Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
ANDRÉ WÉNIN
Sapori
del racconto
biblico
Una nuova guida a testi millenari
Daniel Marguerat
André Wénin
Sapori
del racconto
biblico
Una nuova guida
a testi millenari
TWnTò)
lim i)
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
Traduzione dal francese·. Rita Simionati Lora
ISBN 978-88-10-40245-0
Antico Testamento
Pentateuco Michea Mi
Naum Na
Genesi Gen Abacuc Ab
Esodo Es Sofonia Sof
Levitico Lv Aggeo Ag
Numeri Nm Zaccaria, Zc
Deuteronomio Dt Malachia MI
5
Libri deuterocanonici IMaccabei lMac
2Maccabei 2Mac
Ester {greco) Est gr Sapienza Sap
Giuditta Gdt Siracide Sir
Tobia Tb Baruc Bar
Nuovo Testamento
Vangelo di Matteo Mt 1 Timoteo lTm
Vangelo di Marco Me 2 Timoteo 2Tm
Vangelo di Luca Le Tito Tt
Vangelo di Giovanni Gv Filemone Fm
Atti degli apostoli At Ebrei Eb
Romani Rm Giacomo Gc
1 Corinzi ICor 1 Pietro lPt
2 Corinzi 2Cor 2 Pietro 2Pt
Galati Gal 1 Giovanni lGv
Efesini Ef 2 Giovanni 2Gv
Filippesi Fil 3 Giovanni 3Gv
Colossesi Col Giuda Gd
1 Tessalonicesi lTs Apocalisse Ap
2 Tessalonicesi 2Ts
INTRODUZIONE
7
conta una fiaba come si narra la propria vita, né un racconto mitico
come ima favola o un aneddoto.
Il filosofo Paul Ricceur ha diffuso la nozione di «mondo del testo».1
Con questa espressione ha voluto trasmettere il concetto che la fun
zione del racconto è di costruire un mondo in cui il lettore, nel mo
mento stesso in cui ne entra in contatto, vive con i suoi personaggi,
gioisce e soffre con loro, trepida per la loro sorte, si pone domande a
loro riguardo. Ma, osservando più attentamente, questo mondo fittizio
che il racconto propone al lettore è una costruzione complessa: è com
posto da una trama, da una rete di personaggi, da una concezione del
tempo, da una gestione dello spazio, da un sistema di valori, da un co
dice di comunicazione. La storia raccontata è intessuta di cose dette e
non-dette, procede e torna indietro, accelera o rallenta. In poche pa
role, tutti sappiamo per esperienza che, per essere un buon narratore,
non basta conoscere una bella storia o aprire la bocca per esporla.
Raccontare è un’arte.
Un’autentica rivoluzione
L’arte di raccontare risale alla notte dei tempi. Da quando gli uo
mini comunicano tra loro, raccontano. Tuttavia, l'approccio scientifico
al racconto è un fenomeno recente. Facciamo un passo indietro per ve
derne gli inizi.
Lo sviluppo della narratologia avviene sulla scia di ciò che il filoso
fo americano Richard Rorty ha chiamato il lìnguistic turn, che stabilì
il predominio delle scienze del linguaggio. Fin dagli anni ,70, alcuni
studiosi di linguistica e di letteratura si sono interessati all’arte mille
naria del raccontare con l’intento di decifrarne i codici. In tal modo,
hanno introdotto un’autentica rivoluzione nello studio della letteratu
ra. In precedenza l’interesse si concentrava sull’opera dell’autore: da
dove aveva tratto l’ispirazione? Come lavorava? Come procedeva nel
la composizione? L’indagine, ereditata dal secolo dei Lumi, era domi
1 «Con “m ondo del testo ״intendo il m ondo m ostrato dal testo davanti ad esso, per
così dire, come l’orizzonte dell’esperienza possibile nel quale l’opera trasferisce i suoi let
tori», P. R ic c e u r , L ’herm éneutìque biblìque, presentazione e traduzione di F.-X. A m h e r d t ,
Ceri, Paris 2001, 32010, 331-332.
nata dall’interesse per l’origine: come sono nati ì testi? A partire dal
1970, la preoccupazione storica ha perso il monopolio e l’interesse ha
cambiato campo e si è concentrato sull’altra estremità della comuni
cazione: non più l’autore, ma il lettore; non più l’operazione dello scrit
tore, ma quella del lettore, che è altrettanto importante.
Affinché il testo costruisca tutto un mondo, è indispensabile un’o
perazione: quella della lettura. È il lettore che costruisce e abita l’uni
verso che il testo gli propone. Possiamo dire che il testo è come una fi
gura amorfa che la lettura anima, un cadavere che la lettura risveglia.
Ha abbandonato il suo autore e i primi lettori - coloro mediante i qua
li e per i quali il testo era originariamente scritto - per offrirsi ormai a
quanti e a quante vorranno leggerlo. In tal modo, per riprendere le pa
role di Paul Ricoeur, avviene che «il testo, orfano del padre, l’autore,
diventa il figlio adottivo della comunità dei lettori».2
Ancora una volta, è il lettore, la lettrice, a dispiegare il mondo del
testo attraverso l’operazione di lettura. Sono loro che danno vita a que
sto mondo partendo da quanto il testo dice, e anche da quanto non di
ce ma presuppone. Il semiotico italiano Umberto Eco ha sviluppato in
Lector in fabula la nozione di «cooperazione interpretativa del lettore».3
Egli intendeva dire che il testo, per essere letto, esige dal lettore una co
operazione attiva, un lavoro di decodifica, che ogni autore si aspetta e
spera. Inoltre, il narratore, se vuole essere capito, cerca di favorire e
guidare questo lavoro del lettore senza il quale il testo resta morto.
Entrare nel testo dalla posizione del lettore piuttosto che da quella
dell’autore comporta quindi un autentico rovesciamento epistemologi
co. Ma, prima di procedere, cerchiamo di considerare le cose con un
po’ di distacco.
9
tra, per il semplice motivo che ciascuna lettura comporta una sua pro
pria ricerca. Ogni lettura si definisce attraverso la domanda che essa
rivolge al testo. E, come ci si aspetta, la risposta ottenuta dipende dal
l’indagine adottata. Una lettura psicanalitica della Bibbia coglierà nel
testo gli indizi che permettono di percepire nella scrittura l'emergere
dell’inconscio; in nessun modo potrebbe sostituirsi a un’altra lettura
che, per esempio, si interessasse del tessuto sociologico della storia
raccontata dal testo. In poche parole, ogni lettura si pone davanti al te
sto con una domanda; questa domanda instaura un’indagme per la
quale ha forgiato appositi strumenti metodologici. Qual è la richiesta
dell’analisi narrativa?
Ne illustreremo la specificità comparandola con altri due metodi di
lettura: l’analisi storico-critica e l’analisi strutturale o semiotica.
L’analisi storico-critica (o critica storica), che per due secoli ha pre
dominato nell’ambito dell’esegesi accademica, risponde alla domanda:
«Che cosa dice il testo?», si interessa, cioè, della storia che il testo rac
conta. Per essa, il testo è una finestra che permette di osservare il pas
sato: proprio questo passato, che essa cerca di ricostruire, interessa la
critica storica. Alla domanda: «Che cosa dice il testo?», essa ha dovu
to aggiungerne altre, prendendo atto che il testo aveva anche una sto
ria: «Chi è l’autore, su quali tradizioni sì basa e a chi rivolge il suo
scritto?». È la posizione del giornalista: di quali informazioni, di qua
li documenti dispone l’autore quando racconta il passato?
L’analisi strutturale (o semiotica) risponde atutt'altra domanda: «In
che modo il testo produce senso?». Il testo è letto come un sistema di
segnali in cui occorre cercare l’organizzazione dell’intreccio. Potrem
mo dire che qui il testo non è una finestra, ma un tappeto: l’interesse
è rivolto alla trama, ai fili che lo compongono, al suo disegno. La po
sizione dell’analisi strutturale è quella del grammatico: come si orga
nizza il discorso per produrre senso?
Per l’analisi narrativa, il testo non è né finestra, né tappeto, ma
specchio. Essa si chiede: «Quale effetto esercita il testo sul lettore?».
Lo specchio rinvia un’immagine a chi lo guarda ed esercita un effetto
su di lui. L’analisi narrativa si interessa del modo in cui l’autore co
munica il suo messaggio e dell’effetto che in tal modo egli vuole otte
nere. È la posizione dell’informatico: attraverso quali canali passa la
comunicazione, e per ottenere che cosa?
Facciamo un esempio. Davanti al racconto della passione, riporta
to nei vangeli, ci possiamo domandare: che cosa riferisce l’evangelista
10
di quegli avvenimenti? Che cosa è storicamente attestato? Di quali fon
ti documentarie disponeva l’evangelista e come le ha interpretate?
Questa è l’indagine dell’analisi storico-critica. Ci possiamo anche do
mandare: come si organizzano le unità di senso? Quali trasformazioni
narrative si concatenano nel racconto? Dove sono le tracce dell’enun
ciato? A tutto questo darà risposta l’analisi strutturale. L’analisi nar
rativa fornisce alcuni strumenti per rispondere a quest’altra domanda:
quale effetto desidera ottenere il narratore componendo il racconto in
questo modo, con questo ventaglio di personaggi, questa distribuzione
dei luoghi, questa gestione del tempo, questo svolgimento della trama?
La critica storica si interessa del che cosa, l’analisi strutturale del co
me, l’analisi narrativa del per che cosa (cioè: per quale effetto?).
Non è certo il caso di contrapporre queste letture in uno sterile gio
co di rivalità. Non ha nemmeno senso affermare che una è più scien
tifica delle altre. Ciascuna si fa carico di un’indagine specifica e il suo
compito consiste nel mettere a disposizione una serie di strumenti me
todologici atti a svolgere tale indagine eon il necessario rigore.4
Come fa la narratologia, che è l’approccio scientifico della narrati-
vita, a diagnosticare l’effetto voluto dal narratore nell’organizzare il
suo racconto?
La frattura originaria
Sappiamo per esperienza che esistono mille modi di raccontare la
stessa storia. Chi si è trovato coinvolto in un incidente d’auto non lo
racconterà allo stesso modo all’agente di polizia, alla sua compagnia
di assicurazione o ai suoi amici... I fatti sono rigorosamente gli stessi,
ma i racconti saranno differenti. Alla polizia, racconterà con precisio
ne come ha guidato l’auto; con l’assicurazione insisterà sul fatto di non
aver commesso alcuna infrazione; per i suoi amici aggiusterà un po’ il
4 Precisiam o, p er evitare u n a com prensione partig ian a dei nostri intenti: più di un
esegeta storico-critico h a sviluppato u n a sensibilità p er l’arte n arra tiv a degli autori bi
blici. B asta rileggere i testi di H erm ann Gunkel, G erhard von Rad, Luis Alonso Schokel,
M artin Dibelius o Jiirgen Becker p er cogliere le loro intuizioni e la loro sensibilità nei ri
guardi della narratività. Ma essi non avevano a disposizione gli strum enti concettuali che
avrebbero potuto perm ettere loro di form alizzare le loro scoperte.
11
racconto dei fatti e diventerà l’eroe o la vittima disgraziata della sto
ria! Una medesima storia, tre racconti diversi. Per un contenuto infor
mativo globalmente identico nei tre casi, l’effetto cercato per ciascuno
dei tre racconti sarà differente.
La narratologia ha un padre fondatore: Seymour Chatman, autore
nel 1978 di Story and Discourse. Chatman ha proposto di separare la
story dal discourse, come si distingue il significato dal significante. La
story è la storia raccontata, è il contenuto informativo (identico nel ca
so dei tre racconti dell’incidente d’auto). La storia raccontata corri
sponde al significato, cioè agli avvenimenti raccontati, astratti dalla lo
ro disposizione nel racconto e ricostruiti nel loro ordine cronologico. Il
discourse è il montaggio narrativo di questa storia raccontata; questo
concetto designa la configurazione propria di ciascun racconto, dun
que il significante, il modo di esporre la storia raccontata. Per sempli
ficare, diciamo che i vangeli smottici (Matteo, Marco, Luca) presenta
no tre narrazioni della medesima storia raccontata, quindi tre diverse
costruzioni del racconto della stessa storia.
Fatta questa distinzione, Chatman ha enunciato Vassioma fondan
te della narratologia. L’analisi narrativa, infatti, si dedica a osservare
come il narratore mette in racconto la storia narrata a favore dei suoi
lettori. Ecco lo scopo della narratologia: identificare la strategia che il
narratore adotta nel costruire il suo racconto, in altre parole la sua re
torica narrativa. Nel determinare attraverso quali procedure il narra
tore costruisce un racconto, la cui lettura metterà in luce l’universo
narrativo, essa si dà gli strumenti per identificare l’architettura narra
tiva del testo. Perciò l’analisi narrativa è una lettura che definiamo
«pragmatica», perché si interessa degli effetti pragmatici del testo sul
lettore e del modo di programmarli nel testo. È sorella gemella della
retorica, la quale si applica ai testi argomentativi (anzitutto agli oraco
li dei profeti e alle lettere di Paolo).
12
bia come un racconto, ci viene da uno studioso ebreo americano, Ro
bert Alter, specialista di letteratura romanzesca all’università di Ber
keley. Nel 1981 egli pubblica in California The A rt ofBiblical Narrati
ve CL’arte della narrativa biblica).5 Va detto che Alter non inventa nul
la. Con l’ausilio di strumenti creati appositamente per questa finalità,
riscopre di che cosa si compone l’arte millenaria del raccontare. Egli
ritiene che quest’arte è costitutiva della tradizione biblica, della fede
d’Israele come di quella dei primi cristiani: Israele e, a seguire, la pri
ma cristianità hanno vissuto formulando la loro identità attraverso il
racconto. Proprio questo processo di memoria narrativa, incessante
mente ripreso nella riformulazione dei racconti e nella riscrittura mi-
drashica, ha permesso alla fede ebraica, e poi alla fede cristiana, di ri
memorizzare gli eventi fondativi del passato. La costruzione del rac
conto dà senso alla storia raccontata e, attraverso il processo di rime-
morizzazione, le conferisce una dimensione fondatrice e identitaria.
Interessarsi della narrazione biblica non significa dunque lasciare
da parte il messaggio biblico, poiché la narrazione è il veicolo prima
rio della testimonianza, il mezzo attraverso il quale Israele ha espres
so la propria fede in un Dio che interviene nella storia senza nulla to
gliere alla libertà degli uomini. Dal momento che interviene nella sto
ria, il Dio di Israele e poi dei primi cristiani, è un Dio che viene rac
contato. Per gli uomini e le donne della Bibbia, il racconto è il mezzo
per eccellenza di dire Dio. Torneremo su questo concetto.
13
fiume della narrativa mondiale. Letterati, linguisti ed esegeti si trove
ranno riuniti in un dibattito interdisciplinare, condividendo interroga
tivi su ogni racconto, sacro o meno: quali procedimenti narrativi, qua
le strategia hanno usato i narratori per costruire il loro racconto?
L’apparato di lettura dell’analisi narrativa è stato elaborato inizial
mente negli Stati Uniti. Ma occorre subito rilevare che questa nuova let
tura raccoglie i frutti di lavori teorici condotti da specialisti del lin
guaggio nel mondo intero: in Francia da Gérard Genette (sulla narra
zione e l’intertestualità) e Paul Ricceur (sulla temporalità narrativa), in
Germania da Wolfgang Iser (sul concetto di lettore), in Italia con Um
berto Eco (sull’atto della lettura), negli Stati Uniti con Seymour Chatman
(sulla retorica narrativa), Wayne Booth (sull’ironia), Boris Uspensky
(sulla poetica del racconto). Di origine nord-americana, l’analisi narra
tiva si colloca alla confluenza di molteplici intuizioni. Tuttavia, assai
presto, alcuni narratologi americani presenteranno questo tipo di let
tura come un modello esaustivo e autonomo, chiamato a sostituirsi a
ogni altra lettura; noi non aderiamo a questo proclama pubblicitario.
La narratologia ha ereditato dall’analisi strutturale il suo posizio
namento di fronte al testo che è un posizionamento sincronico. L’ana
lisi storico-critica ricostruisce la storia del testo, la sua genealogia; cer
ca di separare gli elementi tradizionali dai passi provenienti dall’in
tervento dell’autore o redattore. Al contrario, nell’analisi narrativa il
testo è preso così come si presenta allo sguardo del lettore, è accolto
come una totalità significante, in una prospettiva sincronica (il testo
viene ripreso nel suo insieme). Come l’analisi strutturale, l’analisi nar
rativa osserva ìe modalità secondo cui il testo costruisce progressiva
mente i suoi valori e i suoi contenuti. Si interessa della trama che tie
ne insieme il racconto e valuta il ruolo che svolgono i personaggi nel
la storia. Ma a differenza degli strutturalisti, i narratologi partono dal
postulato che un’intenzione dell'autore regge la stesura del testo: la co
struzione del racconto denota una strategia di comunicazione, una re
torica narrativa che mira a programmare la lettura.
14
agli elementi discorsivi (le parole scambiate) che agli elementi narra
tivi; la critica della forma letteraria (Formgeschichte) ha aggravato lo
squilibrio svalutando il testo narrativo, considerato come zavorra re
dazionale, a tutto vantaggio della trasmissione delle parole di Gesù.6
Quanto all’Antico Testamento, si resta colpiti nel vedere come, nelle ri
cerche di teologia o di antropologia bibliche, i racconti sono spesso tra
scurati a vantaggio di enunciati profetici o sapienziali. Non è forse
giunto il tempo di riconoscere al dato narrativo tutto il suo valore? In
questa riabilitazione va reso omaggio all’analisi strutturale, che ha
svolto un ruolo di pioniere: la narratologia si è inserita al suo seguito.
L’analisi narrativa permette di valutare come una teologia si espri
me in narratività. Diffidiamo del teologo che, per il fatto di essere egli
stesso un uomo della parola, si fìssa sugli enunciati discorsivi ed è por
tato a sottovalutare il potenziale interpretativo del raccontare, come se
il raccontare fosse una forma inferiore, primitiva, rudimentale di co
municare! La narratologia ci fa prendere coscienza del fatto che la co
struzione di una trama, il dispositivo di una rete di personaggi, la ge
stione della temporalità, la semantizzazione dello spazio non solo ri
chiedono talento, ma sono indicatori di un’intenzione teologica tanto
quanto una formulazione dottrinale o una confessione di fede, e sono
portatori di valori esistenziali o etici tanto quanto gli enunciati esplici
ti che riguardano l’essere o l’agire degli uomini. Il racconto biblico non
sfugge alla natura di qualsiasi racconto la cui forza, come è già stato
detto, consiste nel costruire un mondo in cui il lettore vive con i per
sonaggi, prova emozioni e sentimenti nei loro riguardi o si interroga
su di essi, reagendo agli avvenimenti di cui egli è per così dire testi
mone. Questo si verifica per i racconti dei due Testamenti che intro
ducono il lettore nel mondo dell’alleanza. E mentre vi incontra nume
rosi personaggi con i quali può umanamente camminare interrogan
dosi su cosa significa essere un uomo o su cosa implica essere un cre
dente, egli incrocia anche Dio o Gesù, imparando come dall’interno il
6 Applicata prim ariam ente all’Antico Testam ento da H erm ann Gunkel, la scuola del
la form a letteraria [Formgeschichte, metodo della storia delle forme o dell’analisi lettera
ria) è stata resa popolare (divulgata) dalla sua analisi della trasm issione orale nei testi del
Nuovo Testmento. Il suo rap p resen tan te emblematico è R. B u l t m a n n , Die Geschichte der
synoptichen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1921, 21931; tr. fi־. V histoire
de la tradition synoptique, Seuil, Paris 1973.
15
loro modo di essere e di agire, la loro maniera talvolta inattesa di sol
lecitare le singole libertà o di invitarle all’alleanza.
Questa constatazione può permettere di affrontare con rinnovato
impegno talune difficoltà classiche in esegesi come la strutturazione
narrativa del Vangelo di Marco. La logica della costruzione di questo
vangelo, che consiste in una giustapposizione di micro-racconti, anco
ra ci sfugge. A causa del suo linguaggio aspro, a causa dei suoi conti
nui cambiamenti di luogo e di tema, Marco da sempre è considerato
un autore mediocre di fronte alle grandi sintesi di Matteo o di Giovan
ni. Oggi ci si rende conto che la composizione di Marco è tutt’altro che
mediocre. L’attenta osservazione delle affinità fra micro-racconti, de
gli echi che si richiamano dall’imo all’altro, di talune riprese di termi
ni sta dando come esito l’identificazione dei legami con i quali il nar
ratore ha organizzato un percorso di lettura nel suo evangelo, la cui
cristologia e teologia emergono con altrettanta maggiore forza. Nel
l’Antico Testamento, l’osservazione attenta della strutturazione del
racconto dei grandi cicli della Genesi, ad esempio, non solo permette
di porre in evidenza il genio narrativo all’opera nella costruzione de
gli itinerari di Abramo, di Giacobbe e di Giuseppe sullo sfondo di una
problematica avviata nei primi capitoli del libro, ma fa anche notare
con quale acutezza il narratore guida il lettore nell’esplorazione di ciò
che fa l’umanità all’interno delle relazioni che la fondano e la struttu
rano (mascolinità e femminilità, paternità e filiazione, fratellanza ed
estraneità), ma anche nella scoperta del progetto di benedizione che
Dio consegna nelle mani di esseri liberi e di conseguenza fallibili, sen
za tuttavia cessare di preoccuparsene.
Tre obiezioni
Ci sono tre obiezioni ricorrenti alle quali vorremmo rispondere pri
ma di proporre al lettore il percorso del nostro libro.7
7 Sulla stessa questione si può leggere con profitto il recente articolo di J.-P. S o n n e t ,
«Un dram e au long cours. Enjeux de la "lecture continue” dans la Bìble hébraique», in
Revue tkéologique de Louvain 42(2011), 371-407; tr. it. L'alleanza della lettura. Que
stioni di poetica narrativa nella Bibbia ebraica, .GBP-San Paolo, Roma-Cinisello B alsa
mo 2011.
16
Prima obiezione: la narratologia non attribuisce forse una teorìa
moderna ad autori antichi che non la conoscevano affatto? Gli autori
biblici erano coscienti di applicare questa metodologia? La risposta è
evidentemente negativa, proprio come chi compone una frase non è
cosciente delle regole grammaticali che sta applicando e che fanno sì
che la frase abbia senso. Gli autori biblici non avevano sotto gli occhi
un manuale narratologico. Nondimeno il confronto dei racconti antichi
e moderni mette in rilievo delle costanti trans culturali nella composi
zione dei racconti, e queste costanti sono gli universali della narrazio
ne. L’argomento dirimente è la pertinenza dell’applicazione dei con
cetti narratologici ai racconti di culture assai diverse. Dotarsi degli
strumenti di cui gli autori biblici hanno fatto uso per costruire la loro
narrazione significa rendere loro giustizia, sebbene la teorizzazione
narratologica fosse a loro estranea. La stessa cosa vale per i pittori an
tichi, i quali non avevano certo in mente i criteri usati dopo di loro dai
critici d’arte. Gli autori biblici hanno quindi applicato, in parte co
scientemente, regole di costruzione narrativa che si possono riscon
trare pressoché identiche nei racconti popolari. Sono regole che ap
partengono all’arte millenaria del raccontare, di rendere attraenti le
storie che si tramandano - un’arte raramente gratuita, nella misura in
cui vi si gioca la capacità di prendere coscienza di ciò che siamo e del
le potenzialità che si aprono su quella base.
17
mente i più efficaci. Dunque noi raccomandiamo un’articolazione dei
due metodi di lettura piuttosto che un’esclusione reciproca, indipen
dentemente dai problemi specifici relativi alla natura e alla storia dei
libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Terza obiezione: questo metodo di lettura, che lavora sul piano let
terario, non allontana forse da ciò che dovrebbe essere l’aspetto più
importante nel testo biblico, cioè la sua dimensione teologica? Non si
sacrifica forse il messaggio, occupandosi soltanto del suo aspetto este
riore? Qui non bisogna commettere l’errore di contrapporre la forma
e il contenuto, perché, come lo strutturalismo ci ha insegnato, la for
ma fa senso. La narratologia divaga quando scruta l'arte del raccon
tare? No, perché la narratività come tale ha una dimensione teologica.
Perché il popolo d’Israele è vissuto del racconto della sua storia? Per
ché condensare in un racconto la memoria del passato (questo si chia
ma «anamnesi») non fa rivivere un passato morto: riconosce la perti
nenza teologica degli avvenimenti passati per comprendere un pre
sente sempre in parte opaco e rendere l’ignoranza del futuro un po’
meno angosciante individuandovi possibili percorsi. Richiamare l’eso
do celebra, nell’oggi del raccontare, la memoria di quel Dio al quale
Israele deve la propria esistenza e le promesse di vita. Fare racconto
della vita di Gesù permette di identificare, nell’oggi del raccontare, il
Cristo che la comunità prega e che crede presente pur rimanendo ven
turo. In poche parole, per Israele come per la Chiesa, la narratività è
un veicolo letterario del messaggio della salvezza. Ma è anche la me
diazione dell’identità credente: dirsi il passato significa dichiarare ciò
che esso ha fatto di noi e che permette di raccontare oggi. Raccontare
significa dirsi inscrivendosi in una storia. ,
La narratività, quindi, non è semplicemente l’involucro di un mes
saggio del quale si potrebbe estrarre il contenuto «puro». Se giudei e cri
stiani raccontano delle storie, è perché credono in un Dio che si rivela
nella storia. Raccontare delle storie - anche ricorrendo agli stratagem
mi della fiction - significa fare memoria di quanto è avvenuto nella sto
ria facendo vedere come questo fa senso nel modo stesso di riportarlo.
Il racconto è così il testimone obbligato di un Dio che si fa conoscere nel
lo spessore di una storia di uomini e di donne «in carne e ossa», una
storia vissuta il cui senso è sempre plurivoco e il cui orizzonte non è mai
interamente chiuso. Ecco perché la salvezza si dice in un racconto: il
racconto è il veicolo privilegiato deU’hicarnazione e, al tempo stesso, an
18
che il racconto della nostra storia. Dire Dio in una storia raccontata si
gnifica dire il Dio che si incarna nella storia umana e, potenzialmente,
in ogni storia personale. Eberhard Jiingel lo formula brillantemente in
Dio, mistero del mondo·. «Il fatto che l’uomo possa corrispondere all’u
manità di Dio soltanto raccontandola è stato fondato quando abbiamo
riconosciuto l’umanità di Dio come un evento che diventa reale solo me
diante la potentia aliena [potenza esterna] del Dio che viene nel mon
do, e non mediante questa storia con le sue possibilità proprie. Il lin
guaggio che corrisponde alla storia è la narrazione. Il linguaggio che
risponde alla svolta della storia è propriamente solo la narrazione».8
8 E. J ù n g e l , Dieu m ystère du m onde, Cerf, Paris 1983, 129 (corsivo nostro)·, t r . it.
Dio, m istero del m ondo, Q uerm iana, Brescia 32004. Da p a rte sua, C. T h e o b a l d p arla del
la «concordanza tr a la form a o le form e e il contenuto della m em oria biblica» («Les en-
jeux de l'analyse narrative en théologie», in A u jo u rd ’hui lire la Bible, a cura di P. A b a -
d i e , Profac, Lyon 2008, 61).
19
proccio narrativo ai racconti biblici, che finalmente rende giustizia al
talento degli anonimi autori dei testi sacri, è in pieno fermento.
Ma ora, dopo i balbettìi iniziali e le prime applicazioni scolastiche
del metodo, si tratta di affinare gli strumenti a disposizione e di met
terne in luce le potenzialità. La sfida non è soltanto di percorrere in
ogni direzione i retroscena del racconto per osservarne l’architettura
nascosta, anche se tale scoperta, per così dire archeologica, vale da so
la la svolta. L’interesse sta piuttosto nel portare alla luce effetti di si
gnificato insospettati, scaturiti da racconti che pure si pensava di co
noscere già bene. Ai lettori e alle lettrici stanchi di letture convenzio
nali, di percorsi ripetitivi, questo libro apre le porte a interrogativi ori
ginali e significativi. Originali, in quanto l’accesso al testo è spostato e
a esso sono rivolti interrogativi inediti.
In maniera un po’ programmatica, i primi due capitoli mostrano
come l’interesse nella lettura della Bibbia si sia spostato dall’autore
verso il lettore.
Capitolo primo: Quattro lettori per quattro vangeli. Oggi non ci si
interroga più sugli autori presunti dei vangeli, e nemmeno sui lettori
originari che gli autori avevano davanti, ma sulla figura di lettore che
ciascun vangelo mira a costruire. Il racconto di Marco elabora per la
propria lettura un lettore che non è identico né a quello di Matteo, né a
quello di Luca, né a quello di Giovanni. La lettura, soprattutto di un van
gelo, non è un esercizio semplice, ma un percorso dal quale non si esce
immutati.
Capitolo secondo: Alla ricerca della trama. Una lettura della passio
ne (Me 14 e Le 22). In che modo si organizza un narratore per fare del
suo racconto qualcosa che non sia una semplice esposizione di episodi
successivi? Come riesce a imprimere al suo testo un ritmo, una tensione,
come gioca sulla suspense per tenere il suo lettore col fiato sospeso? La
lettura della passione (Marco 14 e Luca 22) fa vedere il gioco sottile che
si annoda in filigrana, dietro il testo, fra il narratore e il suo lettore.
I capitoli da 3 a 7 cercano poi di illustrare l’uso di uno strumento
particolare nella strategia di comunicazione del narratore.
Capitolo terzo: La temporalità della storia di Giuseppe (Gen 37-50).
La storia di Giuseppe illustra in modo splendido i mezzi di cui dispone
un narratore per gestire la temporalità nel corso della narrazione. Rit
mo, gioco sulla cronologia, anticipazioni eflashbacks, tutto contribuisce
a una sapiente costruzione della trama e chiede la partecipazione del let
tore, in particolare attraverso l’enigma costituito dai sogni di Giuseppe.
20
Capitolo quarto: Giuseppe interprete dei sogni in prigione (Gen 40).
Alcune funzioni della ripetizione nel racconto biblico. L’estetica della
ripetizione è una caratteristica del racconto biblico. Un bell’esempio si
legge in Gen 40, dove Giuseppe interpreta i sogni di due funzionari del
faraone detenuti con lui. La ripresa di parole, espressioni e strutture
sottolinea un’insistenza tematica, tradisce la prospettiva di un perso
naggio, indica la realizzazione di un annuncio, garantisce ironia. E nel
corso di tali ripetizioni, sottili variazioni sollecitano la sagacia del let
tore coinvolto così nella costruzione del senso.
Capitolo quinto: Il punto di vista nel racconto biblico. Esiste un rac
conto oggettivo, neutro, distaccato? Le ultime ricerche su questo pun
to ci insegnano che la scrittura narrativa s’intesse surrettiziamente di
punti di vista diversi. In altri termini, ogni narratore sceglie di rac
contare gli avvenimenti che egli traspone in parole adottando la posi
zione di uno o più personaggi successivi. Alla maniera di un cineasta
che modifica la postazione della sua cinepresa, il narratore varia la
prospettiva per costruire il dramma del suo racconto.
Capitolo sesto: Luca, regista dei personaggi. Questi stanno al rac
conto come le foglie stanno all’albero: apportano vita, movimento e co
lore. I personaggi vestono il racconto, ma ancor più: attraverso loro, il
racconto investe il lettore, la lettrice, risveglia le sue emozioni, libera i
suoi scatti d’ira, suscita il suo interesse. I personaggi si presentano co
me campi di identificazione, porte di entrata attraverso le quali il let
tore s’insinua o s’immerge nel mondo del racconto. Come si potrà con
statare, Luca si è rivelato vero maestro nella creazione letteraria di
queste figure indispensabili.
Capitolo settimo: Il gioco delVironia drammatica. L’esempio dei
racconti di astuzie e inganni. Quando un narratore si addentra nei va
ri campi del sapere e concede ai suoi lettori un sapere superiore a quel
lo dei personaggi, può scatenarsi l’effetto dell’ironia. La caratterizza
zione dei personaggi e il giudizio indotto a loro riguardo derivano an
che da questo registro. Lo studio di alcuni racconti di astuzie o furbe
rie e dì inganni nell’Antico Testamento illustra questo processo la cui
sofisticata elaborazione è talvolta stupefacente.11
21
Gli ultimi tre capitoli del libro trattano di procedimenti letterari più
globali, che riguardano il rapporto fra racconto e discorso, la finzione
e l’intertestualità.
Capitolo ottavo: Costruzione del discorso e costruzione del raccon
to. Il discorso comunitario di Mt 8. Il problema è quello dell’alternan
za in un racconto di parti narrative e di sequenze discorsive. Classica-
mente, la lettura separa il discorso dal suo involucro narrativo e lo ren
de autonomo, per leggerlo come un testo a parte. Sbagliato! Sul mo
dello di un grande discorso di Gesù in Matteo (il discorso della monta
gna di Mt 18), constateremo fino a che punto il narratore guida e orien
ta la comprensione delle parole di Gesù costruendo per esse un conte
sto narrativo che funziona come una griglia di lettura.
Capitolo nono: Davide e la storia di Natan (2Sam 12,1-7). Il letto
re e la «fiction» profetica del racconto biblico. I racconti dell’Antico Te
stamento rivelano storia o finzione? Questione assai dibattuta. Il rac
conto fittizio, attraverso il quale il profeta Natan induce Davide a con
fessare il proprio peccato, fa vedere quale potere di verità possiede la
finzione. In tal senso, lo scopo dei racconti biblici non è tanto di rac
contare la storia con esattezza, quanto piuttosto di proporre una sto
ria che, ricorrendo alla finzione e ai suoi procedimenti, fa venire a gal
la quello che si nasconde nelle opacità della vita.
Capitolo decimo: Il serpente diN m 21A-9 e di Gen 3,1. Intertestua
lità ed elaborazione del significato. L’intertestualità è quel processo
mediante il quale il narratore richiama alla memoria del lettore altri
testi. Dalla citazione esplicita alla semplice reminiscenza, dalla ripre
sa di una struttura all’analogìa fra due trame, sono molteplici gli echi
che collegano fra loro i testi ed esigono dal lettore la partecipazione at
tiva all’elaborazione del senso dei racconti. Questo intende illustrare
Taccostamento del serpente di bronzo (Nm 21) al serpente del giardi
no dell’Eden (Gen 3).
I due autori di questo libro hanno partecipato fin dalle origini al
l’introduzione della narratologia nell’esegesi biblica. Daniel Marguerat
è professore emerito di Nuovo Testamento all’Università di Losanna.
André Wénin è professore di Antico Testamento all’Università Cattoli
ca di Louvain-la-Neuve. Le loro voci s’incontrano e si completano con
un’identica ambizione: ritrovare nella lettura dei racconti biblici gusti
e sapori che lasciano il desiderio di ritornarci - come si fa con una pie
tanza che abbiamo gustato con piacere ed emozione.
22
La nostra gratitudine va a Emmanuelle Steffek per la generosa col
laborazione nella sistemazione redazionale del manoscritto.
e A n d r é W é n in
D a n ie l M a f lg u e r a t
Ecublens e Naniur,
dicembre 2011
Capitolo primo
QUATTRO LETTORI
PER QUATTRO VANGELI
Daniel Marguerat
«Vero autore del racconto non è solo colui che lo racconta, ma an
che, e talvolta assai di più, colui che lo ascolta». Questa dichiarazione
di Gérard Genette risale a oltre quarant’anni fa.1A suo tempo ebbe l’ef
fetto di una bomba: annunciava il cambiamento di luogo degli studi let
terari, che dalla nozione di autore spostavano il loro interesse in dire
zione del lettore. Da un’attrazione per l’origine, che dominava lo stu
dio dei testi fin dall’umanesimo, le scienze del linguaggio ora propone
vano di passare a un interesse per il ricettore dei testi, il lettore. Ven-
t’anni più tardi, il geniale e arguto semiotico Umberto Eco consacrava
il cambiamento in corso nell’interpretazione dei testi.2 Nel 1990, egli
metteva in luce il fatto che si era prodotto uno spostamento da un ap
proccio generativo dei testi, centrato sull’enunciazione storica del testo
e sulle regole di produzione del discorso, a un’analisi centrata sulla ri
cezione; quindi nell’atto del leggere tutta l’attenzione è mobilitata dal
l’operazione di decodifica del messaggio, dal deciframento del testo da
parte del lettore, dall’acquisizione del senso. Il semiotico italiano an
nunciava anche una «insistenza ormai quasi ossessiva sul momento
25
della lettura, dell’interpretazione, della collaborazione o cooperazione
del lettore». Paul Ricoeur, in una bella formula, dice che «il testo, orfa
no del padre, l’autore, diventa figlio adottivo della comunità dei letto
ri».3 Si è insomma verificato lo slittamento dal polo dell’autore a quel
lo del lettore, dalTanalisi delle condizioni di scrittura all’osservazione
delle regole della lettura. Quanto è vero della letteratura in genere, lo è
anche della letteratura biblica: l’esegesi si è messa al passo del lettore.
Ora, questo proliferare delle letture dette sincroniche (perché leg
gono il testo nel suo stato finale e non nel suo divenire) e delle letture
dette pragmatiche (perché studiano gli effetti del testo sul lettore)4 ha
avuto un duplice risultato: da una parte il cambiamento dell’interesse
in direzione del lettore, ma dall’altra anche il rapido sviluppo della sua
definizione. Chi è il lettore? Paradossalmente, a forza di parlarne e di
interessarsene, non lo sappiamo di preciso. Abbiamo visto via via ap
parire il lettore virtuale, il lettore, reale, il lettore implicito, il lettore
ideale, il lettore modello, il lettore codificato, l’arci-lettore, il super-let
tore, il lettore informato: una profusione di titoli che non hanno tutti il
medesimo statuto teorico e in mezzo ai quali il principiante in analisi
narrativa si perde quando si tratta di adottarne uno. Tutti sono d’ac
cordo sul fatto che quello che chiamiamo lettore in narratologia altro
non è che l’immagine del destinatario inscritta nel fondo del testo; ma,
oltre a questo, oggi non c’è alcun accordo su una definizione più pre
cisa di questo lettore implicito. Con la massima precisione, possiamo
dire che ogni teoria letteraria risulta unica in forza di un approccio
specifico della lettura e dello statuto del lettore.
La situazione si complica ancora per il fatto che ogni immagine di
lettore potrebbe essere il frutto della rappresentazione mentale che il
ricercatore si crea leggendo l'opera. Susan Suleiman riconosce che
proprio nel corso della lettura si costruisce progressivamente un’im-
26
magine d’autore e di lettore impliciti, e questa immagine permette a
posteriori di convalidare la lettura.5 La circolarità del ragionamento
non sfugge ad alcuno: estrapolata dal testo, l’immagine del lettore è ri
proiettata sul lettore stesso per comprenderlo. Bisogna allora conclu
dere che il lettore implicito è semplicemente il puro prodotto dell’im
maginazione del ricercatore? È possibile sfuggire a questa disperata
constatazione oggettivando gli indizi sui quali ci si basa per identifica
re questo lettore implicito.
27
tenze e quali Interessi sono richiesti se gli si apre il tal libro piuttosto
che il tal altro? Arriveremo così a realizzare il ritratto del lettore codi
ficato in ciascuna opera.
Cercare il lettore edificato consiste nel domandarsi: quale tipo di
reazione, quale comportamento l’autore vuole provocare nel suo letto
re? Quale sistema di valori cerca di trasmettergli? Quale visione del
mondo vuole impiantare o modificare?
Insistiamo per definire la questione del lettorato come la poniamo
qui a proposito dei vangeli. Non ci chiederemo chi è idoneo a leggere
il Vangelo di Matteo e chi può leggere il Vangelo di Giovanni, ma: cia
scuno di questi vangeli che tipo di lettore costruisce? Quale modello di
lettore vuole plasmare ciascuno di questi vangeli? Questa domanda è
tipica dell’analisi narrativa e del suo interesse per la ricezione del te
sto. Perché d’ora in poi la cooperazione o la collaborazione del lettore
nell’atto di lettura diventa primaria.6 In questa indagine, interessa sa
pere non quale tipo di lettore l’autore presuppone, ma quale effetto il
testo mira a esercitare su di lui. A proposito dei vangeli, ci chiedere
mo: quale lettore si prefigge ciascun vangelo e quale «esperienza viva»
di lettura prevede per lui?
Prendiamo da Peter Rabinowitz la distinzione che egli propone tra
udienza narrativa e udienza autoriale, ma modificando la sua defini
zione.7 Per Peter Rabinowitz, l’udienza narrativa è quella che dà il pro
prio consenso al racconto, che aderisce al mondo del racconto, men
tre l’udienza autoriale rappresenta quel lettorato ipotetico per il quale
l’autore scrive e che deve convincere. Io modifico le sue categorie e
propongo di chiamare udienza autoriale il lettore codificato, con le sue
competenze, la sua cultura, le sue informazioni, le sue ignoranze. L’u
dienza narrativa rappresenta allora il lettorato che il narratore vuole
costruire, che cerca di modificare mettendo in campo il mondo del rac
conto secondo la sua intenzione.
28
Il narratore le tiene ambedue presenti, e la figura del narratario uni
sce le due dimensioni. Ma la distinzione, a titolo euristico, ci sembra fe
conda. Due esempi.
29
bibliche sarebbe - come si ripete sempre - una componente culturale
del lettore codificato, che sarebbe infatti un lettore di origine giudaica,
capace di decifrare questi effetti ricorrenti di intertestualità? Attenta
all’effetto provocato da questo uso intenso della Settanta, l’esegeta bri
tannica Loveday Alexander ha proposto d’invertire questa tesi classi
ca.11 Secondo lei, Luca adotta questo linguaggio per introdurre il suo
lettore, la sua lettrice nel vocabolario, nelle rappresentazioni, nello sti
le della Bibbia greca. Con questo sforzo di inculturazione gli offre un
linguaggio e anche molto di più: lo introduce in una letteratura, in
un’evocazione del passato. Così lo «stile bìblico», questo gergo religio
so caratteristico della cristianità di origine giudaica del primo secolo,
parteciperebbe alla costruzione, nei lettori di Luca-Atti, di un'identità
radicata nella storia di Dio con Israele - la storia che precisamente la
Settanta racconta. L’ipotesi di Loveday Alexander è di ordine propria
mente narratologico; essa riguarda non quanto sta a monte del testo
(la cultura riconosciuta al lettore primario), ma le sue conseguenze a
valle (l’effetto del testo sul lettore). Dunque, i casi sono due: o l’uso in
tensivo della Bibbia greca in Luca era un’evidenza per il lettore pri
mario di Luca-Atti, perché essa mima la sua cultura (udienza autoria-
le), o questo uso genera una scoperta, avvia un apprendimento, pro
muove un’acquisizione di identità attraverso il linguaggio (udienza
narrativa).12 Dal nostro punto di vista, il rovesciamento d’ipotesi che
l’esegeta inglese propone merita la massima attenzione.
In ogni caso, è certo che tanto per l’appellativo «i giudei» nel quar
to Vangelo quanto per l’uso della Settanta nell’opera di Luca, l’attri
buire tale caratteristica al lettore codificato piuttosto che al lettore co
struito proviene dalla critica storica più che dall’analisi narrativa; de
cidere dell’identità dei lettori primari significa decidere sulla storia, e
significa uscire dal quadro epistemologico della narratologia che è una
scienza del testo e non una scienza storica. Ma di che cosa ci accor
30
giamo qui? Porre una domanda in termini pragmatici, cioè in termini
di effetto del testo sul lettore, fa rilanciare come si è detto l'inchiesta
da parte della critica storica. L’inchiesta ha degli sviluppi imprevisti,
perché, nelTinterrogarsi sullo scopo del narratore nei suoi effetti di
scrittura, l’analisi narrativa mette il dito sulla maniera in cui il lin
guaggio lavora e mette in dubbio il fatto che esso riproduca semplice-
mente il mondo di rappresentazione dei lettori primari.
31
soltanto dal contenuto del racconto, ma anche dalla sua stessa fattura,
dalla strategia narrativa che lo organizza, dal mondo di valori che es
so dispiega? È possibile qualificare il tipo di lettore che il testo cerca
di costruire? Noi desideriamo esplorare questa nozione ancora poco
elaborata e poco codificata,18 per tratteggiare le potenzialità di una ta
le analisi, abbozzare una pista di ricerca e redigere una tipologia dei
vangeli. Infine, se la Chiesa antica fin dalla metà del II secolo ha inte
so mantenere nel suo canone scritturistico la pluralità dei quattro van
geli, non è forse in forza delle differenti figure di lettori che questa plu
ralità generava?19
18 A bbiamo già dato u n a traccia in passato di questa problem atica in due contribu
ti■. D. M a r g u e r a t , «La construction du lecteur p a r le texte (Marc et Matthieu)», in C. Fo-
c a n t (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and thè N ew L iterary Criticism, Uni
32
Marco si presenta come una successione rapida e frammentata di pic
cole unità narrative. Il narratore infila di seguito una cascata di micro
unità (parabole, incontri, guarigioni, dialoghi), in una successione ra
pida che tiene il lettore con il fiato sospeso. Nel ritmo precipitoso del
racconto, colpisce la successione di parole senza risposta, di movi
menti abbozzati, iniziati ma incompiuti. Certo, la critica della forma
letteraria o storia delle forme CFormgeschichte) ci ha insegnato a iden
tificare, in questa successione di frammenti, la compilazione di unità
formali originariamente concepite in seno alla tradizione orale, poi col
legate tra loro dall’evangelista nel suo racconto. Ma, a prescindere dal
la genealogia di questa composizione, qual è l’effetto di questo dispo
sitivo narrativo?
G e s ù c h e si s o t t r a e
33
to simboleggia l’affluenza della folla. Ora, proprio nel momento in cui
l’evangelista ha appena notato l’affluenza dei malati intorno a Gesù,
che «non lasciava parlare i demòni perché essi lo conoscevano» (1,34),
si verifica un episodio curioso che Matteo non ha riportato. È la scena
della fuga di Gesù in un luogo deserto, dove Simone e i suoi compagni
alla fine lo ritrovano (1,35-38). «Trovatolo, gli dicono: “Tutti ti cerca
no!”. Ed egli dice loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, per
ché io annunci anche là; per questo infatti sono uscito!”» (1,37-38).
L’assenza di Gesù è drammatizzata dalla annotazione insistita della
sua partenza («si alzò, uscì e se ne andò»: 1,35) e dall’intensità del
l’inseguimento e della ricerca («tutti ti cercano!»: 1,37).
Chiaramente, la scena ha messo a disagio Matteo, al quale non pia
ce l’idea che si insegua Gesù, e l’immagine di un Gesù che fugge di na
scosto contravviene alla sua visione del Messia a disposizione delle fol
le; l’episodio, quindi, strideva con la sua cristologia. Di solito i com
mentatori staccano questa scena dalla giornata a Cafarnao. È un erro
re, perché essa ai tre precedenti luoghi simbolici (la sinagoga, la casa,
il luogo aperto) ne aggiunge un quarto, il luogo deserto, così impor
tante nella topologia del secondo Vangelo. La scena organizza la fuga
di Gesù e la ricerca dei discepoli per ritrovarlo, e da quel momento la
domanda centrale posta dalla giornata a Cafàrnào non è «Chi è Ge
sù?». Chi egli è, lo ha dichiarato subito lo spirito impuro («Io so chi tu
sei: il santo di Dio»: 1,24), e i demòni lo sanno (1,34). La domanda non
è Chi è Gesù?, ma Dov'è Gesù? In altre parole, appena l’identità di Ge
sù viene proclamata, ecco che l’interessato si defila. Abbiamo qui una
struttura propria di Marco, che si ripercuoterà lungo tutto lo svolgi
mento del racconto.
La moltiplicazione delle partenze di Gesù, elaborata dal narratore
fino all’eccesso dal capitolo 1 al capitolo 10, situa il lettore alla pre
senza di un Cristo che se ne va, di un Cristo che precede, di un Cristo
costantemente al di sopra di ogni possibilità umana. Ogni risposta sul
l'identità di Gesù è rimessa in gioco dalla sua partenza. La nostra ipo
tesi di lettura è che Gesù sfugga non soltanto ai discepoli, ma conti
nuamente anche al lettore, spostandosi velocemente da un luogo al
l’altro, così che la questione della sua identità si riapre proprio quan
do la si ritiene risolta.
34
U n a l o g ic a di s p o s t a m e n t o
35
ciato ai piedi del Maestro; il lettore di Marco, appena si è accomodato,
vede il Maestro che se ne va.
I l M e s s ia in a f f e r r a b il e
36
Perché Gesù gli ordina di tacere? Forse perché si tratta di uno spirito
impuro? Ma lo spirito dice il vero! Allora, perché imporgli di tacere? A
nostro parere, qui viene denunciato come un fatto demoniaco il cre
dersi detentore del mistero cristologico. Captare Gesù in una formula,
anche ammesso che fosse vera, è l’errore cristologico da non commet
tere. Per capire chi è Gesù, bisogna attendere la sofferenza e la croce.
La motivazione della fuga di Gesù all’indomani di buon mattino, di cui
abbiamo parlato sopra, porta la stessa connotazione teologica: il Mes
sia sfugge a quanti vogliono rinchiuderlo nel ruolo del taumaturgo.
U n ’id e n t it à a p e r t a
Eppure sembrava che tutto fosse già detto all’inizio. Primo verset
to del racconto: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1).
Questo «inizio» non è forse altro che una metonimia del Vangelo stes
so, come suggerisce Jean Delorme?21 In ogni caso tutto avviene come
se, dopo aver detto con il titolo Figlio di Dio tutto quanto c'era da dire
sull’identità di Gesù, il narratore tentasse ogni via per problematizza
re l’accesso a questa identità, a narrativizzarne la difficoltà, a mettere
in racconto la non-immediatezza di questa confessione di fede.
Vediamo un ultimo testo, quello della trasfigurazione (Me 9,1-13).
Agli occhi dei tre discepoli appaiono Gesù trasfigurato, Elia e Mosè che
conversano con lui. Merita di essere notata la collocazione strategica di
questo episodio, subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea e il pri
mo annuncio della passione (8,27-38). Inoltre, la sua funzione nello sce
nario evangelico non è affatto insignificante: con la trasfigurazione, l’at
testazione messianica trova il suo apice e al tempo stesso è annunciata
irrimediabilmente la sofferenza del Figlio dell’uomo (9,12).22 La narra
zione di Marco raggiunge qui un vertice, e Matteo non ha tolto nulla a
questa intensità cristologica. Tuttavia, la gestione di questo colloquio ce
leste risulta ben diversa in Marco e in Matteo dal punto di vista che ci
interessa, cioè l’effetto sui discepoli. Alla voce celeste che proclama:
37
«Questi è il figlio mio, l’amato, in cui mi compiaccio; ascoltatelo!» (Mt
17,5), i discepoli di Matteo reagiscono con una prosternazione trepi
dante, e ne sono risollevati da Gesù; poi, in un dialogo privato con il
Maestro, l’obiezione degli scribi a proposito di Elia viene superata con
l’affermazione che Elia è già venuto: «Allora i discepoli compresero che
egli parlava loro di Giovanni il Battista» (Mt 17,13). La tradizione della
trasfigurazione viene elaborata in Matteo con una cristologia dello sve
lamento. I discepoli di Marco, invece, nulla lasciano trasparire: né pro
sternazione con risollevamento da parte del Maestro, né comprensione.
Il potenziale di senso rappresentato dalla visione del Cristo glorificato
in conversazione con Elia e Mosè viene immediatamente represso da
una consegna di silenzio, la cui validità è limitata (fatto unico in Marco)
fino alla risurrezione del Figlio dell'uomo (Me 9,9); ma i discepoli non
comprendono «cosa volesse dire risuscitare dai morti» (9,10). Attra
verso questo commento il lettore viene interpellato per sapere se è ca
pace di capire meglio di loro: non tanto l’idea generale di risurrezione,
che va da sé, ma la risurrezione di Gesù, che lascerà le donne al sepol
cro nel medesimo stato di costernazione (16,8). Qui tocchiamo con ma
no a qual punto il motivo dell’incomprensione dei discepoli in Marco
non risponda a un interesse storico, ma piuttosto abbia di mira il letto
re e lo interpelli circa la propria capacità di intendimento.
Il l e t t o r e in e s i l i o
38
della conoscenza istillato da un racconto in cui quello che si credeva di
sapere è incessantemente sottoposto a scosse e l’intelligenza dei di
scepoli è costantemente ostacolata. Costituiti al capitolo 4 nello stato di
iniziati al mistero del Regno di Dio («A voi è dato il mistero del Regno
di Dio, ma per quelli di fuori, tutto diventa enigma»: 4,11), i discepoli
sono rimproverati da Gesù al capitolo 8 dopo il duplice miracolo dei
pani: «Non comprendete ancora?» (8,21). Constatando che il narrato
re prima riconosce e successivamente ritira al discepolo, figura del let
tore, la condizione di iniziato al quale questi ambisce, Yvan Bourquin
giustamente conclude: «La strategia di Marco nei riguardi del suo let
tore si focalizza sui temi antinomici dell’apertura e della chiusura; que
sto gioco sottile e complesso è la configurazione narrativa di una real
tà che segna in profondità l’esistenza umana: posto davanti a Dio, del
quale il racconto dà testimonianza, anche il “soggetto leggente” cono
sce l’esperienza dell’ombra e della luce, del limite invalicabile e dell’a
pertura infinita; teologia dell’esistenza e teologia narrativa trovano co
sì la loro articolazione in una teologia della speranza».24
Il lettore costruito dal Vangelo di Marco è un lettore scosso; è un
lettore sopraffatto da un sovrappiù di sapere al quale è invitato - e que
sto sovrappiù di sapere non è altro che l’inimmaginabile novità di un
Dio che si dà a vedere nell'itinerario mortale dell’uomo di Nazaret. Il
velo del Tempio, che si squarcia davanti alla croce (15,38), inaugura
simbolicamente l'esilio di Dio fuori del luogo sacro, il suo esilio verso
le nazioni. Il lettore di Marco appare così anche come un lettore in esi
lio, un lettore dirottato, messo su altra via, destabilizzato nelle sue pre
tese di sapere, instancabilmente interrogato sulla domanda: «Come co
noscere Dio?».
