esistente da parte del profeta nei
confronti del popolo. Tuttavia, si distacca dall’espressione evangelica per l’assenza del doppio
articolo. Altra possibile derivazione, a cui può essere ricondotto il logion di Mt 25,31, per il
carattere escatologico che lo contraddistingue, è Dn 7,13, passo già preso in considerazione. La
difficoltà di un chiaro accostamento tra i due logia sta nel fatto che il libro profetico utilizza
l’espressione solo in forma di paragone («come un figlio d’uomo») e presenta un’accezione più
collettiva che individuale (essendo allegoria di «i santi dell’Altissimo»). Nonostante ciò, occorre
sottolineare che anche le più antiche interpretazioni giudaiche di questa figura la intendono
singolarmente, in particolare nelle Parabole del Primo Libro di Enoch (37-71), dove il Figlio
dell’uomo è identificato con «l’Eletto», con «il Giusto» ed infine anche con «il Messia».
Un’altra ipotesi di derivazione, anche se molto tardiva, tenta di creare un collegamento con testi
rabbinici tratti dal Talmud, quindi posteriori al I secolo. Qui si riscontra l’espressione aramaica
abbreviata, bar naš, usata con il valore dimostrativo di «quest’uomo», per designare in modo
indiretto chi parla. Tuttavia, si è optato per dare all’espressione rabbinica un valore generico
(«qualunque uomo») o come pronome indefinito («qualcuno»), cosa impossibile da realizzarsi
nella pericope matteana, dove il doppio articolo definito dà un senso circoscritto alla stessa
espressione. Romano Penna lascia notare che tale titolo, utilizzato nei vangeli, è senza alcun
dubbio di autenticità gesuana, sia in base al criterio della molteplice attestazione, per la sua
presenza nella triplice tradizione, sia in base al criterio della dissomiglianza, per via del distacco
esistente dal giudaismo e a riguardo della rimanente letteratura neotestamentaria. È strano che le
due ricorrenze, in Ap 1,13 e 14,14, si agganciano a Dn 7,13 e non riprendono la costruzione
evangelica del doppio articolo. Nel suo intento specifico di giungere a conoscenza del Gesù della
storia mediante lo studio del NT, Penna, a proposito del titolo «il Figlio dell’uomo», dice che i
passi in cui ritorna «sono spiegabili sullo sfondo di Dn 7,13 e concernenti la venuta escatologica
del Figlio dell’uomo»339 e aggiunge che «come in 1En 37-71, Gesù in quanto Figlio dell’uomo è
anche l’Eletto, il Giusto e il Messia»340.
2. Pastore. L’espressione si ritrova nella pericope di Mt 25,31-46 all’interno di una similitudine,
tramite la quale l’evangelista ha voluto sottolineare il ruolo di Gesù nel giudizio universale e
l’azione separatrice che viene posta. L’immagine del pastore è riscontrabile in tutti e tre i vangeli
sinottici, ma in Matteo è particolarmente indirizzata a delineare la figura di Gesù e a creare una
relazione tra il Gesù prepasquale e il Signore escatologico: dall’azione terrena del pascere si
giunge a quella del separare in un contesto di giudizio. Ciò nonostante, si deve affermare
l’unicità di questa similitudine all’interno del primo vangelo, che non trova immagini analoghe.
Il merito, però ,non va fatto ricadere interamente all’evangelista, perché, con molta probabilità,
prende in prestito il ruolo consono svolto dal pastore dal testo di Ez 34, con cui il brano matteano
realizza numerosi e forti contatti. In Ez 34, però, il pastore di cui si parla è Dio, il quale si prende
cura delle pecore deboli e bisognose (v. 16) e attua il giudizio, come in Matteo, attraverso una
separazione (vv. 17-22)341.
3. Re. L’appellativo basileùs si ritrova, ancora una volta, con molta più frequenza in Matteo,
rispetto agli altri sinottici, e compare spesso nella forma composta «il re dei giudei» o con il
possessivo sou, in riferimento a Gerusalemme, o ancora nell’espressione «il re d’Israele». C’è da
dire, però, che la pericope di Mt 25,31-46 si presenta nuovamente fonte di originalità, visto che
per ben due volte il termine compare in modo assoluto per indicare la sua identità escatologica,
senza più alcuna limitazione spazio-temporale. L’evangelista ha già dato inizio all’idea di
regalità in riferimento a Gesù nel racconto del suo ingresso a Gerusalemme, dove commenta due
citazioni veterotestamentarie (Is 62,11 e Zc 9,9), ma il termine «re» si ritrova, soprattutto, nel
racconto della passione e proprio in riferimento agli avvenimenti della passione stessa, quasi a
voler sottolineare che la vera regalità di Gesù viene esercitata sulla croce (27,37.42). In questo

339
R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo. I. Gli inizi, Milano 20013, 139.
340
R. PENNA, 143.
341
Cfr. S. GRASSO, 113-115.

166
modo, la stessa regalità che viene ora esercitata in un contesto di giudizio finale va vista come
«effetto della sua sottomissione al progetto della croce». Grasso, infatti, aggiunge: «Il titolo crea
un forte legame tra la scena del giudizio e quella della passione. Il Figlio dell’uomo, che come re
giudicherà l’umanità, è colui che prima viene deriso come re sulla croce»342.
4. Signore. È l’ultimo appellativo che viene attribuito a Gesù nel testo matteano e ricorre due
volte, prima sulla bocca dei giusti e poi su quella di coloro che stanno alla sua sinistra. In Matteo,
il termine kyrios è attribuito sia a Dio che a Gesù e, in particolare, si ritrova all’interno delle
parabole per alludere allo stesso Gesù. È vero che come vocativo (kúrie) può essere usato come
forma di cortesia e di deferenza, ma nello specifico caso di Mt 25,31-46 il termine
«Signore» non va assolutamente sconnesso dagli altri appellativi, i quali gli garantiscono il suo
valore reale di Messia davidico, ricollegandolo a Mt 22,41-46. Il titolo, inoltre, sia in Matteo che
negli altri vangeli, sta a voler evidenziare la fede cristologica e la relazione che intercorre tra
Gesù e chi lo riconosce come Signore. Nella pericope può sembrare strano che venga chiamato
così, con solo dai giusti, ma anche da coloro che Gesù stesso definisce «maledetti»: molto
probabilmente, si è voluto sottolineare come, nell’ambito del giudizio universale, la signoria di
Gesù acquista quell’oggettività che gli è propria, al quale nessuno ha il potere né di toglierla né
tanto meno di non riconoscerla343.

II. Analisi teologica

II.1 temi teologici

a) Vigilanza, responsabilità, servizio

Collocando Mt 25,31-46 all’interno del discorso escatologico, Gourgues analizza come la


pericope segni il culmine di un percorso costituito dalle parabole precedenti, che, con una certa
alternanza, insistono essenzialmente su due tematiche: la vigilanza e la responsabilità. In effetti,
solo con il racconto del giudizio universale è possibile chiarificare che cosa l’autore del vangelo
voglia intendere con questi due termini. «Essere vigilanti, far fruttare i talenti ricevuti si traduce
in modo privilegiato nell’impegnarsi molto concretamente al servizio degli altri»344. La ripetuta
sequenza delle sei opere lascia cogliere al lettore la centralità di questo argomento che sfocia in
definitiva in un unico atteggiamento: la diakonia. Infatti, quando per la quarta volta vengono
elencate le situazioni di bisogno, a cui inizialmente corrispondevano altrettante azioni,
l’evangelista ha scelto, e non sbadatamente o per ragioni stilistiche, di rifondere il tutto in un’
unica espressione: «…e non ti abbiamo servito?». Sarà proprio questo il discrimen e tutto si
giocherà su ciò che si è fatto o non si è fatto. La presenza del verbo poiéin permette di collocare
con facilità il testo all’interno del primo vangelo, dato che occupa un posto di privilegio nei
discorsi del Gesù matteano. Da tenere sott’occhio è il discorso della montagna, dove nell’ultima
parte (7,17-25) il verbo ritorna con insistenza per ben nove volte: «Non chiunque mi dice:
Signore, Signore345, entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa (ho poiōn) la volontà del Padre
mio che è nei cieli» (7,21).
La novità apportata dal testo di Mt 25,31-46 sta nell’identificazione di Gesù con le
categorie da lui annunciate e, di conseguenza, nel considerare le azioni compiute verso il
prossimo come azioni prestate direttamente a lui. In ciò la pericope del giudizio universale
compie un superamento dello stesso discorso della montagna e dà una giustificazione della
342
S. GRASSO, 116.
343
Cfr. S. GRASSO, 121-122.
344
M. GOURGUES, 224.
345
Un particolare da notare è la presenza in questo loghion del termine al vocativo kúrie che ricorre anche in Mt
25,37.44. Inoltre, è possibile vedere anche la vicinanza di senso: i «maledetti» che chiamano Gesù con lo stesso
appellativo «Signore» non ereditano il Regno preparato dal Padre perché non hanno «fatto queste cose», così come
Gesù aveva già anticipato all’interno del discorso della montagna e di cui Mt 7,21 ne risulta una evidente
testimonianza.

167
praxis cristiana, divenendo così «fondamentale per comprendere il significato e il ruolo che
assume il “fare” nella visione teo-antropologica matteana»346. Il cristiano è, dunque, chiamato a
vivere in un costante atteggiamento di vigilanza e di responsabilità, che si concretizza e si
esterna, semplicemente, nel soccorrere il prossimo nel bisogno.

b) Fede e carità: amore del prossimo come espressione della fede in Dio

«La pericope non autorizza alcun riduzionismo orizzontalistico»347: è l’attento ammonimento


che Fusco, tenacemente, non tarda a sottolineare, perché non si traggano dalla pericope di Matteo
delle soluzioni affrettate. È evidente che il discepolo matteano non può in nessun modo
dispensarsi da un impegno etico nei confronti dei fratelli, ma è pur vero che né il cristianesimo e
né la vita cristiana possono essere ridotti ad una visione orizzontalistica, che rischia di eliminare
il primato della grazia e di scartare la possibilità e la necessità di un amore diretto a Dio senza la
mediazione del fratello. Amore verso il prossimo e amore verso Dio costituiscono due facce
dell’unica medaglia, le quali si esplicitano nell’azione e nella contemplazione, atteggiamenti
entrambi indispensabili. Fusco sottolinea come il brano matteano «segna il culmine
dell’insegnamento etico di Gesù, ma non il culmine del Vangelo tout court: ad essa seguirà la
passione, la resurrezione, e l’invio dei discepoli nel mondo (Mt 26-28)»348. Questa insistenza
dell’evangelista sull’importanza della prassi scaturisce, molto probabilmente, dall’avere davanti
una comunità, quella a cui si rivolge scrivendo, che, in vista di una imminente parusia, aveva
allentato l’impegno concreto. In effetti, tra tutti gli autori neotestamentari, Matteo appare come
quello più fortemente incline a ridurre la fede in prassi, a volte rasentandola pericolosamente. Ma
è interessante, anche, notare che Matteo parla di queste opere di misericordia da un punto di vista
prettamente etico e non ecclesiologico. Non sono segni del Regno come la predicazione, gli
esorcismi, le guarigioni, ma semplicemente delle esigenze di amore per il prossimo che il
cristiano deve praticare, così come ogni altro uomo. Quindi, non si ha alcuna autorizzazione a
parlare confusamente di una «prassi del Regno». È piuttosto Luca-Atti a suggerire che la
condivisione dei beni, in soccorso del bisognoso, può assumere la rilevanza di un segno
caratteristico dell’era messianica (cf At 2,42-47; 4,32-35). In conclusione, c’è da dire che l’opera
di Matteo parte da una situazione in cui non è la fede in sé ad essere messa in pericolo, ma
l’importanza delle opere e se si ritrova questo accento marcato sulla necessità dell’amore verso il
prossimo è perché questo aspetto non può essere dissociato dalla fede in Dio. Anzi, Matteo vuol
lasciar comprendere, tra le righe, che un impegno svilito è il segno esteriore di una fede che va
intiepidendosi e, allora, ognuno deve correre al riparo, rimembrando che «non si dà fede vera,
rapporto vivo e autentico con Cristo senza l’impegno concreto a vantaggio degli ultimi». In tal
modo quella grande scena del giudizio finale presentata dalla pericope evangelica, in cui le opere
di misericordia vengono esaltate, diviene per il cristiano di ogni tempo e di ogni luogo il vero
«luogo della fede»349.

c) Investire nell’«umano indispensabile»350

Ciò che sorprende e lascia sconcertati sia i personaggi del racconto, che si ritrovano alla
destra e alla sinistra del Figlio dell’uomo, sia il lettore di ogni tempo è che l’incontro finale si
gioca semplicemente sul servizio degli altri e questo nelle situazioni più ordinarie della vita
corrente. Anche le vie più alte e difficili da raggiungere, quelle che richiedono un cammino di
ascesi e che affiorano da una visione mistica eccelsa della vita di molti santi, vanno dunque
subordinate all’ordinarietà di azioni in cui il Verbo incarnato si rende presente. Le opere di

346
S. GRASSO, 94.
347
V. FUSCO, Carità, Chiesa, Mondo nella descrizione del giudizio finale (Mt 25,31-46), 272.
348
IDEM, 274.
349
G. BOSCOLO, Vangelo secondo Matteo (Dabar-Logos-Parola), Padova 2001, 150.
350
Il titolo è ripreso da un paragrafo di M. GOURGUES, 227.

168
misericordia, su cui Mt 25,31-46 insiste tenacemente, riguardano talmente l’«umano
fondamentale», che nessun uomo sulla terra può dire di non aver avuto nessuna occasione. È
l’ordinarietà che, per certi versi, assicura l’universalità dell’incontro con Cristo e del suo
giudizio, facendo spazio, inoltre, alla proporzionata semplicità. Infatti, dal testo si comprende
che nessun intervento in favore dei minimi e dei fratelli presuppone, da parte dei «giusti», il
possesso di grandi ricchezze. Tutti possono e devono intervenire, perché ciò che è veramente
importante non è fare ciò che è l’ottimo in sé, ma fare tutto quello che rientra nelle possibilità del
momento. La richiesta, infatti, non è di sfamare l’affamato, ma di dargli semplicemente da
mangiare, così vale anche per le altre situazioni che non vanno affrontate con gesti eroici e
straordinari, ma nell’ordinarietà della propria condizione socio-economica.
In definitiva, l’incontro con il Signore «non si celebra in uno scenario strepitoso ed eccezionale,
in determinate solennità, in giorni privilegiati, in occasione di incontri straordinari, che forse non
avverranno mai nello spazio di una vita, ma si annoda con la preziosità dell’ordinario negli
incontri “feriali” con il fratello»351: è proprio qui che si cela timidamente la bellezza del
messaggio cristiano e quella vocazione universale alla santità che troppe volte è stata ritenuta
una meta umana irraggiungibile.

d) Validità universale del giudizio di Cristo

Si è visto come l’espressione panta tà éthnē e il termine adelfós abbiano suscitato delle
difficoltà tra gli esegeti, per il rischio di cadere in interpretazioni poco ortodosse, ma come, in
ultima analisi, siano state intese in modo universale. Tuttavia, Fusco ricorda che «numerosi
studiosi recenti (forse anche per reazione ad un uso un po’ troppo disinvolto di questa pagina
nelle letture orizzontalistiche degli anni sessanta?) rimettono in questione la tradizionale
interpretazione universalistica e, tornando ad un’interpretazione già presente nell’antichità (per
esempio in Girolamo), sostengono che qui come criterio del giudizio verrebbe indicata non
l’accoglienza dei poveri in genere, ma l’accoglienza degli inviati di Gesù»352. Gnilka afferma,
esplicitamente, come la validità universale del giudizio sia uno dei tre aspetti principali di
teologia sistematica, che si possono rilevare, in maniera limpida, nel testo di Mt 25,31-46353.
Oggi la Chiesa si è trovata a risolvere un’altra questione che, partendo da una mentalità
sincretista, verte a negare il valore universale dell’evento salvifico di Cristo. Nella dichiarazione
Dominus Iesus si ribadisce l’universalità salvifica di Cristo e, seppure in un modo non del tutto
esplicito, si riafferma la sua azione universale anche a riguardo del giudizio finale. Si fa forza del
Credo del concilio di Nicea, in cui si afferma solennemente e dogmaticamente che Gesù Cristo
«verrà a giudicare i vivi e i morti»354. Poi, dopo aver detto che «Gesù è il Verbo di Dio fatto
uomo per la salvezza di tutti», riporta anche le parole conciliari in cui si insegna che «Egli è
colui che il Padre ha risuscitato da morte, ha esaltato e collocato alla sua destra, costituendolo
giudice dei vivi e dei morti»355.

II.2 Attualizzazione del messaggio del fallimento definitivo dell’uomo

È importante chiedersi come possa essere presentato ancor oggi il messaggio del fallimento
definitivo dell’uomo («fuoco eterno»). Non si tratta di minimizzarlo: nei testi è espresso con
troppa ruvida schiettezza e non si può, quindi, in nessun modo escludere la possibilità per l’uomo
della rovina eterna. Dopotutto, la formazione dei due popoli «ultimi» non permette di distogliere

351
L. DI PINTO, Il giudizio finale sul servizio ai fratelli (Mt 25,31-46): punto focale del discorso escatologico, 197.
352
V. FUSCO, Carità, Chiesa, Mondo nella descrizione del giudizio finale (Mt 25,31-46, 273.
353
Cf. J. GNILKA, II, 552.
354
CONC. NICAENUM I, Symbolum Nicaenum: Denz 125, in CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dominus Iesus,
Dichiarazione del 6 agosto 2000, n. 10, in EV XIX/1142-1199, Bologna 2004.
355
Gaudium et spes : n. 45: EV 1/1464 in CONGR. PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Dominus Iesus, n. 11, in EV
XIX/1169, Bologna 2004.

169
la mente da tale questione di carattere escatologico. «Egli s’adira non benché ami, ma perché
ama»: così si esprime Gnilka356 nel commentare la pericope matteana, dando una sua
giustificazione a ciò che umanamente suscita timore. Invece, bisogna essere attenti al testo per
scorgere che i vv. 41-45 presentano una diversa colorazione teologica rispetto al v. 34. Infatti,
mentre il regno è preparato per i benedetti del Padre fin dalla creazione del mondo, il fuoco
eterno è preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Ciò lascia intuire il primato della salvezza,
sia perché nel secondo caso non si nomina il Padre, come se Dio non ne fosse la causa, sia
perché non vi è alcun riferimento alla creazione, quasi a dimostrare che la condanna finale non
rientra nel piano originario di salvezza, e sia perché il fuoco è preparato per il diavolo e non per
l’uomo, come nel primo caso. Stando alla logica, infine, c’è da notare che l’ultimo versetto
inverte l’ordine con cui sono comparsi i due dialoghi: prima i maledetti, di cui non si esplicita il
nome, e poi i giusti, per poter dare l’ultima parola alla volontà divina che parla di «salvezza
eterna». Mt 25,31-46 fa capire al lettore che «l’amore di Dio viene “prima” del compito di amore
che l’uomo è chiamato ad assolvere. Il dono precede l’esigenza»357.

a) La fraternità tra storia ed escatologia

Mt 25,31-46 segna la fine del decorso storico degli uomini e dà inizio, mediante il giudizio
universale, al tempo escatologico dell’eternità. Funge, quindi, da «spartiacque tra storia e meta-
storia»358. La fraternità, allora, rappresenta ciò che nel presente va affermato, perché sarà ciò che
varrà per l’eterno. Il testo non ha, allora, nessuna intenzione di rinviarla al tempo futuro, ma
vuole sollecitare i discepoli di Gesù e il lettore di ogni tempo a prendere atto di tutto questo, per
iniziare o continuare a vivere l’attualità, il momento presente. La figura dei benedetti-giusti
costituisce il “dover essere” di ogni uomo per la quotidianità, sia esso nella consapevolezza o
nell’incoscienza di sapere che ciò conti realmente per sempre. La condizione dei «fratelli più
piccoli» esprime, quindi, l’evidenza ma anche l’urgenza dell’eschaton, anzi «è già anticipazione
dell’eschaton nel quotidiano»359.

b) I malati e il regno di Dio

Il tema della malattia non riveste alcuna centralità all’interno della pericope matteana, ma
Rinaldo Fabris, in una sua breve ricerca sulla visita all’ammalato nella prospettiva evangelica, ha
deciso di parlare anche di questo testo, sottolineando come questo genere di opera rifletta, anche
se da uno specifico e limitato punto di vista, l’amore di Dio manifestatosi attraverso i gesti e le
parole di Gesù. Il brano di Matteo, come d’altronde tutta la Bibbia in generale, non dà soluzioni
preconfezionate alle questioni legate all’esperienza della malattia. Nonostante ciò, traccia un
orizzonte nel quale l’esperienza umana, segnata dalla malattia, viene vissuta ed accolta con
fiducia e dignità. L’ospitalità in genere è radicata nella tradizione biblica e giudaica come
impegno nel vivere l’alleanza: è lo stesso Gesù ben Sira a dire: «Non indugiare a visitare un
malato, perché per questo sarai santo» (Sir 7,35). Così anche nell’ambito neotestamentario si
riscontra la stessa idea di fondo. Interessante è notare che la versione greca del Siracide utilizza
lo stesso verbo che compare nel testo del primo vangelo canonico: episkèptesthai360, che è
tradotto con visitare. Il significato di questo verbo deve assumere la sfumatura di «occuparsi», di
«prendersi cura di qualcuno» quando si rivolge a persone indigenti, come possono essere i malati
e i carcerati. Facendo rientrare il malato nella categoria più ampia del povero, si comprende

356
L’intera questione è affrontata in modo particolareggiato da J. GNILKA, 550 e da L. DI PINTO, Il giudizio finale
sul servizio ai fratelli (Mt 25,31-46): punto focale del discorso escatologico, 186-187.
357
L. DI PINTO, Il giudizio finale sul servizio ai fratelli (Mt 25,31-46): punto focale del discorso escatologico, 187.
358
S. GRASSO, Gesù e i suoi fratelli, 139.
359
L. DI PINTO, 194.
360
Cfr. J. ROHE, «episképtomai» in E. BALZ – G. SCHNEIDER (edd.), Dizionario Esegetico del Nuovo Testamento, I,
Brescia 1995, 1327-1329.

170
come il visitare i malati sia da collocare sulla stessa lunghezza d’onda dell’agire del Dio
misericordioso e attento alle necessità dei poveri. Tuttavia, la novità apportata dal Vangelo di
Gesù Cristo è contenuta proprio nella pericope di Matteo, laddove il giudice escatologico non
solo si manifesta solidale con i malati, ma li riconosce addirittura suoi fratelli, identificandosi
con loro. Probabilmente è per questo motivo che Fabris ha voluto riportare il logion del Gesù
matteano, «ero malato e mi avete visitato» (25,35) come titolo che sintetizza il suo studio sulla
malattia nella Bibbia361.

II.3 Connessioni

Il brano matteano del giudizio universale tocca in modo esplicito o per via indiretta
diverse discipline della teologia costruendo spesso un valido fondamento biblico a idee che nel
corso della storia teologica sono risultate esplicative dello stesso dato rivelato.
Trattandosi di un brano con tratti distintamente escatologici, il primo grande raccordo va fatto
sicuramente con l’escatologia. Il giudizio finale, infatti, costituisce un elemento essenziale della
parusia da cui non va, peraltro, mai distaccato. Se la parusia è l’instaurazione consumata del
regno di dio allora essa è anche giudizio. Il rischio di separare le due realtà dell’eschaton può
generare nel credente le due visioni contrastanti di un ritorno gioioso del Dio incarnato e di un
Gesù giudice che decide in modo angosciante la sorte degli uomini. La parusia assicura il
pensiero di una speranza insita nel giudizio stesso perché ricorda al cristiano che il giudizio di
Dio è sempre volto alla salvezza. Tuttavia, l’escatologia classica prevede il giudizio anche come
crisi, essendo portatore di una decisione o discriminazione. Il testo matteano con l’immagine del
pastore e della sua azione separatrice rende molto bene il concetto, anche se non è tanto la
sentenza divina a costituire l’uomo in “salvato” o in “dannato”. Effettivamente, come emerge dal
dialogo centrale della pericope, è lo stesso atteggiamento dell’uomo il principio costitutivo della
sua situazione definitiva. Gesù, che è presentato come giudice, constata più che costituire questa
situazione, limitandosi a rendere pubblico che alcuni sono «i benedetti» perché lo hanno servito
nel fratello, mentre altri sono «maledetti» perché si sono chiusi a tale servizio. In questo modo,
non è assurdo e illogico parlare di autogiudizio, ma se Matteo pone l’accento sull’amore
esercitato nel servizio, come emerge in Mt 25,31-46, Giovanni (l’altro evangelista che si
interessa del giudizio finale) vede nella fede o nell’incredulità il fondamento costruito o non
costruito. In entrambi i casi, dove la diversità non genera separazione ma solo distinzione
formale, la decisione si attua sulla base della responsabilità quotidiana. Ciò che emerge, in
definitiva, è l’indole personale dell’uomo che in quanto persona, cioè essere responsabile, è
chiamato a rispondere di fronte a Cristo. Il testo di Matteo si offre illuminante anche per
abbattere quella visione autonomista dell’uomo la quale può scaturire da una interpretazione
deviante dell’autogiudizio. Ruiz de la Peña ne parla in questi termini: «La singolarità della
parabola di Mt 25 consiste nel mostrare, con trasparenza insolita, che la causa di Cristo è la causa
stessa dell’uomo»362 e sposta così la visuale su un orientamento di tipo teonomista sia del
giudizio che della responsabilità umana.
Un altro tema fondamentale della storia della salvezza, riconducibile all’antropologia
teologica, spicca con vigore dalla descrizione plastica del separare (25,32b-33). La separazione,
paragonata a quella compiuta dal pastore ravviva la mente, focalizzandola, infatti, su una ben più
remota separazione, quella operata alle origini da Dio. Nella creazione, Dio aveva dato inizio
alla sua opera creatrice separando la terra informe con la sua parola ordinatrice (Gn 1,1-18); è
l’opus distinctionis che permette di creare separando (come un giudizio) l’ordine del cosmo dal
caos primordiale. Così anche l’uomo ha un compito preciso da assolvere, visto che cosmo e
storia dipendono dal suo agire responsabile. La distinzione operata da Cristo è frutto di un
giudizio sulla base delle opere dei singoli uomini, a seconda se ha prevalso l’ordine della
giustizia e dell’amore o il caos dell’egoismo e dell’indifferenza. Di Pinto, che intuitivamente ha
361
Cfr. R. FABRIS, «ero malato e mi avete visitato» (Mt 25,31-46), PSV 40 (1999) 89-97.
362
R. DE LA PEÑA, L’altra dimensione. Escatologia cristiana, Città di Castello 1998, 185.

171
intravisto questo parallelo con il libro della Genesi, propone al lettore due piste di
attualizzazione363 per un riscontro nella vita cristiana di questa simbolica teologica. Innanzitutto,
lascia emergere nel credente la situazione di conflitto interiore che colpisce esistenzialmente
ogni uomo, in cui si scontrano nella quotidianità i titani del caos e del cosmo, dell’anomía e
dell’agápē. E poi approfondisce anche il tema del discernimento spirituale che genera ordine
nella vita dell’uomo solo se questi è pronto a lasciarsi giudicare dalla parola di Dio, l’unica in
grado di dividere e di purificare un cuore nuovo dall’informità del male.
L’etica teologale mette in rilievo il primato della carità rispetto alle altre virtù teologali. Con
questa premessa è possibile trovarne una valida e sostanziosa giustificazione proprio nella
pericope del giudizio universale in cui al centro di tutto il racconto è collocato proprio l’amore.
Le parole di Mauro Cozzoli lasciano da sole comprendere il ruolo di Mt 25,31-46, considerando
anche la loro collocazione alla fine del capitolo su questa virtù teologale: «La carità è
l’essenziale della vita: ciò che «conta» veramente, perché conta per l’eternità (cf. Gal 5,6). Noi
siamo realmente ciò che siamo in luce e misura di carità. Per cui essa diventa il criterio e metro
di giudizio ultimo (cf. Mt 25,31-46)»364. Il brano matteano riesce a chiarire molto bene anche il
rapporto che intercorre tra amore e giustizia, due valori e due virtù che nel corso della storia si
avvicendano come se fossero in una dura competizione tra loro. Cozzoli si esprime dicendo che:
«la giustizia riflette nel discepolo la novità di quella “giustizia superiore” (Mt 5,20), additata e
disegnata da Gesù nel discorso della montagna (cf. Mt 5,1-7,28) come la giustizia propria del
Regno, la quale ne segna la condizione di appartenenza. È la giustizia sollecitata dall’annuncio
testimoniante di Gesù, che sposta l’istanza del “dovuto” ben oltre il confine della legge e del
pattuito, correlandola alle esigenze della sorprendente giustizia di Dio (cf. Mt 5,48), che
l’assume e sublima nella dinamica donante e perdonante dell’agape»365. Ora, tale «dinamica
donante» dell’amore non è forse quel servizio che il Figlio dell’uomo richiede ai popoli di tutta
la terra? Non si manifesta in quelle opere di misericordia attuate nei confronti dei «fratelli più
piccoli» la «giustizia superiore» che contraddistingue l’eticità di un cristiano? Si vede così come
Mt 25,31-46 viene in aiuto all’etica teologale per portare luce su una questione da sempre accesa
e discussa. Tuttavia, dal testo di Matteo sorgono alcuni problemi riguardanti il rapporto esistente
tra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, perché, come si è già detto, non sono mancate nella
storia vari tentativi di lettura del brano del primo vangelo canonico secondo un’ottica
riduzionista ed orizzontalistica, come «I teologi del cristianesimo non-religioso e della “morte di
Dio” [che] ne fecero uno dei testi fondamentali a favore di una riduzione della vita cristiana ad
impegno per il prossimo»366.
Un esempio è dato dal vescovo anglicano John A. T. Robinson il quale, avendo come
sfondo l’immagine del giudizio universale, conclude affermando: «Dio, in quanto è amore, lo si
incontra nella sua pienezza solo tra uomo e uomo» e continua: «l’unica via per incontrare Cristo,
sia per accettarlo che per respingerlo, consiste nell’andare incontro all’ultimo dei fratelli!»367. È
chiaro, però, che non si tratta di due realtà distaccate, bensì di due aspetti dell’unico amore, del
quale Dio rimane la sola fonte. Questa certezza porta Anselm Günthör a formulare una serie di
domande retoriche, quasi a voler controbattere quelle posizioni che non assicurano l’esistenza
agli atti espliciti dell’amore di Dio, con la conseguenza di un’azione che schiaccia la
contemplazione nella vita cristiana: «Col progredire della vita cristiana non dovrebbe essere
l’amore del prossimo a vivere sempre più dell’amore di Dio e precisamente degli atti espliciti di
dedizione a lui? Non dovrebbe essere proprio l’amore di Dio a dare significato, orientamento e
misura a tutto? Tutto il resto non dovrebbe essere sempre più soltanto un momento dell’amore di
Dio, una sua conseguenza e un invito ad esso?»368.

363
L. DI PINTO, 188-189.
364
M. COZZOLI, Etica teologale, Cinisello Balsamo (Milano) 1991, 245.
365
M. COZZOLI, Etica teologale, 234.
366
V. FUSCO, Carità, Chiesa, Mondo nella descrizione del giudizio finale (Mt 25,31-46), 272.
367
J. A. T. ROBINSON, Dio non è così, Firenze1968, 84.
368
A. GÜNTHÖR, Chiamata e risposta, II, Cinisello Balsamo 1988, 278-279.

172
Per il suo ricco apporto a livello sociale Mt 25,31-46 allaccia dei rapporti anche con
un’altra branca della morale, quella sociale, che più da vicino si interessa di quelle situazioni di
miseria umana, elencate da Gesù, e alle quali devono corrispondere delle opere di misericordia.
«Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i
poveri e i piccoli che sono suoi fratelli»369 ci ricorda il CCC. Così anche il Compendio della
dottrina sociale della Chiesa ribadisce che della miseria umana, che è segno della condizione di
debolezza dell’uomo, «ha avuto compassione Cristo Salvatore, che si è identificato con i Suoi
«fratelli più piccoli» (Mt 25,40.45)»370, invitando il cristiano a prendere coscienza
dell’importanza fondamentale della destinazione universale dei beni. La grandezza della
pericope è deducibile dalla sua presenza costante all’interno del Magistero sociale, in cui
riaffiora tra le righe tratteggiando le varie tematiche di carattere sociale con il suo aspetto
universale. Le principali encicliche sociali sono puntualmente attente nel presentare una sua
citazione. A partire dalla nota enciclica di Leone XIII sulla condizione operaia, la Rerum
novarum371, il brano di Matteo figura anche nella Populorum progressio372, enciclica di Paolo VI
sullo sviluppo dei popoli, per poi continuare la rassegna con la seconda enciclica sociale di
Giovanni Paolo II, la Sollicitudo rei socialis373, e terminare con la recente, Centesimus annus374.
Non si può che concludere questa sommaria carrellata di connessioni con le materie teologiche,
raffrontando il testo matteano con la teologia spirituale, in particolare curiosando nelle vite dei
santi per cogliere come spesso questa pagina evangelica ha rappresentato per uomini e donne una
vera regola da trasformare in vita. Non c’è santo della carità che non abbia avuto in mente nel
suo percorso spirituale la pagina matteana! San Francesco d’Assisi, l’alter Christus, era solito
parlare dei poveri che incontrava come i suoi «fratelli cristiani». Chi non si ricorda dell’episodio
del lebbroso375 in cui il poverello d’Assisi, all’inizio della sua esperienza di Dio, riesce a superare
i propri limiti umani per poter scorgere il volto del Cristo in quell’uomo dall’aspetto ripugnante?
Non sembra, allora, un caso chiaro di applicazione concreta del passo matteano in cui Gesù
ritiene fatto a sé ciò che viene fatto ai poveri?
Un esempio recente è quello di Madre Teresa che nella sua totale dedizione per i più
poveri tra i poveri ha speso la sua vita nel vivere quello che Gesù ha detto: «Lo hai fatto a me».
Un giornalista racconta che un giorno aveva chiesto alla Madre se lei era l’unica santa vivente e
lei ha risposto: «Oh, no. Sono felice che tu veda Gesù in me, perché io lo vedo in te. Il mondo è
pieno di santi viventi. È semplice diventare santi. Il tuo lavoro è scrivere, no? E allora, se non
scrivi bugie, se non scrivi cose che deprimono la gente, tu puoi diventare una persona molto

369
Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Città del Vaticano 1992, n. 1033.
370
PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, Città
del Vaticano, 183.
371
«…soddisfatte le necessità e la convenienza è dovere soccorrere col superfluo i bisognosi: “Quello che
sopravanza date in elemosina”. Eccetto il caso di estrema necessità, questi, è vero, non sono obblighi di giustizia, ma
di carità cristiana il cui adempimento non si può certamente esigere per via giuridica, ma sopra le leggi e i giudizi
degli uomini sta la legge e il giudizio di Cristo, il quale […] terrà per fatta o negata a sé la carità fatta o negata ai
bisognosi: “Quanto faceste ad uno dei minimi di questi miei fratelli, a me lo faceste”» da LEONE XIII, Rerum
novarum, Enciclica del 15 maggio 1891, n. 19.
372
«Ci rallegriamo nell’apprendere che in talune nazioni il “servizio militare” può essere scambiato in parte con un
“servizio civile”, un “servizio puro e semplice”, e benediciamo tali iniziative e le buone volontà che vi rispondono.
Possano tutti quelli che si richiamano a Cristo intendere il suo appello: “Ho avuto fame e mi avete dato da bere, ero
straniero e…”» da PAOLO VI, Populorum progressio, Enciclica del 26 marzo 1967, n. 74.
373
«Sono molti milioni coloro che sono privi di speranza per il fatto che, in molte parti della terra, la loro situazione
si è sensibilmente aggravata. Di fronte a questi drammi di totale indigenza e bisogno, in cui vivono tanti nostri
fratelli e sorelle, è lo stesso Signore Gesù che viene a interpellarci (cf. Mt 25,31-46)» da GIOVANNI PAOLO II,
Sollicitudo rei socialis, Enciclica del 30 dicembre 1987, n. 13.
374
«La sacra Scrittura ci parla continuamente di attivo impegno per il fratello e ci presenta l’esigenza di una
corresponsabilità che deve abbracciare tutti gli uomini. […] Nessun uomo può affermare di non essere responsabile
della sorte del proprio fratello (cf. Gn 4,9; Lc 10,29-37; Mt 25,31-46)!» da GIOVANNI PAOLO II, Centesimus annus,
Enciclica del 1° maggio 1991, n. 51.
375
L’episodio è riportato nelle FF durante l’agonia finale prima della morte, in cui lo stesso Francesco, ricordando
quel momento, afferma di aver sperimentato «la maggior dolcezza dell’anima e del corpo».

173
santa. Ciò che tu scrivi può trasformarsi in preghiera. Gesù ha detto: “Lo hai fatto a me”». Poi,
per spiegarsi meglio, prese la sua mano e aggiunse il dono di un gesto: toccò ogni dito
pronunziando su ognuno una delle parole di Gesù in inglese: «You did it to me. Salvi un
bambino? Lo hai fatto a me. Nutri un affamato? Lo hai fatto a me…»376.
Edificante è, infine, la testimonianza di un altro santo del secolo scorso, Don Orione, «il
pazzo della carità», che ha saputo fare della sua vita un sacrificio continuo a Dio mediante
l’amore per i poveri. Andrea Gemma, in una agiografia sul santo, fondatore del suo ordine
religioso, lo pennella con queste sfumature: «Rappresentatevi un don Orione senza quella
fiamma [la carità]: lo avrete privato della sua anima. Tutta la vita di don Orione è un documento
di graduale perfezione nella carità: quella che si desta in lui e si estrinseca nelle opere. Ma le
opere si staccano da lui, vivono in certo modo una vita propria, anche se compenetrate del suo
spirito. Non sono lui. Egli come gli artisti veri sente che non ha tradotto in esse ancora tutto se
stesso ed è insoddisfatto. Vuole la perfezione. E la perfezione della carità sarà l’accostarsi ai
poveri che sono l’immagine di Cristo, per essere degno di arrivare all’unione intima con lui nella
sofferenza»377. Si intravede, in questo modo, come anche per don Orione l’ascesi più alta è
passata attraverso l’ordinarietà dei gesti e in quel riconoscere la presenza del Cristo nei volti
degli uomini, segnati dalle rughe della sofferenza e dalle piaghe del dolore.
Il suo stesso programma di vita, delineato da quell’accenno bisognoso del Cristo in croce,
«Sitio», «Ho sete» (che troverà un’eco anche nel cuore di Madre Teresa), risuona familiare, nel
contesto di questo seminario (che tratta della pericope matteana), dove lo stesso bisogno
primario dell’uomo si rende presente nell’invito del Signore a dare da bere agli assetati. Don
Orione in persona, desideroso di vivere le opere di misericordia del brano evangelico, le
interpreta così scrivendo: «E vorrei farmi cibo spirituale per i miei fratelli che hanno fame e sete
di verità e di Dio; vorrei di Dio gli ignudi, dare la luce di Dio ai ciechi e ai bramosi di maggior
luce, aprire i cuori alle innumerevoli miserie umane e farmi servo dei servi distribuendo la mia
vita ai più indigenti e derelitti; vorrei diventare lo stolto di Cristo e vivere e morire della stoltezza
della carità per i miei fratelli»378.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di unità di apprendimento nella scuola secondaria di II grado.

Scuola secondaria di II grado (classe III)

Unità di apprendimento

Titolo: La fede in Dio nel discorso etico.

Bisogno formativo

Conoscere la religione cattolica nel discorso etico e distinguere un’etica razionale da un’etica
teologica.

Apprendimento unitario

L’allievo riconosce il valore etico della vita comunitaria, non staccato dalla fede e dal discorso
filosofico.

376
F. ZAMBONINI, Madre Teresa. La mistica degli ultimi, Milano 2003, 124-125.
377
A. GEMMA, Don Orione, Isernia 2004, 168.
378
DON ORIONE, Scritti, 58, 214.

174
L’allievo sa interpretare i tempi della post – modernità alla luce delle conoscenze e delle abilità
acquisite nella fede religiosa e nei saperi vari.

Confronto con i documenti nazionali


Obiettivi specifici di apprendimento (O.S.A. I.R.C., scuola secondaria di II grado)
Religione Cattolica

Conoscenze: L’uomo e la verità: l’incontro tra filosofia e teologia, tra scienza e fede.

Abilità: Riconoscere i diversi atteggiamenti dell’uomo nei confronti di Dio e le


caratteristiche della fede matura.

Competenze attese ( Dal P.E.CU:P:, Profilo Educativo Culturale Professionale, anni 18)
“…avere memoria del passato, riconoscerne la permanenza nel presente e fare tesoro di queste
consapevolezze per la soluzione dei problemi che si incontrano e per la progettazione del
futuro…”

O.G.P.F. (Obiettivi generali del processo formativo)

Gli obiettivi generali del processo formativo o si confrontano nel P.O.F. (piano dell’offerta
formativa), oppure desunti dalle finalità educative della progettazione dell’unità di
apprendimento, in attesa delle Indicazioni Nazionali per il sistema dei licei.

Obiettivo formativo

Conoscere il valore delle norme e dei segni religiosi nell’etica della cittadinanza, facendo sintesi
delle conoscenze del passato e analizzando la situazione sociale presente.

Compito unitario di apprendimento

Saggio: l’allievo argomenta sul valore dell’etica, dimostrando la propria conoscenza storica e

attuale sul discorso della morale, della norma e della religione cattolica a confronto.

Attività

Gli allievi selezionano documenti, articoli e dibattiti sull’etica e sulla morale dei tempi
contemporanei.

Gli allievi ricercano testi storici e filosofici riferiti al discorso religioso nei vari contesti e periodi
storici.

Gli allievi intervistano persone locali sul tema della religione oggi e sul discorso dei valori etici;
l’intervista si avvale di un questionario precedentemente strutturato.

Gli allievi fanno sintesi delle ricerche effettuate ed argomentano sulle conoscenze dell’obiettivo
specifico di apprendimento proposto al gruppo – classe degli alunni di II.

La ricerca effettuata e le riflessioni degli allievi saranno impaginate con gli idonei software
didattici per la pubblicazione di un libello informativo inedito al liceo ed ai genitori.

Tempi

175
Settembre/ottobre, 2007/2008.

Luoghi

Aula scolastica, laboratorio di informatica, biblioteca, caveo dell’istituto.

Valutazione

Standard dell’apprendimento unitario.

L’alunno conosce il significato dell’etica


L’alunno conosce il valore di una comunità
L’alunno conosce la differenza tra etica, morale, norma.
L’alunno riconosce la vita come dono di Dio.
L’alunno è consapevole della necessità dei valori in un sistema di vita comunitaria.
L’alunno è consapevole della necessità del rispetto dei valori per il bene soggettivo.
Conclusione

Il giudizio universale, argomento proprio di Mt 25,31-46, si presenta nella struttura


analogica del racconto, il quale, da una parte, espone, narrando, la vicenda in esso riassunta e,
dall’altra, permette l’inserzione del lettore nella trama narrata. È, quindi, l’identico procedimento
che abitualmente si riscontra nella parabola, la quale, infatti, è definita da Fusco come: «un
racconto fittizio utilizzato in funzione di una strategia dialogico-argomentativa che opera in due
momenti: dapprima sollecitando, in base alla logica interna del racconto, una certa valutazione e
trasferendola, poi, in forza di un’analogia di struttura, alla realtà intesa dal parabolista»379. Si
comprende, allora, come il racconto consente al lettore (ed è anche il caso del racconto della
pericope matteana) di mediare i contenuti della storia della salvezza nella storia presente:
l’argomentazione è posta a servizio della narrazione, affinché si dia un linguaggio capace di
attuare una vera ed autentica mediazione di trascendenza.
Tuttavia, la mediazione narrativa trova una forte agevolazione, per certi versi necessaria,
grazie all’icona che, materializzandosi nella mente del lettore, si va ad intersecare con il racconto
ascoltato. Mt 25,31-46 permette, senza ombra di dubbio, la possibilità di generare un’icona del
giudizio universale, così come avviene nelle parabole, e questo per via del linguaggio
propriamente simbolico. È vero, come ha sottolineato Gourgues, che nel testo matteano vi è
alternanza tra due registri, quello fittizio e quello reale, ma occorre dire anche che sia l’uno che
l’altro non sfuggono da una lettura simbolica, perché pure ciò che c’è di reale nella trama
narrativa si avvale, in sostanza, di un linguaggio analogico. L’icona, in effetti, permette con il
suo simbolismo di trasporre la realtà superando quell’incomunicabilità insita nel Trascendente,
senza, tuttavia, provocare confusione di senso, visto che i significati non vengono ridotti l’uno
all’altro. Evdokimov dice che: «l’icona è la visione delle cose che non si vedono»380 e quella del
giudizio universale ne è un esempio nitido, perché trasgredisce la soglia verso il Mistero per
raggiungerlo nelle forme della prossimità, ma senza annientarlo o banalizzarlo.
A partire da qui, scaturisce spontaneo l’invito ad accostarsi al testo di Mt 25,31-46 con lo
stesso atteggiamento che, solitamente, il lettore è chiamato ad assumere di fronte ad un testo
parabolico: cercare di ascoltare il Verbo della gloria che si è detto nelle parole del tempo, per
poter contemplare la profondità dell’icona che ascende la fragilità umana alla inesauribile e
traboccante Beatitudine eterna.

379
V. FUSCO, «parabola/parabole», 1088.
380
P. EVDOKIMOV, La donna e la salvezza del mondo, Milano 1979, 133.

176
VANGELO SECONDO MARCO

177
XII.
LA PARABOLA DEL SEME (Mc 4,1-20)

Introduzione

“Le parabole di Gesù - nota Jeremias - conducono gli ascoltatori in un mondo loro
familiare, dove tutto è tanto semplice e chiaro, che persino un bimbo può capirle; tanto evidente,
che l’uditore non può che rispondere: Sì, è proprio così”. La parabola del seme in Mc. 4, 1-20 è
la più importante parabola di Gesù, ed è presente in tutti e tre vangeli. Essa è nota per la sua
semplicità e chiarezza e per la ricca introduzione scenica, utilizzando materiale tradizionale di un
ciclo di miracoli e della raccolta premarciana, insieme alle formule di allineamento.
Cercheremo di fare un’analisi letteraria, presentando il contesto nel quale Gesù ha detto tale
parabola, puntualizzando la sua struttura letteraria e facendo un confronto sinottico per
evidenziare le corrispondenze tematiche. Poi sviluppo un percorso esegetico che è ovviamente la
parte più interessante, perché ci permette a capire la parabola nel suo insieme. Alla fine si tenterà
una presentazione dei messaggi teologici della parabola nelle diverse prospettive (cristologiche,
soteriologiche, ecclesiologiche ed escatologiche).

I. Analisi letteraria

La pericope di Mc 4,1-20 rappresenta un rilevante testo del vangelo marciano da diversi


punti di vista. Anzitutto viene presentata la più importante parabola di Gesù, attestata nella
triplice tradizione (Mt 13,1-9; Mc 4,1-9; Lc 8,4-8), la cui valenza teologica rivela la prospettiva
dei singoli vangeli e dei contesti specifici redazionali. Inoltre la parabola del seminatore e la sua
spiegazione (Mt 13,18-23; Mc 4,13-20; Lc 8,11-15) costituiscono uno straordinario messaggio
teologico che inerisce alla persona e alla missione di Cristo (cristologia), al ruolo della Parola di
Dio in ordine alla salvezza (soteriologia) e al destino personale e comunitario dei credenti
(escatologia)381.

I. 1 Il contesto

Marco inserisce questo capitolo dentro la sezione del ministero di guarigione e


predicazione in Galilea. Dunque tutto il quarto capitolo di Marco è una ricomposizione di
insegnamenti di Gesù, focalizzati sul tema del regno di Dio e della sua crescita. Anche se il
ministero di Gesù si svolge prevalentemente a Cafarnao sul mare di Galilea e la scena di questi
detti parabolici ha il suo background sul mare con una barca, sembra che il materiale delle
parabole di Gesù sia stato preso dai villaggi e dalle fattorie della Nazareth collinare dell’epoca
della sua giovinezza. Dunque non c’è alcun dubbio che Gesù storicamente abbia predicato in
parabole382.
Si intravede che nella sezione narrativa di Marco, la parabola del seminatore serve da un
indizio che ci fa intuire ciò che è accaduto nella proclamazione del regno iniziata da Gesù. Infatti
Marco cerca di descrivere il risultato dell’insegnamento di Gesù in mezzo al suo popolo che non
lo comprendeva e non si convertiva.

381
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Brescia 1967; X. LÉON-DUFOUR, Studi sul Vangelo, Milano 1968,
351-418; 516-518; G. DANIELI, «Le sette parabole del regno», ParVit 14 (1969) 16-22; V. FUSCO V., Parola e
Regno. La sezione delle parabole (Mc 4,1-34) nella prospettiva marciana, Brescia 1980; B. ESTRADA-BARBIER, El
sembrador. Perspectivas filològico-hermenéuticas de una paràbola, Salamanca 1994.
382
Cfr. R. E. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 2001, 203.

178
Ugualmente Matteo e Luca collocano questa sequenza parabolica nell’annuncio del
regno, anche se il contesto si differisce leggermente tra di loro. Si pensa che già Marco abbia
avuto a sua disposizione una raccolta di parabole. Un confronto con i passi paralleli di Matteo e
Luca evidenzia che il testo di Marco, grazie ai suoi abbondanti semitismi, è il più fedele e vicino
al racconto originario di Gesù ed essi l’hanno attinto a Marco.

I. 2 La struttura

Mc 4,1-20 si propone come testo tipologico ed esemplare nella prospettiva dello studio
redazionale della tradizione biblica marciana e della valenza narrativa della predicazione di
Gesù383. Tale significato va conferito all'inserzione preziosa quanto complessa di Mc 4,10-12
(Mt 13,10-15; Lc 8,9-10), in cui viene indicato il senso del metodo parabolico e il ruolo
messianico-escatologico della predicazione del Cristo.

