Sei sulla pagina 1di 258

DANIEL MARGUERAT

ANDRÉ WÉNIN

Sapori
del racconto
biblico
Una nuova guida a testi millenari
Daniel Marguerat
André Wénin

Sapori
del racconto
biblico
Una nuova guida
a testi millenari

TWnTò)
lim i)
EDIZIONI DEHONIANE BOLOGNA
Traduzione dal francese·. Rita Simionati Lora

Impaginazione·. Em m e2 srl, Bologna

®2013 Centro editoriale dehoniano


via Nosadella 6 - 40123 Bologna
www.dehoniane.it
EDB®

ISBN 978-88-10-40245-0

Stampa: Italiatzpolitografìa, Ferrara 2013


ABBREVIAZIONI
SCRITTURISTICHE

Antico Testamento

Pentateuco Michea Mi
Naum Na
Genesi Gen Abacuc Ab
Esodo Es Sofonia Sof
Levitico Lv Aggeo Ag
Numeri Nm Zaccaria, Zc
Deuteronomio Dt Malachia MI

Libri profetici Altri scritti


Giosuè Gs Salmi Sai
Giudici Gdc Giobbe Gb
1 Samuele ISam Proverbi Pr
2 Samuele 2Sam Rut Rt
1 Re IRe Cantico Ct
2 Re 2Re Qoèlet Qo
Isaia Is Lamentazioni Lam
Geremia Ger Ester Est
Ezechiele Ez Daniele Dn
Osea Os Esdra Esd
Gioele Gl Neemia Ne
Amos Am 1 Cronache lCr
Abdia Abd 2 Cronache 2Cr
Giona Gn

5
Libri deuterocanonici IMaccabei lMac
2Maccabei 2Mac
Ester {greco) Est gr Sapienza Sap
Giuditta Gdt Siracide Sir
Tobia Tb Baruc Bar

Nuovo Testamento
Vangelo di Matteo Mt 1 Timoteo lTm
Vangelo di Marco Me 2 Timoteo 2Tm
Vangelo di Luca Le Tito Tt
Vangelo di Giovanni Gv Filemone Fm
Atti degli apostoli At Ebrei Eb
Romani Rm Giacomo Gc
1 Corinzi ICor 1 Pietro lPt
2 Corinzi 2Cor 2 Pietro 2Pt
Galati Gal 1 Giovanni lGv
Efesini Ef 2 Giovanni 2Gv
Filippesi Fil 3 Giovanni 3Gv
Colossesi Col Giuda Gd
1 Tessalonicesi lTs Apocalisse Ap
2 Tessalonicesi 2Ts
INTRODUZIONE

Assaporare un racconto è un’esperienza antica quanto il mondo.


Chi non è stato conquistato, almeno una volta, da un narratore o da
una narratrice di talento? Tutti, o quasi tutti, hanno gustato la magia
di racconti, perché tutti, o quasi tutti, hanno avuto nella loro infanzia
una mamma, un papà, una nonna, un nonno che raccontava loro del­
le storie. In ogni epoca e sotto tutte le latitudini gli uomini si sono rac­
contati delle storie. La magia del «c’era una volta» è universale. Basta
una frase: «Quando Dio cominciò a creare il cielo e la terra, la terra
era deserta e vuota...» - e subito l'immaginario s’infìamma. Risuona
una frase e immediatamente si apre uno spazio in cui il lettore è invi­
tato a entrare. Il potere di attrazione del racconto coincide con la sua
capacità di costruire un mondo che il lettore, la lettrice, si accinge a
esplorare, un mondo popolato di personaggi; il lettore si trova allora
coinvolto in un’azione in cui non mancheranno sorprese e stupori. Per
la sua capacità di sollecitare l’immaginazione, il racconto trasporta in
un batter d’occhio nello spazio e nel tempo.
Ma torniamo al racconto biblico delle origini (Gen 1-3). Ecco pre­
sentarsi le figure richiamate dal testo: l’acqua e l’asciutto, la terra e il
cielo, il mondo vegetale e il mondo animale... Poi, di fronte alla coppia
umana primordiale, Adamo ed Èva, ecco emergere il dono e la proibi­
zione, l’intervento di un serpente che parla, la trasgressione còlta da
un Dio che passeggia nel giardino delle delizie, la confessione di Ada­
mo, la terribile condanna della coppia, l’allontanamento verso un mon­
do meno ospitale di quel giardino... Un codice di rappresentazioni ca­
ratteristico dell’universo mitico anima il racconto. Tutto il testo schie­
ra figure disposte secondo un codice che deve essere decifrato, e quin­
di appreso dal lettore, in modo che egli non confonda il racconto delle
origini, per esempio, con un corso di storia o di geografia. Non si rac­

7
conta una fiaba come si narra la propria vita, né un racconto mitico
come ima favola o un aneddoto.
Il filosofo Paul Ricceur ha diffuso la nozione di «mondo del testo».1
Con questa espressione ha voluto trasmettere il concetto che la fun­
zione del racconto è di costruire un mondo in cui il lettore, nel mo­
mento stesso in cui ne entra in contatto, vive con i suoi personaggi,
gioisce e soffre con loro, trepida per la loro sorte, si pone domande a
loro riguardo. Ma, osservando più attentamente, questo mondo fittizio
che il racconto propone al lettore è una costruzione complessa: è com­
posto da una trama, da una rete di personaggi, da una concezione del
tempo, da una gestione dello spazio, da un sistema di valori, da un co­
dice di comunicazione. La storia raccontata è intessuta di cose dette e
non-dette, procede e torna indietro, accelera o rallenta. In poche pa­
role, tutti sappiamo per esperienza che, per essere un buon narratore,
non basta conoscere una bella storia o aprire la bocca per esporla.
Raccontare è un’arte.

Un’autentica rivoluzione
L’arte di raccontare risale alla notte dei tempi. Da quando gli uo­
mini comunicano tra loro, raccontano. Tuttavia, l'approccio scientifico
al racconto è un fenomeno recente. Facciamo un passo indietro per ve­
derne gli inizi.
Lo sviluppo della narratologia avviene sulla scia di ciò che il filoso­
fo americano Richard Rorty ha chiamato il lìnguistic turn, che stabilì
il predominio delle scienze del linguaggio. Fin dagli anni ,70, alcuni
studiosi di linguistica e di letteratura si sono interessati all’arte mille­
naria del raccontare con l’intento di decifrarne i codici. In tal modo,
hanno introdotto un’autentica rivoluzione nello studio della letteratu­
ra. In precedenza l’interesse si concentrava sull’opera dell’autore: da
dove aveva tratto l’ispirazione? Come lavorava? Come procedeva nel­
la composizione? L’indagine, ereditata dal secolo dei Lumi, era domi­

1 «Con “m ondo del testo‫ ״‬intendo il m ondo m ostrato dal testo davanti ad esso, per
così dire, come l’orizzonte dell’esperienza possibile nel quale l’opera trasferisce i suoi let­
tori», P. R ic c e u r , L ’herm éneutìque biblìque, presentazione e traduzione di F.-X. A m h e r d t ,
Ceri, Paris 2001, 32010, 331-332.
nata dall’interesse per l’origine: come sono nati ì testi? A partire dal
1970, la preoccupazione storica ha perso il monopolio e l’interesse ha
cambiato campo e si è concentrato sull’altra estremità della comuni­
cazione: non più l’autore, ma il lettore; non più l’operazione dello scrit­
tore, ma quella del lettore, che è altrettanto importante.
Affinché il testo costruisca tutto un mondo, è indispensabile un’o­
perazione: quella della lettura. È il lettore che costruisce e abita l’uni­
verso che il testo gli propone. Possiamo dire che il testo è come una fi­
gura amorfa che la lettura anima, un cadavere che la lettura risveglia.
Ha abbandonato il suo autore e i primi lettori - coloro mediante i qua­
li e per i quali il testo era originariamente scritto - per offrirsi ormai a
quanti e a quante vorranno leggerlo. In tal modo, per riprendere le pa­
role di Paul Ricoeur, avviene che «il testo, orfano del padre, l’autore,
diventa il figlio adottivo della comunità dei lettori».2
Ancora una volta, è il lettore, la lettrice, a dispiegare il mondo del
testo attraverso l’operazione di lettura. Sono loro che danno vita a que­
sto mondo partendo da quanto il testo dice, e anche da quanto non di­
ce ma presuppone. Il semiotico italiano Umberto Eco ha sviluppato in
Lector in fabula la nozione di «cooperazione interpretativa del lettore».3
Egli intendeva dire che il testo, per essere letto, esige dal lettore una co­
operazione attiva, un lavoro di decodifica, che ogni autore si aspetta e
spera. Inoltre, il narratore, se vuole essere capito, cerca di favorire e
guidare questo lavoro del lettore senza il quale il testo resta morto.
Entrare nel testo dalla posizione del lettore piuttosto che da quella
dell’autore comporta quindi un autentico rovesciamento epistemologi­
co. Ma, prima di procedere, cerchiamo di considerare le cose con un
po’ di distacco.

Il testo: finestra, tessuto, specchio


Il testo biblico, come ogni testo, si presta a diverse letture. Nessu­
na può pretendere di essere la lettura «giusta» che ne esclude ogni al­

2 P. R icce u h , «Eloge de la lecture et de l’écriture», in É tu d es théologiques e t reli-


gieuses 64(1989), 403.
3 U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei te sti narrativi, Bom­
piani, Milano 2011.

9
tra, per il semplice motivo che ciascuna lettura comporta una sua pro­
pria ricerca. Ogni lettura si definisce attraverso la domanda che essa
rivolge al testo. E, come ci si aspetta, la risposta ottenuta dipende dal­
l’indagine adottata. Una lettura psicanalitica della Bibbia coglierà nel
testo gli indizi che permettono di percepire nella scrittura l'emergere
dell’inconscio; in nessun modo potrebbe sostituirsi a un’altra lettura
che, per esempio, si interessasse del tessuto sociologico della storia
raccontata dal testo. In poche parole, ogni lettura si pone davanti al te­
sto con una domanda; questa domanda instaura un’indagme per la
quale ha forgiato appositi strumenti metodologici. Qual è la richiesta
dell’analisi narrativa?
Ne illustreremo la specificità comparandola con altri due metodi di
lettura: l’analisi storico-critica e l’analisi strutturale o semiotica.
L’analisi storico-critica (o critica storica), che per due secoli ha pre­
dominato nell’ambito dell’esegesi accademica, risponde alla domanda:
«Che cosa dice il testo?», si interessa, cioè, della storia che il testo rac­
conta. Per essa, il testo è una finestra che permette di osservare il pas­
sato: proprio questo passato, che essa cerca di ricostruire, interessa la
critica storica. Alla domanda: «Che cosa dice il testo?», essa ha dovu­
to aggiungerne altre, prendendo atto che il testo aveva anche una sto­
ria: «Chi è l’autore, su quali tradizioni sì basa e a chi rivolge il suo
scritto?». È la posizione del giornalista: di quali informazioni, di qua­
li documenti dispone l’autore quando racconta il passato?
L’analisi strutturale (o semiotica) risponde atutt'altra domanda: «In
che modo il testo produce senso?». Il testo è letto come un sistema di
segnali in cui occorre cercare l’organizzazione dell’intreccio. Potrem­
mo dire che qui il testo non è una finestra, ma un tappeto: l’interesse
è rivolto alla trama, ai fili che lo compongono, al suo disegno. La po­
sizione dell’analisi strutturale è quella del grammatico: come si orga­
nizza il discorso per produrre senso?
Per l’analisi narrativa, il testo non è né finestra, né tappeto, ma
specchio. Essa si chiede: «Quale effetto esercita il testo sul lettore?».
Lo specchio rinvia un’immagine a chi lo guarda ed esercita un effetto
su di lui. L’analisi narrativa si interessa del modo in cui l’autore co­
munica il suo messaggio e dell’effetto che in tal modo egli vuole otte­
nere. È la posizione dell’informatico: attraverso quali canali passa la
comunicazione, e per ottenere che cosa?
Facciamo un esempio. Davanti al racconto della passione, riporta­
to nei vangeli, ci possiamo domandare: che cosa riferisce l’evangelista

10
di quegli avvenimenti? Che cosa è storicamente attestato? Di quali fon­
ti documentarie disponeva l’evangelista e come le ha interpretate?
Questa è l’indagine dell’analisi storico-critica. Ci possiamo anche do­
mandare: come si organizzano le unità di senso? Quali trasformazioni
narrative si concatenano nel racconto? Dove sono le tracce dell’enun­
ciato? A tutto questo darà risposta l’analisi strutturale. L’analisi nar­
rativa fornisce alcuni strumenti per rispondere a quest’altra domanda:
quale effetto desidera ottenere il narratore componendo il racconto in
questo modo, con questo ventaglio di personaggi, questa distribuzione
dei luoghi, questa gestione del tempo, questo svolgimento della trama?
La critica storica si interessa del che cosa, l’analisi strutturale del co­
me, l’analisi narrativa del per che cosa (cioè: per quale effetto?).
Non è certo il caso di contrapporre queste letture in uno sterile gio­
co di rivalità. Non ha nemmeno senso affermare che una è più scien­
tifica delle altre. Ciascuna si fa carico di un’indagine specifica e il suo
compito consiste nel mettere a disposizione una serie di strumenti me­
todologici atti a svolgere tale indagine eon il necessario rigore.4
Come fa la narratologia, che è l’approccio scientifico della narrati-
vita, a diagnosticare l’effetto voluto dal narratore nell’organizzare il
suo racconto?

La frattura originaria
Sappiamo per esperienza che esistono mille modi di raccontare la
stessa storia. Chi si è trovato coinvolto in un incidente d’auto non lo
racconterà allo stesso modo all’agente di polizia, alla sua compagnia
di assicurazione o ai suoi amici... I fatti sono rigorosamente gli stessi,
ma i racconti saranno differenti. Alla polizia, racconterà con precisio­
ne come ha guidato l’auto; con l’assicurazione insisterà sul fatto di non
aver commesso alcuna infrazione; per i suoi amici aggiusterà un po’ il

4 Precisiam o, p er evitare u n a com prensione partig ian a dei nostri intenti: più di un
esegeta storico-critico h a sviluppato u n a sensibilità p er l’arte n arra tiv a degli autori bi­
blici. B asta rileggere i testi di H erm ann Gunkel, G erhard von Rad, Luis Alonso Schokel,
M artin Dibelius o Jiirgen Becker p er cogliere le loro intuizioni e la loro sensibilità nei ri­
guardi della narratività. Ma essi non avevano a disposizione gli strum enti concettuali che
avrebbero potuto perm ettere loro di form alizzare le loro scoperte.

11
racconto dei fatti e diventerà l’eroe o la vittima disgraziata della sto­
ria! Una medesima storia, tre racconti diversi. Per un contenuto infor­
mativo globalmente identico nei tre casi, l’effetto cercato per ciascuno
dei tre racconti sarà differente.
La narratologia ha un padre fondatore: Seymour Chatman, autore
nel 1978 di Story and Discourse. Chatman ha proposto di separare la
story dal discourse, come si distingue il significato dal significante. La
story è la storia raccontata, è il contenuto informativo (identico nel ca­
so dei tre racconti dell’incidente d’auto). La storia raccontata corri­
sponde al significato, cioè agli avvenimenti raccontati, astratti dalla lo­
ro disposizione nel racconto e ricostruiti nel loro ordine cronologico. Il
discourse è il montaggio narrativo di questa storia raccontata; questo
concetto designa la configurazione propria di ciascun racconto, dun­
que il significante, il modo di esporre la storia raccontata. Per sempli­
ficare, diciamo che i vangeli smottici (Matteo, Marco, Luca) presenta­
no tre narrazioni della medesima storia raccontata, quindi tre diverse
costruzioni del racconto della stessa storia.
Fatta questa distinzione, Chatman ha enunciato Vassioma fondan­
te della narratologia. L’analisi narrativa, infatti, si dedica a osservare
come il narratore mette in racconto la storia narrata a favore dei suoi
lettori. Ecco lo scopo della narratologia: identificare la strategia che il
narratore adotta nel costruire il suo racconto, in altre parole la sua re­
torica narrativa. Nel determinare attraverso quali procedure il narra­
tore costruisce un racconto, la cui lettura metterà in luce l’universo
narrativo, essa si dà gli strumenti per identificare l’architettura narra­
tiva del testo. Perciò l’analisi narrativa è una lettura che definiamo
«pragmatica», perché si interessa degli effetti pragmatici del testo sul
lettore e del modo di programmarli nel testo. È sorella gemella della
retorica, la quale si applica ai testi argomentativi (anzitutto agli oraco­
li dei profeti e alle lettere di Paolo).

Il mezzo per eccellenza per dire Dio nella storia


Avviato dalle opere di Chatman, il narrative criticism (l’analisi nar­
rativa) ha interessato assai presto i biblisti. Non c’è da sorprendersi: il
60% del testo biblico è costituito da racconti. La Bibbia è uno dei più
antichi tesori narrativi deirumanità. La prima monografia importante
che affronta il testo biblico in questa prospettiva, cioè leggendo la Bib­

12
bia come un racconto, ci viene da uno studioso ebreo americano, Ro­
bert Alter, specialista di letteratura romanzesca all’università di Ber­
keley. Nel 1981 egli pubblica in California The A rt ofBiblical Narrati­
ve CL’arte della narrativa biblica).5 Va detto che Alter non inventa nul­
la. Con l’ausilio di strumenti creati appositamente per questa finalità,
riscopre di che cosa si compone l’arte millenaria del raccontare. Egli
ritiene che quest’arte è costitutiva della tradizione biblica, della fede
d’Israele come di quella dei primi cristiani: Israele e, a seguire, la pri­
ma cristianità hanno vissuto formulando la loro identità attraverso il
racconto. Proprio questo processo di memoria narrativa, incessante­
mente ripreso nella riformulazione dei racconti e nella riscrittura mi-
drashica, ha permesso alla fede ebraica, e poi alla fede cristiana, di ri­
memorizzare gli eventi fondativi del passato. La costruzione del rac­
conto dà senso alla storia raccontata e, attraverso il processo di rime-
morizzazione, le conferisce una dimensione fondatrice e identitaria.
Interessarsi della narrazione biblica non significa dunque lasciare
da parte il messaggio biblico, poiché la narrazione è il veicolo prima­
rio della testimonianza, il mezzo attraverso il quale Israele ha espres­
so la propria fede in un Dio che interviene nella storia senza nulla to­
gliere alla libertà degli uomini. Dal momento che interviene nella sto­
ria, il Dio di Israele e poi dei primi cristiani, è un Dio che viene rac­
contato. Per gli uomini e le donne della Bibbia, il racconto è il mezzo
per eccellenza di dire Dio. Torneremo su questo concetto.

Nascita dì un apparato di lettura


Gli anni ’80 hanno segnato l’inizio di un riconoscimento della nar-
ratività biblica come fenomeno letterario degno di essere studiato
scientìficamente; di conseguenza, questi racconti millenari sono stati
rivisitati da studiosi interessati a smontarli per auscultarne il mecca­
nismo. Effetto inatteso: si comincia a far uscire la Bibbia dalTisola-
mento culturale in cui si trovava confinata per immergerla nel grande

5 R. A l t e h , L'arte della narrativa biblica, tr. it. di E. G a t t i , Q ueriniana, Brescia 1990;


tr. fr. L’a r td u récit biblique, Lessius, Bruxelles 1999. L'originale inglese dell’opera è sta­
to recentem ente pubblicato in nuova edizione riveduta e aggiornata (Basic Books, New
York 2011).

13
fiume della narrativa mondiale. Letterati, linguisti ed esegeti si trove­
ranno riuniti in un dibattito interdisciplinare, condividendo interroga­
tivi su ogni racconto, sacro o meno: quali procedimenti narrativi, qua­
le strategia hanno usato i narratori per costruire il loro racconto?
L’apparato di lettura dell’analisi narrativa è stato elaborato inizial­
mente negli Stati Uniti. Ma occorre subito rilevare che questa nuova let­
tura raccoglie i frutti di lavori teorici condotti da specialisti del lin­
guaggio nel mondo intero: in Francia da Gérard Genette (sulla narra­
zione e l’intertestualità) e Paul Ricceur (sulla temporalità narrativa), in
Germania da Wolfgang Iser (sul concetto di lettore), in Italia con Um­
berto Eco (sull’atto della lettura), negli Stati Uniti con Seymour Chatman
(sulla retorica narrativa), Wayne Booth (sull’ironia), Boris Uspensky
(sulla poetica del racconto). Di origine nord-americana, l’analisi narra­
tiva si colloca alla confluenza di molteplici intuizioni. Tuttavia, assai
presto, alcuni narratologi americani presenteranno questo tipo di let­
tura come un modello esaustivo e autonomo, chiamato a sostituirsi a
ogni altra lettura; noi non aderiamo a questo proclama pubblicitario.
La narratologia ha ereditato dall’analisi strutturale il suo posizio­
namento di fronte al testo che è un posizionamento sincronico. L’ana­
lisi storico-critica ricostruisce la storia del testo, la sua genealogia; cer­
ca di separare gli elementi tradizionali dai passi provenienti dall’in­
tervento dell’autore o redattore. Al contrario, nell’analisi narrativa il
testo è preso così come si presenta allo sguardo del lettore, è accolto
come una totalità significante, in una prospettiva sincronica (il testo
viene ripreso nel suo insieme). Come l’analisi strutturale, l’analisi nar­
rativa osserva ìe modalità secondo cui il testo costruisce progressiva­
mente i suoi valori e i suoi contenuti. Si interessa della trama che tie­
ne insieme il racconto e valuta il ruolo che svolgono i personaggi nel­
la storia. Ma a differenza degli strutturalisti, i narratologi partono dal
postulato che un’intenzione dell'autore regge la stesura del testo: la co­
struzione del racconto denota una strategia di comunicazione, una re­
torica narrativa che mira a programmare la lettura.