Da un capo all’altro del Vangelo, il Gesù di Marco è impegnato a es
sere altrove rispetto al luogo in cui lo si cerca. Alla fine la sua identità
è svelata dal centurione sotto la croce («Davvero costui era Figlio di
Dio!»: 15,39).25 «Ciò che i demòni sapevano, ma che dicevano nel mo
do più disdicevole (1,25; 1,34 e 3,12), ciò che la voce del cielo aveva
39
proclamato per Gesù solo (1,11) o per alcuni discepoli sconvolti (9,7),
questa intima relazione che Gesù intratteneva col Padre suo (14,32-42)
ora è cosa pubblica, e tutto questo si avvera al momento della morte
del figlio».26 Ma questa confessione è una dichiarazione tardiva: Gesù
è già morto quando il centurione intuisce la sua identità. E a pasqua,
davanti alla tomba aperta, le donne sapranno con sorpresa che egli
non è lì e che precede i discepoli in Galilea (16,6-7). Il Gesù di Marco
sfugge ai personaggi del racconto fin oltre la tomba...
Questo sottrarsi è metafora di un’alterità, di un altrove, di un’altra
terra dove il lettore è invitato a conoscere personalmente il Vivente. La
Galilea promessa al lettore di Marco non è il luogo in cui i credenti fi
nalmente metteranno le mani su di lui, ma dove egli non cesserà di
precederli, di stare davanti.
40
Leggendo il primo Vangelo, possiamo dire di assistere allo spiega
mento di una pedagogia di sazietà cognitiva. Questa pedagogia si situa
all’opposto di Marco, perché lavora con la completezza, con la confer
ma del detto attraverso il dire, che conduce il lettore di Matteo a un
rapporto con la conoscenza che chiama in causa precisamente il rac
conto di Marco. Là dove il lettore del secondo Vangelo è frustrato, quel
lo del primo Vangelo è saziato. Non ci si stupirà di non rintracciarvi al
cuna eco dello scenario marciano di decostruzione della condizione di
iniziato applicato alla figura dei discepoli; i discepoli di Matteo, al con
trario, sono associati positivamente all’intimità del Maestro e benefi
ciari costanti del suo insegnamento. «Beati i vostri occhi perché vedo
no, e i vostri orecchi perché ascoltano», dice il Gesù matteano ai di
scepoli (13,16), mentre il Gesù di Marco ammonisce i suoi: «Non capi
te questa parabola? Allora come potrete comprendere tutte le parabo
le?» (4,13).
Ciò non significa che il lettore, a immagine dei discepoli nella sto
ria raccontata, non sia modificato o spiazzato nel suo sapere־, ma il
rapporto con questo sapere, anziché essere problematizzato come in
Marco, viene dato positivamente.31 È appunto pensando a questo sfor
zo di offrire sazietà attraverso la ridondanza che si parlerà del lettore
di Matteo come di un lettore costruito.
Un r a c c o n t o m e s s o in d i s c o r s i
31 La differenza fondam entale fra Matteo e Marco a questo riguardo è che il disce
polo m atteano, figura del lettore credente dell'evangelo, è dotato di com prensione. Cre
dere, p er Matteo, significa com prendere «i m isteri del Regno dei cieli» (Mt 13,11). Men
tre in Marco i discepoli tendono costantem ente a non capire (Me 4,13; 6,52; 8,17.21;
9,10), Matteo non sm ette di esaltare la condizione dei discepoli-lettori, gratificati dalla
benedizione di com prendere (Mt 13,11.13.19.23.51; 15,10; 16,12; 17,13). Cf. D. M a r ■
g u e r a t , L ’aube du christianism e. B ayard-Labor et Fides, Paris-Genève 2008, 292-299.
lerà piuttosto di discorsi messi in racconto. L’arte di Luca consiste, in
fatti, nel combinare discorsi e racconto in una maglia strettissima,
mentre Matteo procede creando larghi raggruppamenti tematici. Ci
soffermiamo ora su questo fenomeno di sequenzializzazione del ma
cro-racconto, che mette in luce un’architettura propria del primo Van
gelo: è l’alternanza racconto/discorso.
Matteo è il solo ad aver fatto di questa alternanza un principio che
struttura la narrazione. Cinque grandi discorsi scandiscono la narra
zione: il primo è il discorso della montagna (Mt 5-7), poi il discorso
missionario (Mt 10), l’insegnamento in parabole (Mt 13), il discorso co
munitario (Mt 18). L’ultimo discorso raggruppa i rimproveri agli scribi
e farisei (Mt 23) e il discorso escatologico (Mt 24-25). Il narratore pre
dispone dunque nella narrazione cinque pause, o piuttosto cinque for
ti rallentamenti del tempo narrativo; infatti la parola riportata abbas
sa in modo spettacolare l’andatura della narrazione. Riportare la pa
rola di un locutore è il mezzo di cui un narratore dispone per rallen
tare il ritmo del racconto, al punto che la sua velocità finisce per coin
cidere con quella della storia narrata. In questo contesto, il racconto
assume la velocità del discorso.32 In teoria, il lettore decifra il discorso
della montagna alla stessa andatura con cui il Gesù di Matteo lo pro
clama. C’è sincronia tra il tempo narrante e il tempo narrato. Inoltre,
il soggetto parlante (il locutore) riceve un duplice uditorio: prima an
cora della finzione dell'uditorio della storia raccontata (Gesù parla ai
suoi discepoli o alle folle), il locutore si rivolge al narratario. In altre
parole, il discorso, soprattutto se è lungo, in qualche modo diserta la
storia raccontata per passare a un registro cognitivo in cui il narrato
re si rivolge più direttamente al lettore.
L ’in t r e c c io r a c c o n t o / d isc o r s o
32 Per xana tipologia del tem po n a rran te, o se si preferisce della velocità della n a r
razione, si p o trà consultare M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. In izia
zione-all’analisi narrativa, 97-101.
42
narrazione.33 Reciprocamente, il racconto dovrebbe confermare e con
validare la parola riportata. C’è un’azione del racconto sul discorso e
del discorso sul racconto. Il discorso si nutre del racconto e il racconto
s’iUumina per mezzo del discorso. Questo intreccio racconto-discorso è
forse casuale, proprio in questo Vangelo che insiste con il massimo vi
gore sulla convalida della parola mediante l’atto? «Non basta dirmi “Si
gnore, Signore” per entrare nel Regno dei cieli; ma bisogna fare la vo
lontà del Padre mio che è nei cieli» (7,21). Il discorso della montagna
si conclude con la parabola dei due costruttori di case (7,24-27), dove
ascoltare e mettere in pratica le parole appena udite equivale a essere
il costruttore che edifica la sua casa sulla roccia e non sulla sabbia.
Classicamente, gli esegeti di Matteo hanno separato racconto e di
scorso per trattarli a parte, il primo sul registro biografico, il secondo sul
registro dottrinale. Ma è ovvio che il narratore ha composto la sua nar
razione come un intreccio di racconto e di discorso, e non con l’inten
zione di giustapporli. Ecco un piccolo saggio di questa reciproca connes
sione: il famoso enunciato di Mt 5,17: «Non crediate che io sia venuto ad
abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, bensì a compie
re». Dal punto di vista della retorica del discorso, questo enunciato è con
siderato, a ragione, come la tesi portante del discorso della montagna;
esso si concretizza nella rilettura della Torah alla quale Gesù poi si dedi
ca (5,21-7,12).34 Ma la portata della «tesi» si riduce davvero a questo di
scorso? Osserviamo che in precedenza, al capitolo 4, il racconto delle ten
tazioni nel deserto mette in gioco il rapporto di Gesù con la Scrittura: Ge
sù respinge le proposte di Satana appoggiandosi su tre citazioni del Deu
teronomio (Dt 4,4.7.10). La dichiarazione di Mt 5,17 fornisce dunque una
conferma discorsiva a quanto Gesù ha precedentemente vissuto e speri
mentato: il compimento della Legge e dei Profeti (5,17) è sovrastato dal
la sua sottomissione alla Parola (4,1-11). Il suo fare ha preceduto il suo
dire, la fedeltà vissuta ha preceduto la dottrina. Questo per quanto ri
guarda il nesso del significante con la parte precedente del racconto.
33 Lo abbiam o illustrato a proposito della n arrazio n e lucana nel contributo: «Le dis-
cours, lieu de (re)lecture du récit», in D. M a r g u e r a t (ed.), La Bible en récits. L ’exégèse bi-
blique à Vheure du lecteur, Labor et Fides, Genève 2003, 395-409.
34 U. Luz h a espressam ente p resentato questo dispositivo retorico di Mt 5 -7 in Dos
Evangelium nach M atthàu s (M t 1-7), Benziger-Neukirchener, Dùsseldorf-NeuM rchen
52002, 253-255; tr. it. Vangelo di M atteo, Paideia, Brescia 2 0 1 0 ,1.
43
Il discorso della montagna sviluppa soltanto il versante «Legge»;
cos’è allora il compimento della Legge e dei Profeti? La sequenza im
mediatamente successiva, ai capitoli 8 e 9, presenta una serie di rac
conti di miracoli di cui i primi tre si concludono con la formula già ci
tata: «perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profe
ta» (8,17); la citazione annunciata è Is 53,4. Il séguito della narrazio
ne sviluppa così la dimensione profetica. La portata della tesi di Mt
5,17 non va dunque limitata al discorso che essa introduce; si rivela di
un’ampiezza nettamente maggiore, capace di irradiare il racconto a
monte e a valle, e di sovrastarlo con la sua incisiva formulazione.35
Concludiamo sul primo Vangelo. La sua funzione strutturante, edi
ficante, sistematica, non poteva che convenire a una Chiesa alla ricer
ca di compendi catechetici e di formule dottrinali precise. Il lettore di
Matteo è un lettore edificato nella comunità, un lettore costruito nella
Chiesa e come la Chiesa.
44
giare, mentre invece parla della volontà di Dio come di un cibo che egli
riceve (Gv 4,32-34), sono incapaci di passare al più fondamentale cre
dere che viene proposto loro da Gesù. Al pari del malinteso di cui par
leremo fra poco, e che è un’altra caratteristica giovannea, l’uso del lin
guaggio simbolico serve a scopo didattico: appare al centro dei grandi
discorsi cristologici con i quali l’evangelista espone al lettore la sua
concezione della rivelazione.
C o m e l e g g e r e il V a n g e l o
45
fica che questo Vangelo sia meno carnale, meno incarnato di un altro,
ma che il senso ovvio racchiude sistematicamente un senso nascosto.
Il linguaggio è costantemente a doppio fondo, si apre a una dimensio
ne simbolica, a un percorso spirituale, di cui solo l'iniziato scopre a po
co a poco il cammino. Nella teoria dei quattro sensi della Scrittura, il
senso ultimo è in effetti quello spirituale.
Si deve notare che dopo secoli di un’esegesi focalizzata sui discor
si, la dimensione narrativa del quarto Vangelo è stata ri valorizzata dal
l’analisi narrativa. Il pioniere ne è stato Robert Alan Culpepper, nel suo
studio del 1983: Anatomy o f thè Fourth Gospel.36 In seguito, l’atten
zione si è focalizzata sulle tre procedure maggiori della retorica gio
vannea: il malinteso, l'ironia, la simbolica.
P a r l ia m o di ir o n ia
L’ironia è una procedura assai sottile, che consiste nel lasciar in
tendere che si vuol dire il contrario di quanto vien detto. L’ironia sov
verte il senso ovvio per far indovinare - dall’iniziato, naturalmente -
che il vero significato è l’inverso di quanto detto.37 Quando, nel corso
della passione, Pilato dichiara alla folla di Gerusalemme: «Ecco il vo
stro re» (Gv 19,14), la folla risponde urlando: «A morte!». Ma il letto
re iniziato - diciamo, il lettore cristiano - sa che, senza saperlo, Pilato
dice il vero: Gesù è il Messia, il re dei giudei. Pilato, credendo di affib
biare a Gesù il titolo derisorio di re secondo l’intenzione della folla che
non ne vuole proprio sapere, dichiara proprio ciò che il lettore inizia
to accoglie come una verità di fede.
Quando il sommo sacerdote Caifa giustifica la condanna di Gesù di
cendo: «È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo,
e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50), la sua dichiara
zione si ispira al cinismo politico. Ma il lettore iniziato sa bene che Cai-
46
fa, senza saperlo, sta dicendo il vero: Gesù morirà offrendosi in sacri
ficio per i peccati di tutti. Giovanni è maestro riconosciuto dell’ironia,
è il virtuoso dell’ironia nel Nuovo Testamento. Ma, ripeto, l’ironia pre
suppone sempre un «doppio intendimento»; è un linguaggio in codice.
Meno conosciuta è la procedura di ironia per ambivalenza seman
tica. Gv 19,13 ne fornisce un buon esempio, sempre nel-contesto del
la passione. Al termine del suo lungo confronto con Pilato, Gesù lascia
il pretorio con il procuratore. Ambedue si dirigono verso il bèma dove
Pilato lo presenterà ai giudei come loro re (bèma è un termine che pos
siamo tradurre sia con tribuna, sia con tribunale). Si deve tradurre:
«Pilato fece uscire Gesù e lo fece sedere sulla tribuna», oppure: «Pila
to fece uscire Gesù e si sedette sulla tribuna»? Il senso non è affatto lo
stesso: Pilato installa Gesù per derisione sulla tribuna (senso transiti
vo del verbo kathizein) o Pilato si siede come un giudice sul palco ri
servato a questa funzione (senso riflessivo di kathizein)?38 Contraria
mente a quanto affermano molti esegeti, noi pensiamo che il testo sia
volutamente ambiguo. Qui l’ironia si manifesta come una rottura in se
no all’atto di enunciazione; questa procedura retorica consiste nel con
giungere sotto una stessa immagine o una stessa espressione due si
gnificati opposti o conflittuali, di modo che il lettore non è sollecitato a
respingerne una, ma a mantenere la tensione reciproca. Il narratore,
dunque, mira al doppio senso, per far sapere al lettore che la verità
teologica dell’evento va letta all’inverso rispetto a quanto si svolge in
superfìcie: sotto l’apparenza dell’accusato condotto in tribuna, in real
tà è Gesù che giudica i propri giudici; la vittima, e non il carnefice, sve
la la verità del processo che Dio intenta contro gli uomini. Ma notiamo
bene come questo doppio intendimento dipenda da un non-detto; l’e
vangelista non lo esplicita, proprio come non consegna la chiave [di let
tura] del malinteso di Nicodemo sulla nuova nascita (3,4-10) o del ma
linteso della samaritana sull’acqua viva (4,11-14). Tocca al lettore ca
47
pire l’ironia del racconto... o smarrirsi. Giovanni fa uso dell’ironia, ma
assai diversamente da Marco, poiché l’ironia generalmente non è usa
ta contro i discepoli.
Il lettore costruito da questo testo è attratto dal lato del non-detto;
è invitato a guardare oltre le apparenze per recuperare il senso degli
eventi narrati. Nei casi accennati, si tratta di cogliere la connotazione
simbolica dell’acqua e della luce come metafore della salvezza. In tal
modo il racconto opera per costruire una competenza d’interpretazio
ne, attirando il lettore nell’orbita di una lettura da iniziati. Jean Zum-
stein ha esplorato la dinamica di questa pedagogia del narratore par
lando di una «strategia del credere», attraverso la quale il credente-
lettore viene coinvolto a passare da una convinzione elementare a una
fede propriamente giovannea.39 Il processo di iniziazione conduce,
dunque, il lettore, la lettrice ad adottare le categorie specifiche del
quarto Vangelo. Il lettore presupposto nell’udienza narrativa è un let
tore che si sta iniziando alla teologia giovannea.
I l m a l in t e s o
48
di proiezione: il lettore è invitato a calarsi nei panni del personaggio, a
vibrare delle sue emozioni, della sua attesa o sorpresa. Ma quale offer
ta di identificazione viene fatta al lettore iniziato del quarto Vangelo? De
ve forse mettersi nei panni di Nicodemo che si smarrisce, non riuscen
do a capire che la nuova nascita è una nascita dall’alto, una nascita ge
nerata dallo Spirito, e non un secondo parto? Oppure il lettore al con
trario deve ridere di Nicodemo che sbaglia strada, che inciampa sulle
parole e non coglie la dimensione metaforica del linguaggio di Gesù?
Il lettore deve fare come Nicodemo o rallegrarsi di non essere co
me lui? In realtà, né l’uno né l'altro, perché il processo di identifica
zione non è una semplice equazione. Il mondo del racconto non è un
calco del mondo del lettore. Per passare dall’uno all’altro, dal mondo
del racconto al mondo del lettore, c’è - per usare ancora una parola di
Ricoeur - rifigurazione,40 cioè appropriazione di una trama (quella del
racconto) e innesto su un’altra trama (quella della vita del lettore). Fra
questi due tracciati di vita non c’è riproduzione identica, ma attrazio
ne, influenza, sollecitazione. La lettura è l’incrociarsi di due trame,
quella del racconto e quella della mia vita.
Il p r o c e s s o d i id e n tif ic a z io n e n a r r a t i v a
49
Riprendiamo la domanda: in chi può identificare se stesso il letto
re iniziato del quarto Vangelo? Gv 3 mette sotto gli occhi del lettore la
ricerca del fariseo Nicodemo, una ricerca che passa attraverso la de
stabilizzazione, per lo spostamento del punto di vista, per l’abbando
no di un sapere, per la confessione di ignoranza. È proprio il maestro
in Israele che domanda a Gesù: «Come può avvenire questo?» (3,9) e
che con la sua domanda scatena il discorso di Gesù sulla vita eterna
(3,10-21). L’autore del quarto Vangelo non ci invita a inciampare come
Nicodemo, come non ci inviterebbe semplicemente a ridere a sue spe
se. Dipinge Nicodemo che inciampa per illustrarci la necessaria desta
bilizzazione di un processo di scoperta teologica. Mostra che il per
corso di iniziazione al quale il lettore è invitato s’iscrive su una linea
non continua, ma spezzata. E questa stessa frattura configura narrati
vamente la rottura che la nascita dall’alto instaura (3,7-8). Detto altri
menti: il racconto fa ciò di cui parla: provoca una rottura là dove par
la di rottura, o se si preferisce, fa nascere il proprio lettore a un’altra
visione proprio là dove parla di nuova nascita.
Subito dopo, al capitolo 4, il colloquio con la samaritana riprende lo
stesso tema e lo approfondisce, adottando come chiave il medesimo pro
cesso di malinteso. Dall’acqua attingibile al pozzo, la conversazione pas
serà all’acqua che dà la vita, e poi all’adorazione in verità - ma, grazie al
colloquio, la donna samaritana sarà rivelata nella sua tormentata storia.
Ciò basti per il quarto Vangelo. Il lettore costruito dal racconto di
Giovanni è un lettore aspirato da un processo di iniziazione, addestrato
a decodificare il doppio senso delle parole o delle situazioni, formato a
gustare lo spessore simbolico del linguaggio. Lo stesso percorso di cer
ti personaggi nel Vangelo dispiega sotto i suoi occhi questo percorso
iniziatico con i suoi scossoni, le sue rotture, la necessaria ricomposi
zione delle convinzioni e - come evidenzia il cieco guarito di Gv 9 - le
difficoltà che lo aspettano.
50
cato, istruito, posto in un rapporto da discepolo a maestro. Da parte
sua, il lettore di Giovanni è attirato in un processo iniziatico di lettura,
che gli farà progressivamente scoprire il senso nascosto delle parole,
lo spessore del simbolismo e il sottile gioco dell’ironia.
Che ne è del lettore di Luca-Atti? Bisogna precisare, di primo ac
chito, che il Vangelo di Luca è soltanto il primo volume di un’opera in
due parti, dato che il Vangelo ha il suo séguito negli Atti degli aposto
li. Quest’opera del medesimo autore è stata scissa in due volumi per
ragioni pratiche. Quando il canone del Nuovo Testamento si è pro
gressivamente costituito, nel corso della prima metà del II secolo, i
quattro vangeli sono stati raggruppati insieme, e così il libro degli At
ti è venuto a trovarsi separato dal suo primo tomo e isolato. Queste due
opere, che nel Nuovo Testamento leggiamo separate dal Vangelo di
Giovanni, in realtà erano previste per essere lette di séguito l’una al
l’altra. Il canone ha separato ciò che l’autore aveva unito.41 Se si vuo
le ritrovare la strategia del narratore è indispensabile considerare le
due parti del racconto l’una di séguito all’altra.
I m p a r a r e a l e g g e r e l a st o r ia
51
non sono identiche: Le 24 chiude la vita di Gesù con un atto di separa
zione, l’ascensione, dove il Risorto si separa dai suoi benedicendoli.
Questa separazione non è un dramma, ma ima partenza sovrastata dal
gesto di benedizione. In At 1, l’ascensione al contrario è il punto di par
tenza della missione degli apostoli; proprio in questo momento diven
tano gli inviati del Risorto per essere «miei testimoni a Gerusalemme,
in tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle estremità della terra» (At
l,8b). Qui, l’ascensione prepara la futura assenza di Gesù; il Risorto
sparisce, ma sparendo istituisce un gruppo di testimoni: i suoi discepo
li. L’ascensione non è più una conclusione come in Le 24, ma un invio.
D’altronde, due uomini biancovestiti verranno a scuotere i discepoli che
fissano il cielo dove il Risorto è appena sparito: «Uomini di Galilea, per
ché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è
stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto anda
re verso il cielo» (At 1,11). I personaggi celesti riportano l’attenzione e
l’attività dei discepoli verso la terra, o meglio verso la storia presente.
Come vediamo, a pochi versetti di distanza - poiché, anche se le
due versioni dell’ascensione si trovano una alla fine del Vangelo, l’al
tra all’inizio degli Atti, sono separate da alcuni versetti - l’evangelista
si è permesso di dare due racconti differenti del medesimo avveni
mento. Non si contraddicono, ma nemmeno concordano: uno conclu
de, l’altro fa cominciare. Questo significa che un medesimo avveni
mento può essere oggetto di due sguardi interpretativi diversi. Che co
sa deve dedurne il lettore? Il messaggio, a nostro parere, non lascia
dubbi: posto davanti a due varianti della stessa storia raccontata, il let
tore è invitato a esplorarne le diverse sfaccettature, a decifrarne i mol
teplici significati, a coglierne i diversi effetti di senso.
Vediamo in questo una caratteristica fondamentale dell’opera di
Luca: non racconta solamente una storia - quella di Gesù e degli inizi
della Chiesa. E non si limita a raccontare, ma, offrendo più versioni
dello stesso evento, insegna a interpretare la storia. Fa del suo letto
re un interprete della storia, un ermeneuta della storia. Insegna al suo
lettore, alla sua lettrice a captare i molteplici significati di una storia
che si presta a varie configurazioni.
R il e g g e r e u n m e d e s im o a v v e n im e n t o
52
sto centrale negli Atti: la conversione di Paolo sulla via di Damasco. Il
fatto è riportato a tre riprese: una prima volta dal narratore al c. 9; una
seconda volta in un discorso autobiografico di Paolo davanti al popolo
di Gerusalemme, al c. 22; e una terza volta in una apologia di Paolo
davanti al re Agrippa e alla regina Berenice, al c. 26. Tre racconti, tre
varianti dello stesso evento. Questa ripetizione mostra l’importanza
che Luca gli riconosce: la conversione di Paolo gli permette di mostra
re la fondamentale continuità che lega il giudaismo e il cristianesimo,
la fede farisaica di Saulo e la sua nuova fede nel Risorto; ma permette
anche di far sapere che questa fede nuova proviene da un’iniziativa di
Dio con la quale interpella il suo popolo. Il racconto della conversione
di Paolo dà così a Luca l’occasione di saldare continuità e discontinui
tà tra giudaismo e cristianesimo.
Ognuna di queste varianti possiede una propria accentuazione.43
In At 9,1-31, il narratore mette in evidenza lo spettacolare capovolgi
mento del nemico di Gesù: colui che si recava a Damasco per ricon
durre in catene a Gerusalemme i discepoli di Gesù si trova gettato a
terra.44 Paolo è travolto, accecato; lui, che voleva entrare trionfante a
Damasco e cacciare i cristiani dalle sinagoghe, entra in città condotto
per mano dai suoi compagni di viaggio (9,8). Nel suo processo di gua
rigione, c’è un uomo che si appresta a giocare un ruolo decisivo: Ana
nia, rumile discepolo di Damasco, che il Cristo manda per guarire
Paolo. Naturalmente alTinizio Anania recalcitra, ricordando la venefi
ca reputazione di persecutore di Paolo (9,13-14). Ma il Cristo vincerà
proprio la sua resistenza, illustrando così fino a che punto sia stato
difficile per i primi cristiani ammettere la conversione di Paolo e la sua
chiamata a evangelizzare i pagani. Appena guarito dalla sua cecità per
mano di Anania (si misuri bene a qual punto la guarigione di questo
accecamento assuma valore simbolico), Paolo va a predicare il Cristo
ai propri correligionari giudei di Damasco e di Gerusalemme, che as
sai presto fomenteranno un complotto per farlo perire (9,19b-30).
43 M a r g u e r a t , Les A ctes des apótres (1-12), 319-322; tr. it. Gli A tti degli apostoli,
1 -1 2 , 365-368. Per un'analisi approfondita, si può consultare 0 . F l i c h y , La fig u re de Paul
dans les A ctes des Apótres. Un phénom ène de réception de la tradition p a ulihienne à
la fin du l er siècle, Cerf, Paris 2007, 55-166.
44 Gettato a terra, non dal suo cavallo. Il cavallo di Paolo a Damasco è u n ’invenzio
ne dei pittori, che non riuscivano a im m aginare che un uomo, tanto degno quale l’apo
stolo era, potesse viaggiare a piedi - m a nell’antichità questa era l’u san za comune.
Paolo passa così dal ruolo di persecutore del Cristo al ruolo di testi
mone perseguitato del medesimo.
In At 22,3-21, la situazione è molto diversa. Paolo è appena stato
arrestato su denuncia di giudei d’Asia ed espulso dal Tempio di Geru
salemme. Chiede al centurione romano di poter difendere la propria
causa davanti al popolo. Il suo discorso rende conto degli avvenimen
ti di Damasco, ma in tutt’altra prospettiva. Qui per lui si tratta di mo
strare che l’apparizione del Risorto si colloca in diretta continuità col
proprio attaccamento al Dio dei padri. Perciò ricorda la sua formazio
ne farisaica a Gerusalemme, alla scuola di Gamaliele, e il suo stretto
attaccamento alla Legge dei padri (22,3-5). «Il Dio dei nostri padri», gli
dice Anania, «ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere
il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca» (At 22,14).
Anania, il cui ruolo è fortemente ridimensionato, non è indicato come
discepolo, ma come «un uomo pio, fedele alla Legge, la cui reputazio
ne era buona presso tutti i Giudei là residenti» (22,12). Corrisponde al
l’immagine del giudeo esemplare. Inoltre, egli non indica Gesù col suo
nome, ma con l’epiteto di «giusto», la cui risonanza è forte nella pietà
giudaica. In breve, la presentazione viene, se così si può dire, giudaiz-
zata e scristianizzata oltre misura, per legittimare non più il trauma
che ha rappresentato per i cristiani di Damasco, quanto piuttosto l'in
serimento nell’azione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La
perfetta giudaicità di Paolo diventa il prisma attraverso il quale è pre
sentato l’avvenimento di Damasco.
In At 26,9-18, altro cambio di uditorio: Paolo prende come testi
mone la corte di Agrippa per farvi la propria apologia e dimostrare
l’inconsistenza delle accuse portate contro di lui dai suoi avversari giu
dei. La captatio benevolentìae è accurata: Agrippa viene presentato co
me un esperto conoscitore delle usanze e controversie dell’ambiente
giudaico (26,3); ma in quanto sovrano ellenistico, cliente di Roma, la
sua imparzialità è perciò assicurata. Il racconto della caduta di Dama
sco è tuttavia introdotto da una dichiarazione che colorerà l’intera nar
razione: Paolo fa le sue rimostranze al re perché è messo in stato di
accusa dai giudei «a motivo della speranza nella promessa che Dio ha
fatto ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere com
piuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. [...] Perché fra voi
è considerato incredibile che Dio risusciti i morti?» (26,6-8). L’opera
zione retorica è di un’abilità sconcertante. L’apparizione del Risorto a
Damasco, di cui Paolo ha fatto l’esperienza, corrisponde alla speranza
54
millenaria del popolo, cioè la speranza della risurrezione. Certo, Luca
forza il tratto presentando come speranza millenaria del popolo quel
lo che è il cuore della fede farisaica nel I secolo. Ma poco importa:
Agrippa è preso come testimone del fatto che gli avversari di Paolo si
mettono in contraddizione con la loro stessa speranza. Rinnegano ciò
per cui il popolo incessantemente prega. E così questa terza lettura del
l’evento di Damasco è ancora diversa dalle prime due: Paolo rivendi
ca per sé e per la nuova fede, che egli rappresenta, l’autentica eredità
del giudaismo.
Disporre negli Atti di tre versioni dello stesso avvenimento signifi
ca farne brillare le diverse sfaccettature, significa insegnare al lettore
a leggere e rileggere la storia sotto prospettive differenti, significa in
segnargli ad adottare molteplici punti di vista per comprendere la ric
chezza semantica degli avvenimenti. Alla scuola di Luca, senza ren
dersene conto il lettore è convocato a fare questo apprendistato. In cer
to qual modo, l’apprendistato si compie a insaputa del lettore stesso.
A p p e l l o a u n a m e m o r ia e v a n g e l ic a
45 J.-N. A l e t t i situa l’origine del procedim ento in Plutarco: cf. «Le Christ raconté»,
in F. M i e s (ed.), Bible et littéra tu re, Lessius, Bruxelles 1999, 29-53, soprattutto pp. 36-
40. D. M a r g u e r a t , La prem ière histoire du christianism e (Les A ctes des apótres), Cerf-
Labor et Fides, Paris-Genève 22003, 84-89; tr. it. La prim a storia d el cristianesimo. Gli
A tti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsam o 2002, 72, 76.
55
sto, il Nazareno, àlzatie cammina»46 dice Pietro allo storpio della Por
ta Bella del Tempio (At 3,6). Vedendo che il malato «aveva fede di es
sere salvato», scrive il narratore a proposito di Paolo a Listra (At 14,9);
«vedendo la loro fede» scrive Luca di Gesù che accoglie un paralitico
calato dai suoi amici attraverso il tetto di una casa (Le 5,20).
Perché queste ripetizioni? Forse per difetto di immaginazione? Op
pure Luca disponeva forse di un vocabolario modesto per dire le stes
se cose? Sarebbe davvero sorprendente da parte di uno scrittore mol
to dotato. No; Luca ricorre intenzionalmente agli ■stessi termini. Solle
cita infatti dal suo lettore una memoria evangelica e richiama alla sua
memoria che Gesù ha operato miracoli analoghi. Perché? Con quale in
tenzione? La ragione è teologica: negli Atti, i miracoli degli apostoli o
di Paolo non sono mai il frutto della loro pietà o l’esibizione dei loro
doni terapeutici. Chi agisce, chi guarisce è il «nome del Signore».47 Ec
co perché è importante ripetere le parole utilizzate per i miracoli di Ge
sù: l’agente della guarigione è sempre Gesù di Nazaret, il Risorto. An
cora una volta, Luca insegna al suo lettore a leggere la storia. Ripor
tando alla sua memoria un richiamo di Vangelo, fa comprendere dove
si trovi la sorgente dell’attività miracolosa: nell’azione del Cristo attra
verso i suoi discepoli.
Catto terapeutico non è il solo ad essere così configurato dalla pro
cedura della synkrisis. Al pari di Gesù in occasione del suo battesimo,
Pietro e Paolo beneficiano di una visione estatica nel momento chiave
del loro ministero (At 9,3-9; 10,10-16). Al pari di Gesù, predicano e
sopportano l’ostilità dei giudei. Come il loro maestro, soffrono e af
frontano la morte. Paolo è sottoposto a processo come lo è stato Gesù
(At 21-26); e come lui, Pietro e Paolo alla fine della loro vita sono og
getto di una liberazione miracolosa (At 12,6-17; 24,27-28,6).
Il parallelismo della morte del protomartire Stefano e della morte
di Gesù è ben noto: Stefano muore come Gesù in seguito a un proces
so sommario imbastito dal Sinedrio (At 6,12-14; Le 22,66-71). Davan
ti ai suoi accusatori, come Gesù fa riferimento a una visione del Figlio
dell’uomo (At 7,55-56; Le 22,69). Come Gesù, muore con un forte gri
46 Una p arte della tradizione m anoscritta non contiene la clausola «alzati e»; la
m aggioranza dei m anoscritti però la presenta.
47 At 3,6.16; 4,7.10.30; 19,11-20.
56
do (At 7,60a; Le 23,46a), affidando il proprio spirito e implorando il
perdono per i suoi avversari (At 7,59-60; Le 22,46.34). E come alla
passione, alcuni uomini pii si prenderanno cura del corpo del lapida
to (At 8,2; Le 23,50-53). Questi molteplici richiami, troppo numerosi
per essere trascurati, fanno della morte esemplare di Stefano una pas
sione continuata. Gesù l’aveva predetto: «Il discepolo non è superiore
al suo maestro» (Le 6,40).
Luca fa dunque appello a una memoria evangelica. Ma il narratore
non lo dichiara mai, non lo esplicita, non lo commenta. Lo fa sapere
narrativamente con la procedura di ripetizione o di ridondanza, ed è il
lavoro di lettura che lo evidenzia. Da bravo pedagogo, il narratore ha
moltiplicato gli indizi, ma il lavoro va fatto dal lettore, che così impara
a leggere la storia dei testimoni di Gesù come una storia che il Risorto
continua ad animare, e la sofferenza dei testimoni come una passione
dove il Crocifìsso serve da modello ai propri discepoli. Il narratore di
Luca-Atti invita il suo lettore a una lettura cristologica forte della storia.
3. Conclusione
Umberto Eco ha detto che il testo è «un meccanismo pigro» che ha
bisogno del lettore per funzionare.48 Il nostro obiettivo è stato di di
mostrare la tesi inversa: il lettore ha bisogno del testo per esistere. Ab
biamo mostrato che ciascun narratore evangelico ha in vista un letto
re che il suo testo, nella sua forma e nella sua strategia narrativa, con
tribuisce a costruire. Ma soprattutto, il racconto evangelico non pone
in essere un lettore qualunque - a meno che il lettore non si ribelli al
la proposta di lettura del narratore, il che è di suo pieno diritto!
Sarebbe interessante verificare se queste proposte di costruzione
del lettore abbiano effettivameiìte funzionato nel corso della storia.
Questa indagine andrebbe oltre lo scopo di questo capitolo, ma pos
siamo fare qualche rapido cenno. Il Vangelo di Matteo, col suo lettore
edificato, ha effettivamente giocato un ruolo decisivo nella struttura
48 Per la precisione: il testo è «un m eccanism o pigro (o economico) che vive sul p lu
svalore di senso introdottovi dal destinatario» (Eco. Lector in fa b u la ou la coopération
interprétative dans les textes narra tifs, 66-67; orig. it.: Lector in fabula. La coopera
zione interpretativa nei testi narrativi).
57
zione del catechismo e della dottrina nella teologia della Chiesa latina.
Il Vangelo di Giovanni ha nutrito molte letture esoteriche e più degli al
tri si è prestato alla meditazione spirituale. Luca-Atti ha fornito alla cri
stianità la sua strutturazione della storia della salvezza, come pure il
suo calendario liturgico. Quanto al Vangelo di Marco, è forse un caso
se è stato il vangelo meno letto, meno commentato e meno meditato
nella storia del cristianesimo, fino al secolo XIX quando la ricerca sul
Gesù storico gli ha assicurato un uso e una celebrità inattesi? Il suo let
tore spiazzato, depistato non era tale da sedurre un'ampia cristianità.
La Chiesa antica ha voluto che ci fossero conservati i quattro van
geli. L’indagine narratologica conferma la saggezza di questa scelta, in
grado di radunare l’universalità dei lettori.
Capitolo secondo
ALLA RICERCA
DELLA TRAMA.
UNA LETTURA
DELLA PASSIONE
(MC 14 E LC 22)
Daniel Marguerat
59
dall’inizio fino a quella sezione che è l’ultima avanti che la vicenda mu
ti, volgendo alla buona o alla cattiva sorte; e lo “scioglimento” va dal
l’inizio di questo mutamento fino al termine» CPoetica 1455b, 24-29).1
Aristotele articola la trama attorno a un rovesciamento, che fa pende
re il destino dell’eroe verso la felicità o verso la sventura.
I narratologi hanno ripreso e formalizzato la sua intuizione elabo
rando dei modelli di trama. Oggi il più citato è un modello proposto da
Paul Larivaille, detto schema quinario, perché propone di strutturare
la trama in cinque tappe successive:2
Situazione iniziale
Complicazione (o Nodo)
Azione trasformatrice
Soluzione (o Scioglimento)
Situazione finale.
La complicazione è un «elemento che fa scattare il racconto, che in
troduce la tensione narrativa (squilibrio nello stato iniziale o difficoltà
nella ricerca)».3 Nel manuale di narratologia scritto con Yvan Bour-
quin, abbiamo precisato che «la complicazione rappresenta lo scatta
re dell’azione», e «il detonatore può essere l’enunciazione di una dif
ficoltà, di un conflitto, di un incidente, di un intralcio recato alla solu
zione di un problema».4 Segnalavamo inoltre che non si deve confon
dere la tensione narrativa con la tensione drammatica. «Questa non va
confusa con la tensione narrativa, di cui abbiamo detto essere costitu
tiva della complicazione. Se la tensione narrativa fa scattare il raccon
60
to (complicazione), la tensione drammatica non ha un posto assegna
to nella trama e corrisponde a un’intensità emozionale o pragmatica».5
In altre parole: la tensione drammatica è il risultato di una carica emo
tiva il cui investimento è programmato dal narratore a una fase qua
lunque del racconto, mentre la tensione narrativa dispone di un posto
strutturalmente assegnato: l’avvio della trama fa passare allo sciogli
mento attraverso l’azione trasformatrice.
61
Dove situare il nodo (la complicazione) e, quindi, l’emergere della
tensione narrativa? Si presentano tre possibilità. La prima: il nodo si
verìfica all’arrivo di Gesù nei pressi di Nain e al suo avvicinarsi alla
porta della città ( 7 , l l 1 2 ־a); il suo arrivo costituisce l’avvenimento ca
pace di modificare il corso delle cose. Oppure il nodo si situa nell’in-
crociarsi di due cortei, il corteo funebre che esce da Nain e il gruppo
costituito da Gesù con i suoi discepoli ( 7 , l l 1 2 ־b); questo incrociarsi
simboleggia l’incontro della morte e di una possibilità di vita. Oppure
ancora il nodo è decifrabile nella reazione di Gesù in 7,13, «preso da
grande compassione» (letteralmente: preso nelle viscere) alla vista del
dolore della vedova, della quale portavano alla sepoltura l'unico figlio;
ci sarà azione soltanto a partire dall’emozione che coglie Gesù all'in-
crociarsi della vita e della morte. Come decidere fra queste tre possi
bilità? Quali criteri adottare per determinare con rigore ciò che costi
tuisce una tensione narrativa? Andando più a fondo, qual è la funzio
ne della tensione narrativa alla soglia del racconto?
Questo è il problema col quale dobbiamo confrontarci. Non possia
mo ignorarne l’importanza, poiché dall’identificazione della tensione
narrativa dipende l’innesco del processo trasformatore postulato dal
lo schema quinario. Su questo punto bisogna affinare lo strumento.
Procederemo in due fasi: una di riflessione metodologica, l’altra appli
cativa. Nella prima fase cercheremo di risalire agli antecedenti dello
schema quinario per capire su quale registro narrativo funziona; poi
esporremo i lavori della narratologia detta «post-classica», facendo ve
dere quale spostamento euristico richiede, per fissarci con maggior at
tenzione sulla tensione narrativa. Nella seconda fase (dato che una teo
ria vale soltanto in base alla sua applicazione), utilizzeremo le nozioni
così definite leggendo l'inizio del racconto marciano della passione (Me
14,1-31); la lettura in parallelo di Le 22,1-34 servirà essenzialmente a
mettere in evidenza le scelte narrative di Marco, nella misura in cui
nella sua rilettura di Me 14, il narratore del terzo Vangelo ha optato
spettacolarmente per una nuova costruzione del racconto. Una con
clusione annoderà i fili.
62
scrittivi ed esplicativi possibili».7 Seguendo questo obiettivo essa si è
interrogata sul modello strutturale consono a rendere conto della sin
tassi del racconto nel suo complesso, cioè della sua trama.
63
ra a ricostruire un modello fondamentale, un modello prototipico del
racconto, al quale le narrazioni possono attingere taluni elementi per
costruirsi. La grande quantità di racconti meravigliosi, fiabeschi, viene
così intesa come l’infinita derivazione da un modello archetipico. Così
pure, la trama fu concepita come la sceneggiatura prototipica da cui tut
ti i racconti deriverebbero; costituirebbe uno degli universali trans cul
turali presenti nell’enciclopedia collettiva dei lettori. In tal modo il po
stulato strutturalista si rifarebbe alla nozione aristotelica dell’unità d’a
zione. La ricerca dell’intreccio mirerebbe dunque a mettere a fuoco la
trama invariata sulla quale tutti i racconti del mondo ricamano.
A Claude Brémond va riconosciuto il merito di aver formalizzato
questa struttura unica del racconto.11 A lui si deve la formula triadica:
Possibilità - Passaggio all’atto - Risultato.
Brémond vede nella trama il processo attraverso il quale un’azione
virtuale viene attualizzata, e poi il suo risultato espresso narrativamente.
Questo modello ternario diventa quinario quando Paul Larivaille,
nell’articolo del 1974, lo affianca a monte e a valle con le situazioni ini
ziale e finale trasformate dal processo narrativo.12 La sua adozione da
parte della linguistica testuale, che ne fa uno degli schemi sequenziali
prototipici di organizzazione della testualità,13 ne ha confermato il suc
cesso. La struttura quinaria si è progressivamente imposta come il mo
dello descrittivo standard valido per ogni racconto.14
I II ni
P r im a D u ra nte D opo
Stato iniziale Trasformazione (operata o subita) Stato finale
Equilibrio Processo dinamico Equilibrio
1 2 3 4 5
Provocazione Azione Sanzione
(detonatore)
(innesco)
11 C. B r é m o n d , Logique du récit, Paris, Seuil, 1973; tr. it. La logica del racconto,
Bompiani, Milano 1977.
12 P. L a r iv a il l e , «L’analyse (morpho)logique du récit», in P o étiq u e 19(1974), 368-388.
13 Cf. J.-M. A d a m , L es textes: typ es e t prototypes, A rm and Colin, Paris 22008.
14 Per Io schem a che segue, cf. L a r iv a il l e , «L’analyse (morpho)logique du récit», 387.
64
2.2. Comparsa di una narratologia post-classica
Contro il modello di Larivaille si è levata una critica, che si inseri
sce sulla scia dell’avvento di una narratologia detta «post-classica».
Questa etichetta, proposta da David Herman nel 1997, mette da parte
gli studi anteriori considerati classici.15 Ma dove sta il confine? Lo di
remo per sommi capi: sta nel passaggio dal postulato strutturalista a
un punto di vista più deliberatamente pragmatico, cioè orientato sul te
sto in quanto produzione e sul ruolo del lettore nella ricezione del te
sto. Ecco come lo descrive Gerald Prince:15 «La narratologia classica è
una teoria del racconto di ispirazione strutturalista, dalle ambizioni
scientifiche, che esamina ciò che tutti i racconti e soltanto i racconti
hanno in comune e ciò che permette loro di differenziarsi gli uni dagli
altri. Come suggerisce il suo nome, la narratologia post-classica
non costituisce una negazione, un rigetto, un rifiuto della narratologia
classica, ma piuttosto una continuazione, un prolungamento, un affi
namento, un ampliamento».17
Alle domande della narratologia degli inizi, detta ormai classica
(Che cos’è un racconto? Che cos’è la narratività? Come si organizza?),
la narratologia post-classica aggiunge altre domande che riguardano
l’interazione fra narratore e narratario, la dinamica della narrazione,
il racconto come processo o produzione e non semplicemente come
prodotto, il ruolo del ricettore, ecc. Entrano prepotentemente nel cam
po della riflessione la dimensione comunicazionale del racconto e il
gioco interattivo fra narratore e lettore. In breve, nell’esame del fun
zionamento dei racconti diventa fondamentale la risposta del lettore.18
65
E così la questione della trama è stata ripresa con rinnovato impe
gno da Raphael Baroni, nella sua tesi di dottorato apparsa nel 2007:
La tension narrative. Suspense, curiosité et surprise.19 L’interesse che
essa suscita deriva dal fatto che la sua riflessione si inserisce proprio
là dove abbiamo segnalato sopra la difficoltà, cioè il funzionamento
della tensione narrativa. Seguiamo il filo della sua argomentazione.
cisione del recettore - il tal passaggio utilizza, ad libitum, il singolativo o l’iterativo, il tal
altro passaggio adotta il discorso narrativizzato o il discorso indiretto libero, il tal altro
ancora im plica la coordinazione o la subordinazione - e che la loro soluzione influisce
sul m odo in cui il racconto “fa sen so ” (come pure, ed evidentem ente, sul senso del ra c
conto)» («N arrato logie classique et n arrato logie post-classique», 6).
19 R. B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curiosité e t surprise, Seuil, Paris 2007.
Dello stesso autore: «Histoires vécues, fictions, récits factuels», in Poétique 151(2007),
259-277 e U oeuvre du tem ps. Poétique de la discor dance narrative, Seuil, Paris 2009.
20 R. B o u r n e u f - R. O u e l l e t , U univers du rom an, PUF, Paris 1972, 43; tr. it. L'uni
verso del rom anzo, Einaudi, Torino 2000, 41.
66
vengono trasformati in storia o, correlativamente, una storia è ricava
ta da eventi».21
Mettere in primo piano la tensione costitutiva della trama significa
privilegiare la dimensione comunicazionale del racconto piuttosto che
la sua dimensione composizionale. Infatti la tensione esiste soltanto al
l'interno del rapporto testo-lettore, è un effetto del testo sul ricettore.
La critica sollevata da Baroni nei riguardi dello schema quinario si sof
ferma su questo punto. I narratologi di ispirazione strutturalista, egli
dice, hanno considerato la strutturazione della trama come una logica
immanente dell’azione e non come un effetto del discorso. Hanno eret
to una struttura prototipica ritenuta applicabile a ogni storia raccon
tata. Ora, l'errore consisteva nel pensare «che questa struttura se
quenziale riguardasse il divenire di un ,azione (livello immanente del
la storia) e non il divenire di un discorso su questa azione (livello ap
parente della trama)».22 La strutturazione sequenziale del racconto
non riflette prioritariamente una logica dell’azione; essa dipende anzi
tutto dalla testualizzazione di questa azione e dalla sua influenza sul
lettore.23 Quindi la coppia complicazione-soluzione non dipende più
necessariamente dalla concatenazione cronologica e causale dei fatti,
ma da un effetto testuale mediante il quale il racconto sollecita il letto
re e agisce su di lui. Si tratta quindi di adottare un concetto di trama
«che vede in quest’ultima una struttura effettiva del testo soltanto nel
la misura in cui essa si trova inserita in una relazione interlocutiva»,24
cioè nel rapporto dialogico che si crea fra il testo e il lettore.
L’interesse del ricercatore tende così a fissarsi sul potenziale dialo
gico della costruzione della trama, un potenziale che consiste nella ge
stione di una tensione innescata dalla tappa della complicazione e al
lentata dalla soluzione. Qui si coglie bene il passaggio, segnalato sopra,
da una narratologia piuttosto strutturalista (o, se si preferisce, classi
ca) a una narratologia post-classica, imperniata sul fenomeno della ri
cezione del testo.
67
Ma che ne è di questa famosa tensione narrativa? Baroni la defini
sce come «il fenomeno che si verifica quando l’interprete di un raccon
to è incoraggiato ad aspettarsi una soluzione, dato che questa attesa è
caratterizzata da un’anticipazione colorata di incertezza che conferisce
tratti emotivi all’atto di recezione».25 La forza della trama non sta dun
que nella sua forma, ma nella sua capacità di creare nel lettore un oriz
zonte di attesa, che essa, secondo il caso, soddisferà o deluderà. La tra
ma è costituita dalla tensione creata, e poi risolta. Con un gioco di pa
role,26 possiamo affermare che la forza della trama {ìntrìgue) dipende
dalla sua capacità di incuriosire (,intriguer). Ma come si muove il nar
ratore per incuriosire il lettore, per farlo entrare nella trama? Baroni
insiste sul procedimento di «reticenza informativa», col quale il narra
tore innesca nel lettore un’attesa impaziente; questa reticenza infor
mativa può concretizzarsi attraverso il procedimento del ritardo infor
mativo, o del non-detto, dell’ambiguità, della discontinuità, ecc.27
La marchiatura testuale della tensione narrativa è fatta da queste
differenze di grado di conoscenza (o «differenze epistemiche») con le
quali il narratore trattiene l’informazione alla quale il lettore aspira.
L’impazienza creata in questo modo nel lettore può assumere tre for
me, che Meir Sternberg aveva già a suo tempo [1978] classificato: la
suspense, la curiosità o la sorpresa.28 Queste tre forme corrispondono
alla funzione «timica» del racconto - con la quale indichiamo gli effet
ti poetici di natura emozionale o affettiva inerenti all’atto di lettura.29
La funzione timica agisce sul lettore innescando quella che Umberto
Eco chiama la sua «cooperazione interpretativa».
Il testo, soprattutto nella fase di complicazione, viene infatti visto
come un’entità generatrice di trame virtuali. NelTinnescare una ten
sione nel lettore facendogli anticipare una pluralità di trame virtuali, il
68
racconto intrattiene questa tensione facendo attendere la soluzione, o
prospettando l’incertezza, e poi assicurando un determinato esito a
scapito di un altro possibile. Ecco come Baroni descrive la successio
ne della complicazione, del ritardo e della soluzione: «1. La complica
zione produce un interrogarsi che agisce come un detonatore della ten
sione. Che tale interrogarsi sia legato a una prognosi o a una diagno
si della situazione narrativa, l’interprete è portato a identificare una in
completezza provvisoria del discorso che può essere verbalizzato sot
to la forma di interrogazioni diverse del tipo “Cosa capiterà?”, "Cosa
succede?” o “Cos’è avvenuto?”.■[...] 2. Il ritardo (indicato talvolta con
le espressioni “differenza”, “sviluppo dilatorio”, “reticenza testuale”,
“catalisi” o “tmesi”) configura la fase di attesa durante la quale \'in
certezza si accompagna all’anticipazione della soluzione attesa. [...] 3.
Infine, la soluzione fa sopraggiungere la risposta che il testo offre al
l'interrogazione dell’interprete, e questo scioglie la tensione: l’antici
pazione (sotto forma di prognosi o di diagnosi) viene allora o confer
mata o invalidata e, in quest’ultimo caso, una sorpresa può introdur
re una totale rivalutazione della sequenza».30
Dato che la soluzione si vede assegnare il ruolo di rispondere alle
domande che la complicazione pone al lettore, la coppia complicazio
ne-soluzione è vista in ima dinamica di lettura piuttosto che essere fos
silizzata in una costruzione simmetrica nell’interno della configurazio
ne narrativa. Ma soprattutto, davanti allo schema quinario, diventa
preponderante la comprensione della complicazione: la complicazione
del racconto genera nel lettore incertezza, imbarazzo, domande, per
ché fa nascere la possibilità di molteplici soluzioni, fra le quali alla fi
ne il racconto generalmente ne seleziona una soltanto.
69
modo esso coincide con l’attesa del lettore davanti al racconto. La sua
applicazione sistematica a ogni racconto tende piuttosto a ridursi a un
esercizio scolastico di delimitazione delle fasi della storia raccontata.
Con il rischio di dimenticare l’aspetto pragmatico del racconto e la pre
stazione interpretativa che la sua organizzazione richiede dal lettore.
In secondo luogo, un’attenta osservazione sulla fase della compli
cazione mostra che la sua funzione pragmatica è decisiva nella comu
nicazione narratore-narratario; infatti, la complicazione non mira sol
tanto a mettere in scena una ricerca o un conflitto, ma intende con
durre il lettore a interrogarsi sui possibili sviluppi di una ricerca o di
un conflitto. La tensione narrativa così costruita toglie la costruzione
della trama dal livello strettamente compositivo esercitando i suoi ef
fetti al livello comunicativo. Come dice Johanne Villeneuve, «la nozio
ne di trama permette di legare la favola al discorso, la capacità for
male agli effetti di lettura, l’azione agli effetti retorici, per non dire al
la retorica delle forme. Permette di accogliere sotto uno stesso deno
minatore concettuale l’azione e il desiderio narrativo».31 È così evi
denziata la dimensione cognitiva ed emozionale (funzione «tùnica»)
dell'atto di lettura.
In terzo luogo, a differenza dell’approccio classico alla trama, ba
sato sull’identificazione delle proprietà immanenti del racconto, l’ap
proccio post-classico s’interessa di ciò che la costruzione della trama
produce nella ricezione del testo. La tensione narrativa appare come
«la parte energetica della trama»,32 che le conferisce forza e vigore fa
cendo sorgere nel lettore un orizzonte di aspettativa che sarà soddi
sfatta, adempiuta con sorpresa o frustrata dalla soluzione. Dunque non
è più unicamente la trama azionale del racconto che viene presa in
considerazione, ma le trame virtuali generate dal racconto e che la
complicazione fa immaginare al lettore.
70
3. Percorsi di Me 14,1-31 e Le 22,1-34
Diamo ora una scorsa alla sequenza di Me 14,1-31 tenendo presen
ti le seguenti domande: com’è costruito ciascun episodio? Come proce
de il narratore nella costruzione della trama? Quale effetto sul lettore è
percepibile? Dove possiamo cogliere la dimensione dialogica del rac
conto? Il parallelo di Le 22,1-34 servirà da contromodello al racconto
marciano, in quanto rappresenta una diversa gestione della trama.