I. 2.1 Il testo marciano e la struttura letteraria

Il racconto della parabola del seminatore si inserisce nel più ampio contesto di Mc 4,1-34
che presenta una struttura letteraria così articolata:
Mc 4,1-20: parabola del seminatore, inserzione, spiegazione della parabola;
Mc 4,21-25: parabola della lampada, detto sulla misura del giudizio;
Mc 4,26-29: parabola del seme che cresce nella terra;
Mc 4,30-32: parabola del granellino di senapa;
Mc 4,33-34: conclusione della sezione sulle parabole.

Uno sguardo sintetico all'intero testo consente di valutare l'importanza centrale e


programmatica di Mc 4,1-20 che senz'altro ricopre un posto di rilievo, sia per la completezza
della narrazione, sia perché le altre parabole minori seguenti fanno riferimento a quella del
seminatore, che si collega all'invito programmatico all'ascolto della Parola: «ascoltate...» (v. 3),
verbo di riferimento per l'intera pericope.
Mc 4,1-10 è divisibile in tre sezioni distinte: I) vv. 1-9; II) vv. 10-12; III) vv. 13-20. Procedendo
ad un confronto sinottico delle tre versioni della parabola, si osserva la seguente corrispondenza
tematica:

Mc Mt Lc__________________

vv.1-2 Introduzione vv.1-2 Introduzione v.4


I. vv.3-9 parabola del seminatore vv.3-9 il seminatore vv.5-8 parabola del seme
II. vv.10-13 scopo di parabole vv.10-17 scopo di parabole vv.9-10 scopo delle parabole
III. vv.14-20 spiegazione vv.18-23 spiegazione vv.11-15 spiegazione

Il testo ha una sua ben definita struttura tripartita in tutti e tre i vangeli ed è suddiviso nella (I)
parabola del seminatore, nei (II) motivi del parlare in parabole e nella (III) spiegazione del
racconto. E’ evidente che nella parabola del seminatore i differenti tipi di terreni vengono
enfatizzati come pure in Matteo e Luca. I primi due versetti che evidenziano caratteristiche
tipiche di Marco (i termini tipicamente marciani come pàlin, didàskein, parà ten tàlassan, òklos,
pollà).creano un location all’insegnamento di Gesù, ambientandolo sulla barca nel mare. Anche
Matteo offre la medesima panorama. Invece Luca non inserisce tale collocazione della parabola
del seme, ma mette in evidenza la grande folla.

383
Per il significato e l'uso del genere parabolico, cfr. V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di
Gesù, Roma 1983; H. WEDER, Metafore del regno. Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione, Brescia
1984.

179
Questi due versetti sono verosimilmente un’introduzione quasi redazionale, perché
potrebbe essere una rielaborazione della introduzione tradizionale alla raccolta premarciana delle
parabole che iniziava pressappoco così: ‘Gesù salì sulla barca e sedette, stando in mare, e la
gente sedeva sulla riva. E diceva loro:…’384. La parabola che inizia sostanzialmente dal v. 3-8 (il
quadruplice terreno) non mostra ritocchi marciani. Secondo Weder, i versetti 3-9 potrebbero
essere dello stadio di Gesù385. Il v. 3 contiene un antefatto seguito da tre frasi perfettamente
parallele anche nei particolari, che descrivano l’esito negativo di tre porzioni minori della
semenza. Si può strutturare in seguente modo. Osserviamo le corrispondenze letterarie:

Il «kai» Un pronome Il L’indicazione del


introduttivo singolare verbo luogo
Kai ò cadde sulla via
kai àllo cadde sul suolo roccioso
kai àllo cadde tra le spine

L’esito negativo di tre porzioni della semenza ha una struttura seguente.

Il «kai» Venuta Natura L’effetto


introduttivo del nemico del nemico distruttivo

Kai vennero gli uccelli la divorarono


Kai si alzò il sole fu bruciata
Kai crebbero le spine la soffocarono

Il v. 8 descrive un esito positivo del seme che cade sul terreno buono. Anche qui in
Marco l’ordine delle cifre del rendimento è descritto in modo progressivo ed ascensionale (30,
60, 100) a differenza di Matteo che segue quello regressivo (100, 60, 30). Quale sarebbe il
motivo per cui Matteo capovolge un ordine che corrisponde alla progressione dei diversi
rendimenti? Secondo Léon-Dufour386, questo non è per minimizzare lo scopo ottimistico della
parabola ed indebolire la fiducia che la comunità primitiva attingeva alla parabola originale, ma
potrebbe esserci che Matteo abbia dovuto correggere un testo sgraziato, quindi più antico di
Marco, prescindendo dal significato teologico che per la comunità apostolica avevano l’ordine
crescente delle cifre e le aggiunte che ne sottolineano il valore. Invece Luca menziona soltanto
una cifra del rendimento (100 e non 30, né 60).
Il v. 9 infatti appartiene alla parabola originaria e va di pari passo con l’introduzione originaria
‘ascoltate’, e non è di Marco, che avrebbe costruito piuttosto con la formula ‘ei tis’che ricorre
spesso in Marco387. Anche Dufour è pienamente d’accordo con Weder e ritiene che l’inciso del
v.9: “e diceva loro” significa dal punto di vista letterario che l’ammonizione seguente è una
aggiunta388. Il v. 10 dà un’impressione di una tradizione transizionale tra parabola e spiegazione.
Dunque non evidenzia alcuna sfumatura tipicamente marciana. Anche la formula introduttiva al
v. 11 non è necessariamente marciana, ma era stata inserita tra la parabola e la spiegazione già
prima di Marco. Il v. 13a e il v. 13b non possono appartenere allo stesso livello di tradizione,
perché nel v. 13a ‘questa parabola’ in singolare si riferisce ai vv. 3-9, mentre nel v. 13b le
parabole in plurale presuppone già la generalizzazione dei vv. 10.12. quindi il v.13a appartiene
alla vecchia transizione tra parabola e spiegazione, mentre il v.13b fu inserito più tardi da Marco

384
Cfr. H. WEDER, 128.
385
Cfr. IDEM, 136.
386
Cfr. X. LÈON-DUFOUR, Studi sul Vangelo, Milano 1968, 372.
387
Cfr. H. WEDER, 130.
388
Cfr. X. LÈON-DUFOUR, 372.

180
stesso389. Invece la spiegazione della parabola dal v. 14-20 sicuramente non poteva attribuirsi a
Gesù390. In modo particolare, Jeremias esamina i motivi per poter arrivare alla conclusione che è
alla chiesa primitiva che dobbiamo attribuire la spiegazione della parabola del seminatore.
Richiamiamo i seguenti motivi: il termine ‘ho logos’, utilizzato per indicare il vangelo, quindi la
parola, compare soltanto nella spiegazione della parabola. E si tratta di un termine tecnico dei
tempi apostolici, che si trova nei passi neotestamentari At 8, 4; 2Tim 4, 2; 1Tess 1, 13; At 17, 11;
e che significa la Parola che viene annunciata ed accolta. Questa spiegazione della parabola
contiene molte parole sconosciute dai sinottici, ma sono frequenti nella letteratura del NT,
particolarmente in Paolo: speìrein nel senso di annunciare; rìza, saldezza interiore; pròskairos,
ellenismo che non ha un corrispondente in aramaico. Alla fine, questa applicazione della
seminagione all’annuncio della Parola non corrisponde all’uso di Gesù che paragona di
preferenza la venuta del Regno all’ammasso del raccolto. Dunque molti esegeti, a questo
proposito, concordano con la linea di Jeremias391.

I. 3 Il testo sinottico

Mc 4,1-20 Mt 13,1-9.10-15.18-23 Lc 8,4-15

4,1 Di nuovo si mise a 13,1 Quel giorno Gesù uscì 4 Poiché una gran folla si
insegnare lungo il mare. E si di casa e si sedette in riva al radunava e accorreva a lui
riunì attorno a lui una folla mare. 2 Si cominciò a gente da ogni città, disse con
enorme, tanto che egli salì su raccogliere attorno a lui tanta 5
una barca e là restò seduto, una parabola: «Il
folla che dovette salire su una seminatore uscì a seminare la
stando in mare, mentre la folla barca e là porsi a sedere, sua semente. Mentre
era a terra lungo la riva. 2 mentre tutta la folla rimaneva seminava, parte cadde lungo
Insegnava loro molte cose in sulla spiaggia. 3 Egli parlò la strada e fu calpestata, e gli
parabole e diceva loro nel suo loro di molte cose in uccelli del cielo la
insegnamento: 3 «Ascoltate. parabole. divorarono. 6 Un'altra parte
Ecco, uscì il seminatore a E disse: «Ecco, il seminatore cadde sulla pietra e appena
seminare. 4 Mentre seminava, uscì a seminare. 4 E mentre germogliata inaridì per
una parte cadde lungo la strada seminava una parte del seme mancanza di umidità. 7
e vennero gli uccelli e la cadde sulla strada e vennero Un'altra cadde in mezzo alle
divorarono. 5 Un'altra cadde gli uccelli e la divorarono. 5 spine e le spine, cresciute
fra i sassi, dove non c'era molta Un'altra parte cadde in luogo insieme con essa, la
terra, e subito spuntò perché sassoso, dove non c'era molta 8
soffocarono. Un'altra cadde
non c'era un terreno profondo; terra; subito germogliò, sulla terra buona, germogliò
6 ma quando si levò il sole, perché il terreno non era e fruttò cento volte tanto».
restò bruciata e, non avendo profondo. 6 Ma, spuntato il Detto questo, esclamò: «Chi
radice, si seccò. 7 Un'altra sole, restò bruciata e non ha orecchi per intendere,
cadde tra le spine; le spine avendo radici si seccò. 7 intenda!».
crebbero, la soffocarono e non Un'altra parte cadde sulle
diede frutto. 8 E un'altra cadde spine e le spine crebbero e la
sulla terra buona, diede frutto soffocarono. 8 Un'altra parte
che venne su e crebbe, e rese cadde sulla terra buona e
ora il trenta, ora il sessanta e diede frutto, dove il cento,
ora il cento per uno». 9 E dove il sessanta, dove il
diceva: «Chi ha orecchi per trenta. 9 Chi ha orecchi
intendere intenda!». intenda».

389
Cfr. H. WEDER, 131; Schweizer invece considera marciano tutto intero v. 13, perchè Mc. Mette in risalto
l’intelligenza da parte di tutti.
390
Cfr. H. WEDER, 131.
391
Cfr. X. LÈON-DUFOUR, 396.

181
10 Quando poi fu solo, i suoi 10 Gli si avvicinarono allora i 9 I suoi discepoli lo
insieme ai Dodici lo discepoli e gli dissero: «Perché interrogarono sul significato
interrogavano sulle parabole. parli loro in parabole?». 11 Egli della parabola. 10 Ed egli
Ed egli disse loro: 11 «A voi è rispose: «Perché a voi è dato di disse: «A voi è dato
stato confidato il mistero del conoscere i misteri del regno dei conoscere i misteri del regno
regno di Dio; a quelli di fuori cieli, ma a loro non è dato. 12 di Dio, ma agli altri solo in
invece tutto viene esposto in Così a chi ha sarà dato e sarà parabole, perché vedendo
parabole, 12 perché: guardino, nell'abbondanza; e a chi non ha non vedano e udendo non
intendano.
ma non vedano, ascoltino, ma sarà tolto anche quello che ha. 13
non intendano, perché non si 11 Il significato della
Per questo parlo loro in parabole:
convertano e venga loro perché pur vedendo non vedono, parabola è questo: Il seme è
perdonato». e pur udendo non odono e non la parola di Dio. 12 I semi
13 Continuò dicendo loro: «Se
comprendono. 14 E così si caduti lungo la strada sono
non comprendete questa adempie per loro la profezia di coloro che l'hanno ascoltata,
parabola, come potrete capire Isaia che dice: ma poi viene il diavolo e
tutte le altre parabole? 14 Il Voi udrete, ma non porta via la parola dai loro
seminatore semina la parola. comprenderete, guarderete, ma cuori, perché non credano e
15 Quelli lungo la strada sono non vedrete. 15 Perché il cuore così siano salvati. 13 Quelli
coloro nei quali viene di questo popolo si è indurito, sulla pietra sono coloro che,
seminata la parola; ma quando son diventati duri di orecchi, e quando ascoltano, accolgono
l'ascoltano, subito viene hanno chiuso gli occhi, per non con gioia la parola, ma non
satana, e porta via la parola vedere con gli occhi, non sentire hanno radice; credono per un
16 con gli orecchi e non intendere certo tempo, ma nell'ora della
seminata in loro.
Similmente quelli che con il cuore e convertirsi, e io li tentazione vengono meno. 14
ricevono il seme sulle pietre risani. Il seme caduto in mezzo alle
sono coloro che, quando 18 Voi dunque intendete la spine sono coloro che, dopo
ascoltano la parola, subito aver ascoltato, strada facendo
parabola del seminatore: 19 tutte
si lasciano sopraffare dalle
l'accolgono con gioia, 17 ma le volte che uno ascolta la parola
preoccupazioni, dalla
non hanno radice in se stessi, del regno e non la comprende,
sono incostanti e quindi, al viene il maligno e ruba ciò che è ricchezza e dai piaceri
sopraggiungere di qualche stato seminato nel suo cuore: della vita e non giungono a
tribolazione o persecuzione a questo è il seme seminato lungo maturazione. 15 Il seme
causa della parola, subito si la strada. 20 Quello che è stato caduto sulla terra buona
abbattono. 18 Altri sono quelli seminato nel terreno sassoso è sono coloro che, dopo aver
che ricevono il seme tra le l'uomo che ascolta la parola e ascoltato la parola con
spine: sono coloro che hanno subito l'accoglie con gioia, 21 cuore buono e perfetto, la
ascoltato la parola, 19 ma ma non ha radice in sé ed è custodiscono e producono
sopraggiungono le incostante, sicché appena giunge frutto con la loro
preoccupazioni del mondo e una tribolazione o persecuzione a perseveranza.
l'inganno della ricchezza e causa della parola, egli ne resta
tutte le altre bramosie, scandalizzato. 22 Quello
soffocano la parola e questa seminato tra le spine è colui che
rimane senza frutto. 20 Quelli ascolta la parola, ma la
poi che ricevono il seme su un preoccupazione del mondo e
terreno buono, sono coloro l'inganno della ricchezza
che ascoltano la parola, soffocano la parola ed essa non
l'accolgono e portano frutto dà frutto. 23 Quello seminato
nella misura chi del trenta, chi nella terra buona è colui che
del sessanta, chi del cento per ascolta la parola e la comprende;
uno». questi dà frutto e produce ora il
cento, ora il sessanta, ora il
trenta».

182
I. 4 Analisi esegetica392

vv. 1-2:
“Di nuovo si mise a insegnare lungo il mare. E si riunì attorno a lui una folla enorme, tanto che
egli salì su una barca e là restò seduto, stando in mare, mentre la folla era a terra lungo la riva.
Insegnava loro molte cose in parabole e diceva loro nel suo insegnamento…”

In questa introduzione alla sezione parabolica, vengono presentati il quadro ambientale, cioè il
lago di Galilea dove Gesù insegna spesso-viene indicato da kai palin (Mc 2,13; 3,7-9; 5,21).
Questo ‘di nuovo’ implica anche il fatto che Gesù, dopo la chiamata dei Dodici e il rifiuto da
parte degli scribi e farisei, riprende con entusiasmo e tenacia la sua missione d’annuncio. E’
interessante notare i personaggi nella scena: Gesù ed una gran folla. E’ la prima volta che il
termine ochlos (folla) è affiancato dall’aggettivo pleitos (numerosa) che evidenzia una
moltitudine straordinaria che crea tale necessità di farlo salire sulla barca. Come pensa Grasso,
tale folla numerosa qualifica anche l’importanza del primo discorso riportato nel vangelo di
Marco e il progressivo aumento del consenso che Gesù riscontra presso la gente.

vv. 3:
“Ascoltate. Ecco, uscì il seminatore a seminare..”

L’invito all’ascolto, che riappare nella conclusione della parabola (v. 9), indica l’importanza
dell’insegnamento di Gesù. Anche sembra un richiamo allo shemà : “Ascolta, Israele” (Dt 6,4-9).
Questo significa che non basta un semplice ascolto superficiale della Parola, ma è indispensabile
un’accoglienza profonda con piena adesione di fede al messaggio di Gesù, perché si tratta della
Parola definitiva di Dio per la salvezza.

vv. 4-7:
“Mentre seminava, una parte cadde lungo la strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un'altra
cadde fra i sassi, dove non c'era molta terra, e subito spuntò perché non c'era un terreno
profondo; ma quando si levò il sole, restò bruciata e, non avendo radice, si seccò. Un'altra cadde
tra le spine; le spine crebbero, la soffocarono e non diede frutto.”

Colui che semina (contadino) non si preoccupa per niente dei terreni sui quali cade il seme.
Questo sembra davvero un comportamento strano, perché di solito un agricoltore cerca di far
rendere al massimo il suo terreno. Dunque questa caratteristica apparentemente rimane una
contraddizione della parabola, ma non lo è. Perché ha un effetto narrativo molto importante
all’interno del racconto parabolico, cioè la seminagione avviene ovunque e in maniera
indiscriminata. Si nota che qui la figura del seminatore scompare e si concentra sui diversi tipi di
terreni nei quali cade il seme. E’ importante vedere la presenza degli agenti esterni che
negativamente influiscono i terreni. Quindi è chiaro che il fallimento della produzione è dovuto
non solo dal tipo di terreni (strada, sassi, poca terra), ma anche a causa degli agenti esterni come
gli uccelli, il sole e le spine che impediscono la crescita del seme. Infatti, l’accentuato fallimento
della produzione fa pensare delle esperienze di insuccesso e di crisi dell’annunzio di Gesù a
partire dalla contrapposizione della famiglia e degli scribi e dalle cinque dispute galilaiche (Mc
2,1-3,6).

v. 8:
“E un'altra cadde sulla terra buona, diede frutto che venne su e crebbe, e rese ora il trenta, ora il
sessanta e ora il cento per uno”

392
Cfr. S. GRASSO, Vangelo di Marco, Milano 2003, 130-139.

183
Al contrario dei terreni improduttivi, qui invece appare un terreno buono e fertile, la cui
produzione è il 30, 60, 100. Qui il seme produce frutto esclusivamente per la qualità della terra.
Questa immagine del frutto descrive l’adesione e l’accoglienza dell’azione di Dio, che si
traducono nella fede attiva e perseverante. E’ interessante vedere una tensione tra il momento
della semina e il momento del raccolto, che si culmina nel fatto che la produzione abbondante
ottenuta alla fine fa dimenticare la perdita del seme che cade sui terreni sterili. Anche se nei
confronti di Gesù si vede un rifiuto e un fallimento, ma l’esercizio della sua attività pubblica
provoca entusiasmo e adesione.

v. 9:
“E diceva: «Chi ha orecchi per intendere intenda!”

Questo appello ‘òs echei òta àkoùein, àkouèto’ è molto forte per il suo verbo raddoppiato. Tale
formula appellativa ricorre spesso nella letteratura cristiana canonica ed extracanonica (Mc4,23;
Mt11,15; Lc14,35; Ap2,7.11.19; nel vangelo di Tommaso ricorre 6 volte). Sembra che in questo
versetto, si tratta semplicemente di un’esortazione a capire il messaggio della parabola. Ma c’è
qualcosa di più. Il rifiuto dei primi tre suoli e l’accoglienza del terreno buono corrispondono
rispettivamente a situazioni di non ascolto e di ascolto. Come afferma Fusco, il senso
fondamentale di tale appello non è parenetico, cioè di obbedire ed operare, ma è un appello
noetico, cioè di riflettere, a fare attenzione a comprendere393.

v.10:
“Quando poi fu solo, i suoi insieme ai Dodici lo interrogavano sulle parabole. Ed egli disse loro”

Qui il quadro ambientale in cui Gesù racconta le parabole cambia dalla barca nel lago con la
folla sulla spiaggia, ad un ritirarsi in privato con i suoi discepoli. Infatti il termine kata monas (in
privato) appare solo qui in Marco a differenza di kat’idian (in disparte) che invece ricorre spesso
(Mc4,34; 6,31; 13,3). Con Gesù rimangono ‘quelli che erano intorno’. Il termine hoi peri auton
corrisponde a coloro che si sono riuniti presso di lui per ascoltare la parola, e sono identificati da
lui come quelli che compiono la volontà di Dio e per questo motivo hanno stabilito un rapporto
familiare con lui, di cui fa parte anche il gruppo dei discepoli. E’ interessante notare nella
domanda sul significato delle parabole l’uso plurale di parabole, mentre Gesù finora ne ha
raccontato una sola. Questo potrebbe essere un indizio che Marco riporti soltanto alcuni racconti
scelti nella sezione parabolica. Poi a differenza di Marco e Luca, nel vangelo di Matteo i
discepoli domandano la ragione per cui Gesù parla in parabole.

v.11:
“A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio; a quelli di fuori invece tutto viene esposto in
parabole”

La riposta di Gesù si è svolta al gruppo di quelli che erano intorno a lui e il mistero del regno di
Dio è concesso a questi. Il verbo didòmi (dare), qui utilizzato al perfetto passivo dèdotai, indica
due cose che l’azione ha come soggetto Dio, l’autore della rivelazione e che questa azione è
avvenuta nel passato con un’inferenza nel presente. Poi Marco, a differenza di Matteo e Luca,
usa il termine mysterion al singolare, il quale termine è per indicare il progetto di Dio sulla
storia, come traduce l’ebraico ràz. Il mistero del regno è il progetto di Dio nascosto che ora è
rivelato in Gesù. L’espressione ‘ekeinois dè tois ex ò’ («quelli di fuori») in Marco appare solo
qui e quelli di fuori sono coloro che si oppongono alla sua missione e non capiscono la sua
parola, e nel linguaggio paolino sono i non credenti. Essi sono come i terreni fruttuosi della
parabola.

393
Cfr. V. FUSCO, Parola e Regno, 156.

184
v. 12:
“perché:guardino, ma non vedano, ascoltino, ma non intendano, perché non si convertano e
venga loro perdonato”

Il testo ripreso dal racconto di vocazione del profeta Isaia (Is 6,9-10) che mette in evidenza la
durezza del cuore degli israeliti e che la interpreta teologicamente come lo scandalo
dell’incredulità da parte del popolo nei confronti di Dio, qui in Marco serve a mettere in
evidenza la mancanza di adesione alla parola di Gesù.

v.13:
“Continuò dicendo loro: «Se non comprendete questa parabola, come potrete capire tutte le altre
parabole?”

Qui è chiaro che anche quelli che erano intorno a lui vengono rimproverati dalla domanda di
Gesù per il loro fraintendimento che è una caratteristica dei discepoli, ricorrente nel vangelo di
Marco (Mc 6,52; 7,18; 8,14-21). La incomprensione non è relativa tanto al significato della
parabola, quanto al loro senso in rapporto al ministero di Gesù. Tuttavia quelli che erano intorno
a lui poi comprenderanno la parabola non per il loro merito o intelligenza, ma grazie al rapporto
stretto con Gesù.

v.14:
“Il seminatore semina la parola”

Questo versetto ripresenta la figura del seminatore che adesso non semina più il seme come nella
parabola, ma la parola. Il termine lògon ‘parola’ appare 8 volte nella spiegazione della parabola.
Si nota che il seme è allegorizzato, come osserva Grasso394, ma la figura del seminatore non è
fatta corrispondere ad alcun personaggio o situazione reale. Si può capire dall’intero racconto
che la parola è quella di Dio, e si è manifestata nella missione di Gesù, ma continua ad essere
annunciata e diffusa in abbondanza nella storia dalla comunità in missione. Non a caso l’uso del
tempo presente del verbo speìrei (semina) sta proprio per conferire il senso dell’attualità e della
continuità dell’azione.

v.15:
“Quelli lungo la strada sono coloro nei quali viene seminata la parola; ma quando l'ascoltano,
subito viene satana, e porta via la parola seminata in loro”

All’inizio del versetto, il pronome ‘quelli’ fa pensare che l’immagine sulla quale si costruisce,
sia quella dei semi, ma alla fine del versetto, ‘la parola seminata in loro’ farebbe pensare che
l’immagine sulla quale si costruisce l’allegoria è il terreno. Qui la parola seminata viene
eliminata dall’azione di satana quale figura compare fin dall’inizio nel racconto marciano. Il
verbo ‘seminare’ alla forma medio passiva ha una funzione di non menzionare il soggetto
dell’azione che per un lettore attuale è identificabile con l’azione della chiesa. L’agente del male
satana, approfittando della precarietà della parola ancora soltanto ascoltata e non interiorizzata,
riesce con violenza ad eliminarla sia durante la missione di Gesù che nella vita futura della
comunità cristiana.

vv.16-17: “Similmente quelli che ricevono il seme sulle pietre sono coloro che, quando ascoltano
la parola, subito l'accolgono con gioia, ma non hanno radice in se stessi, sono incostanti e quindi,

394
Cfr. S. GRASSO, Vangelo di Marco, 137.

185
al sopraggiungere di qualche tribolazione o persecuzione a causa della parola, subito si
abbattono”

Questi versetti presentano un inizio di grande auspicio, ma subito dopo si presenta il momento
critico, causato dall’instabilità dell’accoglienza che è descritta dall’immagine della pianta che
non riesce ad avere radici. Il seme che cadde nel terreno sassoso corrisponde a coloro che
ascoltano la parola e la accolgono con gioia, ma poi sono incostanti e si abbattono. Questa
situazione è provocata da una duplice condizione, cioé l’avversità e persecuzioni che sono
sempre presenti nella vita della comunità che aderisce al vangelo.

vv.18-19:
“Altri sono quelli che ricevono il seme tra le spine: sono coloro che hanno ascoltato la parola,
ma sopraggiungono le preoccupazioni del mondo e l'inganno della ricchezza e tutte le altre
bramosie, soffocano la parola e questa rimane senza frutto”

C’è presente una terza situazione negativa rappresentata dal seme che cadde tra le spine. Questa
porzione di seme corrisponde a coloro che ascoltano la parola, ma sono troppo coinvolti ed
impegnati nelle occupazioni mondane e sono ostacolati nella sequela dall’accecamento della
ricchezza e dalle inquietudini d’ogni tipo. Il tema della ricchezza ricorre all’interno dei vangeli
sinottici. Dunque l’attaccamento ai beni materiali è segno d’inconsistenza da parte dei discepoli
di Gesù nei confronti della realtà. A questa situazione, tipologicamente si può richiamare il
giovane ricco (Mc 10,17-22) che, nonostante l’iniziale slancio della sua disponibilità nella
sequela di Gesù, se ne va triste dopo la richiesta radicale di abbandonare i suoi tutti beni e di
seguirlo. Da questo è chiaro che la ricchezza, in particolare attaccamento a quella, provoca
disinteresse ed indifferenza nei confronti della chiamata di Gesù.

v. 20:
“Quelli poi che ricevono il seme su un terreno buono, sono coloro che ascoltano la parola,
l'accolgono e portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno”

Nella spiegazione della parabola, questo ultimo versetto viene descritto come l’esito positivo
della semina. Lo stadio dell’ascolto della parola viene seguito da quelli dell’accogliere la parola
e del portare frutto, i quali avvengono in una successione nel tempo. L’esito fruttuoso è indicato
attraverso una cifra di tre percentuali in ordine crescente, a differenza di Matteo e Luca. E’
importante notare come la perdita risultata nei tre tipi di terreno infruttuoso è abbondantemente
compensata dall’immenso successo nel terreno buono con una resa diversificata. E allora il vero
ascolto della parola significa mettere in atto un processo non solo di comprensione intellettuale,
ma di interiorizzazione. Solo cosi l’ascolto della parola non sia mera audizione esterna, ma
accoglienza profonda della parola.

II. Prospettive teologiche

II.1 La parabola del seminatore e il suo simbolismo biblico

La tradizione biblica presenta volentieri il piano della salvezza attraverso il divenire della
natura; così seminagione, crescita, frutti e messi, hanno acquisito un valore simbolico
particolare. A differenza del tema della messe, quello di Dio-seminatore è poco sviluppato nella
Bibbia18. Senza dubbio il racconto della creazione permette di concludere che Dio ha deposto
nelle sue creature dei semi che portano in se stessi una propria legge di sviluppo e di riprodu-

18
Cfr. J. DUPONT , Bibbia e Oriente, 23.

186
zione. Ma il Creatore non è presentato sotto forma di seminatore che in un contesto
escatologico19. Dio seminerà per sé un popolo (Os 2,25). Un'altra profezia riguarda il Messia,
Germe inviato da Dio per incontrare la Terra (Zc 6,12-13).
Basandoci su queste rare menzioni di Dio-seminatore, si può pensare che l'atto di Dio
miri ad un rinnovamento escatologico del mondo; seminando, Egli, inaugura una nuova
creazione. In che cosa consiste l'originalità di Gesù? La si concepisce quando ci si ricorda
dell'importanza quasi esclusiva data dalla Bibbia alla messe. Gesù ha attirato sull'immagine del
seminatore l'intervento divino che la Bibbia fissava al tempo della messe. Egli concentra
l'interesse su ciò che precede l'avvenimento del raccolto finale.
Quando Dio viene a seminare è segno che sopraggiunge la fine dei tempi: il gesto del
seminatore inaugura i tempi escatologici. Egli ha trovato il terreno buono che accoglierà il
Germe, e mediante questa unione feconda produrrà dei frutti. Se non cade nella terra, il Germe
non porterà frutto (Gv 12,24). Senza la venuta di questo germe, però, senza il seme che il
seminatore vi getta, la terra rimarrà senza frutto.
Questa osservazione è capitale per l'intelligenza della parabola del seminatore. Troppo
spesso, infatti, la si interpreta come semplice annuncio di una legge dell'esistenza cristiana; in
realtà Gesù annuncia un avvenimento escatologico: gli ultimi tempi sono inaugurati, è avvenuto
l'incontro tra il Germe e la Terra, il problema che ormai importa non è più di spiare i segni
precursori del Regno di Dio: esso è già presente; non è più di affrettare i tempi del raccolto:
questo verrà più tardi, ciò riguarda Dio. Quel che importa è di essere un terreno fecondo che,
accogliendo la semente che viene sparsa, le fa portare frutto. La fruttificazione è, infatti, il
secondo tema biblico importante di questa parabola (kaì edídou karpòn anabaínonta kaì
auxanómena) (v. 8).
Il tema della fruttificazione è spesso legato a quello del raccolto; Gesù stesso conosce
questa tradizione. Anche per lui occorre far fruttare i talenti fino al suo ritorno (Lc 19,13); il
Signore aspetta dei frutti dalla Sua vigna (Mt 21,34); il fico sterile non può occupare il terreno
(Lc 13,6-9). Questo è il risultato normale della cooperazione tra Dio e la sua creatura. Dio, certo,
guida la crescita, ma la semente cresce e porta frutto spontaneamente, “automaticamente”, non
per l'attività dell'uomo ma per il fatto di essere stata gettata nella terra.
Ora, nella parabola del seminatore, Gesù non connette il dovere di portare frutto col
raccolto finale, ma con la seminagione che ha avuto luogo. Gesù, quindi, non insiste sull'obbligo
del rendimento e sulla responsabilità del lavoro. Egli manifesta che solo il terreno buono, e in
grado diverso, ottiene il risultato che si è in diritto di attendersi quando la semente vi è deposta.
La parabola annuncia un avvenimento, l'incontro di questo Germe e la Terra. Essa mette in
rilievo l'immediata conseguenza di tale avvenimento: il dovere di essere un terreno buono.
Gesù annuncia che il tempo del Regno è inaugurato e il fatto che Egli omette l'immagine
del raccolto è per significare che la fine non è ancora giunta. Le due dimensioni del Suo racconto
sono presenti: il Regno è presente e non è ancora presente. È presente nella Sua persona, non è
ancora presente nel giorno della mietitura. Se a volte il Regno di Dio è colto attraverso alcuni
suoi gesti, come gli esorcismi e i miracoli, esso non si manifesta quale lo si attendeva: la persona
di Gesù, ora, è oggetto di scandalo: «Chi è dunque costui?» (Lc 7,23)21.
I discepoli si interrogano sulla vera identità del loro Maestro e la loro domanda non è un
artificio linguistico come se, in fondo, essi lo sapessero già; non sanno, non capiscono. È in
questa atmosfera tesa che Gesù, ricapitolando la sua storia, come facesse un bilancio, illumina la
figura del seminatore sull'orizzonte di un campo in parte sterile.
Da questi dati del contesto biografico della parabola del seminatore, risulta che essa non
può collocarsi né all'inizio né alla fine del ministero di Gesù. Infatti, essa suppone che il
messaggio di Cristo abbia già incontrato delle difficoltà, degli errori di interpretazione, ma che la
rottura completa non sia ancora avvenuta: vi è ancora una speranza di conversione dei migliori22.

19
Cfr. IBIDEM.
21
Cfr. J. DUPONT, Bibbia e Oriente, 28.
22
Cfr. IDEM, 30-31.

187
II.2 Aspetti teologici principali

Dall'analisi condotta è emerso un quadro armonico delle problematiche riguardanti questa


singolare sezione del secondo vangelo. In sintesi è possibile enucleare seguenti punti:
1. La narrazione della parabola del seminatore secondo Marco possiede una
notevole serie di aspetti peculiari che si differenziano, sia per contesto che per prospettive
letterarie e teologiche, dai paralleli di Mt e Lc. Il racconto marciano evidenzia una sostanziale
coerenza con l'intera inquadratura teologica del secondo vangelo, centrata sul mistero della
salvezza, che richiama i temi della fede e del Regno di Dio. La parabola del seminatore
accompagnata dalla spiegazione è, inoltre, inclusa nella sezione di altre parabole non
accompagnate dalla spiegazione (vv.21-34): si comprende bene come la centralità della Parola
che è presentata come “seme” illumina e sorregge le altre parabole del Regno.
2. L'analisi teologica lascia emergere ulteriori dimensioni dal testo parabolico. In
primo luogo si deve riconoscere una dimensione kerygmatica della parabola, la quale possiede
come centro vitale il tema dell'annuncio della Parola, che è protagonista del Regno (vv.
14.15.16.17.19.20). È a partire dalla Parola di Cristo che il Regno di Dio può fare il suo ingresso
nella storia dell'uomo. Il destino del seme è condiviso dalla fede degli uditori, i quali colgono
l'importanza dell'annuncio del vangelo e il ruolo kerygmatico fondamentale affidato alla
comunità cristiana.
3. Un ulteriore aspetto tocca la dimensione ecclesiologica della parabola, che
sottoliena il valore della fede comunitaria, posta di fronte al rifiuto del vangelo (probabile
riferimento al contesto d'Israele). La chiesa ha motivo di esistere solo nella condizione di poter
accogliere la Parola. La comunità potrà portare frutto unicamente nell'immagine del terreno
libero e disponibile a che il seme vi sia posto in profondità. La profondità della fede, la
disponibilità dell'accoglienza, l'apertura al mistero diventano condizione di vita e di progresso
della comunità.

4. Occorre aggiungere agli elementi evidenziati l'aspetto escatologico. Infatti la


parabola presenta alcune connessioni escatologiche che indicano come l'annuncio della Parola
costituisca il kairos escatologico per i credenti: la pienezza del tempo è oramai giunta (Mc 1,14-
15) e la parola diventa seme che porterà il frutto definitivo, sulla base del quale si realizzerà il
giudizio finale. Così la predicazione cristiana rappresenta il tempo dell'ultimo e definitivo
appello al Regno, inaugurato con la morte e la risurrezione di Cristo, in attesa della sua venuta.
5. Le linee teologiche presentare compongono un quadro armonico della ricchezza
contenuta nella parabola, che evidenzia e ripropone le stesse traiettorie dell'opera marciana: a) la
priorità del vangelo come prospettiva dell'annuncio della Parola rivolta a tutti gli uomini; b) la
finalità del Regno, intesa come misteriosa tensione tra fede e paradosso, rivelazione e nascondi-
mento a cui ciascun credente non può sottrarsi; c) la metafora della morte del seme, che porta
frutto nella terra buona indica il mistero cristologico della croce e della risurrezione, centro
dell'economia marciana; d) il processo di conversione insito nel racconto, che chiede a ciascun
fedele di riscoprire la propria genuinità e di liberare la propria esistenza dai vincoli e dalle
schiavitù che si oppongono alla fede e ostacolano la sequela di Cristo.
La comunità marciana viene chiamata a ripensare la propria situazione alla luce della
Parola di salvezza, nella stessa triplice prospettiva indicata dalla parabola: la priorità
kerygmatica, la condizione ecclesiologica, l'attesa escatologica.
In questa prospettiva Mc 4,1-20 segna certamente un'importante chiave ermeneutica per
valutare non soltanto l'importanza della parabola in sé, ma ancor il messaggio con il quale
l'evangelista intende raggiungere i suoi interlocutori, nel difficile contesto storico del suo tempo.

II.3 Risonanze pastorali

188
Viviamo in un mondo dove prevalgono le novità tecnologiche, scientifiche e commerciali
che imprigionano ormai tutti senza discriminazione di fedeli cristiani o meno, facendoli
consumatori avidi ed insaziabili del tempo. Ecco perché per noi cristiani manca il tempo per
trovare Dio che è la Parola vivente. Ecco perché siamo nella perdita della dimensione
contemplativa della vita. Quindi esige più che mai un ascolto attento, assiduo e contemplante
della Parola che va trasmesso e incoraggiato anche attraverso la diffusione e la conoscenza della
Bibbia. Il seme – la Parola va dovunque seminato, perché possa essere accolta da tutti. Non solo
i ministri della Parola, ma tutti cristiani hanno ontologicamente il compito e la responsabilità di
mediare la forza di questa Parola per far sì che dal semplice ascolto si arrivi a un incontro vitale
con essa, il quale porterebbe un abbondante frutto. Dall’altro canto non ci deve scoraggiarsi
dall’infruttuosità e dalle delusioni nell’impegno della Parola salvifica.
Come si può fare questo impegno evangelico in modo concreto?. Dunque, bisogna ancora
più incentivare, arricchire e diffondere maggiormente l’esperienza dei Centri di ascolto, momenti
di Lectio nella scrittura, con l’aiuto dei vari settori operanti nella diocesi. Questo è l’impegno
decisivo e la fatica che, come comunità cristiana dobbiamo privilegiare e perseguire per
seminare la Parola ancora e nuovamente senza stancarci in un contesto segnato dall’indifferenza
religiosa, dall’adesione privata e parziale al messaggio cristiano.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la progettazione di unità di apprendimento per i piani personalizzati delle


attività della scuola dell’infanzia.

Scuola dell’infanzia ( bambini di quattro e cinque anni)

Bisogno formativo

Conoscere la narrazione di Gesù e il significato della “Parola”

Obiettivo specifico di apprendimento ( O.S.A. I.R.C. scuola dell’infanzia)

Osservare il mondo che viene riconosciuto dai cristiani e da tanti uomini religiosi dono di Dio
creatore.

Competenze attese (Dal P.E.CU.P., Profilo educativo culturale professionale 6 – 14)

Il bambino “…avverte interiormente, …la differenza tra bene e male ed è in grado di


orientarsi…nelle scelte di vita e nei comportamenti sociali…”

“…comprende se stesso, si vede in relazione con gli altri…conosce la realtà e ne coglie le


differenze…rispetta l’ambiente e lo conserva…”

Apprendimento unitario

Il bambino:

ü Riconosce la vita nella complessità del creato.

189
ü Apprezza e rispetta ogni creatura di Dio creatore.
ü Riconosce nella “Parola” di Gesù il legame di fede.

Obiettivo formativo

Accogliere la parola di Gesù, riconoscendo la vita in ogni aspetto del mondo naturale,
rispettando tutte le creature di Dio (piante, animali), soprattutto i bambini, i ragazzi, i giovani, i
grandi e i nonni di tutto il mondo.

Attività

- Negli spazi idonei della scuola, giocare alla scoperta delle somiglianze e differenze tra pari e
adulti.

- L’insegnante registra le differenze emerse dal gioco.

- I bambini, seduti sul tappeto, ascoltano la narrazione dell’insegnante della “parabola del
seme”

- I bambini simulano il momento della semina con attività ludica.

- L’insegnante spiega la parabola.

- I bambini memorizzano la poesia “Il seme”.

- Fuori, in giardino, i bambini giocano alla scoperta degli esseri viventi e della loro grande utilità
per l’uomo e la natura stessa.

- L’insegnante osserva e valuta l’apprendimento unitario.

- I bambini in aula realizzano lavori di laboratorio scientifico in base alle loro conoscenze ed
abilità (semina delle lenticchie su cotone idrofilo umido).

Ologramma

Obiettivo formativo:

Accogliere la parola di Gesù, riconoscendo la vita in ogni aspetto del mondo naturale,
rispettando tutte le creature di Dio (piante, animali), soprattutto i bambini, i ragazzi, i giovani, i
grandi e i nonni di tutto il mondo.

Il sé e l’altro Rafforzare l’autonomia , la stima di sé,


l’identità.

190
Fruizione e produzione di messaggi Parlare, descrivere, raccontare, dialogare con i
grandi e con i coetanei.

Corpo, movimento, salute Controllare l’affettività e le emozioni in


maniera adeguata all’età.

Esplorare, conoscere e progettare Localizzare e collocare se stesso in situazioni


spaziali.

Conclusione

Come la luce è unica, ma produce colori vari, bianco, rosso, giallo, verde, ecc. a seconda
della costituzione delle cose sulle quali proietta il suo raggio, cosi la Parola di Dio è sempre viva
ed efficace, ma produce effetti e frutti diversi, a seconda dei cuori sui quali cade. La parabola del
seme pone in risalto una verità importante che la Parola di Dio è sempre efficace in se stessa;
l’uomo tuttavia può resisterle con la sua libertà e renderla infruttuosa. Ecco il mistero del
rapporto tra grazia e libero arbitrio, tra onnipotenza di Dio e libertà dell’uomo. E’ chiaro che la
Parola seminata di cui tratta il racconto è la parola del Gesù storico ed insieme quella annunciata
nell’ambito della chiesa postpasquale. Dunque Marco in questa parabola pone in risalto una
situazione che resta identica durante l’intero svolgimento della storia della salvezza, cioè come
nel corso del ministero pubblico di Gesù ci sono stati alcuni che gli hanno ascoltato e altri che lo
hanno respinto, e allo stesso modo, dopo la sua morte, ci saranno coloro che seguono il vangelo e
coloro che lo rifiutano; ciò che conta è essere veri ascoltatori della Parola di Dio per portarne
frutto in abbondanza, perché il regno di Dio è continuamente in arrivo e verrà un giorno in cui si
manifesterà in tutta la sua magnificenza.

191
XIII.
LA PARABOLA DEI VIGNAIOLI OMICIDI (Mc 12,1-12)
Introduzione

La parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-12) è un racconto complesso che unisce in sé
due elementi importanti: l’amore di un uomo e la malvagità di alcuni contadini. Articolata
secondo una precisa climax ascendente, che vede in crescendo tanto il male, significato dai rifiuti
violenti dei fittavoli, quanto il bene confermato dal padrone paziente e fiducioso, che continua ad
inviare i suoi fattori e il figlio, si presenta come una storia umanamente incomprensibile, che
descrive un comportamento assurdo e lascerebbe pensare al padrone come uno sciocco ed
incosciente. Davanti ai servi che tornano malmenati egli non risponde con altrettanta malvagità,
invero egli continua a parlare con il linguaggio della fiducia, nonostante il rifiuto, volendo che
sia accettato e ricambiato nell’affetto che egli dona per primo.
Il padrone ama la vigna, ma ama anche coloro che vi lavorano, cerca di educarli, non li
rimprovera, li lascia agire nella loro libertà, vuole dialogare. C’è una parola che può guarire ogni
fredda sordità, illuminare le nostre tenebrose cecità. È la parola fatta di gesti, di silenzi, di frasi
sobrie e discrete, che nutrono il cammino ferito della vita. La condizione di questi vignaioli
riflette molto bene il sistema agricolo del tempo che era la mezzadria. Si tratta di un contratto
agrario per cui il proprietario di un podere e il capo di una famiglia colonica si accordavano per
la coltivazione del podere stesso, e stabilivano la spartizione a metà dei prodotti. Anche in Italia
fino a non molti anni fa esisteva la mezzadria. Chi ricorda quei tempi capisce la sofferenza che si
cela dietro il lavoro, spesso estenuante, di quegli uomini chiamati al lavoro, padroni solo della
zappa e non della terra. Giovanni Verga ha descritto molto bene questa società e ce ne dà un
quadro scarno e vero nelle novelle. Di Mazzarò dice che «era un omiciattolo che andava senza
scarpe a lavorare nella terra, nel mese di luglio, a star con la schiena curva 14 ore, col soprastante
a cavallo dietro, che piglia a nerbate se si fa di rizzarsi un momento»395. La mezzadria purtroppo
è stata anche strumento di sopruso da parte dei padroni, e non di rado ha suscitato negli animi dei
braccianti vivi sentimenti di rivalsa sociale, talvolta sfociati in aspre lotte proletarie. Ma questo
non è il caso della nostra parabola. Ciò che mi preme sottolineare è invece l’epilogo della
novella. Prima di morire, Mazzarò, che si era arricchito nel tempo, uscì come un pazzo,
barcollando, e strillava:- roba mia vièntene con me!
I vignaioli nella parabola vedono il figlio e dicono:- questi è l’erede; su uccidiamolo e l’eredità
sarà nostra –(Mc 12,7). Entrambe le scene ci aiutano e si aiutano a vicenda per far emergere la
verità. La roba e la vigna sono di Dio; sono luoghi dove si consuma e si dimostra la vita
dell’uomo, che tanto può essere versata in dono a Dio, tanto in miseria. Quando l’uomo non
riconosce più Dio si attacca alle cose, evita ogni domanda scomoda, ogni autocritica, ogni
capacità di rinuncia. Ci si crea così una coscienza essiccata e sterile oppure la si rende così
elastica da essere capace di coprire tutto, «chiamando bene il male e male il bene, cambiando la
tenebra in luce e la luce in tenebra, l’amaro in dolce e il dolce in amaro» (Is 5,20).
La tragedia di questi vignaioli è grande: ancor prima di uccidere e ferire altri, essi stessi sono già
morti dentro. Tuttavia Dio che è più grande, sa che quei gesti in realtà sono un grido di aiuto e si
china per curare. La parabola vuole raccontare in modo affascinante, la dolcezza e la sensibilità
materna e paterna insieme che emerge in questo canto dell’amicizia di Dio.

I. Analisi letteraria

I.1 Articolazioni, contesto e differenze nel racconto sinottico

395
G. VERGA, La roba, in Novelle Italiane, vol. II/2, a cura di G. Bellocci e M. Petrucciani, Roma 1986, 456-457.

192
Il racconto inizia con una chiara affermazione: Gesù prese a parlare in parabole! Cos’è
una parabola? Come la intendono gli evangelisti? Non è facile rispondere. È piuttosto evidente
che Gesù utilizzi le parabole per la predicazione del Regno di Dio, ma non è lui il primo a farne
uso. Già nella letteratura veterotestamentaria esistono esempi di linguaggio parabolico, pensiamo
al brano di 2 Sam 12,1-5 dove si parla del peccato di Davide con Betsabea. Nell’Antico
Testamento le parabole vengono usate a scopo dimostrativo, si usano per comunicare una realtà,
per far sapere senza essere troppo espliciti. Somigliano ad una “trappola” che per mezzo di una
attraente storia riesce a catturare l’interesse dell’ascoltatore per coinvolgerlo nella vicenda,
provocarlo al giudizio e finalmente svelargli che il giudizio dato, in realtà interessa egli stesso.
Nel Nuovo Testamento la parabola ci dice innanzitutto come è Dio396; diventa la
prerogativa di Gesù per farsi capire da tutti ed esprime al contempo la saggezza e la finezza di un
efficacissimo metodo di comunicazione. Dato, però il linguaggio enigmatico, non sempre è
evidente il significato; è necessario allora saperle interpretare: ad ogni evento e personaggio che
viene narrato bisognerà attribuire una verità o una realtà che si vuole far emergere 397. È Gesù
stesso che ce ne dà un esempio nella spiegazione della parabola del seminatore di Mc 4,13-20.
Detto ciò sembrerebbe che le parabole siano state tutte inventate ex nihilo, ma non è così. Spesso
accade che nei testi si riconoscano fatti noti, elementi significativi, stralci di altri passi biblici,
scene di vita comune. Tutto ciò è stato utilizzato, rielaborato e inserito nel racconto, perché
emergesse alla fine il corpus del testo. Il motivo è anzitutto di ordine pratico: le parabole sono
racconti per il popolo, se vogliono essere recepite devono rendersi interessanti, per cui è
necessario calarle nello stesso Sitz im Leben del popolo. Bisogna fare attenzione a non
confondere la parabola con l’allegoria. Nella parabola è l’intera narrazione (la trama narrativa, la
struttura) che funziona come metafora, nell’allegoria troviamo invece, diversi elementi, di cui
ciascuno ha la struttura di base di una metafora, tenuti insieme solo dal riferimento alla realtà
significata 398.
Possiamo distinguere le parabole in due tipi: quelle “comiche” e quelle “tragiche” o della
controversia, contrassegnate dal fatto che la struttura narrativa sfocia nella catastrofe e
nell’isolamento del protagonista 399. La parabola dei vignaioli omicidi per l’evidente epilogo,
appartiene a questo genere. Sin dalla pubblicazione dell’opera di Jülicher, Gleichnisreden Jesu la
parabola dei vignaioli omicidi, è stata ampiamente considerata come un’allegoria costruita dalla
Chiesa primitiva in riferimento alla morte di Gesù 400. Sia Weder che Léon-Dufour sostengono
però, che dietro il brano dei sinottici, esista una parabola originaria401 raccontata da Gesù stesso.
La comunità primitiva, antecedente alla redazione dei vangeli avrebbe ritenuto opportuno
rielaborarla, arricchendola di connotati post-pasquali e gli evangelisti, infine, avrebbero
introdotto il brano all’interno dei rispettivi racconti, diversamente riadattati a seconda
dell’uditorio per cui hanno indirizzato gli scritti.
La versione attuale pervenutaci in quattro documenti: i tre vangeli sinottici e il vangelo
apocrifo di Tommaso, è chiaramente un’allegoria, una storia cioè, che ci parla di Gesù, Figlio di
Dio, inviato nel mondo e rifiutato dagli uomini. Ma di quale allegoria si tratta? L’esistenza di
diversi elementi presenti nel testo quali la siepe, il tino, la torre di matrice isaiana, ci inducono a
pensare che non tutta la narrazione è pura allegoria402, se così fosse quale significato proprio
avrebbero detti elementi in connessione con l’interpretazione cristologica? Il passo di Isaia non
può che servire solo come aggancio per iniziare il racconto. Circa l’origine della parabola

396
H. WEDER, Metafore del Regno, 109.
397
In realtà il problema circa la genesi e l’interpretazione delle parabole è molto più complesso. Tra i diversi
studiosi, i più significativi per innovazioni sono Dodd (chiave escatologica), Jeremias (chiave cristologica), Fuchs
(applicazione sull’uditore). Per ulteriori approfondimenti vedi anche H. WEDER, Metafore del Regno, 17-23.
398
H. WEDER, 121-122.
399
H. WEDER, 71; V. TAYLOR, Marco, Assisi 1977, 551.
400
V. TAYLOR, 551.
401
H. WEDER, 189; X. LÉON-DUFOUR, Studi sul Vangelo, 436.
402
V. TAYLOR, 551.