Una teologia narrativa


L’attenzione rivolta alla dimensione narrativa del testo ha l’effetto
di rivalorizzare le potenzialità di senso che la narratività racchiude. Bi­
sogna dire che secoli di esegesi ci hanno abituato a essere attenti più

14
agli elementi discorsivi (le parole scambiate) che agli elementi narra­
tivi; la critica della forma letteraria (Formgeschichte) ha aggravato lo
squilibrio svalutando il testo narrativo, considerato come zavorra re­
dazionale, a tutto vantaggio della trasmissione delle parole di Gesù.6
Quanto all’Antico Testamento, si resta colpiti nel vedere come, nelle ri­
cerche di teologia o di antropologia bibliche, i racconti sono spesso tra­
scurati a vantaggio di enunciati profetici o sapienziali. Non è forse
giunto il tempo di riconoscere al dato narrativo tutto il suo valore? In
questa riabilitazione va reso omaggio all’analisi strutturale, che ha
svolto un ruolo di pioniere: la narratologia si è inserita al suo seguito.
L’analisi narrativa permette di valutare come una teologia si espri­
me in narratività. Diffidiamo del teologo che, per il fatto di essere egli
stesso un uomo della parola, si fìssa sugli enunciati discorsivi ed è por­
tato a sottovalutare il potenziale interpretativo del raccontare, come se
il raccontare fosse una forma inferiore, primitiva, rudimentale di co­
municare! La narratologia ci fa prendere coscienza del fatto che la co­
struzione di una trama, il dispositivo di una rete di personaggi, la ge­
stione della temporalità, la semantizzazione dello spazio non solo ri­
chiedono talento, ma sono indicatori di un’intenzione teologica tanto
quanto una formulazione dottrinale o una confessione di fede, e sono
portatori di valori esistenziali o etici tanto quanto gli enunciati esplici­
ti che riguardano l’essere o l’agire degli uomini. Il racconto biblico non
sfugge alla natura di qualsiasi racconto la cui forza, come è già stato
detto, consiste nel costruire un mondo in cui il lettore vive con i per­
sonaggi, prova emozioni e sentimenti nei loro riguardi o si interroga
su di essi, reagendo agli avvenimenti di cui egli è per così dire testi­
mone. Questo si verifica per i racconti dei due Testamenti che intro­
ducono il lettore nel mondo dell’alleanza. E mentre vi incontra nume­
rosi personaggi con i quali può umanamente camminare interrogan­
dosi su cosa significa essere un uomo o su cosa implica essere un cre­
dente, egli incrocia anche Dio o Gesù, imparando come dall’interno il

6 Applicata prim ariam ente all’Antico Testam ento da H erm ann Gunkel, la scuola del­
la form a letteraria [Formgeschichte, metodo della storia delle forme o dell’analisi lettera­
ria) è stata resa popolare (divulgata) dalla sua analisi della trasm issione orale nei testi del
Nuovo Testmento. Il suo rap p resen tan te emblematico è R. B u l t m a n n , Die Geschichte der
synoptichen Tradition, Vandenhoeck & Ruprecht, Gottingen 1921, 21931; tr. fi‫־‬. V histoire
de la tradition synoptique, Seuil, Paris 1973.

15
loro modo di essere e di agire, la loro maniera talvolta inattesa di sol­
lecitare le singole libertà o di invitarle all’alleanza.
Questa constatazione può permettere di affrontare con rinnovato
impegno talune difficoltà classiche in esegesi come la strutturazione
narrativa del Vangelo di Marco. La logica della costruzione di questo
vangelo, che consiste in una giustapposizione di micro-racconti, anco­
ra ci sfugge. A causa del suo linguaggio aspro, a causa dei suoi conti­
nui cambiamenti di luogo e di tema, Marco da sempre è considerato
un autore mediocre di fronte alle grandi sintesi di Matteo o di Giovan­
ni. Oggi ci si rende conto che la composizione di Marco è tutt’altro che
mediocre. L’attenta osservazione delle affinità fra micro-racconti, de­
gli echi che si richiamano dall’imo all’altro, di talune riprese di termi­
ni sta dando come esito l’identificazione dei legami con i quali il nar­
ratore ha organizzato un percorso di lettura nel suo evangelo, la cui
cristologia e teologia emergono con altrettanta maggiore forza. Nel­
l’Antico Testamento, l’osservazione attenta della strutturazione del
racconto dei grandi cicli della Genesi, ad esempio, non solo permette
di porre in evidenza il genio narrativo all’opera nella costruzione de­
gli itinerari di Abramo, di Giacobbe e di Giuseppe sullo sfondo di una
problematica avviata nei primi capitoli del libro, ma fa anche notare
con quale acutezza il narratore guida il lettore nell’esplorazione di ciò
che fa l’umanità all’interno delle relazioni che la fondano e la struttu­
rano (mascolinità e femminilità, paternità e filiazione, fratellanza ed
estraneità), ma anche nella scoperta del progetto di benedizione che
Dio consegna nelle mani di esseri liberi e di conseguenza fallibili, sen­
za tuttavia cessare di preoccuparsene.

Tre obiezioni
Ci sono tre obiezioni ricorrenti alle quali vorremmo rispondere pri­
ma di proporre al lettore il percorso del nostro libro.7

7 Sulla stessa questione si può leggere con profitto il recente articolo di J.-P. S o n n e t ,
«Un dram e au long cours. Enjeux de la "lecture continue” dans la Bìble hébraique», in
Revue tkéologique de Louvain 42(2011), 371-407; tr. it. L'alleanza della lettura. Que­
stioni di poetica narrativa nella Bibbia ebraica, .GBP-San Paolo, Roma-Cinisello B alsa­
mo 2011.

16
Prima obiezione: la narratologia non attribuisce forse una teorìa
moderna ad autori antichi che non la conoscevano affatto? Gli autori
biblici erano coscienti di applicare questa metodologia? La risposta è
evidentemente negativa, proprio come chi compone una frase non è
cosciente delle regole grammaticali che sta applicando e che fanno sì
che la frase abbia senso. Gli autori biblici non avevano sotto gli occhi
un manuale narratologico. Nondimeno il confronto dei racconti antichi
e moderni mette in rilievo delle costanti trans culturali nella composi­
zione dei racconti, e queste costanti sono gli universali della narrazio­
ne. L’argomento dirimente è la pertinenza dell’applicazione dei con­
cetti narratologici ai racconti di culture assai diverse. Dotarsi degli
strumenti di cui gli autori biblici hanno fatto uso per costruire la loro
narrazione significa rendere loro giustizia, sebbene la teorizzazione
narratologica fosse a loro estranea. La stessa cosa vale per i pittori an­
tichi, i quali non avevano certo in mente i criteri usati dopo di loro dai
critici d’arte. Gli autori biblici hanno quindi applicato, in parte co­
scientemente, regole di costruzione narrativa che si possono riscon­
trare pressoché identiche nei racconti popolari. Sono regole che ap­
partengono all’arte millenaria del raccontare, di rendere attraenti le
storie che si tramandano - un’arte raramente gratuita, nella misura in
cui vi si gioca la capacità di prendere coscienza di ciò che siamo e del­
le potenzialità che si aprono su quella base.

Seconda obiezione: e la crìtica storica? Ha dunque lavorato invano


nel campo dell’esegesi ed è andata fuori strada nello studio dei racconti
biblici? Abbiamo appena menzionato la tendenza di certi narratologi
nord-americani a pensare che l’analisi narrativa sia quella che ormai
s’impone in modo esclusivo come la lettura adeguata dei racconti. Non
condividiamo questa posizione, che, secondo noi, si rifa al settarismo
metodologico. Lo ripetiamo: ogni lettura si caratterizza in base all’in-
terrogazione che essa rivolge al testo, e ogni lettura vale per la quali­
tà degli strumenti che ha forgiato allo scopo di rispondervi. Al proble­
ma dell’affidabilità storica degli scritti biblici, all’interrogativo sui con­
cetti utilizzati dagli autori, al problema delle tradizioni di cui si servo­
no e dei processi di composizione di questi testi divenuti canonici, la
narratologia non fornisce alcuna risposta. Da oltre un secolo, è com­
pito della critica storica rispondervi, e lo fa egregiamente. Invece, se si
tratta di capire la strategia di comunicazione che un narratore sceglie
per i suoi lettori, gli strumenti proposti dalla narratologia sono attuai-

17
mente i più efficaci. Dunque noi raccomandiamo un’articolazione dei
due metodi di lettura piuttosto che un’esclusione reciproca, indipen­
dentemente dai problemi specifici relativi alla natura e alla storia dei
libri dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Terza obiezione: questo metodo di lettura, che lavora sul piano let­
terario, non allontana forse da ciò che dovrebbe essere l’aspetto più
importante nel testo biblico, cioè la sua dimensione teologica? Non si
sacrifica forse il messaggio, occupandosi soltanto del suo aspetto este­
riore? Qui non bisogna commettere l’errore di contrapporre la forma
e il contenuto, perché, come lo strutturalismo ci ha insegnato, la for­
ma fa senso. La narratologia divaga quando scruta l'arte del raccon­
tare? No, perché la narratività come tale ha una dimensione teologica.
Perché il popolo d’Israele è vissuto del racconto della sua storia? Per­
ché condensare in un racconto la memoria del passato (questo si chia­
ma «anamnesi») non fa rivivere un passato morto: riconosce la perti­
nenza teologica degli avvenimenti passati per comprendere un pre­
sente sempre in parte opaco e rendere l’ignoranza del futuro un po’
meno angosciante individuandovi possibili percorsi. Richiamare l’eso­
do celebra, nell’oggi del raccontare, la memoria di quel Dio al quale
Israele deve la propria esistenza e le promesse di vita. Fare racconto
della vita di Gesù permette di identificare, nell’oggi del raccontare, il
Cristo che la comunità prega e che crede presente pur rimanendo ven­
turo. In poche parole, per Israele come per la Chiesa, la narratività è
un veicolo letterario del messaggio della salvezza. Ma è anche la me­
diazione dell’identità credente: dirsi il passato significa dichiarare ciò
che esso ha fatto di noi e che permette di raccontare oggi. Raccontare
significa dirsi inscrivendosi in una storia. ,
La narratività, quindi, non è semplicemente l’involucro di un mes­
saggio del quale si potrebbe estrarre il contenuto «puro». Se giudei e cri­
stiani raccontano delle storie, è perché credono in un Dio che si rivela
nella storia. Raccontare delle storie - anche ricorrendo agli stratagem­
mi della fiction - significa fare memoria di quanto è avvenuto nella sto­
ria facendo vedere come questo fa senso nel modo stesso di riportarlo.
Il racconto è così il testimone obbligato di un Dio che si fa conoscere nel­
lo spessore di una storia di uomini e di donne «in carne e ossa», una
storia vissuta il cui senso è sempre plurivoco e il cui orizzonte non è mai
interamente chiuso. Ecco perché la salvezza si dice in un racconto: il
racconto è il veicolo privilegiato deU’hicarnazione e, al tempo stesso, an­

18
che il racconto della nostra storia. Dire Dio in una storia raccontata si­
gnifica dire il Dio che si incarna nella storia umana e, potenzialmente,
in ogni storia personale. Eberhard Jiingel lo formula brillantemente in
Dio, mistero del mondo·. «Il fatto che l’uomo possa corrispondere all’u­
manità di Dio soltanto raccontandola è stato fondato quando abbiamo
riconosciuto l’umanità di Dio come un evento che diventa reale solo me­
diante la potentia aliena [potenza esterna] del Dio che viene nel mon­
do, e non mediante questa storia con le sue possibilità proprie. Il lin­
guaggio che corrisponde alla storia è la narrazione. Il linguaggio che
risponde alla svolta della storia è propriamente solo la narrazione».8

Il programma di questo libro


Questo libro vede la luce nel momento preciso in cui la (riscoperta
dei sapori della narrazione bibliCU spicca il volo. Vuole dare gusto a
queste nuove fragranze, mostrare la fecondità di alcuni strumenti del­
l’analisi narrativa applicandoli a sequenze scelte dell’Antico e del Nuo­
vo Testamento. L’intenzione non è di rifare l'abbiccì della narratolo già.
Da una trentina di anni, viene messa a disposizione dei ricercatori una
collezione di strumenti appropriati per la narratologia biblica. Vari ma­
nuali redatti o tradotti in italiano hanno fatto recentemente la presen­
tazione sintetica di questi strumenti.9 1 ricercatori francofoni in anali­
si narrativa si sono federati in «Réseau de Recherche en Narratologie
et Bible» [Rete di ricerca in narratologia e Bibbia] (RRENAB).10 L’ap­

8 E. J ù n g e l , Dieu m ystère du m onde, Cerf, Paris 1983, 129 (corsivo nostro)·, t r . it.
Dio, m istero del m ondo, Q uerm iana, Brescia 32004. Da p a rte sua, C. T h e o b a l d p arla del­
la «concordanza tr a la form a o le form e e il contenuto della m em oria biblica» («Les en-
jeux de l'analyse narrative en théologie», in A u jo u rd ’hui lire la Bible, a cura di P. A b a -
d i e , Profac, Lyon 2008, 61).

9 D. M a r g u e r a t - Y. B o u r q u in , Pour lire les récits bibliques. Initiation à l ’analyse nar­


rative, Cerf-Labor et Fides, Paris-Genève 42009; tr. it. Per leggere i racconti biblici. In i­
ziazione alVanalisì narrativa, Boria, Roma 22011; J.L. R e s s e g u i e , L'exégèse narrative du
N ouveau Testamenti Lessius, Bruxelles 2009; J.-L. S k a , «Nos pères nous ont raconté».
Introduction à Vanalyse des récits de iA n cie n Testam ent, Cerf, Paris 2011; tr. it. « In o ­
stri padri ci hanno raccontato». Introduzione a ll‘analisi dei racconti d e ll’A ntico Testa­
mento, EDB, Bologna 2012; ed. orig. inglese: «Our F athers H ave Told Us». Introduction
to thè A n a lysis ofH ebrew N arratives, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990.
10 Per informazioni circa questa rete si veda il sito internet: http://www2.unil.ch/rrenab/.

19
proccio narrativo ai racconti biblici, che finalmente rende giustizia al
talento degli anonimi autori dei testi sacri, è in pieno fermento.
Ma ora, dopo i balbettìi iniziali e le prime applicazioni scolastiche
del metodo, si tratta di affinare gli strumenti a disposizione e di met­
terne in luce le potenzialità. La sfida non è soltanto di percorrere in
ogni direzione i retroscena del racconto per osservarne l’architettura
nascosta, anche se tale scoperta, per così dire archeologica, vale da so­
la la svolta. L’interesse sta piuttosto nel portare alla luce effetti di si­
gnificato insospettati, scaturiti da racconti che pure si pensava di co­
noscere già bene. Ai lettori e alle lettrici stanchi di letture convenzio­
nali, di percorsi ripetitivi, questo libro apre le porte a interrogativi ori­
ginali e significativi. Originali, in quanto l’accesso al testo è spostato e
a esso sono rivolti interrogativi inediti.
In maniera un po’ programmatica, i primi due capitoli mostrano
come l’interesse nella lettura della Bibbia si sia spostato dall’autore
verso il lettore.
Capitolo primo: Quattro lettori per quattro vangeli. Oggi non ci si
interroga più sugli autori presunti dei vangeli, e nemmeno sui lettori
originari che gli autori avevano davanti, ma sulla figura di lettore che
ciascun vangelo mira a costruire. Il racconto di Marco elabora per la
propria lettura un lettore che non è identico né a quello di Matteo, né a
quello di Luca, né a quello di Giovanni. La lettura, soprattutto di un van­
gelo, non è un esercizio semplice, ma un percorso dal quale non si esce
immutati.
Capitolo secondo: Alla ricerca della trama. Una lettura della passio­
ne (Me 14 e Le 22). In che modo si organizza un narratore per fare del
suo racconto qualcosa che non sia una semplice esposizione di episodi
successivi? Come riesce a imprimere al suo testo un ritmo, una tensione,
come gioca sulla suspense per tenere il suo lettore col fiato sospeso? La
lettura della passione (Marco 14 e Luca 22) fa vedere il gioco sottile che
si annoda in filigrana, dietro il testo, fra il narratore e il suo lettore.
I capitoli da 3 a 7 cercano poi di illustrare l’uso di uno strumento
particolare nella strategia di comunicazione del narratore.
Capitolo terzo: La temporalità della storia di Giuseppe (Gen 37-50).
La storia di Giuseppe illustra in modo splendido i mezzi di cui dispone
un narratore per gestire la temporalità nel corso della narrazione. Rit­
mo, gioco sulla cronologia, anticipazioni eflashbacks, tutto contribuisce
a una sapiente costruzione della trama e chiede la partecipazione del let­
tore, in particolare attraverso l’enigma costituito dai sogni di Giuseppe.

20
Capitolo quarto: Giuseppe interprete dei sogni in prigione (Gen 40).
Alcune funzioni della ripetizione nel racconto biblico. L’estetica della
ripetizione è una caratteristica del racconto biblico. Un bell’esempio si
legge in Gen 40, dove Giuseppe interpreta i sogni di due funzionari del
faraone detenuti con lui. La ripresa di parole, espressioni e strutture
sottolinea un’insistenza tematica, tradisce la prospettiva di un perso­
naggio, indica la realizzazione di un annuncio, garantisce ironia. E nel
corso di tali ripetizioni, sottili variazioni sollecitano la sagacia del let­
tore coinvolto così nella costruzione del senso.
Capitolo quinto: Il punto di vista nel racconto biblico. Esiste un rac­
conto oggettivo, neutro, distaccato? Le ultime ricerche su questo pun­
to ci insegnano che la scrittura narrativa s’intesse surrettiziamente di
punti di vista diversi. In altri termini, ogni narratore sceglie di rac­
contare gli avvenimenti che egli traspone in parole adottando la posi­
zione di uno o più personaggi successivi. Alla maniera di un cineasta
che modifica la postazione della sua cinepresa, il narratore varia la
prospettiva per costruire il dramma del suo racconto.
Capitolo sesto: Luca, regista dei personaggi. Questi stanno al rac­
conto come le foglie stanno all’albero: apportano vita, movimento e co­
lore. I personaggi vestono il racconto, ma ancor più: attraverso loro, il
racconto investe il lettore, la lettrice, risveglia le sue emozioni, libera i
suoi scatti d’ira, suscita il suo interesse. I personaggi si presentano co­
me campi di identificazione, porte di entrata attraverso le quali il let­
tore s’insinua o s’immerge nel mondo del racconto. Come si potrà con­
statare, Luca si è rivelato vero maestro nella creazione letteraria di
queste figure indispensabili.
Capitolo settimo: Il gioco delVironia drammatica. L’esempio dei
racconti di astuzie e inganni. Quando un narratore si addentra nei va­
ri campi del sapere e concede ai suoi lettori un sapere superiore a quel­
lo dei personaggi, può scatenarsi l’effetto dell’ironia. La caratterizza­
zione dei personaggi e il giudizio indotto a loro riguardo derivano an­
che da questo registro. Lo studio di alcuni racconti di astuzie o furbe­
rie e dì inganni nell’Antico Testamento illustra questo processo la cui
sofisticata elaborazione è talvolta stupefacente.11

11 II lettore italiano ne troverà am pia documentazione nel saggio del giurista N. P a l e r ­


mo, Giacobbe, un furbo che la fe c e franca, Edizioni Angolo Manzoni, Torino 2006 [N.d.T.].

21
Gli ultimi tre capitoli del libro trattano di procedimenti letterari più
globali, che riguardano il rapporto fra racconto e discorso, la finzione
e l’intertestualità.
Capitolo ottavo: Costruzione del discorso e costruzione del raccon­
to. Il discorso comunitario di Mt 8. Il problema è quello dell’alternan­
za in un racconto di parti narrative e di sequenze discorsive. Classica-
mente, la lettura separa il discorso dal suo involucro narrativo e lo ren­
de autonomo, per leggerlo come un testo a parte. Sbagliato! Sul mo­
dello di un grande discorso di Gesù in Matteo (il discorso della monta­
gna di Mt 18), constateremo fino a che punto il narratore guida e orien­
ta la comprensione delle parole di Gesù costruendo per esse un conte­
sto narrativo che funziona come una griglia di lettura.
Capitolo nono: Davide e la storia di Natan (2Sam 12,1-7). Il letto­
re e la «fiction» profetica del racconto biblico. I racconti dell’Antico Te­
stamento rivelano storia o finzione? Questione assai dibattuta. Il rac­
conto fittizio, attraverso il quale il profeta Natan induce Davide a con­
fessare il proprio peccato, fa vedere quale potere di verità possiede la
finzione. In tal senso, lo scopo dei racconti biblici non è tanto di rac­
contare la storia con esattezza, quanto piuttosto di proporre una sto­
ria che, ricorrendo alla finzione e ai suoi procedimenti, fa venire a gal­
la quello che si nasconde nelle opacità della vita.
Capitolo decimo: Il serpente diN m 21A-9 e di Gen 3,1. Intertestua­
lità ed elaborazione del significato. L’intertestualità è quel processo
mediante il quale il narratore richiama alla memoria del lettore altri
testi. Dalla citazione esplicita alla semplice reminiscenza, dalla ripre­
sa di una struttura all’analogìa fra due trame, sono molteplici gli echi
che collegano fra loro i testi ed esigono dal lettore la partecipazione at­
tiva all’elaborazione del senso dei racconti. Questo intende illustrare
Taccostamento del serpente di bronzo (Nm 21) al serpente del giardi­
no dell’Eden (Gen 3).