M e 14 Le 22
(segue)
71
M e 14 Le 22
10E G iuda Iscario ta, u n o d ei D odici, si 3E S a ta n a e n trò in G iuda d etto Isc a rio
recò d a i so m m i sa c e rd o ti p e r c o n se ta, che e ra d el n u m e ro d ei Dodici, 4e,
g n arlo loro. 11E ssi, all’u d irlo , si ra lle e sse n d o si a llo n tan a to , p a rlò co n i so m
g ra ro n o e p ro m ise ro di d a rg li d el d e m i sa c e rd o ti e i c o m a n d a n ti della g u a r
n a ro . E c e rc a v a com e a l m o m en to fa d ia su l m o d o d i co n se g n a rlo a loro. 5E d
vorevole co n seg n arlo . essi si ra lle g ra ro n o e c o n c o rd a ro n o di
d a rg li del d e n a ro . 6Egli accettò e ce rc a
va u n ’occasio n e favorevole p e r c o n se
g n arlo a loro di n a sc o sto d alla folla.
(segue)
72
M e 14 Le 22
(seguej
73
M e 14 Le 22
26E, can ta ti i salm i, usciro n o v erso il 33Egli gli disse: «S ignore, con te sono
m o n te degli Ulivi. 27E G esù d isse loro: p ro n to a d a n d a re a n c h e in p rig io n e,
«Tutti voi sa re te scan d alizzati, p e rc h é è a n c h e alla m o rte » . 34M a gli disse: «Pie-
stato scritto: P ercu o terò il p a sto re e le . tro , ti dico che il gallo n o n c a n te rà og
p eco re s a ra n n o disp erse. 28M a dopo es gi p rim a che tu , p e r tre volte, a b b ia n e
sere stato risvegliato, vi p re c e d e rò in g ato di co n o scerm i» .
Galilea». 29Pietro gli disse: «A nche se
tu tti s a ra n n o scan d alizzati, alm en o n o n
io!». 30E G esù gli disse: «In v e rità io ti
dico che tu, oggi, q u esta ste ssa n o tte,
p rim a che il gallo can ti d u e volte, tu m i
rin n e g h e ra i tre volte». 31M a egli diceva
più forte che m ai: «A nche se d ovessi
m o rire con te, n o n ti rin n e g h erò » . E a n
che tu tti gli altri dicevano lo stesso .
74
vanti al Sinedrio. 14,1-31 assume dunque un ruolo di prologo narrati
vo alla cattura e al giudizio di Gesù.33
L’osservazione della costruzione narrativa della sequenza fa perce
pire una coerenza voluta dal narratore. Infatti constatiamo la presen
za di un dispositivo strutturale di cui Marco fa largo uso, dato che qui
lo troviamo per la sesta volta dall’inizio del macro-racconto:34 la co
struzione dell’incastonatura narrativa, detta sequenza a «sandwich»,
nella quale un filo narrativo viene interrotto da una scena mediana e
ripreso al termine di questa. Prima incastonatura ai w. 1-11: la ricer
ca dei sommi sacerdoti e degli scribi ai w. 1-2, come uccidere Gesù
(«cercavano come [...] ucciderlo» lb), termina ai w. 10-11 («cercava
come consegnarlo» llb ). La scena incastonata è l’unzione di Gesù in
casa di Simone il lebbroso (w. 3-9). Dopo il passo di transizione dei w.
12-16, dedicato alla preparazione dell’ultima cena, troviamo una se
conda incastonatura ai w. 17-31: ai w. 17-21, una predizione di Ge
sù («uno di voi [. ]״mi consegnerà» 18b) è seguita da un interrogato-
rio collettivo fra i discepoli (19); ai'vv. 26-31, una predizione di Gesù
(«tutti voi sarete scandalizzati» 27a) è seguita da un diniego collettivo
dei discepoli (31b). La scena incastonata ai w. 22-25 è l’ultima cena.
Sul registro compositivo, la ricorrenza del medesimo dispositivo strut
turale segnala che alla trama viene conferita una struttura forte. Inol
tre, notiamo che una inclusione chiude la sequenza: le due scene in
castonate (w. 3-9 e 22-25) trattano entrambe della cena e del corpo di
Gesù, profumato e spezzato, sull’orizzonte di una morte annunciata.
Nella trama di incastonatura, si dispiega un gioco di interazione fra
la scena esterna e la scena interna; ma avanziamo l’ipotesi che la sce
33 Ci possiam o chiedere se l’episodio della veglia di preg h iera al G etsem ani (14,32-
42) non dovesse essere integrato nella sequenza del prologo narrativo. Quattro fattori ci
inducono a p ensare che la cesura n arrativ a passa fra 31 e 32 più che fra 42 e 43: a) 32
segna un netto cam biam ento di luogo; b) la clausola k a i euthus («e subito») in 43a lega
cronologicam ente 42 e 43; c) il tem a delle predizioni (1-31) non prosegue in 32-42, m a
lascia il posto alla collocazione di Gesù davanti alla m orte im m inente; d) un gioco di in
clusione tem atica (cena e corpo di Gesù) unisce le due scene incastonate (3-9 e 22-25).
34 Cf. M e 3,20-35 (episodio incastonato: 3,22-30); 4,1-20 (4,10-13); 5,21-43 (5,25-
34); 6,7-30 (6,14-29) e 11,12-21(11,15-19); il procedim ento riap p are a valle della n o stra
sequenza: 14,53-72 (14,55-65) e 15,40-16,8 (15,42-46). A tal proposito si veda M a h g u e -
r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione a ll‘analisi narrativa, Boria, Ro
75
na incastonata funzioni come chiave ermeneutica del dispositivo nar
rativo. Il racconto incastonante è come imo scrigno che fa risaltare
l’importanza del racconto interno. Allora possiamo chiederci: Nella
struttura appena descritta, come si costruisce la tensione narrativa?
Come si orchestra la relazione dialogica narratore-narratario?
La comparazione con il racconto di Luca è tanto più interessante in
quanto ha de costruito il dispositivo compositivo marciano.35 L’equiva
lente di Me 14,3-9 (l’unzione in casa di Simone) si legge in Le 7,36-50.
La predizione della consegna di Gesù (Me 14,17-21) è spostata dopo la
cena in Le 22,21-23. È abitudine del narratore Luca riorganizzare il
racconto marciano evitando il sovrapporsi di trame, al fine di ottene
re un decorso narrativo lineare. Lungi dal limitarsi a un rimaneggia
mento letterario, le sue decisioni, come vedremo, sono cariche di si
gnificato teologico.
35 C ontrariam ente a u n ’opinione diffusa, com binare risultati della critica storica con
u n ’analisi narrativ a non è affatto illecito, purché non si confondano le p rocedure a ttra
verso le quali i risultati sono ottenuti. Così, postulare un n a rra to re Luca che rilegge e ri
scrive il racconto di Marco perm ette di articolare le loro decisioni narrativ e senza lim i
tarsi a giustapporle. Invece, v alutare diversam ente gli elem enti del racconto in funzione
del lavoro della critica delle fonti sareb b e u n a sconvenienza epistemologica.
76
situazione: nel contesto festivo e pasquale, i capi dei sacerdoti nutrono
un progetto di morte. Come potrà essere attuato? Il lettore viene la
sciato nella più totale aspettativa: tutti gli scenari sono possibili.
Senza transizione, il racconto passa a tutt’altro luogo (w. 3-9): nel
l’intimità della casa di Simone. Una donna anonima cosparge di profu
mo la testa di Gesù. Prima del capitolo 13, in 12,41-44, un’altra donna
anonima aveva attirato l’attenzione di Gesù: la vedova venuta a porta
re il suo minuscolo obolo per il Tempio. Gesù si era estasiato davanti a
questa donna che si era privata anche di quel poco che le restava per
vivere. Qui passiamo dalla penuria estrema all'eccesso: un vaso di ala
bastro, del nardo puro, un profumo assai costoso (v. 3b). Il narratore
abbonda di epiteti, esaltando il dono per esprimere la straordinarietà e
stravaganza del gesto. Nulla è detto delle motivazioni della donna. Qui
cogliamo l’emergere della seconda complicazione: perché questo gesto
extra-ordinario? Qual è il suo significato? Che intenzione esprime?
L’azione trasformatrice è riferita con grande sobrietà. La formula
zione è fattuale: «Ella ruppe il vaso di alabastro e versò sulla testa» (v.
3c). A partire dal v. 4, il racconto è focalizzato sul significato da attri
buire a questo gesto. Un conflitto interpretativo si svolge fra «alcuni»
che si indignano (v. 4a) e Gesù che, in ima lunga dichiarazione, vuole:
a) proteggere la donna: «Lasciatela, perché le date fastidio?» (v. 6a);
b) affermare che: «Ha compiuto un’azione buona verso di me» (v. 6b);
c) legittimare la qualifica del suo gesto: w. 7-8, introdotti in 7a dalla
congiunzione gar {perché, infatti). Dal punto di vista dello schema qui
nario, siamo allo stadio della soluzione. A questo punto la tensione do
vrebbe allentarsi; accade invece il contrario: proprio qui tutto si com
plica! Tocchiamo con mano la funzione timica del racconto.
Di che cosa si è alimentata la tensione narrativa? Alcuni (v. 4) qua
lificano il gesto di unzione come «spreco di profumo».36 La formula
zione è violenta. Lo «spreco di profumo» («Perché questo spreco di
profumo ha essa fatto?» v. 4) fa eco al verbo apollumi, utilizzato in
11,18 per descrivere la ricerca dei sommi sacerdoti, desiderosi di far
perire (o perdere) Gesù. Jean Delorme si è mostrato sensibile a questa
36 La TOB traduce male: «A che prò p erd ere così questo profum o?». Tradotto lette
ralm ente, il greco dice: «In vista di che questa p erd ita di profum o?». La form ulazione è
n ettam ente più secca.
77
eco linguistica; dando un bel significato alla formula, egli parla di «pro
fumo perso per un corpo perso».37 Il dibattito non avviene per deter
minare se si tratta di una perdita o no; la perdita è fuori discussione.
La questione è: con quale finalità questo gesto, screditato come perdi
ta, è stato compiuto? D’un tratto, il valore investito - che il v. 3 defini
va in termini di preziosità inestimabile - è mercificato, quantificato: il
profumo poteva essere venduto per 300 denari (v. 5a). Inoltre, viene
menzionata un’altra destinazione: il dono ai poveri (v. 5a). L’esercizio
è fittizio, dato che il profumo è stato versato;38 ma questa finzione di
rimprovero penalizza doppiamente il gesto della donna, denigrato da
una parte perché considerato uno spreco, dall’altra perché qualificato
come un’occasione mancata di opera buona.
Gesù si oppone a questo discredito. Questo è l’oggetto dei w. 6-7.
Dopo aver protetto la donna («Lasciatela...» 6a), rivendica anzitutto
per il suo gesto la qualifica di «opera buona» {kalon ergon 6b). In se
condo luogo elimina la concorrenza con un’altra «opera buona», met
tendo in contrapposizione la permanenza della presenza dei poveri
con la precarietà della propria presenza («ma non avete me per sem
pre» 7b). In terzo luogo, fa sorgere un possibile significato al suo ge
sto metaforizzandolo (v. 8). L’imbalsamazione del suo corpo, che del
resto non avrà luogo per l’assenza del corpo, viene anticipata con que
sto gesto che costituisce l’unzione. Gesù valorizza un gesto che antici
pa sia il tempo (la sua morte) sia lo spazio (la sua tomba). Contro una
logica di redditività morale (il dono ai poveri), che egli non intende
escludere, fa presente un’altra logica che appartiene alla temporalità:
78
la precarietà della propria presenza. Affermare la permanenza della
presenza dei poveri non è un aforisma né un sarcasmo, ma ima remi
niscenza di Dt 15,11 («I poveri non mancheranno mai nel paese»).
A questo effetto di intertestualità va aggiunto un effetto di intrate-
stualità: in 12,44, la donna dell’offerta al Tempio ha dato «tutto quel
lo che aveva»; della donna in casa di Simone il lebbroso Gesù dice che
«ha fatto ciò che era in suo potere» (8a). Da una parte e dall'altra di
Me 13, si trovano faccia a faccia due averi: da un lato (12,41-44), un
avere miserabile offerto è sopravvalutato da Gesù, perché rappresen
ta «tutto ciò che essa aveva per vivere»; dall’altro lato (14,3-9), un ave
re dispendioso viene sopravvalutato, perché dà senso alla morte im
minente. Nel lettore nasce la perplessità: in quale momento si tratta di
applicare la logica della redditività e la morale dell’assistenza ai pove
ri e in quale momento sospendere questa logica in nome dell’impera
tivo della presenza di Gesù? L’interrogativo non è risolto, ma al con
trario acuito dal v. 9.
Il v. 9 fa saltare i confini temporali e geografici del racconto esal
tando la memoria di questo gesto a segno di enunciazione del macro-
racconto nel mondo intero. Il procedimento di racconto speculare o di
«mise en abyme»39 è netto: il gesto della donna fa capire l’enunciazio
ne del macro-racconto, dal momento che annuncia come un evangelo
(una buona notizia) la morte imminente di Gesù. L’unzione in casa dì
Simone fa capire che questa morte è donatrice di vita.
Ai w. 10-11 si ritorna alla scena iniziale. Si tratta di un ritorno al
desiderio di morte dei sommi sacerdoti, di cui Giuda si fa mediatore,
con conseguente loro gioia (v. Ila ). Ma è anche un ritorno - da allora
il racconto è andato avanti - alla logica pecuniaria: c’è una promessa
di denaro. Siamo giunti allo stadio della soluzione della prima compli
cazione. La modalità ricercata viene trovata non grazie ai loro sforzi,
ma grazie all’iniziativa di Giuda. In situazione finale, l’esitazione dei
sommi sacerdoti sul momento favorevole (segnalata al v. 2) viene tra
sferita su Giuda ed egli se ne fa carico; d’ora in poi è Giuda che cerca
39 Sul procedim ento di «racconto speculare o replica m iniaturizzata del racconto nel
racconto» [«mise en abym e», secondo il term in e coniato da A. Gide), inclusione n a rr a
tiva con la quale si riprend e il ,racconto p o rtan te e il suo significato, cf. M a r g u e r a t - Bour-
q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all'analisi narrativa, 118-120.
79
come consegnarlo «al momento opportuno», sapendo che questo mo
mento felice affretterà l’arrivo della morte.
Quale bilancio possiamo trarre da questa lettura?
Nell’insieme della sequenza dei w. 1-11, a poco a poco è apparsa
una simmetria invertita, intessuta da vari fili narrativi. Da una parte,
si producono due reazioni contrarie: la gioia dei sommi sacerdoti da
vanti all’offerta di Giuda e la non-gioia dei discepoli che circondano Ge
sù alla vista del gesto della donna. Dall’altra parte, il denaro gioca due
ruoli opposti: serve a dire l’evangelo sul corpo di Gesù e serve a stru
mentalizzare il tradimento di Giuda. Infine, sono posti a confronto due
luoghi simbolici, dai valori totalmente sovvertiti: la casa di Simone il
lebbroso è un luogo di impurità dove viene annunciato anticipatamen
te l’evangelo, mentre il «luogo» dei sommi sacerdoti, spazio di santità,
si rivela pronto a fomentare la morte.
Sul piano della storia raccontata, la costruzione a trama incasto
nata ha introdotto un’inversione delle figure. Quelli che dovrebbero es
sere santi cercano la morte di Gesù. Gli intimi di Gesù sbagliano logi
ca o [via Giuda) diventano mediatori del progetto di morte. Una don
na anonima, con un gesto del tutto incongruo, pone un atto significa
tivo dell’evangelo in quanto tale.
Sul piano timico, attraverso queste molteplici inversioni, le aspet
tative del lettore sono state disattese e i suoi interrogativi restarlo sen
za risposta. Perché la donna si accinge a ungere Gesù con così tanta
stravaganza? Quando va individuato il «momento opportuno» in cui
sospendere l’aiuto ai poveri?40 Perché Giuda offre ai sommi sacerdoti
il modus operandi del loro complotto? Quanto Baroni dice a proposito
della reticenza informativa come mezzo per nutrire la tensione narra
tiva si applica particolarmente bene al narratore Marco: egli ne parla
80
così poco che il suo racconto precipita il lettore nella perplessità. Tan
to più che, come abbiamo visto, i valori attesi vengono sovvertiti dal
l’inversione delle figure. In breve, il racconto di Marco crea tante in
certezze quante sono le informazioni che dà.41
Questa caratteristica del racconto marciano diventa tanto più rile
vante quando lo mettiamo a confronto col racconto di Luca, che si ri-
fà a una gestione narrativa totalmente diversa. Come abbiamo già no
tato, Le 22 non presenta un equivalente del racconto dell'unzione. I w.
1-6 offrono però un parallelo al racconto incastonante di Me 14,1-2.10-
11. Le differenze in rapporto a Marco sono notevoli. La ricerca da par
te dei sommi sacerdoti e degli scribi sul mezzo per far morire Gesù vie
ne spiegata dal fatto «che temevano il popolo» (Le 22,2b). Questo cor
risponde all’offerta di Giuda di consegnar loro Gesù «di nascosto dal
la folla» (Le 22,6). Luca focalizza più nettamente sulla competenza di
Giuda, che offre ai sommi sacerdoti il saper-fare e il poter-fare che a
loro manca. Ma soprattutto, il narratore spiega l’iniziativa del disce
polo col fatto che «Satana entrò in Giuda» (Le 22,3). L’irruzione di que
sto elemento esterno nella cerchia dei protagonisti fa della passione il
luogo di un combattimento fra Dio e il Male, e qualifica di colpo l’al
leanza dei sommi sacerdoti con Giuda che diventa un’alleanza con Sa
tana. Così pure si dà una risposta all’interrogativo: perché Giuda tra
disce? Ci accorgiamo che Luca ha colmato con cura il non-detto del
racconto di Marco, riducendo le zone d’incertezza, dando informazio
ni al lettore. In compenso, l’inserimento di Satana nella trama narra
tiva drammatizza l’evento.
42 II testo (14,13b) h a anthrópos, che può significare «qualcuno» (ris), e non anèr
che indicherebbe esplicitam ente un m aschio: m a sarebbe del tutto insolito designare im a
donna con anthrópos.
43 J . G n il k a non dà im portanza all’anom alia sociale della p resen za di un uomo che
p o rta una brocca d’acqua e insiste sulla b an alità quotidiana della scena {Marco, Citta
della, Assisi 1987, 763). Invece il fatto è posto in rilievo da S: L é g a s s e : «Per il narrato re,
questo incontro non può quindi essere classificato fra le b analità della tra d a che tutti
possono aspettarsi: si tra tta sen z’altro di una previsione che Gesù deve alla sua scienza
soprannaturale» (L’É vangile de M arc, Cerf, Paris 1997, II, 858; tr. it. M arco, Boria, Ro
m a 2000).
82
3.4. Me 14,17-31: la comunità dell’assente
In questo passo più che il racconto eucaristico come tale (che eser
cita sugli esegeti un potere d’attrazione fenomenale) ci interessa la
struttura della trama. Richiamiamo la sua costruzione a incastro: pre
dizione di Gesù sul tradimento (w. 17-21) - ultima cena (w. 22-25) -
predizione di Gesù sulla caduta dei discepoli (w. 26-31). Ora proprio il
dispositivo di costruzione della trama è sintomatico, perché il racconto
dell’ultima cena, che per i primi lettori di Marco rinvia a una memoria
del pasto di Gesù e a una pratica liturgica nota, è un racconto differito.
Analizziamo il testo per mettere a confronto ciò che accade in Lu
ca. Il suo racconto presenta una continuità pragmatica: i preparativi
(Le 22,7-13) sono immediatamente seguiti dal racconto del pasto (Le
22,14-20). È anche possibile cogliere un’ellissi tra 22,13 (la prepara
zione della Pasqua) e 22,14 (l’ora di mettersi a tavola); il racconto sal
ta senza transizione dall’ima all’altra.
Marco, da parte sua, ha introdotto un effetto-ritardo. Fra i prepara
tivi e la cena viene intercalato l’annuncio che uno dei dodici lo tradirà
(w. 17-21). Marco costruisce in tal modo una commensalità, un man
giare insieme, che integra di colpo la prospettiva delTanonimo tradi
mento. La tristezza44 s’impadronisce dei discepoli, e ciascuno s’inter
roga: «Sono forse io?» (v. 19). Si noti che la clausola interrogativa «for
se io?» in greco regge una risposta negativa.45 La commensalità che si
costituisce è dunque ferita al proprio interno. Il v. 20 insiste in modo ri
dondante: «Uno dei Dodici, che mette con me la mano nel piatto». La
menzione dell’appartenenza ai dodici designa la cerchia intima. La for
mula mettere la mano con me nel piatto si rifa a Sai 41,10, dove desi
gna la disgrazia somma: colui che condivide il pane con il salmista an
che alza il suo piede contro di lui.
L’effetto di annuncio scatena la tensione narrativa (prima compli
cazione). Con questa predizione anonima, Gesù non stigmatizza un in
83
dividilo proteggendo il gruppo dal sospetto; al contrario, infiltra il so
spetto nel gruppo. Con questa reticenza, che conferisce alla parola di
Gesù un carattere enigmatico, viene risvegliata in ciascuno dei dodici
la potenzialità del tradimento, e questo li induce a chiedersi «uno do
po l’altro: “Sono forse io?”» (v. 19).46 Gesù sta per ritualizzare la con
divisione del pane e del vino con un gruppo reso insicuro - in ogni ca
so un gruppo all’interno del quale è stata iscritta la partecipazione al
l’opera di morte, senza ridimensionarla con l’indicazione del tradito
re. La costruzione di questo gruppo acquista significato nella misura
in cui essa non può non ricadere sul lettore. Anch’egli partecipa a que
sto rito nel quale si fa memoria dell’ultima cena di Gesù. Il modello di
commensalità che gli è dato non è una cerchia impeccabile, ma una
cerchia peccabile, dove la colpa è oscuramente presente.
Lo statuto del tradimento è tuttavia inquadrato, notiamolo (v. 21).
La violenza fatta al Figlio dell’uomo è conforme alle Scritture, e dun
que al disegno di Dio; non si tratta di un accidente al quale Dio sareb
be estraneo. Inoltre, «ma che sventura per quell’uomo, dal quale il Fi
glio dell’uomo viene consegnato!» (2la). Il «che sventura» (ouai) non
introduce una maledizione, ma un lamento funebre; l’individuo attra
verso il quale si svolge il dramma vede la propria azione posta sotto il
segno della disperazione e della morte. La tensione narrativa innesca
ta dall’annuncio del tradimento viene a trovarsi rafforzata.
Ai w. 22-25, l’ultima cena dà luogo a un’interpretazione della mor
te di Gesù con la metaforizzazione del pane spezzato e della coppa con
divisa. Questa metaforizzazione:
a) opera sotto il segno del dono, di cui Gesù è l'iniziatore (ricor
renza di «diede loro»: w. 22a.23a);
b) annuncia l’espansione della commensalità futura («Questo è il
mio sangue dell’alleanza, versato per molti»: v. 24b);
c) instaura un regime di assenza di Gesù sotto l’orizzonte del Re
gno futuro («mai più berrò del prodotto della vite fino al giorno in cui
io lo berrò nuovo nel Regno dì Dio»: v. 25).
Così, anticipando l’evento della crocifissione, Gesù offre ai suoi di
scepoli una lettura della propria morte sotto il segno di un dono fon
46 D.P. S e n i o r , The Passion o f Jesu s in thè Gospel o f M ark, Liturgical Press, Colle-
geville 1991, 53; tr. it. La passione di Gesù n e l Vangelo di M arco, À ncora, Milano 1988.
84
datore di alleanza. Insistiamo sul fatto che, contrariamente alla lettu
ra classica di questo passo, la parola che metaforizza non è pronun
ciata sul pane e sulla coppa, ma sul pane dato e ricevuto e sulla cop
pa alla quale tutti hanno bevuto. Proprio nella condivisione degli ele
menti la morte futura acquista pieno significato.
I w. 26-31 si riallacciano con il tema dei w. 17-21 esprimendo in
successione una cascata di predizioni: tutti saranno scandalizzati, Ge
sù precederà i suoi in Galilea, Pietro rinnegherà Gesù.
In relazione ai w. 17-21, dove veniva predetto il tradimento di uno
solo, qui si prospetta il destino di tutti. Il termine tutti, del resto, lo tro
viamo tre volte, ripreso da tre locutori diversi. Lo annuncia per primo
Gesù: «.Tutti rimarrete scandalizzati» (v. 27a). Poi è Pietro che confer
ma, ma per prospettarlo escludendo se stesso: «Anche se tutti si scan
dalizzeranno, io no!» (v. 29). Infine troviamo il narratore che com
menta l’unanimità del gruppo nel rifiuto di tale predizione: «Lo stesso
dicevano pure tutti gli altri» (v. 31b). Questa insistenza sulla totalità in
troduce la seconda complicazione della sequenza, portando la tensio
ne narrativa al parossismo: tutti sono stati beneficiari del dono e tutti
stanno per venir meno. Il tradimento di Giuda si profila come la pun
ta estrema di una caduta che coinvolge la partecipazione di tutti.
Dove situare la soluzione? Si profila discretamente, posto fra l’an
nuncio della caduta di tutti (v. 27) e il disconoscimento di Pietro, che
sarà confutato dalla predizione del suo rinnegamento (w. 29-31). L’an
nuncio della caduta di tutti è supportato da una citazione di Zc 13,7:
«Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse»; ancora una vol
ta gli avvenimenti, pur drammatici, non sfuggono al piano di Dio atte
stato dalla Scrittura. Ma soprattutto, Gesù ritorna su questa predizio
ne aggiungendone un’altra: «Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò
in Galilea» (v. 28). Il verbo proagein («camminare davanti»), significa
sia precedere sia guidare.41 Per la prima volta nel Vangelo di Marco,
l’annuncio della risurrezione non è una risposta alla morte di Gesù, ma
una via d’uscita offerta ai discepoli dopo la loro defezione.48 Allo sban
85
damento dei discepoli seguirà un «dopo». Dopo l’aumento della ten
sione creata dal «tutti», occorre dunque parlare di una soluzione. Ma
il racconto, anziché concludersi su questa soluzione tranquilla, si fa più
vivace con la dichiarazione di Pietro, che prospetta tutti i tradimenti a
esclusione del proprio; Pietro si chiama fuori dal «tutti» proclamando:
«Io no!» (v. 29). Appena enunciata, la soluzione è dunque bloccata dal
rifiuto di Pietro - un impegno che poi non manterrà. Qui troviamo una
struttura tipicamente mar ciana, prossima al malinteso, che la reazio
ne di Pietro al primo annuncio della passione illustra molto bene (Me
8,31-33). Come Pietro aveva rimproverato Gesù in seguito all’annun
cio della sua morte (Me 8,32), così egli qui rifiuta la possibilità del suo
venir meno, portando con sé il rinnegamento di tutti.
Riassumendo, la costruzione della trama mediante incastro in
14,17-31 non procede attraverso inversione delle figure come in pre
cedenza, ma attraverso intensificazione della tensione narrativa. In un
primo tempo, l’anonimato mantenuto circa il traditore fa circolare il
sospetto all’interno del gruppo. In un secondo tempo, la caduta e l’ab
bandono di Gesù si profilano come il destino di tutti i discepoli. Ma an
ziché profilarsi la soluzione attraverso lo splendore pasquale che so
praggiunga portando l’atteso conforto, Pietro e i suoi compagni con
trappongono un diniego alla predizione del Maestro. L’orizzonte di Pa
squa è un orizzonte contrastato. Al lettore resta l’impressione di un
dialogo mancato, dove Gesù non viene creduto quando annuncia la de
fezione dei suoi, e rimane inascoltato quando afferma che questa de
fezione non è l’ultimo atto della loro relazione. La promessa di prece
derli in Galilea rimane come una parola campata in aria.
Posto a confronto, il testo di Luca (22,14-34) trasforma la scena del
la cena in scena di addio, dove tutto si svolge su iniziativa di Gesù. Già
in Le 22,8, trattandosi dei preparativi della Pasqua, potevamo rilevare
la medesima piega: il Gesù lucano dispone, mentre in Marco i disce
poli propongono.49 La focalizzazione sull’iniziativa di Gesù appare in
22,15 attraverso un marcatore enunciativo forte: «Ho tanto desidera
to mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione». Il nar
49 Me 14,12: «[...] i suoi discepoli gli dicono: “Dove vuoi che andiam o a fare i p re
parativi perché tu possa m angiare la P asq u a?»״. Le 22,8: «[...] Gesù m andò Pietro e Gio
vanni dicendo: “A ndate a p re p a ra re p er noi la Pasqua, perché la m angiam o”».
86
ratore ha usato una parafrasi ebraica intensiva (letteralmente: «ho de
siderato con un desiderio») per esprimere l’ardente desiderio di Gesù
nell’imminenza del suo patire.50 La temporalità è delimitata da un du
plice riquadra: mangiare questa Pasqua ha luogo nell’imminenza di
una sofferenza che sta per venire, ma anche sotto l’orizzonte del Re
gno di Dio («Perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si
compia nel regno di Dio», 22,16). La cena è annunciatrice di un’as
senza in prospettiva escatologica. Viene ritagliato e preservato uno
spazio che dà senso all’assenza.
Come in Marco, l’identità di colui che consegnerà il Figlio dell’uo
mo resta nascosta, scatenando in seno al gruppo dei discepoli un in
terrogarsi a vicenda (22,21-23). Questa menzione inaugura quello che
si suol chiamare un discorso di addio, che amplifica il racconto dell’ul
tima cena e va dal v. 21 al v. 34. Queste ultime parole di Gesù ai disce
poli sono consacrate al tema della grandezza di colui che serve e al
l’annuncio delle prove future. Sono interamente rivolte al destino dei
discepoli. Questi sono gratificati come coloro che hanno «perseverato
con me nelle mie prove» (22,28) e siederanno in trono con Gesù a giu
dicare le dodici tribù d’Israele (22,30). Ma sono anche esposti alle pro
ve di cui Satana è l’istigatore: «Satana vi ha cercati per vagliarvi come
il grano» (22,31). Simon-Pietro, il cui rinnegamento viene predetto do
po che egli ha assicurato di voler andare fino alla morte per il suo mae
stro (22,33-34), riceve prima la più bella delle garanzie: «Ma io ho pre
gato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta con
vertito, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Lo scarto che separa il testo di
Luca da quello di Marco non potrebbe rivelarsi più ampio: da una par
te (Marco), uno smarrimento del gruppo dei discepoli, del quale per tut
87
ti è predetta la caduta, e una parola di Gesù negata o non ascoltata; dal
l’altra (Luca), un incoraggiamento al gruppo, gratificato escatologica
mente d’aver resistito alle prove, e la promessa che l’ostilità di Satana
non spezzerà la fede di Simon-Pietro. L’ardente desiderio di Gesù di
mangiare la Pasqua con i suoi amici si concretizza così in un discorso
testamentario dove la sorte dei discepoli, posta sotto l’egida di un’au
torità da riscoprire nel servizio, è garantita dalla protezione divina.
4. Conclusione
La differenza nell’indagine fra l’approccio classico della trama (se
condo lo schema quinario) e l’approccio post-classico (la tensione nar
rativa) si è rivelata nettamente. Da parte dello schema quinario: in che
cosa e come il racconto si inscrive all'interno della successione di frasi
nell’universalità del raccontare? Da parte della tensione narrativa: co
me giunge il racconto a captare l'interesse del lettore e a gestire la sua
attenzione, in una parola a «intrigarlo»? Da un lato, si identifica la pre
senza delle strutture immanenti della narrazione; dall’altro ci si attac
ca alla funzione pragmatica del testo e alla sua azione sul ricettore.
Al momento della nostra lettura di Me 14 e Le 22, abbiamo rileva
to che i due approcci non si escludono affatto, ma che le loro indagini
si situano su due versanti differenti della testualità: uno sul versante
composizionale, l’altro sul versante dialogico. L’attenzione alla tensio
ne narrativa è un correttivo apportato a una strutturazione della tra
ma fissata sulla storia raccontata; essa mette in evidenza il fatto che la
gestione della trama deriva dalla costruzione del racconto e mira a sol
lecitare la co operazione del lettore, cioè che la trama fa della narra
zione un atto performativo che agisce sul lettore. Suscitando nel letto
re attese che egli delude o lasciandosi andare a uno smarrimento pro
gressivo della figura dei discepoli, Marco accentua la tensione narrati
va al fine di sorprendere e depistare il suo lettore. L’effetto inverso con
statato in Luca denota una gestione della tensione narrativa orientata
a confermare e rassicurare il lettore.
Ma, si obietterà, possiamo ancora parlare di sorpresa, di suspense
o di curiosità del lettore quando si tratta di racconti biblici letti mille
volte? La reiterazione secolare dei testi della Bibbia non ha forse scal
fito la loro capacità di captare l’attenzione dei lettori? La difficoltà po
sta dall’usura della letteratura biblica è reale. Ma bisogna individuare
88
dove sta l’insidia del già noto. Consiste nell’affrontare lo sviluppo pre
cedente del testo anticipandone la fine. Ponendo all’inizio della lettura
un finale che ritiene di conoscere, il lettore blocca la dinamica del te
sto, che non è più in grado di tracciargli un percorso.
Ora, in narratività, la dinamica testuale scaturisce dalla polarità
complicazione-soluzione. È proprio qui che l’approccio post-classico
della trama si rivela utile agli esegeti. Osservare come si costruisce la
tensione narrativa, attraverso quale faticoso procedere, quali ambi
guità, quali non-detti essa viene attivata, permette di evitare lo schiac
ciamento del testo rispettando al tempo stesso i meandri del suo per
corso e l’interattività che esso propone al lettore. Proprio al prezzo di
questo umile e rigoroso esame il lettore ritroverà i sapori, gli stupori e
le emozioni che il narratore si sforza di far emergere all’interno del
l’atto di lettura.
Capitolo terzo
LA TEMPORALITÀ
DELLA STORIA
DI GIUSEPPE
(GEN 37-50)
André Wénin
1. Introduzione
La storia di Giuseppe sviluppa una trama particolarmente sofistica
ta. Prima di vedere come è qui elaborata la temporalità, non saranno for
se inutili due preliminari: un breve richiamo della storia di questo lungo
racconto, che si snoda dal c. 37 al c. 50 del libro della Genesi, e alcuni
elementi di base sullo studio della temporalità in narratologia.
* Prim a pubblicazione sotto il titolo: «Le tem ps dans l'histoire de ·Joseph (Gen
37-50). Repères tem porels po u r une analyse narrative», in Bìblica 83(2002), 28-53.
1 Ci perm ettiam o di rinviare a due opere su questo racconto: A. W é n i n , L’histoire de
Joseph (Genèse 37-50), Ceri, Paris 2004, e Id., Joseph ou Vinvention de la fra tern ité.
Lecture narrative et anthropologique de Genèse 3 7 -50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it.
G iuseppe o l ’invenzione della fra tella n za . L ettu ra narrativa e antropologica della Ge
nesi. IV. Gen 3 7 -5 0 , EDB, Bologna 2007.
91
to del suo secondo figlio, Beniamino, è l’oggetto dei favori del padre. I
suoi dieci fratelli, sentendosi trascurati, odiano Giuseppe i cui sogni
sembrano riservargli grandezza e potere. Alla prima occasione si libe
rano di lui: Giuseppe viene venduto ad alcuni mercanti, che lo condu
cono come schiavo in Egitto. I fratelli fanno in modo che il padre lo cre
da morto, prima di tentare invano di consolarlo (Gen 37). Poi Giuda si
separa dai fratelli, e la storia prosegue raccontando le sue avventure
con la nuora Tamar dalla quale avrà due figli; durante questo tempo,
in Egitto, Giuseppe diventa rapidamente l’uomo di fiducia di colui che
10 ha comprato, ma ben presto si ritrova in prigione perché accusato
falsamente di tentativo di violenza dalla moglie del padrone. Divenuto
11braccio destro del comandante della prigione, egli dà prova delle sue
capacità interpretando correttamente i sogni dei due alti funzionari del
faraone (cc. 38-40). Inoltre, quando il faraone è tormentato da sogni
infausti che nessuno riesce a spiegare, Giuseppe viene fatto uscire dal
la prigione e, in presenza della corte, interpreta i sogni e dà saggi con
sigli per prevenire la lunga carestia che, secondo lui, si abbatterà su
tutto il Paese sette anni più tardi. Nominato primo ministro d’Egitto,
Giuseppe ammassa riserve nel corso degli anni di abbondanza. Poi, al
l’arrivo della carestia, vende il grano a tutti coloro che affluiscono in
Egitto per acquistare viveri (c. 41).
Fra quanti scendono in Egitto per acquistare grano ci sono anche i
fratelli di Giuseppe, mandati da Giacobbe, che però trattiene con sé il
figlio più giovane, Beniamino. Giuseppe li riconosce, ma si comporta
con loro come un estraneo. Li mette sotto pressione accusandoli di es
sere venuti come spie per vedere i punti indifesi del territorio; poi li
getta in prigione prima di rimandarli in Canaan, trattenendo in ostag
gio Simeone fino a quando gli condurranno Beniamino. Rientrati con i
viveri e il denaro nascosto nei loro sacchi, i fratelli affrontano il padre
che, diffidando dei figli, rifiuta di lasciar partire con loro il secondo fi
glio di Rachele (c. 42), Ma quando i viveri sono finiti, Giacobbe si ras
segna e manda di nuovo i figli in Egitto, lasciando partire con loro an
che Beniamino, pur con la morte nell’anima, dopo che Giuda si è reso
personalmente garante di lui. All’arrivo, i fratelli sono accolti nella di
mora di Giuseppe e viene loro restituito Simeone. Giuseppe in perso
na li raggiunge per un pasto, nel corso del quale egli dà vari segnali
che permettono di riconoscerlo, ma essi restano sempre ciechi (c. 43).
Il giorno dopo, Giuseppe li fa partire, dopo aver nascosto la propria
coppa d’argento nel sacco di Beniamino. All’uscita dalla città, li fa ar
92
restare e condanna Beniamino, colto in flagrante delitto di furto, a re
stare prigioniero. A questo punto Giuda s’interpone e si offre come pri
gioniero al posto del fratello per evitare che il padre sia una seconda
volta privato del figlio di Rachele, che egli preferisce a tutti gli altri suoi
fratelli (c. 44).
Allora Giuseppe, non potendo più trattenersi, si fa riconoscere dai
fratelli e invita tutta la famiglia a venire in Egitto perché possa so
pravvivere alla carestia. Giacobbe, incredulo, finisce per accettare di
seguire i figli ed emigrare verso l’Egitto (cc. 44-45). Là ritrova Giu
seppe, si stabilisce col suo clan nella terra di Gosen e beneficia della
protezione di Giuseppe. Diciassette anni più tardi, dopo aver benedet
to i due figli di Giuseppe e annunciato il futuro dei suoi figli, muore cir
condato da tutti i congiunti (cc. 46-49). Terminati i funerali, i fratelli
temono che Giuseppe si vendichi di loro, ma egli li rassicura, li perdo
na e vigila su di loro fino alla propria morte avvenuta all'età di cento-
dieci anni (c. 50).
93
co, o riportare in poche parole varie ore, vari giorni e perfino assai di
più.3 Nelle scene dialogate, il tempo narrato e il tempo narrante ten
dono a sovrapporsi, anche se i discorsi sono di solito stilizzati.4 Come
regola generale, questi giochi sul ritmo della narrazione sono indicati
vi dell’importanza che il narratore accorda all’una o all’altra parte del
racconto. Dedicherà più tempo a ciò che considera importante o si
gnificativo, e scorrerà rapidamente sui fatti minori. Parimenti può ral
lentare il ritmo per introdurre dei ritardi che fanno crescere la tensio
ne narrativa o, al contrario, accelerare il tempo per sorprendere o an
dare all’essenziale. Le pause descrittive fermano il corso del tempo
raccontato, rappresentando così un tempo morto; il sommario sinte
tizza rapidamente un periodo più o meno lungo della storia; l'ellissi
corrisponde a un salto temporale, quando la narrazione passa sotto si
lenzio un avvenimento o un periodo della storia.5 Si dovrà poi aggiun
gere che i fatti riportati non seguono necessariamente l’ordine crono
logico: neWanalessi o flash-back, si fa riferimento a un evento ante
riore ai fatti raccontati; al contrario, la prolessi anticipa un fatto cro
nologicamente posteriore agli avvenimenti in corso.6
L’ampiezza della storia di Giuseppe ne fa un buon terreno di os
servazione del modo di gestire il tempo in un racconto, perché questo
implica insieme una continuità nella quale si articolano costantemen
te presente, passato e futuro, e un ritmo che mette in evidenza il rilie
vo del racconto. Per esplorare la temporalità di questo lungo racconto,
(1) noi esamineremo anzitutto il suo quadro cronologico, con la sua
struttura di base e alcune particolarità, fra cui il gioco complesso fra
3 In Gen 28, il n a rra to re rip o rta dettagliatam ente il sogno di Giacobbe e la sua re a
zione al m om ento del risveglio (w. 10-22), poi con poche parole ricorda il suo lungo viag
gio fino a Paddan-A ram (29,1). Ci sono genealogie come Gen 5 o Mt 1 che scavalcano
decenni e secoli, m a la descrizione dei sogni del faraone in Gen 41,1-8 si sofferm a su un
fatto che dura soltanto pochi istanti.
4 Si veda p er esem pio l’incontro fra Giuseppe e i suoi fratelli in Gen 44,3^45,20.
5 Esem pi di p au sa descrittiva: Gen 13,10 o IS am 17,4-7; di som m ario: Gen 47,27-
28; Es 40,36-38; di ellissi: Gen 22,4 (nulla viene raccontato dei tre giorni del viaggio di
À bram o e di Isacco); Me 14,40-41 (non si fa cenno a parole e spostam enti di Gesù).
6 Esempio di analessi (o retrospezione): Gn 4,2, dove viene com unicata u n ’infor
m azione che era stata oggetto di u n ’omissione; esem pio di prolessi (o anticipazione): Gen
13,10b, dove il n a rrato re p arla già della distruzione di Sodom a e G om orra rip o rtata in
Gen 19.
94
tempo narrante e tempo narrato. In seguito, prenderemo in conside
razione le variazioni che il narratore si permette nella gestione del
tempo: (2) le prolessi e gli annunci d’ogni genere, e poi (3) le analessi
e altri richiami di momenti passati.
7 Giuseppe vive la m età della p ropria vita m entre suo pad re era ancor vivo. Prim a
visse 17 anni con lui in C anaan, e Giacobbe vivrà altri 17 anni con lui in Egitto. Sono se
p a ra ti p er 21 anni.
8 Dei m arcatori tem porali scandiscono le tap p e di questa sequenza: 42,17-18 (3
giorni), 27 (alla sosta p er p assare la notte), 29 (arrivati dal pad re Giacobbe); 43,2 (quan
do hanno finito di consum are il grano), 15b (in Egitto da Giuseppe), 16 e 25 (a m ezzo
giorno); 44,3 (al m attino), 14 (Giuseppe ancora in casa); 45,1 (quando Giuseppe si fa co
noscere dai suoi fratelli), 25 (in C anaan da Giacobbe); 46,7 (arrivo in Egitto); 47,11 (in
stallazione).
96
to di contatto, ogni episodio segue la propria cronologia caratterizzata
da una certa indefinitezza. Nella storia di Giuda (38), i fatti si svolgo
no fra la partenza di Giuda e i nove mesi che seguono al lutto che l’e
roe fa per la sua sposa i cui due figli maggiori sono già morti in età
adulta (38,12.24.28). Quanto all’episodio della moglie di Potifàr (39,7-
20), occorre notare che è situato in rapporto a ciò che precede con una
formula usuale quando si vuol segnalare una ellissi o una lacuna del
testo la cui durata non è determinata: «Dopo questi fatti...» (39,7). L’in
certezza sulla situazione cronologica esatta di ciò che capita a Giusep
pe dura fino a 41,46. Al c. 41,1, il narratore preciserà che Giuseppe
resta in prigione due anni di più, ma questo riferimento non chiarisce
ancora la cronologia generale del racconto.
Così, i capitoli 38-41 sono come sottratti alla cronologia della sto
ria di Giuseppe, e questo anche se si sa che la duplice azione comin
cia poco dopo i fatti narrati nella seconda metà del c. 37. Il filo della
cronologia globale viene ripreso soltanto dopo l’elevazione di Giusep
pe da parte del faraone. Questo permette probabilmente di precisare
l’estensione dell’atto II: esso comprende il blocco dei capitoli che, sen
za un chiarimento sulla loro cronologia, riportano due storie parallele
i cui eroi sono due dei figli di Giacobbe che hanno svolto un ruolo di
primo piano nell’atto I: Giuseppe, il fratello venduto, e Giuda che ha
avuto l’idea di venderlo. La crisi familiare che occupa gli atti I e III è
del resto pressoché assente nell’atto II (cf. soltanto 40,15 e 41,51-52).
97
quelli che emigrano in Egitto non appaiono Er e Onan, già deceduti,
ma nella carovana risultano i gemelli di Tamar, Zerach e Peres. Il se
condo è anche già padre di due figli, un’indicazione che mirerebbe a
mostrare che lo scopo del c. 38 è da porre prima dei fatti raccontati al
c. 37! Questa non è l’unica incongruenza presente nella lista dei di
scendenti di Giacobbe. Un’altra curiosità colpisce il lettore attento: Be
niamino, il «fratello minore» di Giuseppe, ha già dieci figli - davvero il
più prolifico dei figli di Giacobbe (46,21). Ora, si può arrivare a sup
porre che egli abbia trent’anni, ma non certo di più...
Queste due sezioni che interrompono il racconto e la cui cronologia
implicita è, a ben vedere, poco coerente con lo svolgimento della sto
ria di Giuseppe, possono essere qualificate come «digressioni». Del re
sto, l’interruzione viene ogni volta indicata con una «ripresa»: 39,1 fa
da eco alla finale del c. 37 per segnalare che lo si riallaccia con il filo
narrativo principale, mentre 46,27b chiude la lista di quelli che entra
no in Egitto riprendendo le ultime parole del racconto che la precede
(v. 7b: espressione «venire in Egitto»), parole che avevano la funzione
di «aggancio» già all’inizio della Usta (v. 8a: «entrare in Egitto»),
Il narratore si permette questi strappi cronologici, perché il fatto di
inserire queste «digressioni» è narrativamente più importante rispet
to a una coerenza temporale perfetta. Non possiamo qui trattare tale
questione in lungo e in largo. Quindi ci accontentiamo di offrire qual
che saltuaria annotazione circa la gestione del tempo. Da questo pun
to di vista, è chiaro che l'inserimento della storia di Giuda9 crea nel let
tore che affronta il sèguito la netta impressione che un tempo lungo è
trascorso dopo che Giuseppe è scomparso con i mercanti. Questo ac
centua ancor più il senso della considerevole lontananza di Giuseppe
dai suoi e in particolare dal padre in lutto (37,34b). D’altra parte, nel
corso di questi anni, Giuseppe ha avuto il tempo di maturare in una
prova prolungata; inoltre, il lettore sarà meno stupito nel vedere che
l’adolescente ingenuo (37,4-11) è divenuto un uomo deciso che si op
pone risolutamente alla moglie del suo padrone (39,9). La lunga lista
dei discendenti che Giacobbe conduce con sé in Egitto è collegata pro
babilmente al processo di «ritardo» che crea la tensione narrativa: fra
98
il desiderio di Giacobbe di rivedere Giuseppe al più presto e la sua par
tenza immediata, da una parte (45,28-46,1), e l’incontro in Egitto, dal
l’altra (46,29), il narratore inserisce vari elementi che ritardano il mo
mento atteso e fanno sperimentare al lettore la stessa impazienza che
agita Giacobbe. Questi elementi sono: la sosta a Bersabèa e l’oracolo
che potrebbe mettere in discussione il desiderio del vegliardo (46,1-4;
cf. 26,2), la descrizione della carovana e l’inventario di tutto ciò che
Giacobbe porta con sé (w. 5-7), la descrizione dettagliata e precisa del
le persone che lo accompagnano (w. 8-27), e infine l’invio di Giuda co
me esploratore (v. 28).
99
telli il loro denaro (42,25; 44,1; cf. 45,22); mentre da un lato acquista
il bestiame degli egiziani in cambio di pane (47,16-17), dall’altro in
stalla la sua famiglia e il bestiame in pascoli abbondanti e provvede al
loro sostentamento (45,10-11; 46,32-34; 47,6.12); e quando, sotto la
pressione di egiziani minacciati dalla carestia, acquista i loro terreni
per il faraone (47,18-21), proprio allora con il consenso del faraone do
na ai suoi una proprietà fondiaria nella migliore regione del Paese
(47,11-12), tanto che la sua famiglia giunge a godere del privilegio dei
sacerdoti, gli unici in Egitto a poter conservare la proprietà dei loro ter
reni (47,22.26b).
100
quadri è seguito da lacune che non permettono di percepire quale las
so di tempo passi tra loro: il narratore si accontenta di segnalare la cre
scita dell’odio e della gelosia dei fratelli. Poi il racconto è ritmato dalle
tappe del viaggio di Giuseppe. Il narratore giustappone tre piccole sce
ne: Giacobbe che manda Giuseppe (w. 13-14), l’arrivo di Giuseppe a
Sichem dove un uomo lo incontra (w. 15-17), il complotto dei fratelli
nel momento in cui li trova (w. 18-22). Tratteggiate con vivacità attra
verso i dialoghi, queste scene costringono il lettore a soffermarsi sui
momenti importanti in cui la tensione narrativa cresce inarrestabile. A
partire dall’arrivo di Giuseppe presso i fratelli, il narratore focalizza
l’attenzione sui fatti drammatici di cui riporta la sequenza continua su
un ritmo assai più sostenuto: crea una serie di verbi d’azione, interrotta
soltanto dalla descrizione della carovana che condurrà via Giuseppe.10
Anche il viaggio verso Ebron di colui che i fratelli mandano a portare
la tunica a Giacobbe è completamente isolato (v. 32). Troviamo ancora
interventi parlati soltanto quando Giuda propone di vendere Giuseppe
(w. 26-27), e, assai più brevemente, alla protesta di Ruben quando non
trova più il ragazzo nella cisterna (v. 30b), infine il breve dialogo a di
stanza tra i figli e il padre a proposito della tunica insanguinata (v. 32b-
33) - tutte parole di membri del clan, che servono a drammatizzare al
cuni momenti significativi connessi con la sparizione di Giuseppe. Il
tempo si calma soltanto nella scena finale del lutto di Giacobbe, lutto
che egli protrae «per molti giorni» (v. 34b), e che il narratore mette in
rilievo con un’ultima parola del vegliardo distrutto dal dolore, che ri
sponde ai tentativi di consolazione dei suoi familiari (v. 35b).
La tecnica è limpida e pienamente nello stile dei narratori biblici.
Lo sfondo è costituito da sommari. I momenti essenziali sono dram
matizzati sotto forma di dialoghi in cui il tempo narrante si avvicina al
tempo narrato; la relativa lentezza che ne deriva contribuisce ad au-
io «23Quan{j 0 Giuseppe fa arrivato presso i suoi fratelli, essi gli strapparono la sua
tunica [...] 24lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna [...] 25e si sedettero [...] e alzaro
no gli occhi e videro [...] 26e Giuda disse [...] 27e i suoi fratelli gli diedero ascolto [...] 28e
passarono alcuni m ercanti m adianiti [...] e tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla ci
sterna [...] e lo vendettero agli Ismaeliti [...] 29e Ruben tornò [...] e si stracciò le vesti [...]
30e ritornò [...] e disse [...] 31e presero [...] e sgozzarono [...] e intinsero la tunica 32e
m andarono al padre la tunica [...] e la fecero pervenire a Giacobbe dicendo [...] 33ed egli
la riconobbe e disse [...] 34e Giacobbe sì stracciò le vestì [...] e si mise u n a tela di sacco
[...] e restò in lutto per molti giorni».
101
meritare la tensione. Questo procedimento sarà utilizzato soprattutto
nell’atto III, dove, in modo altamente scenico, il narratore riporta det
tagliatamente i discorsi di Giuda e di Giuseppe, e poi una parola del fa
raone (44,14-45,20), un quinto della durata totale dell’atto III nel qua
le il tempo narrante ricalca in modo quasi mimetico il tempo narrato,
segno quasi tangibile che siamo al cuore del racconto. Invece le scene,
nelle quali è importante l’azione, sono impostate su un ritmo rapido e
ben modulato, dove alcune parole sottolineano elementi importanti. In
fine, più spesso, le ellissi - tempi nei quali non c’è proprio nulla da rac
contare e che separano i momenti significativi - sono strutturate con
nessi temporali che danno la continuità narrativa dell’insieme, o con
sommari conclusivi o introduttivi.
102
il lettore del risultato positivo dell’intervento che narrerà in seguito (w.
21b-24). Così pure in 45,lb, prima di far vedere come Giuseppe si fa
conoscere dai fratelli (vv. 4-13), il narratore indica di colpo che Giu
seppe farà proprio questo, cosicché il lettore concentra la propria at
tenzione sul modo in cui lo fa. A questi due casi rilevati da Ska, ag
giungiamo 41,25, un riassunto prolettico da accreditare in conto alla
sensibilità pedagogica di Giuseppe: per rassicurare il faraone sulla pro
pria capacità di interpretare i sogni e di acquetare l’angoscia che essi
provocano, gli annuncia direttamente l’essenziale dell'interpretazione
che egli poi svilupperà: «Il sogno del faraone è imo solo: Dio ha indi
cato al faraone quello che sta per fare» (cf. w. 26.28 e 32).
L’a n n u n c io d e l f u t u r o e l’a t t e s a d e l l e t t o r e
103
tori che lo precedono nella Genesi e che ricevono da Dio stesso il si
gnificato del sogno nel quale appare o parla (20,3.6; 28,12-15; 31,10-
13; cf. 31,3; e 31,24). Nel caso di Giuseppe, il narratore lascia aleggiare
un dubbio che riflette forse la forma interrogativa delle interpretazio
ni date dai suoi fratelli e dal padre. E il lettore, se può legittimamente
supporre che Dio intervenga per anticipare il futuro attraverso un so
gno, non può tuttavia esserne certo, in mancanza di ima conferma au
torevole. Per conoscerne il contenuto reale, il lettore dovrà aspettare il
seguito del racconto; ma, all’inizio della storia, non ha motivo di esclu
dere a priori che i sogni possano essere il semplice riflesso della vani
tà del giovane Giuseppe, come precisa Victor P. Hamilton.13
A ogni modo, i sogni suscitano nel lettore un'aspettativa. Ma le co
se non sono chiare, finché non sappiamo che cosa questi sogni an
nunciano nel caso siano premonitori. Giuseppe racconta i sogni, ma
non li interpreta. Lo fanno i fratelli e il padre, e nessuno garantisce che
in questo esercizio essi siano credibili.14 Inoltre, accanto alla loro in
terpretazione, forse c’è posto per un’altra lettura, che la formulazione
ambivalente delle loro interpretazioni già suggerisce. Infatti, se di pri
mo acchito, i sogni di Giuseppe sono per i fratelli e Giacobbe annunci
del suo destino, non possiamo escludere che essi vi vedano l’espres
sione dei suoi desideri di grandezza. Del resto la costruzione ebraica
usata due volte (infinito assoluto con verbo coniugato) permette una du
plice traduzione: possiamo renderla o con un futuro, eventualmente
con una sfumatura dubitativa («regnerai veramente...?» e «verremo
noi veramente...?»), o con un’espressione che metta in risalto la sfu
matura modale della costruzione, prima con volere («Vuoi forse regna
re...?», v. 8), poi con dovere («Dovremo forse venire...?», v. lOb).