193
nascono due ipotesi: una sostiene la gesuanità del testo, l’altra ne affida la paternità alla
comunità cristiana primitiva e agli evangelisti.
Gesù parla agli ebrei del suo tempo, questa parabola è indirizzata ai sommi sacerdoti, agli
scribi, agli anziani e ai farisei, tutti profondi conoscitori della “Parola”. Non a caso sceglie
un’icona agreste famosa, quale è appunto quella della vigna. Gesù sa bene in che modo incidere
sul suo uditorio e sa che questo è un argomento caro al popolo, sa che alle prime parole subito
riconosceranno quella storia tante volte ascoltata nella sinagoga e avrà l’attenzione giusta per
poter rivelare la buona novella. L’evangelo di Marco, più antico rispetto agli altri due sinottici è
il nostro punto di riferimento per l’intera analisi della parabola. In base alle diverse ipotesi circa
la formazione ci interessa sapere che l’evangelo è stato costruito a partire da alcuni dati
preesistenti, forse trasmessi oralmente o per iscritto da comunità primitive e premarciane. Tra le
sezioni individuate c’è una raccolta di controversie gerosolimitane che comprende la sezione
11,15-12,40 403, entro cui si trova il nostro brano.
Chiaramente Marco intende presentare un Gesù cosciente non solo di quello che gli sta
accadendo, ma anche della sua fine. Tutta l’opera marciana è impregnata di questa autobasilea.
Marco ripropone sostanzialmente il Dio giudaico, espresso nei connotati di potente
(10,27;14,26), creatore del mondo (13,19), ecc., ma fa ruotare tutto intorno al Figlio che è venuto
per rivelare il volto vero del Padre. È importante sottolineare che Marco è il «teologo dei titoli
cristologici». Tutto l’evangelo è un continuo susseguirsi di aggettivi riferiti a Gesù bene
incastonati nel discorso narrativo: Messia, Figlio di Dio, Figlio dell’Uomo, Signore, figlio di
Davide; ma uno dei tratti della cristologia marciana viene spesso designato come “segreto
messianico”. W. Wrede ha studiato il comportamento di Gesù e ha notato che effettivamente,
non si dichiara mai né lascia che altri lo identifichino come il Messia (cfr 1,34.44; 3,12; 5,43…).
Soltanto alla fine, con la sua morte emerge in maniera molto chiara ed evidente la sua
messianicità. Tenendo conto di quanto espresso, dalle pagine successive, emergerà chiaramente
che la parabola è un microevangelo di Marco perché in essa è racchiusa gran parte della sua
teologia. Il brano si trova al capitolo 12, vv 1-12, prima cioè del grande discorso escatologico
che interessa il capitolo 13 fino alla fine. Al capitolo 11 Gesù è acclamato come colui che viene
nel nome del Signore (v. 9), ma subito dopo, la sua autorità viene messa in discussione perché
entra in conflitto con l’istituzione del Tempio e i suoi funzionari corrotti. La parabola che stiamo
analizzando si colloca come risposta a questa obiezione, ma nello stesso tempo vuole evidenziare
che Gesù si pone in continuità con la grande collezione dei profeti veterotestamentari, dopo
Giovanni, che è citato immediatamente prima, tra gli ingiusti perseguitati e uccisi.
Considerando, quindi, la parabola quale chiave d’interpretazione per la successione degli
avvenimenti, possiamo dichiarare di trovarci in una cornice già e non ancora pasquale, in cui
s’inaugura l’ultima sezione dell’intero vangelo di Mc, segnata dal binomio morte – risurrezione.

I.2 Struttura ed analisi esegetica di Mc 12,1-12

Sulla scia di Léon-Dufour, che riparte il testo in cinque momenti,404 suggeriamo la seguente
suddivisione e proponiamo per ogni articolazione l’analisi esegetica.

1. Aggancio biblico-narrativo v. 1
2. Invio dei servi vv. 2-5
3. Invio del Figlio prediletto e uccisione vv. 6-8
4. Invito al giudizio vv. 9-10a
5. Aggiunta scritturistica vv. 10b-11
6. Epilogo v. 12
1. Aggancio biblico-narrativo
403
R. A. MONASTERIO - A. R. CARMONA, Vangelo e Atti degli apostoli, 155.
404
X. LEON-DUFOUR, 438.

194
v. 1:
Gesù prese a parlare in parabole: “un uomo piantò una vigna, vi pose attorno una siepe, scavò un
torchio, costruì una torre, poi la diede in affitto a dei vignaioli e se andò lontano”.

Questa prima parte riflette il clima del racconto in senso proprio: i verbi sono posti tutti
all’aoristo. Tralasciando le prime battute d’introduzione, ci troviamo di fronte ad una ipotiposi,
cioè una descrizione impressiva e vivace che apre la scena con un’immagine spaziosa e
armoniosa. Tenendo presente il contesto marciano, come si è detto, Gesù risponde all’obiezione
circa la sua autorità e “s’inventa” questo racconto in cui giustifica la sua persona e il suo operato.
Certamente, Gesù fu rifiutato dagli ebrei, ma non è solo questo il motivo per cui racconta la
parabola. Il v. 1 è una chiarissima rievocazione del brano di Isaia 5,1-2, il famosissimo canto
della vigna. Si riporta qui di seguito il testo masoretico messo in parallelo con quello della LXX
e dei vangeli di Mt e Mc 405.

Testo ebraico | Testo greco | Mt, Mc

E innalzò una torre e innalzò un torre E innalzò una torre


nel suo mezzo nel suo mezzo
e vi scavò e vi scavò e vi scavò
un tino. un tino. un tino.
La vangò e lo circondò Piantò
la liberò dai sassi di una siepe una vigna
e la piantò e piantò e la circondò
con uva rossa una vigna di Sorec di una siepe.

Perché Gesù avrebbe scelto proprio questo brano per iniziare a parlare di sé? Quale
incidenza aveva sul popolo il profeta Isaia e soprattutto questo carme in particolare? Il contesto
del profeta non è molto diverso da quello in cui opera Gesù. Isaia è un uomo del regno di Giuda
che abita a Gerusalemme. Per quarant’anni si dona alla predicazione, come profeta. Si scaglia
contro l’ipocrisia, l’immoralità, il lusso delle donne, i culti idolatrici, contro l’anarchia che regna
in città, contro il popolo che si è allontanato da Dio. La situazione politica in cui è chiamato a
vivere è molto precaria, l’Assiria minaccia di invadere e assediare; se Giuda non si ravvedrà
andrà verso la perdizione, verso il castigo, già imminente. Poiché il popolo ha abbandonato Dio,
viene a mancargli il sostegno contro il nemico406.
Isaia riprende per suo conto la predicazione di Natan: sostiene che Dio non potrebbe
allontanarsi dalla casa di Davide, non lo fa ora che il popolo gli è contro, non lo farà in seguito,
quando addirittura porterà la salvezza con la nascita di un bambino, “l’Emmanuele”. Qualunque
cosa accada, dice Isaia, vi sarà sempre un resto, una radice che potrà rigermogliare. Questa
predicazione di Isaia che, storicamente, vuol sostenere un regno barcollante, un popolo disperato,
avrà una influenza decisiva circa la speranza giudaica in un Messia della stirpe di Davide. Il
canto della vigna allora si pone anzitutto come un lamento, come espressione amara
dell’esperienza di un viticultore laborioso, di un amante che canta e racconta il proprio
fallimento in amore. L’amante non desidera che sia amato lui, ma che venga amato un altro407.
Il brano di Isaia è chiaramente una metafora della condizione attuale e serve da richiamo,
ma non verrà compreso subito, riletto posteriormente agli eventi che preannuncia, avrà grande
eco presso il popolo e per mezzo della lex orandi s’imporrà molto anche nella lex credendi, quale
memoria essenziale per ricordare la benevolenza di JHWH verso la nazione eletta. A prescindere

405
X. LEON-DUFOUR, 439.
406
H. EISING, Il libro di Isaia, I, Roma 1971, 49-50.
407
L.ALONSO SCHÖKEL E J.L. SICRE DIAZ, I Profeti, Roma 1986, 143-144.

195
dal fatto che le parole della parabola siano ipsissima verba Jesu oppure no, dal punto di vista
letterario è importante che l’incipit della narrazione riprenda un racconto veterotestamentario: è
più logico dal punto di vista pratico perché l’uditorio era formato da buoni conoscitori
dell’Antico Testamento e serve quindi per attirare attenzione; nello stesso tempo viene conferita
maggiore autorità al racconto che segue questa citazione isaiana; Gesù, in questo modo,
conferma quanto insegna e cioè che non è venuto per abolire ma per dare compimento alla legge
e ai profeti (Mt 5, 17).

2. Invio dei servi

vv. 2-5:
A suo tempo inviò un servo a ritirare da quei vignaioli i frutti della vigna. Ma essi, afferratolo, lo
bastonarono e lo rimandarono a mani vuote. Inviò loro di nuovo un altro servo: anche quello lo
picchiarono sulla testa e lo coprirono di insulti. Ne inviò ancora un altro, e questo lo uccisero; e
di molti altri, che egli ancora mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero.

Il v.2 ci introduce delicatamente nella scena senza lasciar presagire la continuazione.


Finora tutto il racconto faceva pensare ad un favola idilliaca, fatta di delicate attenzioni, di
amorevoli premure. Il lettore ed anche l’ascoltatore, hanno potuto constatarne con piacere la
bellezza; in fondo sono rimasti coinvolti nella scena, hanno consacrato al séguito tutta
l’attenzione dovuta ed ora si aspettano un’evoluzione felice.
Il v. 2 si trova in posizione centrale: fa da cerniera tra l’accaduto e l’avvenire, ognuno si chiede,
che ne sarà? È fondamentale sia dal punto di vista della narrazione perché serve ad aumentare la
suspense, sia perché sancisce il leit-motiv dell’intera storia, che è senz’altro l’invio nella vigna,
dei servi prima e del figlio poi. Considerando il fatto in loco, secondo l’evoluzione logica degli
eventi, è ovvio che il padrone voglia esigere i propri frutti. L’espressione ‘a suo tempo’, infatti,
vuole sottolineare proprio questo e c’è pertanto chi vuole far coincidere questo tempo408 con
quello precettato in Lv 19,23-25, cioè cinque anni dopo l’affitto.
Dal v. 2 al v. 5, si consuma il primo atto dell’atteggiamento drammatico dei vignaioli. Tutto ha
inizio con un inquietante ‘ma’ che capovolge la diegesi, quale digressione al clima sereno che si
era venuto a creare. Ora il vocabolario si fa pieno di verbi e di termini che esprimono violenza. Il
narratore è acuto nel metterli per iscritto. Esiste una grande divergenza voluta, tra i primi due
versetti che sono segnati da asindeti, assonanze e dal raffinato lessico di Isaia, rispetto a quelli
successivi che invece appaiono freddi e incorniciati da un linguaggio giornalistico, dove non si
dà spazio a sentimenti. È messa in luce, attraverso un gioco di contrasti, l’intenzione dei fittavoli,
i quali reagiscono contro gli inviati in maniera ingiustificata, sproporzionata e violenta409.
A detta di Jeremias tale modo di reagire non è del tutto assurdo e immotivato. La
parabola descriverebbe in maniera realistica lo stato d’animo rivoluzionario dei contadini della
Galilea di fronte ai grandi proprietari fondiari, suscitato dal movimento zelota, originario di
quella regione. Infatti, la valle superiore del Giordano, le rive nord-ovest del lago di Genezaret,
ed anche la regione montagnosa nel suo insieme, costituivano a quel tempo dei latifondi, di cui la
maggior parte apparteneva a stranieri410. I braccianti erano stufi di lavorare un suolo che non gli
apparteneva e pensarono di appropriarsene con la forza. Il rifiuto dei fattori diventa allora un
avvertimento per il padrone: un chiaro messaggio per far capire come stanno le cose e nello
stesso tempo serve ai vignaioli stessi per vedere quale reazione ha avuto il padrone, vedendosi
rientrare in tali condizioni i suoi messi. Se si considera questa ipotesi la parabola assolverebbe
allora, ad un’altra funzione ancora, quella di ristabilire l’ordine sociale infranto.
Mantenendoci fermi al testo, possiamo notare che la violenza dei contadini è direttamente
proporzionale all’aumentare degli invii dei servi; ne vengono descritti tre rispecchiando quella

408
V. TAYLOR, 554.
409
S. GRASSO, Vangelo di Marco, 297.
410
X. LÉON-DUFOUR, 429.

196
che in Marco si chiama la “regola del tre”. Il primo infatti è bastonato, il secondo è picchiato alla
testa e insultato, il terzo è ucciso. La scena si è macchiata di sangue. Il comportamento dei
vignaioli sembra assurdo. Stando al racconto, solo il primo servo ha la possibilità di dialogare coi
vignaioli; è scritto infatti che arriva per ritirare i frutti della vigna, il secondo e il terzo e poi tutti
gli altri non ne hanno il tempo, alla sola vista vengono barbaramente malmenati e uno di essi è
assassinato. L’atteggiamento del padrone è esattamente opposto a quello dei fittavoli: egli
continua a inviare persone. Se osserviamo bene è sempre la stessa parola che è ripetuta per
designare gli inviati: servo, in greco doulon. Mutano le risposte, mutano le parole, i gesti dei
destinatari, ma i servi sono sempre gli stessi, come quelli del primo invio; ciò che cambia è sono
una parola: allous cioè altri, indica le diverse persone che si offrono in questo compito. Il
termine ripetuto esprime bene la ferma volontà del padrone a donare ancora opportunità ai
contadini.
Il v. 5b: “e di molti altri, che egli mandò, alcuni li bastonarono, altri li uccisero”, è
chiaramente un’aggiunta posteriore. Sia dal punto di vista grammaticale, sia per quanto riguarda
la forma, appare come un elemento postumo, inserito forse dalla comunità che ha curato la
redazione finale411. Questa comunità ha potuto rileggere tutta la parabola alla luce della vicenda
storica di Gesù, ed ha visto nei servi, cioè i profeti storici, i preparatori dell’avvento del Messia .

3. Invio del Figlio prediletto e uccisione

vv. 6-8:
«Aveva ancora uno, il figlio prediletto: lo inviò loro per ultimo, dicendo: Avranno rispetto per
mio figlio! Ma quei vignaioli dissero tra di loro: Questi è l’erede; su uccidiamolo e l’eredità sarà
nostra. E afferratolo, lo uccisero e lo gettarono fuori della vigna»

Per comprendere il senso di questi versetti è necessario considerare l’episodio


immediatamente precedente a quello della nostra parabola in cui è domandato conto a Gesù sulla
sua autorità. Siamo nella pointe del racconto, l’apice di tutta la storia. Come si è visto i versetti
anteriori hanno preparato questo momento con giochi di suspense, di contrasti e di ripetizioni;
anche a livello redazionale il v. 6 si allaccia a v. 5a. La parte successiva come si vedrà in seguito,
ruoterà soprattutto intorno a questo evento e ne costituirà un’appendice. Cosa accade?
Il testo dice che il padrone invia loro quello che gli rimaneva e cioè il figlio, ma con coerenza al
precedente comportamento, i vignaioli lo uccidono. A differenza dei precedenti rifiuti, stavolta
però sappiamo cosa pensano. A livello narrativo, il versetto mostra chiaramente il contrasto tra le
due logiche distanti: quella del padrone che è pieno di speranza, fiducia e amore e quella ormai
perversa dei contadini che non sanno più riconoscere il bene dal male e restano accecati
dall’odio. Ancora una volta è un “ma” che capovolge gli eventi, decreta una spaccatura, crea un
“poi” irreversibile e apre alla tragedia. Il primo “ma” era per il rifiuto dei servi, questo è per
l’uccisione del figlio prediletto! I servi e il figlio non stanno sullo stesso piano. Quanto al
termine prediletto deve considerarsi come un’aggiunta posteriore della comunità.
L’atteggiamento dei vignaioli invece, a motivo delle reminescenze linguistiche, riflette di
nuovo un’icona veterotestamentaria; stavolta si tratta della vicenda di Giuseppe e i suoi fratelli,
quando decidono di ucciderlo (Gn 37,20), al fine di proseguire una vita più serena e senza troppe
fastidiose competizioni. Jeremias ci parla addirittura di una parabola rabbinica che racconta di un
re e di cattivi affittuari, in cui è presentato come figlio il patriarca Giacobbe (quale
rappresentante del popolo di Israele). Inoltre, secondo la sua ipotesi circa la natura non fittizia
ma reale della parabola, legata ad avvenimenti veri, i vignaioli si sarebbero comportati in tale
modo perché consideravano una clausola del diritto secondo la quale ogni eredità poteva venir
stimata, in determinate circostanze, come bene vacante accessibile ad ognuno, con diritto di
precedenza per chi ne aveva compiuto l’occupazione per primo. L’arrivo del figlio li fa

411
H. WEDER, 183.

197
sospettare che il padrone sia deceduto e che il figlio sia venuto per prendere possesso
dell’eredità. Essi devono aver pensato che uccidendolo, la vigna sarebbe diventata bene vacante
e allora si sarebbero fatti avanti a rivendicarne per primi la proprietà412.
L’esecuzione del piano malvagio è strutturata in maniera triplice analogamente al
maltrattamento del primo servo: lo presero, lo uccisero, lo gettarono fuori della vigna413.
Secondo il costume giudaico questo genere di esecuzione riflette la legge di Lv 24,24-16 in cui il
condannato è trascinato fuori dell’accampamento, cioè del centro abitato e lapidato. Un esempio
si dà nell’esecuzione del diacono Stefano in At 7,58, lapidato fuori della città.
Oltre alla grande umiliazione inflitta, questo gesto assume il tono di una rivincita da parte
degli avversari. Se è stato Gesù tuttavia a raccontare questa storia viene da chiedersi: ha voluto
parlare di sé sottolineando la sua autocoscienza circa la fine imminente, oppure ha voluto
semplicemente rispondere a quelli che obiettano sulla sua autorità, dichiarandosi idoneo a
compiere “tali cose”, perché Figlio unico di Dio?
È vera sia l’una che l’altra cosa. Il versetto mostra chiaramente che Gesù vuole replicare
ai provocatori414. Il vangelo di Marco è immerso nel dilemma del cosiddetto segreto messianico,
cioè sul fatto che Gesù non dice mai di essere il Messia. Anche qui Gesù che parla di sé non dice
di essere il Messia ma il Figlio uno-amato (agapetos). È un modo per giustificare la sua identità.
Gesù dimostra di conoscersi bene, di sapere donde viene e soprattutto che fine farà; non dice solo
chi è ma va oltre e svela la sua sorte a testimonianza ulteriore che egli è l’inviato del Kyrios.

4. Invito al giudizio

v. 9:
Che cosa farà dunque il padrone della vigna ? Verrà e sterminerà quei vignaioli e darà la vigna
ad altri.

Il v. 9 inaugura un nuovo stile rispetto alla narrazione. Si tratta di un discorso indiretto


libero, in cui sono eliminate le forme introduttive del discorso diretto per favorire maggiore
immediatezza all’idea che si vuole trasmettere. A cominciare da questo punto, i verbi sono al
futuro. Tutto avviene come se la morte prossima del figlio stesse per fissare il tempo in un punto
definitivo: il futuro è intravisto nell’ombra, ma con la certezza data dalla rivelazione del piano
divino415.
È Gesù stesso a rispondere alla domanda: il padrone verrà e sterminerà i vignaioli e darà
la vigna ad altri. L’idea della venuta di Dio per il giudizio è fondamentalmente ebraica (cfr. Sal
95 (96),13; Am 1,7; 1 Enoch 1,9). Il metodo utilizzato non è un’improvvisazione. La forma
interrogativa è spesso usata da Gesù in altre parabole e serve a rendere partecipi gli astanti, per
indurli nella logica del racconto, spingerli a schierarsi dall’una o dall’altra parte per esprimere il
proprio giudizio. Questa volta la forma riprende ancora una volta l’icona del canto della vigna di
Isaia 5:
or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, che cosa avrei dovuto fare ancora
alla mia vigna che io non le abbia già fatto?
L’esito della storia non si ha a livello del racconto relegato nel passato, ma sul piano della
vicenda evangelica che deve venire. In tal modo, tra racconto intradiegetico e quello
extradiegetico sussiste un rapporto ermeneutico: il primo serve a interpretare il secondo. In altre
parole, la vicenda descritta nella parabola illumina in maniera prolettica la storia narrata nel
vangelo416. Nel brano veterotestamentario di Isaia è fatto accenno alla vigna come all’alleanza di

412
J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 90-91.
413
J. ERNST, Il vangelo secondo Marco, Brescia 1991, 549.
414
Sarebbe assurdo non pensare che la parabola non assolva a questo compito, trovandosi posizionata come risposta
alla domanda di Mc 11,28, alla quale non si dà una vera risposta, lasciando l’uditorio a digiuno.
415
X. LÉON-DUFOUR, 449.
416
S. GRASSO, 298.

198
JHWH con il popolo di Israele. La novità di questa parabola invece giace proprio nel transfert
della vigna ad altri, è il colpo di scena finale, inatteso dagli ascoltatori giudei. Nella tradizione
biblica, Israele viene punito, ma rimane sempre il popolo eletto. Qui il dramma non si conclude
con la punizione dei vignaioli; la loro sorte non viene descritta in particolare come accade in
altre parabole.

5. Commento scritturistico

vv. 11-12
Non avete forse letto questa Scrittura: La pietra che i costruttori hanno scartata è diventata testata
d’angolo; dal Signore è stato fatto questo ed è mirabile agli occhi nostri?”

Il parere degli studiosi sembra abbastanza concorde nel giudicare questo versetto come
un’aggiunta della primitiva comunità cristiana, a motivo della rilettura di tutti gli eventi alla luce
della Pasqua. Questo testo nella catechesi della prima Chiesa è stato largamente adoperato per
mostrare come la morte violenta di Gesù, ma anche la sua glorificazione, rientrino nel progetto di
Dio (At 4,11; 1Pt 2,7)417. La citazione si offriva eccellentemente per la parabola della vigna a
motivo del gioco di parole ebraico “pietra – il figlio”418. Nella letteratura rabbinica la pietra è
identificata con Abramo, con Davide e forse anche con il Messia; nella cristianità primitiva
diventa una designazione costante di Gesù419. La citazione del Sal 118, appare evidentemente
come un’ interpretazione del testo precedente, come una chiarificazione ma anche come un
restringimento di significato, di cui la parabola si fa portatrice. Ora la chiave d’interpretazione è
prevalentemente cristologica: tutto confluisce verso il Figlio e sul rifiuto in particolare.
I vv 10-11 sono molto vicini al quarto carme del servo sofferente di JHWH di Is 53, dove
si parla chiaramente del rifiuto violento ed anche della esaltazione di questo doulon. Inseriti alla
fine del racconto questi versetti offrono anche un ottimo aggancio per stimolare la reazione
dell’uditorio. Se soltanto al cap. 14 si dice esplicitamente che i sommi sacerdoti e gli scribi
cercavano di ucciderlo, bisogna riconoscere che un simile complotto deve avere ragioni remote e
piantate in atteggiamenti subiti da tempo perché non è frutto di reazioni istintive. Nell’episodio
che vedrà Gesù imputato davanti al sinedrio, ciò che fa scatenare la collera del sommo sacerdote
è proprio l’autoaffermazione di Gesù quale Figlio di Dio. Per gli Ebrei è la bestemmia più grande
perché significa farsi uguale a JHWH. La parabola dei vignaioli omicidi mostra un’anticipazione
completa di quel momento: anche qui si fa allusione alla figliolanza divina ed anche qui si parla
di una venuta escatologica.

6. Epilogo
v. 12:
Allora cercarono di catturarlo, ma ebbero paura della folla; avevano capito infatti che aveva detto
quella parabola contro di loro. E lasciatolo, se ne andarono.

Si tratta del finale redazionale. È opera di chi ha curato la stesura ultima dell’evangelo e serve
da chiusa al racconto. Considerando le primissime parole d’introduzione alla parabola, possiamo
considerare il corpus del racconto come un’inclusione entro due termini fissi: l’introduzione e
l’epilogo. Se le prime battute ci avevano aiutato ad entrare nel testo, ora questo versetto ci
permette di uscirne favorendo l’anticlimax. Tutto il brano è stato una digressione rispetto alla
narrazione evangelica, ora col v 13 si torna alla diegesi continua del corpus marciano.

II. Analisi teologica

417
S. GRASSO, 299.
418
J. ERNST, 550.
419
V. TAYLOR, 556.

199
II.1 Autocomprensione escatologica e cristologica

Hans Weder ha messo in luce quella che, secondo l’ipotesi già citata di Dodd e Jeremias,
dovrebbe essere la parabola originaria, soggiacente alla successiva immissione nei Sinottici. Si
tratta di un brano compreso nella raccolta che va sotto il nome di “detti di Gesù”, il materiale più
antico da cui prende piede tutta l’opera redazionale che sfocia nella stesura ultima degli evangeli.
Weder utilizzando la traduzione-ricostruzione di Bauer riporta anche il testo420:

Un uomo piantò un vigneto e lo affidò a dei vignaioli ed andò lontano in un altro paese. A
tempo debito inviò un servo dai vignaioli per ricevere da loro (la sua parte) dei frutti del
vigneto. Ma questi lo afferrarono e lo maltrattarono e lo rimandarono indietro a mani vuote.
Di nuovo egli allora inviò da loro un altro servo; essi lo bastonarono a sangue e (lo)
insultarono. Allora ne inviò loro ancora un altro: e questo lo uccisero. Infine inviò da loro
(suo) figlio dicendo (tra sé e sé): “Avranno rispetto di mio figlio!”. Ma quei vignaioli dissero
tra di loro: “ Questo è l’erede, su, uccidiamolo e l’eredità sarà nostra!” essi lo afferrarono e
lo uccisero e lo gettarono fuori del vigneto. Che farà il padrone del vigneto?

Se si accetta questa versione come originaria è interessante esaminare anche le aggiunte


posteriori, perché marcano un’evoluzione non solo a livello stilistico, ma anche teologico.
Ammettendo il caso che è Gesù il narratore autentico della parabola, da questo brano emerge
chiaramente la sua consapevolezza di andare incontro ad un morte violenta421. Qui si può parlare
a ragione di una autocomprensione escatologica e teologica di Gesù: escatologica, in quanto
Gesù considera se stesso, in analogia ai profeti, come l’inviato di Dio respinto e perseguitato e
come fondamentalmente diverso da essi422; teologica perché Gesù, seppure in terza persona, si
dichiara Figlio di Dio. La cristologia della parabola è inquadrata in un cornice di storia della
salvezza, il figlio viene inviato dopo il fallimento della missione di tre precedenti invii di
altrettanti servi, per cui risulta che Gesù sapeva anche misurare la distanza che lo separava da chi
lo aveva preceduto, pur come inviato di Dio, collocandosi quindi su un piano ben diverso da
loro; nello stesso tempo, egli rivela di conoscere bene lo scopo della propria missione ed anche le
premesse che potevano condurlo alla morte.

II.2 L’alleanza e la paternità di Dio

Accanto alla comprensione cristologia non si può tacere un altro importante argomento di
grande portata teologica: l’Alleanza tra JHWH ed Israele. L’idea di Dio che emerge è
profondamente veterotestamentaria; è il Dio che pianta la vigna, il pantocratore423, ma
l’intereresse principale, sia per la rievocazione di Isaia nel canto della vigna e poi con
l’evocazione dei servi mandati, che sono i profeti dell’Antico Testamento, si concentra nella
volontà del padrone di fare un patto con i vignaioli, cioè con il popolo di Israele. In tal modo il
figlio è colui che sigilla questo patto, sia perché lo esaurisce tutto in sé, sia perché muore per la
causa della vigna.

420
H. WEDER, 189.
421
R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, I, Alba 2001, 155.
422
H. WEDER, 192.
423
L’esperienza di Israele con JHWH è segnata anzitutto dall’Alleanza con il suo popolo. Il Dio amico e fedele è,
infatti, la prima forma di conoscenza che si ha. Solo successivamente, dopo la pesante esperienza dell’Esilio in
Babilonia, alla luce di una fondamentale rilettura degli eventi, emergerà l’idea di un Dio creatore. Nel passo di Is 5,l
la descrizione del v2 riecheggia profondamente l’icona del Dio fautore di tutto il cosmo di Gn 1. La stesura del libro
della Genesi, assieme al libro di Isaia, è dello steso periodo post- esilico; ci troviamo di fronte ad una novità
teologica che va ad arricchire l’immagine e la comprensione di JHWH e nello stesso tempo assistiamo al suo
inserimento nei libri liturgici.

200
L’Alleanza si fa nuova e rimane nel tempo perché dopo di lui non ci sono altri servi. Dio
scelse la stirpe d’Israele perché fosse il popolo che gli appartenesse; con esso ha stretto
un’alleanza, ma solo come preparazione e figura di quella alleanza nuova e perfetta che avrebbe
concluso in Cristo; di fatto la nuova alleanza l’ha istituita Cristo: il nuovo patto nel suo sangue
(cfr. 1Cor 11,25)424. Il Figlio stese le braccia sulla croce e morendo distrusse la morte425; Gesù è
il punto d’intersezione tra cielo e terra così come la croce emblema di questa dimensione
verticale ed orizzontale. Dice Gesù: «quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32).
Come conseguenza di questa morte appare evidente il rifiuto, altro tema teologico importante. Se
vogliamo considerare che la nozione di peccato si riferisce essenzialmente alla relazione
dell’uomo con Dio, alla situazione che deriva dalla rottura dell’amicizia con lui e dall’infedeltà
alla legge dell’alleanza, la parabola ne è una chiarissima metafora. Il peccato suppone in ogni
caso una previa relazione di amicizia, frutto dell’offerta libera di grazia e d’amore che Dio fa al
popolo eletto e agli uomini in generale426. La dimensione del peccato però non interessa soltanto
il singolo. Nella teologia veterotestamentaria quasi mai il peccato di uno si ripercuote solo su sé
stesso; nel bene o nel male l’influsso di un uomo su tutto il popolo è tanto più grande quanto più
rilevante è la sua posizione: il peccato del re, del sacerdote, ecc. recano in sé la colpa di tutto il
popolo. Non si tratta di una semplice estensione capricciosa del castigo ad altri che non hanno
commesso nulla, ma dell’influsso reale della libertà di ognuno su quella degli altri, quella dei
genitori sui figli, quella di alcuni membri della comunità sul suo resto, quella di alcuni vignaioli
su tutta la vigna427.
Non è solo il rifiuto di alcuni uomini di Israele a provocare una simile risposta di Gesù,
egli in pratica riconosce del marcio in tutta la società del tempo, dovuto in gran parte al cattivo
esempio dei responsabili e alla loro manipolazione della Legge. L’epilogo della parabola è
chiaro: gli interlocutori capiscono subito che sta parlando di loro e ne sta criticando il modo
comodo di credere; i sommi sacerdoti, gli scribi, gli anziani: quanto di più ortodosso ed
autorevole c’era nell’ebraismo di allora si ritrova spiazzato, e questo è un affronto senza
precedenti! Non merita che essere represso a tutti i costi.
La venuta di Gesù il Cristo sancisce senz’altro una spaccatura, all’interno di quella
società come si è visto, ma molto di più negli uomini di buona volontà che vogliono prenderlo a
modello per seguirlo nella vita. Esistono numerosi detti che testimoniano appunto che Egli non è
venuto a portare la pace, ma la spada e a mettere l’uno contro l’altro i componenti di una stessa
famiglia (cfr. Mt 10,34ss). Il giudizio che si dice, della fine del tempo, è pertanto iniziato con
Lui, che nella pienezza del tempo fu mandato a noi per mezzo di un donna (cfr. Gal 4,4). A
differenza dei profeti precedenti che si limitano ad annunciare l’imminenza di un giudizio su
Israele, in Gesù si ha l’attualità del giudizio perché in Lui si realizza l’ultima offerta dell’amore.
Gesù stesso, però, dichiara di non essere stato mandato nel mondo per giudicare (Gv 3,17) e di
non giudicare nessuno (17,47). Venendo da Dio, Egli porta amore e salvezza. Egli sa di essere la
pietra d’inciampo scartata dai costruttori ma scelta da Dio come pietra angolare (Mc 12,10) e sa
anche che chi lo «disprezza», «ha chi lo giudica: la Parola che io ho annunciato lo giudicherà
nell’ultimo giorno» (12,48). Chi si avvicina a questa parola si avvicina al fuoco: «Se non avessi
parlato loro, allora sarebbero senza peccato, ma così non hanno scuse per il loro peccato» (15,22;
cfr. 9,41)428.
Dal racconto emerge anche un altro tema: la paternità di Dio: il padre manda il figlio; se
il figlio è Gesù Cristo (ci viene anche detto che è l’unico) allora il padre è Dio. In concomitanza
con la teologia marciana, Gesù lega in modo speciale e unico la sua figliolanza al Padre. Sin dai
primi racconti evangelici appare sulle labbra di Gesù la parola Padre. È famoso l’episodio di
Gesù dodicenne al Tempio che, ritrovato dai genitori nel tempio di Gerusalemme, dice: «Non

424
Lumen Gentium 9, in EV/1, Bologna 2000.
425
CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA, Messale Romano, Città del Vaticano 1983, Preghiera Eucaristica II.
426
L. F. LADARIA, Il Dio vivo e vero, Casale Monferrato (AL) 2002², 228-229.
427
L. F. LADARIA, 230-231.
428
H. U. VON BALTHASAR, Gesù ci conosce? Noi conosciamo Gesù? Brescia 1993, 87-89.

201
sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49). Così farà fino al termine
della sua vita, anche nella prova suprema, come ci riferisce il testo di Marco: «Abbà, Padre!
Tutto è possibile a te» (Mc 14,35). E ancora, sulla croce, mentre sta per morire: «Padre,
perdonali, perché non sanno quello che fanno… Padre nelle tue mani affido il mio spirito» (Lc
23, 34.46). Gesù è il Figlio, una realtà concreta, incarnata, eterna. Figlio è però anche un
concetto insieme ontologico (condividere la stessa natura) e funzionale (agire in conformità a
questa realtà: ricevere l’essere dal Padre, vivere in intimità con Lui ). La figliolanza di Gesù
Cristo non è solo una prerogativa del Figlio: la sua incarnazione, passione, morte e risurrezione
sono in definitiva un atto concreto per donare a tutta l’umanità, rimasta orfana per colpa del
peccato, la consapevolezza di avere un Padre buono, un Fratello-amico. Se Gesù chiama Abbà
suo Padre, lo fa per insegnarlo a noi, perché il mondo sappia e creda. Dio infatti ha tanto amato il
mondo da dare il suo figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia (Gv 3,16).
Riconoscere nella fede Gesù Signore e al contempo suo Padre come nostro Padre, non dipende
dall’uomo, ma ci è dato dallo Spirito Santo, perché nessuno può prendersi qualcosa se non gli è
stato dato dal cielo (Gv 3, 27). L’apostolo Paolo ce lo ricorda con forza: «Voi avete ricevuto uno
spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo: Abbà Padre! Lo Spirito stesso attesta al
nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16) 429.
La gloria di Dio è l’uomo vivente dice sant’Ireneo, sì l’uomo che s’ incammina sulla
strada del Regno, che trova in Dio la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio (Sal 83).
Per l’uomo che arriva a percepirsi una creatura limitata ed infinita per grazia, che impara a
soffrire e gioire per amore del suo Dio, l’esperienza cristiana si lascia riassumere nella famosa
icona della buona battaglia che va combattuta fino in fondo per conservare la fede. (cfr. 2 Tm 4,
7).
Dopo la Pasqua, le parabole del regno di Dio divengono parabole su Gesù;
l’interpretazione cristologica, in quanto conseguenza necessaria della svolta storica dalla croce
alla resurrezione, costituisce l’interpretazione più adeguata delle parabole di Gesù430. Per questo
la Chiesa primitiva ha ritenuto opportuno aggiungere il salmo 118, che è uno degli argomenti
preferiti del primo coetus stabilis, sulla risurrezione del Cristo e la sua elevazione alla gloria.
Questo argomento scritturistico, che segue letteralmente il testo dei Settanta, venne
probabilmente aggiunto per rispondere all’esigenza di fondare la sorte del figlio sulla Scrittura e
di aggiungere qualcosa sulla risurrezione di cui il racconto non dice nulla431. Possiamo dedurre
allora che la necessità della Chiesa post-pasquale è quella di far accettare primariamente il Gesù
risorto e vivente. Non è certamente un passaggio automatico e facile.
La parabola venne utilizzata per interpretare la morte e la resurrezione di Gesù come
l’intervento definitivo di Dio, come la svolta del mondo. In tal modo la parabola consentì alla
comunità di comprendere la morte di Gesù come conclusione della storia di Dio con Israele ed
allo stesso tempo come inizio di una storia nuova. Con questa interpretazione la comunità
esprimeva il fatto che Gesù era il narratore ed allo stesso tempo l’oggetto della parabola432.

II.3 Un esempio di commento patristico a Mc 12,1-12

Sono stati molti i Padri che hanno commentato la parabola dei vignaioli omicidi, ognuno
ha voluto leggervi qualcosa. Giovanni Crisostomo ne sottolinea la provvidenza di Dio verso il
suo popolo, l’identità tra il Dio dell’Antico Testamento e il Dio del Nuovo Testamento, la
chiamata dei Gentili e la caduta dei Giudei. Girolamo allegorizza le cure del padrone per la sua
vigna: la siepe rappresenta la divina protezione, la torre il tempio e alla fine, dice, la vigna è
affidata a noi, ai cristiani. Qui ci soffermiamo però su quanto dice Ambrogio. Anzitutto egli
considera la vigna come creatura di Dio e casa di Israele. “È dunque Lui che la diede in affitto e

429
C. M. MARTINI, Padre nostro, Milano 1999, 13-15
430
H.WEDER, 120.
431
J. JEREMIAS, 88.
432
H. WEDER, 196.

202
partì per andare lontano, non nel senso che il Signore si sia trasferito da un luogo all’altro, dato
che Egli è sempre dappertutto, ma perché è più vicino a chi lo ama, ma sta lontano da chi lo
trascura. Egli fu assente per lunghe stagioni, per evitare che la riscossione sembrasse prematura”.
Per Ambrogio433 la descrizione della vigna che richiama Isaia, assume un significato che
si fa allegoresi: la siepe significa la protezione divina; il torchio riecheggia lo spirito dei profeti
ebbri dello Spirito Santo come di mosto uscito appunto da questo torchio; la torre simboleggia il
culmine della Legge.
“Al tempo della raccolta dei frutti”, dice ancora, “i torchi traboccarono non di vino che
rallegra, non di mosto spirituale, ma del sangue rosseggiante dei profeti”. Particolarmente
interessante è l’accostamento che Ambrogio fa tra il servo colpito alla testa e la morte di Isaia
narrata nel libro apocrifo della Ascensione di Isaia. Quel servo, dice, è proprio Isaia, che fu
segato in due. Ambrogio ricava diversi ammaestramenti da questa parabola. Egli sostiene che
Cristo è venuto come estremo rimedio delle perversità: chi rinnega dunque l’Erede, dispera del
Creatore. La vigna è prefigurazione di noi: il popolo di Dio, stabilito sulla radice della vita
eterna. Il vignaiolo è senza dubbio il Padre onnipotente, la vite è Cristo, e noi siamo i tralci: ma
se non portiamo frutto in Cristo, veniamo recisi dalla falce del coltivatore eterno (Gv 15,1).
L’Epistola a Diogneto434 invece, si concentra maggiormente sull’invio del figlio e lo
commenta. Egli vuole intravedere in questo invio il mistero dell’incarnazione: “Il Creatore
dell’universo e Dio invisibile, egli stesso fece scendere dal cielo tra gli uomini, la sua Verità, la
sua Parola santa e incomprensibile, e la stabilì nei loro cuori. E lo fece […] mandando lo stesso
Artefice e Fattore di tutte le cose”. L’Epistola ci parla anche del modo con cui il Padre manda il
Figlio, con un accenno alla funzione escatologica: “Qualcuno potrebbe pensare: lo inviò per
tiranneggiare o spaventare o colpire gli uomini. No davvero! Lo inviò con mitezza e con bontà
come un re manda suo figlio (cfr. Mt 21,37); lo inviò come Dio e come uomo fra gli uomini; e
fece questo per salvare, per persuadere, non per violentare; a Dio non conviene la violenza! Lo
inviò per chiamare, non per castigare, lo inviò per amare, non per giudicare. Lo invierà, sí, un
giorno, a giudicare: e chi potrà allora sostenere la sua presenza? (cf. Ml 3,2)”.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la ricerca – azione nella scuola secondaria di II grado.

Scuola secondaria di II grado (classe V)

R.A. Ricerca Azione

Dominio dei concetti di violenza e possesso

Focus di attenzione della R.A.

La parabola dei vignaioli omicidi

Items della R.A.

Problem solving Che farà il padrone del vigneto?

433
AMBROGIO DI MILANO, Esposizione del Vangelo secondo Luca/2, in Opera Omnia di Sant’Ambrogio, vol. 12,
Biblioteca Ambrosiana, Milano 1997, 379-389.
434
Epistola a Diogneto, a cura di S. ZINCONE, Roma 1977, 73-74.

203
L’intero gruppo classe è coinvolto nella ricerca
Presenza – azione per acquisire conoscenze e abilità per
lo sviluppo di competenze attese.

I risultati della ricerca vanno contestualizzati e


Contesto resi utili ad eventuali implementazioni per
contesti simili.

Il testo della parabola va analizzato;

dall’analisi si passa all’azione di ricerca di


gruppo;
Ordine logico
dalla ricerca si procede alla fase della
riflessione;

dalla riflessione il gruppo ritorna sull’analisi


del testo, contestualizzandola.

Riflessione Riflettere sulla teoria acquisendo


consapevolezza delle azioni.

Far confluire pratica e teoria in un’azione


Spendibilità dinamica e circolare di esperienza vissuta.

Competenze attese dalla R.A.

ü Avere gli strumenti di giudizio sufficienti per valutare se stessi, le prorie azioni e
comportamenti.
ü Essere disponibile al rapporto di collaborazione con gli altri, per contribuire con il
proprio apporto personale alla realizzazione di una società migliore.

Azione didattica

ü Gli allievi, prima singolarmente, poi in gruppo, analizzano il testo della parabola nella
prospettiva della relazione tra gruppo e problem solvine.

ü Gli allievi realizzano una mappa delle espressioni “forti” del testo.

ü La cooperazione tra gli allievi e l’ascolto reciproco avvicina tutti verso lo scopo della
ricerca: Dominio dei concetti di violenza e possesso.

204
ü Costruzione di un differenziale semantico tra i due termini: violenza e possesso.

ü Realizzazione di una teoria della ricerca attraverso domande come:

Conosco il significato di violenza?


Conosco il significato di possesso?

Definiamo il termine violenza.


Definiamo il termine possesso.

Quando sono violento.


Quando esprimo possesso.

Esiste la violenza positiva?


Esiste il possesso Positivo?

‫ ٭‬Ogni avanzamento della ricerca va riportato all’analisi del testo della parabola, da cui il
problema da risolvere:<< Cha farà il padrone del vigneto?>>.

‫ ٭‬La ricerca continua calata nell’azione quotidiana di scuola e di extrascuola attraverso la


narrazione.

Conclusione

L’itinerario proposto ci ha consentito di approfondire sia sul piano esegetico che su


quello teologico una delle parabole più utilizzate nella riflessione cristologica: la parabole dei
vignaioli omicidi (Mc 12,1-12). Dopo aver riflettuto sulla funzione del linguaggio parabolico,
abbiamo cercato di evidenziare la ricchezza di questa singolare parabola che fa da spartiacque tra
la comunità pre-pasquale e quella post-pasquale. Infatti non vi è dubbio che il racconto dei
vignaioli omicidi rivela un processo di coscientizzazione e di crescita nella fede da parte della
Chiesa primitiva. Le sue relazioni con il mondo veterotestamentario e la chiara allusione alla
morte del Figlio costituiscono il nucleo dello sviluppo della fede cristiana rispetto alle promesse
antiche. Sottolineiamo tre aspetti determinanti della riflessione teologica di questa parabola: a) la
rilettura della «storia della salvezza» nell’immagine della vite e dei frutti «a tempo opportuno»;
b) l’invio del Figlio e il suo destino di morte; c) il giudizio sull’oggi mediante la citazione del Sal
118,22 e la nuova realtà della vita ecclesiale, fondata sulla roccia di Cristo.
A partire da queste tre prospettive teologiche possiamo cogliere la ricchezza della
parabola dei vignaioli omicidi, che anche oggi può essere riletta nella logica della nuova
evangelizzazione e del nuovo martirio per la fede. La chiesa sente più che mai il dovere di
evangelizzare la salvezza senza sostituirsi nel ruolo dei vignaioli omicidi. Al contrario, è proprio
il cammino di verità e di solidarietà con ciascun uomo che consente alla comunità cristiana di
realizzare il progetto di Dio di una nuova fraternità, di cui primogenito è il crocifisso Risorto,
pietra angolare, segno di contraddizione.

205
VANGELO SECONDO LUCA

206
XIV.
LA PARABOLA DEL BUON SAMARITANO (Lc 10,25-37)

Introduzione

La parabola del Buon Samaritano (Lc 10,25-37), preceduta dal dialogo tra Gesù e il
maestro della Legge è di materiale lucano ed è una delle pagine più conosciute nella catechesi e
nella predicazione pastorale. Icona della carità, segno della totale discontinuità tra il modo di
pensare degli scribi e dei farisei e il nuovo modo di pensare dei credenti in Cristo. La parabola
del buon samaritano rispecchia in modo profondo la figura del buon pastore, o meglio del bel
pastore; essa è un modello per tutti coloro che aspirano al sacerdozio e di come deve essere il
capo di una comunità. Dal cuore del buon samaritano sgorga una grande carità che mira al bene
del fratello piuttosto che al proprio tornaconto personale, carità che ha sete dell’uomo bisognoso,
abbandonato per le strade del mondo.
Sorprende la grande attualità di questa parabola: anche noi siamo chiamati ad essere i
samaritani di tanti nostri fratelli che giacciono sotto il potere delle tenebre. Inizieremo il nostro
lavoro sviluppando l’analisi prima letteraria dell’opera e poi quella teologica. Nell’analisi
letteraria è possibile vedere come il racconto del buon samaritano primeggia nella sezione
centrale del vangelo di Luca, che ha come cornice l’ascesa di Gesù a Gerusalemme; in Luca la
maggior parte delle parabole sono collocate in questo contesto assai ampio, che è una delle
caratteristiche del suo vangelo435. Accanto, poi, all’analisi letteraria cercheremo di individuare i
temi teologici che più ci possono aiutare nella comprensione di questa parabola nell’oggi della
nostra storia.

I. Analisi letteraria

1.1 Contesto

Il Regno di Dio che viene in Gesù cambia radicalmente l’uomo nella sua intimità, e nel
rapporto con gli altri436. Staccata originariamente dall’attuale contesto lucano, dove è inserita
nella risposta alla questione di uno scriba su «cosa si deve fare per ottenere in eredità la vita
eterna» (vv 25-29.37), nell’intenzione di Gesù aveva uno scopo ben preciso: rivolta ad un
pubblico giudaico, l’insegnamento della parabola si concentrava proprio sul buon samaritano.
Vanno ricordati il grande odio tra Giudei e samaritani, registrato anche da Gv 4,9. Per un giudeo
era impossibile immaginare un buon samaritano, che aiuta con una carità esemplare un povero
giudeo senza nome, bisognoso di aiuto e di cui avrebbe piuttosto dovuto sentirsi nemico o
almeno estraneo. Ecco invece che con l’irruzione del Regno di Dio nella storia, si rovesciano i
rapporti fra gli uomini, si supera ciò che è ovvio e scontato: le divisioni etniche, politiche o
religiose che li separano e si attua ciò che sembrava impossibile e inesprimibile437.
L’azione del samaritano, nata dal vedere e dal conseguente compatire, «avendolo visto ne
ebbe compassione», viene analizzata nei vv. 33-35, che costituiscono circa la metà di tutta la
parabola. Ecco l’azione: si avvicina, fascia le ferite, vi sparge sopra olio e vino, poi lo pone sulla
propria cavalcatura, lo porta all’albergo, si prende cura e si preoccupa di lui; il giorno dopo
consegna due denari all’albergatore, gli raccomanda di prendersi cura di lui con la rassicurazione
che se avesse speso di più, glielo avrebbe ripagato al suo ritorno. Tutta questa descrizione minuta

435
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Luca. Dalla sorgente alla foce, 10.
436
Cfr. G. SEGALLA, “Il Buon Samaritano:visione di Dio in Cristo Salvatore” in AA.VV., Diaconia della carità
nella pastorale della Chiesa locale, Padova 1988, 101.
437
Cfr. G. SEGALLA, 101.