I due autori di questo libro hanno partecipato fin dalle origini al­
l’introduzione della narratologia nell’esegesi biblica. Daniel Marguerat
è professore emerito di Nuovo Testamento all’Università di Losanna.
André Wénin è professore di Antico Testamento all’Università Cattoli­
ca di Louvain-la-Neuve. Le loro voci s’incontrano e si completano con
un’identica ambizione: ritrovare nella lettura dei racconti biblici gusti
e sapori che lasciano il desiderio di ritornarci - come si fa con una pie­
tanza che abbiamo gustato con piacere ed emozione.

22
La nostra gratitudine va a Emmanuelle Steffek per la generosa col­
laborazione nella sistemazione redazionale del manoscritto.

e A n d r é W é n in
D a n ie l M a f lg u e r a t
Ecublens e Naniur,
dicembre 2011
Capitolo primo

QUATTRO LETTORI
PER QUATTRO VANGELI
Daniel Marguerat

«Vero autore del racconto non è solo colui che lo racconta, ma an­
che, e talvolta assai di più, colui che lo ascolta». Questa dichiarazione
di Gérard Genette risale a oltre quarant’anni fa.1A suo tempo ebbe l’ef­
fetto di una bomba: annunciava il cambiamento di luogo degli studi let­
terari, che dalla nozione di autore spostavano il loro interesse in dire­
zione del lettore. Da un’attrazione per l’origine, che dominava lo stu­
dio dei testi fin dall’umanesimo, le scienze del linguaggio ora propone­
vano di passare a un interesse per il ricettore dei testi, il lettore. Ven-
t’anni più tardi, il geniale e arguto semiotico Umberto Eco consacrava
il cambiamento in corso nell’interpretazione dei testi.2 Nel 1990, egli
metteva in luce il fatto che si era prodotto uno spostamento da un ap­
proccio generativo dei testi, centrato sull’enunciazione storica del testo
e sulle regole di produzione del discorso, a un’analisi centrata sulla ri­
cezione; quindi nell’atto del leggere tutta l’attenzione è mobilitata dal­
l’operazione di decodifica del messaggio, dal deciframento del testo da
parte del lettore, dall’acquisizione del senso. Il semiotico italiano an­
nunciava anche una «insistenza ormai quasi ossessiva sul momento

* Una prim a stesu ra di questo testo è a p p arsa in D. M a r g u e r a t (ed.), La Bible en ré-


cìts. L'exégèse biblique à l ’heure du lecteur, Labor et Fides, Genève 2003, 21-38.
1 G. G e n e t t e , Figures III, Seuil, Paris 1972, 267; tr. i t . Figure, 3: Discorso del rac­
conto, Einaudi, Torino 1976.
2 U. Eco, I lim iti d e ll’interpretazione, Bompiani, Milano 1990.

25
della lettura, dell’interpretazione, della collaborazione o cooperazione
del lettore». Paul Ricoeur, in una bella formula, dice che «il testo, orfa­
no del padre, l’autore, diventa figlio adottivo della comunità dei letto­
ri».3 Si è insomma verificato lo slittamento dal polo dell’autore a quel­
lo del lettore, dalTanalisi delle condizioni di scrittura all’osservazione
delle regole della lettura. Quanto è vero della letteratura in genere, lo è
anche della letteratura biblica: l’esegesi si è messa al passo del lettore.
Ora, questo proliferare delle letture dette sincroniche (perché leg­
gono il testo nel suo stato finale e non nel suo divenire) e delle letture
dette pragmatiche (perché studiano gli effetti del testo sul lettore)4 ha
avuto un duplice risultato: da una parte il cambiamento dell’interesse
in direzione del lettore, ma dall’altra anche il rapido sviluppo della sua
definizione. Chi è il lettore? Paradossalmente, a forza di parlarne e di
interessarsene, non lo sappiamo di preciso. Abbiamo visto via via ap­
parire il lettore virtuale, il lettore, reale, il lettore implicito, il lettore
ideale, il lettore modello, il lettore codificato, l’arci-lettore, il super-let­
tore, il lettore informato: una profusione di titoli che non hanno tutti il
medesimo statuto teorico e in mezzo ai quali il principiante in analisi
narrativa si perde quando si tratta di adottarne uno. Tutti sono d’ac­
cordo sul fatto che quello che chiamiamo lettore in narratologia altro
non è che l’immagine del destinatario inscritta nel fondo del testo; ma,
oltre a questo, oggi non c’è alcun accordo su una definizione più pre­
cisa di questo lettore implicito. Con la massima precisione, possiamo
dire che ogni teoria letteraria risulta unica in forza di un approccio
specifico della lettura e dello statuto del lettore.
La situazione si complica ancora per il fatto che ogni immagine di
lettore potrebbe essere il frutto della rappresentazione mentale che il
ricercatore si crea leggendo l'opera. Susan Suleiman riconosce che
proprio nel corso della lettura si costruisce progressivamente un’im-

3 P. R ic c e u r , «Éloge de la lecture et de ì’écriture», in É tudes théologiques et reli-


gieuses 64(1989), 403.
4 Ricordiamo che l’analisi strutturale e l’analisi sem iotica adottano un punto di vi­
sta sincronico, m entre l’analisi n arrativ a (per i racconti) e l'analisi reto rica (per la lette­
ra tu ra discorsiva) si rifanno alle letture pragm atiche, p u r leggendo il testo nel suo stato
finale (prospettiva sincronica). La critica storica, in teressata a ricostruire la generazio­
ne del testo, adotta un punto di vista diacronico. Su questa differenziazione cf. D. M a r -
g u e r a t - Y. B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione a ll’analisi n a rra tiva , Bor­

ia, Roma 22011, 9-24.

26
magine d’autore e di lettore impliciti, e questa immagine permette a
posteriori di convalidare la lettura.5 La circolarità del ragionamento
non sfugge ad alcuno: estrapolata dal testo, l’immagine del lettore è ri­
proiettata sul lettore stesso per comprenderlo. Bisogna allora conclu­
dere che il lettore implicito è semplicemente il puro prodotto dell’im­
maginazione del ricercatore? È possibile sfuggire a questa disperata
constatazione oggettivando gli indizi sui quali ci si basa per identifica­
re questo lettore implicito.

1. Lettore codificato e lettore edificato


Dal nostro punto di vista, la ridondanza delle definizioni del letto­
re può essere ridotta a due posizioni.
Prima posizione: si chiama «lettore» l’immagine del narratario co­
sì come emerge dalla strategia narrativa. Il narratore riconosce al let­
tore ima competenza (per esempio delle conoscenze culturali o musi­
cali), presuppone da parte sua delle informazioni (politiche o geogra­
fiche) oppure gli addebita un’ignoranza che egli cerca di colmare: lo
chiameremo il lettore codificato.
Ma si può anche considerare il lettore che il narratore vuole co­
struire mediante il suo testo: non si tratta allora della somma delle
competenze, ma degli effetti che il testo cerca di esercitare su di lui. È
un lettore auspicato più che postulato, ideale più che ratificato. Lo pos- /
siamo chiamare il lettore edificato (o costruito).
Esempio. Il lettore di un romanzo pohziesco è lo stesso lettore di
una commedia di Molière? La risposta è sì, se si pensa che una stessa
persona può essere attratta dalla lettura di Molière al liceo e da un ro­
manzo poliziesco durante le vacanze. La risposta è no, se si presup­
pone che il teatro del XVII secolo e un thriller abbiano lettori-tipo di­
versi, ogni volta dotati di un bagaglio culturale e di un’enciclopedia
personale specifica. Allora ci si potrebbe dedicare a una costruzione
so ciò-culturale del potenziale lettorato di queste opere: quali compe-

5 S.R. S u l e im a n , «Introduction: Varieties of Audience-O riented Criticism», in S.R. Su-


1. C r o s s a n (edd.), The R eader in thè Text. E ssa y s in A udience and Interpretation,
l e im a n -
Princeton University Press, Princeton 1 9 8 0 ,1 1 .

27
tenze e quali Interessi sono richiesti se gli si apre il tal libro piuttosto
che il tal altro? Arriveremo così a realizzare il ritratto del lettore codi­
ficato in ciascuna opera.
Cercare il lettore edificato consiste nel domandarsi: quale tipo di
reazione, quale comportamento l’autore vuole provocare nel suo letto­
re? Quale sistema di valori cerca di trasmettergli? Quale visione del
mondo vuole impiantare o modificare?
Insistiamo per definire la questione del lettorato come la poniamo
qui a proposito dei vangeli. Non ci chiederemo chi è idoneo a leggere
il Vangelo di Matteo e chi può leggere il Vangelo di Giovanni, ma: cia­
scuno di questi vangeli che tipo di lettore costruisce? Quale modello di
lettore vuole plasmare ciascuno di questi vangeli? Questa domanda è
tipica dell’analisi narrativa e del suo interesse per la ricezione del te­
sto. Perché d’ora in poi la cooperazione o la collaborazione del lettore
nell’atto di lettura diventa primaria.6 In questa indagine, interessa sa­
pere non quale tipo di lettore l’autore presuppone, ma quale effetto il
testo mira a esercitare su di lui. A proposito dei vangeli, ci chiedere­
mo: quale lettore si prefigge ciascun vangelo e quale «esperienza viva»
di lettura prevede per lui?
Prendiamo da Peter Rabinowitz la distinzione che egli propone tra
udienza narrativa e udienza autoriale, ma modificando la sua defini­
zione.7 Per Peter Rabinowitz, l’udienza narrativa è quella che dà il pro­
prio consenso al racconto, che aderisce al mondo del racconto, men­
tre l’udienza autoriale rappresenta quel lettorato ipotetico per il quale
l’autore scrive e che deve convincere. Io modifico le sue categorie e
propongo di chiamare udienza autoriale il lettore codificato, con le sue
competenze, la sua cultura, le sue informazioni, le sue ignoranze. L’u­
dienza narrativa rappresenta allora il lettorato che il narratore vuole
costruire, che cerca di modificare mettendo in campo il mondo del rac­
conto secondo la sua intenzione.

6 U. Eco, ancora lui, h a sviluppato il concetto di «Lettore modello» p e r designare


questa istan za «capace di cooperare all’attualizzazione testuale come egli, l’autore, p en ­
sava e di m uoversi interpretativam ente» (Lector in fa b u la ou la coopération interpréta-
tive dans les textes narratifs, Paris, G rasset 1985, 71; orig. it. Lector in fabula. La co-
operazione interpretativa nei te sti narrativi, Bompiani, Milano 1979; 2011). Il «Lettore
modello» di Eco è un recettore program m ato dall’autore del testo.
7 P.J. R a b i n o w it z , Before Reading. N arrative Conventions and thè Politics o f Inter-
p retation , Cornell University Press, Ithaca-London 1987.

28
Il narratore le tiene ambedue presenti, e la figura del narratario uni­
sce le due dimensioni. Ma la distinzione, a titolo euristico, ci sembra fe­
conda. Due esempi.

1.1. «I giudei» e la Bibbia greca


Sappiamo che il Vangelo di Giovanni costruisce progressivamente
nel corso del racconto il personaggio collettivo dei «giudei», massifica­
to nella sua opposizione a Gesù; «i giudei» sono gli avversari qualifica­
ti di Gesù,8 eccetto quando il narratore precisa che si tratta dei «giudei
che hanno creduto a Gesù».9 Questa costruzione negativa del perso­
naggio riflette forse la situazione sociale dei narratari esclusi da una si­
nagoga che è loro ostile? Oppure, attraverso l'irrigidimento dell’imma­
gine dei giudei, crea forse un mondo narrativo che induce nel lettore
una visione dualista della realtà strutturata da un antagonismo giudeo­
cristiano? Da un lato, il narratore ratificherebbe la realtà del lettore pri­
mario (è l’udienza autoriale); dall’altro, costruirebbe una matrice con
la quale il lettore è invitato a ricomporre il suo mondo (udienza narra­
tiva). In questo Vangelo l’opzione presa nell’alternativa «udienza auto-
riale-udienza narrativa» fa cogliere assai diversamente l’intento della
retorica narrativa.
Il secondo esempio riguarda Luca-Atti, il grande racconto costituito
dal Vangelo di Luca e gli Atti degli apostoli. L’opera di Luca è notoria­
mente sovraccaricata di citazioni e di reminiscenze dell’Antico Testa­
mento, la sua lingua è saturata da termini derivati dalla Bibbia greca,
al punto tale che si parla di «stile biblico» lucano. Fra le centinaia di
versetti, eccone uno che infila una serie di formule derivate dall’Antico
Testamento nella sua versione greca (la Settanta): «Avvenne che, nei
giorni di Erode, re della Giudea, [vi era] un sacerdote di nome Zacca­
ria, della classe di Abia, e sua moglie veniente dalle figlie di Aronne, e
il suo nome era Elisabetta» (Le 1,5).10 Questo afflusso di formulazioni

8 II crescendo prepotente dell’ostilità ebraica nei riguardi di Gesù si percepisce in


Gv 2,20; 5.10.16.18; 6,41.52; 7,1.13; 8,22.48; 9,18.22; ecc.
9 Gv 8,31; cf. anche 11,45 e 12,11.
10 Form ule n ate dalla Sep tu a g in ta (dette anche settantism i): avvenne che, nei gior­
ni di, di nome, veniente dalle figlie, il suo nome era.

29
bibliche sarebbe - come si ripete sempre - una componente culturale
del lettore codificato, che sarebbe infatti un lettore di origine giudaica,
capace di decifrare questi effetti ricorrenti di intertestualità? Attenta
all’effetto provocato da questo uso intenso della Settanta, l’esegeta bri­
tannica Loveday Alexander ha proposto d’invertire questa tesi classi­
ca.11 Secondo lei, Luca adotta questo linguaggio per introdurre il suo
lettore, la sua lettrice nel vocabolario, nelle rappresentazioni, nello sti­
le della Bibbia greca. Con questo sforzo di inculturazione gli offre un
linguaggio e anche molto di più: lo introduce in una letteratura, in
un’evocazione del passato. Così lo «stile bìblico», questo gergo religio­
so caratteristico della cristianità di origine giudaica del primo secolo,
parteciperebbe alla costruzione, nei lettori di Luca-Atti, di un'identità
radicata nella storia di Dio con Israele - la storia che precisamente la
Settanta racconta. L’ipotesi di Loveday Alexander è di ordine propria­
mente narratologico; essa riguarda non quanto sta a monte del testo
(la cultura riconosciuta al lettore primario), ma le sue conseguenze a
valle (l’effetto del testo sul lettore). Dunque, i casi sono due: o l’uso in­
tensivo della Bibbia greca in Luca era un’evidenza per il lettore pri­
mario di Luca-Atti, perché essa mima la sua cultura (udienza autoria-
le), o questo uso genera una scoperta, avvia un apprendimento, pro­
muove un’acquisizione di identità attraverso il linguaggio (udienza
narrativa).12 Dal nostro punto di vista, il rovesciamento d’ipotesi che
l’esegeta inglese propone merita la massima attenzione.
In ogni caso, è certo che tanto per l’appellativo «i giudei» nel quar­
to Vangelo quanto per l’uso della Settanta nell’opera di Luca, l’attri­
buire tale caratteristica al lettore codificato piuttosto che al lettore co­
struito proviene dalla critica storica più che dall’analisi narrativa; de­
cidere dell’identità dei lettori primari significa decidere sulla storia, e
significa uscire dal quadro epistemologico della narratologia che è una
scienza del testo e non una scienza storica. Ma di che cosa ci accor­

11 L.C. A l e x a n d e r , «L’intertextualité et la question des lecteurs. Réflexions su r l’usa-


ge de la Bible dans les Actes des apótres», in D. M a h g u e r a t - A . C u r t is (edd.), Intertex-
tualités. La Bìble en échos, Labor et Fides, Genève 2000, 201-236.
12 Questa ipotesi è in teressan te nella m isu ra in cui la cultura, nella scuola greco-ro­
m ana, si trasm ette così: si im parava a m em oria Omero, Euripide, Platone ed Erodoto, i
grandi classici, p er im preg n arsi del loro stile e acquisire m ediante loro u n ’identità cul­
turale. Per Luca, il riferim ento «classico» da assim ilare sarebbe la versione greca del­
l’Antico Testam ento.

30
giamo qui? Porre una domanda in termini pragmatici, cioè in termini
di effetto del testo sul lettore, fa rilanciare come si è detto l'inchiesta
da parte della critica storica. L’inchiesta ha degli sviluppi imprevisti,
perché, nelTinterrogarsi sullo scopo del narratore nei suoi effetti di
scrittura, l’analisi narrativa mette il dito sulla maniera in cui il lin­
guaggio lavora e mette in dubbio il fatto che esso riproduca semplice-
mente il mondo di rappresentazione dei lettori primari.

1.2. V esperienza viva della lettura


Analizziamo ora più da vicino la nozione di lettore costruito, che
abbiamo appena distinto dal lettore codificato. L’intuizione primaria,
l’idea che un testo si apra a valle su un lettore che esso richiama, vie­
ne da Hans Georg Gadamer.13 Umberto Eco formula così: «Un testo po­
stula il proprio destinatario come condizione indispensabile non solo
della propria capacità comunicativa concreta ma anche della propria
potenzialità significativa».14 Ma possiamo sapere ciò che diventerà, nel
corso dell’atto di lettura, questo lettore previsto, questo lettore atteso?
Paul Ricoeur afferma che un testo, finché attende di essere letto, rima­
ne in qualche modo incompiuto;15 perché esso è una «strategia di per­
suasione che ha come suo bersaglio il lettore» ed «è soltanto nella let­
tura che il dinamismo di configurazione compie il proprio percorso».16
L’opera dunque non soltanto è totalmente rivolta al futuro lettore, ma
addirittura prevede questo lettore e prepara per lui « l’esperienza vi­
va»11 della lettura.
È possibile captare l’immagine di lettore che questa esperienza di
lettura genera? È possibile parlare di un tipo di lettore (in)formato non

13 H . G . G a d a m e r , Vérité et m éthode: les grandes lignes d ’une herm éneutique philo-


sophique, Seuil, Paris 21976; tr. it. Verità e m etodo, Bompiani, Milano 1983, 101995.
14 U. Eco, Lector in fa b u la ou la coopération interprétative dans les textes narra-
tifs, G rasset, Paris 1985, 67; orig. it. Lector in fabula. La cooperazione interpretativa
nei te sti narrativi, Bompiani, Milano 1979, 2011.
15 P. R ic c e u r , Temps et récit II, Seuil, Paris 1984, 234; tr. it. Tempo e racconto, 2: La
configurazione nel racconto di fin zio n e , Jaca Book, Milano 1988.
16 P. R ic c e u r , Temps et récit III, Seuil, Paris 1985, 231 e 230; t r . it. Tempo e raccon­
to, 3: Il tempo raccontato, Jaca Book, Milano 1988, 244-245 e 243.
17 R i c c e u r , Temps et récit III, 247; tr. it. Tempo e racconto, 3: Il tempo raccontato, 261.

31
soltanto dal contenuto del racconto, ma anche dalla sua stessa fattura,
dalla strategia narrativa che lo organizza, dal mondo di valori che es­
so dispiega? È possibile qualificare il tipo di lettore che il testo cerca
di costruire? Noi desideriamo esplorare questa nozione ancora poco
elaborata e poco codificata,18 per tratteggiare le potenzialità di una ta­
le analisi, abbozzare una pista di ricerca e redigere una tipologia dei
vangeli. Infine, se la Chiesa antica fin dalla metà del II secolo ha inte­
so mantenere nel suo canone scritturistico la pluralità dei quattro van­
geli, non è forse in forza delle differenti figure di lettori che questa plu­
ralità generava?19

2. Vangeli in cerca di lettori


Quale tipo di lettore intende costruire ciascuno dei quattro vange­
li? Un narratore, soprattutto evangelico, non vuole soltanto racconta­
re una storia, trasmettere un’informazione; dà per scontato che la co­
struzione stessa del suo racconto agirà sul lettore. Vedremo del resto
che l’immagine del lettore costruita da ciascun vangelo trova ampia
conferma nella storia della lettura. Passeremo in rassegna, nell’ordine,
Marco, Matteo, Giovanni e Luca-Atti.