Così dunque, da un lato, i sogni potrebbero essere un annuncio del
futuro, ed è possibile che gli uditori di Giuseppe lo intendano in tal sen
so. Per i fratelli, il primo sogno annuncia la futura dominazione regale
di Giuseppe. La scelta dei verbi dal senso pregnante, «regnare» (malak)
e «dominare» (mashal), testimonia probabilmente lo stato d’animo dei
13 V.P. H a m il t o n , The Book o f Genesis. Chapters 1 8 -50, E erdm ans, G rand Rapids
1995, 410.
14 Cf. R. P ir s o n , «The Sun, thè Moon an d Eleven Stars: an Interp retatio n of Josephs
Second Dream », in A. W é n i n (ed.), Stu d ies in thè Book o f Genesis, Peeters, Leuven 2001,
563.
104
fratelli che implicitamente contestano quello che essi colgono del sogno
(v. 8). Del resto il loro tono tradisce una certa aggressività, segno dei ti
mori che il racconto di Giuseppe suscita in essi. Il padre, invece, si li
mita a dire quello che ai suoi occhi rappresentano gli astri che si pro
stravano davanti a Giuseppe. Egli prende tuttavia sul serio la situazio
ne: da un lato rimprovera il figlio e lo interroga sul sogno (v. 10); dal
l’altro, tiene per sé la cosa (v. llb ). Bisogna aggiungere che Giuseppe,
alle domande forse retoriche che gli sono rivolte sul significato dei suoi
sogni, non risponde affatto; eppure proprio lui, in seguito, si rivelerà co
me un interprete ispirato. Sulle interpretazioni udite dagli altri non si
pronuncia. Potrebbe essere perplesso sul significato dei suoi sogni?
Da un altro lato, come abbiamo messo in evidenza, il lettore non
può escludere che i sogni esprimano i desideri di Giuseppe. Ma questi
desideri forse non hanno il significato che i suoi famigliari gli attribui
scono, perché il narratore introduce i sogni immediatamente dopo aver
inquadrato la situazione di Giuseppe in seno alla sua famiglia. In que
sto contesto, come ha acutamente individuato Pierre Gibert, i sogni po
trebbero esprimere i desideri profondi propri di Giuseppe in questa si
tuazione.15 Infatti questo giovanetto si trova in una posizione difficile
(37,2-4). L’amore del padre fa di lui l’oggetto dell’odio dei fratelli, met
tendolo così al centro di una contraddizione. Inoltre, pur inferiore ai
fratelli per un doppio motivo, come cadetto e come servo Cna'ar), è pre
diletto da Giacobbe che gli dà una tunica quale segno della sua parti
colare posizione. Posto così al centro del gruppo dei fratelli, Giuseppe
ne compromette l’unità e ne minaccia gravemente la pace. Su questo
sfondo, quale aspirazione potrebbero esprimere i suoi sogni, se non il
desiderio che questa tensione, diffìcilmente sopportabile a lungo, si ri
assorba, e si riassorba a suo vantaggio? In questa prospettiva, il primo
sogno esprimerebbe il suo desiderio di essere riconosciuto dai fratelli
come centro di una fratellanza unita attorno a lui, dal momento che egli
vede in esso i fratelli nell’atto di riconoscergli il posto di privilegio che
il padre già gli riserva. Di colpo, in sogno, si realizzano contempora
neamente il suo desiderio di essere il primo - frustrato a causa della
sua posizione di na'ar - e l’unità del gruppo dei fratelli. Il secondo so
105
gno esprime un desiderio analogo. Ma questa volta Giuseppe vi è pre
sente di persona, venerato dagli astri: perciò Gibert (p. 44) ha proba
bilmente ragione di vedervi il segno di un narcisismo che il giovane
Giuseppe non ha ancora superato, quel giovane che ben presto sarà
messo in difficoltà dalle prove che dovrà affrontare.
Su questa base, possiamo cercar di vedere se, nel séguito del rac
conto, i sogni si confermano come annunci del futuro e, in caso affer
mativo, in che senso. Il primo si realizza secondo l’interpretazione dei
fratelli quando costoro si prostrano davanti a Giuseppe in circostanze
collegate alla mietitura - i covoni del sogno - in cui Giuseppe ha ac
quisito il suo potere (42,6; 43,26.28). Ma la lettura dei fratelli corri
sponde soltanto su questo punto; infatti Giuseppe non «regnerà». Il
narratore lo descrive come «governatore» {shallit in 42,6; cf. 41,40) e
governa l’Egitto, non i suoi fratelli; del resto, a più riprese vedremo che
Giuseppe rifiuta che essi diventino suoi schiavi (44,16-17.33 e 50,18-
21). Davanti al loro padre, i fratelli parleranno di lui come dell’«uomo
che è signore di quella terra» (42,30.33). Giuseppe poi descriverà se
stesso come «governante (moshèl) su tutto il territorio d’Egitto» (45,8),
un titolo che i suoi fratelli riprenderanno un po’ più oltre (45,26). Ma
se l’interpretazione dei fratelli si realizza soltanto in parte, al contrario
il sogno si avvera in un modo che questi non hanno proprio previsto:
quando Giuseppe ha ammassato il grano raccolto durante gli anni di
abbondanza, la famiglia si riunisce attorno a lui ed egli vigila perché
non venga a mancar loro il cibo: Se il desiderio nascosto di Giuseppe,
«rivelato» attraverso i sogni, è la riunione della famiglia attorno a lui,
allora esso ha effettivamente compimento alla fine della storia.
Invece, l’interpretazione del secondo sogno da parte di Giacobbe si
concretizza soltanto assai parzialmente nel prosieguo della storia: la
madre di Giuseppe è morta16 e Giacobbe non si prostrerà davanti al fi
16 Rachele è m orta p rim a dell’inizio di questa storia, e com unque, da vivo, Giusep
pe aveva soltanto dieci fratelli, dato che su a m ad re m uore n el d are alla luce Beniam ino
(cf. 35,16-19). Quindi, l’interpretazione di Giacobbe è falsa in ogni caso. Ma forse è iro
nico: dicendo a Giuseppe che su a m adre, sebbene m orta, dovrebbe venire a p ro strarsi
davanti a lui, Giacobbe esprim e in d irettam ente il suo scetticism o, facendo intendere che
106
glio suo: infatti, se in 47,31 il narratore parla di una prostrazione di
Giacobbe in presenza di Giuseppe, egli non s’inchina davanti a lui, ma
davanti a Dio in segno di azione di grazie. Dunque si realizza soltanto
la «venuta» alla quale l’interpretazione di Giacobbe alludeva - ma non
il sogno in quanto tale! Inoltre, questa venuta ha compimento in un
senso ben diverso da quello che gli conferiva Giacobbe (cf. 46,6-7). Det
to questo, il secondo sogno si realizza forse in altro modo. Lo sappia
mo: a partire da Gen 1,14-18, gli astri segnano lo scorrere del tempo.
Il fatto che essi qui si prostrino davanti a Giuseppe non è forse l’an
nuncio di ciò che avviene quando Giuseppe anticipa sui tempi della ter
ra, come se questi si piegassero alle sue parole (cf. 41,53-54)?17 Ma al
lora, come negli altri sogni della storia di Giuseppe in cui intervengo
no dei numeri, le cifre di 37,9, ossia 2 (sole e luna) e 11 (stelle), sa
rebbero da leggere in chiave temporale, e non in chiave familiare.18 In
fatti, dal tempo dei sogni passano 13 anni prima che Giuseppe giunga
al potere secondo lo schema 11+2 (in prigione: 41,1); se prendiamo in
considerazione il prodotto della moltiplicazione di queste stesse cifre,
22, esso corrisponde al numero dì anni che passano fino all’avverarsi
del primo sogno, quando tutti i fratelli (compreso Beniamino) si pro
strano davanti a Giuseppe (43,26).
Così dunque, alla luce complessiva della storia di Giuseppe, i suoi
sogni si rivelano effettivamente premonitori. Ma il lettore, se prende
per buone le interpretazioni date dagli attori, rischia di lasciarsi in
durre in errore, perché la realizzazione dei sogni va ben al di là del
l’interpretazione restrittiva che i familiari di Giuseppe ne danno sotto
la spinta del timore, della gelosia o dell’emozione. In particolare trova
compimento l’aspetto positivo che l’accecamento degli interpreti lascia
totalmente nell’ombra. La scena dei sogni costituisce dunque effettiva
mente un’anticipazione della storia, un programma per l’insieme del
è im possibile che il sogno si realizzi. Un tale significato è coerente con la reazione dura
di Giacobbe che rim provera il sognatore (37,10). In questo senso, si veda p e r esem pio
la lettura dì R. P i r s o n , «The Sun, thè Moon and Eleven Stars: a n Interp retatio n of Jose-
p h ’s Second Dream», in W é n i n (ed.), S tu d ies in thè Book o f Genesis, 563.
17 Cf. J.G. J a n z e n , A braham a n d A ll thè Fam ilies o fth e Earth. A Commentari! on thè
Book o f Genesis 12-50, Eerdm ans-H andsel, G rand R apids-Edinburgh 1993, 149: «il se
condo (sogno) p arla di Giuseppe come di un signore dei tem pi e delle stagioni».
18 Cf. P ir s o n , «The Sun, th è Moon and Eleven Stars: an Interp retation of Josep h ’s
Second Dream», 561-568.
racconto.19 Ma il lettore attento, che, a partire dal racconto di Giusep
pe, ha colto qualcosa dell’ambivalenza dei sogni, vedrà soltanto a co
se fatte come essi si avverano, ammesso che non si limiti alla lettura
restrittiva che ne danno alcuni personaggi dalla incerta ispirazione.
Così tale «programma» resta sconosciuto fino al momento in cui il si
gnore dei sogni, per aver interpretato correttamente i sogni degli egi
ziani, raggiunge una posizione nella quale potrà far sì che i suoi stes
si sogni divengano realtà. A quel punto, il lettore dovrà chiedersi in che
direzione Giuseppe intende orientarsi quando si ricorda dei propri so
gni (42,9): sceglierà di dominare sui fratelli proprio secondo la loro in
terpretazione, o al contrario lascerà prevalere il desiderio di unità sug
gerito dal primo sogno? Durante l’incontro iniziale, nel corso del qua
le Giuseppe si mostra duro verso i fratelli (42,6-17), il narratore man
terrà l'indecisione del lettore su questo interrogativo.20
19 Cf. J.-M. H u s s e r, Le songe et la parole. É tude sur le reve et sa fo n ctio n dans l ’an-
cien Israel, BZAW 210, De Gruyter, Berlin-New York 1994, 237.
20 Su tale questione, cf. W é n in , Joseph ou Vinvention de la fra tern ité. Lecture nar
rative et anthropologique de Genèse 3 7 -5 0 , 138-150; tr. it. Giuseppe o l'invenzione del
la fra tella n za . L ettura narrativa e antropologica della Genesi. IV. Gen 3 7 -5 0 , 98-106.
108
sanamente instaUarvisi. Il narratore non manca di registrare il fatto in
47,27: «Israele si stabilì nella terra d’Egitto, nella regione di Gosen, ed
essi ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi». Per
il secondo annuncio, il narratore non precisa che Dio è con Giacobbe du
rante il suo soggiorno in Egitto. Ma Giacobbe, quando benedice i figli di
Giuseppe, implicitamente lo riconosce dicendo di Dio che egli è stato il
suo pastore fino a oggi, ed evocando l’angelo che lo ha liberato da ogni
male (48,15-16). Quanto al suo ritorno in Canaan, il vecchio Giacobbe
ne parla due volte ai figli, come se volesse aver da loro la garanzia che
porteranno a compimento la promessa divina: prima di benedire i figli
di Giuseppe, domanda a Giuseppe di non seppellirlo in Egitto, ma nel
sepolcro dei suoi padri (47,29-31); e dopo aver benedetto i suoi figli, ri
pete loro le sue ultime volontà con tutte le necessarie precisazioni
(49,29-32). Questa «salita» di Giacobbe verso Canaan (50,5.6.7[2x].9),
alla quale il faraone avrebbe potuto opporsi (cf. w. 4-6), occupa la me
tà del c. 50 (w. 4-13). Infine, al momento della sua morte, come Dio ha
detto, Giuseppe è il primo a rendere onore al padre con un’emozione
autentica (50,1). In queste condizioni, l’oracolo di Bersabèa si presenta
come prolessi degli ultimi avvenimenti della vita di Giacobbe.
Detto questo, anche le ultime parole del patriarca hanno un carat
tere prolettico. Ma questa volta hanno lo scopo di annunciare un futu
ro che va ben oltre la storia di Giuseppe e il libro della Genesi. Nondi
meno occorre sottolineare che Giacobbe stesso, nelle sue ultime paro
le a Giuseppe, interpreterà la promessa di Bersabèa conferendole un
senso più ampio: «Ecco, io sto per morire - disse ma Dio sarà con
voi e vi farà tornare alla terra dei vostri padri» (48,21). A sua volta Giu
seppe, proprio nell·imminenza della sua morte, trasmetterà tale pro
messa ai «figli d'Israele» dichiarando: «Io sto per morire, ma Dio ver
rà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa terra, verso la terra che
egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe»
(50,24). Con queste parole è direttamente annunciato l’esodo.
109
teriore che, per ragioni narrative, non è stato rivelato nel momento in
cui si è prodotto. Invece, il narratore della storia di Giuseppe predilige
le riprese da parte di alcuni personaggi di fatti già riferiti, sia per rac
contarli a modo loro, sia per dame una loro interpretazione: un pro
cedimento questo che spesso rivela i personaggi e il loro volto nasco
sto, ma che anche rallenta il ritmo della narrazione, contribuendo ad
accrescerne la tensione.
L a ,p r e s e n z a d e l t r a d u t t o r e ( 4 2 , 2 3 )
Il narratore ricorre all’analessi due volte alla fine del primo incon
tro fra Giuseppe e i suoi fratelli in Egitto. C’è anzitutto la menzione tar
diva della presenza di un interprete al momento del primo incontro fra
Giuseppe e i fratelli in Egitto. Il narratore racconta un primo colloquio
e l’essenziale di un secondo incontro senza rivelare al lettore la pre
senza di un traduttore fra il governatore e i fratelli. Svela questo par
ticolare soltanto dopo che i fratelli hanno riconosciuto la propria in
sensibilità colpevole nei riguardi del fratello minore, confessione della
quale Ruben approfitta per rivelare che egli non era affatto d’accordo
con loro (42,21-22; cf. 37,18-22). A questo punto, precisa il narratore,
essi non sanno che Giuseppe capisce quello che dicono tra loro (v. 23)
poiché la presenza dell’interprete lascia loro credere che il governato
re non capisca la loro lingua. Nondimeno Giuseppe li capisce, e si riti
ra in disparte a piangere (v. 24).
Ma perché mai il narratore tiene nascosta fin qui l’informazione
che avrebbe potuto dare all’inizio della scena, in 42,7a per esempio,
quando dice che Giuseppe si comporta verso di loro come un estraneo,
pur avendoli riconosciuti come i suoi fratelli? Anzitutto, procedendo in
tal modo, il narratore sottolinea bene che Giuseppe resta sorpreso del
le parole che, pur non essendo rivolte a lui, lo riguardano in prima per
sona, e che sono di portata tale da sconvolgerlo, poiché i fratelli rico
noscono con esse la loro colpevolezza davanti a lui. Ma questo può an
che voler dire che non è perché si sentono riconosciuti che i fratelli
confessano la loro colpa: lo fanno spontaneamente, senza che alcuno
abbia loro strappato questa confessione, perché hanno appena preso
coscienza di quello che la loro vittima ha vissuto. Infine, a posteriori,
110
il lettore vede quale mezzo concreto Giuseppe ha messo in opera per
non farsi riconoscere. Ma più profondamente, scopre anche che nel
momento in cui tra i figli di Giacobbe riprende il dialogo, un tradutto
re li separa e incarna per così dire la loro difficoltà a comunicare fra
loro, da quando l’odio ha cominciato a rendere impossibile qualsiasi
parola di pace nella famiglia (cf. 37,2-4).
Il s i l e n z i o d i G iu s e p p e (42,21) ·
Nello stesso episodio, troviamo un’altra analessi che colma una la
cuna assai più antica, dato che si trova al c. 37. Quando i fratelli si ad
dossano l’un l’altro la colpa, evocano le grida del fratello quando gli mi
sero le mani addosso: «Abbiamo visto con quale angoscia ci supplica
va e non lo abbiamo ascoltato» (42,2la). Ora, nel racconto dei fatti al
c. 37, Giuseppe resta in silenzio: non viene registrata alcuna reazione
da parte sua. Qui invece i fratelli rivelano che Giuseppe ha reagito con
forza mostrando la propria angoscia e supplicandoli. Perché allora il
narratore sceglie di passare sotto silenzio questo aspetto nel racconto
del c. 37? Probabilmente vuole raccontare tutta questa scena dal pun
to di vista dei fratelli. Dato che costoro sono sordi alle grida di Giu
seppe, vuole non farle udire nemmeno al lettore, dandogli la sensazia-
ne che Giuseppe è inesistente ai loro occhi. Dal momento in cui i fra
telli lo vedono arrivare, infatti, per loro è soltanto un oggetto, l’ogget
to del loro odio omicida - e non è un caso se, ormai, la loro vittima re
sta totalmente passiva e non è mai più soggetto di un verbo fino alla
fine dell’episodio, se non del predicato che lo nega due volte: «Giusep
pe non c’è più» (v. 29, ripetuto da Ruben al v. 30). Verosimilmente in
questo troviamo un segno della «condanna a morte simbolica» di que
sto personaggio che nel racconto figura ormai soltanto in quanto og
getto dell'agire o del parlare di altri.21
Ma si pone anche l’interrogativo di sapere perché il narratore in
troduce questo elemento sulla bocca dei fratelli, nel luogo in cui il let
tore lo legge. Si può pensare che il narratore, avendo riferito l’aggres
sione di Giuseppe dalla prospettiva dei fratelli, aspetta che costoro ri
21 L’ultim o verbo di cui Giuseppe è soggetto rim ane quello del suo arrivo, al v. 23a.
In seguito egli è l’oggetto delle azioni degli altri personaggi (v. 23, 242, 28a, 31-32 [la tu
nica], 34, 35) o dei loro discorsi (v. 262, 32, 33, 35, 36).
Ili
prendano coscienza di questa colpa frettolosamente repressa per met
tere al corrente il lettore. Ma perché mai si ricordano proprio in quel
momento? Il contesto ci permette di indovinarlo. Dopo aver lasciato i
fratelli in carcere per tre giorni senza che sapessero cosa stava loro ca
pitando - una situazione che fa sperimentare a essi quello che hanno
fatto subire alla loro vittima gettata in una cisterna -, il governatore
egiziano decide che devono rientrare a casa del loro padre con un fra
tello in meno e domandare al padre di lasciar partire con loro il fra
tello più giovane, il figlio di Rachele che egli ha trattenuto con sé (w.
18-20; cf. 42,13). Essi si trovano dunque costretti ad affrontare un ri
torno che richiama quello del c. 37, quando hanno privato il loro vec
chio padre del suo prediletto, rientrando senza il loro fratello più gio
vane, e hanno provocato in lui un dolore inconsolabile. L’angoscia che
provano al pensiero di rivivere questi avvenimenti fa loro cogliere in
teriormente quello che Giuseppe ha vissuto - del resto essi stessi fan
no esplicitamente il parallelo fra la disperazione che vivono e quella
che hanno visto sul volto del loro fratello.22 Proprio questa disperazio
ne apre loro, se così possiamo dire, le orecchie ed essi finalmente si ri
cordano di quello che allora si sono rifiutati di ascoltare. Le grida di
Giuseppe, una volta ascoltate, li inducono a prendere coscienza della
loro colpevole insensibilità. In tal modo il lettore impara come Giusep
pe ha reagito quando i suoi fratelli l’hanno aggredito.
Le u l t i m e v o l o n t à d i G ia c o b b e ?
112
perdono del fratello. Lo fanno facendo leva su una parola del padre che
il narratore non ha riportato a suo tempo. «Tuo padre prima di mori
re ha dato quest’ordine: “Direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi
fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male!”. Perdona dun
que il delitto dei servi del Dio di tuo padre!» (50,16-17).
Qui si tratta di sapere se Giacobbe abbia fatto un tale discorso. In
effetti il narratore ha riportato numerose parole di Giacobbe prima del
la sua morte (fra 47,29 e 49,32), ma non questa.24 E nemmeno parla
di un colloquio fra i fratelh e il loro padre in assenza di Giuseppe. Inol
tre, non prende in considerazione un'eventuale rivelazione a Giacob
be degli avvenimenti che hanno contrapposto i fratelli al c. 37. Il letto
re ha dunque il diritto di nutrire qualche dubbio. Il narratore, infatti,
lascia ai fratelli l’intera responsabilità delle loro parole e precisa che
ciò che li induce a parlare così è il timore, il desiderio di proteggersi
da Giuseppe (50,15). Del resto, non si presentano personalmente da
vanti al fratello, ma incaricano un portavoce, come all'inizio quando
mandarono la tunica a Giacobbe. Non tenteranno ancora di giocare
d’astuzia? In ogni caso, il lettore ha buoni motivi per dubitarne. I fra
telli sarebbero del tutto capaci di inventare dal nulla una parola che
permetta loro di basarsi sull’autorità del defunto per ottenere il per
dono che desiderano, speculando sul fatto che un figlio prediletto non
oserà mai opporsi alle ultime volontà del padre.
Del resto, la formulazione della supplica tende a confermare questi
sospetti, constatando che i fratelli fanno tutto il possibile perché le loro
parole tocchino Giuseppe. Da una parte, presentano la loro domanda
come l’esecuzione di un ordine formale ricevuto dal padre. Ma perché
dunque Giacobbe avrebbe dato quest'ordine ai figli anziché rivolgerlo
personalmente a Giuseppe; non ne ha avuto l’occasione? Dall’altra par
te, la loro retorica vuole essere convincente. L’espressione «tuo padre»
fa da cornice al loro discorso come per sottolineare il legame privile
giato fra padre e figlio, vincolo al quale i fratelli fanno riferimento, giu
stamente; al centro, questo padre chiama i responsabili «tuoi fratelli»,
un nome inquadrato da termini che li designano come colpevoli («de
litto» e «peccato»). Così: tuo padre dice a te che siamo tuoi fratelli, no
113
nostante il delitto e il peccato verso di te: perdona dunque (2 volte). In
poche parole, davanti a questa analessi, il lettore difficilmente può evi
tare di pensare che si tratta di un’ultima furbata dei fratelli. Ma questa
menzogna, che dimostra la loro paura e la loro diffidenza, è nondime
no abitata dalla verità di una confessione indiretta della colpa.
F r e q u e n t i r it o r n i a l pa ssa t o
114
gli idoli di Lab ano che lei nasconde nella sella del cammello e che dà
luogo a un inseguimento, a un’accusa, e infine a una perquisizione
pubblica, del tutto infruttuosa (31,19-35). Da parte sua, Giacobbe, qua
e là nel corso della storia, ritorna su avvenimenti passati per spiegare
l’atteggiamento che adotta o per lamentarsi dei figli (42,4, poi v. 36 e
38; 43,7.12). Al termine della sua vita, evoca davanti a loro alcuni mo
menti forti della sua esistenza: le visite di Dio (48,3-4) e il suo accom
pagnamento costante (48,15-16); la morte di Rachele (48,7), la sua di
sperazione in séguito alla perdita di Giuseppe (48,11), l’offesa recata
gli da Ruben (49,4) o il furore vendicativo di Simeone e Levi (49,5-7).25
Ma il narratore dimostra la sua padronanza di questa tecnica nel
l’atto centrale e con i fratelli. Così, rientrati dal loro primo viaggio in
Egitto, i fratelli riferiscono a Giacobbe tutte le cose che sono capitate
laggiù (42,30-34 e 43,3-5.7). Arrivati di nuovo da Giuseppe, parlano a
lungo col suo maggiordomo del denaro ritrovato nei sacchi, evocando
nei dettagli la loro scoperta (43,20-23; cf. anche 44,8). Più oltre, Giu
da rivolge a Giuseppe una lunga supplica nella quale toma sul passa
to della famiglia, permettendo così la soluzione della crisi (44,18-34).
Nell’economia narrativa questi ritorni al passato hanno il ruolo di mo
strare che il riprodursi di fatti già avvenuti è un percorso obbligato per
la guarigione dai mali che avvelenano il presente, una guarigione che
è l’unica a poter aprire alla vita un futuro (50,20-21). Soltanto quando
questo ritorno al passato ha portato i suoi frutti è possibile andare
avanti. Così, al secondo ritorno dei fratelli alla casa di Giacobbe, quan
do finalmente si sono ritrovati, il narratore può accontentarsi di rias
sumere brevemente il loro rapporto riportandone soltanto l’essenzia
le, e cioè che Giuseppe è ancora vivo, anzi governa tutto il territorio
d’Egitto (45,26-27).
Il d i s c o r s o d i G i u d a a G iu s e p p e
25 Cf. anche 41,9-13, dove il coppiere ricorda fatti che il n a rra to re h a raccontato
dettagliatam ente (cf. 40,5-23).
115
da, che costituisce il cuore stesso dell’argomentazione sviluppata da
Giuda. Meir Sternberg ha analizzato con cura il modo in cui Giuda
giunge a formulare la propria supplica affinché essa sia a un tempo
convincente e commovente.26 In realtà il suo discorso è estremamente
ripetitivo, non solo perché riprende elementi di racconto che il narra
tore ha già esposto, ma soprattutto perché torna per tre volte su un
medesimo dato essenziale: l’amore speciale di Giacobbe per i figli di
Rachele, in particolare per Beniamino, vincolo tanto vitale.che il suo
venir meno ne causerebbe la morte.
Attorno a questo tema essenziale, Giuda rivisita il passato recente
e intravede il futuro imminente in tre tappe. Anzitutto, al loro primo
incontro, i fratelli hanno parlato a Giuseppe del loro padre e del be
niamino della famiglia, rimasto solo dopo la sparizione del fratèllo. Poi
Giuda - in un’analessi nella quale colma una lacuna del racconto, non
potendo certo presentare la realtà in modo da implicare di più Giu
seppe - precisa che, quando il signore egiziano ha chiesto di vedere
questo giovinetto, l’hanno avvertito che, se avesse dovuto abbandona
re il padre, questi sarebbe morto: Malgrado ciò, il signore è stato irre
movibile nella sua richiesta (w. 19-23). In seguito, ritornati da Gia
cobbe, i fratelli lo hanno informato della richiesta dell’egiziano e il pa
dre ha consegnato il loro fratello minore insistendo sulla sua unicità
dal tempo della sparizione del suo fratello Giuseppe; ha precisato che
se gli fosse capitata qualche disgrazia, i figli suoi sarebbero stati re
sponsabili della sua morte (w. 24-29). Infine, Giuda intravede la fine
che li attende, ora che Beniamino è condannato a restare schiavo in
Egitto: tornando dal loro padre senza il fratello minore, provocheran
no in lui un dolore tale da portarlo alla morte (w. 30-31).
A questo punto, Giuda passa a un ultimo flash-back, assumendo per
la prima volta solo su di sé in rapporto al resto dei fratelli tutta la re
sponsabilità: afferma di essersi reso garante del fratello, impegnandosi a
ricondurlo al padre suo. Ecco, ora egli supplica l’egiziano di tenerlo co
me schiavo e di lasciare che il giovinetto tomi dal padre (w. 32-33), per
ché non sopporterebbe di vedere il male colpire il padre - un grido del
cuore che gli fa dimenticare il linguaggio cerimonioso fin qui usato (v. 34).
116
Da queste ultime parole si coglie molto chiaramente che Giuda, se si of
fre di restare in Egitto al posto di Beniamino, fa questo non più per il suo
impegno e il senso di responsabilità, ma piuttosto per amore verso Gia
cobbe, per pietà verso questo vecchio padre che non sarebbe risparmia
to da questa nuova disgrazia. Infatti la sua proposta, benché riguardi il
presente immediato, riporta tuttavia Giuda a più di vent’anni addietro,
quando di ritorno da Dotan egli ha visto il padre distrutto dal dispiacere
in seguito alla perdita di Giuseppe. Ora, in quel tempo, Giuda si era già
distinto dai fratelli avendo avanzato la proposta di vendere il fratello ad
alcuni mercanti madianiti che scendevano in Egitto, condannandolo co
sì a essere schiavo in quel Paese. Ecco dunque il colpevole che ora si of
fre per ricevere la punizione della sua colpa, subendo la stessa sorte che
un tempo egli aveva preparato alla sua vittima, affinché il male che egli
un giorno ha scatenato cessi di fare nuove vittime.
Sulla base di questa rapida lettura, cosa possiamo dire dell’effetto
di questi ritorni al passato che costituiscono il cuore del discorso di
Giuda? Queste riprese del passato danno a vedere soprattutto il cam
mino percorso da Giuda e dai suoi fratelli - infatti è in loro nome che
Giuda parla quasi fino al termine del suo discorso, da qui il «noi» che
egli adotta. Il suo discorso è una lunga anamnesi della relazione fra
Giacobbe e i suoi figli a proposito del figlio di Rachele. Egli, Giuda, il
figlio della donna «trascurata» (29,30-31), il fratello meno amato
(37,3-4), non solo evoca a lungo la preferenza di Giacobbe per Rache
le e i suoi figli, ma fa vedere anche che egli la ammette come un fatto
al quale egli acconsente positivamente e che addirittura lo commuove.
Anzi, giunge fino a offrire se stesso al posto del giovinetto affinché si
possa prolungare questo rapporto preferenziale dal quale dipende la
vita del padre suo, e affinché questo fratello più amato di lui rimanga
libero. Così nel ricordo della causa del dramma che ha dilaniato la fa
miglia si disvela il fatto che ormai sono guarite l’invidia e la gelosia che
hanno generato nei fratelli l’odio e la violenza contro Giuseppe. Ormai
- e il loro affetto per il padre come la loro solidarietà con Beniamino
lo dimostrano - sono diventati figli e fratelli.
G iu d a e la l e z io n e d i T a m a r
117
re che all’orizzonte può tornare alla memoria un altro momento di tan
to tempo prima, benché non sia evocato direttamente né da Giuda né
dal narratore. Il portavoce dei fratelli, Giuda, è un uomo che conosce
dall’interno i sentimenti di un padre che, come Giacobbe, ha visto spa
rire due figli e rischia di perdere «l’unico» che ancora gli resta. Giuda
non ha forse avuto paura, quando doveva dare il figlio Seia a Tamar?
Non ha forse rifiutato di esporre l’ultimo dei suoi figli a un pericolo che
egli riteneva mortale (38,11.14b)? Su questa base, il lettore compren
de meglio il comportamento di Giuda nei riguardi del padre.27 Del re
sto l’avventura con Tamar gli ha anche insegnato che un colpevole che
dice la verità per risparmiare a un innocente la sofferenza che rischia
di infliggergli, consente al bene e alla vita di vincere il male che ha fat
to.28 Non è forse proprio questo che egli fa ora alla presenza di questo
signore del quale ignora ancora che è suo fratello?
Secondo noi, questo richiamo discreto fa capire, che la parte del lo
ro passato che Giuseppe ha fatto rivivere ai fratelli non è l’unico fatto
re della loro crescita verso la fraternità: va tenuto presente anche ciò
che il tempo ha apportato a ciascuno come esperienza di vita e di ma
turazione personale - in particolare a Giuda, poiché il narratore l’ha
raccontato al c. 38. Non è stato forse necessario molto tempo, e la lun
ga maturazione che il tempo ha permesso, affinché Giuseppe fosse ca
pace di dire alla nascita di Manasse: «Dio mi ha fatto dimenticare ogni
affanno e tutta la casa di mio padre» (41,51b)? Ora questo nome, lun
gi dal consacrare un oblio, come Giuseppe sembra dire, conserva piut
tosto la memoria dì ferite il cui trauma ha smesso di fargli male pro
prio quando, con l’aiuto del tempo e delle circostanze, la vita ha potu
to riprendere il sopravvento.
5. Conclusione
È chiaro che non soltanto il narratore della storia di Giuseppe ela
bora un racconto in cui la gestione del tempo sottolinea sapientemen
118
te per 11 lettore le vie della comprensione della trama nella sua pro
fondità umana. Non solo sollecita tutto l’acume del lettore proponen
dogli l’enigma dello statuto e della realizzazione complessa dei sogni
di Giuseppe, ma anche compone un racconto che illustra come, per i
personaggi stessi, il lavoro sul tempo che si compie nel racconto del
passato è essenziale per la vita. Perché il racconto - veicolo della me
moria - si avvera nella storia di Giuseppe come il luogo per eccellen
za in cui i personaggi progrediscono veramente nella loro ricerca del
lo shalom, del «benessere», ricerca che passa attraverso la riconcilia
zione con il passato. E questa è la condizione della costruzione della
vera fratellanza che a sua volta garantisce l’accesso al pane, alla vita.
Così il narratore, discretamente, nello sviluppare il suo superbo rac
conto fa comprendere al lettore che il racconto - che assume ed ela
bora la temporalità umana - è essenziale alla vita.
Capitolo quarto
GIUSEPPE INTERPRETE
DEI SOGNI IN PRIGIONE
(GEN 40).
ALCUNE FUNZIONI
DELLA RIPETIZIONE
NEL RACCONTO BIBLICO
André Wénin
1 R . A l t e r , L ’a rt du récit biblique, Lessius, Bruxelles 1999, 123; tr. it. L ’arte della
narrativa biblica, Q ueriniana, Brescia 1990. La presen te breve introduzione si ispira a
questo capitolo (123-155).
121
che derivano dall’introduzione di variazioni più o meno importanti al
l’interno di schemi ripetitivi. Di volta in volta questi possono riferirsi
alla scelta di parole o espressioni (leitmotiv), alla costruzione delle fra
si, all’impiego di motivi (immagine concreta, azione o oggetto) e di te
mi, alla disposizione di sequenze operative o di intere scene. Il lettore
accorto sarà in grado di scoprirle dove sembrano assenti; dove invece
sono più visibili, farà attenzione alle pur minime variazioni. Ne va del
la sua capacità di saper scorgere nel racconto un’insistenza, un’am
plificazione, un giudizio implicito o un commento interpretativo. Inol
tre questo gli permetterà di gustare la sottile ironia o la comicità di una
situazione, di percepire una ingenuità o una manipolazione, di coglie
re una strategia o un gioco ingannatore. Grazie alla ripetizione, potrà
meglio percepire il punto di vista di un personaggio, l’intreccio di una
scena, la verità, talvolta molto relativa, di una parola detta. Insomma,
nel racconto biblico la ripetizione è elevata al rango di tecnica narra
tiva nel pieno significato del termine e costituisce uno dei luoghi in cui
la finezza e l’acutezza del lettore vengono sollecitate a servizio della
comprensione del racconto. Per illustrare alcune potenzialità di questa
tecnica, in questo capitolo studieremo m a pagina della Genesi in cui
essa è particolarmente presente: l’episodio in cui, nella sua prigione
egiziana, Giuseppe interpreta i sogni di due compagni di detenzione di
alto rango, funzionari del faraone, al servizio dei quali egli si trova
(Gen 40).
Negli studi della storia di Giuseppe, questo episodio non è affatto
valorizzato. Nell’insieme della trama, rappresenta infatti soltanto una
tappa transitoria, che prepara l’incontro di Giuseppe con il faraone e
poi l’ascesa del giovane ebreo (Gen 41). Se, a motivo delle ripetizioni
e dell’insistenza del narratore sui dettagli, produce nel racconto un si
gnificativo ritardo, è con lo scopo di meglio valorizzare una compe
tenza che qualifica l’eroe in vista di ciò che dovrà compiere in seguito,
mentre la centralità dei sogni e del loro compimento ricorda che Giu
seppe aspetta sempre che si realizzino quelli che, all’inizio della sto
ria, egli raccontava ai suoi fratelli e a suo padre (Gen 37,5-10). Prima
di considerare dettagliatamente le numerose ripetizioni che costellano
questo episodio, sarà utile leggerlo in una traduzione letterale, pre
stando attenzione alla costruzione della trama.
122
1. La trama
1.1. L’esposizione
La trama di questo racconto è molto semplice.2 La sua esposizione
consiste in un micro-racconto veloce e generico che serve a presenta
re la situazione di partenza (w. 1-4).
1Dopo questi fatti, il coppiere del re d’Egitto e il panettiere offesero il lo
ro padrone, il re d’Egitto. 2Il faraone si adirò contro i suoi due funzio
nari, il capo dei coppieri e il capo dei panettieri. 3E li fece mettere in de
tenzione nella casa del capo delle guardie, nella prigione dove Giusep
pe era detenuto. 4E il capo delle guardie assegnò loro Giuseppe perché
li accudisse; ed essi restarono in detenzione per un certo tempo [lett.:
per dei giorni],
I personaggi sono posti e presentati gli uni di fronte agli altri. I due
funzionari in capo passano dalla corte dove stanno accanto al loro pa
drone - il faraone, il re d’Egitto (w. 1-2) - alla prigione dove uno schia
vo detenuto è assegnato al loro servizio (w. 3-4). L’espressione ebrai
ca bemìshmar, che traduciamo «in detenzione», indica che sono in at
tesa del giudizio del re3 per la colpa che hanno commesso e che ne giu
stifica la prigionia, colpa cui il narratore non dà importanza.4 La loro
detenzione è dunque provvisoria.
Ciò detto, notiamo che il narratore vuole evidenziare la condizione
ufficiale dei personaggi. Egli propone una vera e propria gerarchia e
la sottolinea ripetendo alcune parole. Al vertice c’è il faraone, re d’E
gitto (due volte nel v. 1), «padrone» dei funzionari, che stanno sul se
2 Per la stru ttu ra compositiva del testo, cf. C . W e s t e r m a n n , G enesis 3 7 -50. A Corri'
m entary, Augsburg, M inneapolis 1986, 72-73, che adotta la stessa partizione n arrativ a
di H. G u n k e l , G enesis, V andenhoeck u n d Ruprecht, GÒttingen 91977, 428-432, e che io
qui seguo. Per u n 'a ltra proposta, cf. D.W. C o t t e r , Genesis, Liturgical Press, Collegeville
2003, 294.
3 Per questo significato, cf. G u n k e l , Genesis, 428, o N.M. S a u n a , G enesis, Jew ish Pu
bi! cation Society, Philadelphia 1989, 277. Si veda la stessa espressione in Gen 42,17.19;
Lv 24,12 e Nm 15,34.
4 G. v o n R a d , La Genèse, Labor et Fides, Genève 1964, 378. La m enzione della col
pa serve a sottolineare che la detenzione non è arb itraria. Quindi, come dice G.J. W e n -
h a m , G enesis 16-50, W ord Books, Dallas 1994, 381, p er il racconto non è necessario p re
123
condo gradino. Il coppiere e il panettiere del v. 1 sono in realtà dei «ca
pi» (due volte al v. 2), proprio come il «capo delle guardie» (due volte
ai w. 3-4). Sul gradino inferiore si colloca Giuseppe, la cui posizione
inferiore è accentuata dalla ripetizione dei termini che designano le
funzioni elevate: egli è soltanto un detenuto preposto al servizio dei due
alti funzionari.
1.2. La complicazione
L’azione inizia realmente con i sogni del coppiere e del panettiere.
Essa si sviluppa in tre fasi che sono sempre più estese. La prima cor
risponde all’elemento che avvia l’azione (v. 5).
5E sognarono un sogno, loro due, ciascuno il suo sogno in una medesi
ma notte, ciascuno secondo il significato del suo sogno, il coppiere e il
panettiere che erano del re d’Egitto, che erano detenuti nella prigione.
5 In questo senso, per esempio W bsterm a nn , Genesis 37 -50, 74, e S a iin a , Genesis, 277.
124
Il dialogo iniziale tra Giuseppe e i funzionari costituisce il secondo
momento della complicazione. Il narratore abbraccia ora un modello
scenico come per offrire al lettore di assistere direttamente alla scena.
Arrivando al mattino, Giuseppe constata l’abbattimento insolito di co
loro che egli serve - il narratore ce lo fa d’altronde vedere con i suoi
occhi.6 Allora interpella coloro che considera compagni di detenzione,
come suggerisce la nuova sottolineatura: «i funzionari del faraone che
erano con lui in detenzione nella casa del suo padrone». Questa peri
frasi serve infatti a indicare che Giuseppe considera coloro che stanno
davanti a lui come detenuti che condividono la sua sfortunata condi
zione.7 Assieme a lui, il lettore conferma ciò che presagiva: è il sogno
a turbare i funzionari, o non piuttosto il fatto che non ne capiscono il
significato e che, essendo in prigione, non possono accedere agli in
terpreti professionali della corte (cf. 41,8)?8 Osserviamo che essi par
lano proprio di un sogno, al singolare, come se avessero fatto lo stes
so sogno (v. 8a). Giuseppe propone allora il suo aiuto chiedendo di rac
contare il sogno, non senza aver prima preso la precauzione di preci
sare che le interpretazioni appartengono a Dio. Qui trapelala fede del
giovane schiavo che, non essendo uno specialista di sogni, si affida a
Dio che lo sta assistendo da quando è in Egitto, ma verosimilmente non
è escluso che, parlando così di Dio, Giuseppe si protegga le spalle: se
non sarà in grado di interpretare, potrà sempre dire che non conosce
i segreti degli dèi; se, invece, la sua interpretazione si rivelerà esatta,
agli occhi di prossimi del re figurerà come un ispirato.
La terza fase della complicazione è molto più lunga delle due pre
cedenti. Si svolge in due tempi paralleli: ogni funzionario racconta il suo
sogno, che poi Giuseppe interpreta (w. 9-13 e 16-19); la prima inter
pretazione si prolunga a causa di una richiesta del giovane al coppiere,
al quale ha appena annunciato la prossima riabilitazione (w. 14-15).
6 Al v. 6b, «ed ecco» (wehinnéh) indica che il n a rra to re adotta il punto di vista del
personaggio p er segnalare ciò che egli percepisce. Cf. J.-L. S k a , « N os pères nous o n t ra-
conté». Introduction à Vanalyse des récits de VAncien Testament, Cerf, Paris 2011, 67:
tr. it. «I nostri padri ci hanno raccontato». Introduzione alVanalisi dei racconti dell'an
tico testam ento, EDB, Bologna 2012. All’inizio dei racconti di sogni (w . 9 e 16), la stes
sa particella segnala che sono raccontati secondo il punto di vista di chi h a il sogno.
7 Per W e n h a m , G enesis 16-50, 382, l’espressione sottolinea piuttosto la vulnerabili
tà dei due che hanno avuto il sogno,
8 Cf. G u n k e l , Genesis, 429, o v o n R a d , La Genèse, 375.
125
9E il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse:
«Nel mio sogno, (ed) ecco (c’era) una vite davanti a me, 10e sulla vite
tre tralci. E appena cominciò a germogliare, apparve il fiore e i suoi
grappoli maturarono acini. 11Ora, la coppa del faraone era nella mia
mano, e presi gli acini e li spremetti nella coppa del faraone e diedi
la coppa in mano al faraone». 12E Giuseppe gli disse: «Questa è la sua
interpretazione: i tre tralci sono tre giorni. 13Ancora tre giorni e il f a
raone solleverà la tua testa9 e ti farà tornare nella tua carica. E tu
darai la coppa del faraone nella sua mano, secondo la consuetudine
di prima, quando eri il suo coppiere. 14Ma se tu volessi ricordarti di
me (che sono stato) con te, quando sarà bene per te, trattami, ti pre
go, con un atto di fedeltà: ricorda me davanti al faraone e fam m i usci
re da questa casa. 15Perché io sono stato rubato, rubato dal paese de
gli Ebrei; e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in que
sto buco». 16E il capo dei panettieri vide che aveva interpretato in be
ne10 e disse a Giuseppe: «A nch’io, nel mìo sogno, (ed) ecco (c’erano)
tre canestri di dolci11 sul mìo capo 17e, nel canestro il (più) in alto,
(c'era) ogni sorta di cibi per il faraone, fatto dal panettiere; e l ’uccel
lo li mangiava dal canestro da sopra la mia testa». 18E Giuseppe ri
spose e disse: «Questa è la sua interpretazione: i tre canestri sono tre
giorni. 19Ancora tre giorni e il faraone solleverà la tua testa da sopra
te e ti appenderà a un albero, e l’uccello mangerà la tua carne da so
pra te».
126
sogni non sono uguali e che la loro interpretazione è differente: Giu
seppe lo scoprirà? Quando il narratore, usando la sua onniscienza, gli
dà accesso al modo in cui il panettiere vede l’interpretazione favore
vole del primo sogno (v. 16a) e poi gli fa ascoltare l’inizio del suo rac
conto («Anch’io...»), il lettore capisce che questo funzionario conside
ra il suo sogno simile a quello del suo collega12 - come già la comune
parola dei due uomini faceva sottintendere al versetto 8b. Visibilmen
te, dunque, il panettiere si aspetta anch’egli un’esegesi positiva del suo
sogno, e il lettore si chiede se Giuseppe non cadrà anch’egli vittima del
l’apparente somiglianza dei due sogni, lui che si è mostrato così sicu
ro di sé quando ha spiegato il sogno al coppiere, non esitando di chie
dergli di ricordarsi di lui e di dimostrare la sua riconoscenza a inter
pretazione avverata. Ma Giuseppe non cade nella trappola e non cède
nemmeno alla piaggeria per far piacere al panettiere.13 Malgrado met
ta in luce le evidenti similitudini con l’altro sogno, la sua interpreta
zione è effettivamente del tutto diversa.
Al termine della complicazióne, la tensione, sia per i personaggi sia
per il lettore, è al culmine, tanto più perché i funzionari non reagisco
no all’interpretazione del loro sogno. Dal momento che la trama ruo
ta tutto attorno al personaggio di Giuseppe, ciò non aggiungerebbe al
cunché.14 Infatti, quando il narratore ricorre all’ellissi per saltare al
terzo giorno preannunciato da Giuseppe, tutti si chiedono - ma ognu
no a modo suo - se le sue interpretazioni si verificheranno.
127
nella mano del faraone, 22ma il capo dei panettieri (lo) appese, come
Giuseppe aveva interpretato per loro. 23Ma il capo dei coppieri non si ri
cordò di Giuseppe, e lo dimenticò.
15 L'inclusione fra 40,1-4 e 40,22-23 sottolinea il futuro dei tre detenuti ricordati al
l’inizio. A tal proposito, G r e e n , «W hat P ro fitfo r Us?», 88, osserva che, dei tre cam bia
m enti dì posizione che ci si aspetterebbe secondo il racconto, solo quello di Giuseppe non
si realizza (v. 23).
16 In tal senso, G.W. C o a t s , Genesis, w ith an Introduction to N arrative Literature,
E erdm ans, G rand Rapids 1983, 281, h a ragione quando dice che questa scena non ha
una vera conclusione, poiché i l suo finale rilancia la tensione n arrativ a. Così p u re G u n -
k e l , Genesis, 432.
128
fetto di insistenza o servivano al narratore per suggerire con finezza la
prospettiva particolare di un personaggio. Quanto all’epilogo, esso è in
teramente tessuto di termini e di espressioni ripresi dal racconto stes
so (w. 20-23). Capita che l’atteso «terzo giorno» (cf. w. 12-13 e 18-19)
corrisponda al compleanno del faraone (v. 20a). «Sollevando la testa»
del coppiere e del panettiere (v. 20b), il sovrano realizza la prima par
te degli annunci di Giuseppe (cf. w. 13 e 19), mentre la seconda parte
si verificherà più avanti: il re «fa tornare il coppiere nel suo ufficio» e,
come quest’ultimo aveva visto in sogno, «dà la coppa nella mano del
faraone» (v. 21, cf. w. 13 e llb ); quanto al panettiere, è davvero ap
peso o impiccato a un albero (v. 22a, cf. v. 19).
Queste ripetizioni hanno l’evidente scopo di sottolineare che le pa
role di Giuseppe si compiono alla lettera,17 ma anche di mantenere la
suspense fino all’ultimo, e non senza arguzia. Ma esse mettono ugual
mente in evidenza il contrasto finale: tutte le parole di Giuseppe si rea
lizzano, eccetto la richiesta fatta al coppiere. Lo indica, al v. 23, la ri
presa di un verbo che, al v. 14 è oggetto di un'insistenza, «ricordarsi»
(.zakar), e del suo antonimo, «dimenticare». Così, invece di «ricor
darsi» e di «fare ricordo» di Giuseppe davanti al faraone (v. 14), il cop
piere «non si ricorda» di lui e «lo dimentica» (v. 23), deludendo la spe
ranza di libertà che Giuseppe aveva riposto in lui.18
Il narratore ricorre alla stessa tecnica scegliendo di riportare in mo
do scenico il racconto dei sogni dei funzionari e le interpretazioni di
Giuseppe (w. 9-19). In questo caso mantiene due volte la stessa se
quenza di azioni, circoscrivendo le tappe per meglio evidenziarle. Pos
siamo così confrontare tra loro i due racconti di sogni (2.1.) e anche le
interpretazioni, compreso il legame tra queste ultime e il racconto dei
sogni (2.2.).
129
2.1. Comparazione dei due racconti di sogni
(w. 9 b -ll e 16b17)־
9bNel mio sogno, (ed) ecco: 16bAnch’io, nel mio sogno, (ed) ecco:
(c’era) una vite davanti a me, 10e sul (c’erano) tre canestri di dolci sul mio
la vite tre tralci. capo
E appena cominciò a germogliare, 17e, nel canestro il (più) in alto,
apparve il fiore e i suoi grappoli ma (c’era) ogni sorta di cibi per il farao
turarono acini. 11Ora, la coppa del fa ne, fatto dal panettiere;
raone era nella mia mano,
e presi gli acini e li spremetti nella e l’uccello li mangiava dal canestro,
coppa del faraone e diedi la coppa in da sopra la mia testa.
mano al faraone.
130
fido, mentre il panettiere vorrebbe farlo, ma ne è impedito».21 Cer
chiamo di andare avanti e di essere più precisi. Nel sogno riportato dal
coppiere, la natura e l’uomo si uniscono in una sequenza di atti per
fettamente concatenati, anche se il tempo vi è come compresso:22 tre
azioni della vigna - germogliare, fiorire, maturare - si prolungano con
altre tre del coppiere - prendere, spremere, dare.23 Si instaura così
una specie di alleanza tra la natura e l’uomo a servizio del faraone (no
minato anch’egli tre volte), poiché il beneficiario finale del dono è lui,
che riceve «in mano» ciò che era «nella mano» del coppiere. In questo
sogno regna l’armonia, diversamente da quanto avviene per il panet
tiere che, nel suo sogno, non è del tutto attivo, mentre, da parte sua,
la natura feconda è completamente assente. Per quanto l’uomo abbia
preparato del cibo per il faraone, questi non ne trarrà profitto, dal mo
mento che gli uccelli (una natura ostile) lo mangiano senza che il pa
nettiere dimostri di fare alcunché per impedire che ciò che ha «sulla
testa» sia portato via e distrutto (w. 16 e 17).24
131
Ricordiamo che il narratore ha avvisato in partenza il lettore che i
due sogni hanno ciascuno una propria interpretazione (v. 5). Questi sa
rà dunque più sensibile alle differenze che il panettiere non pare aver
percepito. Invece Giuseppe vi presta attenzione. È vero che, come scri
ve von Rad, egli «estrae solo alcuni elementi della visione», selezio
nando gli «elementi decisivi»25 che servono all’interpretazione. Egli ri
prende infatti ogni volta l’inizio e la fine dei sogni che gli sono stati rac
contati. I «tre» elementi nominati all’inizio - tralci e canestri - sono in
terpretati come termine temporale: «Eccone l’interpretazione: i tre
sono tre giorni. Ancora tre giorni, [...]» (w. 12-13 e 18-19). La parte fi
nale dei due sogni, così diversa nei due casi, costituisce l’altro appog
gio dell’interpretazione, dal momento che Giuseppe la legge come evo
catrice del futuro di ciascun sognatore. Come ha visto (v. llb ), il cop
piere, ristabilito nel suo ufficio, metterà la coppa nella mano del fa
raone (v. 13b); mentre del panettiere, che ha visto gli uccelli mangiare
il cibo del faraone sopra la sua testa (v. 17b), gli uccelli mangeranno la
carne dopo che il re avrà «sollevato la sua testa da sopra di» lui e ap
peso le sue spoglie in un gesto di supremo disonore (v. 19).26
Il modo di procedere di Giuseppe è dunque identico per ognuno dei
due funzionari: a dettare il tenore dell’interpretazione è il finale posi
tivo o negativo del racconto e la sorte del sognatore si avvera confor
memente all’esito della storia che racconta. Ne è indice il netto paral
lelismo tra le due interpretazioni, sottolineato da due identici inizi (cf.
sopra). Ma Giuseppe prolunga questa simmetria aggiungendo imme
diatamente per l’uno e per l’altro: «Il faraone solleverà la tua testa» (w.
13 e 19). In questa ripresa si può certamente vedere un tratto di mor
dente ironia nei riguardi del panettiere: avendo intuito quanto egli si
aspetti un’interpretazione positiva (v. 16a), Giuseppe comincia col far
132
gliela sperare, prima di smentirlo freddamente. Ma osserveremo che
nello stesso momento il narratore intraprende un gioco analogo con il
lettore, il quale, per un breve istante, può credere che Giuseppe sia ca
duto nella trappola della somiglianza dei sogni, prima di rendersi con
to che non è affatto il caso.