207
intende illustrare la carità delicata e completa del buon samaritano verso quel giudeo, praticata
solo perché era un uomo nell’indigenza ed egli aveva la possibilità di aiutarlo, in quel preciso
momento438. Immaginiamo l’impressione che deve aver fatto la parabola al pubblico giudaico cui
fu rivolta: una rivoluzione radicale di giudizio e di mentalità che veniva richiesta.
Prima della parabola troviamo la beatitudine di Gesù rivolta ai discepoli, rientrati
esultanti dalla missione (vv. 23-24); queste sentenze sono separate dall’incontro con i discepoli
reduci dalla missione e dalla preghiera di Gesù Cristo nello Spirito (vv 21-22) nella quale Gesù
rende lode al Padre perché ha tenute nascoste queste cose ai dotti e ai sapienti e le ha rivelate ai
piccoli. Se si procede oltre a queste sezioni riguardanti i discepoli inviati in missione, di cui si dà
lo statuto nella missione relativa, si arriva all’inizio del viaggio che segna una svolta tematica e
letteraria del terzo vangelo (Lc 9,51-53). Gesù che ha preso la decisione di andare a
Gerusalemme e viene respinto dai samaritani proprio per questo motivo: «perché era diretto a
Gerusalemme». I discepoli di fronte a questo rifiuto vorrebbero invocare il giudizio di Dio, il
fuoco dal cielo, «ma Gesù si voltò e li rimproverò» (9,54-55). A questo quadro iniziale seguono
le scene di chiamata, dove sono indicate le condizioni per quelli che si mettono al seguito di
Gesù e fanno “strada” con Lui (9,57-62). Lo statuto del discepolo è definito come quello di chi
con decisione senza remore e nostalgie condivide il destino di Gesù incamminato verso
Gerusalemme, dove si compirà il Suo viaggio. I discepoli devono mettere in conto il rischio del
rifiuto nella loro missione al seguito di Gesù ma, nello stesso tempo, possono contare sulla
promessa dell’ efficacia dell’annuncio salvifico-“pace”- presso quelli che l’accolgono439. La
parabola del buon samaritano è seguita dall’episodio di Gesù che viene accolto da Marta.
L’accoglienza di Gesù mentre è in viaggio, con il riferimento al Suo ingresso in un villaggio,
rappresenta una situazione rovesciata rispetto a quella iniziale, dove Gesù è rifiutato dai
Samaritani perché è diretto a Gerusalemme. Nell’accoglienza di Gesù in casa di Marta si indica
quel che è lo statuto dell’autentico discepolo. La figura di Maria, che ha scelto la parte migliore,
unica e necessaria che non le sarà mai tolta, rappresenta il prototipo del vero discepolo che
ascolta la parola del Signore.
In sintesi abbiamo la seguente cornice narrativa:
Lc 9,51-56: decisione del viaggio verso Gerusalemme;
Lc 9,57-62: istruzioni per seguire Gesù;
Lc 10,1-11: la missione dei settantadue discepoli;
Lc 10,12-16: l’invettiva contro le città incredule;
Lc 10,17-20: il ritorno dei settantadue discepoli;
Lc 10,21-24: l’inno di giubilo del Signore;
Lc 10,25-37: il dialogo con il maestro e la parabola del buon samaritano;
Lc 10,38-42: Marta e Maria.
Con questa sequenza possiamo considerare chiuso il contesto nel quale è inserita la
parabola del buon samaritano440. All’interno di questa cornice avente come personaggi
fondamentali Gesù e discepoli, si deve interpretare anche il dialogo tra Gesù e i suoi circa il
problema fondamentale: «Che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»441.

1.2 Proposte di strutturazione della parabola

Tra le strutturazioni trovate circa questo testo, interessanti sembrano quelle soprattutto di
Bagni e di Gourgues/Fabris. Mentre Bagni propone una struttura bipartita, incentrata la prima sul
comandamento dell’amore a Dio mentre la seconda su quello al prossimo, Gourgues e Fabris ne
propongono una in cinque tempi che va da una motivazione iniziale a tre sequenze centrali per
poi chiudersi alla domanda/risposta tra Gesù e il dottore della legge(evidentemente usando

438
Cfr. G. SEGALLA, 101.
439
Cfr. R. FABRIS, «La parabola del Buon Samaritano», PSV 11(1985) 130s.
440
Cfr. R. FABRIS, 131.
441
Cfr. R. FABRIS, 132.

208
terminologie differenti ma suddividendo nello stesso modo). Per il mio lavoro ho scelto quella
proposta da Gourgues e Fabris.

Testo strutturato da Bagni442:


- Ama il Signore Dio tuo (10,25-28)
- Ama il tuo prossimo (10,29-37)

Testo Strutturato da Fabris443:


Motivazione (10,25-29)
- Sequenza iniziale (10,30)
- Sequenza di transizione (10,31-32)
- Sequenza centrale / vertice (10,33-35)
Domanda finale e risposta (10,36-37)

Testo strutturato da Gourgues444:


Motivazione (10,25-29)
- L’uomo malmenato (10,30)
- L’uomo trascurato (10,31-32)
- L’uomo aiutato (10,31-32)
Domanda finale e risposta (10,36-37)

Sintetizzando le diverse sfumature strutturali, ci sembra di poter aderire ad un modello di


struttura che riprende sia la intuizione di Fabris che le indicazioni di Gorgues.

25 Ed ecco un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per
ereditare la vita eterna?». 26 Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi
leggi?». 27 Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua
anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». 28 E
Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29 Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù:
«E chi è il mio prossimo?».

30 Gesù riprese:«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.

31 Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre
dall'altra parte. 32 Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre.
33 Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione.
34 Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo
giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. 35 Il giorno seguente, estrasse due denari
e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al
mio ritorno.

36 Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». 37
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

I.3 Analisi esegetica445

442
Cfr. A. BAGNI (a cura di), Vangelo secondo Luca, (Dabar-Logos-Parola), Padova 2000, 79.
443
Cfr. R. FABRIS, 133s.
444
Cfr. M. GOURGUES, 12.
445
Per la mia analisi esegetica di questo testo mi avvarrò essenzialmente del commento di G. ROSSÉ, Il Vangelo di
Luca. Commento esegetico e teologico, 403ss.

209
v.25:
Ed ecco un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per
ereditare la vita eterna?».

«Ed ecco» (kai idou). Il versetto proviene dalla fonte ma con rimaneggiamenti redazionali. Il
dottore della legge si rivolge a Gesù con un intento ostile, ma che poi non compare più nel resto
dell’unità letteraria. Voleva vedere se questo maestro, Gesù di Nazareth, conoscesse il suo
mestiere? Ma la domanda attuale in Luca non corrisponde più a simile intenzione; è una
domanda centrale sull’esistenza religiosa: come ereditare la vita dopo la morte?

v.26:
«Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella legge? Che cosa vi leggi?”».

Come nel genere letterario delle discussioni rabbiniche, Gesù reagisce con una contro-domanda,
assumendo la condizione di maestro che interroga. In modo più inatteso Egli non si appella alla
conversione, all’accoglienza dell’annuncio sulla vicinanza del regno di Dio, ma rimanda
l’interlocutore alla legge di Mosè: essa continua ad esprimere la volontà autentica di Dio, e
accogliere l’interpretazione che ne da Gesù è già «non essere lontano dal Regno di Dio»446.

v.27:
Costui rispose: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta
la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso».

Nel terzo vangelo è il dottore della legge che mette insieme Dt. 6,5 e Lv. 19,18, e cioè il
comandamento dell’amore di Dio e del prossimo. Luca non dimostra nessuna pretesa di
attribuire questa originalità a Gesù stesso. Mentre in Mc e Mt si parla di un primo e secondo
comandamento e si cerca di stabilire un rapporto tra di essi e la loro posizione rispetto agli altri
precetti della legge, in Luca i due comandamenti sono strettamente uniti in un’unica frase; viene
molto più accentuato il carattere inseparabile dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Non
si può amare Dio senza amare l’uomo e quest’ultimo può essere amato in verità soltanto se
incontra in chi lo ama la qualità e la misura dell’amore divino. Se l’amore di Dio si manifesta
concretamente nell’amore verso il prossimo, non ci troviamo di fronte alla manifestazione di un
Dio totalmente rivolto non verso Se stesso ma verso il bene dell’uomo? Unendo i due
comandamenti Gesù ha tirato la religione fuori del tempio per farla entrare nella vita quotidiana,
come vita vissuta sotto lo sguardo di Dio. Con ciò stesso l’uomo non è più diviso tra doveri nei
confronti di Dio e il suo comportamento nella vita sociale. D’altra parte viene richiesto ad
ognuno ciò che lo fa essere veramente uomo secondo la legge profonda iscritta dal Creatore
nell’essere umano, l’amore come legge fondamentale dell’esistenza. E’ superato il principio
rabbinico: chi non ha osservato uno dei 613 precetti non ha compiuto tutta la legge. Ma cosa
intende la Scrittura con “amare Dio”?. Nella teologia deuteronomista, questo comandamento
viene formulato nel contesto dell’alleanza sinaitica . E’ esigenza fondamentale che consiste nel
comportarsi in modo assolutamente leale nei confronti del pater. L’amore per Dio implica quindi
fiducia e obbedienza ed esprime sotto forma di scelta totale di Dio la risposta dell’uomo
all’iniziativa divina. L’obbedienza tuttavia si attua in un rapporto personale e non viene subita
come costrizione. Per l’israelita, il comando era compreso come manifestazione del volere di Dio

446
Secondo il suggerimento di J. Jeremias, la seconda domanda: «come leggi?» corrisponde alla formula rabbinica:
«come reciti?» con riferimento allo Shema΄ Israel recitato due volte al giorno, e quindi lo scriba viene già preparato
alla risposta di Gesù.

210
della salvezza nei confronti degli uomini447. La citazione enumera il cuore (cioè il centro delle
grandi decisioni), l’anima (la persona nella sua coscienza e vitalità), la forza (l’attività), la mente
(l’intelligenza) come espressione della totalità della persona nel suo essere e fare. L’esigenza di
Lv 19,18 era già sentita al tempo di Gesù come comandamento fondamentale della legge
(Hillel) ma, come dice la parola stessa, il prossimo era colui che mi sta vicino, il membro del
popolo eletto; la parola ebraica corrispondente significa amico, il solidale, il collega. Già Dt
10,19 vi include il forestiero che abita in Palestina, cioè l’immigrato (lo straniero e il samaritano
sono esclusi). Nel giudaismo, con lo sviluppo dei movimenti religiosi, la nozione tende a
restringersi ai membri della propria setta ( farisei, Qumran: 1 Qs 1,9-10; 2, 24; 5, 25). Nel
vangelo di Luca, la questione della gerarchia dei comandamenti è superata. L’amore di Dio e del
prossimo intimamente legati sono ormai riconosciuti come legge fondamentale del
comportamento da tenere per ereditare la vita eterna.

v.28:
E Gesù: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».

Gesù non può che approvare l’interpretazione che il dottore della legge ha dato. Ma con touto
poiei kai zese, “fa questo e vivrai” (Lv. 18,5), gli viene chiesto di scendere dalla conoscenza
all’incarnazione concreta: solo la vita è la dimostrazione pratica della giusta comprensione della
legge. Come indica il presente dell’imperativo “fà”, si tratta di un impegno che dura tutta
l’esistenza. Solo la pratica costante, porta alla vera vita che, per Luca, si identifica con la
beatitudine data all’ individuo dopo la morte.
Ad un certo punto della tradizione forse da Luca stesso la parabola del buon samaritano fu unita
alla pericope sul doppio comandamento. Più che una parabola in senso tecnico, la narrazione si
presenta come un racconto per esempi; descrive un comportamento-modello che l’ascoltatore è
invitato ad imitare: «poreiou kai siu poiei omoios: Và e fà altrettanto»: questo a livello
redazionale. Adesso Gesù non rimanda più l’interlocutore alla legge per trovare risposta alla sua
domanda, ma alla vita concreta fatta di relazioni più o meno attuate. I personaggi che si devono
confrontare con l’uomo ferito sono agli estremi opposti: un sacerdote e un levita da una parte, un
samaritano dall’altra. Ad un primo approccio, il racconto è aperto a varie interpretazioni: è una
polemica contro la classe sacerdotale; è una critica del giudaismo che tende a isolarsi dal resto
degli uomini; è problematica del rapporto tra giudei e pagani; è pretesta contro ogni
discriminazione religiosa, razziale e sociale; è affermazione che la misericordia vale più del
culto; è possibilità data a tutti gli emarginati del sistema religioso di amare e quindi di fare la
volontà di Dio.

v.29:
Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?».

Considerando il vocabolario, è difficile sapere con sicurezza se il v. 29 provenga nel suo insieme
dalla tradizione o dalla redazione. Tuttavia la formulazione parla in favore di un’origine
prelucana, perché non corrisponde più al punto di vista dell’evangelista e dei suoi lettori che
vedono nella parabola un insegnamento sull’amore del prossimo più che una definizione della
dimensione di prossimo in senso casistico. L’espressione «dikaiosai eauton eipen :Volendo
giustificarsi», se pure non è stata scritta direttamente dalla mano del redattore, ha comunque
carattere secondario: suppone infatti il motivo di mettere alla prova; venne quindi introdotta
allorché la parabola fu unita alla pericope del doppio comandamento.

447
La citazione di Dt 6,5 in Lc non è conforme né al testo ebraico né ai LXX che constano di tre elementi; nei LXX:
mente, anima, forza (dynamis);in Lc: cuore, anima, forza (ischys), mente. Probabilmente «cuore» (kardia) e
«mente» sono la traduzione della stessa parola ebraica: leb (cuore).

211
Di conseguenza, ha poca importanza indovinare il motivo per cui il dottore della legge vuole
giustificarsi448. Con una certa probabilità, dunque, la domanda «Tis estin mou plesion: Chi è il
mio prossimo?» faceva parte del racconto originale: è una tipica questione di casistica. Il
concetto di prossimo, come quello dell’amore, sono nozioni che appartengono all’ambito
dell’alleanza; è all’interno di essa che il Giudeo cerca l’applicazione nella sua esistenza. Il
«prossimo» nella concezione biblica e giudaica è definito all’ interno del contesto dell’alleanza,
dove si colloca la legge. Il prossimo è il membro del patto, per il quale vale l’applicazione e
l’osservanza della legge. Esclusi dal concetto di prossimo e quindi dal dovere dell’amore erano i
pagani, i samaritani, qualche volta il nemico personale, o semplicemente chi non faceva parte
della propria comunità religiosa, come indica la prescrizione della regola della comunità di
Qumràn: amare tutti i figli della luce (= della setta), odiare tutti i figli delle tenebre. A Gesù è
stato chiesto di delimitare, all’interno del popolo dell’alleanza, le frontiere del comando
dell’amore. Luca non ha in mente tale problematica. Egli ha superato il concetto giuridico di
«amore»,e il prossimo significa ogni uomo. L’attenzione si concentra sull’esigenza dell’amore
concreto richiesto al credente nei confronti di tutti. La parabola diventa un commento cristiano
alla prescrizione di Lv 19,18 (= Lc. 10,27c).

v.30:
Gesù riprese:«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo
spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.

Gesù non si lascia condurre dalla casistica. In modo originale, risponde con una parabola e
quindi non risolve un caso legale, ma descrive un caso umano. Un uomo è assalito dai banditi. Il
racconto non è composto in modo da spingere il lettore a indovinare l’identità dell’uomo
(senz’altro un giudeo per l’ascoltatore di Gesù) o dei briganti (zeloti?) ma gli interessa
presentare la situazione di un uomo in urgente bisogno di aiuto. Non c’è dubbio che la parabola
sia di origine palestinese (con ogni probabilità, di Gesù): chi racconta conosce la pericolosità
per i viaggiatori e per la loro vita.

vv.31-32:
Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre
dall'altra parte. Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre.

Entrano in scena due addetti al culto: un sacerdote e un membro della tribù di Levi - i leviti
avevano una funzione subalterna nel servizio liturgico del tempio: ordine, pulizie -. Tornano
probabilmente da tale servizio – che durava una settimana – e si recano a Gerico, dove abitano
molti sacerdoti e leviti con le loro famiglie. Ma perché si sono astenuti? Il racconto non dice
nulla. Si attiene strettamente ai fatti, senza interessarsi dei motivi. Generalmente si ritiene che si
astengano per motivi di purità legale (Lv 21,1ss; Nm 19,11: «Non toccare un morto»)449. È vero
che il contatto con un cadavere rendeva impuro per sette giorni e interdiceva ai sacerdoti il
servizio del Tempio. Il sacerdote e il levita avrebbero dunque voluto evitare di contrarre
un’impurità rituale che avrebbe loro impedito di presiedere il sacrificio. Ma tale motivo non
tiene. Abbiamo visto che il racconto non si interessa dei motivi e, inoltre, bisogna notare che il
sacerdote e il levita non vanno a Gerusalemme, ma stanno ritornando. Comunque, anche
supponendi che siu debba spiegare il fatto con l’interdizione di Lv 21, questa, presa alla lettera,
vale solo per il sacerdote, non per il levita. Infine, non c’è nulla nel racconto che permetta dfi
assimilare ad un cadavere l’uomo abbandonato, che il v.30 qualifica come “afentes emithane:

448
Varie spiegazioni sono avanzate: egli vuol far capire che la sua prima domanda merita un discorso approfondito;
per cavarsi l’impiccio, dopo aver fatto una domanda alla quale ha dovuto o saputo rispondere egli stesso; per
togliere l’impressione di voler mettere Gesù alla prova; come esempio della superbia del fariseo che vuole aver
sempre l’ultima parola e non accetta lezioni dagli altri.
449
Cosi, per esempio, a giudizio di Jeremias: cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 202.

212
mezzo morto”450. Secondo il Rossè, però, non importa sapere perché non soccorrano il
malcapitato, in quanto a suo parere non c’è anticlericalismo nel racconto. Tuttavia la scelta di un
sacerdote e di un levita, che rappresentano il fior fiore della società israelitica, non è casuale:
sottolinea il contrasto con il personaggio del samaritano. Tuttavia, bisogna notare, in linea
generale, che Lc si dimostra ordinariamente assai rispettoso del Tempio e del sacerdozio. Il suo
libro inizia (1,5-25) e finisce (24,53) nel Tempio e il secondo libro, gli Atti, mostrerà i discepoli
fedeli nel frequentarlo assiduamente. Inoltre, secondo il suo vangelo, Gesù per due volte manda i
lebbrosi a presentarsi ai sacerdoti (5,14; 17,14), dando prova di rispetto nei riguardi del
sacerdozio e del ruolo che gli compete451.

v.33:
Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione.

Il comportamento del samaritano viene descritto in modo identico rispetto a quello del sacerdote
e del levita. Per il samaritano si inizia nello stesso modo ma subito dopo il contrasto diventa
impressionante. Senza dubbio, ci si aspetterebbe l’entrata in scena di un Giudeo laico: il racconto
verrebbe così ad assumere un tono anticlericale gradito anche alla folla. Ma come in molte
parabole, ecco l’effetto sorpresa destinato a colpire l’ascoltatore e a farlo riflettere. Il terzo
personaggio, quello poi che chi ascolta sarà condotto a giudicare come modello di
comportamento (v.36), è un samaritano, odiato in quanto eretico e peccatore. E’ un bell’esempio
in cui si vede come Gesù porti l’ascoltatore ad accettare l’evidenza che deriva dalla logica del
racconto, facendogli fare così un vero rovesciamento di mentalità; Gesù porta l’ascoltatore ad
entrare nella visione di un amore senza barriere, un amore che rassomiglia a quello di Dio per
l’uomo peccatore e che è ora manifestato nel comportamento di Gesù stesso. Accettare la
conclusione della parabola implica il superare l’odio contro il samaritano e di conseguenza
contro ogni straniero. Se infatti per mettere in luce il rapporto tra soccorritori e ferito, Gesù
sceglie il proposito di un samaritano, allora cadono tutti i motivi religiosi o nazionali: è un uomo
che incontra un uomo, al di sopra di ogni discriminazione di razza, di religione, di nazionalità.
La descrizione della condotta del samaritano è fatta con cura, per differenziarla nettamente dalla
condotta del sacerdote e del levita. Il samaritano si rende vicino al ferito, è mosso da
compassione, le viscere gli si stringono. Il verbo «splagchnizesthai» è centrale: da questa
commozione scaturisce il successivo comportamento del samaritano. Il verbo è già utilizzato
nella Bibbia per parlare della compassione di Jhwh per i deboli, i poveri. E’ il sentimento
attribuito a Gesù nei confronti dell’uomo bisognoso di aiuto (cf. Mc. 1,41; 6,34; 8,2; Lc7,13;
15,20). Non a caso i Padri della Chiesa hanno intravisto nella figura di Gesù questo samaritano.

vv. 34-35:
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo
giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li
diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio
ritorno.
Nei versetti 34-35 viene descritta con dettaglio la cura data al ferito452. Il racconto continua
elencando una cascata di azioni: 7 verbi:
1. ne ebbe compassione
2. e avvicinatosi
450
Cfr. M. GOURGUES, 15.
451
IDEM, 16.
452
La descrizione del gesto del samaritano è riportata nei minimi particolari. I verbi lucani sono massimamente
espressivi, costruiti secondo un crescendo vorticoso che esprime la totale donazione dell’uomo straniero nei riguardi
del malcapitato: lo vide (idōn), ne ebbe compassione (esplagchnisthē), gli si fece vicino (proselthōn), gli fasciò le
ferite (katedēsen ta traumata), versò olio e vino (epicheōn elaion kai oinon), lo caricò sul cavallo (epibibasas de
auton epi ton idion ktēnos), lo condusse alla locanda (ēgagen auton eis pandocheion) si prese cura di lui (epemelēthē
autou), pagò di persona (edōken duo dēnaria), con l’impegno di «ritornare» per seguirne la convalescenza.

213
3. gli fasciò le ferite
4. versando sopra olio e vino
5. poi caricatolo sul suo giumento
6. lo portò a una locanda
7. si prese cura di lui.

Come se non bastasse, il racconto continua descrivendo di nuovo 7 azioni -ancora 7 verbi di fila-
compiute o ordinate il giorno seguente dal samaritano:

1. il giorno seguente estrasse due denari


2. e li diede al locandiere
3. e disse:
4. «Abbi cura di lui,
5. e quel che spenderai in più
6. te lo restituirò
7. quando ritornerò».

Due volte sette: è un puro caso? Luca in altri passi conosce e sa sfruttare il valore simbolico del
numero 7. Per esempio in 17,4 (se pecca 7 volte…gli perdonerai); 8,2 (7 demoni); 11,26 (sette
cattivi spiriti); 20,29-33 (7 mariti) ecc. In un’altra sua parabola si ritrova una serie di 7 verbi che
esprimono altrettante azioni da compiersi: la parabola del Padre misericordioso. In lc 15,20 il
comportamento del Padre è così desritto: «Quando era ancora lontano, il Padre lo vide e ne sentì
compassione (eiden auton kai esplanchnisthe)». Questo corrisponde esattamente al
comportamento del buon Samaritano: «Avendolo visto ne ebbe compassione (kai idon
esplanchnisthe…)».Si tenga conto o no del simbolismo del numero 7 è chiaro che il culmine del
racconto è nei vv. 33-35 che descrivono le cure prodigate dal buon samaritano. La sua generosità
fa da contrasto all’indifferenza del sacerdote e del levita. Il racconto si articola quindi attorno
all’antitesi fondamentale nulla/tutto: al contrario del sacerdote e del levita che non fanno nulla, il
samaritano testimonia la pienezza e la perfezione nell’amore e nel servizio del prossimo453.
Il vino serve da disinfettante mentre l’olio allevia il dolore (cf. Is). Inutile chiedersi da dove il
samaritano tira fuori le bende, a quale distanza è l’albergo, se l’uomo cavalca un asino
(ktenos:animale domestico da cavalcare o da carico)454, se ha bagagli etc. I dettagli servono per
illustrare ciò che Gesù intende per «amare». La parabola non è un rapporto protocollare, ma una
proclamazione viva. Il samaritano incarna cosa significhi concretamente amare fino in fondo; è
un esempio pratico che risponde alla domanda: «Cosa devo fare?». Il samaritano agisce non per
motivi coscientemente soprannaturali o per obbedienza ai comandamenti; eppure, in questo suo
comportamento così umano, egli incarna il comportamento di Dio e fa ciò che è il cuore della
legge.

v. 36:
Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?».

Il dottore della legge aveva chiesto: chi è il mio prossimo, cioè chi, secondo la legge, devo
amare? Gesù, nella domanda che conclude e sintetizza la parabola, chiede: «Chi si è fatto
prossimo», cioè «chi ha amato?». La parabola è proprio formulata da Gesù in modo da dover
superare il punto di vista casistica della domanda iniziale. La nozione di «prossimo» (plesion)
non è legata a una definizione giuridica, ma nell’amore concretamente vissuto. Nel contesto del
Levitino il prossimo (rea) comprendeva, accanto all’Israelita, il ger, cioè lo straniero assimilato.
Gli scribi identificavano questa categoria a quella dei proseliti e in generale si accordavano per
estendere a questi ultimi il dovere dell’amore del prossimo. Accusati di sincretismo e considerati
453
Cfr. M. GOURGUES, 20-21.
454
Cfr. G. ROSSE, 409, n. 176.

214
come eretici, i Samaritani erano disprezzati ed esclusi dalla comunità di Israele. A tale titolo non
potevano di sicuro far parte del prossimo da amare. Alla domanda di Gesù, perciò, il dottore
della Legge manifesterà una certa reticenza nel rispondere «il Samaritano» e preferisce ricorrere
a una perifrasi: «Colui che ha avuto misericordia nei suoi riguardi»455. L’amore di misericordia è
un’esigenza che non conosce frontiere.

v. 37:
Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' lo stesso».

Il dottore della legge deve riconoscere che il samaritano -evita volutamente di nominarlo?- ha
agito bene, ha fatto ciò che la parola «prossimo» implica: essere vicino, creare rapporti; deve
quindi riconoscere che il prossimo è colui che fa misericordia, colui che di volta in volta si rende
vicino a chi sta nel bisogno. Gesù ha portato l’interlocutore da una nozione teorica alla
concretezza, con un invito implicito a superare ogni barriera che possa dividere dall’altro.
Quest’invito è diventato esplicito nella seconda parte del versetto che è redazionale. Con un «tu»
(sou) enfatico posto davanti all’imperativo -«tu fa…», l’evangelista si rivolge al lettore: l’amore
manifestato concretamente per chiunque è la condizione per aver parte alla vita eterna (v. 25).

1.4 Messaggi teologici

Dall’analisi della parabola lucana possiamo individuare alcuni messaggi teologici che si
collegano all’intera visione teologica dell’evangelista. Indichiamo sei aspetti del messaggio
teologico che emergono dalla lettura di questo splendido testo parabolico:
1. La parabola ci fa capire che davanti al Signore una persona che non ha la pienezza della
Rivelazione può salvarsi molto di più di chi è inserito nella comunità ecclesiale.
2. Il prossimo è chiunque, al di la delle differenze di razza, religione, interessi.
3. Il problema della parabola non è tanto di sapere chi è il prossimo, ma di farsi prossimo. Si
tratta di convertirsi, uscendo da se stessi, dai propri egoismi, vedendo il proprio simile come
fratello, e non come concorrente.
4. Lo scriba aveva un problema teologico da risolvere (chi è il mio prossimo); lui deve prima
convertire se stesso, poi con la grazia di Dio potrà capire chi è il suo prossimo.
5. Nella parabola Gesù è il samaritano che si pone come modello da imitare per chi vuole
mettersi alla Sua sequela.
6. Nella parabola appare la stretto legame tra carità cristiana e Rivelazione storica dell’amore di
Dio in Cristo che è l’essenza stessa del Regno.

II. ANALISI TEOLOGICA

Dopo aver elencato i diversi messaggi andiamo ad approfondire le prospettive teologiche


derivanti dalla nostra pericope.

II.1 La domanda sul comandamento “più grande”

La domanda sul comandamento più importante della Legge implica il dovere del
discernimento e la necessità di individuare criteri chiari ed adeguati. Gesù invita il maestro della
legge a «fare sintesi» unendo i due comandamenti dell’amore per Dio e il prossimo ed ottiene la
risposta giusta. Colui che cerca con onestà ed impegno la verità, otterrà certamente una risposta.
Il rabbino aveva correttamente risposto, ma vuole mostrarsi giusto (v. 29: dikaiōsai eauton) e la
sua domanda va oltre la conoscenza, in quanto tocca il problema del «senso» da dare alla parola
amore (agapē): chi mi potrà amare come «prossimo» di me stesso? Gesù lo invita a passare dal

455
Cfr. M. GOURGUES, 19.

215
livello teorico della lettera della Legge a quello concreto del «come» si diventa prossimo. La
parabola possiede una forte valenza allegorica, notoriamente elaborata nella tradizione patristica,
che siamo chiamati a rileggere nella nostra vita.

II.2 Il senso della “prossimità”

Possiamo dire che per avere la vita eterna si deve fare la volontà di Dio, espressa e
documentata nella «legge», e che, secondo la tradizione biblica si condensa nell’amore integro e
totale a Dio e al prossimo. Il problema dell’uomo della legge non riguarda tanto l’amore, ma la
definizione della categoria del «prossimo». Infatti nella seconda domanda: «Chi è il mio
prossimo?» non si fa il minimo riferimento all’amore. Il prossimo nella concezione biblica e
giudaica è definito all’interno del contesto dell’Alleanza, dove si colloca la legge. Il prossimo è il
membro del patto, per il quale vale l’applicazione e l’osservanza della legge. La contro-domanda
di Gesù invita l’uomo della legge a confrontarsi con la vita, dove si trova «l’uomo» bisognoso, in
viaggio, esposto alla precarietà totale. I due quadri, nei quali compaiono le due figure
simmetriche del sacerdote e il levita, sono incentrate sui verbi “vedere” e “passare”. Solo il
samaritano “vede” ed è mosso dalla compassione ad un “fare” che diventa un impegno gratuito
nel farsi carico dell’uomo bisognoso anche con i suoi beni (denaro). Emerge subito da questa
contrapposizione un primo significato della parabola: i rappresentanti del culto che rimanda a
Gerusalemme e al Tempio, sono contrapposti ad un rappresentante degli esclusi dal culto e dalla
religione giudaica, cioè il samaritano. Nell’ambito del patto e della legge il samaritano figura
come un estraneo, non prossimo e vicino e perciò stesso escluso dall’impegno di amore
prescritto dalla legge.
La domanda finale del parabolista propone una nuova prospettiva. Essa è imposta dal
racconto esemplare che suggerisce un nuovo modo di vedere le cose. Quello che i due addetti al
culto non hanno fatto l’ha compiuto invece il samaritano perché «mosso da compassione». Per
rispondere alla domanda iniziale: «Che cosa devo fare per avere la vita eterna?», non basta rifarsi
alla legge, ma si tratta di rileggere la prescrizione dell’amore, che abbraccia Dio e il prossimo,
nella prospettiva della compassione. È questa nuova dimensione che offre il criterio per definire
il prossimo, come l’uomo solidale, che fa parte della nuova alleanza. E’ la compassione che fa
uscire dalle frontiere della legge e della religione–nazione per incontrare l’uomo solidale.
Il prossimo in questa prospettiva rovesciata è colui che si è fatto vicino in forza
dell’impulso di amore misericordioso. Questi sono i due elementi fondamentali che definiscono
la via alla vita: la compassione attiva e l’impegno misericordioso. Su questo principio si fonda la
nuova alleanza, dove gli uomini si riconoscono legati da rapporti di solidarietà. L’invito finale di
Gesù può essere trascritto così: per ereditare la vita eterna devi fare misericordia, cioè attuare in
modo gratuito l’amore lasciandoti guidare dalla compassione che ti rende «vicino»-«solidale»
ad ogni uomo. Questo è il nuovo criterio per interpretare la legge dell’amore che abbraccia Dio
e il prossimo.
Gesù fa capire che è importante farsi prossimo. Se tu fossi in tale situazione come ti
comporteresti? Anche tu fratello che ascolti, devi farti prossimo di chi è nel bisogno. Il prossimo
non si può definire ma si deve essere. Chi è? Chiunque ha bisogno. La narrazione della parabola
trova il suo significato ultimo in Gesù, perché in Lui si riconosce ciò che opera la propria offerta
alla santa volontà salvifica di Dio, in un mondo pieno di odio e di egoismo. E’ per questo che
alla fine del dialogo c’è un semplice invito: «Nella tua situazione comportati come ha fatto il
buon samaritano nella sua». Agire così, non è un privilegio che riguarda alcuni santi, ma
riguarda tutti gli uomini.
II.3 L’amore solidale che “fa la differenza” tra il privilegiato e l’escluso

Il racconto del buon samaritano fa di coloro che venivano considerati oggetto


privilegiato e incontestato dell’amore del prossimo degli antimodelli in quanto soggetto di
questo amore. Al contrario fa di colui che veniva escluso come oggetto di amore del prossimo il

216
soggetto modello di esso . L’escluso, colui che vive fuori, può vivere l’ideale dell’amore meglio
dei privilegiati che sono dentro. Nel v. 25, la domanda iniziale del dottore della legge era la
seguente: Che cosa devo fare per avere la vita eterna?
I vv. 26-28 rispondono: metti in pratica l’amore di Dio e del prossimo , fa questo e vivrai. Perciò
è vivendo l’amore del prossimo – imitando così il samaritano- che si accede alla vita eterna. Ed è
qui che si ricollega a quello dell’ultimo giudizio: «Venite benedetti dal Padre mio, ricevete in
eredità il Regno» ( Mt. 25,34); così si sentiranno dire coloro che hanno amato e servito gli altri,
«uno solo di questi miei fratelli più piccoli» (25,40).Certamente non è chiaro che si debba vedere
in questa gente che ha accesso al Regno dei non cristiani.
La strada è il luogo dell’indifferenza, che nel racconto diventa luogo della «differenza»
nel rapporto con Dio e con il prossimo. La via del samaritano rappresenta come un incrocio che
fa incontrare Dio nel fratello bisognoso e il fratello bisognoso in Dio. La congiunzione dell’unico
comandamento dell’amore esprime tutto il realismo dell’incarnazione ed insieme il mistero
trascendente della salvezza. Dunque c’è un'unica movimento per incontrare Dio-amore, quello di
fermarsi davanti all’uomo e alle sue attese e di vivere ed accogliere il suo destino di felicità.

II.4 L’ospitalità nella prospettiva della “famiglia”

La storia del «buon samaritano» allude solo alla fine alla casa, parlando dell’ospitalità
presso la locanda (pandocheion), ma tutta l’attenzione è centrata sul «fermarsi compassionevole»
del samaritano di fronte all’uomo ferito nella via. Si tratta di un atto di vera ospitalità, anche se
compiuto «sulla strada», che fa rivivere nella relazione di amore e di aiuto, l’ambiente familiare
di casa. Si può dire che il samaritano vive la dimensione domestica a partire dalla strada!
«Questa è una fragile casa, sospesa tra Gerico e Gerusalemme, che nasce ovunque uno è disposto
ad accogliere tutti. E’ l’anticipo della Gerusalemme celeste, che al sui ritorno accoglierà chi ha
accolto»456.
- Nella parabola c’è come un dissolversi di un personaggio nell’altro, quasi una sovrapposizione
progressiva in cui l’uno si fa l’altro fino a diventare tutti un’unica persona. Il dottore della legge,
insieme al sacerdote e al levita, è chiamato ad identificarsi con l’uomo mezzo morto e a sentire
tutta la misericordia e la solidarietà del samaritano. E’ un sentimento strano, imprevisto, che
rompe gli steccati e annulla le precomprensioni etniche, religiose e culturali. Il lontano sceglie di
amarti, l’eretico e nemico sente compassione per te e per il tuo destino e decide di «fermarsi»
davanti al tuo dolore. L’amore vince, crea ponti, è parola di speranza, trasforma il cuore, ti
concede il dono di una prossimità impensata.
- Sarebbe un errore interpretare la nostra pagina lucana in chiave precettistica e moraleggiante.
Quella di Gesù non va intesa come una risposta etica, ma come un invito alla conversione, a
cambiare prospettiva di vita e permettere alla Parola di incarnarsi nell’oggi della nostra storia.
«Va’ e anche tu fa’ lo stesso», cioè diventa la possibilità concreta di dare vita alla logica
dell’amore. Non già un semplice atto di amore, generato dall’entusiasmo o dall’urgenza, bensì
una prospettiva vocazionale totalmente segnata dall’orizzonte della carità, secondo cui questa
nuova logica trasforma la strada in «casa», la solitudine si fa compagnia, il dolore viene
consolato, la lontananza diventa prossimità, la diversità si apre alla comunione, la speranza di
salvezza si traduce in realtà.

II.5 Risonanze pastorali

Tra le implicazioni di ordine pastorale riguardanti questo testo mi sembra che possano essere
evidenziate queste per il nostro studio della parabola:
a) Il racconto mette in primo piano la individualità della persona bisognosa e il conseguente aiuto
concreto da dare ad essa. Nella logica del mondo di oggi ci si trova spesso di fronte ad una

456
S. FAUSTI, Una comunità legge il vangelo di Luca, 389.

217
specie di miopia verso le singole persone, chiedendo invece un intervento più massiccio a livello
di cause e di strutture. Mi sembra importante perciò sottolineare che il pensare dell’uomo d’oggi
propende più verso la trasformazione del sistema e delle strutture che sfruttano piuttosto che
occuparsi delle persone sfruttate e sfavorite: che questo non sia un modo molto sottile per
scaricarsi le coscienze e togliersi qualsiasi dovere di amore verso colui che sta accanto?
b) Oltre a mettere l’attenzione sulla persona singola, il brano evangelico sottolinea la discussione
circa l’identità del prossimo. La riflessione precedentemente fatta, non potrebbe portare a una
speculazione astratta circa il prossimo, le strutture di male, chi le debba debellare, senza invece
concentrarsi sugli individui che soffrono concretamente di miseria e di ingiustizia?
c) Terza implicazione pastorale potrebbe essere quella riguardante l’amore concreto. Il ruolo del
buon samaritano, da chi deve essere interpretato? Da gente eccezionale collocata nei posti di
comando o da tutti gli uomini di buona volontà?

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la costruzione dell’ologramma sui temi:

ü Amore solidale.

ü Ospitalità.

Scuola secondaria di I grado (classeI)

Obiettivi formativi:

ü Profondere l’amore solidale nelle selazioni umane.

ü Riconoscere l’ospitalità nella prospettiva della famiglia e farne progetto di vita.

Conoscenza:
Religione cattolica La Chiesa, comunità dei cristiani aperta a tutti i
popoli.
Abilità:
Riconoscere la Chiesa come famiglia di Dio
che fa memoria di Gesù e del suo messaggio.

Conoscenza:
Tecniche di lettura.
Italiano Abilità:
Utilizzare tecniche di lettura.

Conoscenza:
Inglese Semplici istruzioni correlate alla vita di classe.
Abilità:
Comprendere e rispondere ad un saluto.

Conoscenza:
Concetto di durata e valutazione delle durate
Storia delle azioni.
Abilità:

218
organizzare il lavoro scolastico.

Conoscenza:
Elementi costitutivi dello spazio vissuto.
Geografia Abilità:
Analizzare uno spazio attraverso l’attivazione
di tutti i sistemi sensoriali.

Conoscenza:
Collocazione di oggetti in un ambiente, avendo
come riferimento se stessi.
Matematica Abilità:
Localizzare oggetti nello spazio fisico sia
rispetto a se stessi che ad altre persone.

Conoscenza:
Scienze I primi confronti.
Abilità:
Raggruppare per somiglianze.

Conoscenza:
uso del computer.
Tecnologia e informatica Abilità:
Accedere a siti Internet.

Conoscenza:
Materiali sonori e musiche semplici.
Musica Abilità:
Attribuire significati sonori alle diverse civiltà.

Conoscenza:
Le differenze di forma.
Arte ed immagine Abilità:
Raffigurare figure umane con uno schema
corporeo strutturato.

Conoscenza:
Scienze motorie e sportive Le posizioni corrette del corpo.
Abilità:
Collocarsi in posizioni diverse.

Conoscenza:
Convivenza civile I diritti dell’infanzia.

Abilità:
Mettere in atto comportamenti di solidarietà.

Attività

219
L’insegnante attiva una discussione con gli alunni sulle esperienze (vissute direttamente o
indirettamente) di amore di fratellanza cristiana.

L’insegnante attiva una discussione con gli alunni sulle esperienze (vissute direttamente o
indirettamente) di ospitalità.

L’insegnante realizza, con la collaborazione degli alunni, un brainstorming sul


termine:”solidarietà” e un brainstorming sul termine: “ospitalità”.

L’insegnante propone la realizzazione di una drammatizzazione della parabola del buon


samaritano.

Conclusione

Il percorso svolto ci ha permesso di cogliere la ricchezza teologica e spirituale di questa


pagina lucana. L’intento è stato quello di andare in profondità nella comprensione della parabola
del buon samaritano, esplorandone i temi teologici, la grande ricchezza esegetica, e la sua
attualità pastorale. Infatti se sono trascorsi duemila anni, l’icona del samaritano conserva tutta la
ricchezza ed attualità. Al comandamento dell’amore corrisponde la concretezza dell’uomo che si
china sul fratello abbandonato e morente. E’ questa l’espressione più significativa e
rivoluzionaria del vangelo della misericordia e della carità! Una civiltà dell’amore – soleva
affermare R. Follereau – deve trionfare sulla cultura dell’odio e dell’indifferenza.
La parabola possiede la straordinaria potenza della trasformazione dello Spirito.
L’evangelista Luca ha voluto affidarci questo straordinario testo perché potesse diventare anche
oggi «parola di vita» per noi che camminiamo verso la speranza del compimento futuro. Gesù, il
vero samaritano della strada, è il centro della nostra speranza e il modello della nostra vita!

220
XV.
LA PARABOLA DEL PADRE MISERICORDIOSO (Lc 15,11-32)

Introduzione

Note e troppo studiate le tre parabole della misericordia (Lc 15) per poterle affrontare in modo
esauriente o, come si suol dire, a tutto tondo. La bibliografia a tal proposito è amplissima: uomini
delle diverse epoche, dai Padri ai più recenti biblisti, hanno speso fiumi d’inchiostro per spiegare
questa pagina evangelica, a tal punto che risulta impossibile parlarne senza cadere in qualche
modo nell’ovvietà del già detto e del già pensato. Il mio lavoro non ha così la possibilità e
neanche l’intenzione di tener conto dei tanti contributi e dell’infinita letteratura a disposizione,
ma si limiterà solo alla consultazione di alcuni autori, come Weder, Fusco, Gorgues, Rossè,
Martini e di alcuni articoli tra i più importanti. Esso consta di due capitoli che analizzano
rispettivamente le parabole, prima dal punto di vista letterario e poi da quello teologico.
In primo luogo si tenterà di contestualizzare la parabola e di ricostruire, per quanto è possibile,
secondo la storia della redazione e della tradizione, la sua forma originaria. Questo tentativo
potrà essere fatto, infatti, solo ripercorrendo l’itinerario della parabola dal Gesù storico fino alla
fissazione scritta nei vangeli: ciò sarà possibile seguendo la storia che Weder chiama degli effetti
(Wirkungsgeschicht)457. Solo a questo punto si potrà procedere all’interpretazione e all’analisi
esegetica dei singoli versetti.
Dopo l’analisi esgetica affronteremo i grandi temi scaturiti dalla lettura delle parabole tenendo
presente l’intero orizzonte lucano e soprattutto interpretandoli in chiave cristologica: solo così è
possibile attualizzare il messaggio delle tre parabole della misericordia nell’ambito della
predicazione cristiana, nella prassi ecclesiale, nell’attività pastorale della Chiesa del XXI secolo,
senza correre il rischio di trasformare in un exemplum, intrisa di precettismo o peggio ancora, di
moralismo.
È ormai patrimonio comune fra gli studiosi, il superamento dell’antitesi julicheriana tra discorso
“proprio” ed “improprio” nel quale si faceva ricadere la metafora e, in ultima analisi, anche la
parabola. Il linguaggio parabolico, infatti, presenta numerose analogie con quello metaforico:
entrambi mettono a contatto due orizzonti semantici e concettuali diversi creando quella tensione
di termini che generano innovazioni semantiche, significati e sensi nuovi. Questa è stata la
grande intuizione di Ricouer e della filosofia del linguaggio in genere, che ha intravisto nella
metafora e, per estensione, pure nella parabola, una forma del discorso che ha la capacità di dire
qualcosa che altrimenti rimarrebbe indicibile. La metafora non è un espediente letterario o un
abbellimento linguistico, come voleva la retorica classica, ma un veicolo linguistico univoco che
solo sa evocare certe realtà. La contraddizione dei campi semantici è l’essenza della parabola
stessa, perché essa è già un significato di quello che un linguaggio determinativo non sa cogliere:
proprio per questo non può essere tradotta ma semplicemente trascritta458. Concludendo
possiamo affermare con Weder che il regno è predicabile solo in parabole459 e che le tre parabole
della misericordia non sono altro che metafore del regno460: esse esprimono quella vicinanza tra
il mondo di Dio e il nostro e trasformano questo punto di tangenza, predicato dal Gesù terreno e
realizzato dal Cristo della Pasqua, in evento salvifico per la vita del credente di ogni tempo e di
ogni latitudine.

I. Analisi letteraria

457
H. WEDER, Metafore del regno, 122.
458
Cfr. IDEM, 70 s.
459
Cfr. IDEM, 122.
460
Cfr. IBIDEM.

221
I.1 Contestualizzazione

Le parabole della misericordia costituiscono un capitolo importante dell’intera opera


lucana, che a buon ragione può essere considerato il cuore del terzo vangelo461: in esso, infatti,
ricorrono tutti i temi tipici di Luca, quali la predilezione per i poveri e i peccatori, la gioia
soteriologica, il perdono. Questo vangelo nel vangelo462 è posto al centro della sezione del
viaggio verso Gerusalemme dopo il ministero galilaico e nel bel mezzo della grande
inserzione463 di Lc 9,51-19,27. L’evangelista in questo punto, infatti, interrompe lo schema
marciano per inserire alcuni blocchi letterari provenienti dalla fonte Q e da fonti proprie. I tre
episodi ambientati in casa di Simone il fariseo, la guarigione dell’idropico nel giorno di sabato,
le due istruzioni sulla condotta a tavola e la parabola del grande banchetto del capitolo 14
costituiscono lo sfondo naturale nel quale Luca può costruire il suo trittico e offrire così una
risposta chiara e definitiva allo scandalo dei farisei e alla polemica iniziata al capitolo 13 circa il
numero dei salvati (Lc 13,22).
L’evangelista attinge dalle fonti Q, L e lavora su questo materiale preesistente, modellandolo
secondo le sue necessità, per utilizzarlo in chiave polemica nella diatriba contro i farisei. Dalla
fonte Q derivano le prime due parabole, quelle della pecorella smarrita e della dracma perduta
che Rossè definisce gemelle464 per la loro straordinaria somiglianza tematica e stilistica; dalla
fonte L, invece, Luca può derivare una narrazione più ampia e più complessa, che per secoli sarà
conosciuta come la parabola del Figliol prodigo, la parabola per antonomasia! Alla fine,
l’evangelista con abilità e gusto unisce le tre parabole, che presentano senza dubbio tra loro
importanti affinità, e vi premette un’introduzione redazionale, assicurando così una solida unità e
coerenza alla narrazione che può essere considerata anche una sola grande parabola contenente
tre similitudini.
La parabola della pecorella smarrita è di duplice attestazione: la ritroviamo, infatti, anche
in Mt 18,12-14 inserita nel discorso ecclesiale, nella regola della comunità. Il contesto
ovviamente è diverso: Matteo, come Luca, cerca di adattare la parabola attinta da Q alle proprie
esigenze e ai propri bisogni. Queste forzature non sono mai senza effetti e alcuni studiosi sono
riusciti a riproporre la parabola così come doveva essere nella forma pre- redazionale e, secondo
Weder, risalente a Gesù stesso. La forma originaria era all’incirca la seguente: «Quale persona
tra voi che ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e segue quella
perduta, sino a che non la ritrova? E quando la ritrova, in verità vi dico, egli se ne rallegra di più
che per le novantanove pecore non perdute465 ». Già a livello gesuano l’immagine della pecora
ha una forte carica metaforica ed era familiare all’Antico Testamento e al giudaismo primitivo: il
popolo era evocato dall’immagine del gregge guidato dal pastore, che simboleggiava Dio stesso,
Mosè, il re o il capo del popolo i genere. La predicazione e il comportamento di Gesù, vale a dire
le sue parole e i suoi gesti, danno un significato nuovo a queste immagini: egli va in cerca dei
pubblicani e dei peccatori e il suo comportamento è legittimato da Dio stesso che si comporta
allo stesso modo. La comunità cristiana rilegge questa parabola rivendicandone ed esplicitando
la cristologia implicita in questi versetti: essi sono chiaramente un’ autotestimonianza di Gesù,
presentato come il pastore, titolo che come abbiamo visto sopra era attribuito soprattutto a Dio.
A questo livello interviene l’opera del redattore. Luca sviluppa il nucleo originale che
corrisponde a Lc 15,4 con abbellimenti stilistici, come ad esempio il v. 5 che richiama Is. 40,11;
49,22, ma conservando meglio di Matteo l’ intenzione della parabola originaria, tutta incentrata
sul perdere e il ritrovare e sulla gioia dovuta al ritrovamento della pecorella e non sulla
conversione del peccatore. Anche l’uso dei termini fatto da Luca è più rispondente alla parabola

461
G. ROSSÈ, Il vangelo di Luca, 597.
462
Cfr. IBIDEM.
463
Cfr. R. BROWN, Introduzione al Nuovo Testamento, Brescia 200, 351.
464
G. ROSSÈ, Il Vangelo di Luca, 597.
465
H.WEDER, Metafore del regno, 211.