2.1. Il lettore di Marco: un lettore spiazzato


Cominciamo con il Vangelo di Marco, che distingueremo talora da
quello di Matteo per meglio delinearlo. È ben noto che il racconto di

18 A bbiamo già dato u n a traccia in passato di questa problem atica in due contribu­
ti■. D. M a r g u e r a t , «La construction du lecteur p a r le texte (Marc et Matthieu)», in C. Fo-
c a n t (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and thè N ew L iterary Criticism, Uni­

versity Press-Peeters, Leuven 1993, 239-262 (anche D. M a h g u e r a t , L'aube du christiani-


sme, B ayard-Labor et Fides, Paris-G enève 2008, 275-302) e D. M a h g u e r a t , Le Dieu des
prem iers chrétìens, Labor et Fides, Genève 42011, 183-199; tr. it. Il Dio dei prim i cri­
stiani, Boria, Roma 2011.
19 Si potrebbe obiettare che un testo non costruisce necessariam ente un lettore, m a
un'infinità di lettori, proprio come genera u n a infinità di letture. Tuttavia consideriam o
che nella m isura in cui un racconto è u n ’entità fin ita , che è testim one di un a strategia
n arrativ a specifica, è possibile qualificare il suo orientam ento fondam entale e affiliarlo
a una tipologia, p u r am m ettendo pun ti di vista secondari latenti.

32
Marco si presenta come una successione rapida e frammentata di pic­
cole unità narrative. Il narratore infila di seguito una cascata di micro­
unità (parabole, incontri, guarigioni, dialoghi), in una successione ra­
pida che tiene il lettore con il fiato sospeso. Nel ritmo precipitoso del
racconto, colpisce la successione di parole senza risposta, di movi­
menti abbozzati, iniziati ma incompiuti. Certo, la critica della forma
letteraria o storia delle forme CFormgeschichte) ci ha insegnato a iden­
tificare, in questa successione di frammenti, la compilazione di unità
formali originariamente concepite in seno alla tradizione orale, poi col­
legate tra loro dall’evangelista nel suo racconto. Ma, a prescindere dal­
la genealogia di questa composizione, qual è l’effetto di questo dispo­
sitivo narrativo?

G e s ù c h e si s o t t r a e

Questa progressione spezzata è nettamente percettibile nella ge­


stione dello spazio. In questo racconto, Gesù si sposta in continuazio­
ne, passando dai luoghi deserti alla casa, dalla via alla sinagoga, dal­
la riva del mare alla montagna. Il lettore viene trascinato da un micro­
episodio all’altro, ciascuno dei quali si svolge in un luogo diverso. Il to­
no è dato già dai primi versetti del Vangelo, dove si passa dal deserto
(1,4) al fiume Giordano (1,5), dal Giordano al deserto (1,12), dal de­
serto alla Galilea (1,14), dalla Galilea alla riva del mare (1,16), dalla ri­
va del mare a Cafàmao (1,21), e così via. Lungo i primi dieci capitoli
di Marco, possiamo contare non meno di cinquantaquattro cambia­
menti di luogo, mentre per l’equivalente periodo Matteo ha venti capi­
toli e riduce a quarantasette il numero degli spostamenti. Si può quin­
di dire che in Marco, prima del racconto della passione, la mobilità di
Gesù è un tratto del personaggio ancor più importante della prospetti­
va della sofferenza. Quale tipo di lettore costruiscono due gestioni del­
lo spazio così differenti tra loro come queste di Marco e di Matteo?
Cominciamo col gettare uno sguardo sulla prima manifestazione
pubblica del Gesù di Marco, la giornata a Cafarnao (Me 1). Questa gior­
nata assume un ruolo programmatico nell’interno del Vangelo: si apre
con un esorcismo in sinagoga (1,21-28), prosegue con una guarigione
nella casa di Simone e di Andrea (1,29-31) e si conclude dopo il tra­
monto del sole presso la porta della città (1,32-34). In Marco questi tre
luoghi sono simbolici: la sinagoga è il luogo dell’autorità liberante di
Gesù, la casa è simbolo della prossimità con i discepoli, lo spazio aper­

33
to simboleggia l’affluenza della folla. Ora, proprio nel momento in cui
l’evangelista ha appena notato l’affluenza dei malati intorno a Gesù,
che «non lasciava parlare i demòni perché essi lo conoscevano» (1,34),
si verifica un episodio curioso che Matteo non ha riportato. È la scena
della fuga di Gesù in un luogo deserto, dove Simone e i suoi compagni
alla fine lo ritrovano (1,35-38). «Trovatolo, gli dicono: “Tutti ti cerca­
no!”. Ed egli dice loro: “Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, per­
ché io annunci anche là; per questo infatti sono uscito!”» (1,37-38).
L’assenza di Gesù è drammatizzata dalla annotazione insistita della
sua partenza («si alzò, uscì e se ne andò»: 1,35) e dall’intensità del­
l’inseguimento e della ricerca («tutti ti cercano!»: 1,37).
Chiaramente, la scena ha messo a disagio Matteo, al quale non pia­
ce l’idea che si insegua Gesù, e l’immagine di un Gesù che fugge di na­
scosto contravviene alla sua visione del Messia a disposizione delle fol­
le; l’episodio, quindi, strideva con la sua cristologia. Di solito i com­
mentatori staccano questa scena dalla giornata a Cafarnao. È un erro­
re, perché essa ai tre precedenti luoghi simbolici (la sinagoga, la casa,
il luogo aperto) ne aggiunge un quarto, il luogo deserto, così impor­
tante nella topologia del secondo Vangelo. La scena organizza la fuga
di Gesù e la ricerca dei discepoli per ritrovarlo, e da quel momento la
domanda centrale posta dalla giornata a Cafàrnào non è «Chi è Ge­
sù?». Chi egli è, lo ha dichiarato subito lo spirito impuro («Io so chi tu
sei: il santo di Dio»: 1,24), e i demòni lo sanno (1,34). La domanda non
è Chi è Gesù?, ma Dov'è Gesù? In altre parole, appena l’identità di Ge­
sù viene proclamata, ecco che l’interessato si defila. Abbiamo qui una
struttura propria di Marco, che si ripercuoterà lungo tutto lo svolgi­
mento del racconto.
La moltiplicazione delle partenze di Gesù, elaborata dal narratore
fino all’eccesso dal capitolo 1 al capitolo 10, situa il lettore alla pre­
senza di un Cristo che se ne va, di un Cristo che precede, di un Cristo
costantemente al di sopra di ogni possibilità umana. Ogni risposta sul­
l'identità di Gesù è rimessa in gioco dalla sua partenza. La nostra ipo­
tesi di lettura è che Gesù sfugga non soltanto ai discepoli, ma conti­
nuamente anche al lettore, spostandosi velocemente da un luogo al­
l’altro, così che la questione della sua identità si riapre proprio quan­
do la si ritiene risolta.

34
U n a l o g ic a di s p o s t a m e n t o

In appoggio a questa tesi interviene un’osservazione classica fatta


sulla geografia di Marco: in questo vangelo la topografia palestinese è
assolutamente carente; l’evangelista conosce male la geografia della
Palestina e commette degli errori. Il suo interesse per i viaggi di Gesù
non è di tipo documentaristico. La logica narrativa di Marco non è gui­
data da una geografia palestinese, o da un luogo preciso, fosse anche
la casa, ma sta tutta nello spostamento: la logica è lo spostamento.20
Precisiamo il concetto: è lo spostamento di Gesù, perché dopo 1,38, do­
vremo aspettare 4,35 per vedere il Maestro accompagnare i discepoli
- ma quale accompagnamento, dato che, nella barca scossa dalla tem­
pesta, Gesù subito si assenta addormentandosi! Pietro ha appena iden­
tificato una coerenza nella propria scoperta di Gesù confessandolo co­
me Messia («Tu sei il Cristo»: 8,29) ed ecco che questa confessione va
in frantumi sotto la pressione dell’annuncio della sofferenza (8,32-33).
Ancora una volta vediamo che la sintassi narrativa non è mai liscia,
ma continuamente fratturata.
Più avanti vedremo che Matteo ha assunto l'andamento opposto,
perché, nella sua narrazione, la mobilità di Gesù è costantemente fre­
nata da lunghe soste dove la parola del Maestro è offerta ai discepoli
e alle folle: sono i grandi discorsi del primo Vangelo. Inoltre Matteo,
per descrivere la condizione del credente, ha scelto il termine della se­
quela (akolouthein, seguire). Credere è seguire (Mt 4,20.22.25 ecc.). Il
lettore di Matteo è invitato a ritrovarsi nella figura del discepolo che il
Maestro chiama alla sua sequela, una condizione che si concretizza
nell’ascolto dell’insegnamento, in una comunione di destino con Gesù
e nella rottura con il mondo. La differenza è netta: dove Matteo insiste
sulla sequela del discepolo che accompagna un Maestro che lo prece­
de, Marco punta su un Signore che se ne va. Il lettore di Matteo è orien­
tato sulla difficoltà della sequela; il lettore di Marco è disorientato da
un Signore inafferrabile. Il lettore di Matteo vede il proprio posto trac­

20 Citiamo qui la felice espressione di É. T r o c m é : «La confusione topografica risul­


tante dalla moltiplicazione di queste p artenze [di Gesù] nei capitoli da 3 a 10 gli [a M ar­
co] interessa assai poco, poiché essa serve al suo desiderio di m ostrare un Gesù che se
ne va» (corsivo nostro) (La fo rm a tio n de VÉvanqile selon Marc, EHPR, S trasbourg 1963,
61, nota 238).

35
ciato ai piedi del Maestro; il lettore di Marco, appena si è accomodato,
vede il Maestro che se ne va.

I l M e s s ia in a f f e r r a b il e

L’itineranza di Gesù nel secondo Vangelo trova il proprio correlato


nella ricorrenza sistematica delle famose consegne di silenzio. «E Gesù
raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo», anno­
ta l’evangelista dopo la risurrezione della figlia di Giàiro (5,43). Dopo le
guarigioni (1,44; 5,43; 7,36; 8,26), dopo gli esorcismi (1,25.34; 3,12) o
dopo le confessioni di fede (8,30; cf. 9,9), Gesù comanda di tacere quan­
to egli ha appena compiuto o quanto è stato svelato della sua identità.
Se accostiamo queste consegne a quanto appena detto, constatia­
mo che le consegne di silenzio esercitano lo stesso effetto del motivo
dell’mafferrabilità di Gesù, spostato questa volta sul registro del di­
scorso. Gesù, come si sottrae alla vista delle folle, così sottrae la pro­
pria identità proibendo che sia propagata. In altri termini, nel Vange­
lo di Marco l’itineranza di Gesù e i divieti di parlare condividono una
medesima struttura teologica, che possiamo definire come la sua cri­
stologia del segreto (messianico). In modo assai preciso, l’itineranza di
Gesù in Marco offre alla cristologia del segreto la sua configurazione
narrativa. Questi due procedimenti letterari partecipano infatti a una
medesima volontà autoriale di preservare l’identità di Gesù da ogni im­
mediatezza. Nella strategia narrativa mar ciana c’è una totale coeren­
za: quello che le consegne di silenzio esprimono sul piano discorsivo,
la costante mobilità di Gesù lo trascrive sul piano narrativo, in quanto
anch'essa sottrae Gesù alla captazione dei personaggi del racconto.
Un testo lo illustra in modo splendido: l'esorcismo nella sinagoga di
Cafarnao (1,23-27). Proprio in quest’occasione scatta la prima conse­
gna di silenzio voluta da Gesù nel Vangelo («Taci! Esci da quest’uo­
mo!»: 1,25). Ma osserviamo bene quando scatta questa consegna di si­
lenzio: si manifesta in occasione del primo atto pubblico di Gesù nel
Vangelo, che inaugura il suo ministero, ed è un esorcismo. Il narrato­
re presenta di colpo all’intenzione del lettore il potere del Figlio di Dio
sul mondo degli spiriti. Questo potere è liberante. Ma al tempo stesso,
in questo gesto inaugurale dal valore programmatico, Marco - ed ecco
l'aspetto straordinario - denuncia al lettore come demoniaca l’appro­
priazione del sapere riguardo al Cristo. «Io so chi tu sei: il Santo di Dio.
Gesù lo minacciò dicendo: “Taci! Esci da quest’uomo!”» (l,24b-25a).

36
Perché Gesù gli ordina di tacere? Forse perché si tratta di uno spirito
impuro? Ma lo spirito dice il vero! Allora, perché imporgli di tacere? A
nostro parere, qui viene denunciato come un fatto demoniaco il cre­
dersi detentore del mistero cristologico. Captare Gesù in una formula,
anche ammesso che fosse vera, è l’errore cristologico da non commet­
tere. Per capire chi è Gesù, bisogna attendere la sofferenza e la croce.
La motivazione della fuga di Gesù all’indomani di buon mattino, di cui
abbiamo parlato sopra, porta la stessa connotazione teologica: il Mes­
sia sfugge a quanti vogliono rinchiuderlo nel ruolo del taumaturgo.

U n ’id e n t it à a p e r t a

Eppure sembrava che tutto fosse già detto all’inizio. Primo verset­
to del racconto: «Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1).
Questo «inizio» non è forse altro che una metonimia del Vangelo stes­
so, come suggerisce Jean Delorme?21 In ogni caso tutto avviene come
se, dopo aver detto con il titolo Figlio di Dio tutto quanto c'era da dire
sull’identità di Gesù, il narratore tentasse ogni via per problematizza­
re l’accesso a questa identità, a narrativizzarne la difficoltà, a mettere
in racconto la non-immediatezza di questa confessione di fede.
Vediamo un ultimo testo, quello della trasfigurazione (Me 9,1-13).
Agli occhi dei tre discepoli appaiono Gesù trasfigurato, Elia e Mosè che
conversano con lui. Merita di essere notata la collocazione strategica di
questo episodio, subito dopo la confessione di Pietro a Cesarea e il pri­
mo annuncio della passione (8,27-38). Inoltre, la sua funzione nello sce­
nario evangelico non è affatto insignificante: con la trasfigurazione, l’at­
testazione messianica trova il suo apice e al tempo stesso è annunciata
irrimediabilmente la sofferenza del Figlio dell’uomo (9,12).22 La narra­
zione di Marco raggiunge qui un vertice, e Matteo non ha tolto nulla a
questa intensità cristologica. Tuttavia, la gestione di questo colloquio ce­
leste risulta ben diversa in Marco e in Matteo dal punto di vista che ci
interessa, cioè l’effetto sui discepoli. Alla voce celeste che proclama:

21 J. D e l o r m e , «Évangile et récit. La n a rra tio n évangélique en Marc», in New Testa-


m ent Stu d ies 43(1997), 367-384. Cf. anche L’heureuse annonce selonM arc. Lecture in­
tégrale du 2 e évangile I, Cerf-M édiaspaul, Paris-M ontréal 2009, 33-40.
22 In m ode ben chiaro: B. S t a n d a e r t , Évangile selon Marc. Commentaire. D euxièm e
partie: M arc 6,14 à 10,52, Gabalda, Pendè 2010, 605-607: tr. it. Marco: Vangelo di una
notte, vangelo per la vita. Commentario, EDB, Bologna 2011, II, 499-500.

37
«Questi è il figlio mio, l’amato, in cui mi compiaccio; ascoltatelo!» (Mt
17,5), i discepoli di Matteo reagiscono con una prosternazione trepi­
dante, e ne sono risollevati da Gesù; poi, in un dialogo privato con il
Maestro, l’obiezione degli scribi a proposito di Elia viene superata con
l’affermazione che Elia è già venuto: «Allora i discepoli compresero che
egli parlava loro di Giovanni il Battista» (Mt 17,13). La tradizione della
trasfigurazione viene elaborata in Matteo con una cristologia dello sve­
lamento. I discepoli di Marco, invece, nulla lasciano trasparire: né pro­
sternazione con risollevamento da parte del Maestro, né comprensione.
Il potenziale di senso rappresentato dalla visione del Cristo glorificato
in conversazione con Elia e Mosè viene immediatamente represso da
una consegna di silenzio, la cui validità è limitata (fatto unico in Marco)
fino alla risurrezione del Figlio dell'uomo (Me 9,9); ma i discepoli non
comprendono «cosa volesse dire risuscitare dai morti» (9,10). Attra­
verso questo commento il lettore viene interpellato per sapere se è ca­
pace di capire meglio di loro: non tanto l’idea generale di risurrezione,
che va da sé, ma la risurrezione di Gesù, che lascerà le donne al sepol­
cro nel medesimo stato di costernazione (16,8). Qui tocchiamo con ma­
no a qual punto il motivo dell’incomprensione dei discepoli in Marco
non risponda a un interesse storico, ma piuttosto abbia di mira il letto­
re e lo interpelli circa la propria capacità di intendimento.

Il l e t t o r e in e s i l i o

Concludiamo con la domanda: che cosa ci fa un tale racconto? Che


tipo di lettore costruisce? Appare chiaro che, fin dall’inizio, il raccon­
to di Marco resiste a ogni chiusura sistematica, a ogni parola conclu­
siva. Esso blocca ogni tentativo di dominio del sapere teologico. Ricor­
diamo che nel Vangelo il primo che dichiara «Io so chi tu sei: il Santo
di Dio!» (1,24), è un posseduto che si fa esorcizzare proprio nella si­
nagoga di Cafàrnào! I candidati a una precipitosa confessione cristo­
logica sono avvisati... Perfino una dichiarazione teologicamente cor­
retta è ricusata in quanto intempestiva. Corina Combet-Galland ha par­
lato di un «sapere in briciole»23 per qualificare questo sbriciolamento

23 C . C o m b e t - G a l l a n d , Le Dieu du jeu n e homme nu. Lectures de Vévangile de Marc. Re-


lecture d'an parcours sém iotique {tesi di dottorato non pubblicata), Neuchàtel 1998, 299.

38
della conoscenza istillato da un racconto in cui quello che si credeva di
sapere è incessantemente sottoposto a scosse e l’intelligenza dei di­
scepoli è costantemente ostacolata. Costituiti al capitolo 4 nello stato di
iniziati al mistero del Regno di Dio («A voi è dato il mistero del Regno
di Dio, ma per quelli di fuori, tutto diventa enigma»: 4,11), i discepoli
sono rimproverati da Gesù al capitolo 8 dopo il duplice miracolo dei
pani: «Non comprendete ancora?» (8,21). Constatando che il narrato­
re prima riconosce e successivamente ritira al discepolo, figura del let­
tore, la condizione di iniziato al quale questi ambisce, Yvan Bourquin
giustamente conclude: «La strategia di Marco nei riguardi del suo let­
tore si focalizza sui temi antinomici dell’apertura e della chiusura; que­
sto gioco sottile e complesso è la configurazione narrativa di una real­
tà che segna in profondità l’esistenza umana: posto davanti a Dio, del
quale il racconto dà testimonianza, anche il “soggetto leggente” cono­
sce l’esperienza dell’ombra e della luce, del limite invalicabile e dell’a­
pertura infinita; teologia dell’esistenza e teologia narrativa trovano co­
sì la loro articolazione in una teologia della speranza».24
Il lettore costruito dal Vangelo di Marco è un lettore scosso; è un
lettore sopraffatto da un sovrappiù di sapere al quale è invitato - e que­
sto sovrappiù di sapere non è altro che l’inimmaginabile novità di un
Dio che si dà a vedere nell'itinerario mortale dell’uomo di Nazaret. Il
velo del Tempio, che si squarcia davanti alla croce (15,38), inaugura
simbolicamente l'esilio di Dio fuori del luogo sacro, il suo esilio verso
le nazioni. Il lettore di Marco appare così anche come un lettore in esi­
lio, un lettore dirottato, messo su altra via, destabilizzato nelle sue pre­
tese di sapere, instancabilmente interrogato sulla domanda: «Come co­
noscere Dio?».
Da un capo all’altro del Vangelo, il Gesù di Marco è impegnato a es­
sere altrove rispetto al luogo in cui lo si cerca. Alla fine la sua identità
è svelata dal centurione sotto la croce («Davvero costui era Figlio di
Dio!»: 15,39).25 «Ciò che i demòni sapevano, ma che dicevano nel mo­
do più disdicevole (1,25; 1,34 e 3,12), ciò che la voce del cielo aveva

24 Y. B o u r q u in , Marc, une théologie de la fra g ilité. Obscure clarté d ’une narration,


Labor et Fides, Genève 2005, 123-124.
25 Y. B o u r q u in h a dedicato a questo testo un libretto: La confession du centurion. Le
Fils deD ieu en croix selon Vévangile de Marc, Editions du Moulin, Poliez-Ie-Grand 1996.

39
proclamato per Gesù solo (1,11) o per alcuni discepoli sconvolti (9,7),
questa intima relazione che Gesù intratteneva col Padre suo (14,32-42)
ora è cosa pubblica, e tutto questo si avvera al momento della morte
del figlio».26 Ma questa confessione è una dichiarazione tardiva: Gesù
è già morto quando il centurione intuisce la sua identità. E a pasqua,
davanti alla tomba aperta, le donne sapranno con sorpresa che egli
non è lì e che precede i discepoli in Galilea (16,6-7). Il Gesù di Marco
sfugge ai personaggi del racconto fin oltre la tomba...
Questo sottrarsi è metafora di un’alterità, di un altrove, di un’altra
terra dove il lettore è invitato a conoscere personalmente il Vivente. La
Galilea promessa al lettore di Marco non è il luogo in cui i credenti fi­
nalmente metteranno le mani su di lui, ma dove egli non cesserà di
precederli, di stare davanti.