133
me attestano le numerose riprese del vocabolario usato (cf. i corsivi nel
la traduzione letterale qui sopra). Il suo esordio (v. 9b) rinvia alla «col
pa» evocata dal narratore in 40,lb, ma anche forse al suo oblio, di cui
si sovviene dopo due anni. L’impiego del verbo zakar («ricordarsi») ri
chiama infatti la domanda di Giuseppe (40,14) e la negligenza finale del
coppiere (40,23).28 Il funzionario racconta in seguito la collera del fa
raone e rincarcerazione (41,10: cf. 40,2-3a), poi menziona i sogni di
versamente interpretati (41,11: cf. 40,5)29 e, diversamente dal narrato
re del c. 40, introduce Giuseppe soltanto nel momento in cui ne ha ne
cessità (41,12a: cf. 40,3b-4)30 per poter evocare il racconto dei sogni e
le interpretazioni che ne ha dato (41,12b: cf. 40,9-13.16-19). Termina
affermando che le sue parole si sono rivelate esatte, poiché egli stesso
è stato riabilitato mentre l’altro è finito appeso (41,13: cf. 40,21-22).
La storia è quindi proprio identica. Ma la narrazione che ne viene
fatta dal coppiere è totalmente diversa. La scarsa importanza che que
st’ultimo accorda alle diverse parti della vicenda si allontana parecchio
da quella che riservava loro il narratore. Se l’esposizione e il primo
tempo dell’azione (40,1-5) sono abbastanza sviluppati (41,9-12a) e se
l’epilogo è riassunto (41,13, cf. 40,21-22), l’essenziale del racconto del
narratore si riduce a una breve frase (41,12b, cf. 40,6-19). Il coppiere
sintetizza infatti in modo narrativo tutto ciò che il narratore ha scelto
di raccontare scenicamente per mezzo di lunghi dialoghi; egli omette
pure tutti gli effetti di ritardo e quindi di suspense utilizzati da que
st’ultimo; infine il suo racconto assume un punto di vista esterno, poi
ché un personaggio non è in grado di far luce sui pensieri segreti di un
altro, come fa il narratore onnisciente in 4 0 ,6 b e l6 a .
Se la narrazione del coppiere è molto diversa da quella del narra
tore, ciò è dovuto al fatto che la finalità del suo racconto non è la stes
sa. Raccontando la storia, il narratore si dilunga a mostrare al lettore
134
l’intelligenza e la sapienza di Giuseppe. Attento agli altri e pieno di sol
lecitudine, pur riconoscendo che la sua situazione è ingiusta (40,7-8,
cf. v. 15), il giovane sa consapevolmente invocare Dio (40,8b) e appro
fitta del passaggio della grazia per tentare di uscire dalla prigione sol
lecitando il sentimento di gratitudine del suo interlocutore e suggeren
do di sfuggita che, anche se è recluso, egli è innocente (40,14-15). Si
dimostra soprattutto un eccellente interprete di sogni: dimostra una
capacità che il lettore della Genesi non gli riconoseva prima e che il
narratore concede di osservare con calma grazie alle ripetizioni, ri
servando anche una certa suspense per rendere la cosa più evidente
quando la sottolinea nella conclusione (40,22b).31
Il coppiere non ha questa preoccupazione. Egli desidera venire in
contro al problema del faraone che è gravemente turbato dai sogni
(41,8). Racconta la sua storia solo per indicare al re una soluzione. Se
condo le parole di Westermann si accontenta di «un riassunto breve e
chiaro [...] che permette al faraone di imparare quanto necessario».32
Lo fa però con intelligenza. Appellandosi alla memoria del re per ren
dere il suo racconto credibile e collegandolo a qualcosa che il faraone
può ricordare, il coppiere comincia e termina con un paio di episodi
che questi conosce: la sua collera contro i suoi due funzionari e la lo
ro prigionia (41,10) e poi il contrastato giudizio reso al termine della
faccenda (v. 13b). Tra i due episodi nomina Giuseppe (w. 11-12), limi
tandosi, dopo averlo presentato, ai sogni e alle interpretazioni che egli
ne ha fatto. Per farlo impiega sei parole dalla radice hlm («sognare») e
quattro dalla radice ptr («interpretare»). Tali ripetizioni sono altamen
te significative dell’insistenza tematica che sta al centro del racconto
del coppiere. Egli presenta Giuseppe come l’uomo al quale il re può ri
correre per trovare una via d’uscita dall’impasse in cui l’hanno im
merso i suoi sogni e l’incompetenza dei sapienti egiziani. Infatti, qua
lunque cosa si possa dire della sua poco invidiabile situazione di gio
135
vane inacar), di straniero (ebr. civri) e di schiavo (ceved, v. 12a),33 il gio
vane prigioniero si è rivelato competente ed efficace al massimo gra
do come interprete di sogni.34
Così, senza attardarsi su dettagli che rischierebbero di disturbare
l’essenziale, il coppiere stabilisce magnificamente quanto nella storia
serve al suo scopo, con l’eleganza di lasciare al re la cura di trarre lui
stesso le conclusioni. Narrato così, il suo racconto ha una notevole ef
ficacia, tant’è vero che, senza por tempo in mezzo, il re fa ciò che pro
babilmente il funzionario voleva (e Giuseppe aveva sperato): lo tira fuo
ri dal sotterraneo (41,14) per parlargli dei suoi sogni inquietanti, ag
giungendo: «Ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno
per interpretarlo» (41,15b) - proprio quello che il coppiere voleva che
rimanesse impresso del suo racconto. Rispondendo: «Non io, ma Dio
darà la risposta per la pace del faraone» (v. 16), Giuseppe ritornerà su
un dettaglio, per lui importante, che il coppiere nel suo racconto ave
va sottovalutato: è da Dio che riceve la sua arte, non dalle tecniche di
vinatorie che il faraone gli attribuisce sulla base del racconto del cop
piere.35
4. Conclusione
Dal punto di vista narrativo, il breve racconto di Gen 40 e la sua ri
presa da parte del coppiere in 41,9-13 giocano molto su diversi tipi di
ripetizione.36 C’è anzitutto la ripetizione di termini o di espressioni, che
può sottolineare un’insistenza tematica (come in 40,1-4 e in 41,11-12)
o attirare l’attenzione del lettore su una prospettiva propria del perso
33 Questa caratteriz 2azione d iretta è assente nel racconto del n a rra to re al capitolo
40. Ma essa risalta dal resto del racconto: «giovane» rinvia a 37,2, «ebreo» è preso dal
le parole di Giuseppe in 40,15 (cf. anche 39,14.17) e Giuseppe è p resentato come «ser
vo» (= schiavo) in 39,17.
34 In questo senso, G r e e n , « W h a tP ro fit fo r Us?», 100.
35 Cf. H a m il t o n , G enesis 18-50, 490.
36 In scala maggiore, la ripetizione di coppie di sogni è tipica della storia di G iù-.
seppe: in Gen 37, una perso n a sogna due volte e intervengono due interpreti; in Gen 40,
ci sono due sognatori e un solo interprete, m a ciascun sogno h a un significato p artico
lare; in Gen 41, un sognatore h a due sogni, e un solo in terp rete dà u n a spiegazione uni
ca. Cf. G r e e n , «W hat ProfLt fo r Us?», 96.
136
naggio interessato (40,5 e 7). Altrove, la ripresa di termini o di espres
sioni-chiave è usata per indicare la realizzazione di parole dette in pre
cedenza (come in 40,21-22), oppure, al contrario, una mancanza di
compimento (in 40,23).
Il fenomeno della ripetizione si estende anche a insiemi più conse
guenti. Così, la ripresa di una sequenza di azioni come queHa del rac
conto dei sogni e della loro interpretazione (40,9-19) suscita !,atten
zione e la sagacia del lettore, il cui compito è in tal caso di apprezza
re il significato delle similitudini e delle differenze, sia sul piano della
trama che della costruzione dei personaggi. D'altronde, nelle narra
zioni bibliche la ripresa da parte di un personaggio del racconto di un
episodio in cui è stato coinvolto da vicino (come in Gen 41,9-13) è ab
bastanza frequente. Essa permette di osservare come narratori diver
si raccontino la stessa storia ognuno a modo suo, cosa che porta il let
tore a chiedersi che cosa può spiegare tali differenze.
Questa tecnica corrente nei racconti biblici non collima con ciò che
noi ci attendiamo da un’opera letteraria. Ma questo breve saggio mo
stra sufficientemente che non manca di efficacia e che a modo suo con
tribuisce a sollecitare con discrezione !’intelligenza attiva del lettore.
137
Capitolo quinto
IL PUNTO DI VISTA
NEL RACCONTO BIBLICO
Daniel Marguerat
139
Procederemo in cinque tempi. Nel primo tempo, ricorderemo la de
finizione del punto di vista secondo Uspensky, con i diversi registri sui
quali si iscrive. In un secondo tempo esporremo la posizione di Genet
te con la sua tipologia delle focalizzazioni: questa tipologia ha cono
sciuto un enorme successo, è diventata classica e finora è stata impie
gata nel quadro della maggior parte delle opere di analisi narrativa.
Ma proprio la sua definizione delle focalizzazioni è stata criticata, an
zitutto da Mieke Bai e più recentemente dal linguista francese Alain
Rabatel. Come terzo tempo presenteremo le obiezioni e la ricostruzio
ne del concetto di punto di vista proposto da Rabatel. Il seguito del ca
pitolo prow ederà a due applicazioni—infatti una teoria, per quanto se
ducente, non vale assolutamente niente finché non è stata messa alla
prova del testo. Applicheremo anzitutto questo nuovo approccio del
punto di vista all’episodio della guarigione dello storpio alia Porta Bel
la del Tempio, narrato in At 3,1-10 e in seguito faremo vedere come
l’approccio per mezzo del punto di vista possa illuminare la costruzio
ne di una sequenza narrativa, nel caso Me 8,22-38. Una breve conclu
sione costituirà il quinto tempo.4
4 Gli studi sul punto di vista {o prospettiva) nella n arrazio n e biblica sono rari. Se
gnaliamo: G. Y a m a s a k i , W atching a Biblical N arrative. Point o fV iew in Biblical Exegesis,
Clark, New York 2007; RRENAB, R egards croisés su r la Bible. É tudes su r le p o in t de
vue. A ctes du Ille colloque International du R éseau de recherche en n a rrativité biblique,
Paris 8-10 ju in 2006, Cerf, Paris 2007; J.L. R e s s e g u i e , L'exégèse narrative du N ouveau
Testament. Une introduction, Lessius, Bruxelles 2009, 235-240, tr. it. Narratologia del
Nuovo Testam ento, Paideia, Brescia 2008.
5 Su questi concetti narratologici, rinviam o a M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i rac
conti biblici. Iniziazione a ll’analisi n arra tiva , 25-35.
140
la tradizione sinottica offre grosso modo tre varianti di punti di vista
per una stessa storia raccontata, cioè la storia della vita, della morte e
della risurrezione di Gesù di Nazaret. Ogni vangelo sinottico si distin
gue per la cristallizzazione narrativa del punto di vista di un narrato
re ed è possibile, per astrazione e per sintesi, ricostruire questo punto
di vista che regge tutta la strategia narrativa spiegata nel testo; si par
lerà allora del punto di vista di Marco, di Matteo e di Luca.
Cos’è dunque il punto di vista? È «il rapporto che il narratore in
trattiene con la storia raccontata».6 Il punto di vista è dunque un atteg
giamento cognitivo che il narratore adotta quando costruisce il raccon
to della storia di cui vuole rendere conto. Se prendiamo ad esempio nei
vangeli il personaggio collettivo dei «giudei», differenziamo il punto di
vista insieme critico e distante di Marco dal punto di vista più ostile di
Matteo con la sua fissazione sulla figura dei farisei, e infine la massifi
cazione che fa Giovanni, che presenta i «giudei» come un’entità quasi
uniformemente aggressiva nei confronti del Rivelatore.7 Il punto di vi
sta è un atteggiamento del narratore che si applica a tutti gli elementi
del racconto, sia che si tratti di persone, di oggetti o di valori.
A Boris Uspensky dobbiamo l’aver concettualizzato la nozione di
punto di vista.8 In questa nozione egli individua una quintuplice di
mensione: spaziale, temporale, psicologica, fraseologica e ideologica.
Il punto di vista è dunque inquadrato, o, se preferiamo, determinato
da questi cinque registri.
1) La dimensione spaziale: nel descrivere l’azione, il narratore può
occupare una serie di posizioni. Può unirsi al personaggio e descrivere
la casa quando questi vi entra, descrivere poi la strada quando esce, op
pure può tenersi a distanza e descrivere l’azione del suo personaggio in
mezzo alla folla. Dipende dal fatto che desideri o meno associare il per
sonaggio al lettore, se voglia o meno porre l'accento sul personaggio.
2) La dimensione temporale: il narratore può descrivere una sto
ria al passato perché essa è storicamente anteriore al tempo che egli
6 P. L u b b o c k , The Craft o f Fiction, Cape, London 1921, 251; tr. it. Il m estiere della
narrativa, Sansoni, Firenze 1984; Milano 22000.
7 Su questo cf. J. Z u m s t e i n , «A usgrenzung aus dem Judentum und Identitàtsbildung
im Johannesevangelium », in F. S c h w e it z e r (ed.), Religion, Politik und Gewalt, Mohn, Gii-
tersloh 2006, 383-393.
8 B . U s p e n s k y , A Poetics o f Composition. The Structure o f thè A rtistic Text a n d Typo-
logy o f a Compositional Form, University of California Press, Berkeley 1973.
141
sta vivendo e vuole che sia accolta come tale, ma può anche (come
spesso accade nei vangeli, specialmente in quello di Marco) passare
improvvisamente al presente e proporre al suo lettore la sincronia.
Può anche fare un’ellissi a partire dal suo posizionamento storico, co
me accade in Mt 28,15: «Questo racconto [le voci sul furto del corpo
del Risorto da parte dei discepoli] si è propagato fra i giudei fino ad
oggi». C’è un salto dal tempo del racconto al tempo dell’enunciazione
narrativa.
3) In terzo luogo abbiamo la dimensione psicologica. Essa si con
cretizza nei verbi del «sentire gli effetti»: egli pensò, egli si chiedeva,
prese paura, ebbe pietà, gli sembrava che... Qui il punto di vista corri
sponde a una visione interiore, cioè a una informazione che il narra
tore offre sull’interiorità di un personaggio.
4) La dimensione fraseologica ·, la scelta delle parole, la scelta di un
linguaggio è determinante nella percezione che il narratore vuole crea
re nel suo lettore, ma al di là di questa evidenza, Uspensky raccoman
da di prestare attenzione al modo in cui il punto di vista del narratore
impregna il discorso riportato dei personaggi. Quando in Luca un mae
stro della legge si rivolge a Gesù chiedendo: «Maestro, cosa devo fare
per avere la vita eterna?» (Le 10,25), il narratore esprime un atteg
giamento di deferenza da parte del legista, un rapporto di tipo scola
stico verso Gesù e una considerazione alta di Gesù visto come capace
di risolvere una cruciale questione soteriologica. Ancora una volta, il
punto di vista del narratore costruisce l’immagine proposta al lettore
e suscita in lui un atteggiamento di empatia nei riguardi del legista.
5) Quinta e ultima dimensione: Videologia. Il termine è esplosivo,
ma lo usiamo intendendo il sistema di valori che il narratore propone
nel corso del suo racconto. Per evocare come il narratore costruisca un
universo di valori che egli, più che dichiarare esplicitamente nel rac
conto, instilla, basta ricordare come sono trattate, nel Vangelo di Gio
vanni, da un lato la figura del discepolo prediletto, «il discepolo che egli
amava» (Gv 19,26), e dall’altro lato la figura di Giuda «uno dei suoi di
scepoli, lo stesso che lo avrebbe consegnato» (Gv 12,4). Nei vangeli,
«l’ideologia» del narratore si confonde con un’indiscussa adesione ai
valori rappresentati da Gesù. Ogni opposizione a questi valori pone i
personaggi nel campo dei nemici - ma è proprio «l’ideologia» (dicia
mo: la teologia) paradossale del narratore Marco a situare spesso i di
scepoli nel campo degli oppositori, che non comprendono le parole di
Gesù o rifiutano il suo annuncio (cf. Me 6,37.52; 8,14-21.31-33; 9,18-
142
19.32; 10,35-38; ecc.). Marco scompiglia le carte associando i disce
poli a posizioni ostili a Gesù.9
Rimanendo a questo primo stadio di comprensione del punto di vi
sta - uno stadio elementare, che in seguito diventerà più complesso -,
possiamo già fare due osservazioni interessanti.
9 P e r u n ’a p p l i c a z i o n e d e ll e c i n q u e d i m e n s i o n i d e l p u n t o d i v i s t a (o p r o s p e t t i v a ) a L e
10,25-37, c f . R e s s e g u i e , U exégèse narrative du N ouveau Testament. Une introduction,
235-240, t r . i t . N arratologia d el Nuovo Testamento.
143
replica di Gesù (v. 31). In finale, focalizzazione sugli occupanti della
barca che si prostrano davanti a Gesù (v. 33). C’è dunque alla fine una
massiccia focalizzazione su Gesù, senza tuttavia che il narratore ci dia
accesso alla sua interiorità: la terza dimensione del punto di vista se
condo Uspensky, quella psicologica, è riservata alle brevi fecalizzazio
ni sui discepoli, il loro timore o la loro adorazione (w. 26, 30, 33). Che
cosa pensa Gesù, come reagisce davanti allo spettacolo della barca in
pericolo, perché li raggiunge camminando sulle acque? Davanti a que
sti interrogativi, il lettore non trova risposte, constata invece - qui sta
il paradosso del racconto - che la paura dei discepoli non si scatena
davanti alla tempesta, ma davanti all’irruzione di Gesù che viene pre
so per un fantasma: il loro grido di terrore (v. 26b) fa immediatamen
te seguito alla menzione di Gesù scambiato per un fantasma.
Il clima è ben diverso nel racconto di Giovanni. In quel caso, al
contrario, il punto di vista adottato è quello dei discepoli nella barca.
A evidenziarlo basta un semplice sguardo alla stesura del testo: la
maggior parte dei verbi hanno come soggetto i discepoli (6,16b-
17.19.21 a) e inoltre, la traversata ha luogo per iniziativa loro (sono
loro a imbarcarsi verso Cafàrnào: 6,17). Il racconto drammatizza la
situazione di pericolo (v. 18), e sono i discepoli che «videro Gesù che
camminava sul mare e si avvicinava alla barca» (v. 19). Sono ancora
loro che, dopo aver udito le parole con le quali Gesù si identifica («So
no io, non abbiate paura!»), vogliono prenderlo sulla barca, ma inva
no, perché in quel preciso momento la barca tocca la riva. Enigmati
co finale giovanneo, che simboleggia l’inafferrabilità del Cristo pa
squale nella barca-Chiesa.
Non possono esserci dubbi: in Giovanni la telecamera è installata
nella barca, mentre in Matteo è dietro a Gesù. Queste opposte regie
narrative sono a servizio di due diverse ermeneutiche: cristologica in
Matteo, ecclesiologica in Giovanni. Nel primo Vangelo si dispiega una
cristologia della presenza del Risorto in mezzo ai suoi, con l’annes
sione di una piccola catechesi sulla «poca fede» esemplificata dall’e
pisodio di Pietro (14,28-31). Giovanni, da parte sua, rilegge l'episodio
come una metafora della situazione della Chiesa sotto la croce, del
suo dramma, della sua impressione di fallimento; la venuta del Cristo
corrisponde alla sorpresa pasquale, sotto forma di una parola pacifi
cante; non è possibile «imbarcare» il Risorto: l’annuncio pasquale
promette una presenza, ma la presenza dell’Assente (in Gv 20,17: con
il noli me tangere Maria di Magdala riceverà lo stesso messaggio).
144
Constatiamo insomma fino a che punto la regia narrativa, e qui in par
ticolare la scelta di un punto di vista, sia a servizio della lettura del rac
conto che il narratore vuole suscitare nei suoi lettori.
145
mi su interrogativi narrativi, ci chiediamo: perché questo silenzio del
racconto sui motivi di una decisione così poco compassionevole? Ri
sposta: perché il punto di vista adottato dal narratore è quello del fe
rito e perché il racconto offre soltanto quello che può conoscere. Il fe
rito sul bordo della strada constata che non si prendono cura di lui, ma
è proprio condannato a fare questa constatazione senza poterla spie
gare. Conta solo il risultato: la mancanza di assistenza di cui è vittima!
Terzo segno: la parabola offre solo le informazioni disponibili al
viaggiatore ferito e non ne dà altre. Il sacerdote e il levita sono identi
ficabili dai loro vestiti, ma come abbiamo visto le loro motivazioni ri
mangono oscure. Da dove sbuca il samaritano? Dove andrà dopo? Non
lo sappiamo. Invece, non manca alcun dettaglio sulle cure con cui il sa
maritano lo soccorre: olio e vino sulle ferite, caricamento su una ca
valcatura, accompagnamento all’albergo, copertura finanziaria del suo
soggiorno. Insomma, il lettore vede con gli occhi del ferito.
Quarto segno: la domanda finale posta da Gesù al dottore della Leg
ge è: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è ca
duto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La formulazione di questa do
manda ci offre la chiave della scelta del punto di vista. Infatti essa in
terroga sull’identità del prossimo non più a partire dal donatore (tale
era la prospettiva del dottore della Legge nella sua domanda iniziale:
«e chi è mio prossimo?» v. 29), ma a partire dal beneficiato. È dunque
a partire dall’indigenza che si decide la condizione di prossimo, e non
con una definizione teorica. La questione decisiva è: chi si è fatto pros
simo al bisogno altrui? Per permettere al lettore questo ribaltamento
riguardo alla questione su chi sia il prossimo, ci voleva un espediente.
Quale? Proprio il racconto, il racconto-parabola che, ancora una volta
senza dichiararlo, fa entrare il lettore nel punto di vista di un essere
umano che ha urgente bisogno di essere aiutato e considerato prossi
mo dagli altri. Ancora una volta è la parabola, o piuttosto il punto di
vista di colui che la racconta, che provoca il rovesciamento di pro
spettiva al termine del quale, sull’esempio del dottore della Legge, non
può che rispondere nel modo evidente: se sono nella disperazione,
qualunque sia la mia identità, mi aspetto che un altro si riconosca co
me mio prossimo. Il punto di vista scelto dal parabolista ha così com
piuto lo spostamento che corrisponde, per Gesù, al giusto modo di pen
sare riguardo al prossimo. Per Gesù non si trattava di lavorare sulla ri
sposta, ma sulla domanda.
146
1.3. Non c’è racconto senza punto di vista
Potremmo allungare l’elenco di osservazioni sulla scelta del punto
di vista, rilevando ad esempio la successione di punti di vista orche
strati all’interno di uno stesso racconto. È il caso della parabola del ric
co e del povero Lazzaro (Le 16,19-31), in cui la prima scena si focaliz
za su Lazzaro e la sua impotente miseria (16,19-21), mentre la secon
da in verte la prospettiva (16,22-31): Lazzaro è muto mentre il narra
tore introduce il lettore nella disperazione del ricco. La parabola si nu
tre di questo cambiamento del punto di vista che fa entrare successi
vamente il lettore nella pelle dei due protagonisti. Ci basti aver evoca
to tale procedimento; non ci soffermeremo oltre.
Concludiamo. Possiamo riassumere questo primo tempo basato
sulla definizione del punto di vista secondo Uspensky affermando che
con lui è posto un assioma: non esiste un racconto senza punto di vi
sta, come non c’è immagine senza che la telecamera o la macchina fo
tografica sia stata posizionata in un punto specifico che determina il
suo campo visivo. Rimanendo nella metafora fotografica, il punto di vi
sta del narratore non riguarda solo un luogo scelto, ma anche un tem
po scelto, una descrizione dell’interiorità dei personaggi, una scelta lin
guistica (adottata dal narratore o prestata ai personaggi) e, elemento
in assoluto più cruciale, una scala di valori che sottende la sua valuta
zione dei personaggi. In questo caso parleremo più specificamente del
punto di vista valutativo del narratore.
È però necessario constatare che i cinque registri non si situano tut
ti sullo stesso piano. Uno dei cinque stona ed è il registro fraseologico.
Infatti, prendendo in considerazione il discorso prestato a un perso
naggio, si passa dalla domanda «chi vede?», che permette di circo
scrivere il punto di vista del narratore, alla domanda «chi parla?». Ci
si interroga infatti sul personaggio al quale il narratore assegna un
punto di vista. Torneremo più avanti su quest’ambiguità, che sta pre
cisamente all’origine di nuovi approcci al punto di vista. Ora, la do
manda è la seguente: sotto quali modalità narrative è comunicato il
punto di vista del narratore? Gérard Genette si è impegnato su tale
questione.
147
2. Le tre focalizzazioni secondo Gérard Genette
A proposito delle opere di Gérard Genette abbiamo affermato che
avevano stabilito una posizione divenuta classica in narratologia. A
questo specialista francese delle scienze del linguaggio dobbiamo la
prima sistematizzazione dei modi narrativi.11 Genette vuole risponde
re alla domanda: chi vede nel racconto e come vede? La sua risposta
si basa su ima tipologia di tre possibili focalizzazioni. Notiamo che si
tratta sempre di diversi mezzi che il narratore ha a disposizione per
esprimere il suo punto di vista. Riassumiamo brevemente quanto oggi
è ampiamente conosciuto.
Genette distingue tra la voce narrativa e il modo narrativo. La vo
ce è quella che trasmette al lettore il mondo valoriale del narratore. Il
modo è piuttosto il canale di trasmissione dell'informazione. Se ricor
diamo quanto abbiamo detto della concettualizzazione di Uspensky, ci
accorgiamo che egli mescola i due. Genette, invece, li separa: da un
lato c’è la trasmissione di valori, da un altro la domanda: come è tra
smessa rinformazione? Qui il linguista francese spiega la sua triplice
focalizzazione.
11 G . G e n e t t e , Figures III, Seuil, Paris 1972, 206-211; tr. it. Figure III. Discorso del
racconto, Einaudi, Torino 1987.
148
che mancherebbe a uno spettatore, ma che egli comunica al lettore. Il
lettore riceve quindi il benefìcio di una conoscenza superiore a quella
dei testimoni della scena.
Secondo tipo: il discorso in focalìzzazione interna. Continuiamo il
racconto: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per
lei e le disse: “Non piangere”» (7,13). Affermare che Gesù è preso da
compassione, etimologicamente «preso nelle viscere» (esplagchnisthè,
13b), ci dà accesso all'interiorità del personaggio Gesù. Ancora una vol
ta è il narratore onnisciente che opera e associa il lettore all’intimità
del personaggio.
Terzo tipo: il discorso in focalìzzazione esterna. Esso corrisponde
a ciò che ogni spettatore della scena è in grado di constatare. Se il di
scorso non focalizzato è una «visione da dietro» (che comunica una co
noscenza del narratore aderente alla scena), se la focalìzzazione in
terna è una «visione con» (che comunica una conoscenza intima del
personaggio), la fecalizzazione esterna si qualifica come «visione da
fuori», in cui il narratore dice meno di quanto può sapere il personag
gio. Proseguendo il racconto di Le 7: «Gesù si avvicinò e toccò la bara,
mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlza-
ti!”» (7,14). Qui, direbbe Genette, siamo nell’ambito strettamente fat
tuale, tipico di una fecalizzazione esterna.
Il successo della tipologia delle fecalizzazioni proposta da Genette
si fenda sulla sua chiarezza e semplicità, che spiega come essa si sia
imposta ormai per quasi quarant’anni. Cosa c’è di più semplice che po
stulare una visione «neutra», cioè esterna, una visione interna che of
fre al lettore l'interiorità nascosta dei personaggi e una visione a stra
piombo che beneficia di una conoscenza antecedente o successiva al
l’evento raccontato? In realtà, questa semplicità è un po’ troppo sem
plice. Ossia, più esattamente, essa nasconde delle imperfezioni.
149
generale della focalizzazione. Dal momento che, a proposito della nar
razione, si distingue tra il narratore e ciò che è raccontato, essa pro
pone parallelamente di distinguere tra il soggetto della focalizzazione
(focalizor) e l’oggetto della focalizzazione {thè focalized object). Il fo
calizzai or e è l’agente che vede quanto è raccontato secondo l’angolo
visuale adottato nella costruzione della trama (esempio: Gesù che ve
de la vedova alla porta di Nain), mentre l’oggetto focalizzato è ciò ver
so cui è diretta l’attenzione del focalizzatore (esempio: la vedova e il
corteo funebre).
L’obiezione fatta a Genette è enorme: «In un momento decisivo del
la storia della teoria del racconto, è stata scoperta l’importanza essen
ziale di questo delegato, l’autonomia di colui che l’autore ha deliberata-
mente investito della funzione narrativa nel racconto: il narratore. In un
altro momento, altrettanto decisivo anche se più recente, è stata scoperta
la presenza di colui al quale questo narratore delega, a sua volta, ima
funzione intermedia tra lui stesso e il personaggio: il focalizzatore».13
Mieke Bai rimprovera dunque a Genette di confondere narratore e
focalizzatore, come se, a livello del racconto, il narratore fosse il solo a
poter stabilire un punto di vista. Gli rimprovera in secondo luogo di as
similare inadeguatamente la focalizzazione per mezzo di (un soggetto
focalizzatore) e la focalizzazione su (un oggetto focalizzato). Mette così
il dito sul fatto che le focalizzazioni di Genette si fissano a livello di chi
vede nel racconto, mentre rimane fuori del campo di riflessione ciò che
è visto. In altre parole, il punto di vista è un’emissione la cui ricezione
si situa al livello dell’oggetto considerato (persona o cosa).
A livello del focalizzato, Mieke Bai introduce una distinzione tra un
oggetto percettibile (quando è esterno al focalizzatore) o impercettibi
le (quando si tratta di un dato interno a un personaggio, del quale di
spongono solo coloro che hanno accesso alla sua psicologia). In questo
modo essa raggiunge il dualismo focalizzazione esterna / focalizza
zione interna di Genette, ma situandolo a livello dell'oggetto guardato
piuttosto che a livello di chi lo guarda.
Dal nostro punto di vista, l’obiezione di Mieke Bai non ha prodotto
un concetto operativo atto a sostituire quello di Genette. La sua distin
zione tra soggetto e oggetto della focalizzazione è corretta, ma non fa
150
ancora vacillare la trilogia delle focalizzazioni di Genette. Di contro, la
sua critica segnala implicitamente dove si trova l’imperfezione. Genet
te considera il punto di vista che proviene dal narratore, ma non è in
grado di spiegare come e secondo quali modalità il narratore delega il
suo punto di vista ai personaggi del suo racconto oppure lo assume co
me sua affermazione personale. A che punto il narratore definisce il
suo punto di vista e lo fa passare attraverso un personaggio? La no
zione di punto di vista si rivela più complessa di quanto sembrava. Il
linguista Alain Rabatel si è inserito in questo punto debole e ha pro
posto un nuovo paradigma del punto di vista.
151
figura, dalle scelte più soggettive a quelle apparentemente più oggetti
ve, dalle impronte più esplicite agli indizi più implìciti».15 In altri ter
mini: ogni discorso è necessariamente fatto da una persona ed emana
da lei in piena soggettività evidente o nascosta, esplicita o velata.
Il punto di vista non manca mai, perché il discorso denuncia sem
pre una certa percezione della realtà, percezione alla quale può ac
compagnarsi un giudizio di valore. Mentre Genette li differenziava, Ra
bat el associa dunque maniera e voce. Con lui oltrepassiamo un punto
che sembra essere di non ritorno: nessun discorso è senza origine, cioè
senza punto di vista, sia che si tratti del narratore o che si tratti dell'i
stanza alla quale egli delega, cioè un personaggio del racconto. L’idea
di un neutralismo enunciativo dev’essere scordata. Del resto il lingui
sta lionese mette finemente in luce lo stretto rapporto che lega il nar
ratore ai suoi personaggi: «Compreso (verrebbe da dire “soprattutto”)
quando il racconto sviluppa il punto di vista di un personaggio, esso
costruisce al tempo stesso il punto di vista del narratòre sul personag
gio e sul punto di vista del personaggio».16 Quando il narratore Luca
formula la domanda del maestro della Legge a Gesù in 10,25 («Mae
stro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»), gli attribuisce
un punto di vista deferente e aperto nella domanda, che il lettore re
gistra, ma simultaneamente è il suo punto di vista di narratore a co
struire narrativamente un tale atteggiamento.
Volendo sintetizzare la posizione di Rabatel, arriviamo alle seguen
ti cinque affermazioni:
1) il punto di vista implica una componente percettiva, alla quale
a volte si accompagnano un sapere più o meno esteso (componente co
gnitiva) e alcuni giudizi di valore (componente assiologica);
2) il focalizzatore, cioè la fonte enunciativa, può essere sia il nar
ratore, sia un personaggio del racconto: il lettore percepisce la scena
attraverso i suoi occhi;
15 A. R a b a t e l , «Points de vue et rep résen tatio n s du divin dans 1 Sam uel 17,4-51. Le
récit de la Parole et de l’agir hum ain dan s le com bat de David contre Goliath», in R R E -
NAB, Regards croisés su r la Bible. É tudes su r le po in t de vue. A ctes du IIP colloque in-
ternational du R éseau de recherche en narrativité biblique, Paris 8-10 ju in 2 006, 15-
55, citazione pp. 15-16.
15 A. R a b a t e l , «Les verbes de perception en contexte d’effacement énonciatif: du point
de vue représenté aux discours représentés», in Travaux de linguistique 46/1(2003), 49-
88, citazione pp. 50-51.
152
8) all’altro polo, l’oggetto focalizzato (ciò su cui si orienta il punto
di vista) può essere oggetto di una visione interna oppure esterna. I
personaggi hanno anch’éssi la possibilità di accedere al pensiero degli
altri personaggi, sia pure in modo congetturale (come accade nella vi
ta quotidiana);
4) l’ampiezza e la profondità del sapere variano da caso a caso; a
volte si rivelano più o meno limitate, altre volte più o meno estese;
5) l’espressione del punto di vista oscilla tra il polo soggettivante e
il polo oggettivante.
153
sione che egli prova davanti alla scena della disperazione della vedo
va che gli si presenta.
In terzo luogo, il punto di vista asserito traspare nel contesto delle
parole e dei valori che esse esprimono. «Si avvicinò e toccò la bara,
mentre i portatori si fermarono. Poi disse: "Ragazzo, dico a te, alza
ti!5’» (Le 7,14). Questo punto di vista corrisponde a un giudizio sulla si
tuazione del ragazzo: egli può essere svegliato, mentre sua madre e la
folla lo considerano morto.
Ci accorgiamo che il punto di vista raccontato è il tipo più velato di
rappresentazione del punto di vista: il racconto presenta gli eventi a
partire da una prospettiva scelta (narratore o personaggio), ma lo fa
senza segnalarlo per mezzo dello stacco enunciativo costituito da un
verbo di percezione. In Le 7,12, la costruzione della scena con la sua
presentazione dei protagonisti della storia corrisponde al punto di vista
raccontato del narratore, cioè al punto di vista del quale il narratore è
la fonte, quello che egli ha scelto di adottare per presentare e dram
matizzare l’evento: «Quando [Gesù] fu vicino alla porta della città, ecco
veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di ima madre rimasta
vedova; e molta gente della città era con lei». Dove Genette identificava
una focalizzazione esterna, con l’aggiunta di una focalizzazione zero
sulle informazioni che oltrepassano il quadro spazio-temporale della
scena, Rabatel insiste sulla dimensione soggettiva e selettiva delle in
formazioni date e propone di parlare di un punto di vista raccontato.
All’altra estremità della rappresentazione, cioè sul modello più
espressivo, troviamo il punto di vista asserito. Esso domina nei testi ar
gomentativi in cui l’autore esprime il suo punto di vista; nei testi nar
rativi lo incontriamo ogni volta che un personaggio parla o che il nar
ratore esprime il suo parere. La citazione matteana di compimento
(«Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto
dal Signore per mezzo del profeta ״.», Mt 1,22) è un classico caso di
punto di vista asserito attribuibile al narratore, il quale commenta l’a
zione che si sta svolgendo; ma il narratore cita e fa suo il punto di vi
sta pronunciato dal profeta stesso, espresso nella sua dichiarazione:
abbiamo dunque a che fare con due punti di vista incastonati o em
bricati, quello del profeta (la citazione) è infatti accolto dal narratore
che gli conferisce il carattere di parola compiuta.
154
4. Due applicazioni
Prima di passare all’applicazione delle categorie di Rabatel, fac
ciamo il bilancio del percorso compiuto fin qui. Abbiamo iniziato de
finendo il punto di vista come una posizione cognitiva del narratore
riguardo alla storia che egli racconta. Con Uspensky, abbiamo preci
sato che questo rapporto tra il narratore e la storia raccontata si de
clina su cinque registri: spaziale, temporale, psicologico, fraseologico
e ideologico. Con alcuni esempi, abbiamo mostrato che l’adozione di
uno specifico punto di vista (quello di un personaggio) o l’alternanza
di punto di vista possono costituire un’importante risorsa narrativa.
Con Genette, ci si impegna sul terreno delle modalità di espressione
del punto di vista: focalizzazione zero, focalizzazione esterna o inter
na sono tre modi, tre canali con i quali il narratore informa il lettore.
Nei confronti di questa tipologia, che ha goduto di una lunga fortuna,
sono state espresse due obiezioni. Da un lato, non bisogna confonde
re il soggetto focalizzatore con l’oggetto focalizzato; il soggetto foca-
lizzatore può essere sia il narratore sia un personaggio del racconto.
Si tratta allora di determinare chi focalizza e non solo come il testo è
focalizzato. La seconda obiezione, formulata da Rabatel, è che la fo
calizzazione esterna non esiste, poiché ogni elemento del racconto de
nota un angolo di visuale specifico, un punto di vista a partire dal qua
le è espresso. Tale punto di vista può essere rappresentato, racconta
to o asserito.
Come vedremo, la posizione decisa di Rabatel non potrà essere so
stenuta in assoluto. Dopo l’individuazione dei punti di vista espressi, il
racconto presenta infatti alcuni passaggi residui, del tutto fattuali, che
diremmo non focalizzati. L’espressione «Pietro cammina», se non è
collegata con alcun testimone, né con un verbo di percezione o non di
venta oggetto di alcun commento del narratore, non è focalizzata. Lo
slogan «tutto è punto di vista» trova qui il proprio limite. Lo verifi
chiamo subito nella prima applicazione testuale.
155
gli apostoli, subito dopo il racconto della Pentecoste e il lungo discor
so di Pietro che lo segue. Anche il nostro racconto è seguito da un di
scorso di Pietro, che ne fa una lettura cristologica: la guarigione dello
storpio è interpretata come il segno della risurrezione di Gesù.18
Come si presenta lungo il testo la successione dei punti di vista?
Versetto 1. L’inizio del testo non è focalizzato; siamo nel fattuale:
«Pietro e Giovanni salivano al Tempio». L’ultimo segmento, invece,
«per la preghiera delle tre del pomeriggio» non appartiene al registro
fattuale, ma enuncia l’intenzione dello spostamento degli apostoli ver
so il Tempio, che corrisponde al loro punto di vista, come segnala il
narratore. Si tratta dunque del punto di vista raccontato dei due apo
stoli. Il narratore avrebbe potuto non parlarne affatto, lasciando che il
motivo del loro spostamento rimanesse incerto.
Versetto 2 : «Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fm dal
la nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del Tempio detta
Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel Tempio».
Dire che l’uomo è storpio «fin dalla nascita» e che veniva posto «ogni
giorno» esprime il punto di vista del narratore, un punto di vista rac
contato, che supera il quadro temporale dell’evento. Anche in questo
caso, il narratore avrebbe potuto tacere questa informazione o elar
gire altri dettagli; selezionare l’origine e la durata della sua malattia
deriva dalla regia del racconto. Il fatto che lo storpio sia posto alla
Porta Bella «per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel Tem
pio» è ancora un punto di vista raccontato, ma appartiene a coloro
che lo depongono in quel luogo; infatti l’intenzione è legata alla loro
interiorità. Si tratta dunque del punto di vista raccontato dai portato
ri dell’infermo.
Il versetto 3 ci orienta doppiamente sull’infermo: «Vedendo Pietro
e Giovanni che stavano per entrare nel Tempio, li pregava per avere
un’elemosina». La formulazione «vedendo» comporta un verbo di per
cezione; la camera cambia angolazione e noi ci troviamo per così dire
associati allo sguardo dello storpio che vede i due uomini che si ap
prestano a entrare nel Tempio. Per la prima volta, lo storpio diventa
soggetto di una percezione, mentre fino a quel momento era solo og
18 Su questo testo, cf. D. M a r g u e r a t , Les A ctes des apótres (1-12), L abor et Fides,
Genève 2007, 113-121; tr. it. A tti degli apostoli (1-12), EDB, Bologna 2011, 127-137.
156
getto dell’attenzione e dell’intenzione degli altri. La fine del versetto in
siste anch’essa su di lui, con un punto di vista raccontato: egli solleci
ta Pietro e Giovanni «per avere un’elemosina».
Il versetto 4 tom a al modello non focalizzato: «Allora Pietro assie
me a Giovanni, fissando lo sguardo su di lui Il seguito nasce da
un punto di vista asserito, introdotto dal verbo dichiarativo dire (le-
geìn): «e gli disse: “Guarda verso di noi!”». Dopo un inizio non foca-
lizzato: «Egli si volse a guardarli», il versetto successivo è tipico di un
punto di vista raccontato, quello dell’infermo («sperando di ricevere da
loro qualche cosa»). Questo punto di vista raccontato interviene in vi
sione interna: l’attesa dell’uomo appare dal non percepibile, ma il nar
ratore si associa a essa.
Fin dall’inizio del racconto constatiamo che c’è una rapida alter
nanza nel modello di focalizzazione all’interno dello stesso versetto: il
testo passa da una fonte all’altra, dal narratore a coloro che portano
lo storpio, dall’infermo agli apostoli. In questo caso parliamo di rac
conto plurifocalizzato. Infatti il modello di focalizzazione può essere
stabile, cioè limitato a una sola persona (racconto monofocalizzato); è
variabile se vari personaggi percepiscono la scena di volta in volta,
mentre è detto molteplice quando la successione delle diverse focaliz-
zazioni diventa veloce, come nel nostro caso. La rapida alternanza, so
prattutto quando la focalizzazione salta da un personaggio all’altro, in
tensifica l’aspetto drammatico del racconto. Nel caso presente, notia
mo che il narratore ci associa di volta in volta alla percezione dell’in
fermo e a quella degli apostoli e che in questo modo li mette a con
fronto, fa in modo che si esprima l’attesa dell’infermo di ricevere un’e
lemosina, rende la sua delusione tanto più sorprendente e la ripercus
sione della sua guarigione tanto più inaspettata. %
È quanto accade al versetto 6, che presenta in modo massiccio il
punto di vista asserito di Pietro: «Pietro gli disse: “Non possiedo ar
gento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Na
zareno, àlzati e cammina!»״. Questa presa di posizione dell’apostolo
vede succedersi una constatazione di impotenza («Non possiedo ar
gento né oro»), poi l'affermazione di un possesso, che può essere do
nato: la certezza del potere risanante del nome di Gesù Cristo. Qui ac
cade l’inatteso e la storia ha una svolta. In modo non focalizzato, i ver
setti 7 e 8 descrivono il rinvigorimento delle caviglie dell’uomo e il suo
ingresso nel Tempio in compagnia degli apostoli. Osserviamo l’esube
ranza linguistica con la quale il narratore esprime la ritrovata mobili
157
tà; i verbi di movimento si succedono a raffica: balzare, camminare,
entrare, saltare, lodare Dio.19
Nuovo cambiamento di focalizzazione al versetto 9: «Tutto il popo
lo lo vide camminare e lodare Dio». Il lettore è associato al punto di vi
sta del popolo testimone dell’avvenimento. Il verbo di percezione ve
dere segnala un punto di vista rappresentato; il lettore empatizza con
il popolo e con quello che percepisce: !,incedere e la lode dell’ex-infer
mo. Il versetto IO si collega con un altro verbo di percezione: ricono
scere {epiginòskein). Un perché {hot() esplicativo enuncia il punto di vi
sta, che è allora rappresentato e non asserito poiché non è impiegato
alcun verbo dichiarativo: «perché riconoscevano che era colui che se
deva a chiedere l’elemosina alla Porta Bella del Tempio». Due sostan
tivi qualificano la situazione finale: la gente è «ricolma di meraviglia e
stupore per quello che gli era accaduto». Qui si esprime il punto di vi
sta del narratore, un punto di vista raccontato in visione interna: il nar
ratore associa il suo lettore all’interiorità dei personaggi. Il cambia
mento di focalizzazione che abbiamo rilevato a metà percorso si è av
verato nella seconda parte del racconto, pur senza uguagliare la rapi
dità dei versetti 1-6. Di contro, l’apparizione del nuovo attore (il popo
lo testimone) permette di misurare il duplice effetto del miracolo: il
mendicante non mendica più, non è più escluso dal Tempio, ma loda
Dio al suo interno e in compagnia degli apostoli. Una simile riabilita
zione sociale e religiosa dell’infermo provoca lo stupore del popolo, e
noi indoviniamo come mai il narratore in finale metta a fuoco il suo
disorientamento: egli prepara il bisogno di una spiegazione, di una let
tura teologica del miracolo, che il discorso di Pietro offrirà nei verset
ti successivi (3,12-26).
Bilancio. L’identificazione dei modelli di focalizzazione ha permes
so di mettere in luce la regia narrativa piuttosto sofisticata qui messa
in opera dal narratore Luca. Lungi dal limitarsi a un gioco di estetica
letteraria, il cambiamento di angolo di visuale sostiene l’effetto del te
158
sto sul lettore e conduce alla sorpresa di una guarigione non richiesta
né prevista. Tocchiamo qui un’eccellenza nell’arte di raccontare, che si
verifica lungo tutto il corso della narrazione degli Atti di Luca. Assie
me a Marco, Luca dimostra di essere il narratore più dotato del Nuo
vo Testamento.
159
ma sul quale i commentatori inciampano. In prospettiva narratologi-
ca, la questione si sposta dal perché a qual è l’effetto sul lettore? Qua
le effetto vuole produrre sul lettore un racconto così strano?
Dicevamo che il nostro punto di partenza è un’osservazione di Yvan
Bourquin sul testo. Egli nota che il racconto presenta un altro elemen
to rarissimo in un racconto di miracoli: Gesù sollecita il punto di vista
del cieco («Vedi qualcosa?»). Proprio la risposta a questa domanda,
l’ammissione di una vista indistinta, provoca la ripetizione del gesto te
rapeutico fino a una visione chiara. Ora, se continuiamo la lettura del
testo di Marco, notiamo che la stessa disposizione strutturale si ripe
te: l’articolazione di un processo in due tempi su una questione nella
quale Gesù sollecita il punto di vista di un personaggio.
Infatti, la scena che segue è un interrogatorio sull’identità di Gesù
(8,27-30). «Per la strada, interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gen
te, chi dice che io sia?”». Una serie di risposte approssimative corri
sponde alla visione sfocata del cieco. «Ed essi gli risposero: "Giovanni
il Battista, altri dicono Elia e altri uno dei profeti”». Poi arriva il se
condo momento, introdotto dalla domanda: «Ma voi, chi dite che io
sia?». E la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo».
Lette una di seguito all’altra, le due scene si illuminano reciproca
mente. La difficile guarigione del cieco funziona a livello simbolico il
lustrando la difficoltà per l’uomo di cogliere, di comprendere, di arri
vare alla verità, anche se Gesù opera a favore di questa comprensio
ne. La seconda scena fa comprendere di quale verità si tratta: l’identi
tà di Gesù in quanto Cristo. La sua verità non si svela in un solo mo
mento né a tutti. Pietro proferisce il titolo corretto: «Tu sei il Cristo».
Siamo allo stadio della visione chiara. Il blocco di questa confessione
mediante l’ordine di non parlarne (8,30), concretizzazione della teoria
marciana del segreto messianico, conferma l’esattezza della confes
sione cristologica di Pietro.
Ma come comprendere tale dignità messianica? La ripercussione
che costituisce la reazione di Pietro, in seguito all’annuncio da parte di
Gesù della passione del Figlio dell’uomo, è ben nota: «Pietro lo prese
in disparte e si mise a rimproverarlo» (8,32). Si è data invece poca at
tenzione al fatto che la disposizione strutturale in due tempi qui riap
pare, permettendo la comprensione del passo. Primo tempo (8,32-33):
Pietro rimprovera Gesù, il quale ha predetto che la sua sofferenza e la
sua morte precederanno la sua risurrezione (qui Marco ricorre al ver
bo forte dell’esorcismo, epitimàn, minacciare). Come reagisce Gesù? A
160
sua volta respinge Pietro (stesso verbo epìtimàn), contestando il suo
punto di vista: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo
Dio, ma secondo gli uomini» (8,33b). La violenta esortazione di Gesù
è un invito a modificare il proprio giudizio, a cambiare punto di vista,
ad abbandonare quello degli uomini per adottare quello di Dio. Qui Pie
tro si trova in regime di visione sfocata. Il cieco vedeva gli uomini co
me alberi che camminano, Pietro vede Gesù come un Messia che non
soffre.
Il secondo tempo (8,34-38) apporta la correzione. Esso non si si
tua sul terreno cristologico, ma su quello etico: «Se qualcuno vuol ve
nire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (8,34b-35). Il ri
fiuto di Pietro è smascherato come un errore di prospettiva che non
riguarda solo la cristologia, ma la condizione credente: salvare la vi
ta è un cammino di rinnegamento di sé e di rottura nei confronti del
mondo. Sbagliarsi riguardo a Cristo significa fare un errore sulla sal
vezza. Seguire Gesù vuol dire acconsentire a un itinerario di rifiuto e
di insicurezza.
Qui noi siamo interessati a rilevare la funzione programmatica
esercitata dalla guarigione del cieco di Betsaida all’inizio della sezio
ne del cammino (8,22-10,52). Ben più che un episodio aneddotico, vi
dobbiamo vedere un’espressione condensata dell’esperienza del let
tore del secondo Vangelo, nella sua difficoltà di giungere a credere.21
Questo processo di condensazione simbolica ha un nome: il racconto
speculare. La difficile guarigione del cieco di Betsaida è un racconto
speculare (mise en abyme) della condizione del lettore di Marco. La
riuscita differita della guarigione illustra la fragilità del credente così
come Marco lo configura, in preda al malinteso, al dubbio, alle resi
stenze di un immaginario religioso che contraddice in pieno l’annun
cio del Messia sofferente.
Il racconto di Marco evoca a più riprese questa lentezza nel crede
re. Abbiamo osservato come essa emerga nelle due scene che seguo
no il nostro racconto. Poco più avanti appare nella figura del padre del
ragazzo posseduto: «Credo; aiuta la mia incredulità» (9,24). Rispunta
161
ancora nella discussione dei discepoli per sapere chi fosse il più gran
de (9,34), mentre Gesù ha appena annunciato per la seconda volta la
sua passione. Rinasce poi nella domanda dei figli di Zebedeo di condi
videre la sua gloria (10,35), mentre per la terza volta Gesù annuncia
la sua prossima sofferenza. Insomma, in tanti modi nel suo Vangelo
Marco configura il difficile itinerario di una fede la cui verità sfugge,
una fede che, anche cercata, non si trova subito, una fede che deve
passare da una visione sfocata alla visione chiara.
Ponendo la difficile guarigione del cieco di Betsaida all’inizio della
sezione del cammino e duplicando la sua disposizione strutturale, Mar
co si è servito dell’interrogatorio sul punto di vista per problematizza
re l’accesso alla fede. Secondo lui, per accedere a una «chiara visione»
dell’identità di Cristo è necessario seguire un cammino arduo, nel qua
le con dolore si passa da un punto di vista a un altro.
5. Conclusione
Al termine del percorso, chiediamoci: a che cosa serve il concetto
di punto di vista per l’esegesi? Intravediamo tre utilità.
In primo luogo, il concetto di punto di vista fa percepire il carattere
costruito, scelto, orientato, deliberato di ogni informazione che il rac
conto comunica al lettore sulla storia raccontata. Non solo il racconto
non è un’enumerazione neutra di fatti, ma la scelta del o dei punti di
vista programma la lettura che il narratore si aspetta dal suo lettore.
In secondo luogo, il concetto di punto di vista permette di diagno
sticare con finezza la regia narrativa adottata dal narratore nella di
stribuzione delle fonti, di informazione lungo il racconto. In questo, di
sponiamo di un autentico scanner della gestione narrativa dell’infor
mazione.
In terzo luogo, l’alternanza dei punti di vista lungo il racconto per
mette di capire meglio come il narratore orchestra un confronto o un
concorso di visuali dell’evento, allo scopo di far emergere quella che
vuole privilegiare. Effettivamente alcuni racconti si presentano come
un confronto di punti di vista, una specie di forum ermeneutico, in cui
un’interpretazione (o un punto di vista) emergerà alla fine. Un esem
pio tipico è il racconto di Zaccheo in Le 19,1-10, con una successione
di punti di vista del narratore su Zaccheo (vuole vedere Gesù malgra
do la sua bassa statura), della folla su Zaccheo (è un peccatore), di Zac
162
cheo su se stesso (distribuisco e rimborso a coloro che ho defraudato)
e di Gesù su Zaccheo (egli è un figlio di Abramo); quest’ultimo punto
di vista, quello di Gesù, ha la meglio e falsifica i precedenti. Un bell’e
sempio, che dimostra che il punto di vista non è mai soltanto uno
sguardo sulla realtà; tutto dipende dall’affidabilità che il lettore accor
da a questo sguardo.
Capitolo sesto
LUCA, REGISTA
DEI PERSONAGGI
Daniel Marguerat
165
mentario racchiude un buon numero di figure che provengono da Lu
ca-Atti: Maria ed Elisabetta nel Vangelo dell’infanzia, il buon samari
tano, il figlio prodigo, il povero Lazzaro, Marta e Maria, Zaccheo sul
l’albero, i due ladroni al Golgota, l’apostolo Pietro a Pentecoste, l’eu
nuco etìope, il centurione Cornelio, Aquila e Priscilla a Corinto, Stefa
no, Paolo infaticabile missionario... Insomma, Luca ha garantito il suc
cesso dei suoi personaggi tanto quanto si può dire che un autore ha
garantito il successo della sua opera. Da dove deriva questo successo?