222
tradizionale. Ad esempio il tradizionale tis anthropos ex hymòn di Lc 15,4 viene sostituito dal ti
hymin dokei di Mt 18,12; l’ espressione echòn probata, sempre di Lc 15,4, viene resa con
l’ipotetica ean genètai tini anthròpò ekaton probata di Mt 18,12; Matteo inoltre preferisce al
participio apolesas di Lc il verbo planèthè. Anche l’espressione di Lc poreuetai epi apololòlos
eòs eurè auto è più originale di quella matteana imperniata tutta sul cercare kai poreutheis zètei
to planòmenon; naturalmente ciò avviene in vista dell’applicazione: i discepoli e il cristiano in
genere hanno, infatti, la responsabilità nei confronti di chi si perde e abbandona la comunità.
Il lavoro redazionale operato da Luca sulla parabola originaria è notevole e pregiato:
l’accuratezza lessicale (ad es. l’uso di probata a posto di ois) e grammaticale, l’armoniosa
sintassi rivelano il buon uso che l’evangelista ha fatto della koine dialektos. È chiaro tuttavia che
la lingua dell’agiografo risente degli influssi semitici, di costruzioni tipicamente aramaiche e di
semitismi disseminati qua e là nella parabola. Ad esempio salta subito all’occhio l’uso del
participio pleonastico eipen legòn del versetto 3, che ricorrerà spesso all’interno dell’intera
narrazione. Quest’ultima espressione è un ebraismo dovuto alla traduzione letteraria della parola
semitica lemor, che equivale al nostro gerundio dicendo o al participio presente dicente e che
tiene luogo dei nostri due punti con le virgolette, inesistenti nell’ebraico antico. Per la stessa
ragione nel v. 7 si trova il cosiddetto oti “recitativum”. L’uso del presente storico come
kataleipei del v. 4, epitithèsin del v. 5 e sunkalei del v. 6, pur se non ignorato dal greco classico,
è tipico del linguaggio popolare, molto frequente nel NT soprattutto in Marco e Giovanni.
Luca costruisce la parabola in tre tempi che possono essere scanditi da tre verbi: perdere,
cercare, ritrovare. La situazione iniziale (Lc15,4a) è quella dello smarrimento della pecora nel
deserto alla quale segue immediatamente la fase dalla ricerca (Lc15,4b) che termina in Lc15,6
con un esito positivo. Tutto è concluso dalla dichiarazione finale (Lc15,7). Lo stesso schema
verrà riproposto dall’evangelista per la parabola della dracma perduta; ma prima di passare a
contestualizzare ed analizzare quest’ultima, non possiamo dimenticare di dire che la storia della
parabola della pecorella smarrita non finisce qui. Essa, infatti, dalla fonte Q, attraverso
l’interpretazione e la redazione lucana, finisce in mano agli gnostici e la ritroviamo così nel
Vangelo di Tommaso. La parabola, come notano molti studiosi, non conserva più la costruzione
interrogativa che aveva nel terzo vangelo e viene trasformata così in una parabola narrativa. La
gravità risiede soprattutto nella mistificazione operata sulla stessa: tutto viene sofisticato dalle
categorie gnostiche a tal punto che l’ ipsissima intentio Iesu è completamente travisata. La
pecora, infatti, non è più una delle tante del gregge ma è qualificata come la più grande, quella
che per le sue qualità è amata dal pastore: «io ti amo più delle altre novantanove466». Inoltre
viene eliminato del tutto il versetto di Lc 15,5 e la conseguente applicazione; per non parlare del
riferimento alla gioia, presente già nella fonte, che viene totalmente tralasciato. Non è necessario
affermare che la versione del Vangelo di Tommaso proprio per questa degenerazione ideologica
risulta secondaria a quella sinottica.
Chiusa la parentesi sul Vangelo di Tommaso riprendiamo il percorso che ci mette davanti
la parabola della dracma perduta. La parabola in se stessa è unitaria e risale nella forma attuale al
Gesù storico. Bultmann, nella sua Synoptische Tradition, prende in considerazione la possibilità
che Lc15,8-10 sia un’aggiunta redazionale alla parabola della pecorella smarrita, ma Jeremias e
altri studiosi hanno dimostrato con i criteri della coerenza e della discontinuità l’infondatezza
della tesi bultmanniana. Sempre Jeremias467 ha dimostrato che la parabola originaria era in forma
interrogativa e terminava al versetto 9. Il versetto 10, infatti, sembra essere un’applicazione
aggiunta dalla comunità già prima di Luca ma che difficilmente, come nota Weder468, può
risalire al Gesù storico. Luca poi ha situato la parabola e la successiva applicazione nel suo
contesto attuale con un semplice oppure e operando in questo caso solo un abbellimento
stilistico. È da notare, infatti, che già la comunità prelucana aveva interpretato il ritrovamento
della dracma come la metanoia del peccatore e già a questo livello era stato messo l’accento

466
I Vangeli apocrifi, a cura di Marcello Crateri, Torino 1990, 502.
467
Cfr. H. WEDER, 211.
468
Cfr. IDEM, 295.

223
sulla gioia di Dio, in modo da evitare il pericolo che la conversione venisse considerata come la
premessa della salvezza, dimenticando così il primato della grazia.
Lo schema narrativo è identico a quello della parabola precedente, costruita in tre tempi: lo
smarrimento, la ricerca, il ritrovamento seguito dalla dichiarazione. La prima parte illustra, a mo’
di antefatto, la situazione che si è creata con la perdita della dracma; la seconda tematizza
l’intensa ricerca della donna; la terza esprime la gioia incontenibile per il ritrovamento della
dracma perduta. La perfetta corrispondenza tra le due parabole, che a buon diritto possono essere
considerate gemelle, la cogliamo immediatamente e la possiamo riassumere con lo schema
proposto da Gorgues469 e un po’ adattato per la situazione:

1.situazione iniziale: perdere La pecora perduta/ la dracma smarrita

2.cercare Il pastore e la donna si mettono in ricerca


3.situazione finale: ritrovare Il ritrovamento delle due realtà perdute
4.dichiarazione La gioia del pastore e della donna è la gioia di Dio

Se fino a questo punto la ricostruzione, anche se approssimativa, delle “due parabole gemelle” è
stata relativamente facile, per quanto concerne la grande parabola di Lc 15,11-32 non è tutto
così pacifico. Alcuni studiosi, tra i quali anche il primo Schweizer470, hanno tentato di
distinguere nella parabola una fonte semitizzante (vv.11-24) e una rielaborazione lucana (vv.25-
32); altri ancora, come la Schottroff471, hanno proposto la tesi secondo la quale la parabola
sarebbe tutta quanta opera di Luca per la sua perfetta concordanza con la soteriologia lucana. La
maggioranza dei biblisti, però, ha dimostrato con rigore scientifico l’unitarietà della parabola a
tal punto che nessun elemento può essere tolto senza pregiudicare l’intera narrazione. A tal
proposito Jeremias472 e Carlston473 sono giunti alla medesima conclusione nell’affermare che
l’intervento di Luca si è limitato soltanto alla rielaborazione stilistica e Pesch474, ad esempio, non
ha reticenze nel dire che la parabola sin dall’inizio presupponeva la figura di entrambi i figli e
che non poteva terminare con il v. 24, lasciando insoddisfatto l’uditorio. L’ipotesi più accreditata
rimane così, quella che la parabola risalga a Gesù e che in un secondo momento sia stata
rielaborata stilisticamente dal redattore e collocata nel nostro contesto.
Lo sforzo di Luca di migliorare lo stile e la grammatica è ben riuscito ma anche in questo caso,
come nelle altre due parabole della misericordia, permangono tracce di ebraismi e di semitismi in
genere. Ricorrono qua là i participi pleonastici dei quali abbiamo detto sopra, l’enai con il
participio al posto dell’imperfetto, il già citato oti “recitativum”, il pros dopo i verbi che
indicano il parlare, egheneto con l’infinito, tou più l’infinito con valore finale o consecutivo.
Tipicamente lucana è invece la costruzione dell’introduzione (vv.1-3) che è quasi sicuramente
opera del redattore. Il vocabolario sembra confermare questa ipotesi: a favore di una
composizione redazionale squisitamente lucana, infatti, abbiamo l’uso della costruzione
perifrastica imperfetto del verbo essere con il participio che ritroviamo nelle pericopi di Lc 3,23;
4,24; il verbo egghizein costruito con il dativo di persona molto familiare a Luca (Lc 18; At 6);
l’uso iperbolico di pantes per indicare i peccatori e i pubblicani; l’uso del verbo ascoltare seguito
dal genitivo; la predilezione dei verbi composti con dia (es. diagoggyzein) e con syn (es.
synesthiein), la formula eipen de e elegen de (Lc 12,16.41; 14,7; 18,9; 20,9.19); l’uso della
particella te che negli Atti ricorre per ben 141 volte. L’introduzione così ben costruita serve a
collocare la trilogia delle parabole della misericordia nell’ambito della controversia farisaica:

469
Cfr. M. GOURGUES, Le parabole di Luca, 121.
470
Cfr. G. ROSSÈ, Il vangelo di Luca, 606s.
471
Cfr. IBIDEM.
472
Cfr. H. WEDER, Metafore del regno, 298ss.
473
Cfr. IBIDEM.
474
Cfr. IBIDEM.

224
essa fornisce la chiave di lettura per leggere l’intero capitolo 15 in questa prospettiva.
Quest’ultimo capitolo è unito a livello concettuale e semantico sia al capitolo precedente e che al
successivo dove si conclude la lunga diatriba.
Il testo che andremo a leggere per fare l’analisi esegetica è quindi il risultato di questo
lungo cammino che dal Gesù storico, attraverso la comunità, é stato accolto e interpretato dal
redattore secondo le proprie categorie e secondo la sua sensibilità ed esperienza, non senza però
l’ispirazione dello Spirito Santo che conferisce al testo l’autorevolezza di Parola di Dio, capace
di penetrare come una “spada a due tagli” nel cuore delle persone e di interpellare i loro bisogni
più reconditi, facendo cambiare loro irrimediabilmente la direzione della vita.
Martini475 ha diviso il testo in cinque momenti seguendo un dinamismo interno che ritma
l’intera narrazione. Il primo momento (Lc 15,11-32) è la presentazione dei tre personaggi e delle
relazioni esistenti tra loro. Già dalle prime battute la parabola si annuncia più complessa delle
due precedenti: se, da una parte, l’attenzione del protagonista, il padre, si rivolge al figlio
perduto, dall’altra anche il figlio che perduto non è, o almeno che non sembra tale, riesce a
catalizzare su di sé l’interesse paterno. Il secondo momento (Lc 15,13-20) è dominato dalla
figura del figlio più giovane, descritto mentre raccoglie le sue sostanze e le sperpera fino alla
presa di coscienza della sua situazione, che lo ricondurrà dal padre. Il terzo momento (Lc 15,20-
24) invece, rivela il vero volto del padre che non riesce ad attendere il ritorno del figlio alla
porta, ma gli corre incontro. Il quarto momento (Lc 15,25-27) è dedicato al figlio maggiore, tanto
ligio al dovere e dedito alle cose paterne quanto lontano dal cuore del padre. Nella ultima parte
(Lc 15,28,32) il padre esce fuori e cerca il figlio come il pastore della prima parabola e tenta di
persuadere il primogenito. Tutto si conclude analogamente alle parabole gemelle con una
dichiarazione: «Bisognava far festa, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era
perduto ed è stato ritrovato» .
È facile notare, come il testo si presta bene a questa alternanza di ruoli dei tre personaggi che si
susseguono nella scena, seguendo il loro turno. A tal proposito Gourgues476 ha messo in sinossi
la vicenda dei due fratelli. La situazione del figlio minore (v. 13-16) è, infatti, simmetricamente
opposta a quella del primogenito(vv. 25-26). Entrambi i figli rientrano in se stessi e prendono
coscienza della situazione che sta loro accadendo: il minore si fa i suoi conti e decide di tornare a
casa, il maggiore vede che il trattamento riservato al figlio più piccolo non è “giusto” e reclama,
in quanto vittima di un sopruso. Le reazioni dei due non potevano non seguire le premesse: il
figlio minore si alza e va verso il padre (v. 20), il maggiore, invece, si indigna e rimane (v. 28).
Anche l’iniziativa e la reazione del padre conseguente all’atteggiamento dei figli è costruita
simmetricamente e si notano anche in questo caso affinità e corrispondenze tra le diverse parti.
Il messaggio che deriva dalla lettura di questo testo è triplice: la cogliamo dalla figura del
padre, del figlio maggiore e del minore. La figura del padre invita il lettore ad avere una nuova
immagine di Dio: il volto del padre appare inedito per chi si è costruito un dio a sua immagine e
somiglianza, proiettando in lui le proprie aspirazioni o i propri difetti. Il figlio maggiore, come
nota Martini477, è il simbolo della società che non sa perdonare, che sa solo giudicare chi ha
sbagliato, che si scandalizza dei gesti di misericordia, una società vendicativa che non tiene
conto della dignità di chi ha sbagliato e non sa entrare nel mistero della misericordia divina: il
cuore del Padre è al di sopra di ogni nostra immaginazione. La figura del figlio minore è
l’immagine dell’uomo geloso della sua libertà, che svende il suo patrimonio spirituale e morale.
Egli, come il primogenito, non conosce il padre ma è capace di fare un cammino che lo porta a
fare esperienza di quel volto misericordioso e misterioso insieme. Solo tra le braccia del padre
comprende la realtà vera di se stesso: egli è figlio e rimane figlio anche dopo la sua uscita dalla
casa paterna.
Il capitolo 15 non presenta problemi rilevanti dal punto di vista della critica testuale. Le
edizioni critiche presentano, infatti, solo due varianti che non intaccano in alcun modo

475
Cfr. C. M. MARTINI, La pratica del testo biblico, Casale Monferrato (Al) 2000, 186ss.
476
Cfr. M.GOURGUES, Le parabole di Luca, 123.
477
Cfr. C. M. MARTINI, La pratica del testo biblico, 192.

225
l’interpretazione. Alcuni manoscritti, infatti, nel v. 16 presentano la lezione geminai ten koilian
autou (riempirsi il ventre) al posto dell’espressione più sobria chortaschenai ek (saziarsi)
presente nei manoscritti più antichi. Nel v. 21 la formula preparata nei vv. 18-19: Padre, ho
peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere tuo figlio, viene omessa da
alcune lezioni. I codici S, B, C aggiungono anche trattami come uno de tuoi servi.

I.2 Testo

15,1 Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2 I farisei e gli
scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro». 3 Allora egli disse
loro questa parabola:
4 «Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e
va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? 5 Ritrovatala, se la mette in spalla tutto
contento, 6 va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho
trovato la mia pecora che era perduta. 7 Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un
peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
8 O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la
casa e cerca attentamente finché non la ritrova? 9 E dopo averla trovata, chiama le amiche
e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo
perduta. 10 Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si
converte».
11 Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12 Il più giovane disse al padre: Padre,
dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze. 13
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese
lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto. 14 Quando ebbe speso tutto, in
quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15 Allora
andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a
pascolare i porci. 16 Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma
nessuno gliene dava. 17 Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio
padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18 Mi leverò e andrò da mio
padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; 19 non sono più degno di
esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni. 20 Partì e si incamminò
verso suo padre.
Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al
collo e lo baciò. 21 Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non
sono più degno di esser chiamato tuo figlio. 22 Ma il padre disse ai servi: Presto, portate
qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi. 23 Portate
il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24 perché questo mio figlio
era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
25 Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la
musica e le danze; 26 chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò. 27 Il servo
gli rispose: È tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo
ha riavuto sano e salvo. 28 Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a
pregarlo. 29 Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai
trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei
amici. 30 Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è
tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso. 31 Gli rispose il padre: Figlio, tu sei
sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32 ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché
questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».

226
I.3 Esegesi

15,1
L’imperfetto esan ci fa cogliere bene che i pubblicani e i peccatori erano soliti andare dove stava
Gesù; numerosi (pantes inteso come molti e non come tutti) per ascoltarlo (akouein con valore
finale nel NT).
15,2
I grammateis e i pharisaioi (reruscim) zelanti della Torah, che mormorano
diegonguzon, attività ereditata dai loro avi nell’esodo, vengono contrapposti ai telònai e agli
amartòloi. Con quest’ultimi Gesù stabilisce una comunione profonda, accogliendo loro e
mangiando insieme con essi. Come in Lc 13,25-29; 14; 15,23-32, il riferimento simposiale
realizza sulla terra l’immagine della comunione escatologica con Dio nel regno. Il quadro
presentato da Luca corrisponde, come nota bene Rossè478, a una situazione tipica della vita
pubblica di Gesù che si ritrova ad esempio in Lc19,1-9 e in Lc,7,34; in Mc 2,15ss e nei sinottici
in genere.
15,3
eipen pros autous tèn parabolèn tautèn legòn: è un’espressione abituale in Luca. Si parla di
parabola al singolare ma la maggior parte degli studiosi intende tèn parabolèn nel senso generale
di discorso parabolico che include tutte tre le parabole della misericordia. Solo alcuni hanno
avanzato l’ipotesi che questa introduzione all’origine appartenesse solo alla parabola del figliol
prodigo. L’ipotesi, però, non convince almeno per due motivi: per lo stile interamente lucano e
l’omissione del plurale “parabole” dopo l’eventuale aggiunta delle altre due parabole479.
15,4
tis antròpos ex hymòn: i destinatari delle parabole sono letteralmente gli scribi e i farisei. Si
deve, però, subito supporre un uditorio più ampio dal momento che è difficile trovare tra i farisei
e gli scribi qualcuno che facesse il pastore, mestiere notoriamente considerato impuro480. La
domanda retorica, tipicamente lucana, rievoca passi dello stesso vangelo, quali Lc 5,11; 12,25.
anthròpos, dopo l’aggettivo pronominale interrogativo tis sembra superfluo, ma si spiega come
parallelo di è tis gynè nella parabola gemella. echòn ekaton probata kai apolesas ecs autòn en: il
contrasto novantanove - uno è evidente e rivela l’interesse spropositato del pastore per
quell’unica pecora. kataleipei ta enevèkonta ennea en tè erèmo: lasciare le altre novantanove
nel deserto non deve essere letto come un’ imprudenza o un disinteresse del pastore ma come un
elemento narrativo che sottolinea la condotta premurosa a favore di quella perduta. eurè auto: il
terzo evangelista insiste sul ritrovamento a differenza di Matteo che, come abbiamo detto sopra,
sposta l’attenzione sul tema della ricerca. Il pastore qui sembra, infatti, sicuro del buon esito
della sua ricerca. L’espressione propria di Luca che non ha parallelo diretto con Matteo non è un
semplice abbellimento stilistico di Mt 18,13a ma il leit motiv dell’intera narrazione. Traduce così
l’immagine del buon pastore evocato da Ez 34,11ss, che è capace di raccogliere le pecore
disperse della casa d’Israele.

15,5-6
É la parte centrale della parabola costruita ex novo da Luca, che riferisce un gesto usuale tra i
pastori della Palestina di quel tempo, quello cioè di mettersi sulle spalle la pecora stremata. Qui
però c’è l’intenzione di sottolineare l’amore del pastore che si rivela in questo gesto concreto:
epitithèsin epi tous òmous (cfr. Is 40,10) . Questa immagine del pastore era nota anche in Oriente
e fissata anche in alcune rappresentazioni statuarie come Hermes Kriophoros. La reazione del
pastore è inattesa e anche poco realistica: invece di trasportare la pecorella dalle altre con le
novantanove invita gli amici a far festa sunchrarète. Gesù è il pastore e agisce in sintonia con il

478
Cfr. G. ROSSÈ, Il Vangelo di Luca, 599.
479
Cfr. IBIDEM.
480
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Paideia, 162ss.

227
comportamento del Padre descritto da Ezechiele, il Dio che ama i peccatori e che vuole loro
salvezza (Ez 18,23), il pastore che va in cerca della pecora perduta e riconduce all’ovile la
smarrita; fascia quella ferita e cura quella malata; cura la grassa e della forte; pasce con giustizia
(cfr. Ez 34,16).

15,7
Costituisce l’applicazione della parabola. Si passa da un racconto metaforico al senso reale e
teologico, dalla scenografia all’applicazione spirituale481. La pecora perduta viene esplicitamente
identificata con il peccatore che si converte e l’attenzione dell’evangelista si sposta sull’agire
dell’uomo che si pente all’interno della comunità: l’applicazione attuale della parabola riguarda,
analogamente a Matteo, un problema ecclesiale. La gioia di Dio, chara en tò ouranà, è una gioia
sui generis, speciale, che non esclude quella abituale per le novantanove, ma che tuttavia la
supera. A tal proposito Lagrange dichiara espressamente: «Ne è del peccatore come della pecora
perduta…Dio la ricerca, la insegue, la riporta, e allora è un’esplosione di gioia che non ha mai
l’occasione di prodursi a proposito dei giusti482». L’espressione enenèkonta ennea dikaiois
oitines ou chreian echousin metanoias non è di facile interpretazione. Secondo alcuni esegeti i
giusti che non hanno bisogno di conversione sono i farisei e gli scribi, descritti nell’introduzione
e soprattutto nella parabola del pubblicano al tempio (Lc16), dove il fariseo che si sente giusto
torna a casa non giustificato proprio per la sua autosufficienza. Secondo altri, però, come
Legasse483, l’espressione non è ironica, perché non si pone sul piano della polemica antigiudaica
ma sul piano più generale della contrapposizione tra l’umile e il superbo, rivolgendosi ai veri
giusti della comunità (cfr. Lc 2,25).

15,8
È la volta di una donna, è tis gynè, portata come esempio della premura di Dio. La parabola è
simile alla prima e ne rafforza l’insegnamento. Viene presentato il comportamento di una donna
tipica palestinese. Manca il tra voi del v. 4, inopportuno tra l’altro, perché la parabola è rivolta ad
un uditorio maschile di farisei e di scribi484. Il numero deka è una cifra da racconto, facile da
memorizzare. La dracma, che equivale a circa un denaro, cioè la paga quotidiana di un operaio,
non viene menzionata altrove nel NT. Probabilmente la dramma apparteneva ai beni parafernali
della donna, alla dote che aveva portato a casa del marito al quale spettava il solo usufrutto: la
moglie per contratto, infatti, rimaneva proprietaria della somma. La donna, alla stregua del
pastore, si impegna nella ricerca, aptei (termine485 tipico di Luca), accende la lampada, spazza
con la scopa che permette di sentire il tintinnare della moneta sul pavimento di roccia di
quell’unica stanza senza finestre486 e cerca con cura epimelos (hapax del NT) la moneta: tutto
lascia presagire anche in questo caso il buon esito della ricerca.

15,9
Il versetto, identico al v. 6, è stato costruito con una dose maggiore di realismo, rinunciando ad
enfatizzare gli aspetti iperbolici contenuti nella parabola precedente: è più normale per una
donna partecipare quella piccola esperienza alle vicine.

15,10
La conclusione è simile all’applicazione del v. 7, ma si omette il confronto con dikaioi. La gioia,
a differenza dell’altra parabola gemella, è vista come espressione della salvezza presente e non
solo di quella futura. chara enòpion tòn anghelòn tou theou : è una formulazione di stampo

481
Cfr. G. ROSSE, 603.
482
Cfr. IDEM, 604.
483
Cfr. IDEM.
484
Cfr. IDEM, 605.
485
Lc 8,16; 11,33; At 28,2.
486
Cfr. J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 165 s.

228
lucano che rimane un po’ oscura: non si capisce se si tratti della gioia di Dio, condivisa dalla
corte divina, oppure se gli angeli sono visti come testimoni della gioia di Dio.

15,11
La parabola è legata alla precedente con un breve eipen de, che introduce la nuova narrazione. I
personaggi sono presentati in modo semplice e con uno stile narrativo: anthrōpos tis eichen duo
hyious. Jeremias ritiene che l’espressione tis anthrōpos sia prelucana dal momento che il terzo
evangelista preferisce il sinonimo aner per indicare l’uomo. La mancanza dell’articolo poi mette
in rilievo la natura e qualità del sostantivo: il nome, infatti, è preso in senso qualitativo (ut tale) e
non in senso individuale (ut hoc). Duo è invece il numero che permette di esemplificare il
comportamento simmetricamente contrastante di due personaggi (cfr. Mt 21,28) che percorrono
vie parallele. Eichen è ancora il verbo delle due parabola ma questa volta, come nota giustamente
Nolli487, il possesso è nel clima d’amore di un padre verso i figli. Viene omessa poi la domanda
retorica, espediente che risulterebbe poco efficace, vista la lunghezza del brano. Questa
introduzione è il cavallo di battaglia per tutti coloro che sono inclini a ritenere l’intera parabola
unita già nella forma originaria: sono presenti tutti e tre i personaggi, il padre e i due figli che
alternativamente domineranno la scena.

15,12
La richiesta del figlio contestualizzata nella Palestina del tempo non doveva essere troppo strana:
il figlio cadetto, o per desiderio di indipendenza o per bisogno, era solito andarsene di casa e non
dimentichiamo poi che ben quattro milioni di Giudei vivevano nella diaspora ai tempi di Gesù. Il
linguaggio di questo versetto risente del vocabolario tecnico forense del mondo ellenistico sulle
questioni di diritto patrimoniali legate soprattutto alle successioni ereditarie, non senza qualche
confusione dovuta alla redazione che non sembra interessarsi molto a questo problema: ousia
indicava la parte di beni, proprietà in case e terreni; bios è il necessario per vivere, il minimo
oltre il quale si muore; diairein è il verbo indica proprio la spartizione dei beni. Attualmente
sono stati fatti numerosi studi per capire quale regola giuridica vigesse esattamente nel
giudaismo coevo a Gesù, ma non tutti sono concordi nei risultati. In tal senso confrontando Dt
21,17, si evince che al figlio maggiore spettavano i due terzi dell’eredità e al minore la restante
parte, ma solo alla morte del genitore. Questa ultima condizione è raccomandata da Sir 33,20-24.
La parabola presuppone poi che il figlio minore sia già entrato non solo nel diritto di proprietà
dei beni ma anche nell’immediato usufrutto, privilegio che non sembra avere il figlio maggiore,
al quale verrà dato tutto alla morte paterna. Il padre, infatti, è ancora il proprietario dei beni e in
virtù di questo che può riaccogliere il figlio minore senza il consenso del primogenito.

15,13
Inizia il distacco dalla casa e inizia la peregrinazione in un paese pagano, makran, propriamente
lontano, distante. Il verbo usato apedèmèsen traduce proprio l’assentarsi da casa, letteralmente
dal demos, divisione territoriale dell’ antica Attica.
dopo non molti giorni: è una litote tipica di Luca (At 12,18; 14,28; ecc.) per dire “subito”, che
sottolinea proprio la rapidità con la quale avviene la degradazione. In poco tempo ha vissuto da
prodigo, da dissoluto, da non salvato: l’avverbio di modo asòtòs (hapax nella Bibbia), infatti,
traduce tutte e tre le situazioni nel quale si trova il figlio minore. Nel v. 30 il figlio maggiore
espliciterà in seguito l’avverbio asòtòs precisando che il fratello aveva divorato il patrimonio con
le prostitute (meta pòrnòn). Ma il vero peccato del figlio non è la vita lussuriosa (vivendo
luxsuriose) ma l’ aver perso il patrimonio paterno, il non avere più diritti dinanzi al padre.

15,14

487
Cfr. G. NOLLI, Evangelo secondo Luca, Città del Vaticano 1983, 692.

229
Alla perdita del patrimonio segue anche la carestia descritta da Luca con la formulazione
egeneto limos488 di stampo semitico che ricorda la carestia di Gn 47,13. L’aggiunta
dell’aggettivo ischyra richiama espressioni consacrate da Tucidide e da Erodoto489.

15,15
La degradazione del giovane viene elevata ai massimi livelli: al degrado morale subentra quello
religioso. Si va a raccomandare ad un pagano, kollosthai eni tòn politòn (letteralmente: attaccarsi
a qualcuno e nel caso specifico ad un pagano, comportamento aborrito in At 10,28); e come se
ciò non bastasse questi è un custode dei porci, l’animale impuro per antonomasia (Lv 11,7): il
ragazzo è maledetto dalla Legge.

15,16
Egli bramava (epethumei) di saziarsi, chortasthènai (termine che i manoscritti Vaticanus e il
Sinaiticus hanno utilizzato, prendendolo in prestito da Lc 16,19 per tradurre l’espressione
originale, riempirsi la pancia, meno dignitosa) con le carrube, ek tòn keratiòn (letteralmente
flauti o cornetti); kai (in questo caso avversativo) nessuno gliene dava: siamo al massimo del
degrado e si realizza quanto scritto in Sir 12,4-5 dove s’invita ad aiutare il pio ma non il
peccatore, di beneficare il misero ma di non dare aiuto all’empio490.

15,17
Un proverbio rabbinico afferma che quando gli Israeliti sono costretti a mangiare carrube, allora
si convertono491. Il giovane, infatti, rientra in se stesso, eis eauton, e inizia un soliloquio in
discorso diretto, ragionando sulla sua condizione disagevole neanche paragonabile ai giornalieri,
misthioi (hapax legomena nel NT), della casa del padre.

15,18-19
Il figlio potremmo dire che ha “coscientizzato” il suo errore che lo ha portato a rompere i
rapporti con il padre e di riflesso anche l’alleanza con Dio, sa di aver peccato eis ouranon ( Dio)
e enopion sou: espressione che ricorda la supplica del faraone a Mosè in Es 10,16.

15,20
Il prodigo, consapevole che non ha meriti (cfr. Lc18,13) e non ha niente da offrire al padre
decide di levarsi, anastas (participio grafico che descrive l’azione precedente a quella principale
ma così ovvia che viene omessa) e di partire, èlthen: settantismo caro a Luca (Lc 1,39; At 10, 20;
22,10).492 Nella seconda parte del v. 20 l’attenzione si concentra sul comportamento del padre
che da lontano, macran, lo vede per primo: il suo cuore sentinella493 non ha mai cessato di amare
il figlio né si è stancato di attendere il ritorno di lui. Quando il desiderio stava diventando realtà
il cuore il padre sente compassione, esplagchnisthe, o meglio gli si smuovono le viscere, ha un
sussulto uterino di fronte alla voce del sangue (cfr. 2 Re 3, 26), sussulto così vicino a quello che
il Dio di Israele provava per i poveri e di Gesù verso i miseri (Mc 1,41; 6, 34; 8, 2; Lc 7,13).
Questa compassione si traduce in altri gesti che non si addicono in verità alla condizione del
padre, già avanti in età, ma soprattutto alla sua autorità: si mette a correre, dramòn, gli si getta al
collo, epepesen (letteralmente: cadere addosso), e lo bacia continuamente, katephilèse (verbo che
indica proprio l’insistenza e la tenerezza del baciare). L’ AT è ricco di questi gesti ed immagini,
soprattutto nelle scene di riconciliazione di fratelli, ad esempio come quella di Giacobbe e Esaù
in Gen 33,34, oppure nel riconoscimento di parenti (cfr. Gen 45,14; 46, 29). Il bacio poi è il

488
limos è un metaplasmo.
489
Cfr. G. ROSSE, 610.
490
Cfr. IDEM..
491
Cfr. IDEM, 611.
492
Cfr. G. ROSSE, 612.
493
Cfr. A. NEPI, «Le immagini della paternità di Dio», PSV 39 (1997) 146.

230
segno del perdono accordato, come quando Davide bacia il figlio Assalonne (2 Sam 14,33) o il
segno di gioia per il ritorno dei figli: “Anna corse incontro e si gettò al figlio […] Tobi gli si
buttò al collo e pianse” (cfr. Tb 11,5-18).

15,21-22
La confessione del figlio preparata nel v. 18b viene interrotta.
La risposta del padre è l’ordine impartito ai servi di fare tre gesti che rivestono una grande
importanza simbolica, indicanti la completa reintegrazione come figlio a tutti gli effetti: il dono
della stolè, vestito che serviva ad onorare un ospite (il re la donava al suddito benemerito) o per
significare la dignità di figlio, oltre ad essere un indumento liturgico e di cerimonia (Es 28,2;
29,21; 1Mac 10,21) e il vestito dei salvati nell’Apocalisse (Ap 6,11; 7,9.13); il dono dell’anello,
daktylios, (hapax del NT) al dito, del sigillo che rendeva il ragazzo detentore di potere e autorità
sui famigliari (cfr. Gn 41,41s.). I sandali donati sono il segno chiaro dell’uomo libero: lo
schiavo, infatti, andava a piedi nudi.

15,23
Non c’è festa che si rispetti che non si conclude con un sontuoso banchetto. È l’immagine più
concreta della gioia e della comunione ritrovata. Il menù è quello delle grandi occasioni: il
vitello ingrassato, moskon ton siteuon (cfr.Ger 26, 21) pronto per essere ammazzato, thein (
termine che ricorda il sacrificio del culto).

15,24-29
E’ il ritornello che il padre ripeterà al v. 32 a conclusione dell’intera parabola: il figlio perduto è
stato ritrovato, da morto è tornato in vita, anezèn (solo ancora in Rm 7, 9).
E’il turno del figlio maggiore, del presbyteros. L’ evangelista si affretta a dire che si trovava nei
campi, cioè intento al suo lavoro mentre a casa si festeggiava a suon di musica. Si commenta da
solo lo stridente contrasto.
Il figlio maggiore vuole investigare sull’accaduto, ti an eiè tauta (ottativo potenziale molto raro
nel NT): il figlio minore è tornato e sta bene, hygiainonta.
La risposta del figlio maggiore è lo sdegno, l’ira dell’uomo fedele scavalcato dall’empio. Il padre
gli va incontro, come aveva fatto per il primo figlio, con lo stesso amore, e lo supplica, quasi lo
rassicura, parakalei, con insistenza: l’uso dell’imperfetto dice bene questa azione continuata nel
tempo dal padre e la pertinacia del figlio494.
E’ il momento della requisitoria del figlio, quando, senza chiamarlo padre (cfr. v. 21) gli
rinfaccia tutto, elencandogli tutti i suoi meriti: ha lavorato come uno schiavo, douleuein, e mai ha
ricevuto un capretto per fare festa con gli amici, meta tòn philòn, invece del fratello che ha
sciupato tutto il patrimonio con prostitute, meta pornòn. Il contrasto è evidente: il verbo
eufranthò , usato dal figlio maggiore, come nota bene il Nolli495, indica una innocente adunata di
amici che si radunano per passare alcune ore in allegria, pur nulla somigliante alle scappatelle
del figlio più giovane.

15,30-32
Il comportamento del padre ha provocato la rottura dei due fratelli: da notare il distacco del
maggiore, che chiama l’altro non più fratello, ma “tuo figlio”, dove houtos esprime tutto l’odio,
il rancore e il sarcasmo che richiama il v. 24.
Il padre però non lo disconosce come figlio e la chiama con affetto teknon, “bimbo mio”,
rassicurandolo del particolare amore che serba per il primogenito, per colui che è sempre vicino
al padre. Egli è l’erede legittimo: panta ta ema sa estin.

494
Cfr. G. NOLLI, 711.
495
Cfr. IDEM, 713.

231
Incerto è l’uso dell’imperfetto edei (bisognava) che può avere un duplice significato: il figlio
maggiore ha rovinato la festa oppure è incapace di prendervi parte496. Il padre ribadisce che quel
ragazzo non è solo suo figlio (cfr. v. 30) ma è suo fratello, adelphos sou, e che lo deve
riconoscere come tale. La parabola finisce con il ritornello del v. 24 e non si conclude: la risposta
spetta al lettore di ogni tempo.

II. Analisi teologica

Questo secondo momentoo, strettamente collegato al precedente, intende esplicitare i


contenuti e i messaggi teologici scaturiti dall’analisi letteraria. A tal scopo è necessario
innanzitutto fare un breve accenno alla teologia del terzo evangelista e della comunità ad esso
soggiacente. Luca è il gran teologo della storia, di una storia intesa come via profetica e
salvifica497 che si realizza e trova il suo compimento in Gesù. La storia della salvezza ha i suoi
tempi: è un cammino che conosce le sue tappe ma che non si arresta, inesorabile, e con una certa
fretta, tipica del vangelo di Luca, arriva alla meta. L’ AT è il tempo della preparazione, il tempo
di Dio e dell’uomo, il tempo dell’infedeltà dell’uomo e della fedeltà di Dio. Il tempo di Gesù è la
tappa del compimento498: egli è il profeta escatologico che si mette in cammino dalla Galilea fino
a Gerusalemme, il luogo della morte e dell’esaltazione, quando tutto è consumato. Le nostre
parabole, che si collocano proprio nel viaggio verso Gerusalemme, sono l’annuncio di tempi
nuovi ed inediti. Il cammino si conclude alla destra del Padre ma Gesù continua ad agire come
Messia e Signore: è il tempo della Chiesa, chiamata a testimoniare il Risorto e a proclamare che
la salvezza è offerta a tutti, giudei e gentili, a tutti i figli di Adamo (cfr. 3,23ss) fino alla parusia.
Questa attenzione ai gentili si giustifica appieno per la presenza massiccia nella comunità lucana
di etnocristiani.
Altro caposaldo della teologia lucana è il tema della salvezza: il lessico della salvezza
(sozein, diasozein, soter, soteria, soterios) è impiegato un maggior numero di volte rispetto al
resto del NT499. All’umanità Gesù offre la salvezza autentica, ai gentili e ai pagani è chiesto di
staccarsi dalla pagana pretesa di autoredenzione e dall’insufficiente salvezza farisaica. Il
protagonista di questa salvezza radicale ed universale è il Padre, che promette la salvezza (Lc
3,6), la prepara e la realizza in Gesù e ora, mediante lo Spirito che crea testimoni e profeti, la
offre a tutti500. L’altro grande tema è quello della gioia, dono della salvezza messianica e segno
della sua presenza. Questa gioia si manifesta soprattutto in coloro che ricevono la salvezza e ad
essa fa eco quella celeste per il peccatore pentito. Queste brevi coordinate ci permettono di
leggere i temi teologici del contesto della parabola nella prospettiva più ampia dell’intero
vangelo.
Dalla lettura delle tre parabole viene fuori innanzitutto una nuova immagine di Dio: è
il salto da un Dio impersonale che pesa le buone opere degli uomini ad un Padre, un Dio
“patiens”, che volontariamente si sottomette alla legge dell’amore, la quale presuppone
irrimediabilmente il dolore. Questa immagine è nuova solo in un senso, perché l’AT è
ricchissimo di immagini che rivelano plasticamente questa “passione” divina: basti pensare alle
immagini evocate da Osea (cfr. Os 11,1ss; Os 11,8ss), laddove Dio come genitore amorevole
accompagna Israele sulle strade della vita; oppure le appassionate pagine di Ezechiele, di Isaia,
di Geremia. L’amore di Dio per il suo popolo può essere detto solo con le icone più struggenti
dell’amore umano: l’affetto e la cura del padre, l’amore di una madre che mai si sognerebbe di
abbandonare la sua creatura, la gelosia di un amante che sa perdonare l’infedeltà della sua sposa.
JHWH è il pastore e il consolatore di Israele, è un pastore sui generis che senza una logica
apparente lascia le novantanove pecore nel deserto per andare a ritrovare quella smarrita: «Io

496
Cfr. IDEM, 715.
497
Cfr. R. A. MONASTERIO - A. R. CARMONA, Vangeli sinotici e Atti degli Apostoli, Brescia 1995, 275.
498
Cfr. IDEM, 276.
499
Cfr. IDEM, 283.
500
Cfr. IDEM, 286.

232
stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura» (Ez 34). Una volta ritrovata, nessuna vergata
attende la pecorella ma solo dimostrazioni di tenerezza di isaiana memoria: «porta gli agnellini
sul petto e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11). Eppure questa lunga carrellata di
suggestioni non ha impedito alla corrente farisaica, dominante ai tempi di Gesù, di deturpare il
volto di Dio. Troppo duri di orecchi i farisei, eredi di quella generazione dal cuore traviato (cfr.
Salmo 94), per comprendere che Dio è il Pastore che dà la vita per ciascuna delle sue pecorelle e
che è lo stesso Dio cantato dal salmo 79: «Tu, Pastore d’Israele, ascolta, tu che guidi Giuseppe
come un gregge». Se i farisei avevano alterato l’immagine di Dio, pretendendo di insegnare a
Dio il mestiere di Dio501, la sapienza umana, dotata solo del lume naturale e della volontà di
conoscere, era stata incapace di postulare l’esistenza del Dio di Gesù Cristo, tre volte Santo e
compromesso intimamente con la sua creatura. Essa si era potuta fermare alla soglia consentita
dalla sola ragione, ad un’asettica teodicea del Dio dei filosofi. Gesù ripulisce il volto del Padre
dalle incrostazioni dell’interpretazione farisaica e va oltre, ridisegnando i suoi contorni: Egli è
l’unico che conosce il Padre e nessuno può rivelare agli uomini il volto Dio meglio di Lui.
Gesù provoca nei suoi interlocutori una sorta di crisi sapienziale, perché riesce a
dimostrare l’infondatezza del dogma della retribuzione con l’affermazione chiara e precisa
dell’imprevedibile misericordia di Dio che riguarda tutti gli uomini. Se tutti sono destinatari
della salvezza e in questo quadro universale, alcuni lo sono in modo privilegiato: i peccatori e gli
anawin del Signore (cfr. Lc15,1-7). Gesù mangia con i peccatori (Lc 5,29-31), li cerca (Lc 19,7),
li chiama alla sua sequela (Lc 5,27 ss), perché conosce il desiderio del Padre che vuole che tutti
gli uomini siano salvi. Anche il privilegio dei poveri si radica nel cuore di Dio e sulle sue
promesse, nell’inversione dei destini tra ricchi e poveri (storpi, zoppi, affamati, mendicanti,
umiliati, miserabili, paralitici, povere vedove e donni sterili) così come l’inno del Magnificat lo
descrive efficacemente.
La parabola del figlio prodigo fornisce le caratteristiche del padre e quindi di Dio.
Forte, commentando questa parabola nel suo corso di esercizi spirituali, ne ha enucleato
cinque502. La prima caratteristica è l’umiltà di Dio, il Padre che lascia spazio al figlio, l’ Umile
che per far posto alla sua creature si contrae (zim zum originario), il Dio che pur avendoci creati
senza chiedercelo non ci salverà senza il nostro consenso503, per non violare la nostra libertà. La
seconda caratteristica è la speranza di Dio: il desiderio accende il suo cuore e attende i ritorni
dell’uomo. La terza è l’amore materno, che con i suoi accenni di tenerezza e gratuità sostituisce
l’amore del padre ieratico e distante. La scelta di una donna come protagonista della seconda
parabola della misericordia, oltre a rivelare la squisita sensibilità per il mondo femminile,
esprime bene questo aspetto dell’amore di Dio. A tal proposito è illuminante l’arcinoto dipinto di
Rembrandt che immortala l’abbraccio del padre e immobilizza per sempre quell’atto di
accoglienza e perdono. La particolarità di questo dipinto sta proprio nelle mani, una maschile e
l’altra femminile. Così un maestro di spiritualità dei nostri giorni, descrive la sua emozione
provata proprio dopo essersi soffermato su questo particolare: «Guardando a lungo il patriarca ho
capito sempre meglio che Rembrandt aveva fatto qualcosa di assolutamente diverso che far
posare Dio come un vecchio saggio capofamiglia. Tutto prende ispirazione dalle sue mani. Esse
sono molto diverse tra loro. La mano sinistra, posata sulla schiena del figlio è forte e muscolosa.
Le dita sono aperte e coprono gran parte della spalla destra del figlio prodigo. Posso intuire una
certa pressione, specialmente del pollice. Quella mano sembra non soltanto toccare, ma anche,
con la sua forza, sorreggere. Anche se la mano sinistra del padre si posa sul figlio con una certa
delicatezza, è una mano che stringe con energia. Com’è diversa invece la mano destra! Essa non
sorregge né afferra. È una mano raffinata, delicata e molto elegante. La mano è posata
dolcemente sulla spalla del figlio. Vuol accarezzare, calmare, offrire conforto e consolazione. È
una mano di madre»504. La quarta caratteristica è il coraggio, quel coraggio di chi lascia che le

501
Cfr. B. FORTE, Seguendo Te Luce della vita, Milano 2004, 16.
502
Cfr. IDEM, 16s.
504
Cfr. H. J. M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia 1994, 149.

233
sicurezze si infrangano in mille pezzi, coraggio dell’amore che è più rischioso dell’apparenti
sicurezze del non amore. L’ultima caratteristica è la gioia di Dio per il peccatore pentito che
ripaga la sofferenza divina, di quando lo ha visto andare via, lontano da sé : la sofferenza di Dio
è sofferenza d’amore505.
Se questi è Dio, la parabola narra pure chi è l’uomo. Come la pecorella e la dramma,
che pure non hanno un grande valore in sé, diventano l’oggetto della ricerca affannosa del
pastore e della donna, così la perdita dell’ uomo e soprattutto del peccatore intacca “la proprietà
personale di Dio”o segullah, depaupera irrimediabilmente quello che Gerolamo chiama il
peculium . I due figli della terza parabola sono metafora dell’uomo che ha rinunciato ad essere
figlio. Il primo è il simbolo dell’uomo di tutti i tempi (soprattutto dell’uomo moderno) che
prende le distanze da Dio, geloso della propria autonomia e della propria libertà, che reclama il
diritto di avere quello che gli spetta senza sapere che la sua stessa esistenza è dono di qualcun
altro. Il figlio rinuncia ad essere figlio proprio nel momento in cui dimentica la sua dimensione
creaturale e cerca di sfuggire dalla mano del padre “liberticida”. Neanche il figlio maggiore
riesce a relazionarsi con il padre con un rapporto filiale. Anche lui con il suo comportamento
rivela la non verità del suo amore: non ama da figlio ma da servo. Incompreso da tutti e due il
padre ha il compito di insegnare ai due figli a diventare tali. Entrambi devono fare questo
cammino interiore. Dopo l’esperienza di una libertà illusoria il figlio minore rientra in se stesso
ed inizia il cammino di “conversione”. Forte distingue cinque tappe di questo ravvedimento506.
La prima tappa consiste nel percepire l’esilio esteriore: il ragazzo sta male e riconosce la propria
miseria. Il secondo momento è il risveglio dall’amnesia, il ricordo della patria, dove abbondava
il pane. La terza tappa è l’esilio interiore, vale a dire il chiamare per nome il proprio male: la
separazione da Dio. Nella quarta tappa il figlio si affida alla speranza e alla certezza di una
possibile vita nuova. L’ultima tappa è la decisione di andare effettivamente dal padre: è il gesto
concreto senza la quale la conversione diventerebbe solo un pio desiderio. Tra le braccia del
padre il figliol prodigo finalmente impara la lezione e con umiltà accoglie il dono della sua
comunione. Anche al figlio maggiore è offerta questa possibilità di redenzione ma non sappiamo
se ne approfitterà.
Il grande insegnamento che ne viene fuori è il primato dell’amore di Dio, il primato
della grazia sulle opere. La conversione, l’iniziativa sono opera di Dio: all’uomo resta solo
accogliere questa proposta d’amore. Egli è il pastore che va in cerca delle pecorella e la salva, è
la donna che mette a soqquadro la casa per ritrovare la dramma perduta. La pecora non ha,
infatti, la possibilità di tornare indietro, di ritrovare il gregge, tanto meno la moneta, che senza
l’intervento della donna rimerebbe là nascosta in qualche angolo buio della casa. Anche nella
terza parabola è il padre il protagonista della conversione del figlio, è il motore, è il caso dirlo,
“immobile”, che lo spingerà a far ritorno ai lidi paterni. L’amore di questo uomo non è
condizionato né dal peccato del figlio minore né dalle “opere” del maggiore: egli ama e basta.
L’amore vero non fa violenza ed è rispettoso della decisione altrui: sta all’altro accogliere il
piano di salvezza di Dio nascosto nei secoli, quello di farci figli nel Figlio.
Gesù non è solo l’esegeta del Padre, nel senso che rivela le profondità dell’amore del
cuore di Dio, ma è il mediatore, colui che realizza la salvezza. Le tre parabole hanno una forte
valenza cristologica, ora più esplicita ora più implicita, riferendosi in qualche modo a Cristo. A
tal proposito dice Jeremias a chiare lettere: «Le parabole costringono l’uditore a prender
posizione verso la sua persona e il suo messaggio. Esse sono infatti tutte colme del mistero del
regno di Dio. E’ sorto un anno di grazia di Dio, poiché è comparso colui, la cui occulta maestà
traluce dietro ogni parola e parabola il salvatore507». Ad esempio è evidente la cristologia della
prima delle nostre parabole: nel cuore del racconto non si può non scorgere il riferimento alla
figura di Gesù, il pastore bello, titolo che serve a legittimare il suo comportamento nei confronti

505
Cfr. B. FORTE, Seguendo Te, Luce della Vita, 47.
506
Cfr. IDEM, 49 - 54.
507
J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, 280.