2.2. Il lettore di Matteo: lui lettore costruito


Tutt’altro è l’effetto del testo di Matteo sul lettore.
Nella sua monografìa Matthew s Narrative Web,27 Janice Capei An­
derson si rivela attenta all1intreccio narrativo che il narratore tesse me­
diante il procedimento di ridondanza, caratteristico di questo Vangelo.
Ogni lettore del primo Vangelo conosce le ridondanze verbali che spun­
tano come ritornelli nel corso del testo: formule d’introduzione alle ci­
tazioni di compimento («questo avvenne perché si compisse ciò che il
Signore aveva detto per mezzo del profeta...»),28 formule d’introduzio­
ne alle parabole («il Regno dei cieli è simile a. 29,(«‫ ״‬o ancora formule
che minacciano la condanna escatologica («là sarà pianto e stridore di
denti»).30 Noi tocchiamo con mano lo sforzo insistente del narratore
che tende a saturare l’informazione con questo fenomeno di ripetizio­
ne o ridondanza.

L’évangile de Marc, B ayard-Labor et Fides, Paris-Genève 2002, 305.


26 É . C u v i l l i e r ,
27 J.C. A n d e r s o n , M a tth e w ’s N arrative Web. Over, and Over, and Over Again, JSOT
Press, Sheffield 1994.
28 Mt 1,22; 2,15.17.23; 4,14; ecc.
29 Mt 13,24; 18,23; 22,2; 25,1.
30 Mt 8,12; 13,42.50; 22,13; 24,51; 25,30.

40
Leggendo il primo Vangelo, possiamo dire di assistere allo spiega­
mento di una pedagogia di sazietà cognitiva. Questa pedagogia si situa
all’opposto di Marco, perché lavora con la completezza, con la confer­
ma del detto attraverso il dire, che conduce il lettore di Matteo a un
rapporto con la conoscenza che chiama in causa precisamente il rac­
conto di Marco. Là dove il lettore del secondo Vangelo è frustrato, quel­
lo del primo Vangelo è saziato. Non ci si stupirà di non rintracciarvi al­
cuna eco dello scenario marciano di decostruzione della condizione di
iniziato applicato alla figura dei discepoli; i discepoli di Matteo, al con­
trario, sono associati positivamente all’intimità del Maestro e benefi­
ciari costanti del suo insegnamento. «Beati i vostri occhi perché vedo­
no, e i vostri orecchi perché ascoltano», dice il Gesù matteano ai di­
scepoli (13,16), mentre il Gesù di Marco ammonisce i suoi: «Non capi­
te questa parabola? Allora come potrete comprendere tutte le parabo­
le?» (4,13).
Ciò non significa che il lettore, a immagine dei discepoli nella sto­
ria raccontata, non sia modificato o spiazzato nel suo sapere‫־‬, ma il
rapporto con questo sapere, anziché essere problematizzato come in
Marco, viene dato positivamente.31 È appunto pensando a questo sfor­
zo di offrire sazietà attraverso la ridondanza che si parlerà del lettore
di Matteo come di un lettore costruito.

Un r a c c o n t o m e s s o in d i s c o r s i

Un altro aspetto caratteristico della narrazione matteana sta nel


fatto che essa è continuamente interrotta da discorsi. Matteo non è cer­
to l’unico evangelista a procedere in questo modo; ma lo fa così siste­
maticamente che, forzando un po’ la formula, si può dire che il suo
vangelo è un racconto messo in discorsi, mentre per Luca-Atti si par­

31 La differenza fondam entale fra Matteo e Marco a questo riguardo è che il disce­
polo m atteano, figura del lettore credente dell'evangelo, è dotato di com prensione. Cre­
dere, p er Matteo, significa com prendere «i m isteri del Regno dei cieli» (Mt 13,11). Men­
tre in Marco i discepoli tendono costantem ente a non capire (Me 4,13; 6,52; 8,17.21;
9,10), Matteo non sm ette di esaltare la condizione dei discepoli-lettori, gratificati dalla
benedizione di com prendere (Mt 13,11.13.19.23.51; 15,10; 16,12; 17,13). Cf. D. M a r ■
g u e r a t , L ’aube du christianism e. B ayard-Labor et Fides, Paris-Genève 2008, 292-299.
lerà piuttosto di discorsi messi in racconto. L’arte di Luca consiste, in­
fatti, nel combinare discorsi e racconto in una maglia strettissima,
mentre Matteo procede creando larghi raggruppamenti tematici. Ci
soffermiamo ora su questo fenomeno di sequenzializzazione del ma­
cro-racconto, che mette in luce un’architettura propria del primo Van­
gelo: è l’alternanza racconto/discorso.
Matteo è il solo ad aver fatto di questa alternanza un principio che
struttura la narrazione. Cinque grandi discorsi scandiscono la narra­
zione: il primo è il discorso della montagna (Mt 5-7), poi il discorso
missionario (Mt 10), l’insegnamento in parabole (Mt 13), il discorso co­
munitario (Mt 18). L’ultimo discorso raggruppa i rimproveri agli scribi
e farisei (Mt 23) e il discorso escatologico (Mt 24-25). Il narratore pre­
dispone dunque nella narrazione cinque pause, o piuttosto cinque for­
ti rallentamenti del tempo narrativo; infatti la parola riportata abbas­
sa in modo spettacolare l’andatura della narrazione. Riportare la pa­
rola di un locutore è il mezzo di cui un narratore dispone per rallen­
tare il ritmo del racconto, al punto che la sua velocità finisce per coin­
cidere con quella della storia narrata. In questo contesto, il racconto
assume la velocità del discorso.32 In teoria, il lettore decifra il discorso
della montagna alla stessa andatura con cui il Gesù di Matteo lo pro­
clama. C’è sincronia tra il tempo narrante e il tempo narrato. Inoltre,
il soggetto parlante (il locutore) riceve un duplice uditorio: prima an­
cora della finzione dell'uditorio della storia raccontata (Gesù parla ai
suoi discepoli o alle folle), il locutore si rivolge al narratario. In altre
parole, il discorso, soprattutto se è lungo, in qualche modo diserta la
storia raccontata per passare a un registro cognitivo in cui il narrato­
re si rivolge più direttamente al lettore.

L ’in t r e c c io r a c c o n t o / d isc o r s o

Che effetto va conservato di queste vaste spiagge discorsive? Il di­


scorso è definito come un luogo di comprensione del racconto: il letto­
re vi riceve alcune chiavi che facilitano il controllo permanente della

32 Per xana tipologia del tem po n a rran te, o se si preferisce della velocità della n a r­
razione, si p o trà consultare M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. In izia ­
zione-all’analisi narrativa, 97-101.

42
narrazione.33 Reciprocamente, il racconto dovrebbe confermare e con­
validare la parola riportata. C’è un’azione del racconto sul discorso e
del discorso sul racconto. Il discorso si nutre del racconto e il racconto
s’iUumina per mezzo del discorso. Questo intreccio racconto-discorso è
forse casuale, proprio in questo Vangelo che insiste con il massimo vi­
gore sulla convalida della parola mediante l’atto? «Non basta dirmi “Si­
gnore, Signore” per entrare nel Regno dei cieli; ma bisogna fare la vo­
lontà del Padre mio che è nei cieli» (7,21). Il discorso della montagna
si conclude con la parabola dei due costruttori di case (7,24-27), dove
ascoltare e mettere in pratica le parole appena udite equivale a essere
il costruttore che edifica la sua casa sulla roccia e non sulla sabbia.
Classicamente, gli esegeti di Matteo hanno separato racconto e di­
scorso per trattarli a parte, il primo sul registro biografico, il secondo sul
registro dottrinale. Ma è ovvio che il narratore ha composto la sua nar­
razione come un intreccio di racconto e di discorso, e non con l’inten­
zione di giustapporli. Ecco un piccolo saggio di questa reciproca connes­
sione: il famoso enunciato di Mt 5,17: «Non crediate che io sia venuto ad
abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto ad abolire, bensì a compie­
re». Dal punto di vista della retorica del discorso, questo enunciato è con­
siderato, a ragione, come la tesi portante del discorso della montagna;
esso si concretizza nella rilettura della Torah alla quale Gesù poi si dedi­
ca (5,21-7,12).34 Ma la portata della «tesi» si riduce davvero a questo di­
scorso? Osserviamo che in precedenza, al capitolo 4, il racconto delle ten­
tazioni nel deserto mette in gioco il rapporto di Gesù con la Scrittura: Ge­
sù respinge le proposte di Satana appoggiandosi su tre citazioni del Deu­
teronomio (Dt 4,4.7.10). La dichiarazione di Mt 5,17 fornisce dunque una
conferma discorsiva a quanto Gesù ha precedentemente vissuto e speri­
mentato: il compimento della Legge e dei Profeti (5,17) è sovrastato dal­
la sua sottomissione alla Parola (4,1-11). Il suo fare ha preceduto il suo
dire, la fedeltà vissuta ha preceduto la dottrina. Questo per quanto ri­
guarda il nesso del significante con la parte precedente del racconto.

33 Lo abbiam o illustrato a proposito della n arrazio n e lucana nel contributo: «Le dis-
cours, lieu de (re)lecture du récit», in D. M a r g u e r a t (ed.), La Bible en récits. L ’exégèse bi-
blique à Vheure du lecteur, Labor et Fides, Genève 2003, 395-409.
34 U. Luz h a espressam ente p resentato questo dispositivo retorico di Mt 5 -7 in Dos
Evangelium nach M atthàu s (M t 1-7), Benziger-Neukirchener, Dùsseldorf-NeuM rchen
52002, 253-255; tr. it. Vangelo di M atteo, Paideia, Brescia 2 0 1 0 ,1.

43
Il discorso della montagna sviluppa soltanto il versante «Legge»;
cos’è allora il compimento della Legge e dei Profeti? La sequenza im­
mediatamente successiva, ai capitoli 8 e 9, presenta una serie di rac­
conti di miracoli di cui i primi tre si concludono con la formula già ci­
tata: «perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profe­
ta» (8,17); la citazione annunciata è Is 53,4. Il séguito della narrazio­
ne sviluppa così la dimensione profetica. La portata della tesi di Mt
5,17 non va dunque limitata al discorso che essa introduce; si rivela di
un’ampiezza nettamente maggiore, capace di irradiare il racconto a
monte e a valle, e di sovrastarlo con la sua incisiva formulazione.35
Concludiamo sul primo Vangelo. La sua funzione strutturante, edi­
ficante, sistematica, non poteva che convenire a una Chiesa alla ricer­
ca di compendi catechetici e di formule dottrinali precise. Il lettore di
Matteo è un lettore edificato nella comunità, un lettore costruito nella
Chiesa e come la Chiesa.

2.3. Il lettore di Giovanni: un lettore iniziato


Il quarto Vangelo è caratterizzato da un uso intensivo del linguag­
gio simbolico. Il simbolismo non è esclusivo di questo Vangelo, ma rag­
giunge qui una frequenza e un’intensità senza pari nel Nuovo Testa­
mento. L’acqua viva, la luce del mondo, il pane del cielo, l’agnello di
Dio, il buon pastore, la vite... La simbolica giovannea ha fatto fortuna
nel linguaggio cristiano.
Da questa evidente constatazione dobbiamo subito tirare la conse­
guenza in pragmatica della comunicazione: il linguaggio simbolico è
un linguaggio da iniziato. La samaritana del capitolo 4 non compren­
de nulla del discorso di Gesù che le chiede dell’acqua, finché non ac­
cede al senso simbolico dell’acqua che lui le offre: attaccata al senso
corrente, lei ne resta fuori. E i discepoli, alla fine di questo stesso ca­
pitolo 4, finché persistono nel pensare che Gesù parli del solito man­

35 É . C u v i l l i e r offre la dim ostrazione all’insiem e della n arrazio n e m attean a nel suo


contributo: «La Loi comme réalité avant‫־‬dem ière: M atthieu 5,17-20 et son déploiem ent
n a rra tif dans l’évangile de M atthieu» in E. S t e f f e k - Y. B o u h q u i n (edd.), Raconter. inter-
préter, annoncer. Parcours de N ouveau Testament. M élanges D. M arguerat, Labor et Fi­
des, Genève 2003, 81-91.

44
giare, mentre invece parla della volontà di Dio come di un cibo che egli
riceve (Gv 4,32-34), sono incapaci di passare al più fondamentale cre­
dere che viene proposto loro da Gesù. Al pari del malinteso di cui par­
leremo fra poco, e che è un’altra caratteristica giovannea, l’uso del lin­
guaggio simbolico serve a scopo didattico: appare al centro dei grandi
discorsi cristologici con i quali l’evangelista espone al lettore la sua
concezione della rivelazione.

C o m e l e g g e r e il V a n g e l o

Il linguaggio simbolico, se è un linguaggio da iniziato, insegna al


lettore come leggere il Vangelo. Quando ha sentito Gesù proclamare in
8,12 «Io sono la luce del mondo», allora il lettore comprenderà la di­
mensione simbolica della guarigione del cieco dalla nascita, che tro­
viamo immediatamente dopo al c. 9: vedere davvero, lasciare la pro­
pria cecità nativa significa credere al Cristo; ecco perché ogni lettore è
cieco dalla nascita. Di conseguenza, l’ultima parola dell’uomo guarito
non è: «io vedo», ma: «io credo, Signore» (9,38). Il lettore, la lettrice
capiranno anche perché Giuda lascia Gesù dì notte per andare a con­
segnarlo (13,30), perché Maria di Magdala va al sepolcro quando è an­
cora buio (20,1) o anche perché i discepoli del c. 21 hanno pescato tut­
ta la notte senza prendere nulla, fino al mattino quando incontrano il
Risorto. La metafora «luce del mondo» funziona come un segnale po­
sto all’inizio del libro, che sensibilizza il lettore alla simbolica luce-te­
nebre ogni volta che essa appare in seguito.
Si potrebbe fare la stessa dimostrazione con l’acqua, il cui simbolo
appare in Gv 2 (Cana), poi in Gv 3 (Nicodemo), in Gv 4 (la samarita­
na), in Gv 5 (il paralitico di Betesda o Betzatà), ecc., fino alla crocifis­
sione, dove sgorga dal fianco del Cristo (19,34), liberata - o ironia! -
dal colpo di lancia di un soldato. Assistiamo in questo modo a una stra­
tegia di formazione, di progressiva iniziazione, attraverso la quale il
narratore fa entrare il lettore nel mondo dei valori che intende pre­
sentargli. Senza accorgersene immediatamente, il lettore di questo
Vangelo è l’oggetto di un processo coerente di apprendimento: il leg­
gere fa di lui un iniziato, e più riprenderà la lettura del Vangelo di Gio­
vanni, più scoprirà le molteplici risonanze che il testo mette in azione
in profondità.
Quando i padri della Chiesa hanno qualificato il Vangelo di Giovan­
ni come Vangelo «spirituale», dicevano proprio questo. Il che non signi­

45
fica che questo Vangelo sia meno carnale, meno incarnato di un altro,
ma che il senso ovvio racchiude sistematicamente un senso nascosto.
Il linguaggio è costantemente a doppio fondo, si apre a una dimensio­
ne simbolica, a un percorso spirituale, di cui solo l'iniziato scopre a po­
co a poco il cammino. Nella teoria dei quattro sensi della Scrittura, il
senso ultimo è in effetti quello spirituale.
Si deve notare che dopo secoli di un’esegesi focalizzata sui discor­
si, la dimensione narrativa del quarto Vangelo è stata ri valorizzata dal­
l’analisi narrativa. Il pioniere ne è stato Robert Alan Culpepper, nel suo
studio del 1983: Anatomy o f thè Fourth Gospel.36 In seguito, l’atten­
zione si è focalizzata sulle tre procedure maggiori della retorica gio­
vannea: il malinteso, l'ironia, la simbolica.

P a r l ia m o di ir o n ia

L’ironia è una procedura assai sottile, che consiste nel lasciar in­
tendere che si vuol dire il contrario di quanto vien detto. L’ironia sov­
verte il senso ovvio per far indovinare - dall’iniziato, naturalmente -
che il vero significato è l’inverso di quanto detto.37 Quando, nel corso
della passione, Pilato dichiara alla folla di Gerusalemme: «Ecco il vo­
stro re» (Gv 19,14), la folla risponde urlando: «A morte!». Ma il letto­
re iniziato - diciamo, il lettore cristiano - sa che, senza saperlo, Pilato
dice il vero: Gesù è il Messia, il re dei giudei. Pilato, credendo di affib­
biare a Gesù il titolo derisorio di re secondo l’intenzione della folla che
non ne vuole proprio sapere, dichiara proprio ciò che il lettore inizia­
to accoglie come una verità di fede.
Quando il sommo sacerdote Caifa giustifica la condanna di Gesù di­
cendo: «È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo,
e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50), la sua dichiara­
zione si ispira al cinismo politico. Ma il lettore iniziato sa bene che Cai-

36 R.A. C u l p b p p e h , A n a to m y o f thè Fourth Gospel. A S tu d y in L iterary Design, For-


tress Press, Philadelphia 1983. Confronto delle letture storica e n arrativ a del quarto Van­
gelo applicate a Gv 18-19 in M.W.G. S t i b b e , John as Storyteller. N arrative Criticism and
thè Fourth Gospel, C am bridge University Press, Cambridge 1992.
37 Lo studio orm ai classico dell’ironia giovannea è quello di P.D. D u k e , Irony in thè
Fourth Gospel, John Knox Press, A tlanta 1985.

46
fa, senza saperlo, sta dicendo il vero: Gesù morirà offrendosi in sacri­
ficio per i peccati di tutti. Giovanni è maestro riconosciuto dell’ironia,
è il virtuoso dell’ironia nel Nuovo Testamento. Ma, ripeto, l’ironia pre­
suppone sempre un «doppio intendimento»; è un linguaggio in codice.
Meno conosciuta è la procedura di ironia per ambivalenza seman­
tica. Gv 19,13 ne fornisce un buon esempio, sempre nel-contesto del­
la passione. Al termine del suo lungo confronto con Pilato, Gesù lascia
il pretorio con il procuratore. Ambedue si dirigono verso il bèma dove
Pilato lo presenterà ai giudei come loro re (bèma è un termine che pos­
siamo tradurre sia con tribuna, sia con tribunale). Si deve tradurre:
«Pilato fece uscire Gesù e lo fece sedere sulla tribuna», oppure: «Pila­
to fece uscire Gesù e si sedette sulla tribuna»? Il senso non è affatto lo
stesso: Pilato installa Gesù per derisione sulla tribuna (senso transiti­
vo del verbo kathizein) o Pilato si siede come un giudice sul palco ri­
servato a questa funzione (senso riflessivo di kathizein)?38 Contraria­
mente a quanto affermano molti esegeti, noi pensiamo che il testo sia
volutamente ambiguo. Qui l’ironia si manifesta come una rottura in se­
no all’atto di enunciazione; questa procedura retorica consiste nel con­
giungere sotto una stessa immagine o una stessa espressione due si­
gnificati opposti o conflittuali, di modo che il lettore non è sollecitato a
respingerne una, ma a mantenere la tensione reciproca. Il narratore,
dunque, mira al doppio senso, per far sapere al lettore che la verità
teologica dell’evento va letta all’inverso rispetto a quanto si svolge in
superfìcie: sotto l’apparenza dell’accusato condotto in tribuna, in real­
tà è Gesù che giudica i propri giudici; la vittima, e non il carnefice, sve­
la la verità del processo che Dio intenta contro gli uomini. Ma notiamo
bene come questo doppio intendimento dipenda da un non-detto; l’e­
vangelista non lo esplicita, proprio come non consegna la chiave [di let­
tura] del malinteso di Nicodemo sulla nuova nascita (3,4-10) o del ma­
linteso della samaritana sull’acqua viva (4,11-14). Tocca al lettore ca­

38 L'inchiesta è p resen tata da J. B l in z l e r , Il processo di Gesù, Paideia, Brescia 1966,


319-326 (aspetto storico) e X. Léon-Dufour, L ettura delVevangelo secondo Giovanni, San
Paolo, Cinisello Balsamo 22007 in voi. unico, 1082-1084 (aspetto filologico). Dopo Har-
nack e Loisy, la prim a lettura è vigorosam ente difesa da I. d e l a P o t t e r i e , «Jésus ro i et
juge d 'ap rès Je a n 19,13», in Biblica 41(1960), 217-247. La seconda (più ovvia) è prefe­
rita da C . D ie b o l d - S c h e u e r m a n n , «Jesus vor Pilatus: Bine G erichtsszene. B em erkungen zur
jo h D arstellunsgweise», in Biblische N otizen 84(1996), 64-74.

47
pire l’ironia del racconto... o smarrirsi. Giovanni fa uso dell’ironia, ma
assai diversamente da Marco, poiché l’ironia generalmente non è usa­
ta contro i discepoli.
Il lettore costruito da questo testo è attratto dal lato del non-detto;
è invitato a guardare oltre le apparenze per recuperare il senso degli
eventi narrati. Nei casi accennati, si tratta di cogliere la connotazione
simbolica dell’acqua e della luce come metafore della salvezza. In tal
modo il racconto opera per costruire una competenza d’interpretazio­
ne, attirando il lettore nell’orbita di una lettura da iniziati. Jean Zum-
stein ha esplorato la dinamica di questa pedagogia del narratore par­
lando di una «strategia del credere», attraverso la quale il credente-
lettore viene coinvolto a passare da una convinzione elementare a una
fede propriamente giovannea.39 Il processo di iniziazione conduce,
dunque, il lettore, la lettrice ad adottare le categorie specifiche del
quarto Vangelo. Il lettore presupposto nell’udienza narrativa è un let­
tore che si sta iniziando alla teologia giovannea.