Non ci sembra che esso derivi unicamente dall’imponente mole
narrativa dell’opera di Luca (in tutto 52 capitoli tra Vangelo e Atti de
gli apostoli). È piuttosto collegato a un’arte particolare di Luca nella
composizione, o caratterizzazione, dei suoi personaggi. Quest’arte si
manifesta attraverso la complessità delle caratterizzazioni, ma anche
nel fatto che i suoi personaggi non evocano un solo aspetto, una virtù
o un vizio, ma che in essi si condensa una trama. Lo mostreremo in
questo capitolo illustrandolo con alcuni esempi.
1 Si può m ettere a confronto, p e r esem pio, il trattam en to m atte ano dell’indem onia
to di G erasa (Mt 8,28-34) con quello di Marco (5,1-20) o quello della em orroissa (Mt 9,20-
22 par. Me 5,25-34). La com pressione n arra tiv a può arriv are fino alla sparizione dei p e r
sonaggi secondari a tutto vantaggio della sola relazione di Gesù con il personaggio p rin
cipale (Mt 8,14-15 par. Me 1,29-31).
166
Non è così per Luca, il quale accumula intorno ai personaggi, an
che secondari, una serie di piccole informazioni significative. Il primo
personaggio che incontriamo in Luca-Atti è il sacerdote Zaccaria, pa
dre di Giovanni. In tre versetti (Le 1,5-7), il narratore riunisce, come in
una miniatura giapponese, una molteplicità di tratti, che si rifanno al
registro politico (l’epoca di Erode, re della Giudea), al registro sociale
(il sacerdozio, la classe di Abia), genealogico (la discendenza da Aron
ne di Elisabetta) e religioso (la giustizia davanti a Dio e l'impeccabile
fedeltà ai comandamenti di Zaccaria ed Elisabetta). Il v. 7 si conclude
con l'annuncio del loro dramma familiare, che è insieme sociale e reli
gioso: l'assenza di discendenza nella vecchiaia. Restando al Vangelo
delLinfanzia, un’identica minuzia di particolari caratterizza i ritratti di
Maria (1,26-27), di Simeone (2,25-26) e di Anna (2,36-37). Luca li di
pinge dichiarando chi sono (telling), mentre a partire dal c. 3, metterà
Giovanni al centro del suo racconto mostrandone l’attività (showing).2
Non è necessario moltiplicare gli esempi. Ricordiamo questa preci
pua capacità lucana a costruire con poche parole una figura narrativa
i cui tratti derivano da diversi registri, i quali conferiscono in tal mo
do al personaggio spessore e credibilità al cospetto del lettore. La ca
ratterizzazione lucana si evidenzia in primo luogo per il frequente ri
corso alla componente affettiva, in secondo luogo per l’uso del burle
sco, in terzo luogo per il gusto della dimensione paradossale.
167
spetto affettivo. In questo modo, drammatizzando l’azione con il regi
stro affettivo, moltiplica il potere di identificazione del personaggio da
parte del lettore.
Un esempio tipico ne è la caratterizzazione della vedova di Nain (Le
7,12). Gli indicatori di fragilità si susseguono: essa è vedova, il suo uni
co figlio morto è portato alla sepoltura, una folla considerevole è «con
lei»; vedendo tutto questo Gesù «fu preso da grande compassione per
lei» (7,13). La reazione emotiva di Gesù è preparata dall’insistenza del
narratore sull’infelicità della donna.
È sempre Luca che, al Getsemani, dipinge Gesù angosciato, mentre
prega «nella lotta» e il suo sudore diventa come gocce di sangue
(22,44). Nei primi secoli questa annotazione non è stata ben tollerata,
e la tradizione manoscritta è molto rimaneggiata su questo punto, con
varianti e omissioni.4 Non dobbiamo stupirci: nel cuore della storia del
la passione, questa annotazione manifesta l’estremo sconforto di Gesù
e corregge l’immagine dell’eroe martire che il resto del racconto luca
no presenta sulla morte del Maestro. Nei canoni dell’antichità, la mor
te nobile esige infatti il silenzio al posto del lamento, anche se indiriz
zato a Dio.
Prendiamo un altro esempio dagli Atti: la storia di Paolo e Sila im
prigionati a Filippi (16,20-34). Il racconto della loro tristezza, dopo che
sono stati incarcerati sotto false accuse, flagellati e gettati nella parte
più interna del carcere, commuove il lettore: la loro liberazione mira
colosa lo rallegra, ma l’emozione ritorna con la disperazione del car
ceriere che sta per uccidersi immaginando che i prigionieri siano eva
si. Paolo lo salva dal suicidio gridando: «Non farti del male; siamo tut
ti qui» (16,28). Curiosamente, la reazione di Paolo provoca la conver
sione del carceriere, mentre ci si aspetterebbe che egli rimanesse più
impressionato dal prodigio del terremoto. L’attenzione rivolta alla sua
disperazione diventa per lui portatrice del vangelo.
La caratterizzazione lucana ha la capacità di risvegliare risonanze
affettive che rendono credibili i personaggi al crocevia del mondo nar
rativo e del mondo del lettore.
4 Le 22,43-44 è omesso nel papiro P75 (III secolo) e in molti codici prestigiosi del IV-
V secolo: l’A lexandrinus (prim a m ano corretto), l’A lexandrinus e il Vaticanus (codici A B).
168
1.2. L’effetto burlesco
5 O ra z io , A rs poetica, 343-344: «Omne tulit punctum qui m iscuit utile dulci / lecto-
rem delectando p ariterque m onendo».
6 L’uso del burlesco negli Atti è stato bene illustrato da R.I. P ehvo, Profit w ith De-
light. The Literary Gerire o fth e A c ts o f thè A postles, Fortress Press, Philadelphia 1987,
61-64.
169
1.3. La dimensione paradossale
7 II verbo al presente «io do ai poveri la m età dei miei beni» è ambiguo; perm ette
anche di intendere che Zaccheo dichiari a Gesù, che h a offerto di essere suo ospite, quel
lo che in verità è: non uno spoliatore dei suoi simili, m a colui che ridistribuisce u n a p a r
te im portante delle sue ricchezze. Quindi, il verbo di 19,5 «Gesù, alzando gli occhi, gli
disse» assum e il suo significato forte: Gesù passando scru ta ciò che costituisce la verità
profonda di quest'uom o, al contrario della folla cieca.
8 Luca fornisce al suo lettore, a m onte della parabola, l’inform azione sulla viva ten
sione religiosa fra giudei e sam aritani: Le 9,51-55.
170
cenza di Gesù, ma succube alla pressione della folla che reclama Ba
rabba (Le 23,4.14.22).
Concludendo, in Luca si manifesta il desiderio di rivestire i perso
naggi, di conferire loro uno spessore che drammatizza l’azione e fa
vorisce l’identificazione da parte del lettore. Luca dimostra un innega
bile interesse a mettere in scena personaggi di alto rango; ma, lungi
dal servirsene semplicemente per aumentare il prestigio della fede cri
stiana, punta sulle contraddizioni o sul paradosso dei personaggi ri
spetto alla loro condizione sociale. Il suo è un richiamo a smontare
l’immagine sociale per discernere su quale umana debolezza il vange
lo possa venire ad ancorarsi. Siamo in sintonia con la citazione di
Sylvie Germain citata in apertura del capitolo: questi personaggi «si ac
contentano di proporre scelte di vita, di senso, sollevano interrogativi
inaspettati». Il burlesco o il paradosso rappresentano per il narratore
la svolta narrativa della sorpresa della grazia.
171
ratiere più o meno stereotipato della trama, da un romanzo all’altro,
esplica una certa permanenza delle tipologie di personaggi che si ritro
vano nelle opere romanzesche.
Tale rapporto fra trama e personaggio sussiste per il racconto lu
cano: la trama vi genera i suoi personaggi, ma in Luca con un effetto
particolare in quanto il personaggio può diventare un condensato del
la trama. Il confronto con il romanzo greco è certamente limitato: i ro
manzieri fanno evolvere le loro figure narrative da un capo all’altro del
loro ampio racconto. In Luca-Atti, a parte Gesù, la figura collettiva dei
dodici discepoli, Pietro e Paolo, gli altri personaggi rimangono secon
dari ed emergono spesso in un unico micro-racconto. Tuttavia, questi
personaggi secondari sono la concretizzazione, all’interno del micro
racconto, della trama che sfocia dal macro-racconto. In altre parole, i
personaggi secondari del mondo lucano possono rappresentare la pun
tuale irruzione della trama del ma ero-racconto in un episodio partico
lare. Lo dimostreremo riguardo a tre figure: il personaggio come con
cretizzazione di una parola (logion), come rappresentazione dell’oriz
zonte geografico del macro-racconto e come concretizzazione dell’in
treccio soteriologico del macro-racconto.
172
blicani e di peccatori». I commentatori generalmente rilevano che qui
abbiamo a che fare con un effetto di composizione tipicamente lucano:
la cucitura, tramite una parola che collega, di due scene eterogenee,
nel caso 7,18-35, in cui Gesù fa un parallelismo tra il suo destino e
quello di Giovanni Battista sotto l’egida del rifiuto, e 7,36-50, in cui Ge
sù riceve in casa di Simone un omaggio contestato.11 Il termine «pec
catore» farebbe da cerniera tra l’uno e l’altro.
Tuttavia, la portata di questo legame è nettamente maggiore di una
semplice cucitura letteraria. Il v. 34 riproduce il giudizio dispregiativo
dei contemporanei di Gesù sul suo atteggiamento ritenuto amorale. Ge
sù vi oppone l’affermazione secondo cui «la Sapienza è stata ricono
sciuta giusta da tutti i suoi figli» (v. 35). La scena si conclude senza che
l’identità dei figli evocati sia stata svelata. Per effetto di affinità, la sce
na di cui ci occupiamo concretizza questa identità. La donna «pecca
trice» di 7,36 rappresenta uno di quésti peccatori di cui il Figlio del
l’uomo è accusato di essere amico e uno di quei figli dai quali la Sa
pienza è stata riconosciuta giusta. Le dichiarazioni aperte dai versetti
34 e 35 trovano nella scena seguente una verifica.
Improvvisamente, tutta la trama di 7,18-35 si condensa nell’emer
genza narrativa della donna presso Simone. Alla domanda che il verset
to 35 scatena presso il lettore (chi dunque riconosce giusta la Sapienza?),
l’episodio in casa di Simone fornisce una risposta, indubbiamente inat
tesa. A Simone che protesta, Gesù non chiederà di dar prova di tolle
ranza morale verso una donna dai dubbi costumi; gli è piuttosto chiesto
di ratificare la sua accoglienza della Sapienza nella persona di Gesù. Nel
la prospettiva di lettura messa in atto da Luca, l’intreccio del dibattito tra
Simone e Gesù non è etico, ma cristologico; ne va del riconoscere Gesù
come ipostasi della Sapienza. Ne dà prova la costruzione della dichiara
zione di Gesù che segue la parabola e la risposta di Simone:
«Vedi questa donna?
Sono entrato in casa tua:
tu non mi hai dato l’acqua per i piedi, lei invece mi ha bagnato i piedi
con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli.
Tu non mi hai dato un bacio, lei invece, da quando sono entrato, non ha
cessato di baciarmi i piedi.
173
Tu non hai unto con olio il mio capo, lei invece mi ha cosparso i piedi
di profumo.
Per questo ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto
amato.
Invece colui a cui si perdona poco, ama poco» (7,44b-47).
174
rebbe un’illustrazione crociata in chiasmo: la parabola illustrerebbe il
comandamento dell’amore verso il prossimo, mentre il dialogo presso
Marta e Maria concretizzerebbe l’amore di Dio.13 Ora, collocare la sce
na in casa di Marta e Maria sotto l’egida dell’amore di Dio è artificio
so; non si tratta di amare Dio, ma di ascoltare la parola di Gesù
(10,39). L’ascolto di Maria non è in opposizione a una mancanza di
amore di Marta, ma all’«abbondante diaconia» di sua sorella.
Se cerchiamo di chiarire qual è la «parte migliore» scelta da Maria,
il contesto narrativo a monte presenta una soluzione. Alla soglia di Le
10, due logia di Gesù sulla sequela illustrano la radicalità dell’esigen
za di Gesù e la necessità della scelta:
«Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò do
vunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uc
celli del cielo i loro nidi; ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il ca
po”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Permettimi di andare
prima a seppellire mio padre”. Gesù gli replicò: “Lascia che i morti sep
pelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Un altro
ancora disse: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da
quelli di casa mia”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all'a
ratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”» (9,57-62).
175
Maria hanno reagito diversamente: Marta si è lasciata assorbire dai
compiti dell’ospitalità, mentre Maria ha colto l’imperiosa necessità di
votarsi, lasciando da parte ogni impegno, all’ascolto della Parola.
Questa osservazione sulla trama narrativa a monte di Le 10,38-42
evita di abbandonare l’episodio di Marta e Maria a uno sfrenato proces
so di allegorizzazione, che investe il racconto di valori a esso del tutto
estranei; il percorso della composizione, segnalato a monte e illustrato
dalle consegne del discorso di invio, riceve in questo episodio una dram
matizzazione narrativa particolarmente sorprendente. In altri termini, i
personaggi di Marta e Maria concretizzano le parole sulla sequela for
nendo, la prima, un contro-modello, e la seconda un modello.15
2.2. Il personaggio,
rappresentazione dell’orizzonte geografico degli Atti
Soffermiamoci su un’altra figura: l’eunuco etìope in At 8,26-40. La
storia dell’incontro di questo dignitario con l’evangelista Filippo, su
una via deserta, è famosa. L’episodio è interessante anche solo dal
punto di vista della costruzione del personaggio. Il narratore non sen
te il bisogno di presentare Filippo, la cui identità è già stata rivelata a
monte: egli è uno dei sette scelti dalla Chiesa di Gerusalemme in 6,5
per il servizio delle mense; le sue capacità di evangelista in Samaria
sono state dimostrate in 8,5-25. Al contrario, la presentazione dell’eu
nuco è oggetto di una mole inusitata di dati. Con un comportamento
da miniatore giapponese, il narratore ha condensato in un quadretto
una somma impressionante di informazioni:
«Un uomo etìope, eunuco, dignitario di Candace, regina di Etiopia, che
era responsabile di tutti i suoi beni, venuto a prosternarsi a Gerusalem
me, stava tornando, seduto su un carro. Correndo innanzi, Filippo inte
se che leggeva il profeta Isaia e gli disse: “Capisci quello che stai leg
gendo?״. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?»״
(8,27-31a).
15 Nello stesso senso, si p otrà leggere o ra A.-L. Z w illin g , Frères et soeurs dans la
Bible. Les relations fratern elles dans VAncien T estam ent e t le N ouveau Testam ent, Cerf,
Paris 2010, 135-158.
176
Appare immediatamente che la costruzione del personaggio è para
dossale. Da un lato, l’uomo è potente: officiale della corte di Candace,
egli esercita una considerevole responsabilità; ha i mezzi finanziari per
permettersi un carro equipaggiato e un rotolo del libro di Isaia. Dall’al
tro lato, gli eunuchi sono degli esclusi: -gli autori greci e latini non na
scondono a loro riguardo disprezzo e angherie.16 Israele li considera
«alberi secchi» (Is 56,3), come degli impuri e non li ammette nelle as
semblee: nella cinta del Tempio, non possono andare oltre la corte dei
pagani. Fisicamente e socialmente, gli eunuchi sono esseri a parte. «Bi
sogna evitare gli eunuchi e fuggire da ogni contatto con coloro che so
no privati della loro virilità».17 Se si è recato a Gerusalemme per pro
sternarsi, non è potuto penetrare nel Tempio; egli sperimenta una ri
cerca religiosa inappagata. D'altra parte, pur sapendo leggere, non com
prende di che cosa parli il testo di Isaia e confessa di non poterlo fare
senza essere aiutato. Il ministro etìope incarna il paradosso dell’uomo
potente ed escluso, fiancheggiando nell’opera di Luca altri personaggi
di cui abbiamo già parlato: Zaccheo il ricco capo degli esattori di impo
ste, ma detestato dalla folla (Le 19,1-10), o il centurione di Cafarnao im
potente davanti alla malattia del suo servo (Le 7,1-10). Il narratore ri
volto a Teofilo ha un’evidente simpatia per questo tipo di personaggi, la
cui situazione contraddittoria riceve una soluzione dal vangelo.18 Ai per
sonaggi ordinari, Luca preferisce i personaggi che si trasformano, che
evolvono a partire da una situazione colpita dall’impotenza.
Leggendo i commenti consacrati ad At 8,26-40, ci accorgiamo che
sono essenzialmente preoccupati di determinare lo status religioso del
177
l’eunuco etìope.19 È pagano? La difficoltà sta nel fatto che il primo bat
tesimo di un non ebreo verrebbe fuori nel racconto degli Atti senza al
cun scalpore, mentre un po’ dopo, l’accesso dei pagani alla salvezza fa
problema al momento dell’incontro di Pietro con Cornelio a Cesarea
(At 10,1-11,18; cf. 11,17). Da qui la perplessità dei commentatori, che
considerano prematuro il battesimo di un eunuco pagano - non to
glierebbe così in qualche modo a Cornelio la primizia della concessio
ne della salvezza ai non-giudei? Si è quindi preferito pensare che l’eu
nuco di Etiopia facesse parte dei «timorati di Dio», quei pagani attrat
ti dal giudaismo, che vivevano nell’orbita della sinagoga, ma che, a dif
ferenza dei prosèliti, non avevano fatto il passo della conversione. I ti
morati di Dio rappresentano infatti una specie di via di mezzo tra il
giudaismo e il paganesimo.20 Il fatto di essere andato a Gerusalemme
per prosternarsi (proskùnein) dà credito a questa ipotesi storica. È
quindi sorprendente che Luca non segnali affatto la sua condizione di
timorato di Dio, cosa che invece indica molto bene altrove.21 Guarda
re più da vicino la caratterizzazione dell’eunuco ci permetterà di co
gliere le ragioni di questo silenzio? Probabilmente sì.
Torniamo alla descrizione del personaggio: «Un uomo etìope, eu
nuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia...» (8,27). Colpisce im
mediatamente, dopo l’indicazione del suo sesso (anèr: un uomo ma
schio), la designazione della sua origine: etìope; solo dopo c’è la pre
cisazione: eunuco. Perché la priorità è data alla geografia? Bisogna sa
pere che per gli antichi, l'Etiopia [Cush] passa per essere l’estremo li
mite dell’impero romano. Omero considerava gli etìopi come gli uomi
ni più lontani (Odissea 1,23: eschatoi andróri).22 Nel I secolo, l’Etiopia
e la sua capitale Mero e [oggi Sud Sudan, lungo il Nilo] fanno sognare i
19 Si veda fra altri: C.K. B a r r e t t , The A cts o f thè A p o stles I, Clark, E dinburgh 1994,
420-421; tr. it. A tti degli apostoli, I, Paideia, Brescia 2003.
20 D. M a r g u e r a t, La prem ière histoire du christianism e (Les A ctes des apótres),
Cerf-Labor et Fides. Paris-Genève 22003, 97-122. tr. it. La prim a storia d el cristianesi
mo. Gli A tti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsam o 2002, 82-104.
21 Negli Atti degli apostoli il tim orato di Dio è designato con la form ula tim orato dì
Dìo (10,2.22; 13,16.26;) o adoratore dì Dio (credente inD io, venerante Dio, rendente cul
to a Dio) (13,43; 16,14; 17,4.17; 18,7.13).
22 Gli autori classici idealizzano gli etiopi p er la loro bellezza e pietà. Strabone situa
l’Etiopia agli «estrem i confini» dell'im pero (Geografìa 17,2,1). Dalla lontana Cush, l’AT
attende che le genti portino i loro doni al Signore (Sof 3,10; Is 18,7; 45,14; Sai 68,32).
178
romanzieri greci. Seneca riporta la spedizione inviata da Nerone nel
61-62 alle sorgenti del Nilo {Naturales quaestiones, 6,8). Il gusto per
l’esotismo era di moda. Insomma, quando mette in scena un etìope che
torna al suo Paese, il narratore evoca per il lettore un viaggiatore ve
nuto dagli antipodi e che vi fa ritorno.
Questa origine esotica dell’eunuco non può fallire nel far sognare il
lettore degli Atti. Essa evoca alla sua memoria anche la promessa del
Risorto in At 1,8: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giu
dea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra {eschaton tès
gès)». I «confini della terra» sono l’orizzonte universale nel quale si in
scrive la geografia degli Atti. Negli Atti, la missione cristiana supererà
effettivamente queste tappe: Gerusalemme, la Giudea, poi la Samaria
(At 8,4-25), prima di espandersi nell’impero romano.
Il ruolo del nostro episodio in seno al macro-racconto si sta ormai
chiarendo. La conversione dell’eunuco etìope non oscura il battesimo
di Cornelio da parte di Pietro, in At 10, che segna l’accesso dei paga
ni alla salvezza. At 8 non fa concorrenza ad At 10, dal momento che a
livello di macro-racconto la sua funzione è diversa: anticipare la fina
le geografica degli Atti. Sappiamo che l’opera di Luca si conclude a Ro
ma (At 28,16-31). Roma non è l’estremità della terra; secondo la men
talità romana essa è piuttosto il centro del mondo. Invece, con l’eunu
co venuto dai confini della terra, il racconto anticipa una finalità geo
grafica non raccontata, ma sperata: la diffusione del vangelo fino ai
confini del mondo.23
Dal punto di vista della trama del macro-racconto, il momento di
questa anticipazione è ben scelto. At 8 precede At 9, che relaziona sul
la svolta di Paolo sulla via di Damasco. Ora, Paolo sarà l’artefice di que
sta espansione del vangelo nell’impero: «Quest’uomo è lo strumento
che ho scelto per me, affinché porti il mio nome davanti alle nazioni,
ai re e ai figli di Israele» (9,15). L’orizzonte universale della testimo
nianza cristiana è dunque richiamato proprio prima che Dio converta
colui che diventerà l’agente di questo programma di espansione. L’e
179
pisodio dell’eunuco etìope annuncia, profeticamente, la riuscita di que
sto programma.
Improvvisamente, richiamando l’Etiopia, l’orizzónte geografico de
gli Atti si condensa in un personaggio straniero. La sua brusca do
manda a Filippo suona come una risposta alla promessa del Risorto in
At 1,8: «Che cosa impedisce che io sia battezzato?» (8,36).
2.3. Il personaggio,
concretizzazione dell’intreccio soteriologico degli Atti
Abbiamo evocato la figura del centurione Cornelio, il cui incontro
con l’apostolo Pietro rappresenta una svolta nel racconto degli Atti (At
10). Anche in quel caso il narratore ha composto con minuzia un ri
tratto, che si condensa in tre versetti:
«Un ־uomo di Cesarea dì nome Cornelio, centurione della coorte detta
Italica. Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva
molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno, verso le tre
del pomeriggio, vide distintamente in visione un angelo di Dio venirgli
incontro e chiamarlo: “Cornelio!”» (10,1-3).
180
violenta spinta dello Spirito Santo che tronca la parola a Pietro e si ri
versa su Cornelio e la sua famiglia (10,44). Pietro tira le conseguenze
procedendo al battesimo delle persone presenti: «Chi può impedire che
siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spi
rito Santo?» (10,47; cf. 11,17).
Come abbiamo visto, la bravura del narratore consiste nel fare di
Cornelio il ritratto di un quasi-ebreo. A parte il suo status di centurio
ne, tutti gli indizi si addicono a un «giusto». La cosa interessante qui
è che l’interferenza identitaria comincia con la caratterizzazione di
Cornelio. Vediamo in che modo. La visione di Pietro sulla terrazza è
quella di un telo nel quale si mescolano alla rinfusa animali puri e im
puri, con una voce celeste che lo invita a sacrificare e a mangiare.
(10,11-16). Metaforicamente, questa visione annuncia che la barriera
millenaria tra il puro e l’impuro è abolita da Dio stesso. Quando Pietro
dichiara alla famiglia di Cornelio che «Dio accoglie chi lo teme e pra
tica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (10,35), egli appli
ca l’ermeneutica teologica della visione. Questo enunciato discorsivo è
dunque anticipato narrativamente nella caratterizzazione di Cornelio.
Infatti il centurione è posto nel racconto come una figura ambigua: pa
gano, ma rivestito delle qualità eminenti di un credente ebreo.24 L’ef
fetto pragmatico di questo ritratto è precisamente di indurre !,indeci
sione: se questo pagano esemplare riveste i tratti del giusto, che diffe
renza c’è tra l’uno e l’altro?
La sequenza di At 10,1-11,18 dispiega narrativamente quello che
il narratore ha condensato del ritratto di Cornelio (10,1-3), cioè che per
accedere a Dio non c’è differenza tra l'ebreo e il non-ebreo. La co
struzione del personaggio di Cornelio sintetizza il messaggio soteriolo-
gico della sequenza, decisiva nella trama degli Atti.25
181
3. Conclusione: il protagonista del racconto
Todorov distingue tra i racconti centrati sulla trama e i racconti cen
trati sui personaggi, in quanto questi ultimi rivelano una forte compo
nente psicologica.26 Come nella storiografia ellenistica, nel racconto di
Luca-Atti prevale l'intreccio o trama. I personaggi (secondari) vengono
abbandonati lungo il racconto se la trama spinge più oltre l’interesse
del lettore. Ma quanto abbiamo visto nel corso di questo studio, è l’ar
te lucana di mettere in scena i personaggi in modo tale che essi cri
stallizzino un motivo teologico della trama. Si tratta certamente di una
subordinazione dei personaggi alla trama, ma con la particolarità che
tra loro e la trama si svolge un gioco di anticipazione o di conferma.
182
Capitolo settimo
IL GIOCO DELL’IRONIA
DRAMMATICA.
L’ESEMPIO DEI RACCONTI
DI ASTUZIE E INGANNI
André Wénin
* Prim a pubblicazione sotto il titolo: «Le je u de l’ironie dram atique dans les récits
de ruses et de trom peries», in A. P a s q u ie r - D. M a r g u e r a t - A. W é n in (edd.), L ’intrigue
dans le récit biblique. Q uatrième colloque International du RRENAB, Università Lavai,
Québec, 19 m ai - le v ju in 2008, Peeters, Leuven 2010, 159-170.
1 Non ogni racconto di tal genere sviluppa necessariam ente questo motivo n a rra ti
vo allo scopo di ottenere degli effetti di ironia. Così, p er esem pio, nell’episodio detto «del
la moglie sorella» in Gen 12,10-20: 20 e 26,7-11, il trucco del p a triarc a non dà spazio
ad alcuna particolare ironia. Inoltre, ii motivo non viene sviluppato come tale, nella m i
sura in cui non si racconta l'inganno prop riam en te detto.
183
frase», cioè legata alla formulazione stessa della parola.2 Così, ad
esempio, dopo che Assalonne ha rovesciato Davide suo padre, l’amico
di quest’ultimo, Cusài, va da lui con lo scopo di fare la spia a favore del
re destituito. Arrivando, saluta Assalonne dicendo: «Viva il re! Viva il
re!» (2Sam 16,16). Ma qual è questo re? Dovrebbe essere Assalonne,
che Cusài sta salutando; in realtà quest’ultimo pensa a Davide, che sta
cercando di aiutare efficacemente (cf. 15, 333.(37־
L’ironia drammatica o di situazione risulta invece da un «contrasto
fra la percezione non corretta di una situazione da parte perlomeno di
uno dei personaggi e la percezione più completa della situazione da
parte del lettore (e, a volte, anche di alcuni dei personaggi)».4 Nelle pa
gine che seguono tratteremo questo tipo di ironia.
Un’ultima precisazione: nel senso letterale del termine, l'ironia non
è necessariamente divertente. Non va confusa con l’umorismo, anche
se il suo uso può far sorridere o ridere. Si caratterizza soprattutto per
il suo carattere allusivo o suggestivo, che lascia al lettore il compito di
riconoscerla. In questo si distingue dal sarcasmo o dalla derisione, che
di solito sono più espliciti, più pesanti e quindi anche più aggressivi.5
Detto questo, analizzeremo tre modelli presenti nei libri della Ge
nesi e di Samuele. Il primo è di gran lunga il più ricorrente e il più at
teso: il lettore vi si trova in posizione uguale a quella dell’ingannatore
e, con lui, in posizione superiore a quella dell’ingannato che paga lo
scotto dell’ironia. Nel secondo modello, il lettore, che conserva una po
sizione superiore a quella dell'ingannato, è tuttavia in posizione infe
riore in rapporto al personaggio che gioca d’astuzia. In un terzo mo
dello, il narratore garantisce al lettore una posizione superiore o ugua
184
le a quella dell’ingannatore e inferiore a quella dell’ingannato: in que
sto caso l’ironia colpisce l’ingannatore più che l’ingannato, come nel
caso dei primi due modelli.
1. Al pari deH’ingannatore,
il lettore è superiore alTingannato
Visto che l’ironia dipende dalle rispettive posizioni dei personaggi
e del lettore, il caso più frequente dei racconti di dissimulazione e di
astuzia è quello in cui il lettore si trova allo stesso livello di cono
scenza dell’ingannatore e in posizione superiore a quella deU’ingan-
nato. Da questa posizione il lettore è in grado di seguire l’intero gioco
tra i personaggi, in particolare l’attuazione dell’inganno. L’ironia sì
esplica quindi interamente a spese dell’ingannato. Questo tipo di sce
na può essere molto breve oppure può dar vita a racconti più o meno
sviluppati, come nel caso di Gen 27,1-29 (Giacobbe inganna Isacco per
ottenere la sua benedizione), o Gen 39,11-20 (la moglie di Potifàr in
ganna tutti sul conto di Giuseppe). Ecco in breve alcuni esempi.
In Gen 27,42-28,2, Rebecca è informata dell’ira vendicatrice di
Esaù nei confronti di Giacobbe. Dopo aver rivelato la cosa a Giacobbe
e avergli consigliato di mettersi al riparo per un certo tempo presso lo
zio Labano, si rivolge a Isacco: il suo modo di esprimersi («Se Giacob
be prende moglie [...1 tra le ragazze della regione, a che mi giova la
vita?») mostra chiaramente al lettore quello che Rebecca vuole: per
suadere Isacco della necessità di inviare Giacobbe all’estero per pren
dere moglie. Ma il lettore sa che ella omette di svelare al marito il ve
ro motivo della sua iniziativa, cioè la paura di perdere i suoi due figli
nello stesso giorno, motivo che ha espresso parlando poco prima con
Giacobbe (27s45b). Quando, in seguito, Isacco convoca Giacobbe per
inviarlo presso Labano, non si rende conto di essere stato manipolato.
Questo fatto non è sfuggito al lettore che così è di nuovo «attirato» nel
campo di Giacobbe e Rebecca.
In Gen 31,33-35, dopo che Labano ha frugato tutte le tende del
campo di Giacobbe per trovarvi i suoi dèi che Rachele ha rubato, en
tra nella tenda della ladra e la trova seduta sulla sella del cammello in
cui, come il narratore ha rivelato al lettore, ha nascosto il suo bottino.
Rachele usa il pretesto di una indisposizione femminile per non alzar
si e rischiare di essere smascherata. Ignaro dell’inganno, Labano la
scia la tenda a mani vuote. Con Rachele, il lettore respira e gode del
l’ironia che colpisce il padre vendicativo.
In ISam 11,1-11, gli anziani di labes di Gàlaad, assediati dagli am
moniti, domandano a Nacas, il re nemico, di poter beneficiare di una
tregua di sette giorni - il tempo di vedere se qualcuno in Israele verrà
a salvarli. Il narratore racconta allora che i messaggeri, a detta degli an
ziani inviati in tutto il Paese di Israele, arrivano direttamente nella cit
tà di Saul che è appena stato proclamato re. Quando i messaggeri tor
nano a Iabes e annunciano ai loro concittadini assediati che la salvez
za è vicina, questi informano Nacas che andranno da lui il giorno se
guente. L’effetto-sorpresa è totale negli ammoniti, quando Saul li attac
ca di primo mattino. Così diventano ugualmente vittime dell’ironia del
narratore.
In ISam 27,8-12, Davide è diventato vassallo del principe filisteo
Achis che gli ha donato la città di Siklag. Da lì, Davide attacca alcuni
gruppi stranieri del sud del Paese. Quando il suo sovrano filisteo glie
ne chiede conto, Davide fa intendere di aver condotto le sue razzie con
tro Giuda e i suoi alleati. Il narratore racconta come Achis cada nella
trappola: egli crede che Davide, per dimostrarsi leale verso di lui, non
abbia esitato a rendersi odioso verso il suo popolo. Per colmo di iro
nia, in 29,6-11, Achis dirà perfino a Davide quanto lo stimi, mentre
quest’ultimo non esiterà a calcare la dose presentandosi come un an
gioletto (v. 8).
In questi pochi esempi, il narratore offre al lettore tutti gli elemen
ti necessari perché possa godersi l’ironia osservando il nucleo del pro
cesso della dissimulazione o dell’inganno così come è messo in atto
dalTingannatore. Se necessario, fa uso della sua onniscienza per chia
rire alcuni elementi suscettibili di far vedere come l’inganno riesca a
spese delTingannato, che rimane in posizione inferiore e non si rende
conto di essere stato abbindolato. Quando, in seguito, il narratore rac
conta come l’ingannato si renda conto, ma troppo tardi, di essere sta
to tradito, l’effetto dell’ironia si trova raddoppiato nella misura in cui
è evidenziata l’impotenza del personaggio. Così, in ISam 19,11-17,
quando Saul, informato dai suoi emissari, scopre che Mical ha protet
to la fuga di Davide, deve accontentarsi di rimproverare sua figlia che
si è dimostrata più astuta di lui.
2. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’imbroglione
Non sempre il lettore domina del tutto la situazione. Si verifica que
sto caso quando il lettore non dispone di un livello di conoscenza suf
ficiente per osservare l’insieme del procedimento. Il gioco dell’ironia
diventa qui più sottile. Lo illustreremo con tre esempi.
187
lettore si tiene a distanza perché è stato avvisato dal narratore che la
proposta dei fratelli di Dina è un’astuzia. Si dice allora che queste per
sone fanno probabilmente una cattiva scelta e che Sichem, che occu
pa una posizione molto influente ma è accecato dal desiderio (v. 19),
sta per trascinare il suo popolo in un’avventura pericolosa. Va notato
che il narratore non è avaro della sua onniscienza per far percepire
tutto questo (w. 18-19).
D’altra parte, il narratore mantiene il lettore in ima posizione sub
alterna in rapporto ai fratelli, e ciò impedisce di approfittare piena
mente dell’ironia della situazione. Infatti, fino a questo punto il lettore
continua a ignorare quale tranello si nasconda dietro le parole dei fra
telli di Dina.7 Sa che la circoncisione richiesta nasconde un tranello,
ma non percepisce ancora in che modo i fratelli sfrutteranno la situa
zione una volta che gli uomini di Sichem saranno circoncisi; ignora
perfino se abbiano preparato un piano in anticipo. Questa posizione in
feriore del lettore non può certo essere fonte di ironia. Invece, è utile
per attirare la curiosità, far crescere la suspense prima di creare la sor
presa quando, tre giorni dopo, Simeone e Levi approfitteranno vergo
gnosamente della fiducia dei sichemiti convalescenti per passarli tran
quillamente a fil di spada e riprendersi la sorella (w. 25-26).
188
ra mandò a prendere a Tekòa ima donna saggia, e le disse: “Fingi di es
sere in lutto, mettiti una veste di lutto, non ti ungere con olio e com
pòrtati da donna che pianga da molto tempo un morto; poi entra pres
so il re e parlagli così e cosi”. Ioab le mise in bocca le parole» (14,2-3).
Vedendo che la scelta di Ioab cade su una donna «saggia» (haka-
mah) e ascoltando le sue istruzioni perché fìnga di essere in lutto, il let
tore capisce che il generale di Davide prepara un inganno a spese del
re. Ma la somma stringatezza che caratterizza la parte finale del suo
discorso non permette di saperne di più. D’altra parte, il fatto che Ioab
prenda questa iniziativa dopo che si è reso conto del cambiamento di
atteggiamento da parte di Davide nei confronti di Assalonne fa pensa
re che il sèguito sia legato a questa situazione. Ma né il narratore né
Ioab lasciano filtrare qualcosa su questo punto.
Il lettore, quando vede la donna entrare dal re, è chiaramente in
posizione superiore in rapporto a Davide, in quanto conosce i prece
denti di ciò che sta accadendo. Ma resta altrettanto chiaramente in po
sizione inferiore in rapporto a Ioab e alla donna, dei quali non cono
sce né la strategia né le intenzioni. Da questa posizione intermedia
ascolta il discorso della donna a Davide con un orecchio ben diverso
da qiiello del re. A mano a mano che avanza il racconto della donna
riguardo al figlio che ha ucciso il suo fratello e il cui avvenire è mi
nacciato dall’atteggiamento del suo ambiente, egli prende coscienza
che si tratta di Assalonne che ha assassinato suo fratello e di ciò che
suo padre farà di lui. E quando la donna assilla Davide affinché pren
da delle misure protettive verso l’assassino, capisce finalmente dove
Ioab vuole arrivare con il suo stratagemma: impedire che Assalonne
subisca la vendetta e permettergli di tornare dall’esilio.
Del significato criptato del discorso della donna, Davide non si ren
de conto. Quindi, a mano a mano che il lettore (al corrente del fatto che
si tratta di un'astuzia) comprende ciò che è celato nel discorso della
donna, aumenta l’ironia nei confronti di Davide. E infatti, più si ridu
ce la posizione di inferiorità del lettore nei confronti di Ioab e della
donna e più la sua posizione diventa superiore in rapporto a Davide.
Capita dunque che la posizione iniziale del lettore lo costringa a dar
prova di intelligenza per comprendere lo stratagemma che sa svolger
si sotto i suoi occhi; e, nella misura in cui riesce in questo lavoro di de
cifrazione, egli si assicura una posizione che gli permette di vedere più
chiaramente in ciò che avviene e che Davide non può capire. In que
sto processo, a poco a poco si fa avanti una suspense: progressiva
189
mente il lettore arriva ad attendere con crescente impazienza la con
clusione della faccenda, cioè il momento in cui Davide vedrà chiaro pu
re lui. Infatti, mentre nella conversazione la donna conduce a poco a
poco Davide a prendere posizione verso il «figlio assassino del fratel
lo», il lettore sa che egli si impegna a sua insaputa su un terreno in cui
lo aspetta la realtà della sua stessa famiglia. Che cosa farà quando in
fine si troverà di fronte a questa realtà?
8 Per u n ’analisi sistem atica dell’ironia in Gen 38, cf. M. O ’C a l la g h a n , «The S tru ttu
re and M eaning of Genesis 3: Ju d a h an d Tam ar», in Proceedings o f thè Irish Biblical A s-
sociation 5(1981), 72-88, e J.-L, Ska, «L’ironie de Tam ar (Gen 38)», in Z e itsc h riftfu r die
alttestam entliche W issenschaft 100(1988), 261-263.
190
sua onniscienza per svelare al lettore, questa volta, il punto di vista del
la donna. In questo modo rovescia le posizioni: con la sua intuizione,
Tamar raggiunge la posizione del lettore e di Giuda, ma all’insaputa di
quest’ultimo. Il lettore si ritrova così a fianco di Tamar, e guadagna ima
posizione superiore rispetto a Giuda, un ingannatore che, a sua insa
puta, sta per essere ingannato a sua volta da un’astuzia di colei che
egli cerca di trarre in inganno.
In realtà, in rapporto a Tamar, le cose sono più complesse. Infatti,
prima ancora che il narratore garantisca al lettore una posizione ugua
le a quella della nuora di Giuda in ciò che concerne il motivo della sua
iniziativa, gliel'ha mostrata mentre si travestiva e si velava, poi mentre
andava ad aspettare Giuda a lato della strada (w. 13-14a). Assicura co
sì la posizione superiore del lettore nei confronti di Giuda, ma lo lascia
in posizione inferiore rispetto a Tamar per quanto riguarda la strategia
concreta e lo scopo che essa persegue mascherandosi in quel modo.
Verso i personaggi il lettore si ritrova dunque nella stessa posizio
ne rilevata in 2Sam 14. Ma qui il modello è anche più raffinato. In
fatti, le indicazioni del narratore che permettono al lettore di uscire a
poco a poco dalla sua iniziale posizione inferiore in rapporto a Tamar
sono nettamente più sottili e nel racconto giungono più tardi. Duran
te tutto l’incontro della donna con Giuda, il lettore gode dell'ignoran
za di costui sottolineata dal narratore (Gen 38,15-18); inoltre, nulla
capisce della strategia di Tamar e delle sue intenzioni, per esempio
quando ella chiede dei pegni a Giuda. Nulla del resto gli rivela che es
sa abbia delle idee precostituite al riguardo: troppi elementi della si
tuazione gli sfuggono. Quando il lettore viene a sapere che lei ha con
cepito dal suo rapporto intimo con Giuda, può immaginare che po
trebbe aver raggiunto uno dei suoi scopi: avere un figlio dal sangue
del marito defunto (v. 19), ma il narratore non lo conferma. In segui
to, quando vede che Giuda si rassegna a lasciare alla «prostituta» i pe
gni per non coprirsi di ridicolo, ma senza la minima coscienza di ciò
che realmente sta facendo - nuovo tratto di ironia a suo discapito -
(w. 20-23), il lettore si dice che Tamar sarà in grado, in caso di falli
mento, di fornire le prove dell’identità del genitore di suo figlio, ma
ignora se essa ne farà uso, e, in caso affermativo, in che modo. Solo
quando Giuda ordina di condurla per essere bruciata il lettore com
prende come Tamar userà delle prove che ha in mano e che quindi
Giuda sta per essere smascherato, mentre è ben lungi daH'immagi-
nare ciò che lo aspetta (vv. 24-25).
191
Qui, insomma, la posizione superiore del lettore in rapporto alla
parte ingannata si rafforza solo lentamente, anche se si verifica in più
riprese. Il lettore è lasciato per così dire in aspettativa. Quanto alla sua
posizione inferiore in rapporto al personaggio che inganna, essa evol
ve, diversamente da ciò che accade nell’episodio di Dina nel quale nul
la filtra prima dello scioglimento. Ma questa evoluzione è molto lenta,
cosa che contribuisce a tenere intatto il mistero, ad accrescere l’impa
zienza del lettore e quindi a rafforzare l’effetto sorpresa dell’azione de
cisiva, costituita dall’iniziativa intempestiva del personaggio inganna
to a sua insaputa. Questo modello sarà riprodotto su vasta scala nel
lungo racconto dei capitoli da 42 a 45 della Genesi, nei quali il lettore
si trova in posizione superiore in rapporto ai fratelli di Giuseppe e al
loro padre Giacobbe Qui stesso in posizione inferiore in rapporto ai fi
gli), ma in posizione inferiore riguardo a Giuseppe. Anche qui il ribal
tamento è dovuto all’iniziativa di uno dei personaggi vittima (di nuo
vo) della strategia di dissimulazione, e cioè di Giuda (44,18-34).9
10 Sulle tecniche narrativ e che perm ettono di ren d ere Saul trasp a re n te p e r il letto
re, cf. A. W é n in , «M arques linguistiques du point de vue dans le récit biblique. L’exem-
ple du m ariage de David (1S 18,17-19)», in E phem erides Theologicae Lovanienses
83(2007), 319-337.
193
!,«ingannatore», evidentemente), David resta straordinariamente in
ombra. Davanti alle proposte insidiose di Saul, risponde con domande
o, con molta diplomazia, evita di confidarsi: «Chi sono io, che cos’è la
mia vita, e che cos’è la famiglia di mio padre in Israele, perché io pos
sa diventare genero del re?» (v. 18); e ai servitori: «Vi pare piccola co
sa diventare genero del re? Io sono povero e di umile condizione» (v.
23b). Fiuta forse la trappola di Saul che ha già tentato due volte di uc
ciderlo (18,11)? Vuole nascondere il suo desiderio o le sue ambizioni?
Anche se l’espressione «diventare genero di» lascia intravedere il pun
to di vista del giovane eroe, forse anche la sua speranza inespressa, le
sue risposte lasciano il lettore - e verosimilmente anche Saul - in una
posizione inferiore. Solo poco prima della conclusione finale il narra
tore rivela al lettore il sentimento di Davide in rapporto alla proposta
di Saul che «a Davide sembrò giusta» (v. 26a), cosa che lo decide a met
tersi all’opera per ottemperare alla condizione fissata dal re che vede
fallire il suo trucco quando Davide gli porta i prepuzi di duecento fili
stei (w. 26b-27). Così, in questa scena, se l’ironia scorna seriamente
l’immagine del re, non intacca affatto la personalità di Davide.
194
casa tua e lavati 1 pie di’’» (v. 8a). Con ogni evidenza, il trucco di Davi
de mira ad addossare a Uria la paternità del figlio dell’adulterio per
mascherare quest’ultimo.11 In questo contesto, l’offerta di cibo desti
nata a Uria (v. 8b) ha come probabile scopo di ben disporlo quando ri
entrerà da sua moglie. Ma quando il lettore vede in seguito che Uria
rimane col corpo di guardia del palazzo e va a dormire con i servi del
re, capisce che il trucco di Davide è fallito. Del resto, il narratore vi in
siste quando conclude riprendendo (ironicamente) le parole dell’ordi
ne reale: «Non scese a casa sua» (v. 9). Dopo la spiegazione dell’Ittita
alla domanda stupefatta di Davide che gli chiede perché non è andato
a casa sua, il narratore riprende la scena con altri elementi di su
spense. Anche se Davide lo ha ubriacato durante un pasto ben innaf
fiato, Uria esce nuovamente «la sera per andarsene a dormire sul suo
giaciglio [...] con i servi del suo signore». E il narratore torna a sotto-
lineare lo scacco della strategia di dissimulazione del re ripetendo: «Ma
non scese a casa sua» (v. 13).
Diversamente da quanto accade nel racconto precedente, il narra
tore non usa mai la sua onniscienza per svelare chiaramente il trucco
di Davide. Preferisce limitarsi a una narrazione apparentemente og
gettiva della scena, lasciando al lettore il compito di comprendere da
sé quanto accade tra i personaggi. Ma focalizzando l’attenzione, dall’i
nizio e per tutta la scena, sui soli tentativi di Davide di condurre il ma
rito tradito a rientrare a casa sua, fa in modo che il lettore, al corren
te del problema al quale il re cerca di dare ima soluzione, possa capi
re chiaramente la strategia di Davide. Ma in questo modo non è solo
una posizione uguale che il narratore dà al lettore nei confronti di Da
vide. Infatti, se questi cerca di nascondere il suo gioco, lo smaschera
tore - a sua insaputa, potremmo dire - si trova in vantaggio su di lui.
Così il narratore offre astutamente al lettore una posizione superiore
nei confronti del re e gli concede di gustare l’ironia che lo colpisce
quando vede i suoi ripetuti sforzi scontrarsi con la resistenza tanto fer
ma quanto inattesa dell’ufficiale ittita.12
195
Invece, per quanto riguarda Uria, il narratore procede in tutt'altro
modo. Non rivela né ciò che pensa, né i motivi per cui resiste agli in
viti così benevoli e allettanti del re. La replica relativamente lunga che
fa sentire al v. 11 può infatti essere compresa in due modi. Ecco cosa
dice: «L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore
e i servi del mio signore sono accampati in aperta campagna, e io do
vrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per giacere con mia mo
glie? Per la tua vita, per la vità della tua persona, non farò mai cosa si
mile». Da un lato, la fermezza di propositi e l’argomentazione avan
zata danno di Uria l’immagine di un militare integro che si attiene a
quello che riconosce come suo dovere, anche quando un re compren
sivo si mostra incline a permettergli una piccola deviazione. Dall’altro
lato, il modo in cui esplicita senza giri di parole la proposta del re di
«scendere a casa sua» seguita da un regalo di vivande, in termini di
«entrare, mangiare, bere e giacere con mia moglie» fa sospettare che
abbia ben compreso dove il re vuole arrivare, ma che non intenda far
gli questo piacere. Dopo tutto, come dimostra M. Sternberg, non è im
possibile che sospetti qualcosa di quanto è accaduto tra il re e sua mo
glie.13 Allo stesso modo, dicendo che il «suo signore» è Ioab piuttosto
che Davide, potrebbe lasciar intravedere il suo disprezzo nei confron
ti di un re che si lascia andare a certe manovre. Tra queste due possi
bilità, né Davide né il lettore hanno modo di scegliere. Quest’ultimo ri
mane dunque in posizione inferiore in rapporto all’Ittita, pur godendo
dell’ironia sull’impotenza di Davide che la resistenza del soldato con
tribuisce a creare.
Possiamo notare che, in questi ultimi due esempi, il narratore rac
conta un’astuzia che fallisce. Con benefìcio di inventario, è forse pre
cisamente questo che conduce il narratore a garantire al lettore ima
posizione superiore nei confronti dell’ingannatore, del quale è impor
tante mettere a nudo le intenzioni per poter rendersi conto del loro fal
limento. Infatti, non si vede bene come un ingannatore il cui trucco ri
esce potrebbe essere oggetto di ironia nel racconto stesso che narra il
196
suo successo - per quanto effimero possa essere. Invece, se qualcuno
cerca di ingannare e non ci riesce, non presta facilmente il fianco al
l’ironia?
4. Conclusione
Questo capitolo non è esaustivo. Tenta solamente di mettere in lu
ce alcune potenzialità narrative del gioco sui livelli di conoscenza e sul
le rispettive posizioni dei personaggi e del lettore, potenzialità corren
temente sfruttate nei racconti di astuzie e inganni. Questi giochi con
tribuiscono potentemente a creare effetti di ironia, ma anche di su
spense e di sorpresa; non sono senza importanza nemmeno per la ca
ratterizzazione dei personaggi coinvolti e a volte servono a orientare il
giudizio del lettore in rapporto alle loro azioni.
Capitolo ottavo
COSTRUZIONE
DEL DISCORSO
E COSTRUZIONE
DEL RACCONTO.
IL DISCORSO
COMUNITARIO DI MT 18
Daniel Marguerat
* U n'altra versione di questo studio è apparsa in: C. C uvaz - C. C o m b e t-G a lla n d - J.-D.
- C. N ih a n (edd.) ־Écritures e t réécritures. La reprise interprétative des traditions
M acch i
fondatrices p a r la littératire biblique e t extrabiblique, Peeters, Louvain 2012, 299-318.
199
Di conseguenza, gli esegeti che rinunciano al settarismo metodolo
gico e ricorrono contemporaneamente alla critica storica e alla narra-
tologia lo fanno, molto spesso, in successione. Dopo aver esplorato ciò
che sta a monte del testo, cioè la storia della sua nascita, passano in
seguito al racconto nel suo stato finale e auscultano la strategia del nar
ratore verso i suoi lettori. Ma sarebbe possibile che la critica storica e
l’analisi narrativa, invece di succedersi senza incrociarsi, articolino en
trambe la loro rispettiva indagine? La coabitazione a distanza potreb
be fare spazio alla collaborazione metodologica?
Noi difendiamo l’idea che l’analisi narrativa può proporre i suoi
mezzi per illuminare non più il testo finale, ma il processo stesso di
costruzione del testo. La narratologia è in grado di apprezzare e di
commentare il lavoro di rilettura cui si dedica il narratore sulle sue fon
ti documentarie? Noi sosteniamo di sì, ed è ambizione di questo capi
tolo dimostrarlo, prendendo spunto da un’analisi del discorso di Mt 18.
La scelta di una sequenza del primo Vangelo non è casuale. L’iden
tificazione delle fonti letterarie di Matteo è stata infatti oggetto di un
intenso lavoro, condotto con slancio dalla critica storica, a volte fino al
particolare, a volte fino all’eccesso, e l’archeologia letteraria del testo
di Mt 18 ha permesso di ritracciare una genealogia che oggi ci si pre
senta con nitidezza. I cinque grandi discorsi matteani sono emblema
tici dell’opera compositiva del narratore, che riorganizza le sue fonti
documentali per costruire grandi insiemi tematici.1 Come attesta il
trattamento letterario che fa di Marco e della Fonte delle parole di Ge
sù (Fonte Q), Matteo si distingue da Luca, che non smembra le sue fon
ti, ma le giustappone in una successione sequenziale. L’analisi storico
critica ha eseguito bene l’auscultazione diacronica del testo matteano.
La scelta del testo di Mt 18 è determinata dal fatto che il processo
di composizione redazionale di Matteo è particolarmente evidente in
questo discorso e rappresentativo della sua strategia di scrittura.
1 Si p u ò leggere u n a presentazione dei risultati della critica delle fonti sul vangelo
di Matteo nel contributo di È . C u v illie r , «L’évangile selon M atthieu», i n D. M a r g u e r a t
(ed.), Introduction au N ouveau Testament. Son histoire, son écriture, sa théologie, La-
bor et Fides, Genève 420 08, 70-74; tr. it. Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana,
Torino 2004, 77-81.
200
1. Prologo: un discorso dalle origini molteplici
La storia del discorso di Mt 18 non pone più alcun problema alla
critica delle fonti. Sull’esempio del resto del Vangelo, il testo matteano
proviene da una quadruplice origine: a) la ripresa del testo di Marco;
b) la ripresa di frammenti della Fonte delle parole di Gesù (Fonte Q);
c) la ripresa di materiali della comunità dell’evangelista; d) i testi re
datti dall’evangelista.2 Applicando questa griglia di lettura ai 35 ver
setti del discorso, ci si accorge che, dal punto di vista delle sue origini,
questo testo è un vero mosaico: di volta in volta l’evangelista ha attin
to dai tre insiemi tradizionali e ha legato il tutto con aggiunte di sua
mano per farne un’unità. Il lavoro di composizione di questo patch
work è impressionante.
Passiamo in rivista il testo, sintetizzando i risultati cui sono perve
nuti i ricercatori.
Il discorso inizia con un dialogo di Gesù con i suoi discepoli sulla
questione «chi è il più grande?» (18,1-5); si tratta di una ripresa di Me
9,34-37. Matteo ha tagliato l’introduzione narrativa di Me 9,33 e ri
formulato la stesura dei w. 3-4. Questi due versetti provengono dal re
dattore; è possibile l’influenza di una tradizione di lettura di Me 9,36
nella sua comunità.3
La serie di ingiunzioni sullo scandalo (18,6-9) che segue, eccetto
l’introduzione redazionale della lamentazione del v. 7 e la soppressio
ne di Me 9,45 (che fa ridondanza), è una riproduzione abbastanza fe
dele di Me 9,42-47.