234
dei pubblicani e peccatori508, a testimoniare l’ autocoscienza di chi sa di andare contro corrente
ed è conscio di rappresentare la stessa premura di Dio per i lontani, a confutare la presunta
giustizia dei farisei. Da queste parabole si staglia nitida la persona di Gesù, la sua statura unica:
non si può scegliere Dio senza scegliere e seguire Gesù. Anche nella parabola del figlio prodigo,
si comprende bene che Gesù è il vero Figlio del Padre, la pienezza di Lui, a tal punto che chi
vede il figlio vede il Padre (cfr. Gv 14,11). Nouwen509 afferma che Gesù è il figlio giovane senza
essere ribelle ed il figlio maggiore senza essere risentito, ubbidiente e mai schiavo, comunque sia
il prediletto che esce dalla casa del Padre, questa volta però per andare a recuperare i figli
degeneri.
La festa, l’invito alla gioia, il banchetto sono il segno dell’avvenuto ritrovamento.
Questi sentimenti annunciano da un lato la presenza del regno di Dio e dall’altro evocano il
compimento nel progetto salvifico, la grande mensa dove sederanno i giusti e i peccatori pentiti.
Se all’orizzonte compare questa certezza escatologica, rimane vero che queste parole del Gesù
terreno, reinterpretate dopo la pasqua dalla comunità, diventano norma nel tempo della Chiesa.
Quello che Gesù ha detto in parole e in opere510 deve rimanere vero anche per la comunità
lucana: i poveri e i peccatori devono avere un posto privilegiato. La tentazione mai del tutto
superata di costruire comunità elitarie, il rischio farisaico di fare un gruppo di “separati”è sempre
in agguato: la Chiesa deve rimanere quell’arca di Noè, come immagina in modo suggestivo
Cipriano511, dove sono presenti animali buoni e cattivi, e così configurata questa arca può
navigare sui mari del tempo. Ciò non esime la comunità a purificarsi e a convertirsi ogni giorno,
Ecclesia semper reformanda, consapevole però che dall’altra parte c’è sempre il Signore
disposto ad accogliere il suo pentimento e ad offrire il suo perdono. Queste pagine allora sono la
memoria della comunità, di quello che ha udito, visto e sperimentato, ma anche la sua profezia.
Martini 512 in un suo libro avvicina queste tre parabole proprio al sacerdozio ordinato,
depositario del ministero della misericordia513. Da buon gesuita, fedele al metodo ignaziano,
suggerisce tre direzioni nelle quali i ministri di misericordia si possono esaminare. Una prima
forma di ministero della misericordia è il ministero della consolazione514 , il ministero di chi,
come Gesù, si china sui feriti della vita. Questi uomini diventano segno e presenza della
misericordia di Dio, il prolungamento del suo amore. La seconda forma di ministero della
misericordia è quello della pazienza e della longanimità515. Il modello è il padre che attende il
ritorno del figlio lontano, il contadino che attende il raccolto mentre ha davanti soltanto la
desolazione dell’inverno. La pazienza e la longanimità si radicano nella speranza fiduciosa, io
direi nell’ottimismo lucano, che presto o tardi i figli tornino e che le messi biondeggino, che
verrà il momento giusto, il kairos. La terza forma in cui si esprime il ministero della misericordia
è quella “seconda tavola della salvezza”, la riconciliazione sacramentale, dono inestimabile di
Dio.
La parabola della misericordia allora è utile anche per un itinerario di formazione per
operatori pastorali che possono così attingere dalla pedagogia salvifica di Dio. Come nota
Antonio Fallico516 queste pagine ben si adattano al situazione inquieta dei nostri giorni. Nella
società contemporanea è eclissata la figura del padre, scomparsa a causa di una sua cosciente e
deliberata uccisione517. Molti psicologi e psicoanalisti attribuiscono a tale volontaria
eliminazione paterna la causa di tante paure, angosce, depressioni, rabbia e nevrosi collettive, la
mancanza di coscienza di essere figli, l’insofferenza di essere bisognosi o dipendenti da

508
R. PENNA, I ritratti originali di Gesù il Cristo, Cisinello Balsamo 2001, 99.
509
H. J. M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, 127.
510
Cfr. DV 2
511
CIPRIANO, De Ecclesiae unitate, PL 4, 510 ss.
512
Cfr. C. M. MARTINI, La pratica del testo biblico, 192 ss.
513
Cfr. IDEM.
514
Cfr. IDEM.
515
Cfr. IDEM.
516
Cfr. A. FALLICO, Pedagogia pastorale, Chiesa – mondo, Catania 2000, 286.
517
Cfr. IDEM.

235
qualcuno più forte, più grande o semplicemente antecedente a noi. L’eliminazione del padre ha
giustificato l’eliminazione di Dio a tal punto che il nostro mondo è orfano di Dio: il complesso di
Edipo si esteso anche nei confronti di Dio. Si comprende bene come la parabola del figliol
prodigo sia di una attualità impressionante. Gesù demitizza il pantheon di nuovi idoli, “ dei falsi
e bugiardi518” che l’uomo si è dovuto procurare per sopperire al vuoto lasciato dal Padre - padre
e indica la strada del ritorno a casa. Anche in questo caso il nostro autore offre degli spunti che si
evincono dalla parabole per coloro che ad esempio svolgono una pastorale dei lontani. Una sana
pedagogia pastorale ha come cardine il rispetto della scelta altrui. L’operatore deve essere in
grado di dialogare con i giovani e di aprirsi alle loro esigenze, avere la capacità di lasciar liberi
gli altri anche di sbagliare, evitando gli ultimatum, di sperare contro ogni speranza, di soffrire in
silenzio nell’attesa, di essere disposto al perdono, di tenerezza, di ridare sempre dignità e
fiducia519. Un esempio pratico di questo modo di agire lo ritroviamo spolverando un personaggio
manzoniano, il cardinal Borromeo. Alla notizia della strana visita520 dell’Innominato la sua
reazione è pronta: «…lui…proprio lui… venga subito521» e con il volto animato da intrepida
carità e zelo apostolico è pronto ad accogliere il peccatore che proprio tra le braccia del presule
ritrova se stesso e Dio.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti didattici per la scuola dell’infanzia e per la scuola primaria.

Domanda: come presenterei la parabola de: “Il padre misericordioso” ?

Scuola dell’infanzia Scuola primaria


Partirei dalla narrazione di un’esperienza Partirei dalla narrazione di un’esperienza
quotidiana vissuta

Chiederei ai bambini: Chiederei agli alunni:


ü Che cosa hai fatto tu ? ü Come ti sei comportato in quella
ü Che cosa hanno fatto mamma e papà? occasione?
ü Come si sono comportati i tuoi genitori
nella stessa occasione?
Leggerei e spiegherei ai bambini la parabola Leggerei e spiegherei agli alunni la
parabola

Proporrei come attività: Proporrei come attività:

ü La drammatizzazione della parabola. ü La narrazione.


ü La produzione grafica. ü La drammatizzazione.
ü Il gioco libero e guidato. ü La discussione guidata

Conclusione

518
DANTE ALIGHIERI, La Divina Commedia, Inf. I, 73, a cura di N. Sapegno, Firenze 1985.
519
Cfr. A. FALLICO, Pedagogia pastorale, 288.
520
Cfr. A. MANZONI, I promessi sposi, Milano 1987, 450 ss.
521
IDEM, 451.

236
In sintesi si è detto quale posto occupano queste pagine nell’orizzonte del terzo vangelo, qual è
stata loro storia redazionale, quale la loro valenza cristologica. Si è tentata una sobria esegesi
delle singole pericopi che ha gettato maggior luce per un’interpretazione più fedele del testo
evangelico. L’indigine che ha preceduto il momento teologico ha ridotto il rischio di dare
un’impronta precettistica e moraleggiante alle tre parabole della misericordia che si prestano
facilmente ad un’applicazione di questo tipo. Il messaggio che ne è venuto fuori è occasione di
riflessione profonda, momento nel quale è possibile verificare il proprio cammino cristiano ma
soprattutto è kairos offerto per liberarci dalle immagini distorte di Dio, che sono il frutto delle
nostre indebite proiezioni, e per riscoprire il vero volto del Padre e contemplare la sua unica
effigie, Gesù, il Vivente. Concretamente questo volto è stato ricostruito con le tre parabole della
misericordia: il pastore, la donna, il padre sono le pietruzze del mosaico che solo il Cristo è
capace di comporre e di mostrarci.

237
XVI.
LA PARABOLA DEL POVERO LAZZARO E DEL RICCO EPULONE
(Lc 16,19-31)

Introduzione

In questa singolare parabola lucana sono presenti i temi riguardanti la ricchezza e la


povertà, l’abisso tra le due classi sociali e due modi di intendere la vita, che viene evidenziato
nella presentazione dei protagonisti (il povero Lazzaro e il ricco epulone). Quando Luca presenta
l’uomo ricco, non ci viene detto il nome (come dell’uomo povero: Lazzaro), quasi a voler
spingere il lettore a immedesimarsi in lui. Si può pensare ad una sorta di rappresentate di una
classe sociale dove agiscono quasi tutti come lui. Le sue preoccupazioni sono il cibo, il vestiario,
i festini e quant’altro. Lazzaro, da indigente, rappresenta l’altra faccia della realtà. Entrambi sono
parte della Chiesa primitiva. La straordinarietà di questa parabola sta nel fatto che la morte
cambia totalmente la condizione dei due. L’uomo ricco si ritrova nei tormenti dell’Ade, mentre il
povero Lazzaro alla destra di Abramo. L’intento di questo racconto è quello di far capire al
lettore che c’è qualcuno che ci ama veramente e non si dimentica mai di noi, anche nei momenti
difficili, proprio com’è stato per Lazzaro. Questo qualcuno è Dio. La risposta di Abramo
all’uomo ricco nel v.25 è una prima conclusione della parabola e indica le condizioni per poter
ottenere la pace eterna. Nella nostra parabola può emergere la figura di un Dio vendicatore, che
segna tutto, ma in realtà non è questa la figura che dobbiamo attribuirgli. L’uomo ricco dopo la
morte si ritrova nell’Ade perché non ha saputo usare con diligenza i beni che gli sono stati
affidati. Invece per il povero Lazzaro interviene Dio, il quale si prende cura di lui poiché è stato
abbandonato da tutti.
Articoliamo l’esposizione in due momenti. Nel primo affrontiamo l’analisi letteraria della
parabola, cercando di evidenziare mediante il metodo storico-critico i contenuti e il suo contesto.
Nel secondo proponiamo le prospettive teologiche di Lc 16,19-31, con una particolare attenzione
alla dimensione pastorale.

I. Analisi letteraria

I.1 Contesto e articolazioni

Lc 16,19-31 è un brano parabolico esclusivamente lucano, la cui natura evidenzia un


genere di racconto particolare, poiché ha la caratteristica di lasciare le argomentazioni aperte. La
parabola è contestualizzata in Lc 16, un capitolo che appartiene alla sezione di Lc 9,51-19,27,
considerato il «grande viaggio verso Gerusalemme».522 Il capitolo 16 è composto da vario
materiale che l’evangelista ha elaborato in modo diverso dagli altri sinottici, e ci viene cosi
presentato:

vv. 1-8: parabola dell’abile amministratore;


vv. 9-13: riflessione sul denaro che inganna e sul vero bene;
vv. 14-18 la Legge e il Regno;
vv. 19-31 parabola del ricco e di Lazzaro;

522
Cfr. L. SABOURIN, Il Vangelo secondo Luca. Introduzione e Commento, Casale Monferrato (TO) 1989, 11.

238
Com’è possibile verificare il capitolo inizia e termina con due rispettive parabole che
trattano dell’uso del denaro e del giusto rapporto con il regno di Dio. Infatti l’intero capitolo
riprende, in modo diverso e con testi vari, il tema del raggiungimento del Regno di Dio.
Il contesto di questa parabola è lo stesso della precedente, ovvero dell’abile
amministratore. Esse sono tra loro collegate a tal punto da poterle ipotizzare come un’unica
parabola che va quindi dal v.1 al v31 dello stesso cap. 16, poiché sia la prima che la seconda
affrontano la stessa tematica: il buon uso del denaro. Ma il buon uso del denaro non è l’unica
tematica di questo capitolo, infatti tratta anche di come gestire i beni (vv.10-12) e
dell’attaccamento ad essi (v.13). Quindi per ricapitolare, l’intero cap. 16 affronta una tematica
molto ampia, che riguarda l’uomo nel rapporto con i beni e il denaro.
Nel vangelo di Luca c’è un particolare che unisce queste parabole, e cioè la parte iniziale
del racconto. Iniziano con la presentazione di una personaggio. Nell’ultimo versetto invece
termina la parabola e non crea nessun tipo di collegamento con il capitolo seguente. Il v.1 quindi
indica il passaggio da un insegnamento all’altro.
Lc16,1-8. Il contesto di questa parabola è lo stesso della precedente, la cosa strana è come
mai le due parabole non sono state collegate subito dall’inizio, o meglio non sono state messe in
successione. Ciò che unisce, almeno apparentemente, le due parabole contenute nei vv.1-8 e vv.
19-31, sono gl’insegnamenti di Gesù a proposito dei beni materiali. Invece subito prima ai vv.
14-18, troviamo un altro insegnamento di Gesù sulla Legge e il Regno di Dio.
Questa apparente interruzione (Lc16,14-18), non spezza il filo logico del capitolo, perché
pur interrompendo l’insegnamento sul buon uso delle ricchezze, la parabola di Lc16,19-31 è
comunque legata all’insegnamento sulla Legge che ricorre nei vv.29.31. Quindi possiamo
azzardare l’ipotesi che il cap.16 nel suo complesso è legato attraverso degli anelli che collegano
un discorso ad un altro.
Sempre di questa parabola ci viene presentata una struttura tripartita.523 Il v.22 lo
possiamo definire un versetto “cerniera”, poiché causa un interruzione nel racconto, sposta
l’attenzione del lettore dalla vita terrestre alla vita nell’aldilà. In questa seconda parte del
racconto, Lazzaro e l’uomo ricco ci vengono ripresentati in un altro contesto, creando dei
contrasti. Il primo è Lazzaro che sta alla destra di Abramo mentre l’uomo ricco si trova nell’Ade;
nella vita terrena ci viene presentata la situazione opposta, Lazzaro è un mendicante e soffre,
mentre l’uomo ricco, come ci dice la parola stessa è un benestante. Secondo contrasto. Lazzaro
mangia beatamente mentre l’uomo ricco ha sete; la condizione sociale si è ribaltata
completamente. Terzo, mentre Lazzaro era accerchiato dai cani e adesso non lo è più, l’uomo
ricco non può usufruire delle ricchezze che ha avuto nella sua vita.
Il vangelo è ricco di questi contrasti, non sono rari. Circa il problema della suddivisione
del brano, ci sono diverse ipotesi. Alcuni ritengono524 che Lc 16,16-18 faccia da cappello
introduttivo alla nostra parabola (Lc 16,19-31), dove i vv. 16.29.31. sembrano strettamente
collegati tra di essi in quanto ci sono richiami a Mosè e ai Profeti. Io concordo con questa
suddivisione anche se, un’ulteriore suddivisione del testo non è facile da attuare poiché, ci sono
molti collegamenti che spiccano da ogni versetto del capitolo. Sarei più propenso a lasciarla nella
classica suddivisione. D’altra parte nella sua interezza vedo un filo logico ben determinato.
Prendendo i testi singolarmente, si può avere l’impressione che il c.16 sia composto da parabole
e altri insegnamenti senza un nesso logico. Invece i testi sono ben collegati tra loro. Sempre lo
stesso autore propone un’altra divisione del c.16, sotto due punti di vista. Uno tematico e l’altro
letterario:
- punto di vista tematico:
Lc 16,1-8 l’amministratore scaltro;
Lc 16,9-18 la fedeltà;
Lc 16,19-31 il ricco e il povero Lazzaro.

523
Cfr. M.GOURGUES, Le Parabole di Luca. 165ss.
524
Cfr. M. L. RIGATO, «Mosè e i profeti» in chiave cristiana», RivB 2 (1997) 145.

239
- punto di vista letterario:
Lc16,1-8 l’abile amministratore
Lc16,9-15 riflessione sul denaro e il buon uso
Lc,16,16-31 il povero Lazzaro e il ricco epulone.

1.2 Le caratteristiche della parabola

Il termine parabola (in greco parabolé e in ebraico meshalim), in Luca viene utilizzato
per indicare proverbi, paragoni e similitudini. Nel testo sono riscontrabili alcuni elementi molto
vicini alla fede farisaica, come gli angeli (Lc16,22b) e lo spirito (Lc16,30b), che ha la funzione
di far redimere i parenti dell’uomo ricco. Nel v.30 non si parla proprio di uno spirito, ma di un
defunto che possa comunicare con il mondo dei viventi. C’è una forte influenza giudaica in
questa parabola. Nella presentazione dell’uomo ricco, la motivazione della sua destinazione post-
morte, è quella di non aver obbedito alla Legge. La Legge chiede all’osservante di dividere il
pane con l’affamato (Lazzaro), aiutare i senza tetto, ecc. Alcuni dettagli sull’ospitalità vengono
riportati anche nel libro del Levitico (Lv19,34). Guardando la parabola in ottica cristiana, il ricco
non si è convertito e persevera sbagliando anche dopo la morte, chiedendo l’intervento di
Abramo per la salvezza dei suoi familiari. Ma soprattutto non ha amato il prossimo suo come se
stesso. Principio fondamentale dell’amore cristiano.

1.3 La parabola di Lc 16,19-31 e le beatitudini Lc 6,20-26

Lo stile di questo racconto è tipicamente lucano. Lo si vede proprio dalle


contrapposizione che vengono presentate. Contrapposizioni come aldilà e aldiquà, gioie e dolori,
ricco e povero, ecc. Troviamo molti elementi che ci permettono di confrontare la parabola con lo
schema delle beatitudini.525 La nostra parabola Lc 16,19-31 viene divisa in due parti, Lc 16,19-
25 e Lc 16,26-31. Nella prima parte viene messo in evidenza il rovesciamento dei valori nell’ora
della morte e il cattivo uso delle ricchezze. Mentre nella seconda si evidenzia la non
indispensabilità dei miracoli per credere e, delle opposizioni come cielo e terra, l’aldilà e
l’aldiquà. Nella parabola oltre a Lazzaro e all’uomo ricco viene introdotta anche la figura dei
cani, che sono animali considerati impuri secondo il mondo giudaico. Quando Luca ci presenta i
nostri personaggi, riesce a far percepire al lettore la distanza che c’è tra l’uno e l’altro. Si
potrebbe quasi dire che tra i due c’è un abisso. Espressione usata nel vangelo per indicare la
distanza incalcolabile tra Lazzaro il ricco epulone.
Quando ci viene presentato il passaggio dalla vita terrestre a quella celeste, assistiamo ad
un capovolgimento della situazione. L’uomo ricco finisce nell’Ade e il povero Lazzaro va nel
“seno di Abramo”. Il finale ce lo saremmo aspettati, però c’è una motivazione a questo
rovesciamento. In Lc 16,26 viene ribadito che al momento della morte è già stato tutto deciso. La
situazione post-morte viene decisa dalla persona interessata attraverso le scelte fatte nel corso
della sua vita. Ogni scelta compiuta nell’esistenza terrena contribuisce alla costruzione della vita
dell’aldilà. In Lc 16,31 culmine della seconda suddivisione e dell’intero racconto, viene ricordato
che per raggiungere Dio bisogna ascoltare i Profeti e la Legge. Per poter ascoltare la Legge e i
Profeti si sottolinea l’importanza dell’indipendenza del cuore dai beni terreni. E a questo punto
sorge la domanda, se l’uomo ricco avesse questa disposizione interiore.
Per quanto riguarda la condanna del ricco, bisogna tener conto della presentazione che ci
viene fornita dall’evangelista. Molto probabilmente il ricco incontrava spesso Lazzaro, quindi
almeno di vista Lazzaro era conosciuto. Egli era a conoscenza della sua (Lazzaro) situazione
precaria di sussistenza, e quindi ciò che gli ha impedito di raggiungere Abramo in Paradiso è
stata la sua impassibilità nei suoi confronti, quindi viene condannato per il suo egoismo. La

525
Cfr. C. GHIDELLI, Luca, (NVB 35), Roma 1978, 336-339.

240
ricchezza che possedeva l’uomo ricco, in quanto dono di Dio, doveva essere messa al servizio
della comunità. Un passo parallelo dove viene emessa la condanna verso i ricchi egoisti la
ritroviamo in Gc5,1ss (…piangete e gridate per le sciagure che vi sovrastano!…).
All’espressione “seno di Abramo”, si possono attribuire diversi significati: la
partecipazione al banchetto messianico con Abramo; la speranza di essere accolti da Abramo; il
ricongiungersi con Abramo e quindi con i padri. Per l’uomo ricco invece, “l’ade” è il luogo dei
tormenti. Il v.25 è da considerarsi come il versetto di chiusura della prima divisione poiché,
ripercorre la vita dell’uomo ricco nello stesso modo come l’ha descritta al v.19.
Le contrapposizione “gioie e dolori” ci portano a confrontare la parabola di Lazzaro Lc 16,19-
31, con la pagina delle beatitudini Lc 6,20-26. Nelle beatitudini viene ripetuto quattro volte
l’aggettivo “beato” e quattro volte l’aggettivo “guai”. In Lc 16,30 si accenna alla possibilità dei
miracoli. In un altro passo del vangelo (Lc10,13), Luca afferma che certe volte sono inefficaci,
ad esempio quando manca una certa disposizione interiore. Nei vangeli sinottici, spesso la
struttura del miracolo è la seguente: 1) Il bisogno di rivolgersi a Gesù; 2) La disponibilità di
Gesù; 3) Il compimento del miracolo; 4) Il verificarsi del miracolo; 5) Lo stupore dei passanti
che assistono al miracolo e rendono gloria a Dio o mormorano contro Gesù.
Ciò che lega Lc 6,20-26 con Lc 16,19-31 sono le opposizioni di cui abbiamo parlato
sopra, che si possono tranquillamente contestualizzare all’interno della parabola. I versi
interessati più da vicino sono, la seconda e la terza beatitudine e i primi tre “guai”.

2 1
Beati voi che ora avete Ma guai a voi, ricchi,
fame, perché avete già la vostra
perché sarete saziati. consolazione.
3 2
Beati voi che ora piangete, Guai a voi che ora siete
Perché riderete sazi, perché avrete fame.
3
Guai a voi che ora ridete,
perché sarete afflitti e
piangerete

Il parallelo tra Lc 16,19-31 e Lc 6,20-26 lo possiamo fare sostituendo il pronome “voi”


(Beati voi) con il nome “Lazzaro” e l’altro pronome “voi” (Guai a voi) con “Guai a te ricco” (il
ricco epulone della parabola), come ho riportato di seguito.
Nel vangelo, quando Luca parla dei poveri, non indica solo i mendicanti come Lazzaro,
ma i credenti che hanno accolto la povertà più radicale per seguire Cristo. Mentre l’uomo ricco è
colui che ha ricevuto un dono da Dio e lo deve mettere al servizio dei fratelli. Sui cani che si
avvicinano alle ferite del povero Lazzaro, ci sono diverse posizioni. Secondo alcuni studiosi,526
peggiorano la sofferenza di Lazzaro e sono animali impuri, secondo altri,527 alleviavano la
sofferenza del povero Lazzaro. Ma la convinzione più diffusa nel mondo giudaico e che sono pur
sempre considerati animali impuri.
Un’altra tesi ben argomentata è la seguente.528 Il c.16 viene diviso in due parti. La prima
parte dal v.1 al v.13 è rivolta ai discepoli e comprende un racconto e un discorso; il v.14 è un
versetto di passaggio; la seconda parte è rivolta ai farisei ed è articolata in, un discorso e un
racconto, dal v.15 al v.31. All’interno di queste due divisioni possiamo fare delle osservazioni.
Lo schema è sempre lo stesso. Nella prima parte abbiamo il racconto ai vv. 1-9 e il discorso ai
vv. 10-13; nella seconda parte abbiamo il racconto ai vv. 15-18 e il discorso ai vv. 19-31. La
parabola Lc 16,19-31 presenta il tema della fedeltà all’alleanza, quindi con Mosè e i profeti (vv.

526
J. SCHMID, L’Evangelo di Luca, Brescia 1957, 327; G. ROSSÉ, Il Vangelo di Luca, 642; O. DA SPINETOLI, Luca,
531; K. H. RENGSTORF, Il Vangelo di Luca, Brescia 1980, 328.
527
C. GHIDELLI, Luca, 337.
528
J. RADERMAKERS – P. BOSSUYT, Lettura pastorale del Vangelo di Luca, Bologna 1980, 349.

241
29.31). Possiamo trovare dei paralleli nei testi egiziani e nella letteratura rabbinica.529 Anche in
questo commentario si mette l’accento sulla situazione successiva alla morte. Il ricco soffre e il
povero riposa. Ma perché il ricco soffre? Perché pur avendo le possibilità economiche non ha
messo i suoi averi a disposizione della comunità. Emerge l’importanza della comunità. Questo
insegnamento così profondo possiamo dedurre che sia rivolto ai farisei che erano attaccati al
denaro. Un insegnamento che invita alla conversione, conversione che viene dall’esercizio della
misericordia e della carità, dall’accoglienza e dall’applicazione della Legge.
C’è anche chi nel suo lavoro ha introdotto un'altra problematica: la figura di contrasto530.
È una forma letteraria che si ha quando si passa da un estremità all’altra senza vie di mezzo. Ad
esempio quando Luca ci presenta l’uomo ricco e successivamente il povero Lazzaro. Lazzaro è
la cosiddetta figura di contrasto. Nel voler contestualizzare la parabola ai giorni nostri, l’uomo
ricco va a rappresentare quella parte dell’umanità che conduce una vita mondana (mangiare,
bere, divertirsi), persone che pensano solo ai piaceri della vita, non si preoccupano della loro
fede e diventano schiavi di questo stile di vita; mentre Lazzaro, rappresenta l’opposto di ciò che
abbiamo appena detto.
Rappresenta l’opposto perché il povero in Luca è colui che abbraccia pienamente
un’intensa vita di fede. Un'altra caratteristica di questa parabola è che spesso la malattia di
Lazzaro viene confrontata con quella di Giobbe, data la sua situazione precaria legata alla
malattia. Altro particolare che stravolge totalmente le aspettative umane, è la morte dei due.
Assistiamo a una specie di capovolgimento totale della situazione. Lazzaro viene portato nel
“seno di Abramo”, riceve un posto d’onore vicino ad Abramo, il ricco invece si ritrova a soffrire
nell’Ade. Accanto a questo stravolgimento umano, abbiamo un altro nodo da sciogliere, ed è
quello della sepoltura. Una buona sepoltura indicava nel popolo ebraico che il defunto non era un
peccatore manifesto, quindi è già pronto per il giudizio di Dio. Mentre la mancata sepoltura
etichettava il defunto come peccatore manifesto. Quindi la non sepoltura era considerata come
una specie di espiazione dei peccati.

Nell’A.T. quando si parla dell’aldilà non dobbiamo pensare alla suddivisione nostra. Ma
esiste un posto unico per tutti i defunti, chiamato Sheòl. Un luogo dove vanno tutti
indistintamente da come si sono comportati in vita. Con la fede nella risurrezione, sono sorti i
primi disagi. Disagi perché Cristo ha annunciato che ci sarà la risurrezione dei morti, lui è stato il
primo. Così, con la sua risurrezione lo Sheòl diventa un luogo non più comune a tutti, poiché era
considerata abitazione eterna dei defunti, ma luogo di riposo per i giusti fino alla risurrezione.
Quindi i peccatori rimarranno nello Sheòl in eterno, mentre i giusti resteranno nella Sheòl
solo in attesa della risurrezione. Altro particolare che possiamo notare è la richiesta dell’uomo
ricco ad Abramo. Non gli chiede di essere liberato dal tormento, ma che gli mandi Lazzaro ad
intingere il dito nell’acqua e bagnargli la lingua. Ancora una volta si vuol servire di Lazzaro,
dimostrando il suo egoismo e il disprezzo per la legge.

1.4 IL TESTO

19 C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava
lautamente. 20 Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di
piaghe, 21 bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani
venivano a leccare le sue piaghe. 22 Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel
seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23 Stando nell'inferno tra i tormenti,
levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui. 24 Allora gridando disse:

529
IDEM, 356.
530
Cfr. J. SCHMID, L’Evangelo secondo Luca, 327.

242
Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e
bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura. 25 Ma Abramo rispose: Figlio,
ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora
invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. 26 Per di più, tra noi e voi è stabilito
un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si
può attraversare fino a noi. 27 E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa
di mio padre, 28 perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi
in questo luogo di tormento. 29 Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino
loro. 30 E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si
ravvederanno. 31 Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno
risuscitasse dai morti saranno persuasi».

1.5. Analisi esegetica

v.19
E’ un versetto redazionale che ci presenta l’uomo ricco senza far emergere la sua moralità. C'era
un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente. Il
banchettare del ricco è segno del suo benessere. Il benessere viene manifestato in questo modo.
Non viene detto in che modo utilizzasse il suo benessere, ma si mantiene sulla descrizione del
suo abbigliamento, mettendo in evidenza il suo stato sociale.

v.20
Il v. ci fornisce una descrizione più dettagliata del secondo personaggio, Lazzaro. La radice di
Lazzaro è Eleazar, e significa: colui che Dio soccorre, che Dio aiuta. È una persona che ha un
posto di rilievo presso Dio. Viene detto che Lazzaro veniva portato davanti al portone. Il portone
è il posto dove venivano portati i mendicanti. Per quanto riguarda la sua malattia possiamo fare
degli accostamenti con Giobbe. Nel descrivere il povero Lazzaro, ci indica il modo in cui viveva
durante il giorno e utilizza il verbo “giacere”, Lazzaro giaceva. Nella traduzione, il verbo più
appropriato è “gettare”, quindi “era gettato” oppure “abbandonare”, Lazzaro era abbandonato
(ebèbleto). Nella concezione giudaica la malattia era una conseguenza del peccato. Si veniva a
contatto con una malattia quando si peccava, quindi il peccato che si manifestava attraverso le
situazioni difficili, etichettava i malcapitati come persone impure. Il verbo bàllein, viene messo
al perfetto passivo beblètai, che significa “giace”. Lo stesso verbo viene utilizzato nel passo in
cui si parla del servo del centurione (Mt 8,6). Il sostantivo elcòs che indica una ferita di origine
epidermico, viene tradotto nel vangelo con il termine “piaga”; questo termine ricorre in Ap
16,2.11, corrisponde all’ebraico šetîn che troviamo in Lv 13,18-27 e significa lebbra.

v.21
La fame di Lazzaro, indica e mette ben in evidenza il grande distacco sociale che intercorre tra i
due. Questo distacco richiama e dà adito alla tesi di J. Schmid sulla figura di contrasto. Altra
caratteristica singolare che segna il distacco tra i due, è l’uso che fa l’uomo ricco del pane.
Probabilmente i pezzi di pane di cui si parla non sono i resti del pasto ma, le molliche del pane
che venivano usate per pulire le mani tra un pasto e un altro. Lazzaro non ha da mangiare mentre
il ricco usa il pane per pulire le mani. I cani nel mondo giudaico sono segno d’impurità, ed è per
questo che l’atteggiamento del ricco, davanti ai farisei non suscita scalpore. Era assolutamente
vietato avere alcun genere di contatti con i mendicanti, i quali erano considerati peccatori
manifesti, la loro malattia era segno del peccato che era in loro.

243
v.22
La morte causa il capovolgimento della situazione. In queste brevi righe abbiamo dei riferimenti
al mondo giudaico, ad eccezione degl’angeli, poiché la loro funzione è quella di radunare gli
eletti, e non sono collegati anch’essi con il mondo giudaico. Spesso compaiono nella letteratura
apocalittica. Il “seno di Abramo” indica un posto privilegiato, e Lazzaro dopo aver sofferto nella
sua vita terrena ha una ricompensa nella vita celeste. La differenza tra i due viene messa in
evidenza anche al momento della morte. La mancata sepoltura indica nel mondo giudaico, un
modo per l’espiazione dei peccati. Prima di presentarsi davanti a Jhawè, l’uomo deve essere
purificato dai propri peccati. Sembra quasi una preparazione per l’incontro con Jhawè.531

v.23
Il ricco si trova nell’Ade ma può vedere Abramo. Quindi vuol dire che non erano molto distanti.
In questa parabola ci sono molti collegamenti con la concezione giudaica, anzi la suddetta
concezione prevale nel racconto. Come ho già spiegato lo Sheòl è un luogo comune a tutti,
indifferentemente se giusti o meno. A quanto pare esiste una divisione interna, per i giusti e i non
giusti ma questo non debba farci pensare a due luoghi, ma ha un luogo diviso in due parti. Infatti
troviamo anche Abramo532.
vv.24-26. Inizia il dialogo tra l’uomo ricco e Abramo. I tormenti del fuoco evidenziano il
capovolgimento della situazione tra la vita terrena e l’aldilà. E qui c’è il rifiuto da parte di
Abramo ad alleviare le pene.

v.24
L’uomo ricco non si rivolge a Lazzaro, ma ad Abramo, e lo chiama con l’appellativo di “Padre.”
Questo significa che in lui c’è un forte senso di appartenenza alla classe giudaica e per questo si
riconosce figlio. Abramo è padre di tutti gli ebrei, e in quanto padre nella fede e privilegiato da
Dio, solo lui può salvare chi lo invoca. Nella teologia rabbinica tutti coloro che si trovano nella
Geenna verranno un giorno liberati dai tormenti, ad esclusione di coloro che hanno gravi colpe.
Nel nostro racconto l’uomo ricco non tiene conto di questa possibilità e chiede ad Abramo di
porre fine ai suoi tormenti attraverso la mano di Lazzaro. Per questo motivo non viene esaudito.

v.25
Questo versetto ci rammenta la situazione terrena di Lazzaro e dell’uomo ricco prima di morire,
facendoci pensare ad una sorte di legge del contrappasso, ma non ha questo scopo. Il versetto
non fa altro che constatare la realtà terrena dei due e di far vedere ciò che è accaduto dopo la
morte, ma non spiega il perché di tale rovesciamento. Quindi vuole mandare un messaggio al
lettore, che è quello di utilizzare fino all’esaurimento i beni che ha a disposizione, senza
trascurare nulla.

v.26
Abramo fa capire all’uomo ricco che pur volendo non può aiutarlo poiché Dio ha tracciato un
confine ben delineato e invalicabile tra i buoni e i cattivi. Viene utilizzato l’espressione “grande
abisso”, che sta a marcare l’impossibilità di passare da una parte all’altra. Probabilmente
l’intenzione del racconto è quella di mettere in guardia le persone che appartengono alla classe
sociale del ricco, la quale non si prende cura delle necessità della comunità.
vv.27-28. L’uomo ricco vuole sfruttare Lazzaro per avere sollievo alle sue sofferenze. C’è anche
una tecnica narrativa per riportare il discorso sul piano terreno, parlando dei fratelli.

v.27

531
J.SCHMID, 328.
532
G. ROSSÉ, Il Vangelo di Luca, 648

244
L’uomo ricco chiede di poter inviare Lazzaro a casa sua per poter dare la possibilità ai suoi
fratelli di convertirsi. Così da non fare la sua stessa fine. Quindi questa sua situazione post-morte
è riconosciuta da lui stesso come punizione. Questo verso viene visto da J. Dupont come metodo
letterario per riportare l’attenzione alla vita terrena, in particolare a casa dell’uomo ricco.

v.28
Lazzaro viene visto come un missionario, come colui che ha una missione da compiere. Con
molta probabilità la sua missione è quella di far convertire i fratelli dell’uomo ricco, i quali
perseverano nella vita mondana e da dissoluti. Ciò significa che l’uomo ricco ha capito il perché
si trova in quella situazione e vuole quindi evitare la sua stessa sorte ai suoi fratelli.

v.29
Ci troviamo al secondo rifiuto di Abramo il quale ribadisce l’importanza della legge. La
preghiera dell’uomo ricco conferma l’ipotesi della missione di Lazzaro, quindi riconosce che i
suoi fratelli non vivono secondo la Legge. Dall’altra parte però viene affermata la validità della
Legge. Gesù nel raccontare questa parabola non sottovaluta la Legge, ma la avvalora ancora di
più. La Legge quindi è il mezzo necessario per poter stare vicino ad Abramo (in chiave giudaica)
e per entrare nel Regno di Dio (in chiave cristiana).

v.30
L’uomo ricco è convinto di poter salvare i propri fratelli dalla dannazione eterna che sta
scontando già lui. La rivelazione della volontà di Dio contenuta nell’A.T. è sufficiente per essere
salvati. Quindi se una persona segue la Legge non ha bisogno dei miracoli per credere
ulteriormente. Viene ribadito che per la salvezza è sufficiente seguire la Legge. Probabilmente si
sta affrontando una problematica emersa nella comunità cristiana, e cioè che un miracolo sia più
efficace della semplice Parola scritta, quindi della Legge. Quindi da come vediamo le
problematiche sono simili a quelle che abbiamo noi oggi. Il miracolo può aumentare la fede del
singolo, rispetto alla Parola che viene proclamata e ascoltata.
v.31
Troviamo l’ultimo rifiuto di Abramo, la non necessarietà del miracolo davanti a persone che non
ascoltano e mettono in pratica la Legge. Poi ancora c’è un’allusione alla risurrezione di Gesù. Il
miracolo è visto come un mezzo che non necessariamente può convertire. La conversione è
l’apertura del cuore all’amore di Dio.533
Il commento di Rossé534 ci presenta la parabola divisa in due parti: Lc16,19-25 e
Lc16,26-31. Nella primo viene messo l’accento sulla situazione dell’aldilà; nella seconda viene
messo l’accento sui cinque fratelli dell’uomo ricco e sulla legge. Per Jeremias, Gesù vuole
avvisare gl’uomini facendo l’esempio del ricco epulone. Fa vedere, cosa succede dopo la morte,
a chi non vive secondo la legge. Probabilmente Luca ha rielaborato una tradizione. C’è chi pensa
che sia un’antitesi della parabola dell’amministratore astuto.
Questo giustifica il comportamento dell’uomo ricco, poiché era vietato stare vicino o
condividere il posto a tavola con persone impure. La persona di Lazzaro la possiamo attribuire
sia al buon samaritano che al secondogenito del Padre misericordioso. Mentre l’atteggiamento
dell’uomo ricco la possiamo rispecchiare nel giudeo spigoloso nello svolgimento del suo ufficio.
A questo punto allora possiamo notare questa disparità nei personaggi, tra Lazzaro e l’uomo
ricco. Una disparità che c’è sempre stata nella Chiesa fin dalle prime origini (uomo-donna ricco–
povero circonciso-non circonciso…). Interpretando allora la conclusione del midrash alla luce
della risurrezione di Gesù, non si può non collegarle l’una all’altra definendole interdipendenti.
Ascoltare e rimanere in ascolto.

533
Cfr. IDEM, 642-643.
534
Cfr. IDEM, 643.

245
II. Analisi teologica

II.1. Messaggi teologici

Dall’analisi proposta possiamo sottolineare alcuni aspetti teologici emergenti:


a) Ricchezza e povertà;
b) La Legge nelle prime comunità giudaiche;
c) La condizione post-morte;
d) Chi sono i poveri?

a) Ricchezza e povertà

Il tema della ricchezza e della povertà ricorre spesso in Luca, il suo scopo è quello di mettere
delle realtà o persone a confronto, come nella nostra parabola. Un esempio lampo che ho citato
sopra, sono le beatitudini. Nelle beatitudini di Luca (Lc6,20ss) troviamo moltissimi paralleli, ad
ogni beatitudine corrisponde un “guai” ma, non è l’unico esempio che si può fare. Basta pensare
ai due protagonisti della parabola, Lazzaro e l’uomo ricco. Nella descrizione dei due viene
puntualizzato con precisione il modo in cui viveva Lazzaro e come viveva l’uomo ricco, tanto
che Lazzaro è stato definito la figura di contrasto dell’uomo ricco e, di figure di contrasto il
vangelo di Luca ne è pieno.
La presenza di un uomo ricco nella nostra parabola è fondamentale. L’uomo ricco indica
una classe sociale del tempo, la quale vive senza occuparsi dei più poveri. Persone che
conducono vita mondana, pranzi, cene, tutto questo senza pensare alle necessità della comunità.
Il problema di fondo è che non impiegano i doni ricevuti, al servizio degli altri. Subito dopo
viene presentata la figura di Lazzaro. Lazzaro era un mendicante. Chi sono i mendicanti nella
concezione giudaica? Secondo la concezione giudaica i mendicanti sono coloro che non avendo
messo in pratica la Legge, sono stati maledetti da Jhwè. Quindi, essendo maledetto non poteva
entrare in contatto con le altre persone, proprio perché le poteva contagiare e gli altri giudei
consapevoli anch’essi di questo, cercavano di evitare i contatti. Lazzaro nella sua povertà ha
avuto modo di sperimentare la vicinanza di Jhwè, e ha avuto la possibilità di stare vicino ad
Abramo.

b) La Legge nelle prime comunità giudaiche

È un altro tema di fondamentale importanza, se pensiamo che la nostra parabola abbia subito
molto l’influsso giudaico. Ci sono molte forme di pensiero appartenenti alla corrente giudaica.
Ad esempio la “sepoltura” e “non sepoltura”. Lazzaro è stato portato in cielo mentre il ricco è
stato sepolto. Questo ha un suo significato profondo. La Legge invece per il giudeo doveva
occupare il primo posto nella vita. Guidava la persona e gli garantiva di avere un posto
privilegiato dopo la morte, proprio come il povero Lazzaro. La possiamo definire come una sorta
di garanzia. Noi oggi come garanzia abbiamo il comando di Gesù, i giudei invece guadagnano il
posto d’onore rispettando la Legge.

c) La condizione post-morte

La condizione post-morte è abbastanza complessa. Innanzitutto dobbiamo sapere, come ho già


avuto modo di dire, che nella concezione giudaica con la morte si passa ad un’altra vita. C’è un
luogo chiamato Sheòl, nel quale vanno tutti, buoni e cattivi. All’interno di esso non ci sono
ripartizioni. Tutti si trovano nello stesso luogo senza nessuna distinzione per merito. La prima
distinzione avviene quando viene annunciata la fede nella risurrezione, per cui nasce la
ripartizione tra buoni e cattivi. Per i non osservanti della legge rimaneva un luogo di dannazione
eterna, mentre per gli osservanti, diventava un semplice luogo di attesa. Nella nostra parabola il

246
povero Lazzaro si trova alla destra di Abramo, poiché per l’ebreo osservante era diventato un
diritto e perché Abramo è padre del popolo eletto. Se vogliamo, la ripartizione è simile alla
nostra ma con la differenza che noi pensiamo a due luoghi, l’inferno e il paradiso.
Perché il povero Lazzaro non è stato sepolto? La malattia (nella concezione giudaica) era vista, e
sotto certi aspetti lo è ancora oggi, come una punizione di Dio. Lazzaro quindi, da malato era
stato maledetto da Dio. Questa maledizione veniva quando non si rispettava la Legge e, non
rispettare la Legge ti rendeva peccatore. Allora Lazzaro come peccatore era stato punito da Dio
ed era considerato dal resto del popolo un peccatore manifesto. Come peccatore manifesto aveva
bisogno di purificarsi prima di andare nell’aldilà e la non sepoltura indicava proprio questo. Era
un mezzo per potersi purificare prima di passare nell’altro mondo. Mentre l’uomo ricco, avendo
tutti quei beni era stato benedetto da Dio. Se era benedetto da Dio, non aveva peccati e quindi era
stato sepolto, poiché non doveva espiare nulla. Almeno così secondo la concezione giudaica, ma
la nostra parabola è un insieme di tradizioni, giudaica e cristiana.

d) Chi sono i poveri?

Spesso i poveri sono coloro che vengono considerati protetti da Dio, ad esempio Lazzaro, che il
suo nome tradotto ha proprio questo significato. Affermando ciò, si può pensare che Dio stia solo
dalla parte loro, ma non è così. Nel vangelo vengono riportati alcuni incontri di Gesù con
persone ricche. Si può essere povero anche possedendo tutto l’oro del mondo, ma se non si è
aperti a Dio, ai suoi comandi, ad accettare la sua volontà, allora si è poveri. Ci sono molte
persone a cui l’annuncio del Regno di Dio non è ancora arrivato, e queste persone sono
considerate povere, poiché non avendo avendo ricevuto l’annuncio non possono vivere un
rapporto filiale con Dio. Gesù approfittava delle cene ed altro per annunciare il Regno di Dio a
tutti; nel giorno di pentecoste ha inviato gl’apostoli ad evangelizzare e in altre occasioni ha
inviato altri discepoli sempre per lo stesso motivo, per far conoscere l’amore di Dio all’uomo. I
poveri come vediamo non sono allora solo i poveri dal punto di vista materiale, ma sono anche
coloro che hanno bisogno di essere raggiunti dall’annuncio del Regno. Quindi quando si parla di
poveri, si va ad intendere un largo raggio.
1.2. Risonanze pastorali

La nostra parabola ci ha fornito delle tematiche molto interessanti da poter sviluppare all’interno
di catechesi o di lectio divine e sono le seguenti:
a) La parabola e l’impegno per i poveri.
b) La parabola e la predicazione escatologica (morte, giudizio).
c) La parabola e la responsabilità di fronte alla Parola di Dio (Mosè…) nella comunità.
d) La parabola e la giustizia sociale (esempio: Madre Teresa di Calcutta).

a) La parabola e l’impegno per i poveri


Il mondo giudaico ha influito molto su di essa e per cui troviamo molte spigolature. Ad esempio
l’impegno per i più poveri. Non è stata una svolta cristiana, ma l’impegno a curare i poveri viene
richiesto proprio dalla Legge. L’uomo ricco della parabola è stata condannato appunto per
questo, non ha avuto cura del povero Lazzaro; per cui la parabola la si può vedere come un
avvertimento per coloro che si trovano nella stessa condizione dell’uomo ricco. I due
protagonisti probabilmente si conoscevano da tempo e nonostante ciò Lazzaro sembrava fosse
invisibile agl’occhi dell’uomo ricco.

b) La parabola e la predicazione escatologica (morte, giudizio)


La predicazione della morte e del giudizio sono molto forti nella nostra parabola. Subito dopo la
presentazione dei protagonisti, cambia lo scenario; si passa dalla vita terrena a quella ultraterrena
e da questo momento in poi ci sono solo alcuni riferimenti alla vita terrena, pur dialogando
nell’altra. La parabola non spiega il perché l’uomo ricco viene condannato al tormento del fuoco,

247
ma porta il lettore ad interpretarla e ad immedesimarsi in uno dei due protagonisti e quindi il
lettore stesso tira le conclusioni. È piuttosto un ammonimento ad aprire gli occhi e usare
giustamente ciò che si possiede; un invito a convertirsi: l’uomo ricco che utilizza i suoi averi in
questo modo deve convertirsi nell’amministratore saggio di cui si parla nella parabola
precedente. Agendo per intuito l’uomo ricco è stato condannato perché non ha avuto cura del
povero Lazzaro; quindi può sembrare una punizione. Lo scopo della parabola non è quello di
parlare dell’aldilà, ma è quello di far convertire il lettore.

c) La parabola e la responsabilità di fronte alla Parola di Dio (Mosè…) nella comunità


La parabola ci ha messo davanti a un incrocio: seguire Dio ottenendo un posto in Paradiso,
condurre una vita mondana, non avendo come meta il Regno di Dio e quindi accontentarsi solo
della vita terrena. Ciò che otterremo dopo la morte lo stabiliamo oggi nella vita quotidiana. Il
nostro futuro è nelle nostre mani e noi siamo responsabili di esso. Mosè aveva la responsabilità
del popolo davanti ad esso e davanti a Dio; Dio si fidava di lui dandogli come responsabilità la
liberazione del popolo dall’oppressione dell’Egitto.

d) La parabola e la giustizia sociale (esempio: Madre Teresa di Calcutta)


La giustizia sociale è un altro tema di fondamentale importanza. Madre Teresa di Calcutta si è
trovata dover intervenire nella povertà, ha dato sè stessa per un popolo che neanche conosceva e,
tutto questo per diffondere il vangelo aiutando malati e emarginati. Ha soccorso tutti coloro che
erano stati emarginati; per loro ha dato la sua vita.

Oggi chi è il ricco epulone?


Il ricco epulone di oggi è colui che utilizza il bene ingiustamente; è colui che non è capace di
occuparsi delle necessità dell’altro; è colui che fa un uso distorto del denaro; è colui che è
immerso in una vita mondana e ha messo totalmente da parte Dio.
Chi è oggi Lazzaro? Il Lazzaro di oggi è colui che vive in un continuo affidamento in Dio. Dio è
la sua sola speranza e in lui si abbandona; è colui che vive le beatitudini incarnandole
pienamente. Non basta essere poveri materialmente ma bisogna saper confidare in Dio che è
nostro Padre e che provvede in tutto.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per la ricerca – azione nella scuola secondaria di I grado.

Scuola secondaria di I grado (classe II )

R.A. Ricerca Azione

Dominio dei concetti di ricchezza e povertà umana

Focus di attenzione della R.A.

La parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone

Items della R.A.

248
Problem solving Chi è oggi Lazzaro?
Chi è oggi il ricco epulone?

Presenza L’intero gruppo – classe è coinvolto nella


Ricerca – Azione.

I risultati della ricerca vanno contestualizzati e


Contesto resi utili ad eventuali implementazioni per
contesti simili.

Analizzare il testo della parabola


Ricercare nel testo espressioni che
maggiormante stimolano il bisogno di
discussione nel gruppo.
Ordine logico Riflettere sulle espressioni e sulle parole –
chiave del testo.
Rileggere il testo e contestualizzare le
riflessioni registrate.

Le riflessioni fatte sul testo , passano alle


Riflessione azioni soggettive di ogni membro del gruppo.

Le riflessioni sulle azioni di vita di ognuno


Spendibilità confluiscono in ad avvicinare la teoria alla
pratica quotidiana.

Competenze attese dalla R.A.

ü Affermazione della propria identità; responsabilità verso gli altri; progettazione del
futuro riflettendo sulla propria esperienza e su quella altrui.
ü Disponibilità alla collaborazione con coetanei e adulti; pratica della solidarietà e
dell’ascolto degli altri; giudizio critico autonomo.
ü Rispetto degli altri e della diversità.
ü Senso cristiano della vita.

Azione didattica

ü Gli allievi, organizzati per gruppi elettivi leggono, analizzano la parabola e, tenendo
presente il problem solving assegnato, riflettono sulla vita di Madre Teresa di Calcutta.

ü Gli allievi raccolgono le loro riflessioni in un reticolo di mappa concettuale.

ü Gli allievi ricercano termini semanticamente vicini ai concetti di ricchezza e povertà.

ü Gli allievi elaborano una teoria riferita alle seguenti domande.

249
Differenza tra ricchezza umana e ricchezza materiale.
Differenza tra povertà umana e povertà materiale.

Ritengo di essere ricco/a come persona? Perché?


Ritengo di essere povero/a come persona? Perché?

Mi sento ricco/a quando?


Mi sento povero/a quando?

Esiste la ricchezza povera?


Esiste la povertà ricca?

La ricerca continua calata nell’azione quotidiana della scuola e dell’extrascuola.

Conclusione

La nostra analisi ha cercato di mettere a fuoco i significati della parabola lucana.