I l m a l in t e s o

Dopo l’uso del simbolico, che il lettore è invitato a decifrare cap­


tando i segnali a lui destinati, dopo il deciframento dell’ironia (il più
difficile da cogliere fra gli espedienti retorici giovannei), una terza astu­
zia viene a completare la panoplia retorica del narratore: il malinteso.
Prendiamo il più famoso. Al capitolo 3, Nicodemo viene a trovare Ge­
sù, che gli dice: «In verità, in verità io ti dico: a meno di nascere di nuo­
vo (greco: anòthen), nessuno può vedere il Regno di Dio» (3,3). E Nico­
demo gli replica: «Come potrebbe un uomo nascere, se è vecchio? Potrà
forse entrare una seconda volta nel seno di sua madre e nascere?» (3,4).
Il malinteso funziona con la fissazione sul senso ovvio (nascere una se­
conda volta), quando invece anòthen in greco è ambivalente e può si­
gnificare sia di nuovo sia dall’alto. A prescindere dal suo significato qui,
è fuori dubbio che la nuova nascita dev’essere intesa in senso figurato.
Ma in questa procedura, è il processo di identificazione al personaggio
che suscita riflessione. Viene spesso inteso e descritto come una specie

39 J. Z u m i s t e i n , «L'évangile de Jean: une stratégie du croire». in Id., M iettes exégé-


tiques, Labor et Fides, Genève 1991, 237-252.

48
di proiezione: il lettore è invitato a calarsi nei panni del personaggio, a
vibrare delle sue emozioni, della sua attesa o sorpresa. Ma quale offer­
ta di identificazione viene fatta al lettore iniziato del quarto Vangelo? De­
ve forse mettersi nei panni di Nicodemo che si smarrisce, non riuscen­
do a capire che la nuova nascita è una nascita dall’alto, una nascita ge­
nerata dallo Spirito, e non un secondo parto? Oppure il lettore al con­
trario deve ridere di Nicodemo che sbaglia strada, che inciampa sulle
parole e non coglie la dimensione metaforica del linguaggio di Gesù?
Il lettore deve fare come Nicodemo o rallegrarsi di non essere co­
me lui? In realtà, né l’uno né l'altro, perché il processo di identifica­
zione non è una semplice equazione. Il mondo del racconto non è un
calco del mondo del lettore. Per passare dall’uno all’altro, dal mondo
del racconto al mondo del lettore, c’è - per usare ancora una parola di
Ricoeur - rifigurazione,40 cioè appropriazione di una trama (quella del
racconto) e innesto su un’altra trama (quella della vita del lettore). Fra
questi due tracciati di vita non c’è riproduzione identica, ma attrazio­
ne, influenza, sollecitazione. La lettura è l’incrociarsi di due trame,
quella del racconto e quella della mia vita.

Il p r o c e s s o d i id e n tif ic a z io n e n a r r a t i v a

Il testo che scorre nell’atto della lettura invita dunque a identificar­


si in un processo più che in un personaggio, in una dinamica piuttosto
che in una figura narrativa. Dobbiamo abbandonare l’idea di un’iden­
tificazione mediante incollatura, mediante adesione al personaggio, e
pensare piuttosto al processo nel quale è coinvolta la figura narrativa.
In altre parole, si tratta di fissare l’attenzione non tanto sul personag­
gio, quanto piuttosto sulla trama nella quale il personaggio si trova im­
plicato. Una tale identificazione, che chiameremo dinamica a differen­
za di un’identificazione statica, è conforme alla biografia antica, che
fissa un personaggio sul suo agire più che sulla sua interiorità.

40 Secondo Ricoeur, la rifigurazione caratterizza la terza fase dell’atto di lettu ra [Mi­


m e sis III), che è lo stadio interpretativo p e r eccellenza: «In effetti, ciò che c’è da in ter­
p retare in un testo è u na proposizione di mondo, di un m ondo tale da essere abitato in
m odo da progettarvi uno dei miei possibili più propri» (P. RiccEUR,.«La funzione erm e­
neutica della distanziazione», in I d ., Dal testo a ll’azione. Saggi di erm eneutica, Jaca
Book, Milano 1989, 97-113, citazione p. 110).

49
Riprendiamo la domanda: in chi può identificare se stesso il letto­
re iniziato del quarto Vangelo? Gv 3 mette sotto gli occhi del lettore la
ricerca del fariseo Nicodemo, una ricerca che passa attraverso la de­
stabilizzazione, per lo spostamento del punto di vista, per l’abbando­
no di un sapere, per la confessione di ignoranza. È proprio il maestro
in Israele che domanda a Gesù: «Come può avvenire questo?» (3,9) e
che con la sua domanda scatena il discorso di Gesù sulla vita eterna
(3,10-21). L’autore del quarto Vangelo non ci invita a inciampare come
Nicodemo, come non ci inviterebbe semplicemente a ridere a sue spe­
se. Dipinge Nicodemo che inciampa per illustrarci la necessaria desta­
bilizzazione di un processo di scoperta teologica. Mostra che il per­
corso di iniziazione al quale il lettore è invitato s’iscrive su una linea
non continua, ma spezzata. E questa stessa frattura configura narrati­
vamente la rottura che la nascita dall’alto instaura (3,7-8). Detto altri­
menti: il racconto fa ciò di cui parla: provoca una rottura là dove par­
la di rottura, o se si preferisce, fa nascere il proprio lettore a un’altra
visione proprio là dove parla di nuova nascita.
Subito dopo, al capitolo 4, il colloquio con la samaritana riprende lo
stesso tema e lo approfondisce, adottando come chiave il medesimo pro­
cesso di malinteso. Dall’acqua attingibile al pozzo, la conversazione pas­
serà all’acqua che dà la vita, e poi all’adorazione in verità - ma, grazie al
colloquio, la donna samaritana sarà rivelata nella sua tormentata storia.
Ciò basti per il quarto Vangelo. Il lettore costruito dal racconto di
Giovanni è un lettore aspirato da un processo di iniziazione, addestrato
a decodificare il doppio senso delle parole o delle situazioni, formato a
gustare lo spessore simbolico del linguaggio. Lo stesso percorso di cer­
ti personaggi nel Vangelo dispiega sotto i suoi occhi questo percorso
iniziatico con i suoi scossoni, le sue rotture, la necessaria ricomposi­
zione delle convinzioni e - come evidenzia il cieco guarito di Gv 9 - le
difficoltà che lo aspettano.

2.4. Il lettore di Luca-Atti:


un lettore interprete della storia
Abbiamo visto che il lettore costruito da Marco è incessantemente
destabilizzato, depistato, addestrato a scoprire un Gesù che egli crede
di conoscere, ma non conosce veramente. Al contrario, il lettore di
Matteo è invitato ad ascoltare dei discorsi attraverso i quali sarà edifi­

50
cato, istruito, posto in un rapporto da discepolo a maestro. Da parte
sua, il lettore di Giovanni è attirato in un processo iniziatico di lettura,
che gli farà progressivamente scoprire il senso nascosto delle parole,
lo spessore del simbolismo e il sottile gioco dell’ironia.
Che ne è del lettore di Luca-Atti? Bisogna precisare, di primo ac­
chito, che il Vangelo di Luca è soltanto il primo volume di un’opera in
due parti, dato che il Vangelo ha il suo séguito negli Atti degli aposto­
li. Quest’opera del medesimo autore è stata scissa in due volumi per
ragioni pratiche. Quando il canone del Nuovo Testamento si è pro­
gressivamente costituito, nel corso della prima metà del II secolo, i
quattro vangeli sono stati raggruppati insieme, e così il libro degli At­
ti è venuto a trovarsi separato dal suo primo tomo e isolato. Queste due
opere, che nel Nuovo Testamento leggiamo separate dal Vangelo di
Giovanni, in realtà erano previste per essere lette di séguito l’una al­
l’altra. Il canone ha separato ciò che l’autore aveva unito.41 Se si vuo­
le ritrovare la strategia del narratore è indispensabile considerare le
due parti del racconto l’una di séguito all’altra.

I m p a r a r e a l e g g e r e l a st o r ia

Il lettore costruito dalla duplice opera di Luca, il Vangelo e gli Atti


degli apostoli, ci insegna una prima cosa: la storia della salvezza non
si ferma agli eventi di Pasqua. La vita di Gesù ha un séguito, ha fatto
storia, e il lettore stesso appartiene a questa storia.
All’intersezione delle due parti dell’opera troviamo un evento, l’a­
scensione, riportato dal narratore due volte: a conclusione del Vangelo
(Le 24,50-53) e all’inizio degli Atti (At 1,6-11).42 Ora, queste due versioni

• 41 La collocazione attuale degli Atti degli apostoli, tr a il Vangelo di Giovanni e le let­


tere paoline, si è im posto progressivam ente nel corso dei prim i secoli. Da un lato corri­
sponde cronologicam ente al séguito dei vangeli; infatti l'oggetto del racconto degli Atti è
il tem po dopo la Pasqua. Dall’altro lato, la seconda p arte degli Atti descrive il teatro del­
l’attività di Paolo, le cui lettere sono riportate im m ediatam ente dopo nel canone. Paolo
è a Roma in Atti 28, e im m ediatam ente dopo com incia la Lettera ai Romani. L’accosta­
m ento non è casuale, e a questo proposito possiam o p arlare di u n a narrativ ità del ca­
none. Il canone neotestam entarìo, n el suo sviluppo, racconta u n a g ran d e storia.
42 Comparazione dettagliata delle due varianti: D. M a h g u e r a t , Les A ctes des apótres
(1-12), Labor et Fides, Genève 2007, 48; tr. it. Gli A tti degli apostoli, 1-12, EDB, Bologna
2011, 55.

51
non sono identiche: Le 24 chiude la vita di Gesù con un atto di separa­
zione, l’ascensione, dove il Risorto si separa dai suoi benedicendoli.
Questa separazione non è un dramma, ma ima partenza sovrastata dal
gesto di benedizione. In At 1, l’ascensione al contrario è il punto di par­
tenza della missione degli apostoli; proprio in questo momento diven­
tano gli inviati del Risorto per essere «miei testimoni a Gerusalemme,
in tutta la Giudea e la Samaria, e fino alle estremità della terra» (At
l,8b). Qui, l’ascensione prepara la futura assenza di Gesù; il Risorto
sparisce, ma sparendo istituisce un gruppo di testimoni: i suoi discepo­
li. L’ascensione non è più una conclusione come in Le 24, ma un invio.
D’altronde, due uomini biancovestiti verranno a scuotere i discepoli che
fissano il cielo dove il Risorto è appena sparito: «Uomini di Galilea, per­
ché state a guardare verso il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è
stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto anda­
re verso il cielo» (At 1,11). I personaggi celesti riportano l’attenzione e
l’attività dei discepoli verso la terra, o meglio verso la storia presente.
Come vediamo, a pochi versetti di distanza - poiché, anche se le
due versioni dell’ascensione si trovano una alla fine del Vangelo, l’al­
tra all’inizio degli Atti, sono separate da alcuni versetti - l’evangelista
si è permesso di dare due racconti differenti del medesimo avveni­
mento. Non si contraddicono, ma nemmeno concordano: uno conclu­
de, l’altro fa cominciare. Questo significa che un medesimo avveni­
mento può essere oggetto di due sguardi interpretativi diversi. Che co­
sa deve dedurne il lettore? Il messaggio, a nostro parere, non lascia
dubbi: posto davanti a due varianti della stessa storia raccontata, il let­
tore è invitato a esplorarne le diverse sfaccettature, a decifrarne i mol­
teplici significati, a coglierne i diversi effetti di senso.
Vediamo in questo una caratteristica fondamentale dell’opera di
Luca: non racconta solamente una storia - quella di Gesù e degli inizi
della Chiesa. E non si limita a raccontare, ma, offrendo più versioni
dello stesso evento, insegna a interpretare la storia. Fa del suo letto­
re un interprete della storia, un ermeneuta della storia. Insegna al suo
lettore, alla sua lettrice a captare i molteplici significati di una storia
che si presta a varie configurazioni.

R il e g g e r e u n m e d e s im o a v v e n im e n t o

La duplice versione del racconto dell’ascensione di Gesù non è l’u­


nico esempio di tal genere. C’è un altro avvenimento che occupa un po­

52
sto centrale negli Atti: la conversione di Paolo sulla via di Damasco. Il
fatto è riportato a tre riprese: una prima volta dal narratore al c. 9; una
seconda volta in un discorso autobiografico di Paolo davanti al popolo
di Gerusalemme, al c. 22; e una terza volta in una apologia di Paolo
davanti al re Agrippa e alla regina Berenice, al c. 26. Tre racconti, tre
varianti dello stesso evento. Questa ripetizione mostra l’importanza
che Luca gli riconosce: la conversione di Paolo gli permette di mostra­
re la fondamentale continuità che lega il giudaismo e il cristianesimo,
la fede farisaica di Saulo e la sua nuova fede nel Risorto; ma permette
anche di far sapere che questa fede nuova proviene da un’iniziativa di
Dio con la quale interpella il suo popolo. Il racconto della conversione
di Paolo dà così a Luca l’occasione di saldare continuità e discontinui­
tà tra giudaismo e cristianesimo.
Ognuna di queste varianti possiede una propria accentuazione.43
In At 9,1-31, il narratore mette in evidenza lo spettacolare capovolgi­
mento del nemico di Gesù: colui che si recava a Damasco per ricon­
durre in catene a Gerusalemme i discepoli di Gesù si trova gettato a
terra.44 Paolo è travolto, accecato; lui, che voleva entrare trionfante a
Damasco e cacciare i cristiani dalle sinagoghe, entra in città condotto
per mano dai suoi compagni di viaggio (9,8). Nel suo processo di gua­
rigione, c’è un uomo che si appresta a giocare un ruolo decisivo: Ana­
nia, rumile discepolo di Damasco, che il Cristo manda per guarire
Paolo. Naturalmente alTinizio Anania recalcitra, ricordando la venefi­
ca reputazione di persecutore di Paolo (9,13-14). Ma il Cristo vincerà
proprio la sua resistenza, illustrando così fino a che punto sia stato
difficile per i primi cristiani ammettere la conversione di Paolo e la sua
chiamata a evangelizzare i pagani. Appena guarito dalla sua cecità per
mano di Anania (si misuri bene a qual punto la guarigione di questo
accecamento assuma valore simbolico), Paolo va a predicare il Cristo
ai propri correligionari giudei di Damasco e di Gerusalemme, che as­
sai presto fomenteranno un complotto per farlo perire (9,19b-30).

43 M a r g u e r a t , Les A ctes des apótres (1-12), 319-322; tr. it. Gli A tti degli apostoli,
1 -1 2 , 365-368. Per un'analisi approfondita, si può consultare 0 . F l i c h y , La fig u re de Paul
dans les A ctes des Apótres. Un phénom ène de réception de la tradition p a ulihienne à
la fin du l er siècle, Cerf, Paris 2007, 55-166.
44 Gettato a terra, non dal suo cavallo. Il cavallo di Paolo a Damasco è u n ’invenzio­
ne dei pittori, che non riuscivano a im m aginare che un uomo, tanto degno quale l’apo­
stolo era, potesse viaggiare a piedi - m a nell’antichità questa era l’u san za comune.
Paolo passa così dal ruolo di persecutore del Cristo al ruolo di testi­
mone perseguitato del medesimo.
In At 22,3-21, la situazione è molto diversa. Paolo è appena stato
arrestato su denuncia di giudei d’Asia ed espulso dal Tempio di Geru­
salemme. Chiede al centurione romano di poter difendere la propria
causa davanti al popolo. Il suo discorso rende conto degli avvenimen­
ti di Damasco, ma in tutt’altra prospettiva. Qui per lui si tratta di mo­
strare che l’apparizione del Risorto si colloca in diretta continuità col
proprio attaccamento al Dio dei padri. Perciò ricorda la sua formazio­
ne farisaica a Gerusalemme, alla scuola di Gamaliele, e il suo stretto
attaccamento alla Legge dei padri (22,3-5). «Il Dio dei nostri padri», gli
dice Anania, «ti ha predestinato a conoscere la sua volontà, a vedere
il Giusto e ad ascoltare una parola dalla sua stessa bocca» (At 22,14).
Anania, il cui ruolo è fortemente ridimensionato, non è indicato come
discepolo, ma come «un uomo pio, fedele alla Legge, la cui reputazio­
ne era buona presso tutti i Giudei là residenti» (22,12). Corrisponde al­
l’immagine del giudeo esemplare. Inoltre, egli non indica Gesù col suo
nome, ma con l’epiteto di «giusto», la cui risonanza è forte nella pietà
giudaica. In breve, la presentazione viene, se così si può dire, giudaiz-
zata e scristianizzata oltre misura, per legittimare non più il trauma
che ha rappresentato per i cristiani di Damasco, quanto piuttosto l'in­
serimento nell’azione del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. La
perfetta giudaicità di Paolo diventa il prisma attraverso il quale è pre­
sentato l’avvenimento di Damasco.
In At 26,9-18, altro cambio di uditorio: Paolo prende come testi­
mone la corte di Agrippa per farvi la propria apologia e dimostrare
l’inconsistenza delle accuse portate contro di lui dai suoi avversari giu­
dei. La captatio benevolentìae è accurata: Agrippa viene presentato co­
me un esperto conoscitore delle usanze e controversie dell’ambiente
giudaico (26,3); ma in quanto sovrano ellenistico, cliente di Roma, la
sua imparzialità è perciò assicurata. Il racconto della caduta di Dama­
sco è tuttavia introdotto da una dichiarazione che colorerà l’intera nar­
razione: Paolo fa le sue rimostranze al re perché è messo in stato di
accusa dai giudei «a motivo della speranza nella promessa che Dio ha
fatto ai nostri padri, e che le nostre dodici tribù sperano di vedere com­
piuta, servendo Dio notte e giorno con perseveranza. [...] Perché fra voi
è considerato incredibile che Dio risusciti i morti?» (26,6-8). L’opera­
zione retorica è di un’abilità sconcertante. L’apparizione del Risorto a
Damasco, di cui Paolo ha fatto l’esperienza, corrisponde alla speranza

54
millenaria del popolo, cioè la speranza della risurrezione. Certo, Luca
forza il tratto presentando come speranza millenaria del popolo quel­
lo che è il cuore della fede farisaica nel I secolo. Ma poco importa:
Agrippa è preso come testimone del fatto che gli avversari di Paolo si
mettono in contraddizione con la loro stessa speranza. Rinnegano ciò
per cui il popolo incessantemente prega. E così questa terza lettura del­
l’evento di Damasco è ancora diversa dalle prime due: Paolo rivendi­
ca per sé e per la nuova fede, che egli rappresenta, l’autentica eredità
del giudaismo.
Disporre negli Atti di tre versioni dello stesso avvenimento signifi­
ca farne brillare le diverse sfaccettature, significa insegnare al lettore
a leggere e rileggere la storia sotto prospettive differenti, significa in­
segnargli ad adottare molteplici punti di vista per comprendere la ric­
chezza semantica degli avvenimenti. Alla scuola di Luca, senza ren­
dersene conto il lettore è convocato a fare questo apprendistato. In cer­
to qual modo, l’apprendistato si compie a insaputa del lettore stesso.

A p p e l l o a u n a m e m o r ia e v a n g e l ic a

Fin qui abbiamo riscontrato una prima procedura narrativa adot­


tata da Luca: la ripetizione con variante di un medesimo avvenimen­
to. Ma la sua strategia narrativa non è a corto di risorse. Un’altra pro­
cedura percorre il Vangelo e gli Atti; essa porta un nome greco perché
proviene dalla retorica greco-romana: la synkrisis.45 II termine viene
da un verbo che significa distinguere insieme. Consiste nel mettere in
parallelo due personaggi allo scopo di compararli e soprattutto di mo­
strare l'influenza (o la superiorità) dell’uno sull’altro. La procedura di
synkrisis è messa in atto quando gli Atti raccontano un gesto di gua­
rigione degli apostoli o di Paolo; il narratore riutilizza infatti il voca­
bolario di cui si è già servito pér riportare i miracoli di Gesù. «Alzati e
cammina», dice Gesù al paralitico in Le 5,23; «Nel nome di Gesù Cri­

45 J.-N. A l e t t i situa l’origine del procedim ento in Plutarco: cf. «Le Christ raconté»,
in F. M i e s (ed.), Bible et littéra tu re, Lessius, Bruxelles 1999, 29-53, soprattutto pp. 36-
40. D. M a r g u e r a t , La prem ière histoire du christianism e (Les A ctes des apótres), Cerf-
Labor et Fides, Paris-Genève 22003, 84-89; tr. it. La prim a storia d el cristianesimo. Gli
A tti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsam o 2002, 72, 76.