Segue la parabola della pecora smarrita (18,10-14).4 Si tratta di
una riscrittura della parabola come Matteo l’ha letta nella Fonte delle
2 Negli ultim i due casi, l'identificazione p recisa degli interventi redazionali sulle tr a
dizioni della com unità di Matteo va p re sa con cautela: in m an can za di m ateriale com
parativo, è talvolta azzardato distinguere con certezza la rip resa di un dato trad izio n a
le da un testo redatto dall'autore del Vangelo. Si può rischiare, m a con prudenza.
3 Cf. W.D. Davies - D.C. A llis o n , The Gospel according to S a in t M atthew , II, Clark,
Edinburgh 1991, 756-757: U. Luz, D as Evangelium nach M a tth à u s (M t 18-25), Benzi-
ger-Neukirchener, Zurich-Neukirchen 1997, 10-11: tr. it. Vangelo di M atteo, Paideia,
Brescia 2010, III.
4 È com unem ente accettato che il v. 11 non appartiene al testo originale di Matteo,
m a p resen ta una glossa del testo occidentale e bizantino che richiam a Le 19,10.
parole di Gesù (cf. Le 15,4-7). Il narratore l’ha fatta precedere al v. IO
da un avvertimento contro il disprezzo dei piccoli.
La regola disciplinare che segue (18,15-18) segna una transizione
verso il materiale della tradizione propria della comunità di Matteo;
troviamo tuttavia un parallelo alla prima parte di questa regola con tre
clausole nella Fonte delle parole di Gesù (Le 17,3).
Le parole sulla preghiera nel nome di Gesù (18,19-20) provengono
dalla tradizione propria della comunità di Matteo.
Il dialogo con Pietro sul perdono illimitato (18,21-22) è scaturito
dalla Fonte delle parole di Gesù (Le 17,4), ma è stato fortemente ritoc
cato dall’evangelista.
Invece la parabola del servo ingrato, che conclude il discorso
(18,23-35), proviene dalla comunità matteana. L’evangelista l’ha cor
redata con un’introduzione (v. 23) e una conclusione (v. 35), con riser
va di altre intrusioni nel corpo del testo - si sospetta in particolare che
il redattore abbia ingrandito la cifra del debito fino a diecimila talenti
per motivi allegorici.5
In tutto, a costituire questo discorso di Gesù dall’inizio alla fine so
no sette micro-unità incollate insieme.
Com’è sua abitudine, l’autore del primo Vangelo ha posto il suo di
scorso in una nicchia narrativa preparata da Marco, nel caso specifi
co l’indicazione di un insegnamento privato di Gesù ai suoi discepoli
in 9,33-50. Ne ha ereditato l’uditorio del discorso (i discepoli: 18,1); ne
ha pure ereditato le prime due micro-unità con la tematica dell’acco
glienza dei piccoli e il dibattito sulla vera grandezza, il materiale della
Fonte delle parole di Gesù gli ha poi permesso di continuare l’argo
mentazione con la parabola della pecora perduta, che diventa una ri-
scrittura della pecora smarrita, e la regola disciplinare riguardo al fra
tello che si perde. L’inserimento delle due parole sulla preghiera
(18,19-20) è una cerniera che fa pendere la tematica verso una pare-
nesi del perdono.
L’insieme del discorso matte ano è dedicato alle relazioni comuni
tarie, ma nell’argomentazione si scopre uno slittamento dalla temati
ca dell’accoglienza dei pìccoli (18,1-10.14) a quella del fratello smarri
to (18,15-20), e poi a quella del perdono illimitato (18,21-35). Possia
5 II punto della situazione in Luz, Das Evangelium nach M a tthà us (M t 18-25), 66-68.
202
mo pensare a una strutturazione retorica del discorso? L’opinione dei
commentatori varia da una struttura bipartita (con una cesura tra i w.
14 e 15 o tra i w. 20 e 21) a una struttura tripartita (w. 1-14; 15-20;
21-35). L’unico indice narrativo chiaro è l’intrusione della figura di Pie
tro che si avvicina a Gesù, al v. 21; a livello di linguaggio, la sua do
manda («quando mio fratello commette colpe contro di me») ricalca l'i
nizio della regola disciplinare del v. 15 («se il tuo fratello commetterà
una colpa contro di te»). La ripresa non è casuale; segnala che Pietro
torna alla ribalta al v. 21 sull’enunciato della regola al v. 15. Questo du
plice indizio, narrativo e linguistico, porta a privilegiare una struttura
tripartita nella quale si succedono tre periodi: i w. 1-14 in cui domina
il tema dei «piccoli»,6 i w. 15-20 sulla regola disciplinare e i w . 21-35
sul tema del perdono.7 Ogni periodo termina menzionando il Padre ce
leste (w. 14, 19 e 35).8
La retorica matteana non va tuttavia serrata in una via troppo car
tesiana. La logica di Matteo, semitica, è molto più associativa che li
neare; essa procede per slittamenti più che per conseguenze dedutti
ve. Due indici di questa logica associativa: a) l'abbondanza delle paro
le-aggancio che legano le sentenze di Gesù nei primi dieci versetti;9
b) lo scivolamento dal tema dei «piccoli» (w. 1-10) a quello dello smar
rimento (w. 12-13), in cui si prepara il passaggio dal primo al secon
do periodo centrato sulla procedura disciplinare nei confronti del fra
tello che ha commesso una colpa.
Detto questo, la genealogia del discorso, così come l’abbiamo evo
cata, fa sorgere due interrogativi ricorrenti nei lavori dedicati a Mt 18.
Chi sono i «piccoli» di cui parla Mt 18,1-14? E, legata a questa do
manda, a chi è rivolto il discorso: a questi piccoli stessi o ad altri? È il
nostro primo interrogativo.
Secondo interrogativo: come interpretare !,inserimento della rego
la disciplinare di 18,15-17, che appare come un corpo estraneo nel di
203
scorso, tanto più che il motivo dell’illimitatezza del perdono sembra
rendere mutile la sua misura di esclusione?
Queste due domande riguardano la costruzione del discorso di Mt
18. Quanto alla costruzione del racconto di Mt 18, cioè al suo inseri
mento nella trama del primo Vangelo, aggiungiamo altri due interro
gativi. Terzo interrogativo: che ruolo ha l’inserimento redazionale del
la figura di Pietro in 18,21 e come valutarne la portata?
Quarto interrogativo: una volta accettato il lavoro di composizione
redazionale di Mt, l’osservazione dell’inserimento del discorso nella
trama del macro-racconto ci informa sulla funzione di questo discorso
nella strategia del narratore?
Constatiamo che, su questi quattro interrogativi, ogni volta il pun
to di partenza è il lavoro di ricostruzione della storia del testo matte a-
no. Ancora una volta, è nostra intenzione mostrare che gli strumenti
dell’analisi narrativa permettono di farsi carico degli interrogativi sca
turiti dalla critica storica.
204
nel ricordo della volontà del Padre celeste «che neanche tino di questi
piccoli si perda».
11 Così p er esem pio R.T. F r a n c a , The Gospel o f M atthew , E erdm ans, G rand Rapids
2007, 674: «all tra e disciples become, an d m ust be tre a te d as, “little ones”».
12 Così p e r esem pio D . S e n io r, M atthew , Abingdon, Nashville 1998, 207; D avies - Al-
lis o n , The Gospel according to S a in t M atthew , 762-763, adottano la m edesim a posizio
ne, p u r ritenendo impossibile precisare di quale tipo di fragilità si tratta.
205
Luz,13 se i destinatari sono i «piccoli», allora l’invito a non disprezzar
li assume il valore di un’esortazione solenne. A chi sono rivolti allora
gli imperativi che scandiscono il discorso dal v. 3 al v. 10, dal momen
to che nessun segnale evidenzia un cambiamento di destinatari?
206
tura della regola disciplinare di 18,15-17, la composizione del discor
so vuole avere un effetto pratico: mettere in relazione, all’interno del
la comunità, coloro che sono separati da conflitti o dal pericolo.
Chi sono i «piccoli», chi sono i «grandi»? Rifiutandosi di fissare
narrativamente la loro identità, il narratore provoca queste domande
e stimola il dibattito.
15 La clausola «verso di te», non trad o tta dalla TOB e dalla Bible de Jérusalem , è
assente in due im portanti m anoscritti onciali del IV-V secolo (Sinaitico e Vaticano). Tut
tavia, la sua om issione sulla base del parallelo Le 17,4 è verosim ile più che il suo in se
rim ento tardivo, dato che la soppressione perm etteva di generalizzare il caso del pec
cato togliendogli la dim ensione in terpersonale («verso di te»).
16 Già R. B u ltm a n n , Die G eschìchte der synoptischen Tradìtìon (1921); tr. fr. L'hì-
stoire de la tradition synoptique, Seuil, Paris 1 9 7 3 ,1 8 0 -1 8 1 , 549. Sulle categorie eb rai
che del linguaggio e i paralleli nella letteratu ra ebraica, cf. C.S. K e e n e r, C om m entary on
thè Gospel o f M atthew , E erdm ans, G rand Rapids 1999, 453-454.
207
Non si può contestare che la regola in seno al discorso comunita
rio dia l’impressione di estraneità. Qui l’evangelista ha inserito un te
sto che, dal punto di vista della forma letteraria (enunciato di diritto
casistico), del tema (correggere il fratello o escluderlo) è a priori ete
rogeneo al contesto. Ma, attraverso la costruzione del discorso, si è la
sciato andare a una rilettura di questa regola tradizionale. La critica
redazionale (Redaktionsgeschichte) lo ha già fatto notare.17 Ricorren
do da un lato all’osservazione sincronica del testo e dall’altro lato alla
dimensione di intertestualità, proseguendo su questa strada identifi
chiamo tre aspetti del nuovo inquadramento della regola: a) una sim
metria sul tema dell’esclusione; b) il percorso argomentativo del di
scorso; c) l’effetto di intertestualità.
17 In prim o luogo: G. B ornkam m , «Die Binde- und Losegewalt in d er Kirche des Mat-
thaus», in Id., G eschichte und Glaube II, Kaiser, M unchen 1971, 3 7 5 0 ־.
208
terpersonale mediante una procedura di riconciliazione e non di un’ar
ma a disposizione del gruppo ecclesiale per eliminare le sue pecore ne
re.18 L’invito a riconciliarsi con il fratello è già risuonato in 5,23-24.
Matteo, che visibilmente la ritiene una priorità, fa presumibilmente eco
a difficoltà della sua Chiesa.
Ma è soprattutto interessante notare che questa misura di esclu
sione è stata preceduta nel discorso da un’altra esclusione: la parola
di Gesù sui fautori di scandalo ai w. 8-9. Se la mano, il piede o l’oc
chio sono mediatori di scandalo, se cioè causano la perdita di un «pic
colo», «tàglialo [...] càvalo e gettalo via da te» (18,8a.9a). Gesù parla di
automutilazione con una retorica manifestamente iperbolica; il signifi
cato è chiaro: far cadere il fratello debole è un crimine così grave che
piuttosto che acconsentirvi è meglio amputarsi.19 In ambedue i casi,
che si tratti di guardarsi bene dallo scandalizzare il fratello fragile
(18,6-9) o di essere condotto a causa del rifiuto del peccatore a non
considerarlo più come un fratello (18,15-17), il motivo dell'esclusione
interviene come l’ultima possibilità. Ma la successione ha un’impor
tanza decisiva: colui che come ultima istanza deciderà l’esclusione del
peccatore ostinato dovrà prima essersi interrogato per sapere se non
deve separarsi in se stesso da ciò che fa scandalo. L’effetto della co
struzione del discorso è impressionante: l’auscultazione dell’integrità
personale precede l’esame dell’integrità del fratello.
209
eliminare ciò che in se stessi potrebbe far cadere il debole (18,6-9), il nar
ratore inserisce la parabola della pecora perduta, che ha letto nella Fon
te delle parole di Gesù (cf. Le 15,4-7). Ma le versioni lucana e matteana
della parabola sono notevolmente diverse. Mentre in Luca la parabola
mira al ritrovamento della pecora perduta e alla gioia che ciò fa esplo
dere (Le 15,7), Matteo ri-configura il racconto per dare la precedenza al
la ricerca della pecora: la sua scoperta è solo un’opzione possibile («se
riesce a trovarla» v. 13); inoltre, la conclusione non insiste sulla gioia ce
leste per la scoperta, ma sulla volontà divina di non lasciare che nean
che uno si perda (18,14). D’altra parte, Matteo non parla come Luca del
la pecora perduta («se ha cento pecore e ne perde una», Le 15,4), ma
della pecora smarrita («se una di loro si smarrisce», Mt 18,12). La figu
ra del «piccolo», che ha dominato il discorso fino a questo punto, si tro
va riqualificata nell’immagine parabolica del fratello smarrito: all’istan
te, lo smarrimento del fratello non ha la connotazione della colpa, ma di
uno stato di fragilità che richiede l’investimento della ricerca.
Aggiungiamo che, diversamente dal racconto lucano, la parabola
matteana si presenta meno come una storia raccontata che come uno
studio di casi esposti in forma metaforica. La formula retorica «Che co
sa vi pare?» (18,12a) interpella il lettore, al punto che «la “parabola”
diventa un dialogo dell’autore con il suo lettore, la sua lettrice implici
ti, di cui cerca il consenso».20 Ugualmente, concludere la ricerca della
pecora con un «in verità io vi dico» (v. 13) contribuisce a dare all’in
sieme della parabola una forte dimensione argomentativa.
La regola disciplinare segue immediatamente. Per il lettore è im
possibile ignorare il contesto interpretativo che gli è stato assegnato.
In presenza della regola, la necessità teologica di fare di tutto per ri
cercare il fratello smarrito gli è imposta come una norma ermeneuti
ca. La disposizione in tre fasi non potrà quindi essere considerata una
disciplina di scomunica.21 Dev’essere letta, invece, come il percorso da
seguire per ritrovare la persona smarrita, in quanto escluderla dalla
210
comunità significherebbe alla fine il fallimento del triplice sforzo in
trapreso - o, per rimanere nel linguaggio parabolico, il contrario del
la gioia del ritrovamento (18,13). La regola vuole dotare i membri del
la comunità di una capacità di riconciliazione.
Va anche ricordato che la regola non prescrive le cose da fare a pro
posito del fratello che ha commesso una colpa, ma il tipo di condotta
da adottare con il fratello peccatore. Il peccato di cui si parla («se il tuo
fratello commetterà una colpa contro di te», 18,15) ci è sconosciuto; al
contrario è precisato il carattere della relazione da salvaguardare (si
tratta di un fratello) e il ruolo determinante dell’ascolto nella riuscita
dell’operazione (tra i w. 15 e 17 il verbo ascoltare torna per ben tre
volte). Come scrive con competenza Francois Genuyt, «il peccato ri
mane indefinito, ma non ha importanza; la cosa principale è l’ascolto
e il rifiuto di ascoltare determina nel dettaglio il peccato, al punto da
essere il criterio dominante per chiarire la situazione. [...] Questo è
dunque lo scopo della procedura nel caso del peccatore: verificare la
natura del legame fraterno».22 In altre parole: nella procedura di ri
conciliazione, il criterio decisivo non è la gravità del peccato commes
so; lo è invece la salvaguardia del legame fraterno.
Il logion del v. 18 segnala che l’esclusione del fratello non ha solo
conseguenze sociali, ma anche soteriologiche: ciò che la comunità le
ga è legato anche nei cieli. Teologicamente, questa dichiarazione è pe
sante. Ma ci ricorderemo che la rottura delle relazioni non è lo scopo
della procedura, bensì il catastrofico scenario che ci si può prospetta
re in caso di fallimento. Dopo le parole sulla preghiera ai w. 19-20 (sui
quali torneremo), l’invito al perdono senza limiti si inscrive nella logi
ca argomentativa che abbiamo descritto finora. Il carattere illimitato
del perdono è significato simbolicamente con il «70 volte 7», con il qua
le Gesù risponde all’offerta già generosa di Pietro di perdonare sette
volte (18,21-22). La parabola del servo spietato giustifica questo modo
di parlare, ancora una volta in modo iperbolico (dopo 18,8-9): com’è
possibile limitare l’esercizio del perdono, se noi stessi siamo stati og
getto di una colossale rimessa dei debiti? La parabola illustra l’evi
denza di una reciprocità nel perdono, dopo che l’uomo ha avuto il be
neficio dello straordinario perdono di Dio.
211
È chiaro che questo imperioso invito al perdono non annulla il
provvedimento di scomunica in caso di fallimento; costituisce tuttavia
l’orizzonte di comprensione, il cui solenne finale (cf. 18,35) non può
sfuggire al lettore, alla lettrice. Del resto, la minaccia escatologica che
pesa sul rifiuto di perdonare costituisce l’ultima parola del discorso.
23 È attestato a Q um ràn (1QS 5,24-6,1; CD 9,2-8) come p u re nel Testam ento d i Gad
4,1-3; 6,3-7.
212
simo, e si pecca contro Dio. Appena un fratello cade, subito si corre a
dirlo a tutti, ci si affretta a farlo giudicare e punire con la morte».24
Letta in questa luce, la regola comunitaria appare come un freno
potente posto accanto alla denuncia ecclesiale della colpa del fratello.
Prima che ì’ekklèsia conosca il suo caso, gli sono offerte due occasio
ni di sentire il rimprovero che gli viene fatto. Se mettiamo insieme la
costruzione retorica delle due esclusioni, la quale invita a esaminare
se stessi prima di esaminare gli altri, l’argomentazione che culmina
nella chiamata al perdono illimitato e infine l’eco intertestuale a Lv
19,17-18, non è concesso di dubitare della volontà di una nuova in
quadratura della regola tradizionale propria del narratore.
Estrapolata da questa costruzione del discorso, la regola si presta
a un’interpretazione pericolosamente settaria. La storia del cristiane
simo ne offre la triste conferma. Eppure Matteo si era sforzato di pre
munire i suoi lettori da una tale comprensione.
213
Possiamo banalizzarla considerandola un diversivo per animare il rac
conto:26 ma perché scegliere questo personaggio? Possiamo nuova
mente banalizzare vedendolo intervenire qui nel suo ruolo usuale di
portavoce dei discepoli (cf. Mt 14,28; 15,15; 16,16; 17,4; 19.27);27 ma
bisogna notare che il procedimento redazionale più corrente in Matteo
è di far intervenire il gruppo dei discepoli.28 Inoltre, a eccezione del no
stro testo, Pietro non interviene neppure una volta in un grande di
scorso del Vangelo; la sua ultima apparizione narrativa precede pro
prio Mt 18: Pietro è l’interlocutore di Gesù nel botta e risposta sul pa
gamento della tassa del Tempio (17,24-27).
choppem ent. La figure am bigue de Pierre dans l’évangile selon M atthieu», in Cahier Bi-
blique de Poi e t Vie 46(2007), 44-58.
26 S y r e s n i fa tuttavìa osservare che l’intrusione di nuovi personaggi costituisce un
to rn an te nel discorso: cf. 13,36 e 24,1 («Peter as C haracter an d Symbol in th è Gospel of
M atthew», p. 138)..
27 S. G ra s s o , «La parab o la del re buono e del servo spietato (Mt 18,21-35). Analisi
narratologica», in R ivista Biblica 46/1(1998), 34, adotta questa posizione, m a in trodu
ce im a innovazione attribuendo alla figura n arra tiv a di Pietro la funzione di essere p o r
tavoce dei n a rra ta ri, cioè dei lettori im pliciti dell’evangelo.
28 Mt 13,10.36; 14,15; 15.12.23.33; 17,10.19; 19,10.25; 21,20; 24,3.
29 Con D.W. U lr ic h , True Greatness. M atthew 18 in its L iterary Context, PhD, Union
Theological Seminary, Richm ond (VA) 1996, 249-255.
Anche la successione del dialogo (18,21-22) e della parabola (18,
23-35) merita un apprezzamento. L’offerta di Pietro (perdonare sette
volte) è già generosa: nel giudaismo l’usanza è di arrivare a perdona
re tre volte, a immagine di Dio che concede il suo perdono tre volte;30
ma è rifiutata da Gesù in nome di un’eliminazione di ogni limite al per
dono (70 volte 7). Come accettare un’esigenza così smisurata? La para
bola lo fa sapere, precisamente, reimpostando lo statuto dì chi perdo
na. Sottomettendo la sua proposta di sette perdoni, Pietro si situa nel
la posizione di colui che offre con generosità, tanto più che il caso in
vocato è l’atteggiamento da adottare verso il fratello che ha peccato
contro di lui («se il mio fratello commette colpe contro di me, quante
volte dovrò perdonargli?», 18,21). La sua condizione di persona lesa
rende l’offerta di Pietro ancora più magnanima. Ora, mediante la para
bola, Gesù lo conduce a cambiare stato identificandosi con un uomo
gratificato dal perdono. Da donatore, diventa graziato. La domanda del
re conduce precisamente a questa riqualificazione deU’iniziale condo
no del debito: «Servo malvagio, ió ti ho condonato tutto quel debito
perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo com
pagno, così come io ho avuto pietà di te?» (18,32-33). L’ingratitudine
umana si radica su un malinteso: non ha registrato la responsabilità
inerente alla sua condizione di graziato.
215
In primo piano ormai non c’è più l’immensità del perdono da con
cedere, ma la dismisura del perdono ricevuto. La parabola ha inverti
to i ruoli: l’ingiunzione a perdonare diventa l’evidente e leggera con
tropartita della grazia divina. Pietro, il discepolo che rinnega il suo
maestro, rappresenta qui il paradigma del colpevole perdonato.
5.1. Il discorso di Mt 10
All’interno del Vangelo, Mt 18 non è il primo discorso dedicato alla
vita ecclesiale. Lo ha preceduto il c. 10, con l’invio dei discepoli. Come
si presenta questo racconto a monte? Il discorso di Mt 10 non appare
prima che nel discorso della montagna (Mt 5-7) Gesù abbia presentato
il vangelo del Regno e che un ciclo di miracoli (Mt 8-9) abbia fatto ve
dere come l’efficacia della parola del Messia si concretizzi in mezzo al
suo popolo. La successione narrativa è eloquente־, dopo aver dimostra
to l’onnipotenza di Gesù mediante la sua Parola e le azioni terapeuti
che, il discorso di Mt 10 mostra Gesù che associa i suoi discepoli a que
sto potere inviandoli in missione. Prima Gesù, poi i discepoli.
Il cuore del discorso si trova in 10,24-25a: «Un discepolo non è più
grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è suffi
ciente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo co
me il suo signore». Qui è stabilita la conformità cristologica della Chie
sa: la condizione dei discepoli non dev’essere né più né meno che quel
la del loro Maestro, modellata sul suo destino di autorità e di servizio.
Per questo motivo il narratore fa vedere il destino di Gesù prima che
egli si pronunci sulla vocazione dei suoi discepoli.
5.2. La sequenza narrativa
Come abbiamo visto, il nostro discorso, diversamente da Mt 10, ri
guarda i rapporti interni alla comunità. Assieme ad altri ricercatori,32
noi consideriamo Mt 18 come il centro di una sequenza da 16,21 a
20,34, che costituisce una specie di pausa tra, da un lato, i grandi con
flitti di Gesù con le autorità di Israele (12,1-16,20) e dall’altro lato la
ripresa di questo confronto con l'ingresso messianico in Gerusalemme
(21,1-11). Questa pausa, come fa vedere lo schema qui sotto, è segna
ta dal cammino di Gesù verso la sua passione e la sua morte.
17,1-13
Trasfigurazione
17,14-21
Guarigione
19,1-30
Dibattiti e controversie Gesù va in Giudea (19,1)
20,1-16
Parabola
32 Cf. U. Luz (che segue u n a pro p o sta di Jack D. Kingsbury): Das Evangelium nach
M a tth d u sfM t 1-7), EKK 1/1, Benziger-Neukirchener, Z urich-N eukirchen52002, 33; tr. it.
Vangelo di M atteo (1-7), Paideia, Brescia 2 0 1 0 ,1.
«bere il calice che io sto per bere»
(20 ,22)
«dare la propria vita in riscatto per la mol
titudine» (20,25-28)
20,29-34
Guarigione
33 Questo punto di vista è bene sviluppato da M. K o n r a d t , «“W hoever hum bles him -
self like this child.... ״. The Ethical Instruction in M atthew ’s Community D iscourse (Matt
18) and its N arrative Setting», in J. v a n d e r W a t t - R. Zim m erm ann (edd.), M oral Langua-
ge in thè N ew Testament. The Interrela ted n ess o f Language and E thics in E arly Chri
stian Writings, M ohr Siebeck, Tubingen 2010, 105-138.
218
portanza. Leggendo il primo Vangelo, ci si scontra infatti di continuo
su inviti all’obbedienza, dei quali ci si chiede dove si fondino. In ter
mini tecnici, il lettore di Matteo è spesso alla ricerca del legame tra l’in
dicazione della salvezza e l’imperativo etico: siamo salvati per obbedi
re o dobbiamo obbedire per essere salvati?34 Qui il radicamento cri
stologico che ricevono gli imperativi di Mt 18 assume tutto il suo valo
re. Esso indica ciò a cui l’ingiunzione rinvia, ciò che le dà legittimità e
la fonda: l’agire preveniente di Cristo. Allo stesso modo, abbiamo visto
in che maniera, nella parabola del servo spietato, l’ingiunzione al per
dono era re-inquadrata e risituata di fronte al dono ricevuto. L’etica del
servizio e dell’attenzione verso il fratello, l’etica della premura con i
«piccoli», è ima solidificazione della sequela di Cristo sul suo cammi
no di umiltà. Il lettore del vangelo non si confronta con un imperativo
spoglio; riceve invece la Parola prescrittiva di colui che ha assunto la
fragilità fino al limite estremo.
5.3. Cristo-pastore
In questo contesto cristologico, lo svolgimento matteano della para
bola della pecora smarrita merita ulteriore attenzione (18,12-14). L’e
same della ri-scrittura alla quale si abbandona il narratore ha fatto
constatare che Matteo insisteva sullo sforzo del pastore nel cercarla,
mentre Luca punta sulla gioia del ritrovamento. La parabola matteana
è un invito a cercare il fratello separato come il pastore che parte alla
ricerca della sua pecora perduta. Ora, nel linguaggio biblico, la meta
fora del pastore non è di certo casuale; essa rinvia a Dio pastore del
suo popolo Israele (Ez 34,11-22), come pure al pastore messianico da
vidico annunciato dalla profezia (Ez 34,34; 37,24). La ricerca del fra
tello smarrito trova il suo fondamento nella Scrittura.
Possiamo aggiungere che l’immagine del pastore trova nel Vange
lo di Matteo un forte ancoraggio cristologico. Matteo presenta Gesù co
me il pastore messianico di Israele (2,6), che si dedica alle pecore sper
dute del suo popolo (9,36; 15,24). Nel discorso missionario di Mt 10, i
219
discepoli sono incorporati alla ricerca di Gesù, il quale cerca le pecore
senza pastore (9,36; 10,6). Il rimodellamento della parabola della Fon
te delle parole di Gesù assume tutto il suo significato in questo conte
sto, contribuendo a costruire un’etica della premura verso il fratello
che condivide l’azione di Cristo.35 L’attenzione richiesta nei confronti
dei membri fragili della comunità riproduce la vocazione del pastore
messianico;36 assume la figura dell’imitatio Christi.
Proprio alla luce di questo ancoraggio cristologico così marcato noi
collochiamo la promessa che la preghiera viene esaudita (w. 18-19),
seguita dall’enigmatico versetto 20: «Perché dove sono due o tre riuniti
nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». In questa sentenza e non
senza ragione è stato visto un equivalente cristologico della shekinah,
la presenza della gloria di Dio in mezzo al suo popolo.37 Ma, ancora
una volta, come comprenderla a partire dal suo inserimento narrati
vo? Se quanto abbiamo appena detto sul fondamento cristologico del
discorso è corretto, la formula assume una colorazione specifica. Pos
siamo parafrasarla in questo modo: se due o tre fratelli sono riuniti nel
nome di Cristo-pastore e agiscono seguendo il suo modello di atten
zione premurosa verso i membri della comunità, allora Cristo sarà in
mezzo a loro, e quello che gli domanderanno avrà effetto nei cieli
(18,19), poiché così facendo parteciperanno alla vocazione di Cristo-
pastore. È infatti straordinario che la promessa di esaudimento da par
te del Padre celeste sia legata a una sola condizione, che non è l’ogget
to della domanda, ma la sua modalità: «Se due di voi sulla terra si met
teranno d’accordo per chiedere qualunque cosa» (18,19). La condizio
ne non riguarda la domanda, ma i richiedenti: è necessario che la lo
ro preghiera sia «sinfonica»,38 cioè che essa si conformi all’etica di ri
conciliazione spiegata fin dal versetto 15.
35 L’evidenziazione della dim ensione cristologica risale in m odo esem plare a J. Du-
pon t nel suo articolo: «Les im plications christologiques de la parabole de la b reb is per-
due», ih Jésus aux origines de la christologie, Leuven University Press, Leuven 1989
nuova ed., 331-350.
36 F r a n c e (The Gospel o f M atthew , 687-688) individua questa connotazione cristo
logica, m a la com m enta parten d o dalla figura del buon pastore nel quarto Vangelo; ora,
Matteo la sviluppa sufficientem ente dal suo punto di vista.
37 H. F r a n k e m Ol l e , Jahw ebund undK irche Christi, Aschendorff, Miinster 1974, 27-36.
38 G e n u y t , «M atthieu 18», 10.
220
Il famoso affresco del Giudizio finale in Mt 25,31-46 offre un’altra
modulazione su questo tema del rapporto tra la cristologia e l’etica: ve
nire in soccorso ai miseri va compreso teologicamente sul modello del
come se. Prendersi cura dei deboli, è come se si venisse in aiuto a Cri
sto: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l'avete fatto a me» (25,40). Mt 18 esplora il registro del come:
aver cura dei «piccoli», significa agire come Cristo-servo.
6. Conclusione
Le quattro domande che sono servite da griglia di lettura per il di
scorso comunitario di Mt 18 hanno permesso di vedere che l’analisi
narrativa e la critica delle fonti possono fare causa comune. Ciò do
vrebbe aiutare a superare l’idea che la critica delle fonti (con il suo in
terrogarsi diacronico) e la narratologia (con la sua prospettiva sincro
nica) siano condannate a occupare spazi diversi. Al contrario, l’artico
lazione ben ponderata delle due procedure apre un campo di creativi
tà fecondo, capace di rinnovare il dibattito oggi logoro della critica let
teraria. In questo contesto, l’apporto specifico dell’analisi narrativa
consiste nel valutare tutte le dimensioni del lavoro di interpretazione
operato dal narratore quando rilegge altri testi. Nel nostro caso, ha
permesso di cogliere la strategia narrativa dell’evangelista su quattro
punti: l’indeterminazione dell’identità dei «piccoli» come interpellan
za al lettore, un nuovo inquadramento della regola disciplinare nel pro
cesso di riconciliazione, la riconfigurazione del perdono con l’ausilio
della figura di Pietro e il fondamento dell’imperativo nel dono di Cri
sto ai suoi. Un sìmile dispositivo narrativo rivela un pensiero teologi
co coerente e potente.
Capitolo nono
DAVIDE E LA STORIA
DI NATAN (2SAM 12,1-7).
IL LETTORE
E LA «FICTION»
PROFETICA
DEL RACCONTO BIBLICO
André Wénin
1 In questo capitolo, il term ine «storiografia» è usato secondo il suo significato {eti
mologico) di «scrittura della storia» o del passato.
2 D. C o h n , Le propre de la fictio n , Seuil, Paris 2001; or. ingl. The D istinction o f Fic
tion, Johns Hopkins University Press, Baltim ore 1999.
223
cendo, crea un mondo proprio, anche se esso può assumere molti trat
ti dalla realtà fuori-testo. Quando tuttavia lo fa, non è soggetto al cri
terio dell’esattezza, come accade invece per lo storico.3 Il narratore
quindi rimane padrone del mondo che egli crea.
Nel corso della sua opera, Cohn precisa le differenze formali tra
racconto di fiction e storiografia e ne elenca quattro.
1) Dove la fiction conosce due livelli - la story e il discourse (in ita
liano: la storia raccontata e la costruzione della sequenza dei fatti e la
loro presentazione narrativa concreta) -, la storia ne aggiunge uno a
monte della story: cioè gli avvenimenti che sono accaduti e che il rac
conto deve cercare di rendere con precisione. Ciò richiede dallo stori
co una precisione sconosciuta all’autore della fiction.
2) Al pari di un autore di fiction, l’autore di un racconto storiogra
fico manipola necessariamente le strutture della temporalità: così, ad
esempio, l’ordine di presentazione dei fatti non è mai strettamente cro
nologico. Tuttavia, le libertà che lo storico si concede da questo punto
di vista sono dettate dalle fonti a sua disposizione, dalle necessità di
interpretazione o dal soggetto stesso più che da una preoccupazione
estetica o da una strategia narrativa.
3) Le differenze che riguardano le situazioni narrative sono ben
maggiori. L’onniscienza di cui gode il narratore nella fiction, special-
mente nei confronti dei personaggi, è evidentemente inaccessibile allo
storiografo. Quest'ultimo è tenuto il più delle volte a una fecalizzazione
esterna - l’occhio dell’osservatore esterno - tranne quando le fonti sto
riche di cui dispone gli permettono di svelare cose normalmente na
scoste. La sua narrazione sarà dunque fatta più di sommari o di rias
sunti che di scene (modo narrativo, o telling). In queste condizioni, la
posizione dello storico ha qualcosa di analogo a quella di un narratore
omodie getico, poiché fa parte dello stesso mondo dei fatti di cui tratta.
4) Ne consegue che nel racconto storico non è possibile distingue
re l’autore il cui nome figura in copertina, dal narratore che racconta
la storia, mentre questa distinzione si impone per un racconto di fic
tion, anche se non è sempre facile individuarla.4
224
Torniamo brevemente al terzo punto, che Cohn sviluppa più am
piamente nel suo libro. In una fiction in terza persona - è il caso di
gran lunga più frequente nei racconti dell’Antico Testamento -, il nar
ratore ha accesso a una conoscenza che sfugge al comune mortale,
specialmente per tutto ciò che riguarda la vita interiore dei personag
gi e gli avvenimenti nascosti o confidenziali. In questo senso, alcuni
procedimenti formali indicano che abbiamo a che fare con un testo di
fiction. In breve, possiamo dire che la fiction si riconosce per il fatto
che «usa effettivamente del suo potenziale di focalizzazione» (p. 46),
sia per rappresentare la psicologia dei personaggi sia per «descrivere
il mondo che li circonda così come è messo a fuoco dal loro sguardo»
(pp. 71-72).5
Sulla questione di sapere se un romanzo storico va considerato o
meno come un racconto di fiction, assieme ai teorici del genere, Cohn
riconosce che i fatti raccontati perdono la loro realtà; e in ogni caso gli
evidenziatori formali enumerati qui sopra pongono il romanzo storico
dal lato della fiction. Nondimeno, il carattere di questo genere lettera
rio ha qualcosa di particolare; un romanzo di questo tipo, infatti, su
scita nel lettore, secondo l’espressione di J.W. Turner, delle «attese sto
riche». Generalmente, l'autore di un romanzo storico classico si con
forma a queste attese, riconoscendo così la distinzione che la tematica
storica impone al suo compito nei confronti delle altre opere di fiction.6
5 «È m ediante il suo potenziale unico in ciò che rig u ard a la p resentazione dei p e r
sonaggi che la fiction rom pe nella m an iera più sistem atica e radicale con il mondo e ster
no al testo», il m ondo reale, scrive in altro luogo C o h n , Le propre de la fictio n , 3 3 . Più
avanti (p. 4 3 ) , lei cita le parole di K. H a m b u r g e r , Logique des genres littéraires, Seuil, P a
ris 1987, 88: «La fiction è l’unico spazio cognitivo in cui rio-origine (la soggettività) di
im a terza perso n a può essere ra p p re se n tata come tale».
6 C o h n , Le propre de la fictio n , 2 3 6 - 2 3 7 .
225
la storia dei testi stessi per operare poi la distinzione tra ciò che po
trebbe essere storicamente esatto e ciò che deriva da successive ela
borazioni e, dunque, riflette le preoccupazioni storiche o teologiche di
epoche diverse. Il livello referenziale è dunque presente, anche se la
componente strettamente legata ai fatti narrati è verosimilmente mo
desta. Per quanto riguarda invece gli altri tre criteri, il racconto bibli
co pende dal lato della fiction. Ad esempio, il trattamento a volte sofi
sticato della temporalità è molto spesso dettato dalla strategia narrati
va, come fa meravigliosamente vedere Shimon Bar-Efrat nel suo stu
dio della temporalità nel racconto del conflitto tra Davide e Assalon
ne.7 Nessuno potrà dubitare che il narratore del racconto è distinto da
gli autori e redattori reali (e successivi) dei testi. Egli dispone della fa
coltà dell’onniscienza, che usa certamente con economia, ma che gli
permette di variare la focalizzazione del suo racconto e di entrare nel
la psicologia dei personaggi e perfino, nei segreti di Dio. Nell’episodio
sul quale tra breve ci soffermeremo, ad esempio, il narratore ci fa sco
prire quando Betsabea entra nelle mire di Davide (2Sam ll,2-5):8 egli
è testimone delle udienze private di Uria dal re (11,7-13), coglie i bi
sbigli dei cortigiani (12,18) e svela il giudizio di Dio sulle malefatte se
grete di Davide (ll,27b).9
In queste condizioni, difficilmente possiamo sfuggire alla seguente
conclusione: il genere contemporaneo che più si imparenta con la sto
ria biblica di Davide è il romanzo storico. Parlando di questo tipo di
storiografia «fictionalizzata»,10 Tolstoj era convinto - come ci ricorda
Cohn 11 - che essa si avvicinava «alla verità più di qualunque narra
zione storica», nella misura in cui «permette allo scrittore di rendere
gli avvenimenti storici sotto la forma dell’esperienza personale e im
226
mediata di esseri umani individuali», grazie alle molteplici risorse del
la narrazione focalizzata.12 E se, come tutti gli esseri umani, i perso
naggi storici sono opachi agli occhi degli altri e quindi anche a quelli
dello storico, «l’autore di un romanzo storico [...] trae invece vantag
gio da questa opacità; è precisamente in quei “territori oscuri” della
storia che egli può liberamente servirsi della sua immaginazione e la
sciarsi andare “all’introspezione delle sue figure storiche”», scrive an
cora Cohn, citando Brian McHale.13
Ma, come ci ricorda Jean-Pierre Sonnet,14 Meir Sternberg si è vigo
rosamente opposto a una simile classificazione dei racconti biblici. La
sua opinione è categorica: in conclusione afferma che il racconto bibli
co, «non è né fiction storicizzata né storia fìctionalizzata, ma storiogra
fia pura e semplice».15 Secondo lui, nella storiografìa antica si possono
trovare tutti i connotati della fictionalità.16 Per sostenere questa tesi, se
gnala l’assenza di rottura formale tra la parabola fictionale di Natan e
il suo contesto narrativo. Ma in questo esempio, oltre a trascurare alcu
ni tratti distintivi spesso rilevati e sui quali torneremo, pare che dimen
tichi che Natan non può permettersi di insistere sul carattere fittizio del
la sua storia se intende incastrare Davide con il suo stratagemma.
In questa sede non possiamo riprendere l’intera argomentazione di
Sternberg, ma ci accontenteremo dell’essenziale. Secondo lui, affinché
ci sia scrittura della storia {hìstory-jvnting), basta che il discorso pre
tenda di ricordare il passato e questo nella cultura originaria, nel taci
to contratto stabilito tra lo scrittore e i suoi lettori (p. 25). Ma una si
mile rivendicazione è forse così chiara nell’opera dei deuteronomisti?
Certamente, gli autori successivi non avevano intenzione di scrivere un
racconto di fiction. Intendevano quindi fare della storiografia? Il loro
227
scopo era di comporre una relazione di fatti (record offact), secondo
l’espressione di Sternberg? Non era piuttosto, come ha dimostrato l’e
segesi storica, di fare della propaganda politica o ideologica, di tenta
re di comprendere il dramma dell’esilio o ancora di condurre i lettori
a ritornare a Dio, ricorrendo se necessario al «privilegio della libera
invenzione», che, per Sternberg, appartiene alla fiction?17 Quanto al
l’opera deuteronomista nella sua condizione finale, la verità che essa
rivendica18 è di tipo storiografico o teologico? Il ricorso a tecniche cor
renti in quella che noi chiamiamo fiction si spiega meglio se la posta
in gioco è del secondo tipo. Se poi il narratore non nasconde la sua pre
tesa all’onniscienza, questa non verte sul livello fattuale, ma è al ser
vizio di una verità di ordine teologico e antropologico. Del resto, per
giustificare questa onniscienza, Sternberg invocherà un fattore estra
neo ai testi stessi, e cioè l’ispirazione che garantisce l’autorità storio
grafica del racconto (p. 34). Ma l’ispirazione garantisce questo tipo di
autorità o non piuttosto il carattere profetico del discorso?
Secondo Sternberg, che in questo si avvicina a Cohn, la fiction è ca
ratterizzata dall’indipendenza nei confronti della fattualità nella crea
zione del mondo del testo (p. 26). Le storie di Davide - parzialmente
indipendenti dalla fattualità - non corrispondono piuttosto bene a que
sta definizione? È vero che il loro mondo è popolato di figure storiche
- e senz’altro anche di alcuni fatti che lo sono altrettanto - e questo
contribuisce a renderlo verosimile. E, secondo Aristotele, la verosimi
glianza rende il racconto persuasivo, in quanto essa racconta la storia
come se fosse accaduta.19 Ora il deuteronomista si adopera sicura
mente per persuadere i suoi lettori. Ma, secondo noi, il mondo che in
tal modo esso crea deriva la sua verità intrinseca dall’antropologia e
dalla teologia che esso propone più che dai fatti riportati, altrimenti es
228
sa avrebbe oggi smesso di interessare molta gente, a eccezione degli
appassionati di letteratura o di storia antiche. Allora, se la storia di Da
vide non è stata voluta come fiction - che senso avrebbe avuto a quel
l’epoca? -, rimane il fatto che ne ha le caratteristiche, il che non si
gnifica che sia priva di verità. Ma tale verità non ha niente a che ve
dere con la volontà di suscitare e di santificare una credenza letterale
nel passato (/iterai belìef in thè past, p. 32) come vuole Sternberg. In
questo senso, ci sentiamo più vicini a quanto scrive Jean-Louis Ska a
proposito dei racconti patriarcali: «L’intenzione di questi racconti bi
blici non è veramente di "informare” sulla storia, su “quanto è real
mente accaduto”. Vogliono piuttosto formare la coscienza religiosa di
un popolo. [...] Lo stile e il genere letterario dei racconti sono scelti in
funzione di tale scopo».20 Quindi, se il narratore è considerato affida
bile, è perché chiede di essere creduto in modo che la sua storia pos
sa trasformare colui che la legge nella misura in cui accetta di entrare
nel mondo che il racconto gli presenta. Per illustrare questa singolare
verità della fiction, andremo a vedere come essa gioca il suo ruolo nel
la storia di Davide, più precisamente nell'episodio che siamo soliti
chiamare «parabola di Natan».
20 J.-L. Ska, La parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 2000; tr.
fr. Les énigm es du passé. H istoire d 'Israèl e t récit biblique, Lessius, Bruxelles 2001, 44.
229
2.1. Natan racconta un caso reale o fittizio?
In un dibattito risalente già al 1985,21 Bernard C. Lategan e Willem
S. Vorster hanno discusso per capire se Davide ascolta la storia del po
vero e del ricco raccontata da Natan in 2Sam 12,1-4 come l’esposizio
ne di un fatto reale o come un racconto di fiction, un mashal secondo
la qualifica del Talmud di Babilonia {Boba Bathra 15b). Anzitutto, Da
vide non può non notare il carattere di finzione di questa storia, anche
se Natan «parla di questo personaggio di fiction come se fosseun uo
mo in carne ed ossa».22 L’anonimato dei personaggi e del luogo nel ver
setto introduttivo è, secondo Lategan, una chiave che indica all’audi
torio, e dunque a Davide, che sta per ascoltare una storia. Per Vorster,
invece, la reazione appassionata del personaggio regale mostra chia
ramente che egli ha preso il fatto come un caso reale - posizione que
sta condivisa abbastanza ampiamente dalla critica.23 Nei suo libro Da
vid as Reader, Hugh Pyper fa eco a questo dibattito e termina conclu
dendo che il lettore non è in grado di risolverlo.24
Bisogna ammettere che su tale questione c’è ambiguità. Del resto,
la storia del testo porta una traccia della volontà di togliere l’equivoco.
Nella tradizione lucianea della Settanta, seguita da testimoni della Ve-
tus Latina, l’inizio del discorso di Natan si presenta in modo diverso:
invece di cominciare bruscamente il racconto come nel testo masore-
tico, Natan si prende la briga di interpellare Davide come un giudice
cui chiede di pronunciarsi sul caso (krisis) che sta per esporre. Secon
do noi questa correzione deriva da una comprensione corretta del rac
conto. Infatti, inizialmente il narratore lascia il lettore nell’indecisione
sulla posizione di Davide in ascolto della storia di Natan, ma poi scio
glie qualsiasi equivoco quando, senza attendere oltre, riferisce la col
230
lera del re. Infatti, anche se un racconto di fiction può scatenare sen
timenti molto intensi in colui che lo riceve, non sarebbe plausibile che
il Davide dei libri di Samuele si indigni così tanto davanti a un caso del
quale avrebbe colto il carattere di fiction.
Rimane il fatto che l’argomentazione di B. Lategan non può essere
spazzata via con un semplice colpo di mano. La storia di Natan pre
senta chiaramente i tratti di una storia di fiction in quanto niente, fuor
ché la verosimiglianza del fatto che racconta, permette di rifarsi a un
fatto realmente accaduto.25 Oltre al carattere anonimo dei personaggi,
visitatore compreso, sulla stessa linea possiamo poi anche rilevare una
certa esagerazione nei tratti che descrivono i due protagonisti, come
pure la rapida introspezione cui Natan si lascia andare per suggerire,
con una punta di sarcasmo, il motivo nascosto del ricco preoccupato
di «risparmiare» il proprio bestiame, un verbo che suggerisce il movi
mento interiore sottinteso al gesto del ricco: dal suo punto di vista, in
fatti, egli «ha pietà» dei suoi beni che «risparmia» (secondo i due si
gnificati dello stesso verbo). Ciò detto, come spiegare che Davide ab
bia preso la storia come l'esposizione di un fatto reale? Due elementi
possono chiarire la questione: il primo riguarda il modo di raccontare
del profeta, il secondo le condizioni di accoglienza da parte del re.
25 Contro J.P. F o k k e l m a n , N arrative A r t and Poetry in thè Books o f Sam uel. Voi. 1.
King D avid (II Sam. 9-20 & IK in g s 1-2), Van Gorcum, A ssen 1981, 72, il quale sostiene
che la storia di N atan non contiene «alcun tratto linguistico o stilistico che indichi che la
storia è fittizia», e U. S i m o n , «The Poor M an’s Ewe Lamb: An Example of a Juridical P ara
tile», in Biblica 48(1967), 207-242, soprattutto pp. 220-221. Noi procediam o sch ieran
doci con H. G u n k e l , D as M àrchen im A lte n Testam ent, Mohr, Tubingen 1921, 36, che ri
scontra nella storia di N atan il m ateriale di u n racconto (storia) popolare: schem atism o,
anonim ato dei personaggi, co ntrasti eccessivi, esagerazione sentim entale delle descri
zioni. In tal senso anche J. R o s e n b e r g , King and Kin. Politicai A llegory in thè Hebrew Bi-
ble. Indiana University Press, Bloomington 1987, 39.
231
ro, in uno stesso luogo.26 La prossimità geografica contribuisce a met
tere in evidenza il contrasto fra i rispettivi possedimenti: l’uno ha be
stiame minuto e grosso in grande abbondanza e l’altro non ha nulla,
eccetto un’unica pecora. L’evocazione è oggettiva, quasi neutra, anche
se non è indifferente presentare i personaggi e i loro beni in quest’or
dine, e ancor meno contrapporre inizialmente un «gran numero» (di
bestiame) a «nulla», prima di aggiungere che questo nulla non è esat
tamente niente.
Questa tendenza si rafforza chiaramente nel seguito del v. 3, come
hanno notato molti commentatori. Qualificando la pecora come «pic
cina» e precisando che il povero ha dovuto comperarla - contraria
mente al ricco che possiede i suoi beni quasi naturalmente -, Natan
sottolinea già con discrezione un investimento particolare dell’uomo
verso la sua unica bestiola. Il seguito va nella stessa direzione, ma con
un crescendo. Natan si adopera a descrivere con importanti dettagli
come questa agnella sia giunta un po’ per volta a essere trattata come
una figlia. Tra l’uomo e questa pecora che ha fatto vivere si intreccia
un’autentica intimità affinché, con lui e i suoi figli, essa cresca, man
giando il suo cibo, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno.
Tutti questi dettagli hanno l’effetto di caricare di una forte emozione la
descrizione di questo povero che, privo di tutto, sembra voler com
pensare la mancanza di ogni cosa con un sovrappiù di investimento re
lazionale e affettivo che conferisce alla sua agnella un valore inesti
mabile, non rapportabile con il suo valore di mercato.
Una tale strategia narrativa prepara evidentemente l’ascoltatore a
comprendere la fine della storia in un certo modo. Il Natan narratore
mira infatti ad attribuire al gesto del ricco un carattere ignobile e odio
so e per arrivarvi si adopera a suscitare nell’ascoltatore Davide un’im
mensa simpatia per il povero conferendo alla sua descrizione una po
tente carica affettiva. Così, quando il re si sente raccontare che il ric
co prende l’unica pecora del povero per dimostrarsi buon ospite agli
occhi del viaggiatore di passaggio, dà assai minore importanza al fur
to rispetto al fatto che il ricco non ha avuto alcuna pietà (v. 6), che cioè
26 Questa analisi si. ispira a quella di J.P. F okkelm an, King D avid (li Sam. 9-20 & I
Kings 1-2). 72-75.
232
non ha accordato alcun tipo di considerazione all’importanza affettiva
e al valore esistenziale dei quali il povero investiva la sua pecorella.
Questa insensibilità davanti a un uomo che la vita ha reso vulnerabile
è di fatto ben più grave del furtarello commesso. Proprio questa in
sensibilità conferisce al furto quell’aspetto di crudeltà e di disumanità
che Davide denuncia. Il narratore Natan lo ha del resto sottilmente
condotto raccontando il finale. Infatti quando, dopo una descrizione
piena di empatia verso il povero, riprende un tono neutro per relazio
nare sul furto del ricco, da un lato rafforza l’impressione della crude
le insensibilità che si manifesta con questo gesto, dall’altro e soprat
tutto, astenendosi così da ogni critica, crea un vuoto d’aria nel quale
Davide è inghiottito e che lo spinge a provvedere subito a questa in
tollerabile assenza di giudizio.
Con il suo modo di implicare affettivamente l’uditore nella storia
che sta ascoltando, l’abile strategia narrativa di Natan contribuisce
senza alcun dubbio a occultarè agli occhi di Davide il lato fittizio del
suo racconto. A ciò si aggiunge la situazione nella quale Davide si tro
va quando è messo a confronto con questa storia, storia alla quale l’au
torità del profeta della promessa (cf. 2Sam 7) deve pure dare un peso
particolare, oltre a una certa credibilità.27 Ma, come sottolinea Jan
Fokkelman, la reazione irruenta del re («si adirò»), sia pure prepara
ta dallo spettacolare lavoro narrativo di Natan, ha qualcosa di eccessi
vo. L’ira lo fa uscire dal ruolo di giudice per far spazio alla perdita di
controllo, segno che Davide è sempre sotto pressione in seguito all’a
dulterio e all’eliminazione del marito tradito, di cui si è parlato nel pre
cedente capitolo. Esplodendo letteralmente davanti alla storia che Na
tan gli espone, può essere che Davide manifesti non soltanto la sua in
dignazione e la sete di giustizia, ma anche un oscuro desiderio di ri
abilitarsi ai propri occhi come re giusto cercando di equilibrare l’ec
cessiva ingiustizia di ieri con una giustizia altrettanto eccessiva.28 La
strategia narrativa di Natan è riuscita a toccare Davide e a risvegliare
la sua parte migliore, in modo che egli possa, per così dire, ritrovare
se stesso.
27 Cf. lo sviluppo di F o k k e lm a n , King D avid (II Sam. 9-20 & I Kings 1-2), 76.
28 In tal senso F o k k e l m a n , King D avid (II Sam . 9-20 & I Kings 1-2), 76-77.
233
2.3. Quando la fiction fa vedere la verità
Calcando un po’ i tratti, questo testo fa vedere come un racconto di
fiction, pur senza voler veramente dissimulare il suo carattere fittizio,
possa essere accolto come se rinviasse a un fatto reale, purché il nar
ratore si mostri particolarmente abile nel saper attirare il lettore nel
mondo del suo racconto, e purché l’uditore o il lettore, per un motivo
o per l’altro, sia pireparato ad ascoltare la storia in questo modo.
Ma non abbiamo lì il solo rapporto tra la storia di Natan e la realtà
- intradiegetica, naturalmente - del libro di Samuele. C’è anche quan
to il profeta indica chiaramente a Davide lasciando cadere la mannaia,
dopo le sue parole di infuocata condanna: «Sei tu, quell’uomo» (v. 7a].