Abbiamo affrontato l’analisi del genere letterario, lo stile del racconto e la sua articolazione
interna. Appare chiaro come l’attenzione dell’evangelista non possa essere disgiunta dal contesto
comunitario in cui egli opera. La chiesa lucana è senza dubbio interessata dalla problematica
interna della relazione tra diversi ceti, differenti soprattutto per la situazione socio-economica.
Emerge anche con chiarezza dal nostro lavoro come l’intento della parabola non è di natura
escatologica, bensì parenetica535. Invita il lettore di ogni tempo alla conversione del cuore e alla
capacità di saper «guardare» il mondo nell’ottica della misericordia e della provvidenza.

535
Cfr. ORTENSIO DA SPINETOLI, Luca, 534-535.

250
XVII.
LE PARABOLE DEL GIUDICE E DELLA VEDOVA (Lc 18,1-8)
E DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO (Lc 18,9-14)

Introduzione

In questo ultimo capitolo studieremo due parabole: “il giudice e la vedova” e de “il
fariseo e il pubblicano” (Lc 18,1-14). Il tema che collega i due racconti è quello della preghiera o
meglio della necessità di una preghiera concreta. Oggi è difficile riflettere sul senso della
preghiera e della sua valenza spirituale, in un mondo tutto orientato alla dimensione
eudemonistica e produttiva. La preghiera è dialogo fra Dio e l’uomo, mistero di una relazione
profonda e trasformante, che implica il «senso della fede». Nessuno è più forte di una persona
che prega, perché il Signore ha promesso di concedere tutto a coloro che pregano. Pregare non è
tempo sprecato ma chi prega, cresce nel dono di sé e vive l’autenticità dell’incontro con
l’Assoluto mediante il timore di Dio.
Le parabole appartengono alla tradizione di Luca e presentano punti di contatto con Lc
11,5-13, il logion sulla necessità di pregare sempre e con insistenza. Gesù intende rassicurare i
discepoli affinché rimangano uniti a Dio con la preghiera e non disperino nelle difficoltà (cfr.
17,22 ). E’ questa l’immagine della vedova, una donna indifesa che vive la sua continua
preghiera ed induce un giudice senza scrupoli, a fare giustizia. Allo stesso modo i discepoli di
Gesù sanno che Dio farà loto giustizia perché Dio li protegge (Sl 68,6).536 La preghiera dei
discepoli è tutta protesa alla venuta del Regno (cfr. 11,2; 17,22). La preghiera aveva una parte
nella vita e nella giornata del pio israelita e la raccomandazione iniziale lo conferma. Il verbo
“bisogna” (dei) che ritorna nei contesti cruciali della vita di Gesù, non ammette equivoci. È
Gesù colui che chiama i suoi seguaci a pregare per la venuta della basileia (cf. Mt 6,10). Allo
stesso modo la scena provocatoria dei due personaggi al tempio (cfr. 18,9-14), che invita gli
uditori a prendere coscienza dell’autenticità dell’esperienza spirituale (chi è il vero uomo
religioso) e del nuovo modo di vedere Dio nella storia. Pertanto procederemo all’analisi letteraria
e teologica delle due parabole, cercando di evidenziare la ricchezza e l’attualità del messaggio
evangelico in esse contenuto.

I. La parabola del giudice e della vedova (Lc 18, 1-8)

I.1 Il contesto

La parabola è collegata da Luca al contesto precedente di 17,20ss. che parla della venuta
del Regno di Dio e del Figlio dell’uomo. Luca sottolinea molto attentamente nel suo vangelo gli
aspetti riguardanti la preghiera, le sue modalità, le sue caratteristiche., mostrando in Gesù un
grande orante in cui si vede che aveva un rapporto intimo con il Padre. L’insegnamento di Gesù
è un invito a perseverare nella preghiera senza stancarsi. Questa parabola ci racconta dei due
personaggi che sono un giudice ingiusto che non ha rispetto per nessuno, neppure per Dio Padre
né per il prossimo, ma che finisce per fare giustizia a una vedova; e una vedova povera, simbolo
dell’abbandono nella società israelitica, che chiede sempre la giustizia a un giudice per liberarla
dalle sue preoccupazioni. Il giudice disonesto farà giustizia perchè la vedova non ritorni più.
Luca vuole menzionare il Figlio dell’uomo e aggancia così la parabola al discorso escatologico
precedente. Luca ha usato la fonte propria di Q. L’evangelista vuole concludere il discorso sul
Figlio dell’uomo con un appello alla preghiera e un richiamo alla vigilanza. Egli spiega che Dio

536
K. H. RENGSTORF, Il Vangelo di Luca, Brescia 1980, 348.

251
Padre non fa ingiustizia ma sarà sempre attento al grido dei deboli e non tarderà a fare giustizia.
Perciò il giorno del Figlio dell’uomo giungerà quando finalmente sarà resa giustizia ai poveri di
Dio che gridano giorno e notte. L’invito è quello di stare attenti e prepararsi ad incontrare Gesù,
nostro Salvatore.

I.2 Struttura e articolazione

v. 1 introduzione
vv. 2-5 presentazione dei due protagonisti della parabola
vv. 6-8 la voce di Gesù e la venuta del Figlio dell’uomo

Luca comincia questa parabola con un’introduzione (v.1) nella quale si trova una sorta di
raccomandazione a pregare, sull’esempio di Gesù che passava molto tempo a pregare. Pregare è
necessario per la propria vita spirituale. Gli apostoli hanno chiesto a Gesù d’insegnare loro a
pregare e il Signore insegna loro “il Padre Nostro” (Lc 11,2-4). Il verbo pros-euchomai significa
avanzare una petizione o supplica (euchè) “rivolta verso” (pros) un sovrano o padrone, in questo
caso Dio. La narrazione segue nei vv.2-5 che presenta in sé i due protagonisti della parabola che
sono un giudice ingiusto e una povera vedova.
I vv. 6-8 sembrano richiamare l’attenzione sulle prerogative di Dio e sulla venuta del
Figlio dell’uomo. Gli interpreti non sono della stessa opinione; alcuni vedono in questa
immagine una rappresentazione del rapporto dell’uomo con Dio e con Cristo. I vv. 6-7 vanno
visti come commento del narratore originario della parabola. Nello stadio di Gesù la necessità
del commento deriva dalla scelta dell’immagine il cui riferimento metaforico a Dio contraddice i
concetti familiari all’uditore. Nel “io vi dico” del v.8 viene introdotto un nuovo elemento che
riprende il termine èkdikēsis anche se si ha uno spostamento di sguardo dal soggetto
dell’èkdikēsis al suo oggetto.

I.3 Il testo

1 Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi:
2 “C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno. 3
In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia
contro il mio avversario. 4 Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche
se non temo Dio e non ho rispetto di nessuno, e poiché questa vedova è così molesta le
farò giustizia, perché non venga continuamente a importunarmi”.
6 E il Signore soggiunse: “Avete udito ciò che dice il giudice disonesto. 7 E Dio non farà
giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà lungo aspettare? 8
Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà
la fede sulla terra?”.

Il tema del diritto del povero da parte del giudice ingiusto appartiene al repertorio delle
denunce profetiche. La parabola presenta una scena classica, ma non intende presentare una
critica sociale, vuole invece invitarci alla preghiera incessantemente. Dal punto di vista della
storia della tradizione, essa è vista diversamente, anche se, come racconto, nel suo insieme risale
a Gesù stesso. J. Jeremias e A. George ipotizzano che il vangelo di Luca sarebbe la traduzione in
greco di una raccolta di appunti in ebraico presi dal vivo da qualche discepolo del Maestro.
Scrive J. Jeremias: «visto che la vedova porta la sua querela da un giudice singolo (e non davanti
a una corte giudiziaria)». Il v.7 viene interpretato come una costruzione semitica. J. Jeremias
traduce nel seguente modo: «ma Dio non farà giustizia ai suoi eletti, Lui che li ascolta con
pazienza, quando gridano a Lui giorno e notte?». La pazienza divina può fondare la fede nel suo
imminente intervento a fare giustizia. H. Riesenfeld ha interpretato il testo sulla base di Sir
35(32),14-22, mettendo il v. 7c in relazione con il v.8, col quale costituisce un’unità di pensiero.

252
I.4 Analisi esegetica

v. 1: «Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi»

Luca vuole presentare la parabola come “l’applicazione parenetica del discorso escatologico”. E’
necessario pregare sempre e senza stancarsi. Il verbo dein, “essere necessario”, è frequente in
Luca (41 volte su 102 nel NT). Pantote (sempre): è frequente nelle lettere paoline, in
connessione col verbo pregare: cfr. Rm 1, 10; 2Ts 1, 11; Col 1, 3; Fil 1, 4. Luca collega sempre
la preghiera con la vita e l’essere cristiano. Essa presenta come l’attesa escatologica è un
atteggiamento della vigilanza sempre, ma si raccomanda di non dimenticare mai la preghiera.

v. 2: «C’era in una città un giudice, che non temeva Dio e non aveva riguardo per nessuno».

E’ la presentazione dei personaggi principali. Un certo giudice: tis, si trova in Luca. Chi non
teme Dio, non osserva i suoi comandamenti; in particolare non tiene conto delle leggi sotto la
protesta dei profeti ed emesse dal codice dell’alleanza e dal codice deuteronomico per i poveri e
gli emarginati in Israele. Le prerogative chieste al giudice della parabola corrispondono al
quadro della giustizia sociale, invocata nei testi veterotestamentari.

v. 3: «In quel città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: Fammi giustizia
contro il mio avversario».

L’altro protagonista del racconto è una vedova (chēra), che rappresenta la persona debole, senza
forza e protezione, che vive nella città del giudice e sotto i suoi doveri. Essa non può sperare che
qualsiasi giudice l’aiuti, poggiandosi sul timore di Dio. Numerose sono le indicazioni sulla
protezione delle vedove nell’AT: cf. Es 22,21; Dt 10,18; 14,29; 24,17-21; Is 1,17.23; Gr 7,6;
22,23. Se il giudice fosse stato timorato di Dio, la vedova avrebbe ricevuto la giustizia. Essa
chiede al giudice di definire la sua causa. Il verbo ekdikein significa “vendicare, punire”; di qui
la traduzione possibile: “vèndicami del mio avversario”. La povera vedova non trova nessuna
forza, eccetto di ritornare spesso per risolvere la sua causa, cioè l’insistenza. A questo punto essa
reagisce totalmente all’autoritarismo del giudice. L’unico motivo che spinge il giudice
autoritario a soddisfare la richiesta è proprio questa ripetuta preghiera.

vv. 4-5: «Per un certo tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: Anche se non teme Dio e non ho
rispetto nessuno, poichè questa vedova è così molesta la farò giustizia, perché non venga
continuamente a importunarmi».

“Per un certo tempo” suggerisce un tempo lungo in cui il giudice l’ha fatto venire spesso. Questa
espressione viene usata per indicare che la persona può convertirsi: diciamo un periodo per la
conversione. Il giudice non vuole ascoltarla, ragionando “con se stesso”, cioè nel suo cuore.
Questa vedova è molesta, noiosa, per cui egli farà giustizia per le richieste della causa, per non
avere molto fastidio. Il giudice accentua li suo egoismo.

v. 6: «E il Signore soggiunse: Avete udito ciò che dice il giudice disonesto».

Adesso il Signore parla direttamente. La parabola parla del comportamento del giudice, non della
sua persona perché il giudice non rappresenta Dio. Il comportamento del giudice è l’ingiustizia,
l’iniquità. L’evangelista sintetizza nella traduzione biblica che egli “non temeva Dio e non
rispettava nessuno”: la realtà del giudice è molto contrario alla prospettiva religiosa e alla
volontà di Dio.

253
v. 7: «E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a
lungo aspettare?».

Il testo non si riferisce alla pazienza di Dio nei confronti degli eletti, ma al suo ritardo possibile
«ritardo» nell’intervento. Se il cattivo giudice fa giustizia alla vedova, sicuramente Dio farà
molto di più per i suoi eletti. Quindi noi, il suo popolo, dobbiamo gridare senza stancarci. Solo
Luca usa il verbo “gridare” (tōn boōntōn autō) come sinonimo della preghiera verso a Dio. Se il
nostro grido è forte, ci libera dalle nostre tribolazioni, anche se si fà aspettare.

v. 8: «Vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà
la fede sulla terra?».

“Vi dico che” è un’espressione assertiva posta a conclusione della parabola. “Dio farà giustizia”:
è una promessa fatta ai credenti più che una minaccia contro gli oppressori. Questa parabola
finisce con una domanda dove appare il motivo del Figlio dell’uomo e della fede. Il Figlio
dell’uomo è definito in relazione a Dio. Luca costruisce la perifrasi sulla necessità della «fede»,
con un linguaggio apocalittico. Egli ricollega il racconto al tema della preghiera incessante che
introduce la parabola. La fede come condizione della vigilanza e dell’attesa del compimento
della giustizia di Dio nella storia.

I.5 Messaggi teologici

Riconsiderando la strategia narrativa della parabola emerge come personaggio centrale il


giudice in contrapposizione con la vedova. Si vede come il comportamento del giudice ha anche
qualcosa che fa interrogare sull’agire di Dio nella storia dei piccoli e dei poveri. Il giudice è
presentato come figura disonesta, senza fede religiosa. Egli non ha voluto risolvere le crisi della
comunità. Al contrario Dio è sempre pronto a intervenire, anche se qualche volta sembra fare
aspettare. Il cristiano è colui che crede alla sua instancabile bontà, fedeltà verso l’uomo, per
questo non viene meno nella sua preghiera. La preghiera è la comunione con Dio, sicurezza della
sua presenza rassicurante e confortevole nella vita.
Da queste prime battute cogliamo l’originalità del messaggio parabolico che non riguarda
soltanto la perseveranza nella preghiera, ma la certezza che Dio verrà ed compirà la giustizia
nella storia. La necessità della preghiera è richiamata per sottolineare la drammaticità
dell’interno cammino della salvezza. Vi si insegna a riflettere la fiducia di Gesù nella venuta
finale del Regno di Dio. La venuta del Signore si fa attendere, ma la comunità mai abbandona la
convinzione, così la parabola serve proprio a rafforzare questa certezza. La vedova, invece, può
simboleggiare la comunità bisognosa di aiuto. Luca mette il suo comportamento come modello,
per i credenti, di una preghiera perseverante che ha fatta un’esortazione alla preghiera e alla
preghiera compresa come vigilanza e fedeltà.
Questo intervento nella storia è simboleggiato dalla categoria del Regno di Dio:
l’esaudimento della preghiera per la venuta del Regno è certo, perché la basileia si è già resa
vicina. La parabola stessa è l’evento del farsi vicino del Regno di Dio, oltre che la richiesta della
venuta del regno dei cieli verrà esaudita. “Il regno è di Dio, dal momento che il rapporto
dell’uomo col regno di Dio, la preghiera, è tale ai lasciare la libertà di Dio. La parabola riesce ad
esprimere l’amore di Dio senza deformare la libertà di Dio in un rapporto di dipendenza”.537 La
comunità identifica la venuta escatologica di Dio con la venuta del Figlio dell’uomo alla fine dei
giorni. Luca non fa che rendere esplicito un elemento della parabola, in quanto la certezza
dell’esaurimento è anche la condizione per potere perseverare nella preghiera.
La preghiera è il più importante elemento nel modo di essere e di vivere dei cristiani, sia
della comunità, sia del singolo individuo, poiché essa è un elemento costitutivo della realtà

537
H. WEDER, Metafore del Regno, 319.

254
cristiana. Non c’è una vita cristiana senza preghiera, perché fiorisce vivace e spontanea nel
nostro cuore. Vi sono anche altre parole: per invocare, per ringraziare, per promettere.
L’evangelista ci dice che il cristiano non deve avere periodi nella sua vita in cui il rapporto vitale
con Gesù Cristo si possa interrompere che significa precipitare nel buio della morte e non far
nulla agli altri. Il cristiano che prega “sempre, senza stancarsi” assolve invece un compito
salvifico per il mondo intero. Ogni cristiano deve avere la fede, deve percorre un cammino.

I.6 Connessioni

La nostra riflessione ha delle conseguenze nella relazione con altre discipline teologiche.
Proponiamo alcune connessioni con la teologia dogmatica, morale, spirituale e pastorale.
a) la teologia dogmatica
Luca presenta questa parabola come applicazione del discorso escatologico, cioè il
discorso sulla venuta del Figlio dell’uomo con un appello alla preghiera e un richiamo alla
vigilanza. La situazione della vedova simboleggia gli eletti, cioè a Qumràn, indica la comunità
della fine, coloro cui è destinato il Regno di Dio. Ravvisando la venuta di Dio nella venuta del
Figlio dell’uomo, la comunità deve avere la certezza della sua preghiera e esprimendo come
cristologia il fondamento di Gesù, essa salvaguarda il ruolo di Gesù come autore della parabola.
Quando il Figlio dell’uomo viene sulla terra, egli deve trovarvi la fede nella quale si può arrivare
al regno di Dio. Ogni uomo deve costruire il regno di Dio sulla terra attraverso la fede in Cristo.
b) La teologia morale
Luca già sapeva la situazione dei credenti, e allora egli ha dato un senso positivo “fare
giustizia”. Dio è l’unico giudice cui si rivolgono i suoi fedeli. Egli ha dovere di intervenire, ma
qualche volta fa silenzio per tentare la nostra pazienza. Anzi accorda troppa libertà, troppo
spazio agli iniqui, ma Luca dice che si muove prontamente alle richieste dell’uomo bisognoso
per cambiare la sua situazione. Qui si mostra un rapporto di dipendenza. E’ una libertà divina
che crea la libertà umana. Dobbiamo portare il regno di Dio attraverso le nostre opere e dando il
tempo per l’amore nei riguardi dell’altro.
c) La teologia spirituale
“Dio farà giustizia” è una promessa fatta ai credenti. Cioè la nostra fede verso Dio che
faccia la giustizia certamente per i suoi fedeli. Noi, i cristiani dobbiamo testimoniarla nella
nostra vita attraverso il nostro impegno e attraverso il nostro dire le buone parole di Gesù Cristo
agli altri specialmente coloro che vogliano conoscerlo meglio. Oggi noi diamo sfiducia a Lui.
Quando noi manchiamo di fede, non siamo in Cristo. Non riusciamo a pregare, perché la
preghiera è sempre collegata con la fede. E allora, la preghiera mantiene il credente nella fede,
attento al futuro di Dio. La fede è usata come l’esistenza del cristiano vissuta nella vigilanza e
nella fedeltà. Dobbiamo avere la fiducia in Gesù e nella venuta filiale del Regno di Dio.
d) La teologia pastorale
E’ importante avere la teologia pastorale nella nostra parrocchia perché dobbiamo
insistere con i cristiani di crescere nella preghiera. Attraverso la preghiera, dobbiamo incontrare
Gesù che è vero uomo e vero Dio. Specialmente è necessario insegnare ai bambini la preghiera
durante la catechesi, perché oggi i ragazzi non sanno niente della preghiera e non sanno
nemmeno come si prega. Sin da bambini, tutti devono conoscere Cristo per tutta la vita. I
catechisti hanno una grande responsabilità nell’insegnare dolcemente senza forzare. I bambini
vengono in chiesa non solo per ricevere i sacramenti ma anche per conoscere Cristo e i suoi
insegnamenti. Oggi i genitori non hanno interessi a portarli alla chiesa e educarli a pregare
dando, invece, la possibilità d’opzione d’andare in chiesa. I genitori devono essere i primi
maestri per i bambini nella vita sociale e nella vita spirituale. Ma si trova la sfiducia in mezzo ai
genitori verso Dio. I pastori devono parlare tanto e invitare spesso alla preghiera comunitaria.
Noi pastori dobbiamo essere gli educatori della preghiera.

255
II. La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9 -14)

Similmente alla parabola precedente del giudice e della vedova, anche questa parabola
del «fariseo e pubblicano» verte sull’insegnamento della preghiera. In origine non si tratta di un
insegnamento sulla preghiera, ma solo di un’immagine di due figure che pregano insieme nel
tempio occasionalmente. Anche qui possiamo vedere una diversità fra di loro come abbiamo
visto nella parabola precedente. Qui Luca ci dà un comportamento morale di questi due uomini.
Il fariseo pregava come ringraziamento perché egli osserva pienamente la legge di Dio in cui si
parla dell’egoismo e dell’altro, mentre il pubblicano accettava l’indegnità di vedere faccia a
faccia il Signore, cioè si sente un peccatore, uno schiavo, così si trova un angolo del Tempio.

II.1 Il contesto

E’ vero che la parabola precedente era un richiamo alla preghiera, invece questa parabola
non dà attenzione in primo luogo alla preghiera, ma su un atteggiamento fondamentale nei
riguardi di Dio e degli altri, un atteggiamento che, all’occorrenza, si manifesta nella preghiera.
Gesù presenta due uomini che costituiscono dei casi estremi, ciascuno di noi ha un po’ di tutti e
due. Quando saliamo ai Tempio per offrire il sacrificio di lode, siamo due in uno. Certe volte noi
preghiamo come il fariseo quando vogliamo che altri vedano quando preghiamo, non interessa la
nostra preghiera, ma devo mostrare il mio orgoglio come fariseo.
Il fariseo è un uomo religioso per eccellenza. E’ praticante, in regola con Dio (prega,
digiuna, osserva la altre prescrizioni della Legge) e con gli uomini. Il suo sbaglio è di come
imposta la sua vita di fronte al Signore e di fronte ai propri simili. Egli è nel tempio, rimane in
piedi, non prova a piegarsi, a riconoscere della sua nullità, di miseria e di colpa. Egli vive
esteriormente come religioso, dentro vi è la cattiveria, arroganza che lo spinge a giudicare gli
altri come l’uomo peccatore in fondo nel Tempio. Di solito la preghiera significa la
raccomandazione, la richiesta, e mendicare qual cosa di cui si ha bisogno a Dio Padre. Invece
quel ricco fariseo non viene al Tempio per chiedere qualcosa a Dio, ma si sente in grado di fare
Lui le sue offerte, i suoi regali, i suoi doni a Dio, perché non ha niente da chiedere. Ha tutto
abbondantemente, ma i suoi pensieri e i suoi sentimenti fanno sempre abbassare agli altri.
Sempre parliamo degli altri, ma non pensiamo ai nostri errori. Il nostro incontro con il
Signore sempre deve essere un incontro segreto, cioè solo separato. E’ davanti al Signore che
dobbiamo essere perfetti, giusti e osservanti della legge, non davanti agli uomini. Invece il
pubblicano è un traditore della patria, un servo dei dominatori stranieri e riconosciuto come un
peccatore perché forse ha sbagliato tanto davanti al Signore. Egli è socialmente benestante, ma
dentro di sé è bisognoso e insoddisfatto. Egli è venuto al Tempio non tanto per ringraziare Dio,
ma per chiedergli il perdono dei suoi peccati; non viene con le mani piene come il fariseo, ma
con le mani vuote per chiedere, casomai per offrire la sua miseria, morale e spirituale, le sue
mancanze, specialmente i suoi peccati perchè siano purificati. Davanti a Dio, egli diventa un
mendicante che tende la mano in segno di grazia e di perdono anche se è ricco materialmente. Il
messaggio della parabola è la giustificazione. Nel linguaggio biblico, la giustizia è sinonimo di
rettitudine, pietà, santità. La giustificazione di Dio è molto diversa nei due personaggi. Così
Gesù afferma che questo pubblicano è giustificato, non il fariseo. Gesù ha visto l’umiltà del
pubblicano.

II.2 Struttura e articolazione

Considerando il racconto lucano possiamo individuare tre articolazioni:

v. 9 introduzione della parabola


vv. 10–13 presentazione e azione dei personaggi
v. 14 conclusione

256
Anche questa parabola appare una lezione sulla preghiera fatta sull’intero comportamento
umano, soprattutto del credente, davanti a Dio, a se stesso, agli altri. Si trovano certezze
teologiche e religiose che si rivelano giuste e vere. Luca inizia questa parabola con un
introduzione propria che indica un cambio dei destinatari. Poi si trova la presentazione dei
personaggi: il fariseo e il pubblicano che vanno al tempio a pregare.
Il nome “fariseo” è diventato, nei vangeli, sinonimo di ipocrita. I farisei sono un gruppo
spiritualmente più impegnato nel tempio e osservano con maggior importanza e zelo la Legge, i
tempi di preghiera, tutte le pratiche del culto, i digiuni e le opere buone.sono molto severi. E’
vero che il fariseo è un religioso che nel Tempio stava in piedi e pregava in isolamento, ma è
anche vero che così si vede il suo orgoglio, credendosi uomo giusto e facendo tutto in modo
perfetto, secondo il diritto. Il fariseo vuole fare tutto esternamente per mostrare la sua capacità
come vanagloria. Egli in preghiera dà di se stesso un giudizio favorevole, mettendosi al posto di
Dio. Il pubblicano in preghiera dà di se stesso un giudizio sfavorevole. Tutti e due “salirono
(verbo: anabaìnō) al tempio” all’inizio, ma alla fine “scese (verbo: katabaìnō) a casa sua. Alla
fine, sia dal punto di vista letterario che sia dal punto di vista grammaticale, il giustificato
corrisponde alla figura del uomo giusto.

II.4 Il testo

9 Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e
disprezzavano gli altri:
10 “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11 Il
fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli
altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. 12 Digiuno due
volte la settimana e pago la decime di quanto possiedo. 13 Il pubblicano invece,
fermatoci a distanza, non osava alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O
Dio, abbi pietà di me peccatore.
14 Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si
esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esalto”.

Luca dà un orientamento paretico al racconto del comportamento morale dei due uomini. Dal
punto di visto letterario secondo H. Zimmermann, la parabola (Parabel) è diventata un racconto
per esempi. Secondo altri autori, deve trattarsi di uno dei due momenti quotidiani della preghiera
del tempio, delle nove del mattino o delle tre del pomeriggio; altri vedono un dato determinante
per la comprensione del racconto. Secondo K. E. Bailey questa indicazione doveva essere
essenziale per gli uditori della parabola, perché i due momenti costituivano i momenti per
eccellenza della preghiera personale al tempio. Proprio in questo contesto liturgico-sacrale
l’insegnamento di Gesù tenta di cogliere il nucleo centrale della vita religiosa del pio israelita. La
tensione narrativa espressa dalla parabola indice gli uditori a prendere coscienza della
responsabilità del rapporto con Dio e con il prossimo. L’asse verticale si incontra con quello
orizzontale e il giudizio espresso al v. 14 non tocca solo la religiosità del fariseo, ma la
condizione sociale e religiosa dell’intera comunità ebraica.

II.5 Analisi esegetica

v. 9: Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli
altri.

Luca introduce questa parabola su un atteggiamento di fronte a Dio e agli altri. Anche
egli voleva riportare l’inizio della parabola precedente del giudice e della vedova. “Disse loro
una parabola sul dover sempre pregare senza stancarsi mai” (18,1). Qui Gesù parla ai discepoli,

257
ma nel questo v.,9. Gesù parla agli uditori che hanno fiducia in se stessi. Il verbo peithein
significa persuadere, convincere, con il senso di «aver fiducia, fidarsi, contare su». E’ vero che
alcuni erano convinti di essere giusti e disprezzavano gli altri (oi loipoi). L’evangelista racconta
questa parabola a coloro che confidano in se stessi e non in Dio perché pensano di essere giusti.
“I giusti” sono la condizione di rettitudine davanti a Dio e sono in opposizione ai peccatori, a
quelli che hanno bisogno di convertirsi. E’ giusto colui che ha una buona condotta con Dio. Nel
giudaismo la condotta è l’osservanza della Legge, ma quando una legge vale per se stessa, non
ha nessun valore agli altri. Luca ha di mira un tipo di pietà che quell’uomo religioso (fariseo)
possiede: contare tutto sulle proprie opere e prendere la propria perfezione davanti agli uomini,
non davanti a Dio. Pure Luca , un pagano convertito, viveva nell’ambiente ellenistico, ed era
difficile per lui capire la mentalità religiosa del giudaismo.

v. 10: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.

La presentazione dei due personaggi è posta fin dall’inizio in una forma enfatica, in vista
dell’orientamento totalmente diverso dei comportamenti religiosi. Il fariseo è uomo fedele alla
Torah, cioè pio; il pubblicano, uomo giudicato disonesto, amico dei Romani, cioè peccatore. La
parola “uomo” (anthrōpos tis) viene udita spesso nel vangelo di Luca: un uomo scendeva da
Gerusalemme a Gerico (Lc 10,27), un uomo fece un grande banchetto (Lc 14,16), un uomo
aveva due figli (Lc 15,11), un uomo era ricco (Lc 16,19). I due salgano al tempio a pregare
personalmente o forse per unirsi alla preghiera comunitaria perché il tempio è costruito su di una
collina. La preghiera ufficiale si recitava due volte al giorno, alle ore 9 e alle ore 15, ma il giudeo
soltanto poteva pregare in qualunque momento, senza limiti. Allora la parabola ci insegna che vi
sono due atteggiamenti religiosi davanti a Dio. Luca precisa che si tratta di uno dei due momenti
quotidiani di preghiera, dell’offerta dell’incenso e del sacrificio dell’agnello che portano al
Tempio come preghiera personale. Si trovano i testi dell’Antico Testamento che offrano
l’olocausto quotidiano dell’agnello.

v.11: Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli
altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano.

In questo versetto vi sono le due principali varianti: «pregava in sé» che può essere interpretato
come monologo in cui il fariseo parla con se stesso, in una preghiera rivolta a se stesso, Cioè una
preghiera interiore e quindi per forza in silenzio. L’altra espressione è «stando in piedi» come un
segno di superbia, di una sicurezza in sé. Tutti e due sono atteggiamenti normali per giudeo. Il
fariseo prega senza alcuna intenzione, mentre il pubblicano innalza una preghiera di
ringraziamento a Dio. Poi il fariseo paragona gli altri individui a rapaci, ingiusti e adulti, ma non
si esprime circa il resto dell’umanità giudicata peccatrice. La preghiera del fariseo non ha nulla
di riprovevole. Il fariseo sa che questa sua vita così impeccabile, è un dono di Dio e per questo
egli Lo ringrazia.

v. 12: Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo.

Nella seconda parte della preghiera, il fariseo non solo osserva i comandamenti della Legge ma
egli nomina due opere buone della pratica farisaica del tempo di Gesù:
1) Digiuna due volte la settimana ( lunedì e giovedì): obbligatorio, il giorno dell’espiazione
(Lv 16, 29. 31; Nm 29, 7). Esisteva anche un digiuno pubblico, privato e volontario regolato ad
espiare per i peccati del popolo.
2) La decima era richiesta al contadino su frumento, olio, e sul primogenito del bestiame (Dt
12, 17; 14, 22-29). Ogni cittadino ha un dovere a pagare la decima dai suoi prodotti della terra.
Così il fariseo non esagera, ma dice la verità.

258
Queste parole danno l’impressione all’ascoltatore di pensare bene del fariseo come pio e devoto.
La preghiera del fariseo è quella di un credente soddisfatto. Si apre proprio in un modo identico,
sempre con un “Io” . Parla così della sua virtù.

v. 13: Il pubblicano invece, fermatoci a distanza, non osava alzare gli occhi al cielo, ma si
batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore.

Il pubblicano stava a distanza: è il posto di chi è lontano da Dio e forse, in contrasto con la
posizione del fariseo che sta in piedi, davanti a Dio stesso. La preghiera del pubblicano è una
pura richiesta, formulante la sua indegnità. Egli si riconosce peccatore. Due gesti dicono la sua
condizione di pubblicano:
1) Non voleva alzare gli occhi al cielo, che messo in relazione con il pregare (Mt 6, 41; Gv
11, 41; 17, 1) , denota uno stato di vergogna, di confusione.
2) Si batte il petto, sia in segno di pentimento, sia come gesto di disperazione.
Il pubblicano si consegna interamente alla misericordia di Dio, dal quale ha tutto da ricevere.
Non ha niente da offrire a Dio eccetto la sua conversione. Ricordiamo qui anche Lc 15, il figlio
prodigo, che dice di non essere più degno di essere chiamato figlio.

v. 14 a: Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro.

Gesù afferma di riconoscere il giudizio di Dio: “Vi dico, questi discese giustificato, e non
l’altro”. Il fariseo rendeva grazie per la sua giustizia e ritorna non giustificato. Il pubblicano si
era giudicato peccatore e ritorna giustificato538. Gesù rende visibile e rivela l’amore del Padre per
i lontani, la Sua volontà di fare il primo passo, senza aspettare che sia l’uomo a farlo. I farisei si
giustificano, cioè si ritengono giusti come gente la cui vita è conforme alle attese di Dio. Il
termine “giustificato” del v. 14 corrisponde a “giusti” del v. 9 e viene dopo una confessione di
peccato e una richiesta di perdono. Gesù condanna il fariseo perché non si comporta secondo
Dio, ma non conosce la misericordia di Dio. È vittima di una pietà che non gli permette di
riconoscersi peccatore e di aprirsi al Dio di Gesù che chiama l’uomo alla conversione. Invece il
pubblicano confessa di dipendere totalmente dalla grazia divina che rende onore a Dio perché gli
permette di poter dare gratuitamente.

v. 14 b: perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato.

La parabola sarà interpretata alla luce della situazione. Gli ascoltatori sono i cristiani, coloro che
sono inclini a giudicare il prossimo e ad avanzare pretese di autosufficienza dinanzi a Dio. Il
racconto insegna di non pregare come il fariseo e incoraggia a rivolgersi a Dio con umiltà, come
il pubblicano. Luca applica non soltanto alla preghiera, ma alla vita cristiana, un rapporto
all’interno della comunità. Il pensiero di Dio rimane presente, ma di Colui che, nel giudizio
finale, punisce o ricompensa la condotta dell’uomo.

II. 6 Messaggi teologici

Lc 18,9-14 denuncia un altro atteggiamento che insidia il credente dell’autosufficienza.


Questa parabola ci raccomanda che siamo nulla senza Dio, nell’ordine della salvezza. Mentre Lc
17 parla di ricompensa della giustizia, Lc 18 parla di acquisizione della giustizia. Il fariseo non
pensa come Dio; egli ha semplicemente soddisfatto delle sue buone opere, così si comporta come
dovesse solo a se stesso la sua giustizia. Il fariseo è un uomo autosufficiente, può diventare
giusto senza Dio in cui egli no ha messo la fiducia, avendola messa in se stesso. Ma invece il
pubblicano non ha nulla da fare davanti a Dio e solo da rimettersi a lui stesso. “Abbi pietà di me,

538
M. GOURGUES, Le parabole di Luca, 214.

259
peccatore”. Non voleva prendere il posto di Dio fidandosi solo di se stesso, ma il fariseo lo fa
giudicando gli altri: “Io non sono come gli altri”. La vita spirituale non si può vivere come una
relazione di contropartita, dove si aspetta da Dio la salvezza come un diritto.
La parabola non è solo una descrizione provocatoria dei due comportamenti, ma è soprattutto un
invito a rinnovarsi nella vita interiore e nella concezione di Dio. Emerge tra le righe il tema della
conversione, attraverso la preghiera.
Il pubblicano non cerca di placare Dio. Egli si presenta davanti a Dio in un modo vero e
diverso; si presenta coscientemente con la sua indegnità e con il suo peccato. Queste disposizioni
che corrispondono a quelle del figlio prodigo, sono cambiate, non quelle di Dio. Dio non cambia
mai, ma siamo noi, gli uomini, che cambiamo, aprendoci o chiudendoci a Lui, allontanandoci o
ritornando a Lui. Quando conosciamo Dio come immutabilmente buono, più vivamente sentiamo
la coscienza del nostro peccato. Se il pubblicano non è ritornato a casa giustificato e perdonato,
non testimonia che si sia convertito. Così parla anche la conversione del figlio prodigo e di
Zaccheo. Il racconto non dice nulla della conversione del pubblicano. E’ importante che la
disposizione di Dio stia nei riguardi dei poveri, e non dei poveri nei riguardi di Dio. Anche il
racconto vuole sottolineare il contrasto tra due atteggiamenti di fronte a Dio. Chi pensa d’avere
tutto, non ha bisogno di Dio, invece, colui che conosce la sua miseria sa che non può avere
fiducia in se stesso, perciò Dio può entrare nella sua vita”.539

II.7 Connessioni

La nostra riflessione ha delle conseguenze nella relazione con altre discipline teologiche.
Anche per questa seconda parabola proponiamo alcune connessioni interdisciplinari:
a) La teologia dogmatica
Il nostro protagonista è il perfetto credente dal di fuori, ma dentro i suoi pensieri, i suoi
sentimenti allontano da Dio che ama tutto indistintamente e in primo luogo i peccatori. L’errore
fondamentale del fariseo è la sua sicurezza, l’autosufficienza. Egli non bisogna di nulla e la sua
“ricchezza” copre tutto, anche la possibilità di dimenticarsi di Dio che gli impedisce di
comunicare con Lui e di accogliere i suoi favori. Invece il pubblicano religiosamente è un uomo
realizzato e ce lo dimostra il suo atteggiamento davanti a Dio e a se stesso di rende la mano in
segno di grazia e di perdono. Egli si è fatto vero povero, per questo gli spetta il regno di Dio, la
giustificazione. Il pubblicano si riconosce peccatore ed è proclamato gradito a Dio; lo stesso Dio
rifiuta la salvezza escatologica a colui che si costringe a penitenza e ad una cieca osservanza
della Legge.
b) La teologia morale
La preghiera del fariseo si apre proprio in un modo identico, “O Dio, ti rendo grazie…”:
si presenta alla prima persona e sempre parla con l’“Io” della sua virtù. Il fariseo afferma la sua
virtù disprezzando quella degli altri. Nella logica del pubblicano si assiste ad un vero
discernimento morale, mediante una profonda ed umile introspezione. Il fariseo invece è mosso
da una rigida precomprensione, che non gli consente di interiorizzare e di interpretare il suo
rapporto con Dio.
c) La teologia spirituale
Luca ci invita a riconoscere la nostra mancanza di fede in Dio e la debolezza nella
preghiera. Siamo tutti ascoltatori della Parola di Dio e siamo chiamati a confidare prima di tutto
in Lui. Il discorso evangelico riappare ancora una volta paradossale. Tutto è grazia, non soltanto
nel condurre a termine l’avventura spirituale, ma in tutto il suo compiersi.
d) La teologia pastorale
Noi pastori dobbiamo dare l’esempio ai fedeli attraverso la nostra preghiera e la nostra
vita spirituale. Quando entriamo nella Chiesa, dobbiamo rispettare la presenza di Cristo in ogni
parte della Chiesa attraverso il nostro comportamento. Sempre dobbiamo parlare di Cristo e

539
M. GOURGUES, 218.

260
dobbiamo insegnare l’importanza della preghiera nella quale Gesù parlava con suo Padre. “La
preghiera è l’elevazione dell’anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti. L’umiltà è il
fondamento della preghiera ed è la disposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono
della preghiera. L’uomo è un mendicante di Dio”540.

III. Applicazioni pedagogico-didattiche

Suggerimenti per lavorare con gli obiettivi specifici di apprendimento.

Scuola Primaria

Individuare il gruppo di alunni cui indirizzare


1 il percorso formativo.

2 Leggere il/i bisogno/i formativo/i degli alunni;


dell’alunno.

Tracciare il percorso di conoscenze e abilità


atto a trasformare le capacità possedute in
3 competenze attese, partendo dal bisogno
formativo rilevato.

Scegliere l’O.S.A. o gli O.S.A. rispondente/i al


4 bisogno formativo emerso.

Esempio: Primo biennio (classi II e III primaria)

BISOGNI OBIETTIVI SPECIFICI DI


APPRENDIMENTO

Conoscenze:
Conoscere il concetto di preghiera.
L’origine del mondo e dell’uomo nel
Conoscere il significato della preghiera cristianesimo e nelle altre religioni.
cristiana.
La preghiera, espressione di religiosità
Conoscere altri momenti e modi di pregare.
Abilità:
Conoscere i momenti di preghiera per amore,
di preghiera per gioia, di preghiera per Comprendere, attraverso i racconti biblici
bisogno, di preghiera solidale. delle origini, che il mondo è opera di Dio,

540
Catechismo della Chiesa Cattolica, n 2559.

261
affidato alla responsabilità dell’uomo.

Identificare, tra le espressioni delle religioni la


preghiera e, nel” Padre Nostro”, la specificità
della preghiera cristiana

Conclusione

Riassumendo il messaggio di queste due parabole sulla preghiera, possiamo osservare la


simmetria dei quattro personaggi, simili a due a due. Il giudice e il fariseo costituiscono
l’antimodello del credente, il simbolo del rifiuto di Dio e della sua provvidenza. Dall’altra parte,
vi sono la vedova e il pubblicano, rappresentanti della minorità, considerati ultimi nella società
ebraica. Tuttavia il loro atteggiamento coraggioso ed umile consente al lettore delle parabole di
cogliere l’essenzialità del messaggio religioso. Questa proiezioni spirituale e sociale è forse
espressione della comunità lucana e delle sue problematiche interne. L’evangelista mette in
giusta evidenza lo stridente contrasto tra giustizia ed ingiustizia, potere e servizio, autenticità ed
apparenza, verità e falsità, con un chiaro intento pedagogico.
Cogliamo tutta l’attualità di queste pagine, da cui traiamo oggi lo stile del nostro
comportamento nella storia. Siamo persuasi che queste parabole continuano a parlare al cuore
dei credenti e ad indicare la giusta direzione della preghiera incessante che oggi ciascun uomo
potrà assumere nel suo rapporto con Dio e con i fratelli: “La preghiera dà vittoria”

262
POSTFAZIONE

TECNOLOGIA NARRATIVA E PEDAGOGIA DELLA NARRAZIONE


di
BRUNO SCHETTINI 541

Labirinto e viaggio: metafore della narrazione

La metafora dell’uomo-labirinto sembra essere particolarmente adatta ad introdurre l’argomento


di questo lavoro che ha come scopo quello di illustrare come la narrazione costituisca, sia
nell’ambito della condotta normodotata, sia in quello della patologia, lo strumento principale
con il quale costruiamo rappresentazioni su noi stessi e sul mondo che ci circonda, al fine di
dare significato alla nostra esistenza. Quando la narrazione ha come oggetto il sé, essa assume le
sembianze di un viaggio nella propria interiorità in cui l’esploratore trova, davanti al suo
cammino, un groviglio di vie da percorrere: vie che conducono alla conoscenza di sé. “Il
viaggio è un cammino che nell’andare si racconta: contano nella narrazione i passi che si sono
fatti, che abbiamo consumato, rispetto alle conoscenze che esso ci procura. Noi conosciamo e ci
riconosciamo nella narrazione (…) perciò siamo fatti di fatti narrativi, in un intreccio di storie
che ci narrano”542.
L’uomo, che intraprende il suo viaggio interiore543, si troverà spesso a ripercorrere vie
dimenticate, abbandonate o mai conosciute; itinerari ricchi di biforcazioni che, nel passato,
hanno rappresentato il momento della scelta; il momento in cui decidere di percorrere una
strada, piuttosto che un’altra, ha comportato la rinuncia ad un potenziale sé. Nessuna strada
sembra però essere definitivamente perduta: quando la narrazione si pone al servizio di
un’esigenza retrospettiva, molti percorsi vengono idealmente recuperati ed ecco che,
improvvisamente, è possibile riprendere un antico progetto, dare spazio ad aspetti dell’animo
che, per diverse cause, avevamo accantonato ed il viaggio nel passato diventa esplorazione per il
presente e progettualità per il futuro. La nostra interiorità è, dunque, un cantiere aperto che si
arricchisce di scenari sempre nuovi, rendendo l’esplorazione potenzialmente infinita. La
metafora del viaggio, cara a molti scrittori e letterati, incarna il desiderio dell’uomo di conoscere
ed esplorare, all’interno ed all’esterno dei propri confini, la propria identità-verità. Ci sono
momenti in cui percorriamo la strada da soli, momenti in cui il nostro percorso è allietato dalla
presenza di un “compagno d’avventura”, la cui strada si muove parallelamente alla nostra, fino a
momenti in cui il nostro viaggio sembra perdere senso, non avere elementi di narrabilità; allora
richiediamo l’aiuto dell’altro, il cui supporto e la cui competenza ci aiutano a riprendere il
discorso su noi stessi. La narrazione diviene, così, narrazione mediata dal contributo dell’altro,
narrazione co-costruita che ci aiuta a riappropriarci del nostro narratore interno.

Dal pensiero paradigmatico al pensiero narrativo

L’interesse per il pensiero narrativo, sia come paradigma scientifico, sia come ambito di studio,
ha origini recenti rintracciabili nei profondi mutamenti che hanno interessato il modo di
concepire l’epistemologia contemporanea e, più in generale, il pensiero culturale post-moderno.

541
Bruno Schettini è professore associato confermato di Pedagogia generale e sociale presso la Seconda Università
degli Studi di Napoli. Sin dalla sua istituzione, è docente presso l’Accadememia Interuniversitaria di Anghiari, della
Libera Università dell’Autobiografia.
542
L. M. LORENZETTI, Psicologia, etica, narrazione. Metafore e metaforme del cambiamento, Milano 1997, 93.
543
Cfr. D. DEMETRIO, L’educazione interiore. Introduzione alla pedagogia introspettiva, Milano 2000.

263
Il punto di partenza per una rivisitazione dei processi di conoscenza e d’interpretazione della
realtà, possono essere ritrovati nell’eterna dicotomia tra scienze della natura e scienze
dell’uomo. Per molti anni il pensiero scientifico ha coinciso con una visione positivista della
conoscenza, per cui qualsiasi disciplina, che tendesse ad acquisire credibilità scientifica, doveva
assumere una metodologia volta “ad individuare leggi invarianti e a dare di queste leggi
formulazioni matematiche quantitative e computabili” 544. L’obiettivo era quello di poter
pervenire alla formulazione di poche leggi, semplici ed economiche, che riuscissero a spiegare
l’immensa varietà dei fenomeni naturali nonché le condizioni necessarie e sufficienti a che tali
fenomeni si verificassero. Il paradigma positivista mostrò ben presto i suoi limiti quando fu
decretata l’impossibilita che un singolo enunciato potesse spiegare la variabilità del decorso
spazio-temporale di un evento545. Descrivere un evento non vuol dire descriverne il processo,
dal momento che quest’ultimo è dato da una specifica combinazione tra attore, contesto e
variabili contingenti. Inoltre il processo, così costituito, rientra in una categoria virtualmente
infinita di possibili evoluzioni. Da quel momento in poi ai ben noti termini di causa ed effetto
vengono sostituiti i termini di vincolo e possibilità, laddove un vincolo contingente può
consentire, nello svolgersi di un evento, l’aprirsi di numerose altre possibili soluzioni. L’unico
strumento in grado di racchiudere una simile variabilità è la prospettiva storica che, attraverso la
dimensione narrativa, permette di descrivere la realtà. È stata qui tracciata, in maniera molto
sintetica, l’attuale posizione di un dibattito che ha avuto un decorso di decenni e le cui tappe
intermedie necessitano di descrizione. La prima critica, che le Scienze dell’uomo hanno mosso
al pensiero scientifico positivista, era rivolta alla dichiarata “neutralità” dell’osservatore rispetto
al processo di osservazione. Osservare, infatti, equivale ad assumere una prospettiva
d’osservazione in cui lo scienziato è guidato da presupposti impliciti dettati dalle sue
conoscenze. “L’uomo non può conoscere il mondo esterno, la “cosa in sé”, se non costruendo
un oggetto che può essere analizzato solo a partire da un certo punto di vista; punto di vista che
lo scienziato assume quando sceglie le sue teorie ed i suoi specifici metodi e che risulta carico di
credenze personali e connotazioni ideologiche”546. In quest’ottica persino la scelta
metodologica, criterio indispensabile per la scientificità della rilevazione, non fa altro che
confermare la soggettività dell’osservatore. Una conferma dell’affermarsi di questa nuova
prospettiva proviene dalle teorizzazioni di Carl Popper e, in particolar modo, dal suo concetto di
falsificabilità. Popper volle dimostrare come, da un punto di vista empirico, nessuna teoria sia
dimostrabile fino in fondo, affermando in questo modo anche l’impossibilità, da parte della
scienza, di poter pervenire a verità assolute. Nella valutazione di una teoria non è possibile
contare su criteri certi e validi in ogni ambito. Non esiste una teoria più vera di un’altra, ogni
teoria analizza aspetti diversi della realtà seguendo un criterio di referenzialità rispetto al
contesto, al momento storico in cui è stata prodotta e rispetto ai presupposti impliciti degli attori
in gioco. Inoltre, lo stesso panorama culturale dominante risulta avere una grande influenza
sull’attività scientifica determinando la scelta dell’oggetto di studio nonché l’idoneità delle
metodologie. Questi presupposti creano, secondo E. Morin547, un nuovo criterio di scientificità,
infatti: “ (…) la verità scientifica poggia essenzialmente sull’intersoggettività, e cioè
sull’accordo della comunità scientifica, socialmente e culturalmente connotata: è scientifico ciò
che è riconosciuto come tale dalla maggioranza degli scienziati”. Partendo dal presupposto
secondo cui l’atto conoscitivo è sostanzialmente soggettivo e il criterio di scientificità coincide
con il raggiungimento dell’intersoggettività, possiamo ragionevolmente affermare che la scienza
è un’impresa collettiva di attribuzione di significati548. Il nuovo paradigma ebbe notevoli
ripercussioni all’interno della psicologia con l’introduzione del cognitivismo e del presupposto

544
M. CERUTI, G. LO VERSO (a cura di), Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee,
Milano 1998, 1-2.
545
Ivi, 5.
546
A. SMORTI, Il pensiero narrativo. Costruzione di storie e sviluppo della conoscenza sociale, Firenze 1994, 21.
547
Cfr. E. MORIN, in M. CERUTI, G. LO VERSO (a cura di), Epistemologia e psicoterapia,.40.
548
A. SMORTI, Il pensiero narrativo, 25.