55
sto, il Nazareno, àlzatie cammina»46 dice Pietro allo storpio della Por­
ta Bella del Tempio (At 3,6). Vedendo che il malato «aveva fede di es­
sere salvato», scrive il narratore a proposito di Paolo a Listra (At 14,9);
«vedendo la loro fede» scrive Luca di Gesù che accoglie un paralitico
calato dai suoi amici attraverso il tetto di una casa (Le 5,20).
Perché queste ripetizioni? Forse per difetto di immaginazione? Op­
pure Luca disponeva forse di un vocabolario modesto per dire le stes­
se cose? Sarebbe davvero sorprendente da parte di uno scrittore mol­
to dotato. No; Luca ricorre intenzionalmente agli ■stessi termini. Solle­
cita infatti dal suo lettore una memoria evangelica e richiama alla sua
memoria che Gesù ha operato miracoli analoghi. Perché? Con quale in­
tenzione? La ragione è teologica: negli Atti, i miracoli degli apostoli o
di Paolo non sono mai il frutto della loro pietà o l’esibizione dei loro
doni terapeutici. Chi agisce, chi guarisce è il «nome del Signore».47 Ec­
co perché è importante ripetere le parole utilizzate per i miracoli di Ge­
sù: l’agente della guarigione è sempre Gesù di Nazaret, il Risorto. An­
cora una volta, Luca insegna al suo lettore a leggere la storia. Ripor­
tando alla sua memoria un richiamo di Vangelo, fa comprendere dove
si trovi la sorgente dell’attività miracolosa: nell’azione del Cristo attra­
verso i suoi discepoli.
Catto terapeutico non è il solo ad essere così configurato dalla pro­
cedura della synkrisis. Al pari di Gesù in occasione del suo battesimo,
Pietro e Paolo beneficiano di una visione estatica nel momento chiave
del loro ministero (At 9,3-9; 10,10-16). Al pari di Gesù, predicano e
sopportano l’ostilità dei giudei. Come il loro maestro, soffrono e af­
frontano la morte. Paolo è sottoposto a processo come lo è stato Gesù
(At 21-26); e come lui, Pietro e Paolo alla fine della loro vita sono og­
getto di una liberazione miracolosa (At 12,6-17; 24,27-28,6).
Il parallelismo della morte del protomartire Stefano e della morte
di Gesù è ben noto: Stefano muore come Gesù in seguito a un proces­
so sommario imbastito dal Sinedrio (At 6,12-14; Le 22,66-71). Davan­
ti ai suoi accusatori, come Gesù fa riferimento a una visione del Figlio
dell’uomo (At 7,55-56; Le 22,69). Come Gesù, muore con un forte gri­

46 Una p arte della tradizione m anoscritta non contiene la clausola «alzati e»; la
m aggioranza dei m anoscritti però la presenta.
47 At 3,6.16; 4,7.10.30; 19,11-20.

56
do (At 7,60a; Le 23,46a), affidando il proprio spirito e implorando il
perdono per i suoi avversari (At 7,59-60; Le 22,46.34). E come alla
passione, alcuni uomini pii si prenderanno cura del corpo del lapida­
to (At 8,2; Le 23,50-53). Questi molteplici richiami, troppo numerosi
per essere trascurati, fanno della morte esemplare di Stefano una pas­
sione continuata. Gesù l’aveva predetto: «Il discepolo non è superiore
al suo maestro» (Le 6,40).
Luca fa dunque appello a una memoria evangelica. Ma il narratore
non lo dichiara mai, non lo esplicita, non lo commenta. Lo fa sapere
narrativamente con la procedura di ripetizione o di ridondanza, ed è il
lavoro di lettura che lo evidenzia. Da bravo pedagogo, il narratore ha
moltiplicato gli indizi, ma il lavoro va fatto dal lettore, che così impara
a leggere la storia dei testimoni di Gesù come una storia che il Risorto
continua ad animare, e la sofferenza dei testimoni come una passione
dove il Crocifìsso serve da modello ai propri discepoli. Il narratore di
Luca-Atti invita il suo lettore a una lettura cristologica forte della storia.

3. Conclusione
Umberto Eco ha detto che il testo è «un meccanismo pigro» che ha
bisogno del lettore per funzionare.48 Il nostro obiettivo è stato di di­
mostrare la tesi inversa: il lettore ha bisogno del testo per esistere. Ab­
biamo mostrato che ciascun narratore evangelico ha in vista un letto­
re che il suo testo, nella sua forma e nella sua strategia narrativa, con­
tribuisce a costruire. Ma soprattutto, il racconto evangelico non pone
in essere un lettore qualunque - a meno che il lettore non si ribelli al­
la proposta di lettura del narratore, il che è di suo pieno diritto!
Sarebbe interessante verificare se queste proposte di costruzione
del lettore abbiano effettivameiìte funzionato nel corso della storia.
Questa indagine andrebbe oltre lo scopo di questo capitolo, ma pos­
siamo fare qualche rapido cenno. Il Vangelo di Matteo, col suo lettore
edificato, ha effettivamente giocato un ruolo decisivo nella struttura­

48 Per la precisione: il testo è «un m eccanism o pigro (o economico) che vive sul p lu ­
svalore di senso introdottovi dal destinatario» (Eco. Lector in fa b u la ou la coopération
interprétative dans les textes narra tifs, 66-67; orig. it.: Lector in fabula. La coopera­
zione interpretativa nei testi narrativi).

57
zione del catechismo e della dottrina nella teologia della Chiesa latina.
Il Vangelo di Giovanni ha nutrito molte letture esoteriche e più degli al­
tri si è prestato alla meditazione spirituale. Luca-Atti ha fornito alla cri­
stianità la sua strutturazione della storia della salvezza, come pure il
suo calendario liturgico. Quanto al Vangelo di Marco, è forse un caso
se è stato il vangelo meno letto, meno commentato e meno meditato
nella storia del cristianesimo, fino al secolo XIX quando la ricerca sul
Gesù storico gli ha assicurato un uso e una celebrità inattesi? Il suo let­
tore spiazzato, depistato non era tale da sedurre un'ampia cristianità.
La Chiesa antica ha voluto che ci fossero conservati i quattro van­
geli. L’indagine narratologica conferma la saggezza di questa scelta, in
grado di radunare l’universalità dei lettori.
Capitolo secondo

ALLA RICERCA
DELLA TRAMA.
UNA LETTURA
DELLA PASSIONE
(MC 14 E LC 22)
Daniel Marguerat

Chiamiamo trama la struttura unificante che concatena i diversi av­


venimenti del racconto e li organizza in una storia continua. La trama
è ciò che tiene col fiato sospeso il lettore, la lettrice, fornendogli/le nel
corso del racconto un filo rosso che impedisce di perdersi in quello che,
senza di esso, sarebbe soltanto una successione frammentata di epi­
sodi discontinui. L’idea non è nuova. L’idea che il racconto, ogni rac­
conto, dipende da una struttura immanente che sistematizza i diversi
elementi che lo compongono risale all’antichità, per l’esattezza ad Ari­
stotele (IV secolo a.C.)* A questo «antenato» della narratologia dobbia­
mo la prima definizione del mythos (lat. fabula, la trama), che egli
prende in prestito dal modello della tragedia: «In ogni tragedia, una
parte è il nodo [la complicazione] e l’altra lo scioglimento [la soluzio­
ne!: molte volte il nodo è costituito dalle vicende esterne e da una por­
zione della trama; il resto è lo scioglimento. Preciso che il “nodo” va

* Prim a pubblicazione sotto il titolo: «Intrigue et tension n arrative en Marc 14 et Lue


22. Une approche post-classique du schem a quinaire», in A. P a s q u ie r - D. M a r g u e r a t - A.
W é n in (edd.), L’intrigue dans le rècti biblique. Quatrième colloque international du RRE-
NAB, Université Lavai, Québec, 29 m a i-lerju in 2008, Peeters, Leuven 2010, 37-63.

59
dall’inizio fino a quella sezione che è l’ultima avanti che la vicenda mu­
ti, volgendo alla buona o alla cattiva sorte; e lo “scioglimento” va dal­
l’inizio di questo mutamento fino al termine» CPoetica 1455b, 24-29).1
Aristotele articola la trama attorno a un rovesciamento, che fa pende­
re il destino dell’eroe verso la felicità o verso la sventura.
I narratologi hanno ripreso e formalizzato la sua intuizione elabo­
rando dei modelli di trama. Oggi il più citato è un modello proposto da
Paul Larivaille, detto schema quinario, perché propone di strutturare
la trama in cinque tappe successive:2
Situazione iniziale
Complicazione (o Nodo)
Azione trasformatrice
Soluzione (o Scioglimento)
Situazione finale.
La complicazione è un «elemento che fa scattare il racconto, che in­
troduce la tensione narrativa (squilibrio nello stato iniziale o difficoltà
nella ricerca)».3 Nel manuale di narratologia scritto con Yvan Bour-
quin, abbiamo precisato che «la complicazione rappresenta lo scatta­
re dell’azione», e «il detonatore può essere l’enunciazione di una dif­
ficoltà, di un conflitto, di un incidente, di un intralcio recato alla solu­
zione di un problema».4 Segnalavamo inoltre che non si deve confon­
dere la tensione narrativa con la tensione drammatica. «Questa non va
confusa con la tensione narrativa, di cui abbiamo detto essere costitu­
tiva della complicazione. Se la tensione narrativa fa scattare il raccon­

1 Citato secondo la traduzione italiana di C. G a l l a v o t t i : A r i s t o t e l e , D ell'arte po eti­


ca, 1 8 ,1 , (testo greco-italiano), Arnoldo M ondadori-Fondazione Valla, Milano-Roma 1974,
62gr-63it.
2 D. M a r g u e r a t - Y. B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione a ll’analisi
narrativa, Boria, Roma 22011, 47-68. Per u n a teorizzazione della tram a, oltre al libro
citato, si p otrà consultare: J . - M . A d a m , Les textes, typ es et prototypes, A rm am i Colin,
Paris 22008; J . - M . A d a m - F. R e v a z , L ’analyse des récits, Seuil, Paris 1996; N.J. L o w e , The
Classical Plot and thè Invention o f W estern N arrative, Cambridge University Press,
Cambridge 2000; P. v o n M a t t , Die Intrige. Theorie und P raxis der H interlist, Hanser,
Miinchen 2006; J . V il l e n e u v e , Le sens de l ’intrigue ou La narratìvité, le je u et Vinven-
tion du diable, Les Presses de l’Université Lavai, Québec 2003.
3 M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all'analisi narra­
tiva, 51.
4 M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione a ll’analisi narra­
tiva , 50.

60
to (complicazione), la tensione drammatica non ha un posto assegna­
to nella trama e corrisponde a un’intensità emozionale o pragmatica».5
In altre parole: la tensione drammatica è il risultato di una carica emo­
tiva il cui investimento è programmato dal narratore a una fase qua­
lunque del racconto, mentre la tensione narrativa dispone di un posto
strutturalmente assegnato: l’avvio della trama fa passare allo sciogli­
mento attraverso l’azione trasformatrice.

1. Tensione drammatica e tensione narrativa


Il racconto della guarigione di un paralitico a Cafàrnào (Me 2,1-12)
offre l’esempio dì ima drammatizzazione situata al livello dello sciogli­
mento, quando, dopo la dichiarazione di perdono espressa da Gesù, gli
scribi dicono tra loro: «Perché quest’uomo parla così? Costui bestem­
mia! Chi può perdonare i peccati se non Dio solo?» (2,7). Effettiva­
mente la reazione degli scribi fa salire la tensione dopo l'azione tra­
sformatrice (perdono dei peccati). In Me 3,1-6, invece, la tensione
drammatica è evidente fin dal principio: dopo che Gesù è entrato nel­
la sinagoga dove c’era un uomo con la mano paralizzata, il narratore
scrive che «essi osservavano Gesù per vedere se l’avesse guarito il gior­
no di sabato; era per accusarlo» (3,2). La tensione drammatica dunque
è ima nozione puramente semantica, che non occupa un posto strut­
turalmente definito.6
Ma che ne è della tensione narrativa? E come distinguerla con pre­
cisione dalla tensione drammatica? La difficoltà sta precisamente qui.
Prendiamo l’esempio del racconto della risurrezione del figlio della ve­
dova di Nain (Le 7,11-17). Comincia con queste parole:
«In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui cammina­
vano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino alla porta del­
la città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una ma­
dre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. Vedendola, il
Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non pian­
gere!’‫( »׳‬Le 7,11-13).

5 M a r <~,u e h a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione alVanalisi narra­


tiva, 55.
6 A dam - R evaz, V analyse des récits, 57.

61
Dove situare il nodo (la complicazione) e, quindi, l’emergere della
tensione narrativa? Si presentano tre possibilità. La prima: il nodo si
verìfica all’arrivo di Gesù nei pressi di Nain e al suo avvicinarsi alla
porta della città ( 7 , l l 1 2 ‫־‬a); il suo arrivo costituisce l’avvenimento ca­
pace di modificare il corso delle cose. Oppure il nodo si situa nell’in-
crociarsi di due cortei, il corteo funebre che esce da Nain e il gruppo
costituito da Gesù con i suoi discepoli ( 7 , l l 1 2 ‫־‬b); questo incrociarsi
simboleggia l’incontro della morte e di una possibilità di vita. Oppure
ancora il nodo è decifrabile nella reazione di Gesù in 7,13, «preso da
grande compassione» (letteralmente: preso nelle viscere) alla vista del
dolore della vedova, della quale portavano alla sepoltura l'unico figlio;
ci sarà azione soltanto a partire dall’emozione che coglie Gesù all'in-
crociarsi della vita e della morte. Come decidere fra queste tre possi­
bilità? Quali criteri adottare per determinare con rigore ciò che costi­
tuisce una tensione narrativa? Andando più a fondo, qual è la funzio­
ne della tensione narrativa alla soglia del racconto?
Questo è il problema col quale dobbiamo confrontarci. Non possia­
mo ignorarne l’importanza, poiché dall’identificazione della tensione
narrativa dipende l’innesco del processo trasformatore postulato dal­
lo schema quinario. Su questo punto bisogna affinare lo strumento.
Procederemo in due fasi: una di riflessione metodologica, l’altra appli­
cativa. Nella prima fase cercheremo di risalire agli antecedenti dello
schema quinario per capire su quale registro narrativo funziona; poi
esporremo i lavori della narratologia detta «post-classica», facendo ve­
dere quale spostamento euristico richiede, per fissarci con maggior at­
tenzione sulla tensione narrativa. Nella seconda fase (dato che una teo­
ria vale soltanto in base alla sua applicazione), utilizzeremo le nozioni
così definite leggendo l'inizio del racconto marciano della passione (Me
14,1-31); la lettura in parallelo di Le 22,1-34 servirà essenzialmente a
mettere in evidenza le scelte narrative di Marco, nella misura in cui
nella sua rilettura di Me 14, il narratore del terzo Vangelo ha optato
spettacolarmente per una nuova costruzione del racconto. Una con­
clusione annoderà i fili.

2. Schema quinario e tensione narrativa


Secondo una formulazione che prendiamo da David Herman, l'am ­
bizione dell’analisi narrativa è di «sviluppare i migliori modelli de­

62
scrittivi ed esplicativi possibili».7 Seguendo questo obiettivo essa si è
interrogata sul modello strutturale consono a rendere conto della sin­
tassi del racconto nel suo complesso, cioè della sua trama.

2.1. Aristotele e dopo


Aristotele è stato il primo ad articolare la trama attorno a un rove­
sciamento, dopo del quale il destino dell’eroe volge verso la felicità o
verso la sventura. Ma da dove proviene, per il filosofo greco, questa
unità di azione che costituisce la trama? Che cosa legittima questa
«composizione sistematica dei fatti», per riprendere la sua definizione
del mythos?8 Contro l’opinione comunemente recepita, ai suoi occhi
l’unità è anzitutto quella della realtà imitata, e soltanto secondaria­
mente una proprietà della costruzione del racconto. Aristotele lo scri­
ve in un altro passo della sua Poetica, assolutamente privo di ambi­
guità: «Ora, come avviene nelle altre arti mimetiche [di imitazione] che
uno è il soggetto dell’unica mimesi [imitazione], così bisogna che an­
che il racconto, poiché è mimesi di un'azione, lo sia di un’unica azio­
ne e formi un tutto completo» (1451 a, 30).9 Se dunque la mimesis è
una, e di conseguenza portatrice di una trama, lo è perché l’azione che
essa configura è essenzialmente una.
Questo postulato circola, più o meno esplicitamente, nello sfondo di
tutti gli sviluppi ulteriori della nozione di trama. L’idea - questo è fon­
damentale - è che la trama è il risultato di una logica dell’azione, o, se
si preferisce, che la trama corrisponde a una semantica dell’azione. La
trama è dunque considerata come una proprietà della storia racconta­
ta più che un effetto della configurazione narrativa.
Anche la scuola dei formalisti russi, e anzitutto lo studio di Vladimir
Propp sul racconto fiabesco,10 ha esercitato la sua influenza. L’inventa­
rio che Propp traccia dei diversi tipi e motivi del racconto fiabesco mi­

7 D. H e r m a n , Narratologies. N ew Perspectives ori N arrative A na lysis, Ohio State


University Press, Columbus 1999, 3.
8 A r i s t o t e l e , D ell’arte poetica, 1450a, 5 e 15, 2 0 g r 2 1 ‫־‬it e 2 2 g r 2 3 ‫־‬it.
9 A r i s t o t e l e , D ell’arte poetica, 30gr-31it.
10 V. P r o p p , Morphologie du conte, Bibliothèque des sciences hum aines, Gallimard,
Paris 1970; tr. it. Morfologia della fia b a , a cura di G.L. B r a v o , Einaudi, Torino 1966, 2000
(orig. russo: Leningrado 1928).

63
ra a ricostruire un modello fondamentale, un modello prototipico del
racconto, al quale le narrazioni possono attingere taluni elementi per
costruirsi. La grande quantità di racconti meravigliosi, fiabeschi, viene
così intesa come l’infinita derivazione da un modello archetipico. Così
pure, la trama fu concepita come la sceneggiatura prototipica da cui tut­
ti i racconti deriverebbero; costituirebbe uno degli universali trans cul­
turali presenti nell’enciclopedia collettiva dei lettori. In tal modo il po­
stulato strutturalista si rifarebbe alla nozione aristotelica dell’unità d’a­
zione. La ricerca dell’intreccio mirerebbe dunque a mettere a fuoco la
trama invariata sulla quale tutti i racconti del mondo ricamano.
A Claude Brémond va riconosciuto il merito di aver formalizzato
questa struttura unica del racconto.11 A lui si deve la formula triadica:
Possibilità - Passaggio all’atto - Risultato.
Brémond vede nella trama il processo attraverso il quale un’azione
virtuale viene attualizzata, e poi il suo risultato espresso narrativamente.
Questo modello ternario diventa quinario quando Paul Larivaille,
nell’articolo del 1974, lo affianca a monte e a valle con le situazioni ini­
ziale e finale trasformate dal processo narrativo.12 La sua adozione da
parte della linguistica testuale, che ne fa uno degli schemi sequenziali
prototipici di organizzazione della testualità,13 ne ha confermato il suc­
cesso. La struttura quinaria si è progressivamente imposta come il mo­
dello descrittivo standard valido per ogni racconto.14

I II ni
P r im a D u ra nte D opo
Stato iniziale Trasformazione (operata o subita) Stato finale
Equilibrio Processo dinamico Equilibrio

1 2 3 4 5
Provocazione Azione Sanzione
(detonatore)
(innesco)

11 C. B r é m o n d , Logique du récit, Paris, Seuil, 1973; tr. it. La logica del racconto,
Bompiani, Milano 1977.
12 P. L a r iv a il l e , «L’analyse (morpho)logique du récit», in P o étiq u e 19(1974), 368-388.
13 Cf. J.-M. A d a m , L es textes: typ es e t prototypes, A rm and Colin, Paris 22008.
14 Per Io schem a che segue, cf. L a r iv a il l e , «L’analyse (morpho)logique du récit», 387.

64
2.2. Comparsa di una narratologia post-classica
Contro il modello di Larivaille si è levata una critica, che si inseri­
sce sulla scia dell’avvento di una narratologia detta «post-classica».
Questa etichetta, proposta da David Herman nel 1997, mette da parte
gli studi anteriori considerati classici.15 Ma dove sta il confine? Lo di­
remo per sommi capi: sta nel passaggio dal postulato strutturalista a
un punto di vista più deliberatamente pragmatico, cioè orientato sul te­
sto in quanto produzione e sul ruolo del lettore nella ricezione del te­
sto. Ecco come lo descrive Gerald Prince:15 «La narratologia classica è
una teoria del racconto di ispirazione strutturalista, dalle ambizioni
scientifiche, che esamina ciò che tutti i racconti e soltanto i racconti
hanno in comune e ciò che permette loro di differenziarsi gli uni dagli
altri. Come suggerisce il suo nome, la narratologia post-classica
non costituisce una negazione, un rigetto, un rifiuto della narratologia
classica, ma piuttosto una continuazione, un prolungamento, un affi­
namento, un ampliamento».17
Alle domande della narratologia degli inizi, detta ormai classica
(Che cos’è un racconto? Che cos’è la narratività? Come si organizza?),
la narratologia post-classica aggiunge altre domande che riguardano
l’interazione fra narratore e narratario, la dinamica della narrazione,
il racconto come processo o produzione e non semplicemente come
prodotto, il ruolo del ricettore, ecc. Entrano prepotentemente nel cam­
po della riflessione la dimensione comunicazionale del racconto e il
gioco interattivo fra narratore e lettore. In breve, nell’esame del fun­
zionamento dei racconti diventa fondamentale la risposta del lettore.18

15 D. H e r m a n , «Scripts, Sequences, an d Stories: Elem ents of a Postclassical N arra-


tology», in P ublications o f thè M o d em Language A ssociation 112(1997), 1046-1059; cf.
anche Narratologies. N ew P erspectives on N arrative A na lysis. Inoltre: A. e V. N u n n in g ,
«Von der strukturalistischen Narratologie zur "postklassischen” Erzàhltheorie: Ein Ueber-
blick iiber Ansàtze und Entwicklungstendenzen», in I d . (edd.), Neue A nsàtze in der Erzàhl­
theorie, W issenschaftlicher Verlag Trier, T rier 2002, 1-33.
16 G. P r in c e , «N arratologie classique et narratologie post-classique», in Vox Poetica
2006 (http://w w w .v 0x-p 0 etica. 0rg /t/articles/prince.htm l).
17 P r in c e , «Narratologie classique et narratologie post-classique», 1.
18 G. P r in c e lo form ula chiaram ente: «Si dovrebbe in co rp o rare u n a “voce del letto­
re (o del recettore)‫ ״‬nelle descrizioni del funzionam ento dei racconti, Forse si potrebbe,
p er esem pio, far risultare che le am biguità narratologico-testuali sono risolvibili p er de­

65
E così la questione della trama è stata ripresa con rinnovato impe­
gno da Raphael Baroni, nella sua tesi di dottorato apparsa nel 2007:
La tension narrative. Suspense, curiosité et surprise.19 L’interesse che
essa suscita deriva dal fatto che la sua riflessione si inserisce proprio
là dove abbiamo segnalato sopra la difficoltà, cioè il funzionamento
della tensione narrativa. Seguiamo il filo della sua argomentazione.