Queste brevi parole aprono a Davide gli occhi. Anzitutto gli tolgono il
velo circa il carattere fittizio della storia, sulla quale si è appena pro
nunciato. Ma gli mostrano al tempo stesso che questo racconto fittizio
rinvia a una realtà cui il re non pensava, e che essa non ha niente di
fittizio! Lo obbligano quindi a interpretare sia il racconto fittizio sia la
realtà che lo riguarda. Così, alcune parole del racconto svelano il loro
doppio significato, finora inavvertito da Davide: sono le quattro parole
che, al v. 3, puntualizzano la descrizione molto emotiva della relazione
tra il povero e la pecorella («mangiava, beveva e dormiva [...] come una
figlia [òat]»). Esse rinviano alle parole di Uria che ha rifiutato di anda
re a incontrare Bat-sheva secondo l’invito di Davide (11,11), ma anche
alle manovre del re per condurvelo contro il suo volere (11,13). Dopo
questo richiamo, il finale del racconto di Natan non fa che sottolineare
la crudele disumanità di cui Davide si è reso colpevole in seguito alla
resistenza del marito tradito, allo scopo di salvare le apparenze, pro
prio come il ricco. Ma affinché la fiction svolga efficacemente il suo ruo
lo di verità, non è tuttavia necessario che essa ricalchi la realtà che cer
ca di denunciare.29 Basta che miri al cuore. La rilettura del passato re
29 La strategia n arra tiv a di N atan gli im pone di p ren d ersi im a certa libertà con la
realtà colta attraverso la fiction: come sottolinea S t e r n b e r g , The Poetics o f Biblical N ar
rative. Ideological Literature and thè D rama o fR eading, 429, il n a rra to re intradiegeti-
co rim odula i fatti a modo suo così che l’ascoltatore non possa cogliere di colpo (imme
diatam ente) l’analogia con la p ro p ria situazione e quindi resti «oggettivo» nel giudizio
che dà su quanto gli viene raccontato. È in gioco la riuscita della strategia del locutore.
In tal senso anche U . S i m o n , «The Po or M an's Ewe Lanib», 221 e 226.
234
sa inevitabile da quanto la fiction ne ha svelato, farà il resto, come di
mostra il seguito del discorso di Natan (12,7b-12 ־soprattutto w. 9-10).
A questo punto vediamo meglio che la fiction di Natan nascondeva
agli occhi di Davide una realtà che egli non voleva vedere. Una volta tol
ta la maschera, Davide non può più rifiutarsi di guardare questa real
tà in faccia, tanto più che ha appena mostrato le sue qualità di cuore e
il suo desiderio di giustizia. Ma credendo alla realtà del fatto racconta
to nel racconto fittizio del profeta, il re si avviava già verso la propria
verità. Come scrive Fokkelman,30 «mentre Davide immagina che la sto
ria è realmente accaduta, la verità è già all’opera in lui. Dal punto di vi
sta di Natan, la fiction, resa operativa e attraente da mezzi letterari, è
il veicolo ideale della verità [...]».
Quando si tratta di condurre un essere alla sua verità nascosta, la
fiction dà prova di un’efficacia tremenda. Ha infatti il potere di assu
mere il reale senza farsene asservire, in modo da poterlo rimodellare
per strappare il velo delle apparenze, per passare oltre il rifiuto o l’in
capacità di guardare le cose in faccia, e far venire alla luce la verità na
scosta. Tanto più che quanto vale per Davide all'interno del racconto
potrebbe valere ugualmente per il lettore della sua storia. Certo, il nar
ratore della storia di Davide si adopera per mettere il suo lettore in una
posizione superiore rispetto a quella del re. Dandogli accesso al giudi
zio di Dio (ll,27b) e al motivo della venuta di Natan (12,la), lo dota di
un sapere nettamente superiore che gli permette di godere dell’ironia
della situazione. Il lettore è così in grado di comprendere che la storia
di Natan ricama sugli eventi riportati nel capitolo precedente, ed è
dunque in grado di cogliere immediatamente che Davide, al v. 5, pro
nuncia la sua propria condanna. Ma non goda troppo in fretta nel ve
dere che il re è preso in trappola. Infatti quando Natan apre gli occhi
del re dicendo «Tu sei quell’uomo!», in modo inatteso il lettore può
sentirsi indicato da quel «tu»; può trovarsi così implicato nella faccen
30 F o k k e l m a n , King D avid (IISam . 9-20 & I Kings 1-2), 81. Rinvia alla versione ingle
se dell'articolo di P. R ic c eu r , «H erm éneutique de l’idée de révélation». Cf. P. R ic c eu r et al,
La révélation, Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1977, 15-54: «Il paradosso
più estrem o è questo: quando il linguaggio si spinge il più lontano possibile nella fiction
[...] arriva a dire le cose più vere, perché ridescrive la realtà troppo conosciuta, sotto i tra t
ti nuovi della favola. Fiction e ridescrizione, in questo, vanno di p ari passo» (p. 40).
235
da come un «uomo» tormentato dalla concupiscenza al pari di Davide
e, come quest’ultimo, raramente esente da dissimulazione, ingiustizia
e insensibilità verso gli altri.31 Tocca allora a lui rileggere la storia del
c. 11 per vedere se in qualche modo non si applichi a lui. Forse si po
trebbe arrivare a dire questo: il narratore conferisce al lettore nei con
fronti di Davide una posizione superiore della stessa natura di quella
di cui quest’ultimo gode nei confronti dei personaggi nel racconto; lo
fa per meglio attirare il lettore in una trappola, conducendolo cioè a
incriminare Davide prima di trovarsi lui stesso accanto al re sul ban
co degli accusati.32
3. Conclusione
In questo caso avremo notato che lasciando le regole della storio
grafia e adottando le tecniche della fiction il narratore della storia di
Davide può preparare il suo lettore a un interrogativo esistenziale si
mile alla questione con la quale Davide si deve scontrare. Così, a due
livelli, il testo illustra il potere di verità della fiction. Non una verità che
corrisponde a quella dei fatti, ma la verità che è quella di chi accoglie
la storia e si apre a essa. Come afferma J. Fokkelman a proposito del
la parabola di Natan, «anche se la realtà contenuta nella storia rac
contata può essere nulla, la verità che contiene è massima. La para
bola non mostra la realtà di Davide, ma mostra tuttavia la verità della
sua realtà».33 In questo senso, quanto secondo noi corrisponde all’in
tenzione profonda di questi racconti è analogo allo scopo del profeta
Natan quando propone al re la sua storia. Così, come Natan non an
nuncia il genere letterario né !,intenzione della storia che racconta, la
sciando che Davide creda alla sua «realtà», allo stesso modo, il narra
tore della storia detta deuteronomista inizia la sua storia lasciando il
suo lettore senza «contratto di lettura» esplicito che lo avverta dello
236
scopo non primariamente storiografico del suo racconto (invece, clas
sificando questi racconti nella categoria dei «profeti» o dei «libri stori
ci», i canoni ebraico e greco inducono a un certo tipo di lettura di que
sti libri). Infatti, secondo noi, l’intenzione è meno di raccontare la sto
ria, come sostiene Sternberg, che di proporre al lettore, mediante una
storia, un percorso di verità in vista della trasformazione del suo es
sere grazie al potere che la fiction possiede di far emergere ciò che ri
marrebbe molto spesso interrato nell’opacità caratteristica di ogni
realtà umana. Tutto ciò, purché il lettore consenta a esporsi alla veri
tà del racconto, adottando un atteggiamento che potrebbe sottilmente
proteggerlo dal leggere questo racconto come una storiografia che fon
da, tra le altre cose, il monoteismo, il senso dell'identità nazionale o il
diritto alla Terra.34
237
Capitolo decimo
IL SERPENTE DI NM 21,4-9
E DI GEN 3,1.
INTERTESTUALITÀ
ED ELABORAZIONE
DEL SIGNIFICATO
André Wénin
«Ogni testo richiama alla memoria del lettore, della lettrice, altri
testi». Questa frase enuncia l'essenza dell’intertestualità, «un proce
dimento che spezza la linearità della lettura sollecitando, nei lettori,
la memoria di altri testi letti o ascoltati precedentemente».1 Se l’ese
gesi storica affronta questo fenomeno dal lato del problema delle fon
ti o delle influenze redazionali reperibili in un testo - dunque di un
processo da situare dalla parte dello scrittore -, i metodi letterari
orientano l’attenzione dalla parte del lettore e degli effetti di signifi
cato prodotti in lui dal reperimento di similitudini, di echi, di riferi
menti indiretti. Dalla citazione identificata come tale alla semplice re
* Prim a pubblicazione in: T. R ó m e r (ed.), The Books o fL evìticu s and Num bers, Pee-
ters, Leuven-Paris-Dudley 2008, 545-554.
239
miniscenza, dalla ripresa di una struttura all’analogia della trama, in
fatti, una vasta tavolozza di molteplici fenomeni lega i testi tra di lo
ro, sollecitando la memoria del lettore e mettendo alla prova la sua
sagacia, esigendo, in ogni caso, la sua partecipazione attiva nella co
struzione del significato - cosa che diventa costringente nel caso di
una «intertestualità obbligatoria», secondo il termine di Michel Riffa-
terre, cioè «quando il significato dipende dall’intertesto».2 Essendo la
Bibbia, secondo Paul Ricoeur, «il più grande intertesto vivo»,3 i giochi
di echi tra i testi vi abitano in numero così grande e vario da richie
dere grande attenzione del lettore preoccupato di entrare nella so
stanza di ciò che legge.
Il caso si presenta in particolare quando un piccolo racconto indi-
pendente, corrispondente a una «pericope», appartiene a una narra
zione più lunga, come il lungo racconto che va dalla Genesi fino alla
fine del Secondo libro dei Re. Nello studio narrativo di questo breve
racconto, tale contesto «vasto» può fornire alcuni elementi che apro
no a un sovrappiù di significato mediante il legame con altri episòdi
che invita a prendere in considerazione. Lo mostreremo prendendo
spunto dal breve racconto detto «del serpente di bronzo» in Nm 21,4-
9. Esamineremo inizialmente il racconto in se stesso per evidenziare
alcuni tratti di costruzione del senso a partire da uno sguardo sulla
struttura narrativa e sulle ripetizioni. Mostreremo in seguito come un
accostamento tra questo racconto e la figura del serpente di Gen 3
permetta di scoprirvi altre armonie aprendo a un’altra dimensione del
suo significato.
240
luogo dove si trovava (v. 4: «Si mossero dal monte Or»); alla fine è ri
preso lo stesso verbo per segnalare un nuovo spostamento verso Obot,
dove il popolo stabilisce il suo campo: «Gli Israeliti si mossero e si ac
camparono a Obot» (v. 10). L’incidente raccontato avviene precisa-
mente tra queste due tappe, «lungo il cammino». Ecco una traduzione
precisa del racconto.
4Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar dei Giunchi, per
aggirare il territorio di Edom e il popolo perse animo/pazienza durante
il viaggio. 5Il popolo parlò contro Elohim e contro Mosè: «Perché ci ave
te fatto salire dalVEgitto per morire in questo deserto? Perché qui non
c'è né pane né acqua e la nostra gola è nauseata da questo cibo di mi
seria». 6E Adonai mandò fra il popolo serpenti brucianti e morsero il po
polo, e morì un popolo numeroso da Israele. 7Il popolo venne da Mosè
e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore
(Adonai) e contro di te; prega Adonai che allontani da noi il serpente».
Mosè pregò per il popolo. 8Il Signore (Adonai) disse a Mosè: «Fatti un
bruciante e mettilo sopra un’asta; ogni morso che lo vedrà vivrà». 9E
Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta: se il serpente
mordeva un uomo, (questi) guardava il serpente di bronzo, e viveva.
10Gli Israeliti si mossero e si accamparono a Obot.
241
sua «vita», la sua «anima». Secondo alcuni si tratta di impazienza,5 se
condo altri di scoraggiamento, frutto di un desiderio frustrato;6 per al
tri ancora di un’incapacità a contenere la propria ira o la propria rab
bia.7 A questo punto del racconto è difficile decidere.
La complicazione ha inizio al versetto 5: il popolo esprime il suo
sentimento sotto forma di una critica, rivolta a Elohim e a Mosè in uno
stesso movimento (usando il «voi»).8 Il rimprovero mette in causa l’a
zione congiunta di questi due attori in rapporto al popolo. Il contenu
to non è nuovo: secondo i contestatori, la liberazione dall’Egitto volu
ta da Adonai e da Mosè non ha come scopo la vita, ma la morte del po
polo. Il popolo ne vede un segno nell’assenza di pane e di acqua, cioè
di un nutrimento di base indispensabile alla vita. Però, contrariamen
te ad altre scene analoghe, in cui il narratore registra una mancanza
e fornisce così una base «oggettiva» alla critica del popolo (per esem
pio Es 15,23; 17,1; Nm 20,2), qui nulla indica che la penuria di cui gli
israeliti si lamentano sia giustificata da una reale mancanza. Infatti il
narratore ha precisato fin dall’inizio, al v. 4b, che qui è in causa so
prattutto lo stato d’animo del popolo.
A questo proposito, la parte finale delle parole del popolo è rivela
trice. Lì infatti il popolo corregge la sua critica: ammette che c’è pane
da mangiare, ma lo qualifica negativamente. Il termine qui usato,
qHoqel, non è impiegato in nessun’altra parte nella Bibbia ebraica, e
il suo significato non è chiaro, anche se la maggioranza degli autori
pensa che questo termine vada compreso a partire dal verbo qalal,
«essere leggero». Tuttavia anche questa ipotesi non permette di preci
sare l’esatta portata della sua qualifica negativa: è un pane di miseria,
un nutrimento ricevuto con parsimonia, o ancora troppo leggero per
5 T.R. A s h le y , The Book ofN um bers, E erdm ans, G rand Rapids 1993, 401, o B.A. L e
N um bers 21-36. A N ew Translation w ith Introduction and Commentari/, Double-
v in e ,
day, New York 2000, 86; essi rinviano p er esem pio a Es 6,9; Gdc 10,16; 16,16; Zc 11,8;
Gb 21,4.
6 In questo senso, S c h a r b e r t , N umeri, 84, o J. d e V a u lx , Les Nombres, Gabalda, Pa
ris 1972, 234.
7 Così G ra y , N um bers, 277, che propone di tra d u rre non «in via», m a «a causa del
la via».
8 L’espressione «parlare contro» (dibbér be-) è caratteristica delle ribellioni del po
polo (Nm 12,1.8; 16,13-14).
242
bastare a saziare il popolo?9 Diffìcile determinare la sfumatura esatta.
Comunque, il senso generale è abbastanza chiaro per far capire che ciò
che scatena la critica del popolo non è tanto un problema obiettivo
quanto il suo stato d’animo in rapporto a ciò che sta vivendo.10 Del re
sto questa cosa è sottolineata da un gioco dì parole tra l’espressione
descrittiva del narratore «e fu corta la nefesh del popolo» (v. 4b) e il
modo in cui il popolo qualifica il suo stato d’animo: «la nostra nefesh
è nauseata» (v. 5b): la sua gola (o anche il suo appetito) ha la nausea.
Ecco allora che cosa «rende corto» il suo «desiderio», che cosa gli fa
perdere coraggio o pazienza.
La reazione divina raccontata al v. 6 costituisce il secondo momen
to della complicazione. Alla critica formulata contro Elohim (v. 5a), ri
sponde Adonai. Il cambiamento del nome divino è già significativo; po
trebbe già suggerire che, criticandolo, il popolo tratta il Dio con il qua
le si è alleato come una divinità anonima Celohim), dalle intenzioni po
tenzialmente malevole. Ma è proprio «il suo» Dio, Adonai, che reagi
sce, e lo fa mandando fra il popolo serpenti il cui morso bruciante ope
ra devastazioni e semina morte. In realtà, il verbo è più preciso. La co
niugazione particolare usata in ebraico per il verbo shalah (il piel) può
far capire che Adonai «lascia andare» i serpenti, a loro «lascia libero
corso». Vorrebbe dire che fino a quel momento Adonai tratteneva i ser
penti e adesso li libera contro il popolo ribelle.
Terzo momento della complicazione: il nuovo intervento del popo
lo che si rivolge a Mosè in termini ben diversi dai precedenti (v. 7a).
Alludendo alle sue parole precedenti, il popolo confessa che la sua cri
tica costituisce un peccato contro Dio - chiamato questa volta Adonai
- e contro la sua guida. Con questo nuovo atteggiamento riconosce con
244
Ordine del Signore (Adonai) Esecuzione (v. 9)
(v. 8)
«Fatti un bruciante Mosè fece un serpente di bronzo
e mettilo sopra un’asta, e lo mise sopra l’asta
e sarà morso e lo vedrà e se- il serpente mordeva un uomo,
vivrà [wahay)». guardava il serpente di bronzo
e viveva (wahay).
13 La variazione fra i term ini che indicano il serpente ai w . 8-9 è diffìcile da spie
gare. M entre sono «i serpen ti brucianti» (h anneha$him hasserafìm) che uccidono il po
polo (v. 6), A donai chiede di fabbricare un «bruciante» (saraf, v. 8), e Mosè fa un «ser
pente di bronzo» (nehash nehoshèt, v. 9). Il term ine usato da A donai significherebbe in
particolare ciò che, nei serpenti, fa m orire, cioè il m orso b ruciante? Da p arte su a Mosè
deve p u r dare u na realtà concreta a questo, e lo fa realizzando un serpente di bronzo.
245
1.2. Struttura logica del racconto
Possiamo opportunamente completare questa prima lettura della
narrazione con un rapido sguardo alla struttura logica del racconto. A
partire dal v. 7 abbiamo un netto capovolgimento. Diversi richiami ver
bali sottolineano un’opposizione tra due parti parallele. La prima par
te del racconto (w. 5-6) comprende tre tappe: (a) il popolo parla con
tro Dio e Mosè; (b) Adonai reagisce liberando i serpenti e (c) questi col
piscono a morte Israele. Nella seconda parte le cose si capovolgono:
(a’) il popolo pronuncia una nuova parola per riconoscere che il suo
primo intervento era peccaminoso; (b’) in seguito all’intervento di Mo
sè, Adonai dice cosa conviene fare per vivere; (c’) dopo che Mosè ha
eseguito quanto Dio gli ha chiesto, il morso del serpente non è più mor
tale. La tavola che segue evidenzia le corrispondenze.
5Il popolo parlò contro Elohim e 7Il popolo venne da Mosè e disse:
contro M osè: «Abbiamo peccato perché abbiamo
«Perché ci avete fatto salire dall’Egit parlato contro Adonai e contro di
to per morire nel deserto? [...!». te [...] prega Adonai che allontani da
noi il serpente».
246
poi Adonai. Insomma, egli è messo fuori gioco dagli israeliti, ma, ap
pena essi accettano di restituirgli il suo posto, torna ad avere un ruo
lo capitale nel processo che permette ai peccatori di vivere.
Dalla lettura della tabella si evidenzia un secondo elemento impor
tante. Confrontando le due parti, ci accorgiamo che sono operanti due
logiche opposte: quando il popolo rimprovera a Dio la sua intenzione
occulta di farlo morire (v. 5: verbo mut), è abbandonato alla morte da
colui che esso accusa di volere la sua morte (v. 6b: stesso verbo). Quan
do invece afferma la propria convinzione che Adonai è in grado di al
lontanare ciò che provoca la morte e fa quanto quest’ultimo dice per
ché viva (v. 8: wahay, vivrà), effettivamente vive (v. 9b: la stessa forma
wahay deve essere tradotta qui «viveva» in funzione della posizione
sintattica del verbo. I fatti accadono come se Adonai si conformasse al-
rimmagine che Israele si fa di lui.
247
(w. 2 b 3 )־. Adonai 11 prenderà in parola e li condannerà a morire nel
deserto come pare che desiderino (w. 27-29). Dio stesso lo esplicita:
«Così come avete parlato alle mie orecchie, io farò a voi! I vostri ca
daveri cadranno in questo deserto, voi tutti [...] quanti avete mormo
rato contro di me» (w. 28-29). Questo rapporto tra colpa e castigo, ap
pena illustrato per due volte, non pare verificarsi in Nm 21,4-9. Nasce
la domanda: esiste un nesso - e se sì, quale? - tra la critica del popo
lo e il fatto che Adonai mandi i serpenti che seminano la morte?
Un altro dubbio si inserisce tra l’intervento dei serpenti e la con
fessione del suo peccato da parte del popolo. Infatti, il narratore non
dice nulla sul modo in cui il popolo prende coscienza d’aver peccato né
spiega in alcun luogo il suo rapido voltafaccia. Gli israeliti hanno ap
pena rimproverato a Dio la sua volontà di morte (v. 5), quando pare
che credano che solo lui è in grado di allontanare i serpenti che pro
vocano la morte (v. 7). Sarebbero dunque i serpenti a provocare la lo
ro conversione?
Infine, la finale del racconto è quanto più succinta possibile: «Se
questi guardava il serpente di bronzo, viveva». C’è un intrinseco rap
porto tra il fatto di guardare il serpente innalzato da Mosè e il fatto di
vivere, o si tratta soltanto di un processo miracoloso, forse magico,
provocato dal bronzo di Mosè - interpretazione esplicitamente pro
spettata, ma sconfessata dall’autore della Sapienza di Salomone nel
suo breve commento a questo racconto: «Chi si volgeva a guardarlo era
salvato non per mezzo dell’oggettò che vedeva, ma da te, Salvatore di
tutti» (Sap 16,7)?u
Invano cercheremo la risposta a questi interrogativi nel racconto di
Nm 21. Il narratore non stabilisce alcun rapporto esplicito tra la criti
ca del popolo e l'invio dei serpenti. L’arrivo dei rettili e la morte che
essi infliggono al popolo sono semplicemente seguiti dalla confessione
del peccato: il popolo sembra considerarlo un castigo divino, è dopo
confessa il suo peccato; il nesso non è stabilito esplicitamente. Infine,
248
la sola vista del serpente permette di vivere a chi è stato morso, senza
che il racconto fornisca spiegazioni sul processo di guarigione.
249
me parole del popolo si fa strada un altro accostamento con il serpen
te della Genesi. Cosa fa quest’ultimo quando inizia a parlare in Gen
3,1? Evoca il nutrimento dato da Dio: «Veramente Dio ha detto: “Non
mangerete di tutti gli alberi del giardino?” [...]». In questa sede è im
possibile analizzare dettagliatamente questa parola divina.17 Conside
reremo dunque solo questo: a proposito di nutrimento - di quanto per
mette di vivere -, il serpente getta il sospetto su Dio. Mentre egli ha da
to all’uomo tutti gli alberi del giardino eccetto uno, il serpente omette
di ricordare questo dono e attira l’attenzione su ciò che Dio non ha do
nato. Ma formula la frase in modo tale che è possibile intendere che
Dio ha proibito di mangiare di ogni albero: del resto la donna capirà
proprio in questo modo, poiché essa rettifica rispondendo al serpente
che, al contrario, essi mangiano degli alberi del giardino (Gen 3,2b).
Se è così, sulle labbra del serpente Dio appare come un essere male
volo che impedisce di mangiare e dunque di vivere.
Forse, a una prima lettura, il rapporto con Nm 21,5 non appare af
fatto. Eppure più di un punto in comune avvicina la parola del serpen
te dell’Eden con la critica del popolo all’inizio del nostro racconto. In
fatti, il popolo occulta il dono del cibo che Dio gli ha dato e arriva a di
re che, nel deserto in cui si trova, «non c’è né pane né acqua» (mentre
poco dopo, implicitamente confessa che ciò è falso). Su questa base, so
spetta che Dio, pur facendo credere di desiderare che viva, poiché l’ha
fatto uscire dal Paese della sua schiavitù, lo voglia invece far morire:
«Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto?». La lo
gica degli israeliti è esattamente la stessa del serpente dell’Eden: dis
conoscono il dono di Dio e lo sospettano di volerli privare della vita.
In queste condizioni, quando, nel deserto, Adonai «libera» i ser
penti al morso fatale, altro non fa che abbandonare il popolo a ciò di
cui ha adottato la logica mortifera. Tale logica è del resto rivelata fin
da Gen 3. Infatti, anche se in seguito alla colpa l’uomo e la donna non
muoiono fisicamente, la loro esclusione dal giardino e il loro allonta
namento dall’albero della vita rappresentano per essi una forma di
morte. Insomma, inviando i serpenti, Adonai prende per così dire il po
250
polo in parola, in modo che, secondo la bella formula del libro della
Sapienza (Sap 11,16), è proprio punito «con le cose con cui ha pecca
to», come viene anche illustrato nelle pagine del libro dei Numeri evo
cate qui sopra.
Comprendiamo allora come il popolo, appena colpito, scopra il suo
peccato e lo confessi. I serpenti, oltre a essere il suo castigo, gli rivela
no cos’è che lo fa morire, gli aprono gli occhi sul potere distruttivo del
la sua colpa. E se aderire alla logica del serpente conduce alla morte,
non c’è altra possibilità di vita al di fuori del ritorno a coloro che han
no dimostrato il desiderio che Israele viva: Mosè e Adonai, che lo han
no liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Su questo punto, la domanda di
Israele è precisa: «Che Adonai allontani da noi il serpente (han-
nahash)». Udita in questo modo, la richiesta è proprio giustissima: ciò
che va allontanato dal popolo non sono tanto i serpenti quanto il ser
pente, cioè quello che lo spinge interiormente al male.18 Ne deriva che
la reazione di Adonai è assolutamente in sintonia con la domanda del
popolo. Infatti, come via di salvezza egli non indicherà altro che il mo
do in cui il popolo può allontanare il serpente, cioè quanto, dal suo in
terno, lo conduce alla ribellione e alla morte.
Ma come può il fatto di alzare su un’asta un «serpente serpeggian
te» permettere di neutralizzare questo serpente interiore? Per com
prenderlo, è necessario precisare cosa rappresenta questo serpente di
bronzo, affinché chi lo vede possa avere la vita. In realtà, come sug
gerisce l'espressione usata, il nehash [han]nehoshet è una duplice figu
ra.19 Da una parte, rappresenta ciò che provoca la morte del popolo,
cioè il serpente della bramosia insoddisfatta (volere più e meglio della
manna) e del sospetto che porta ad accusare Dio di volere la morte.
D’altra parte, è ugualmente il segno della volontà di vita di Adonai che
chiede a Mosè di innalzarlo per rispondere alla domanda di salvezza
del popolo. Allora, guardare il serpente di bronzo è, per ogni individuo
che è morso, accettare di vedere in faccia ciò che, nell’intimo, lo con
duce alla morte: la logica mortifera del serpente. Ma è anche rinun
ciare chiaramente a questo atteggiamento riconoscendo che, attraver
251
so Mosè, Dio vuole la vita, non la morte, dei suoi. Questo sguardo di
venta dunque consapevolezza della colpa e della sua causa e fiducia in
Mosè, la cui presenza e la cui opera testimoniano la costante volontà
di vita di Dio.
Vedere che ciò che fa morire è la bramosia che spinge a disprez
zare il dono ricevuto e la sfiducia che porta a sospettare che Dio voglia
la morte; lasciare questo atteggiamento alle spalle per credere che Dio
può dare la vita, e che lo vuole, anche quando l’uomo precipita se stes
so verso la morte: ecco il movimento interiore che fa vivere, in quan
to è liberazione dal serpente. A donare la vita non è allora il serpente
di bronzo e neppure Adonai. È la ritrovata fiducia nella sua parola e
nel suo portavoce - lettura ben attestata dagli scritti posteriori, parti
colarmente dal midrash del quarto Vangelo che traspone Nm 21,4-9
sulla figura di Gesù: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così
bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede
abbia in lui la vita eterna» (Gv 3,14-15).20 Ecco come Adonai allonta
na il serpente facendo sì che ogni membro del popolo apprenda egli
stesso a privare il serpente del suo potere mortifero.
Alla luce di questa lettura, è ancora possibile apportare una preci
sazione su una sottile variante che concerne il nome divino. Il popolo
parla contro Dio (v. 5), ed è Adonai a rispondere inviando i serpenti (v.
6) e la parola a Mosè (v. 8). Chi ha letto Gen 3,1-5 ricorderà che, sug
gerendo che Dio non vuole la vita, il serpente parla di «Elohim», men
tre, altrove nel racconto, il narratore usa sempre il doppio nome Ado
nai Elohim. Ora, in Nm 21, il popolo, nel momento in cui sposa la lo
gica del serpente, parla contro Elohim, il Dio anonimo che lo priva del
la vita. Invece, è Adonai che reagisce, il Dio che, dal mezzo del roveto,
ha dato il nome a Mosè legandolo alla sua volontà di vita e di libertà
per Israele (cf. Es 3,14-15). In questo senso, possiamo forse vedere nel
l’invio dei serpenti un primo gesto di salvezza di Adonai, che consiste
20 Cf. in questo senso Sap 16,7.12; Gv 3,14; m a anche p er esem pio il Targum Pseu-
do-Jonathan di Nm 21,7 (guardare il serpente significa «dirigere il proprio cuore verso
il Nome della parola di YHWH»), il Talm ud Babilonese, T rattato Rosh H ashana, 29a (non
è il serpente che fa vivere, m a il «volgere lo sguardo verso il cielo e servire con tutto il
cuore il Padre celeste»). Cf. altre testim onianze in D e V a u lx , Les Nombres, 237-238 e S e e -
b a s s , N um eri, 326.
252
neirindicare al popolo peccatore la sua colpa per mezzo di un castigo
che gliene svela al tempo stesso la causa e la conseguenza?
Avremo già capito che leggere il racconto a questo livello di signifi
cato è possibile solo sullo sfondo della figura mitica dell’inizio della Ge
nesi, segno che un rapporto intertestuale fondato nel quadro del ca
none biblico può offrire a un testo un significato nuovo e al tempo stes
so più profondo.
BIBLIOGRAFIA
Narratologia
A dam J.-M., Le récìt, PUF, Paris 31991.
-,L a description, PUF, Paris 1993.
-, «Décrire des actions: raconter ou relater?», in Lìttérature 95(1994),
3-22.
- Le texte narratif: traité d ’analyse textuelle des récits, Nathan, Pa
ris 1994 (nuova edizione rivista e ampliata).
-, Les textes, types et prototypes, Armand Colin, Paris 22008.
A dam J.-M. - R evaz E., L'analyse des récits, Seuil, Paris 1996, 63-77.
A risto tele , Dell’arte poetica, a cura di C. G allavotti , Mondadori, Fon
dazione Lorenzo Valla 21974.
B a l M., Narratologie: essaìs sur la signification narrative dans quatre
romans modernes, Klincksieck, Paris 1977.
-, Narratology: Introduction to thè Theory of Narrative, University of
Toronto Press, Toronto 1985.
B onom i A., L o spirito della narrazione, Bompiani, Milano 1994.
B onzon R., «Paul Ricoeur, Temps et récìt une intrigue philosophique»,
in Revue de Théologie et de Philosophie 119(1987), 341-367.
B ooth W.C., La retorica della narrativa, La Nuova Italia, Scandicci 1996.
B ourneuf R. - Q uellet R., Vuniverso del romanzo, Einaudi, Torino
1976, 2000.
B rémond C., Logique du récìt, Paris, Seuil, 1973; tr. it. La logica del rac
conto, Bompiani, Milano 1977.
-, Il divenire dei temi: al di qua e al di là di un racconto, La Nuova Ita
lia, Scandicci 1997.
255
B res J., La narrativité, Duculot, Louvain-la-Neuve 1994.
BUhler P., «L’interprete interprété», in R B uhler - C. K arakash (edd.),
Quand interpréter c’est changer, Labor et Fides, Genève 1995,
237-262.
C hatman S., Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel
film, Pratiche, Milano 21998.
D àllenbach L., Il racconto speculare: saggio sulla «mise en abyme»,
Pratiche, Parma 1994.
Eco U., I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
-, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University; Norton
Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano 1994.
-, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi,
Bompiani, Milano 1979; 2011.
G en ette G ., Figure III, Seuil, Paris 1972; tr. it Figure, 3: Discorso del
racconto, Einaudi, Torino 1976.
-, Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987.
-, Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino 1989.
-, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997.
I ser W., L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Mu
lino, Bologna 1996.
K ermode F., The Art of Tellìng: Essays on Fiction, Harvard University
Press, Cambridge MA 1983.
L arivaille P., «L’analyse (morpho)logique du récit», in Poétique
19(1974), 368-388.
L odge D., L’arte della narrativa, con una nota di H. G ro sser , Bompia
ni, Milano 1995.
L ubbock R, Il mestiere della narrativa, Sansoni, Firenze 1984; Milano
2000 .
M aingeneau D., Les termes clés de l’analyse du discours, Seuil, Paris
1996.
M archese A., L’officina del racconto. Semiotica della narrativa, Mon
dadori, Milano 1987.
M ariani E., La struttura narrativa: come funziona la macchina del rac
conto: con appendice bibliografica sugli studi di semiotica narrati
va aggiornata al 1985, Longo, Ravenna 1985.
M eneghelli D. (ed.), Teorie del punto di vista, La Nuova Italia, Scandicci
1998.
P iegay-G ros N., Introduction à l’intertextualité, Dunod, Paris 1996.
256
P rince G., Narratologia: la forma e il funzionamento della narrativa,
Pratiche, Parma 1984.
-, «Narratologie classique et narratologie post-classique», in Vox Poe
tica 2006 (http://www.v0x-p0 etica.0rg/t/articles/prince.html).
P ropp V., Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1988.
R eutler Y . , Introduction à Vanalyse du roman, Bordas, Paris 1991.
R icceu r P., D u texte à Vaction. Essais d ’herméneutique 2, Seuil, Paris
1986; tr. it. Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book,
Milano 1989, 1994.
-, Il conflitto delle interpretazioni. Trattato di ermeneutica, Jaca Book,
Milano 1986.
-, Tempo e racconto, 1, Jaca Book, Milano 1986.
-, Tempo e racconto, II: La configurazione nel racconto di finzione, Ja
ca Book, Milano 1987.
-, «Eloge de la lecture et de l’écriture», in Études théologiques et reli-
gieuses 64(1989), 395-405.
-, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.
R iffaterre M., «La trace de l’intertexte», in Za pensée (1980), 4-18.
S choles R. - K ellogg R., La natura della narrativa, il Mulino, Bologna
1986.
S ternberg M., Expositional Modes and Temporal Ordening in Fiction,
Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1978.
-, «Telling in Time (I): Chronology and Narrative Theory», in Poetìcs
Today 11(1990), 901-948; «Telling in Time (II): Chronology, Teleo-
logy, Narrativity», in Poetics Today 13(1992), 463-541; «How Nar-
rativity Makes a Difference», in Narrative 9/2(2001), 115-122.
T omassini G.B., Il racconto nel racconto: analisi teorica dei procedi
menti d ’inserzione narrativa, Bulzoni, Roma 1990.
T urchetta G.../Z punto di vista, Laterza, Roma-Bari 1999.
U spensky B., A Poetics of Composition: thè structure ofthe artistic text
and typology of a compositional form, University of California
Press, Berkeley 1973.
V itoux P., «Le jeu de la focalisation», in Poétique 51(1982), 359-368.
V ittorini R , Fabula e intreccio, La Nuova Italia, Firenze 1998.
V olpe S., L’occhio del narratore: problemi del punto di vista, Quaderni
del Circolo semiologico siciliano 20, Palermo 1984.
257
Narratologia biblica
A letti J.-N., L'arte di raccontare Gesù Cristo: la scrittura narrativa del
vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991.
-, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del
libro degli A tti degli Apostoli, Dehoniane, Roma 1996; nuova edi
zione riveduta e aumentata EDB, Bologna 2009.
-, Le Christ raconté. Les Evangiles comme littérature?, in F. M ies (ed.),
Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, Lessius, Na-
mur 1999, 29-53.
A lter R., The A rt of Biblical Narrative, Alien and Unwin, London 1981;
tr. fr. L’art du récit biblique, Le Livre et le Rouleau 4, Lessius, Bru
xelles 1999; tr. it. di E. G atti , L’arte della narrativa bìblica, Queri
niana, Brescia 1990.
A nderson J.C. - M oore S.D. (edd.), Mark and Method: New Approaches
in Biblical Studies, Fortress Press, Minneapolis 1992.
B arbi A. - R omanello S. (edd.), La narrazione nella e della Bibbia, Mes
saggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2012.
B ar - E frat S., Narrative A rt in thè Bible, Almond Press, Decatur GA
1989, 47-92.
B aroni R ., «Histoires vécues, fìctions, récits factuels», in Poétique
151(2007), 259-277.
-, La tension narrative. Suspense, curìosité et surprise, Seuil, Paris
2007.
-, L’oeuvre du temps. Poétique de la discordance narrative, Seuil, Pa
ris 2009.
B arthes R., «Lanalyse structurale du recit: a propos d’Actes X-XI», in
Recherches de Science religieuse 58(1970), 17-37.
B ourquin Y., Une image de Marc: approche narrative du deuxième
évangile, Mémoire de spécialisation en NT, Lausanne 1994.
-, «Vite!·, le cadre temporei de 1Jévangile de Marc», in Cahiers prote-
stants (1995), 41-46.
-,L a confession du centurion. Le Fils de Dieu en croix selon l’évangi-
le de Marc, Editions du Moulin, Poliez-le-Grand 1996.
B rossier E ., Dire la Bible. Récits bibliques et communication de la foì,
Centurion, Paris 1986.
BO hler P. - H aberm acher J.-F. (edd.), La narration: quand le récit de-
vient communication, Labor et Fides, Genève 1988.
258
C u l pepper R.A., Anatomy of thè Fourth Gospel: a Study in Literary De
sign, Fortress F|ress, Philadelphia 1983.
D e lo rm e J . , A u risque de la parole: lire les évangiles, Seuil, Paris 1991.
E dwards R.A., M atthew’s Story of Jesus, Fortress Press, Philadelphia
1985.
F okkelman J.P., Come leggere un racconto biblico. Guida pratica alla
narrativa biblica, EDB, Bologna 2003.
P unk R.W., The Poetics ofBiblical Narrative, Polebridge Press, Sono-
ma 1988.
G iroud J.-C., «Lire les Ecritures», in Sémiotique et Bible 87(1997), 48-60.
Kurz W.S., «Narrative Models for Imitation in Luke-Acts», in Greeks,
Romans, and Christians. Essays in honor ofA.J. Malherbe, Fortress
Press, Minneapolis 1990, 171-189.
-, Reading Luke-Acts: Dynamics of Biblical Literature, Westmin-
ster/John Knox Press, Louisville 1993.
L'évangile de Jean: une lecture narratologique, Animation biblique oe-
cuménique romande, Evangile et Culture/CCRT, Lausanne 1994.
L icht J., La narrazione nella Bibbia, Paideia, Brescia 1992.
L ongman T., Literary Approaches to BiblicalInterpretation, Zondervan,
Grand Rapids 1987.
M arguerat D., «Strukturale Textlektiiren des Evangeliums», in S chel -
bert G. - M arguerat D. - V enetz H.-J. (eddj, Methoden der Evange-
lien-Exegese, Benziger, Ziirich 1985, 41-86.
-, «Raconter Dieu. L'évangile comme narration historique», in BO hler
P. - H aberm acher J.E. (edd.), La narration. Quand le récit devient
communication, Labor et Fides, Genève 1988, 83-106.
-, «“Et quand nous sommes entres dans Rome”: l’énigme de la fin du
livre des Actes (28,16-31)», in Revue d ’Histoire et de Philosophie
Religieuses 73(1993), 1-21.
-, «La construction du lecteur par le texte (Marc et Matthieu)», in C.
F ocant (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and The New
Literary Criticism, Leuven University Press, Leuven 1993, 239-262.
-, «La mort d’Ananias et Saphira (Ac 5,1-11) dans la stratégie narra
tive de Lue», in New Testament Studies 39(1993), 209-223.
-, «L'évangile de Jean et son lecteur», in CADIR, Le temps de la lectu
re: exégèse biblique et sémiotique, Cerf, Paris 1993, 305-324.
-, «Entrare nel mondo del racconto. La rilettura narrativa del Nuovo
Testamento», in Protestantesimo (1994), 196-213.
259
-, «Entrer dans le monde du récit», in Bulletin d ’information biblìque
42(1994), 8-12.
-, «L’exégèse biblìque: éclatement ou renouveau?», in Foi et vie
93(1994), 7-24.
-, «L’analyse narrative. Mode d’emploi», in Bulletin d'information bi-
blique 44(1995), 3-11.
-, «Entrer dans le monde du récit. Une présentation de l'analyse nar
rative», in Transversalités. Revue de l ’I nstitut catholique de Paris
59(1996), 1-17.
-, «Le Dieu du livre des Actes», in A. M archadour (ed.), L’Evangile ex-
ploré. Mélanges offerts à S. Légasse, Cerf, Paris 1996, 301-331.
-, «Il “punto di vista” nella narrazione biblica», in RivBiblt 58(2010),
331-353.
-, Le Dieu des premiers chrétiens, Labor et Fides, Genève 1997; tr. it.
Il Dio dei primi cristiani, Boria, Roma 2011.
-, «“Il a comblé de biens les affamés et renvoyé les riches les main vi-
des" (Le 1,53). Riches et pauvres, un parcours lucanien», i n F. B ian
chini - S. R omanello ( e d d .) , Non mi vergogno del Vangelo, potenza dì
Dio. Studi in onore di Jean-Noèl Aletti, Gregorian Biblical Press,
Roma 2012, 327-350.
M arguerat D. - B ourquin Y., Pour lire les récits bibliques. Initiation à
l’analyse narrative, Cerf-Labor et Fides, Paris-Genève 42009; tr. it.
Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all’analisi narrativa, Bor
ia, Roma 22011.
M arin L., «Essai d’analyse structurale à.'Actes 10,1-11,18», in Recher-
ches de Science religieuse 58(1970), 39-61.
M cK night E., The Bible and thè Reader: an Introduction to Literary Cri-
ticism, Fortress Press, Philadelphia 1985.
-, Post-Modem Use of thè Bible. The Emergence o f Reader-Oriented
Crìticism, Abingdon Press, Nashville 1988.
M oitel P, «Des récits d’Évangile. Apprentissage d’une lecture», in Ca-
hiers Evangile 93(1995).
-, «De longs récits d!Evangile. Construction et lecture», in Cahiers
Evangile 98(1996).
M oore S.D., Literary Crìticism and thè Gospels: thè Theoretical Chal-
lenge, Yale University Press, New Haven 1989.
«Narrativité et théologie dans les récits de la Passion», in Recherches
de Science religieuse 73(1985), 5-244 (articoli di P. R icceur, P. B eau -
champ , P. C orset , J. D elo rm e , J. C alloud , ecc.).
260
P erini G.,L e domande di Gesù nel vangelo di Marco. Approccio prag
matico: ricorrenze, uso e funzioni, Pontifìcia Università Lateranen-
se, Roma 1998.
P ete rsen N.R., Literary Criticism far New Testament Critics, Fortress
Press, Philadelphia 1978.
P owell M.A., What is Narrative Criticism?, Fortress Press, Minneapo
lis 1990.
R eymond S ., L’expérience du chemin de Damas: approche narrative d ’u-
ne expérience spirituelle, Mémoire de spécialisation en NT, Lau
sanne 1993.
-, «La conversion de Saul en Ac 9», in Bulletin d ’information biblique
42(1994), 13-16.
R hoads D. - M ichie D., Mark as Story: an Introduction to thè Narrative
o f a Gospel, Fortress Press, Philadelphia 1982.
Riva E., «L’esegesi narrativa: dimensioni ermeneutiche», in Rivista Bi
blica Italiana 37(1989), 129-160.
S ka J.L., «La “nouvelle critique” et l’exégèse anglo-saxonne», in Re-
cherches de Science religieuse 80(1992), 29-53.
-, «Sincronia: l’analisi narrativa», in H. S im ian -Y ofre (ed.), Metodologia
dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1994,42Ó09,139-170 e 223-
234 (glossario comparato).
-, «Our Fathers Have Told Us». Introduction to thè Analysis ofHebrew
Narratives, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990; tr. it. «I nostri
padri ci hanno raccontato». Introduzione all’analisi dei racconti
dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2012.
S ka J.L. - S onnet J .-P . - W énin A., L’analyse narrative des récits de
VAncien Testament, Cerf, Paris 1999.
S onnet J.-P, «Y a־t־il un narrateur dans la Bible? La Genèse et le mo-
dèle narratif de la Bible hébraique», in E. M ies (ed.), Bible et litté-
rature. L’homme et Dieu mis en intrigue[ Éditions Lessius, Namur
1999, 9-27.
S ternberg M ., The Poetics o f Biblical Narrative. Ideological Literature
and thè Brama ofReading, Indiana University Press, Bloomington
1985.
S tibbe M.W.G., John as Storyteller, Cambridge University Press, Cam
bridge 1992.
T annehill R.C., «The Disciples in Mark: thè Function of a Narrative Ro-
le», in Journal of Religion 57(1977), 386-405.
261
-, The Narrative Unity ofLuke-Acts: a Literary Interpretation, 2 voli,
Fortress Press, Philadelphia 1986.
V ignolo R., «Una finale reticente: interpretazione narrativa di Me
16,8», in Rivista Biblica Italiana 38(1990), 129-188.
W énin A., Samuel juge et prophète, Cerf, Paris 1994.
-, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
-, L’histoire de Joseph (Genèse 37-50), Cerf, Paris 2004.
-, Joseph ou Vinvention de la fraternità. Lecture narrative et anthró-
pologique de Genèse 37-50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it. Giusep
pe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropolo
gica della Genesi. IV. Gen 37-50, EDB, Bologna 2007.
-, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e an
tropologica della Genesi. I. Gen 1,1-12,4, EDB, Bologna 2008.
Z um stein J., «Critique historique et critique littéraire», in Miettes exé-
gétiques, Labor et Fides, Genève 1991, 51-62.
-, L’apprentìssage de la fo t A la découverte de Vévangile de Jean et
de ses lecteurs, Moulin, Aubonne 1993.
262
ALCUNE PUBBLICAZIONI
DEGLI AUTORI
Daniel Marguerat
Le Dieu des premiers chrétiens, Labor et Fides, quarta edizione rive
duta e aumentata, Genève 2011; tr. it. Il Dio dei primi cristiani, Bor
ia, Roma 2011.
L’intrigue dans le récit biblique. Quatrième colloque International du
RRENAB, Université Lavai, Québec, 29 m ai-ler juin 2008, con A.
P asquier - A. W én in (edd.), Peeters, Leuven 2010.
Qui afondé le christianìsme? Ce que disent les témoins des premiers
siècles, con E. J u nod , Labor et Fides-Bayard, Genève-Paris 2010; tr.
it. Chi ha fondato il cristianesimo? Cosa dicono i testimoni dei pri
mi secoli, EDB, Bologna 2012.
Pour lire les récits bìblìques. Initiation à Vanalyse narrative, con Y.
B ourquin , Cerf-Labor et Fides, Paris-Genève 42009; tr. it. Per legge
re i racconti biblici. Iniziazione all'analisi narrativa, Boria, Roma
2001; 22011; (tradotto anche in inglese, spagnolo, portoghese).
L'aube du christianìsme, Bayard-Labor et Fides, Paris-Genève 2008.
Il primo cristianesimo. Rileggere il libro degli Atti, Claudiana, Torino
2012 .
Dieu est-il violent?, con diversi autori, Bayard, Paris 2008.
La Bible en récits. Vexégèse biblique à Vheure du lecteur, con diversi
autori, Labor et Fides, Genève 2003.
La première histoire du christianìsme (LesActes des apótres), Cerf-La
bor et Fides, Paris-Genève 22003; tr. it La prima storia del cristia
nesimo. Gli Atti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002
(tradotto anche in inglese, tedesco, portoghese, arabo).
Quand la Bible se raconte, con diversi autori, Cerf, Paris 2003.
263
Intertextualités. La Bible en échos, con A . C urtis (edd.), Labor et Fides,
Genève 2000.
André YVénin
Isaac ou Vépreuve d ’Abraham. Approche narrative de Genèse 22, Les
sius, Bruxelles 22008; tr. it. Isacco o la prova di Abramo. Approccio
narrativo a Genesi 22, Cittadella, Assisi 2005.
D’A dam à Abraham ou les errances de Vhumain. Lecture de Genèse
1.1-12,4, Cerf, Paris 2007; tr. it. Da Adamo ad Abramo o Ferrare
dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I. Gen
1.1-12,4, EDB, Bologna 2008; (tradotto anche in portoghese).
Vives. Femmes de la Bible. Postface de Sylvie Germain, con C. F ocant ,
Lessius, Bruxelles 2007; tr. it. La donna la vita. Ritratti femminili
della Bibbia, Postfazione di S. G erm a in , Acquerelli di M . S o n net ,
EDB, Bologna 2008 (tradotto anche in spagnolo).
Joseph ou l’invention de la fraternìté. Lecture narrative et anthropo-
logique de Genèse 37-50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it. Giuseppe
o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica
della Genesi. IV. Gen 37-50, EDB, Bologna 2007; (tradotto anche in
spagnolo e portoghese).
Uhistoire de Joseph. Genèse 37-50, Cerf-Évangile et Vie, Paris 2004;
(tradotto in spagnolo e portoghese).
L’analyse narrative des récits de VAncien Testament, con J.-L. S ka -
J.-P. S o n net , Cerf-Évangile et Vie, Paris 1999; (tradotto in spagnolo).
Le livre de Ruth. Une approche narrative, Cerf-Évangile et Vie, Paris
1998; (tradotto in spagnolo e portoghese).
David, Goliath et Saill. Le récit de 1 Samuel 16-18, Lumen Vitae, Bru
xelles 1997.
264
INDICE
Introduzione .......................................................................... » 7
Un’autentica rivoluzione....................................................... » 8
Il testo: finestra, tessuto, specchio ...................................... » 9
La frattura originaria............................................................ » 11
Il mezzo per eccellenza per dire Dio nellas to ria ............... » 12
Nascita di un apparato di le ttu ra ......................................... » 13
Una teologia narrativa .......................................................... » 14
Tre obiezioni......................................... ................................. » 16
Il programma di questo lib ro .............................................. » 19
Capitolo primo
QUATTRO LETTORI PER QUATTROVANGELI ..................... » 25
1. Lettore codificato e lettore edificato............................... » 27
2. Vangeli in cerca di le tto ri...... .......................................... » 32
3. Conclusione ...................................................................... » 57
Capitolo secondo
ALLA RICERCA DELLA TRAMA.
UNA LETTURA DELLA PASSIONE (MC 14E LC 22) ........... » 59
1. Tensione drammatica e tensione narrativa .................. » 61
2. Schema quinario e tensione narrativa ........................... » 62
3. Percorsi di Me 14,1-31 e Le 22,1-34 ............................. » 71
4. Conclusione ...................................................................... » 88
265
Capitolo terzo
LA TEMPORALITÀ DELLA STORIA DI GIUSEPPE
(GEN 37-50) .׳ 91 «
1. Introduzione » 91
2. La struttura temporale della storia di Giuseppe » 95
3. Anticipazioni di ogni genere » 102
4. Diversi ritorni sul p a ssa to » 109
5. Conclusione » 118
Capitolo quarto
GIUSEPPE INTERPRETE DEI SOGNI IN PRIGIONE
(GEN 40). ALCUNE FUNZIONI DELLA RIPETIZIONE
NEL RACCONTO BIBLICO » 121
1. La trama » 123
2. Studio delle ripetizioni » 128
3. La ripresa del racconto in 41,9-13 » 133
4. Conclusione : » 136
Capitolo quinto
IL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO BIBLICO » 139
1. Il punto di vista e la sua definizione » 140
2. Le tre focalizzazioni secondo Gérard Genette » 148
3. II punto di vista secondo Alain Rabatel » 151
4. Due applicazioni » 155
5. Conclusione » 162
Capitolo sesto
LUCA, REGISTA DEI PERSONAGGI » 165
1. Luca, compositore dei personaggi » 166
2. I personaggi lucani, condensato della trama » 171
3. Conclusione: il protagonista del racconto » 182
Capitolo settimo
IL GIOCO DELL’IRONIA DRAMMATICA.
L’ESEMPIO DEI RACCONTI DI ASTUZIE E INGANNI » 183
1. Al pari dell’ingannatore,
il lettore è superiore all’ingannato » 185
266
2. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’imbroglione............................................. » 187
3. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’ingannato ............................................... . » 192
4. Conclusione ....................................................................... » 197
Capitolo ottavo
COSTRUZIONE DEL DISCORSO E COSTRUZIONE
DEL RACCONTO. IL DISCORSO COMUNITARIO DI MT 18 » 199
1. Prologo: un discorso dalle origini molteplici................ » 201
2. A chi è rivolto il discorso? ............................................. » 204
3. La regola disciplinare (18,15-17).................................. » 207
4. La figura di Pietro (18,21-22) ........................................ » 213
5. La funzione del discorso nella strategia del narratore .. » 216
6. Conclusione ..................................................................... » 221
Capìtolo nono
DAVIDE E LA STORIA DI NATAN (2SAM 12,1-7).
IL LETTORE E LA «FICTION» PROFETICA
DEL RACCONTO BIBLICO ..................................................... » 223
1. La storia di Davide: fiction o storiografìa?.................... » 223
2. La storia di Natan in 2Sam 12 ossia il potere
di verità della fiction........................................................ » 229
3. Conclusione ..................................................................... » 236
Capitolo decimo
IL SERPENTE DI NM 21,4-9 E DI GEN 3,1.
INTERTESTUALITÀ ED ELABORAZIONE DEL SIGNIFICATO » 239
1. Il serpente di bronzo (Nm 21,4-9) ................................ » 240
2. Le concatenazioni: domande senza risp o sta................ » 247
3. Il serpente di bronzo e il serpente di Gen 3 ................ » 249
267
IN COPERTINA
Tavola di G. Cordiano
DANIEL MARGUERAT
Biblista, professore emerito di Nuovo Testamento all'Università di Losanna,
è uno specialista di fama internazionale su Gesù e il cristianesimo primitivo.
Tra i suoi libri apparsi in italiano: Per leggere i racconti biblici. La Bibbia
si racconta. Iniziazione all'analisi narrativa (con Y. Bourquin, Boria, Roma 2011);
Il Dio dei primi cristiani (Boria, Roma 2011); Chi ha fondato il cristianesimo?
Cosa dicono i testimoni dei primi secoli (con É. Junod, EDB, Bologna 2012);
Il primo cristianesimo. Rileggere il libro degli A tti (Claudiana, Torino 2012).
ANDRÉ WÉNIN
Gesuita, insegna Esegesi dellAntico Testamento alla Facoltà
di Teologia dell'Università Cattolica di Louvain-la-Neuve.
Tra le sue pubblicazioni in italiano: Giuseppe o l'invenzione
della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della
Genesi. IV. Gen 37-50 (EDB, Bologna 2007); Da Adamo
ad Abramo o l'errare dell'uomo. Lettura narrativa ISBN 978-88-1 0 -40 Z 45 -0
e antropologica della Genesi. I. Gen 1,1-12,4 (EDB,
Bologna 22013); La donna la vita. Ritratti femminili
della Bibbia (con C. Focant, EDB, Bologna 2008). 788810 402450
€ 26,00 (IVA compresa)