264
secondo cui la mente diventava strumento elettivo per la spiegazione del comportamento. La
rivoluzione cognitiva, attentamente analizzata da J.Bruner, nasceva dall’esigenza di trovare un
approccio alternativo a quello comportamentista, nel tentativo di sostituire i concetti di
“stimolo e risposta” con il concetto di “significato”, o meglio, di attribuzione di senso. La
domanda di fondo coincideva con il chiedersi come gli esseri umani creino significati, più o
meno socialmente condivisi, quando entrano in contatto con il mondo che li circonda. Nel
tentativo di perseguire tale obbiettivo i cognitivisti passarono, tuttavia, dal proposito di spiegare
come si genera un significato, alla descrizione di come la mente processa un’informazione. Il
sistema computazionale, paradigma elettivo della nuova teoria dell’elaborazione
dell’informazione, che equiparava la mente ad un computer, aveva lo scopo di creare un sistema
artificiale che funzionasse come la mente umana. Il progetto dimostrò i suoi limiti quando si
vide che il computer non poteva riprodurre alcuni stati mentali tipicamente umani come
l’intenzionalità, la possibilità di fare una scelta in base alle proprie attitudini, etc. La teoria
dell’elaborazione dell’informazione non riusciva a rispondere alla domanda fondamentale e cioè
come gli esseri umani creino significati e come tali significati vengano negoziati all’interno
della comunità. I cognitivisti pur ammettendo che le azioni sono guidate da stati intenzionali,
considerano quest’ultimi completamente determinati dal bilancio tra costi e benefici. In una
simile concezione viene ad essere sacrificato tutto l’aspetto relativo ai sistemi di credenze, ai
canoni valoriali in base ai quali le persone decidono cosa costituisce “costo” e cosa “beneficio”.
Nasceva l’esigenza di creare una teoria della mente che si occupasse di spiegare come individui
e culture creassero sistemi di attribuzione di senso. Nelle storie i collegamenti tra gli eventi
vengono continuamente ri-descritti portando a continue risignificazioni. Secondo Arthur C.
Danto549 il significato di un evento può essere descritto solo a partire dalla narrazione storica: lo
stesso evento assume significati e rilevanze diverse secondo la storia in cui viene introdotto e
secondo gli altri eventi cui esso può essere collegato. La storia non corrisponde mai alla
ripetizione di un evento quanto ad una sua riorganizzazione narrativa e, sempre secondo A. C.
Danto550 “tale organizzazione a sua volta deve rispondere ad un requisito essenziale di creatività
immaginativa, la quale produce narrazioni che lavorano quasi come ipotesi retrospettive, e
permettono anche l’individuazione del proprio materiale probatorio”. La descrizione narrativa di
una storia corrisponde pur sempre ad una visione parziale e soggettiva da cui però non è
possibile uscire dal momento che la conoscenza completa potrebbe essere raggiunta solo se si
conoscesse un evento a partire da tutte le sue storie possibili e questo risulterebbe umanamente
impossibile. Un sifatto tipo di conoscenza non è, dunque, possibile e appare superfluo
descrivere un evento supponendo una relazione causale tra l’inizio e la fine. Non è possibile
spiegare un evento prima che esso sia terminato e nel descrivere la sua evoluzione occorre
assumere una prospettiva narrativa. Non vi è narrazione senza che si sia prodotto un
cambiamento e, per converso, vi può essere cambiamento solo se esso viene descritto nella
narrazione di un soggetto551. Inoltre le storie hanno sempre a che fare con il contingente e
l’imprevedibile, anzi esse rappresentano il modo in cui quotidianamente tentiamo di
comprenderle e padroneggiarle, dando luogo al criterio della previsione. Quest’aspetto è uno
degli elementi in grado, ancora una volta, di diversificare la spiegazione storica da quella
scientifica, mentre quest’ultima tenta di fornire i risultati, la prospettiva storica li contiene in sé,
infatti, Louis O. Mink552 sosteneva che: “Le conclusioni significative, si potrebbe dire, sono
componenti della stessa discussione storica, non solo nel senso che sono sparpagliate nel testo
ma nel senso che sono rappresentate dall’ordine narrativo stesso. In quanto conclusioni-
componenti, le conclusioni sono esibite piuttosto che dimostrate”. La conoscenza prodotta dalla
storia non è solo da ricercarsi nell’ordine cronologico che essa stabilisce. La storia opera

549
A.C. DANTO IN: A. ALLEGRA, Identità e racconto.Forme di ricerca del pensiero contemporaneo, Napoli 1999,
35.
550
Ivi, 36.
551
Ivi, 39.
552
L.O. MINK in: A. ALLEGRA, Identità e racconto, 44-45.

265
sull’evento una funzione di sintesi e di integrazione che costruisce l’identità del racconto.
Rifarsi ad un ordine cronologico non è più necessario poiché la descrizione di un evento diventa
costruzione di un’identità storica solo se essa è descritta retrospettivamente. Non ha importanza
la collocazione temporale degli eventi quanto il modo in cui essi possono essere narrativamente
relazionati.

Il pensiero narrativo

L’affermarsi del pensiero narrativo all’interno dell’ambito scientifico ha reso necessaria la


definizione di un paradigma che sistematizzasse e riassumesse le caratteristiche principali che
connotano tale pensiero anche in riferimento a quello scientifico dominante cioè quello
paradigmatico. I due paradigmi corrispondono soprattutto a due differenti modi di intendere il
processo di conoscenza: il pensiero paradigmatico è tipico del ragionamento scientifico, ha
un’organizzazione verticale in cui classi equivalenti sono sullo stesso piano e piani diversi sono
organizzati gerarchicamente. E’ nomotetico cioè non assume come oggetto di studio il caso
singolo se non con l’intento di riportarlo a categorie concettuali più generali. Costruisce leggi
generali basate sulla logica causa-effetto e prescinde dal contesto. Ha una logica di tipo
estensionale553, sacrificando la comprensione del particolare con l’intento di scegliere, tra le
varie spiegazioni, quella che descrive il fenomeno in maniera più obiettiva. Usa i criteri di
falsificabilità e di validazione esterna come strumenti di spiegazione. Il pensiero narrativo è
tipico del ragionamento quotidiano e teso alla comprensione dei fatti umani considerando aspetti
di intenzionalità e di contesto. Esso viene applicato soprattutto nella dimensione sociale per
organizzare eventi ed azioni in modo sequenziale, tenendo conto del loro valore intenzionale in
rapporto ad uno specifico contesto. L’attenzione verso il caso singolo lo caratterizza come
ideografico, infatti, “nel cercare la logica delle azioni umane, esso si muove a livello della
intensionalità dei significati, cercando di ricostruire la ricchezza del caso singolo secondo un
quadro unitario. Ciò fa si che il pensiero narrativo, produca temi o collezioni piuttosto che
categorie e concetti (…) ciò significa che la narrazione richiede una gestalt, cosa che il pensiero
formale non richiede”554. Il rapporto dialettico tra pensiero narrativo e pensiero paradigmatico ha
assunto una connotazione peculiare nelle teorizzazioni di Andrea Smorti che, oltre ad aver avuto
il merito di un’attenta indagine sul funzionamento del pensiero narrativo, ha sollevato un
interrogativo particolarmente interessante chiedendosi se il ragionamento narrativo debba essere
considerato una forma di pensiero in sé o se, piuttosto, debba essere inquadrato come una forma
di deviazione dal pensiero paradigmatico. L’analisi del pensiero narrativo, nell’opera di Smorti,
parte dal tentativo di comprendere perché le persone, pur essendo in grado di ragionare in
termini di logica, molto spesso sbagliano nella formulazione dei giudizi. Tale interrogativo ha
chiamato in causa lo studio dei processi di inferenza, processi attraverso cui le persone partendo
da determinate premesse, e seguendo le regole della logica o del senso comune, pervengono a
delle conclusioni. Se scomponiamo il processo inferenziale vediamo come esso sia costituito da
due aspetti: una fase euristica, caratterizzata dalla selezione delle informazioni ritenute rilevanti
per la formulazione del giudizio, e una fase analitica che corrisponde all’atto di operare
deduzioni a partire dal materiale elaborato. E’ evidente come sia proprio la fase euristica,
caratterizzata dall’arbitrarietà della selezione, quella a maggiore rischio di errori sistematici.
L’entità del rischio può, però, variare a seconda che la selezione delle informazioni segua un
criterio estensionale, improntato sulla probabilità e l’inclusione, oppure segua il criterio
intenzionale, basato sulla singolarità del caso e sul contesto. Questa seconda forma di modalità
inferenziale è stata definita “euristica”. Le euristiche costituiscono delle scorciatoie del pensiero
che consentono ad un individuo di formulare un giudizio in maniera semplice e rapida. Il
553
A. SMORTI, Il pensiero narrativo, 93.
554
Ivi, 93.

266
contesto, in cui esse vengono applicate, è quello del quotidiano, un contesto cioè carico di
incertezze in cui non è sempre possibile contare su un campione ampio, su regole generali,
sull’applicazione di criteri logici. Ogni giorno, nel corso delle esperienze che ci coinvolgono,
siamo chiamati a formulare opinioni su eventi o persone in tempi brevi e questo molto spesso fa
nascere la necessità di dedurre il maggior numero di indicazioni da un esiguo numero di indizi.
L’utilizzo dell’euristica nasce, dunque, dall’esigenza di attribuire un senso all’esperienza
ragionando in termini di verosimiglianza. Ciò ha condotto Smorti ad affermare che il pensiero
narrativo non costituisce un errore logico o una cattiva interpretazione del ragionamento
razionale. Esso, piuttosto, corrisponde ad una modalità di pensiero con una propria autonomia,
dotata di regole applicabili al contesto di vita quotidiana. Contestualizzare il pensiero narrativo
consente, infatti, di valutarne l’importanza. In ogni tipo di interazione, che quotidianamente
intraprendiamo, ci troviamo impegnati in un processo di valutazione costante in cui ogni nostra
azione è regolata su di un’analisi, interpretazione e valutazione del comportamento altrui. Vista
la rapidità con cui questi processi vengono attuati, (si pensi al caso di una conversazione),
l’attribuzione di significato non può non avvenire seguendo le regole dell’euristica che, in questa
accezione, più che a delle scorciatoie di pensiero, rappresentano l’unico strumento possibile per
consentire un approccio congruo e significativo con la realtà esterna. La costruzione di storie
risponde al bisogno fondamentale di mettere ordine nelle vicende quotidiane e la sua idoneità è
scandita da alcune caratteristiche peculiari: “è economico perché può essere applicato a tutte le
situazioni della vita sociale; permette, con un numero limitato di categorie ed una più ampia
varietà di relazioni tra di esse, di descrivere una quantità pressoché illimitata di eventi sociali;
infine, in virtù del suo essere unico e al tempo stesso simile ad altre storie, crea un senso di
familiarità, dando alla persona la sensazione di avere già conosciuto quella situazione”555. Gli
schemi narrativi non vengono applicati solo a ciò che è noto, la costruzione di storie si attiva in
particolar modo di fronte a stimoli inconsueti. La discrepanza attiva la nostra mente nel tentativo
di creare uno schema che possa assimilare il nuovo elemento e la costruzione di una storia ha il
senso di rendere plausibile “il problema” e di comprendere anche l’evento incongruente. Il
percorso può seguire diverse regole tra cui:
La ricerca degli antecedenti. Nel tentativo di spiegare ciò che è accaduto si ricorre all’analisi di
“che cosa c’era prima”. Su tale principio si basa l’accumulazione narrativa; ciascuno di noi
accumula le proprie narrative per costruire una storiografia contenente nozioni storiche in senso
lato, esperienze personali codificate come cronache, o come romanzo storico556. La ricerca degli
antecedenti consiste nella formulazione di un’ipotesi che sceglie tra le varie narrazioni quelle
più esemplari e stabilisce tra esse relazioni di tipo causale.
Il pensiero analogico. Appare chiaro come, alla base del ragionamento quotidiano, vi sia una
forma di pensiero che procede per vie analogiche. Nel tentativo di comprendere un evento, più
che applicare procedimenti logico-scientifici, gli individui ricercano in memoria situazioni
passate analoghe, modelli-tipo che con alcune revisioni possano inquadrare quanto accade.
L’impiego del pensiero analogico è uno dei principali procedimenti di cui si serve il pensiero
narrativo per comprendere i fatti sociali.
Articolazioni tra azioni ed intenzioni. Ogni storia si compone sia di un livello di azione che di
intenzione. Nella maggioranza dei casi le azioni si basano su un principio di causalità molto
chiaro e facilmente interpretabile. Quando ciò non accade, quando cioè le azioni sono talmente
sconnesse tra di loro da non poterne ricavare una causa univoca, il livello di interpretazione si
eleva fino all’analisi delle intenzioni. A questo livello colui che interpreta pone in essere una
teoria della mente che dia ragione al comportamento dell’attore in quella situazione. “Attraverso
questo strumento concettuale egli può costruire ed arricchire le proprie narrazioni in modo da
articolare il livello delle azioni a quello delle intenzioni elaborando sia rappresentazioni che
meta rappresentazioni sulla vita dei personaggi”557.
555
Ivi, 121.
556
Ivi, 123.
557
Ivi, 131.

267
Validazione. Il pensiero narrativo costruisce storie sulla realtà sociale che devono essere
validate dalla realtà sociale stessa. La persuadibilità è lo strumento di validazione del pensiero
narrativo; ogni narrazione deve persuadere sia chi la racconta che colui che l’ascolta. Un
racconto che manchi di verosimiglianza, e che sia per questo poco credibile, deve essere
corretto e modificato fino a diventare persuasivo.

Caratteristiche della narrazione

È possibile dunque intendere la narrazione come il mezzo grazie al quale si organizzano e si


rendono interpretabili le storie con le quali gli individui creano rappresentazioni su se stessi e
sulla realtà che li circonda. La narrazione diventa, in questo modo, il paradigma conoscitivo di
una nuova forma di lettura del rapporto individuo-mondo esterno, assumendo regole che
permettono un’analisi sia testuale che contestuale delle storie e nuove forme di costruzione della
conoscenza. Per meglio comprendere come la narrazione abbia assunto il carattere di una nuova
scienza conoscitiva ci si può riferire alle elaborazioni di Bruner558 che ne ha sintetizzato in nove
punti le caratteristiche principali:

1. Sequenzialità: è ciò che conferisce significato alla narrazione, e che


permette di discriminare tra le diverse interpretazioni possibili; non dipende tanto dalla
veridicità dei fatti quanto piuttosto dalla sequenza con cui si intrecciano. Affinché esso sia
comprensibile, il racconto deve essere organizzato secondo una sequenza temporale. Ogni
sequenza narrativa coinvolge delle componenti che si specificano negli attori, eventi, sensazioni,
etc. il significato della narrazione è dato dalla particolare interconnessione che i componenti
assumono nella trama narrativa. La narrazione va, dunque, interpretata sia per comprendere il
significato che attori ed eventi assumono nella storia, sia per comprendere la trama che
scaturisce dalla sequenza degli eventi narrati. L’organizzazione temporale del racconto non
risponde sempre ad un criterio di continuità; può contenere delle pause o dei salti improvvisi
che corrispondono a momenti di rottura nella storia personale perché, come ricorda Paul
Ricoeur559 “il tempo che il racconto chiama in causa è un tempo umano, non gia il tempo
astratto dell’orologio: è un tempo a cui danno significato gli eventi che lo scandiscono”.
2. Particolarità: i racconti hanno come oggetto eventi particolari, questioni
specifiche riguardanti le persone. Si originano così microracconti tipici le cui caratteristiche
generali si specificano quando diventano racconto di qualcuno. La particolarità svolge una
doppia funzione nella costruzione dei significati; sul piano personale, costruisce significati
relativi all’esperienza più intima dell’attore, mentre ad un livello più ampio il caso particolare
contribuisce alla costruzione di schemi canonici e socialmente condivisibili relativi a situazioni
specifiche permettendo forme di pensiero più astratte560.
3. Intenzionalità: è stato finora illustrato come i racconti siano organizzati in
base allo schema di un attore che, in un contesto dato, svolge un’azione secondo una sequenza
determinata. Il senso dell’azione va ricercato nella sua finalità e, cioè, nelle intenzioni
dell’attore. L’intenzionalità corrisponde alla libertà dell’attore di porre in atto delle scelte e ciò,
secondo Bruner, ci pone nell’impossibilità di fare previsioni; il principio di libertà della scelta fa
si che un’azione si apra ad innumerevoli soluzioni. Non essendo possibile nessun atto di
previsione non resta che interpretare a posteriori l’evento per comprenderne il significato che ha
per il soggetto.

558
Cfr. J. BRUNER (1990), La ricerca del significato: per una psicologia culturale, Torino 1992.
559
Cfr. P. RICOEUR (1983), Tempo e racconto I, Milano 1986.
560
A. SMORTI, Il pensiero narrativo, 87.

268
4. Componibilità ermeneutica: la comprensione di una storia è possibile solo
se si tiene presente il rapporto di circolarità che esiste tra le parti e il tutto. I protagonisti, le
azioni, i piccoli eventi assumono un significato solo all’interno della storia-contesto che li
racchiude, parimenti il significato ultimo di una storia dipende da come i suoi elementi si
plasmano tra di loro. L’interdipendenza tra le parti e il tutto definisce la circolarità ermeneutica
della narrazione che ne rende possibile l’interpretazione. Nelle parole di A. Smorti “questa
circolarità non è attinente al testo della storia ma anche al suo contesto. La narrazione è sempre
prodotta da un determinato punto di vista del narrante ed è recepita in base al punto di vista
dell’ascoltatore. Il significato della narrazione non dipende dunque solo dai segni e dalla loro
organizzazione, ma anche dagli interpretanti, cioè dalla rappresentazione che gli interlocutori
hanno del mondo che media la relazione segno- referente. Questa rappresentazione è legata al
linguaggio e al sistema simbolico-culturale nel quale una persona vive”561.
5. Opacità referenziale: esiste una “verità storica” e una “verità narrativa” e se per
quella storica è possibile parlare di veridicità e di verificabilità, per quella narrativa esiste solo il
criterio delle verosimiglianza che viene garantita dalla coerenza interna del racconto. I fatti di
un testo narrativo assumono valore per la funzione che essi svolgono nella storia e non per il
loro grado di coincidenza con la realtà. Tenendo presente la distinzione tra referenza e senso è
possibile sostenere come le interpretazioni narrative elaborino la referenza trasformandola in
senso. “Il senso di un racconto preso nella sua interezza può alterare la referenza e perfino la
referenzialità delle parti che lo compongono”562.
6. Composizione pentadica: ogni racconto, secondo Kenneth Burke, si compone di
cinque elementi : azione, scopo, scena, strumento e problema. Tali elementi narrativi devono
rientrare all’interno di determinati equilibri, socialmente “negoziati”, affinché acquistino
carattere di canonicità. “I racconti devono necessariamente riferirsi a ciò che è moralmente
valido, moralmente corretto o moralmente incerto”563. La composizione pentadica non riguarda
solo l’occorrenza dei cinque elementi ma anche la loro organizzazione.
7. Violazione della canonicità: la canonicità riguarda la possibilità di
conciliare l’usuale all’eccezionale. La narrazione “popolare”, descrivendo il comportamento
dell’uomo nel suo contesto culturale, crea anche una serie di norme su cosa ci si dovrebbe
aspettare che accada; nonostante ciò, può accadere che ci siano delle trasgressioni narrative che,
con il passare del tempo, assumano una certa ricorsività divenendo così convenzionali e quindi
interpretabili. Secondo Bruner, una cultura dovrebbe disporre di una serie di strumenti
interpretativi che le consentano di dare una spiegazione plausibile a ciò che è accaduto. Questa
procedura rientra nel contesto della “negoziazione (sociale) del significato” che (…) può
avvenire grazie alle strutture della narrazione deputate a trattare simultaneamente le categorie
della canonicità e dell’eccezionalità”564 .
8. Appartenenza ad un genere: per poter individuare il genere letterario di un
racconto è necessario seguire un doppio livello di analisi. In ogni sequenza narrativa è possibile
riscontrare uno schema, tipico per genere letterario, che organizza, secondo forme canoniche, il
modo in cui gli elementi che compongono il racconto, devono combinarsi tra di loro. Un
romanzo d’avventura prevede per esempio, la figura di un eroe temerario e un fitto intreccio di
ostacoli che questi dovrà audacemente superare, alla fine del racconto l’eroe sarà premiato per il
suo coraggio. Il secondo livello di analisi riguarda lo stile con cui chi racconta personalizza
schemi di storia canonici.
9. Incertezza: il racconto differisce dalla semplice esposizione dei fatti perché
si coniuga al congiuntivo. La narrazione di una storia non deve aderire perfettamente alla realtà,

561
A. SMORTI, Il pensiero narrativo, 79.
562
M. AMMANITI, D. N. STERN ( a cura di), Rappresentazioni e narrazioni, Roma-Bari 1991, 29.
563
J. BRUNER, La ricerca del significato, 59.
564
Ivi, 58.

269
affinché sia favorita l’identificazione tra il lettore e le vicende del protagonista, è necessario che
il racconto contenga elementi di incertezza, che sia sempre aperto a molteplici soluzioni e che
richieda continue interpretazioni. L’incertezza del racconto, ponendolo a metà strada tra la realtà
e l’immaginazione, apre la strada alla negoziazione dei significati da attribuire alla narrazione.

La prospettiva narrativa: mente, cultura, narrazione

La prospettiva narrativa, come ambito di studio e di intervento, ha coinvolto numerose aree


disciplinari interessate allo studio e alla riflessione sull’uomo. In tali ambiti si è assistito, infatti,
al proliferare di metodologie, riflessive e di intervento, volte ad indagare la costruzione
narrativa del sé e le sue strutture. La proposta più interessante, dal punto di vista della
prospettiva narrativa, viene dalla psicologia culturale ed in particolar modo dalle teorizzazioni
di J. Bruner. Secondo lo studioso, la mente non potrebbe esistere senza la cultura. La
conoscenza individuale poggia sulla possibilità di rifarsi a rappresentazioni della realtà
culturalmente negoziate e quindi interpretabili. “Benché i significati siano nella mente hanno
origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati. È questa collocazione culturale dei
significati che ne garantisce la negoziabilità e, in ultima analisi, la comunicabilità”565. La cultura
fornisce ad ogni individuo una gamma specifica di “sistemi simbolici” e la cultura stessa si
adopera affinché il processo d’evoluzione coincida con la possibilità, da parte di ciascuno, di
apprendere tali sistemi simbolici e di utilizzarli nella costruzione di significati che abbiano una
duplice valenza: individuale e collettiva. “La cultura, come prodotto della storia, più che della
natura, divenne allora il mondo cui adattarsi, ma anche l’insieme degli strumenti per farlo”566.
Attraverso la cultura, gli individui hanno creato categorie d’interpretazione e costruzione della
realtà che consentono di attribuire un significato a se stessi e alle proprie azioni. Questa nuova
visione del significato come culturalmente definito, piuttosto che individualmente dato, richiede
una rivisitazione dei metodi tradizionali di comprensione del comportamento umano in
psicologia. Secondo un’impostazione freudiana la comprensione del comportamento è possibile
laddove possono essere individuate le motivazioni latenti che lo hanno generato, motivazioni
che sfuggono al normale stato di coscienza e che devono essere ricercate nel substrato
inconscio. Il risultato dell’approccio analitico freudiano è quello di porre tra virgolette la parte
cosciente dell’esperienza che assume valore solo se posta in relazione alla sua controparte
inconscia. La dimensione motivazionale che potremmo definire “cosciente” viene ad essere
completamente recuperata dall’approccio culturale e la sua analisi diviene il paradigma
principale di comprensione. Oltre ad indagare ciò che una persona “fa” è necessario, secondo
Bruner, comprendere soprattutto ciò che la persona “dice” di fare e ciò per un motivo molto
semplice. In ogni interazione quotidiana, in qualsiasi ambito sociale, gli attori coinvolti
valuteranno le proprie ed altrui azioni in base alle proprie credenze ed in base a quelle che si
suppone siano le credenze altrui. “Questo principio funziona nei due sensi: il significato del
discorso verbale è fortemente determinato dalla successione delle azioni entro cui si colloca; e,
analogamente, il significato dell’agire è interpretabile solamente se riferito a ciò che gli attori di
queste azioni dicono a proposito delle loro azioni stesse”567. L’interesse che la psicologia
culturale rivolge ai resoconti verbali non è mirata ad utilizzare la verbalizzazione come
predittore del comportamento, ma a considerare livelli più complessi d’articolazione tra parola
ed azione. Attraverso la costruzione dei resoconti, la cultura ha creato delle relazioni canoniche
tra azioni, attori e contesti, relazioni pubblicamente interpretabili che orientano il nostro
comportamento in senso sociale. Gli esseri umani, come afferma Bruner, si sono socialmente

565
J. BRUNER, La ricerca del significato, 27.
566
Ivi, 28.
567
Ivi, 34.

270
adoperati nel creare un terreno di “negoziazione culturale del significato”, una base su cui
rendere operativo il principio della canonicità. Tale area rappresenta, inoltre, un apprendistato
per ogni nuovo membro affinché egli possa apprendere, assimilare ed imparare ad usare il senso
ed il contenuto della propria cultura. Sin dalla nascita ogni essere umano impara ad usare la
narrazione quale strumento di costruzione della propria realtà sociale. Una simile capacità non
risulta essere innata ma è piuttosto soggetta ad un processo d’acquisizione crescente.
L’acquisizione del linguaggio va pilotata e contestualizzata. Ciascun individuo, infatti, non
nasce con l’abilità di parlare ma con la capacità di apprendere e l’apprendimento è favorito dalla
pratica. Una parola viene acquisita nel momento in cui consente di poter attuare un intento.
Tracciate queste ipotesi di fondo, Bruner sostiene che la mente umana abbia delle
predisposizioni innate ad acquisire alcune “classi di significati”. Egli descrive quest’attitudine
come una rappresentazione protolinguistica del mondo, “un bagaglio di predisposizioni a
costruire il mondo sociale in un certo modo e ad agire sulle proprie costruzioni” 568. Innata è
anche, secondo Bruner, la spinta alla narrazione che porta l’individuo all’acquisizione
progressiva dalle regole grammaticali utili all’organizzazione del linguaggio. Costruire
narrazioni vuol dire apprendere modi di rappresentazione della realtà che abbiano un significato
socialmente condivisibile. La narrazione, tuttavia, non esaurisce il suo compito nel dare
all’individuo la possibilità di costruirsi una realtà sociale, essa è soprattutto finalizzata al
compito di permettere al soggetto di costruire rappresentazioni su se stesso divenendo, in questo
modo, lo strumento principale di costruzione e rappresentazione dell’identità individuale.
L’analisi delle narrazioni diventa un elemento importante per comprendere come le persone
costruiscano immagini normali o patologiche sul sé e come queste immagini possano essere
modificate attraverso nuove forme di narrazione.

La trama del racconto

Secondo Peter Brooks569 la narrativa costituisce, nell’ambito della ricerca di senso del
quotidiano, il sistema principale con il quale organizziamo i nostri saperi e costruiamo il
significato di quanto ci accade. In particolare, egli individua nelle trame lo strumento attraverso
il quale organizziamo testi narrativi negoziandoli con il reale. La vita d’ogni individuo è pervasa
di narrazioni, costruite o ascoltate, che affondano le loro radici tanto nella dimensione reale
quanto in quella fantasticata, fino ad aprirci alla prospettiva di narrazioni possibili. “Noi
viviamo immersi nelle narrazioni, ripensando e soppesando il senso delle nostre azioni passate,
anticipando i risultati di quelle progettate per il futuro, e collocandoci nel punto d’intersezione
di varie vicende non ancora completate”570. In questo senso egli vede la trama come una
funzione che collega la fabula allo sjuzhet571 perché essa tiene conto sia degli avvenimenti in sé,
sia del modo in cui quest’ultimi vengono intrecciati tra loro o per dirla, con Ricoeur, la trama fa
entrare gli eventi nella storia divenendo il punto in cui s’incontrano narrazione e temporalità.
L’intreccio, secondo Ricoeur572, collega azioni ed eventi dispersi, secondo una sequenzialità
568
Ivi, 78.
569
P. BROOKS (1984), Trame, intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Torino 1995.
570
Ivi, 58.
571
I formalisti russi hanno proposto di distinguere, nel racconto, tra fabula e sjuzhet.
Il primo termine si riferisce agli ingredienti salienti che compongono una storia facendo rientrare in essa gli attori, le
azioni, le sequenze e le situazioni tipiche in cui si trovano. La combinazione di questi elementi assume carattere di
tipicità più che di peculiarità, come affermare che in un poliziesco le componenti tipiche sono il poliziotto, il
malvivente e l’illecito; la storia segue una precisa sequenza del malvivente che commette reato e viene arrestato
dall’uomo di legge. Mentre l’asse su cui si muove la fabula è verticale, l’asse che caratterizza lo sjuzhet è
orizzontale e si compone di sottigliezze, particolarità, connotazioni e complicazioni che creano il cosiddetto punto di
vista, l’angolazione che determina il senso di quella storia. Analizzare lo sjuzhet corrisponde ad analizzare la
prospettiva della storia.
572
Cfr. A. ALLEGRA, Identità e racconto.Forme di ricerca del pensiero contemporaneo, Napoli 1999.

271
temporale trasformandola in una storia nella quale è riconoscibile un senso. L’intreccio
disciplina il tempo, nel momento in cui trasforma un insieme di fatti equivalenti, in un flusso
dinamico di eventi che si collocano su diversi piani temporali producendo svolte, accelerazioni,
frenate all’azione. Una storia non può dirsi tale se non descrive un qualsivoglia intreccio tra
eventi ed il racconto in questo modo restituisce dignità all’azione. La storia ha, dunque, questa
grande capacità di sintesi, ma affinché possa essere compresa, deve rimandare ad un’idea di
conclusione, deve cioè presupporre un percorso da seguire che sia capace di condurre al senso
ultimo del racconto. La conclusione fornisce il punto di vista tipico della storia e Ricoeur vi
riconosce due caratteristiche: la congruità, rispetto agli episodi che contiene, e la non
prevedibilità. La trama in questo senso stimola l’ascolto perché muove il desiderio di scoprire il
significato del racconto. Il desiderio a cui la trama risponde è quello di collegare
significativamente attori ed azioni in un intreccio dotato di senso. Il lettore di un romanzo non
può fare a meno di lasciarsi avvolgere dalle vicende del protagonista, dalla sua capacità di
riuscire a perseguire le sue ambizioni nonostante le difficoltà incontrate: “intrinsecamente
totalizzante, l’ambizione raffigura la tendenza dell’io a crescere e ad appropriarsi di quanto lo
circonda (…) in questo senso l’eroe ambizioso coincide con il lettore che si sforza di arrivare
alla costruzione di significati in unità sempre maggiori, a totalizzare le sue esperienze nel
tempo, ad afferrare presente passato e futuro in forme significanti” 573. La narrazione, pertanto,
costituisce lo strumento principale con il quale formuliamo rappresentazioni della realtà e di noi
stessi.

La narrazione: strumento per accedere alla (inter)soggettività

“ I nessi che costruiamo tra i nostri diversi saperi sono puramente soggettivi ed esperenziali.
Sono tracce del nostro esistere, e di come abbiamo lasciato la nostra impronta nel mondo nello
stesso tempo che il mondo lasciava le sue impronte su di noi. Inevitabilmente, che lo vogliamo o
no, noi mettiamo in relazione, creiamo, conosciamo, narriamo… come solo noi sappiamo
fare”574. La citazione introduce un assunto basilare su cui poggia l’approccio narrativo, sia che
esso venga trattato sotto il profilo formativo sia che l’analisi narrativa venga fatta in un contesto
clinico (psicoterapeutico). L’intento comune, su cui poggiano entrambe le metodologie
d’analisi, è quello di intendere la narrazione come strumento privilegiato per l’accesso alla
soggettività nonché ai modi in cui essa si esprime e si concretizza. In questo senso la ricerca è
orientata all’analisi dei sistemi di credenze che, lontani dall’essere considerati come semplici
rappresentazioni d’eventi reali, sono intesi come storie che gli esseri umani si narrano per
organizzare ed interpretare la propria esperienza. La storia di vita rappresenta un resoconto di un
processo continuo d’attribuzione di significati, un processo d’interpretazione e di costruzione
ininterrotto della realtà. Organizzare l’esperienza attraverso le storie e vivere nelle storie che
narriamo è una capacità tipicamente umana che consente di entrare in contatto con il mondo, di
costruire e riorganizzare la nostra immagine identitaria, un modo per controllare il passato,
analizzarlo alla luce del presente al fine di ipotizzare più futuri in un processo d’interpretazione
e re-interpretazione della propria vita. La narrazione è contemporaneamente veicolo di
costruzione e d’espressione di significati che attribuiamo a noi stessi e al mondo che ci circonda,
assumendo in questo senso una doppia valenza: soggettiva ed interpersonale. È possibile
analizzare i quattro livelli in cui queste dimensioni si declinano:

• Soggettivo-espressivo: in questa duplice sfumatura la narrazione diviene


elemento organizzatore che articola l’insieme delle conoscenze che abbiamo di noi stessi

573
P. BROOKS, Trame, intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, 43.
574
D. FABBRI in: C. KANELIN, G. SCARATTI (a cura di), Formazione e narrazione, Milano 1998, 5.

272
fornendoci la possibilità di creare uno schema di sé. Attraverso il racconto di ciò che abbiamo e
delle azioni che ci caratterizzano, contribuiamo a dare spessore alla nostra identità e, grazie alla
possibilità di imparare da noi stessi, di percepirci com’esseri pensanti, innalziamo il sentimento
d’autostima e d’autoefficacia.
• Soggettivo-costruttivo: questo livello della narrazione riassume in
maniera esemplare l’intento autobiografico quando, recuperare narrativamente la propria storia,
ha lo scopo di operare una sintesi ed un’integrazione delle tante storie che ci vedono come
protagonisti offrendoci la possibilità, in alcuni casi di rafforzare in altri di recuperare, un senso
di coerenza interna. La ricostruzione autobiografica, utilizzando il processo retrospettivo,
consente il necessario distanziamento per un recupero ed una rielaborazione della memoria
personale. Tale processo è funzionale alla costruzione di un racconto che abbia un senso di
continuità con la percezione soggettiva attuale e comportando molto spesso, il momento di
riparazione rispetto ad esperienze non digerite.
• Interpersonale-espressivo: ad un livello interpersonale la narrazione
rappresenta un potente strumento di negoziazione sociale sia rispetto alla formazione di
significati condivisibili, che aumentano il senso di appartenenza sociale; sia rispetto alla
possibilità di essere riconosciuti come soggetti aventi un ruolo sociale definito. L’utilizzo dello
strumento narrativo è favorito dalla funzione di mediazione che esso svolge nella creazione di
significati che prendono forma all’interno di una fitta rete d’interazioni tra individui, contesti ed
eventi.
• Interpersonale costruttivo: questo livello s’inscrive nel registro di
un’esigenza, terapeutica e/o formativa, in cui la ricollocazione narrativa della propria vicenda,
personale, sociale o professionale, necessita, per essere attivata, di una narrazione condivisa.
Nonostante entrambi i metodi partano da un medesimo modo di concepire la narrazione come
strumento di conoscenza e cura di sé, è possibile tracciare delle differenze rispetto ad alcuni
modi di concettualizzare contesti, strumenti, obiettivi e metodologie. Il setting è uno degli
elementi che meglio riesce a discriminare e a definire gli ambiti d’intervento. Gli aggettivi
terapeutico e formativo riassumono in sé differenze sostanziali rispetto ai modi di utilizzare la
narrazione. In entrambi i casi è possibile fare una distinzione tra set e setting575 dove per set
s’intende l’insieme degli elementi contestuali e fisici, le caratteristiche, l’organizzazione
strutturale, tutto ciò che è visibile, esplicitamente definito (per riassumere il contesto
organizzativo della situazione terapeutica e/o formativa) e per setting s’intende tutta una serie
d’assunti impliciti, prospettive teoriche, strumenti trattamentali che costituiscono il “contratto di
base”, terapeutico o formativo, che s’instaura tra i soggetti coinvolti nella situazione. In base
alla tipologia di setting è, dunque, possibile andare a definire i rispettivi ruoli, nonché le
competenze richieste ai partecipanti. In una prospettiva narrativa il setting si riferisce
principalmente ad uno spazio mentale che prende forma a partire dai contributi narrativi
proposti dai partecipanti. L’approccio narrativo rivela la sua utilità in tutti quei contesti in cui vi
sia produzione, elaborazione e trattamento di significati e, tra questi, è compreso quello
formativo dove la narrazione supporta il processo d’elaborazione ed evoluzione della
dimensione intenzionale degli individui. In questo senso la narrazione si propone come cerniera
per un’integrazione tra conoscenza ed azione, tra dimensione individuale e contesti gruppali ed
organizzativi. “La nuova frontiera della formazione sembra essere l’accesso a condizioni di
maggiore significato per le persone, sia rispetto alla propria storia personale e sociale, sia con
riferimento al senso di marcia, alle direzioni offerte/aperte, alla condivisione/accompagnamento
formativo d’esperienze che, tra aiuto e scambio, tra astinenza e donazione di senso, possano
restituire concreti percorsi di costruzione, realistiche progettualità individuali e collettive,
ricadute operative in cui teoria e pratica, dichiarato e reale risultino meno scissi e più ricomposti

575
M. CERUTI , G. LO VERSO (a cura di), Epistemologia e psicoterapia. Complessità e frontiere contemporanee,
Milano 1998, 80.

273
e coniugati”576. La formazione in quanto ambito deputato alla promozione e sviluppo di maggior
senso possibile, personale e sociale, delle persone, è perciò costantemente attraversata da istanze
e dinamiche biografiche, conversazionali, narrative e costruttive577. Si parla così di formazione
in termini di “progettualità assistita” che, attraverso una specifica lettura del contesto e la
promozione di un’azione partecipata e collettiva, consenta di imparare da se stessi, riordinando
conoscenze già conosciute, per la creazione di nuove letture possibili. In tal senso è possibile
osservare come la narrativa risenta dell’impronta di tanti modi di conoscere e costruire
conoscenze con l’intento di generare nuove possibilità d’azione. Il raccontare e il raccontarsi da
parte dei soggetti in formazione diviene un momento di recupero della propria soggettività, di
quella parte di sé, personale e sociale, che scopre nuovi modi di raccontarsi e di assumere senso.
L’approccio autobiografico, per esempio, in quanto narrativa che ha come oggetto il sé ed il suo
mondo esperienziale, favorisce questo processo in quanto “ben lungi dall’essere un momento
d’autocompiacimento e di ripiegamento sterile su di sé, l’autobiografia può anzi avere l’effetto
diametralmente opposto generando in noi l’esperienza antisolipsistica di far parte di un tutto,
dalla nascita fino alla morte”578. Inoltre, grazie ad una concezione particolarmente dinamica del
tempo, in cui il recupero della storia passata e l’investimento sulla prospettiva futura, fanno sì
che il presente acquisti maggiore spessore, l’autobiografia si propone come strumento di
miglioramento e di superamento di una condizione di stallo o di crisi. Secondo L. Formenti579,
l’autobiografia, come autocostruzione, assume una valenza formativa se assolve a cinque
obiettivi:

1. Obiettivo metacognitivo: attraverso l’analisi della propria storia si tende ad


enucleare le strategie cognitive che ciascuno di noi applica per fronteggiare situazioni ed eventi.
Oltre ad un’analisi del prodotto viene attivata anche una riflessione sul processo in grado di
portare a consapevolezza il modo in cui la mente funziona.
2. Obiettivo formativo: il concetto di formatività rimanda alla costruzione
soggettiva e continua dell’identità e al connesso progetto formativo, che investe sia la
formazione e il modo in cui la ricostruiamo, sia i bisogni di formazione attuale e, dunque, come
usiamo la possibilità di cambiare noi stessi.
3. Obiettivo della rivitalizzazione: per gli adulti il cambiamento è difficile da
ottenere in quanto implica l’abbandono dei propri abituali e consolidati modi di pensarsi e di
rappresentarsi agli altri, per l’assunzione di nuove prospettive che riguardano tanto l’ambito
individuale che quello relazionale. Testimoniare la propria storia costituisce un incentivo, per
imparare nuovi modi d’essere e contemporaneamente operare un’emancipazione
dall’omologazione.
4. Obiettivo euristico: la ricerca della propria storia comporta un recupero della
soggettività ed in questo processo molto spesso, oltre ad una maggiore consapevolezza di sé, il
soggetto prende coscienza di connessioni prima invisibili che comportano la creazione di nuovi
simboli soggettivi.
5. Obiettivo di trasformazione: il percorso autobiografico ha come scopo il
cambiamento. La via che conduce ad esso non è sempre diretta e priva di ostacoli, ogni
trasformazione, soprattutto se in età adulta, richiede una notevole forza e determinazione. Lo
scopo formativo del metodo è, dunque, quello di attivare un percorso che sia capace di stimolare
la riflessione, di allenare il soggetto a cogliere dissonanze nel racconto per trasformarle in
occasioni di cambiamento.

576
C. KANELIN, G. SCARATTI (a cura di), Formazione e narrazione, XI.
577
Ibidem.
578
L. Formenti, La formazione autobiografica, Milano 1998, 116.
579
Ibidem.

274
Tali obiettivi sono perseguibili grazie alla creazione di uno “spazio narrante” (il
setting autobiografico), uno spazio creato dall’incontro di più persone tra le quali s’instaura una
tensione tra l’esigenza di narrare e il desiderio di ascoltare e tale tensione collega il racconto
attuale con l’evento accaduto in altri spazi e altri tempi. Secondo Ginevra Bompiani580 “lo
spazio narrante è un luogo reso possibile dall’incontro tra soggetti diversi, l’uno che narra e
l’altro che ascolta e sono uniti in quello spazio e in quel tempo in cui la storia viene raccontata,
mentre il luogo dell’azione rimane esterno. Luoghi che restano distinti non solo da uno spazio
fisico, ma da funzioni ed appartenenze, e pur separati vengono a trovarsi in relazione. Il tipo di
separazione e di relazione che si crea, la qualità di questo legame è tra gli oggetti più
significativi del lavoro che si sviluppa nella formazione”. La creazione di uno spazio narrante
favorisce un processo di cambiamento in cui l’atto di prendere la parola costituisce un momento
di creazione di significati rispetto alla propria storia e alla situazione di riferimento e dove la
partecipazione di più voci crea la possibilità di costruire significati condivisi che,
contemporaneamente, modificano e amplificano le conoscenze soggettive. Il formatore
partecipa attivamente alla situazione non in termini di dispensatore di chiarimenti ed
interpretazioni, che lo renderebbero un esperto esterno alla situazione, ma in termini di
compartecipazione come individuo che media e facilita il processo di co-costruzione collettiva.
Il contesto formativo nel quale lo spazio narrante si viene a creare definisce la struttura e
soprattutto il contenuto delle narrazioni. All’interno dello spazio formativo la narrazione non
costituisce uno scopo quanto piuttosto un mezzo per il raggiungimento d’obiettivi che i vari
contesti formativi richiedono. Il senso dell’utilizzo dello strumento narrativo all’interno di un
contesto di tipo formativo, per esempio, risiede nel fatto che la narrazione facilita una
comunicazione libera e spontanea e favorisce una partecipazione attiva alla discussione delle
problematiche oggetto di intervento. Attraverso la creazione dello spazio narrante e l’assunzione
dei ruoli che esso richiede ai partecipanti, è possibile toccare argomenti problematici evitando
sentimenti di costrizione e di passività che spesso si accompagnano ai contesti formativi. Il
setting terapeutico, invece, connota la particolare situazione nella quale paziente ed
psicoterapeuta vengono a trovarsi e definisce la qualità della relazione nonché l’insieme delle
azioni significative che essi compiono. “Nulla di ciò che può accadere in un trattamento
analitico può essere considerato indipendente dalla situazione analitica, che funziona come uno
sfondo relativamente permanente in rapporto a forme mutevoli”581. Lo sfondo corrisponde
all’organizzazione di base invariante e coincide con la relazione tra le parti, con il
riconoscimento dei rispettivi ruoli in cui allo psicoterapeuta viene riconosciuto ed affidato il
ruolo di colui che è in grado di attivare il paziente verso un processo di cambiamento; al
paziente viene chiesto di collaborare alla costruzione e nel mantenimento del processo
trasformativo. La situazione psicoterapeutica resta, dunque, una situazione di “coppia” che,
grazie ad un dialogo costante, fa sì che le funzioni della nostra mente si definiscano
autorappresentandosi e dando senso alla situazione terapeutica. Tra paziente e terapeuta viene,
così, a crearsi uno spazio mentale che raccoglie l’insieme dei simboli e dei significati che il
paziente porta con sé; una fitta rete simbolica che attraverso il processo di cooperazione si
riempie di elementi interpersonali che evolvono dinamicamente di pari passo con i cambiamenti
registrati nella coppia arricchendosi di nuove prospettive.

Conclusioni

La narrazione è una proprietà intrinsecamente umana che apprendiamo nelle fasi più precoci
della nostra esistenza e che ci porta a racchiudere il nostro mondo in una storia da raccontare.
Nel corso dell’esistenza, questi racconti si rifanno ad anni assimilabili in periodi finiti che
rappresentano i cicli della nostra vita, dando luogo ad una storia la cui frammentarietà fa
580
G. BOMPIANI in: C. KANELIN, G. SCARATTI (a cura di), Formazione e narrazione, 84.
581
W. e M. BARANGER (1983), La situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Milano 1990, 132.

275
nascere, nell’età adulta, l’esigenza di costruire un racconto che funga da collante ai vari pezzi
del puzzle. La costruzione autobiografica non è certamente un fine quanto piuttosto un mezzo,
riassumere narrativamente la propria esistenza non vuol dire darle una visione definitiva ma
darle le forme che, nell’hic et nunc, assume. Essa corrisponde alla cronistoria del susseguirsi dei
cambiamenti che ci riguardano diventando storia di una metamorfosi. Il motivo per cui
scegliamo la narrazione, come modalità di rappresentazione di sé e del mondo, è che la sua
struttura ha proprietà che permettono una costruzione dotata di senso. Ricordando le
teorizzazioni di Burke582 secondo cui ogni racconto si compone di cinque elementi, azione,
scopo, scena, strumento e problema, vediamo come la capacità di interpretare un evento e
dotarlo di significato, dipende a sua volta dalla possibilità di riassumerlo in una struttura
(narrativa) che renda conto dell’intreccio tra attori, scopi e contingenze, come dire che un
evento non ha senso se non parla di un attore che, mosso da uno scopo, si adopera a
raggiungerlo facendo i conti con la propria interiorità e con le limitazioni che il contesto, fisico
e sociale, gli impongono. Da qui comprendiamo che la narrazione non solo consente di
descrivere ma, grazie alla scelta di uno stile narrativo personale, consente ad ogni individuo che
vi si dedica di evadere dall’omologazione e dare un’impronta personale e creativa al proprio
racconto.

582
J. BRUNER, La ricerca del significato: per una psicologia culturale, Torino 1992, 60.

276
ORIENTAMENTI BIBLIOGRAFICI

J. DELORME (ed.), Les paraboles évangéliques. Perspectives nouvelles, Cerf, Paris 1989;
C. H. DODD, Le parabole del regno, Paideia, Brescia 1970;
J. DUPONT, Il metodo parabolico di Gesù, Paideia, Brescia 1978;
V. FUSCO, Oltre la parabola. Introduzione alle parabole di Gesù, Borla, Roma 1980;
V. FUSCO, «parabola/parabole», in P. ROSSANO - G. RAVASI – A. GIRLANDA (edd.), Nuovo
Dizionario di Teologia Biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 1081-1097;
M. GOURGUES, Le parabole di Luca. Dalla sorgente alla foce, LDC, Leumann (TO) 1998;
M. GOURGUES, Le parabole di Gesù in Marco e Matteo. Dalla sorgente alla foce, LDC,
Leumann (TO) 1998;
S. GRASSO, Lectio divina delle parabole di Gesù, Messaggero, Padova 1998;
J. LAMBRECHT, Parabole di Gesù, Dehoniane, Bologna 1982;
J. JEREMIAS, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 1967;
A. KEMMER, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia 1990;
E. LINNEMANN, Le parabole di Gesù. Introduzione e interpretazione, Queriniana, Brescia 1982;
B. MAGGIONI, Le parabole evangeliche, Vita e Pensiero, Milano 1992;
Leumann (TO) 2002;
H. WEDER, Metafore del regno. Le parabole di Gesù: ricostruzione e interpretazione (BCR, 60),
Paideia, Brescia 1991.

277
INDICE

Abbreviazioni e sigle

Introduzione:
«Il metodo parabolico di Gesù e la sua importanza pedagogico-esistenziale»

VANGELO SECONDO MATTEO

I.
La parabola matteana: le due costruzioni (Mt 7, 24-27)

II
La parabola del grano e della zizzania (Mt 13, 24-30)

III.
Le parabola del tesoro, del mercante e della rete (Mt 13,44-52)

IV.
La parabola del padrone generoso (Mt 20,1-16)

V.
La parabola dei due figli (Mt 21, 28-31)

VI.
La parabola del banchetto (Mt 22,1-14 e Lc 14,16-24)

VII.
La parabola della pecora perduta (Mt 18, 12-13; Lc 15,3-7)

VIII.
La parabola del debitore spietato (Mt 18,21-35)

IX.
La parabole delle dieci vergini (Mt 25,1-12)

X..
La parabola dei talenti / mine (Mt 25,14-30; Lc 19,12-27)

XI.
La parabola del giudizio universale (Mt 25,31-46)

278
VANGELO SECONDO MARCO

XII.
La parabola del seme (Mc 4,1-20)

XIII.
La parabola dei vignaioli omicidi (Mc 12,1-12)

VAMGELO SECONDO LUCA

XIV.
La parabola del buon samaritano (Lc 10,25-37)

XV.
La parabola del padre misericordioso (Lc 15,11-32)

XVI.
La parabola del povero Lazzaro e il ricco epulone (Lc 16,19-31)

XVII.
Le parabole del giudice e della vedova (Lc 18,1-8)
e del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14)

POST-FAZIONE
«Tecnologia narrativa e pedagogia della narrazione»
di B. SCHETTINI

Orientamenti bibliografici

Iindice

279

Potrebbero piacerti anche