2.3. La nozione di tensione narrativa


Baroni non contesta il fatto che la costruzione della trama sia strut­
turata dalla coppia no do-scioglimento [= complicazione-soluzione]; de­
nuncia la ristrettezza di ima definizione che si limita alla storia rac­
contata. Egli mette in discussione il momento della complicazione, e lo
fa riesaminando la nozione di tensione narrativa. Egli prende in con­
siderazione la seguente definizione di trama proposta da Bourneuf e
Ouellet: «La trama, in quanto concatenazione di fatti, si fonda su una
tensione interna tra questi fatti che deve essere creata fin dall’inizio del
racconto, intrattenuta durante il suo sviluppo e che deve trovare la so­
luzione nell’epilogo».20 Questa definizione mette in luce due elementi:
anzitutto, il culmine della trama non è più costituito dall'azione tra­
sformatrice ma dalla coppia complicazione-soluzione; in secondo luo­
go, il motore della trama si identifica con una tensione provocata, in­
trattenuta, poi allentata. In altre parole, è la tensione narrativa che fa
la trama, e non il concatenamento dei fatti in sistema. Baroni abban­
dona l’approccio alla trama proposto da Paul Ricoeur, per il quale la
trama è «l5insieme delle combinazioni mediante le quali certi eventi

cisione del recettore - il tal passaggio utilizza, ad libitum, il singolativo o l’iterativo, il tal
altro passaggio adotta il discorso narrativizzato o il discorso indiretto libero, il tal altro
ancora im plica la coordinazione o la subordinazione - e che la loro soluzione influisce
sul m odo in cui il racconto “fa sen so ” (come pure, ed evidentem ente, sul senso del ra c ­
conto)» («N arrato logie classique et n arrato logie post-classique», 6).
19 R. B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curiosité e t surprise, Seuil, Paris 2007.
Dello stesso autore: «Histoires vécues, fictions, récits factuels», in Poétique 151(2007),
259-277 e U oeuvre du tem ps. Poétique de la discor dance narrative, Seuil, Paris 2009.
20 R. B o u r n e u f - R. O u e l l e t , U univers du rom an, PUF, Paris 1972, 43; tr. it. L'uni­
verso del rom anzo, Einaudi, Torino 2000, 41.

66
vengono trasformati in storia o, correlativamente, una storia è ricava­
ta da eventi».21
Mettere in primo piano la tensione costitutiva della trama significa
privilegiare la dimensione comunicazionale del racconto piuttosto che
la sua dimensione composizionale. Infatti la tensione esiste soltanto al­
l'interno del rapporto testo-lettore, è un effetto del testo sul ricettore.
La critica sollevata da Baroni nei riguardi dello schema quinario si sof­
ferma su questo punto. I narratologi di ispirazione strutturalista, egli
dice, hanno considerato la strutturazione della trama come una logica
immanente dell’azione e non come un effetto del discorso. Hanno eret­
to una struttura prototipica ritenuta applicabile a ogni storia raccon­
tata. Ora, l'errore consisteva nel pensare «che questa struttura se­
quenziale riguardasse il divenire di un ,azione (livello immanente del­
la storia) e non il divenire di un discorso su questa azione (livello ap­
parente della trama)».22 La strutturazione sequenziale del racconto
non riflette prioritariamente una logica dell’azione; essa dipende anzi­
tutto dalla testualizzazione di questa azione e dalla sua influenza sul
lettore.23 Quindi la coppia complicazione-soluzione non dipende più
necessariamente dalla concatenazione cronologica e causale dei fatti,
ma da un effetto testuale mediante il quale il racconto sollecita il letto­
re e agisce su di lui. Si tratta quindi di adottare un concetto di trama
«che vede in quest’ultima una struttura effettiva del testo soltanto nel­
la misura in cui essa si trova inserita in una relazione interlocutiva»,24
cioè nel rapporto dialogico che si crea fra il testo e il lettore.
L’interesse del ricercatore tende così a fissarsi sul potenziale dialo­
gico della costruzione della trama, un potenziale che consiste nella ge­
stione di una tensione innescata dalla tappa della complicazione e al­
lentata dalla soluzione. Qui si coglie bene il passaggio, segnalato sopra,
da una narratologia piuttosto strutturalista (o, se si preferisce, classi­
ca) a una narratologia post-classica, imperniata sul fenomeno della ri­
cezione del testo.

21 P. R i c g u r , Du texte à Vaction. E ssais d ’herm éneutique 2, Seuil, Paris 1986, 13-


14; tr. ìt. Dal testo a ll’azione. Saggi di erm eneutica, Jaca Book, Milano 1989, 14.
22 B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curìosité et surprise, 63.
23 B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curìosité et surprise, 7 2 .
24 B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curìosité et surprise, 40-41.

67
Ma che ne è di questa famosa tensione narrativa? Baroni la defini­
sce come «il fenomeno che si verifica quando l’interprete di un raccon­
to è incoraggiato ad aspettarsi una soluzione, dato che questa attesa è
caratterizzata da un’anticipazione colorata di incertezza che conferisce
tratti emotivi all’atto di recezione».25 La forza della trama non sta dun­
que nella sua forma, ma nella sua capacità di creare nel lettore un oriz­
zonte di attesa, che essa, secondo il caso, soddisferà o deluderà. La tra­
ma è costituita dalla tensione creata, e poi risolta. Con un gioco di pa­
role,26 possiamo affermare che la forza della trama {ìntrìgue) dipende
dalla sua capacità di incuriosire (,intriguer). Ma come si muove il nar­
ratore per incuriosire il lettore, per farlo entrare nella trama? Baroni
insiste sul procedimento di «reticenza informativa», col quale il narra­
tore innesca nel lettore un’attesa impaziente; questa reticenza infor­
mativa può concretizzarsi attraverso il procedimento del ritardo infor­
mativo, o del non-detto, dell’ambiguità, della discontinuità, ecc.27
La marchiatura testuale della tensione narrativa è fatta da queste
differenze di grado di conoscenza (o «differenze epistemiche») con le
quali il narratore trattiene l’informazione alla quale il lettore aspira.
L’impazienza creata in questo modo nel lettore può assumere tre for­
me, che Meir Sternberg aveva già a suo tempo [1978] classificato: la
suspense, la curiosità o la sorpresa.28 Queste tre forme corrispondono
alla funzione «timica» del racconto - con la quale indichiamo gli effet­
ti poetici di natura emozionale o affettiva inerenti all’atto di lettura.29
La funzione timica agisce sul lettore innescando quella che Umberto
Eco chiama la sua «cooperazione interpretativa».
Il testo, soprattutto nella fase di complicazione, viene infatti visto
come un’entità generatrice di trame virtuali. NelTinnescare una ten­
sione nel lettore facendogli anticipare una pluralità di trame virtuali, il

La tension narrative. S u sp en se', curiosité et surprise, 1 8 .


25 B a r o n i ,
26 «... c’est de sa capacité à intriguer que dépend la force de rintrigue». Nel testo
francese il gioco di parole è evidente: non così in italiano [N.d.T.].
27 Cf. B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curiosité et surprise, 99.
28 M. S t e r n b e r g , E xpositional M odes a n d Temporal Ordering in Fiction, John Hop­
kins U niversity Press, B altim ore-London 1978; «Tellìng in Time (I): Chronology an d N ar­
rative Theory», in Poetics Today 11(1990), 901-948; «Telling in Time (II): Chronology,
Teleology, N arrativity», in Poetics Today 13(1992). 463-541. Cf. anche: «How N arrati-
vity Makes a Difference», in N arrative 9/2(2001), 115-122.
29 L’aggettivo «timico» è un derivato dal greco thum os, che designa l’affettività, la
passione, la collera.

68
racconto intrattiene questa tensione facendo attendere la soluzione, o
prospettando l’incertezza, e poi assicurando un determinato esito a
scapito di un altro possibile. Ecco come Baroni descrive la successio­
ne della complicazione, del ritardo e della soluzione: «1. La complica­
zione produce un interrogarsi che agisce come un detonatore della ten­
sione. Che tale interrogarsi sia legato a una prognosi o a una diagno­
si della situazione narrativa, l’interprete è portato a identificare una in­
completezza provvisoria del discorso che può essere verbalizzato sot­
to la forma di interrogazioni diverse del tipo “Cosa capiterà?”, "Cosa
succede?” o “Cos’è avvenuto?”.■[...] 2. Il ritardo (indicato talvolta con
le espressioni “differenza”, “sviluppo dilatorio”, “reticenza testuale”,
“catalisi” o “tmesi”) configura la fase di attesa durante la quale \'in­
certezza si accompagna all’anticipazione della soluzione attesa. [...] 3.
Infine, la soluzione fa sopraggiungere la risposta che il testo offre al­
l'interrogazione dell’interprete, e questo scioglie la tensione: l’antici­
pazione (sotto forma di prognosi o di diagnosi) viene allora o confer­
mata o invalidata e, in quest’ultimo caso, una sorpresa può introdur­
re una totale rivalutazione della sequenza».30
Dato che la soluzione si vede assegnare il ruolo di rispondere alle
domande che la complicazione pone al lettore, la coppia complicazio­
ne-soluzione è vista in ima dinamica di lettura piuttosto che essere fos­
silizzata in una costruzione simmetrica nell’interno della configurazio­
ne narrativa. Ma soprattutto, davanti allo schema quinario, diventa
preponderante la comprensione della complicazione: la complicazione
del racconto genera nel lettore incertezza, imbarazzo, domande, per­
ché fa nascere la possibilità di molteplici soluzioni, fra le quali alla fi­
ne il racconto generalmente ne seleziona una soltanto.

2.4. La parte energetica della trama


Quali conclusioni trarre da questo nuovo approccio della trama? Il
bilancio si riduce a tre osservazioni.
Anzitutto, lo schema quinario di Larivaille non è stato ripudiato in
quanto modello di organizzazione della sequenza narrativa; grosso

30 B a r o n i , La tension narrative. Suspense, curiosità et surprise, 122-123.

69
modo esso coincide con l’attesa del lettore davanti al racconto. La sua
applicazione sistematica a ogni racconto tende piuttosto a ridursi a un
esercizio scolastico di delimitazione delle fasi della storia raccontata.
Con il rischio di dimenticare l’aspetto pragmatico del racconto e la pre­
stazione interpretativa che la sua organizzazione richiede dal lettore.
In secondo luogo, un’attenta osservazione sulla fase della compli­
cazione mostra che la sua funzione pragmatica è decisiva nella comu­
nicazione narratore-narratario; infatti, la complicazione non mira sol­
tanto a mettere in scena una ricerca o un conflitto, ma intende con­
durre il lettore a interrogarsi sui possibili sviluppi di una ricerca o di
un conflitto. La tensione narrativa così costruita toglie la costruzione
della trama dal livello strettamente compositivo esercitando i suoi ef­
fetti al livello comunicativo. Come dice Johanne Villeneuve, «la nozio­
ne di trama permette di legare la favola al discorso, la capacità for­
male agli effetti di lettura, l’azione agli effetti retorici, per non dire al­
la retorica delle forme. Permette di accogliere sotto uno stesso deno­
minatore concettuale l’azione e il desiderio narrativo».31 È così evi­
denziata la dimensione cognitiva ed emozionale (funzione «tùnica»)
dell'atto di lettura.
In terzo luogo, a differenza dell’approccio classico alla trama, ba­
sato sull’identificazione delle proprietà immanenti del racconto, l’ap­
proccio post-classico s’interessa di ciò che la costruzione della trama
produce nella ricezione del testo. La tensione narrativa appare come
«la parte energetica della trama»,32 che le conferisce forza e vigore fa­
cendo sorgere nel lettore un orizzonte di aspettativa che sarà soddi­
sfatta, adempiuta con sorpresa o frustrata dalla soluzione. Dunque non
è più unicamente la trama azionale del racconto che viene presa in
considerazione, ma le trame virtuali generate dal racconto e che la
complicazione fa immaginare al lettore.

31 V il l e n e u v e , Le sen s de I’intrigue ou La narrativité, le je u e t Vinvention du diable,


47. Johanne Villeneuve fa vedere nel suo libro come la tra m a esercita un potere di se­
duzione sul lettore utilizzando il gioco, l’ingam io e la doppiezza.
32 R. B a r o n i , «Juste une question de timing. Du schem a quinaire à la conception
post-classique de rintrigue» in S. P a t r o n (ed.), Théorie, analyse, interprétation des ré-
cits. Theory·, A nalysis, Interprétation o f N arratives. Lang, Bern 2011, 185-209, citazio­
ne a p. 203.

70
3. Percorsi di Me 14,1-31 e Le 22,1-34
Diamo ora una scorsa alla sequenza di Me 14,1-31 tenendo presen­
ti le seguenti domande: com’è costruito ciascun episodio? Come proce­
de il narratore nella costruzione della trama? Quale effetto sul lettore è
percepibile? Dove possiamo cogliere la dimensione dialogica del rac­
conto? Il parallelo di Le 22,1-34 servirà da contromodello al racconto
marciano, in quanto rappresenta una diversa gestione della trama.

M e 14 Le 22

1D opo due g io rn i e ra la P a sq u a e i p a ­ 1La fe sta d ei p a n i se n z a lievito, che


n i s e n z a lievito, e i so m m i s a c e rd o ti e c h ia m a n o P asq u a , si av vicinava 2e i
gli sc rib i c e rc a v a n o com e, a v en d o lo so m m i sa c e rd o ti e gli sc rib i cercav an o
c a ttu ra to con in g a n n o , u c c id e rlo . 2Di­ il m o d o d i so p p rim e rlo , p e rc h é te m e ­
cev ano in fatti: «N on d u ra n te la fe sta , v an o il popolo.
p e r p a u r a che vi s ia u n tu m u lto del
popolo».

3E tro v a n d o si egli a B eta n ia n e lla c a sa


di Sim one il le b b ro so , m e n tre e ra a ta ­
vola, v e n n e u n a d o n n a av e n te u n vaso
di a la b a stro di p ro fu m o di p u ro n a rd o
a s s a i costoso. E lla ru p p e il v aso dì a la ­
b a s tro e glielo v ersò sulla te sta . 4A lcu­
n i s ’in d ig n a ro n o fra loro: « P e rc h é q u e ­
sto sp reco di p ro fu m o h a e ss a fatto ?
5Si p o te v a v e n d e re q u e sto p ro fu m o a
p iù di tre c e n to d e n a ri e d a rli ai p o v e ­
ri!». E si irrita v a n o co n tro di lei. 6Ma
G esù disse: «L asciatela, p e rc h é le d a te
fastid io ? H a co m piuto u n 'a z io n e b u o ­
n a v erso di m e. 7P erch é di p o v e ri n e
avete se m p re con voi, e q u a n d o vo lete
p o te te fa r loro del b en e; m a n o n a v ete
m e p e r se m p re . 8E lla h a fatto ciò che
e r a in su o p o te re : in a n tic ip o h a p r o ­
fu m ato il m io corpo p e r la se p o ltu ra .
9In v e rità io vi dico che o v u n q u e s a r à
p ro c la m a to l’E vangelo n e l m o n d o in te ­
ro , in ric o rd o d i lei si d irà a n c h e q u el­
lo che h a fatto».

(segue)

71
M e 14 Le 22

10E G iuda Iscario ta, u n o d ei D odici, si 3E S a ta n a e n trò in G iuda d etto Isc a rio ­
recò d a i so m m i sa c e rd o ti p e r c o n se ­ ta, che e ra d el n u m e ro d ei Dodici, 4e,
g n arlo loro. 11E ssi, all’u d irlo , si ra lle ­ e sse n d o si a llo n tan a to , p a rlò co n i so m ­
g ra ro n o e p ro m ise ro di d a rg li d el d e ­ m i sa c e rd o ti e i c o m a n d a n ti della g u a r­
n a ro . E c e rc a v a com e a l m o m en to fa­ d ia su l m o d o d i co n se g n a rlo a loro. 5E d
vorevole co n seg n arlo . essi si ra lle g ra ro n o e c o n c o rd a ro n o di
d a rg li del d e n a ro . 6Egli accettò e ce rc a ­
va u n ’occasio n e favorevole p e r c o n se­
g n arlo a loro di n a sc o sto d alla folla.

12Il p rim o giorn o dei p a n i se n z a lievito, 7V enne il giorn o dei p a n i se n z a lievito,


q u an d o si im m o lav a la P asq u a, i suoi n e l q u ale si d oveva im m o la re ' la P a ­
discepoli gli dicono: «Dove vuoi che a n ­ sq u a, 8e d egli m an d ò P ietro e G iovanni
diam o a p re p a r a re , p e rc h é tu p o ssa dicendo: « A n d ate a p re p a r a re p e r noi
m a n g ia re la P a sq u a ? » 13E d egli m a n d a la P a sq u a, che n o i la p o ssiam o m a n ­
d u e dei su o i discepoli e dice loro: «A n­ g iare» . 9E ssi gli dissero : «Dove vuoi che
d a te in città e vi v e rrà in c o n tro u n u o ­ p re p a ria m o ? » . 10 D isse loro: «Ecco,
m o che p o rta u n a b ro c c a d ’acq u a. Se­ q u a n d o e n tre re te n ella città, vi v e rrà
guitelo, u e là dove e n tre rà , dite al p a ­ in c o n tro u n uo m o che p o rta u n a b ro c ­
d ro n e della casa: “Il m a e s tro dice: Do- ca d 'a c q u a . Seguitelo n e lla c a sa dove
v ’è la m ia sala, dove io p o ssa m a n g ia ­ e n tre rà , u e d ire te al p a d ro n e della ca­
r e la P a sq u a con i m ie i d iscepoli?". sa: “Il m a e s tro ti dice: Dov’è la sa la d o ­
15E gli vi m o s tre rà u n a s ta n z a al p ia n o ve po sso m a n g ia re la P a sq u a con i m iei
su p erio re, g ra n d e , a rr e d a ta , p ro n ta ; là d isc e p o li? ” 12Ed egli vi m o s tre rà u n a
p re p a r e re te p e r noi». 16I d iscepoli p a r ­ s ta n z a al p ia n o su p e rio re , g ra n d e , a r ­
tiro n o e a n d a ro n o in città, e tro v a ro n o re d a ta ; là p re p a re re te » . 13P artiti, tr o ­
com e egli av eva d etto lo ro e p r e p a r a ­ v a ro n o com e av ev a d etto loro e p r e p a ­
ro n o la P asq u a. ra ro n o la P asq u a.

17V enuta la se ra , egli a rriv a con i D odi­


ci. 18M en tre e ra n o a tav o la e m a n g ia ­
v an o , G esù disse: «In v e rità vi dico che
uno di voi, che m a n g ia co n m e, m i con­
seg n erà» . 19C om inciaro n o a d e sse re
tris ti e a dirgli u n o dopo l’altro: «Sono
fo rse io?». 20M a egli d isse loro: «Uno
dei D odici, che m ette con m e la m an o
n el p iatto. 21P erch é il Figlio d ell’uom o
se n e v a secondo ciò che è sta to scritto
di lui, m a che s v e n tu ra p e r q u ell’uom o,
d al quale il Figlio dell’uo m o v ie n e co n ­
segnato! S areb b e b e n e p e r q u ell’uom o
il n o n e sse re stato g en erato !» .

(segue)

72
M e 14 Le 22

22M en tre m a n g iav an o , p re so d el p an e , UE q u a n d o v en n e l’o ra, si m ise a ta v o ­


p ro n u n c ia ta la b en ed iz io n e, lo sp ezzò e la, e gli a p o sto li con lui. 15E d isse loro:
10 diede loro e disse: « P ren d e te , questo «Ho d e sid e ra to a rd e n te m e n te di m a n ­
è il m io corpo». 23E p re s a u n a coppa, g ia re q u e sta P a sq u a co n voi p rim a che
aven d o reso grazie, la died e loro e ne 10 p a tisc a. 16P e rch é io vi dico che m a i
bevvero tu tti. 24E disse loro: «Q uesto è p iù la m a n g e rò fino a q u a n d o essa n o n
11 m io sa n g u e dell’allean z a , v e rsa to p e r sia c o m p iu ta n e l R egno di Dio». 17E, r i­
m olti. 25In v e rità vi dico che m a i p iù c e v u ta u n a co p p a, av en d o re so g razie,
b e rrò del p ro d o tto della vite fino al disse: « P re n d e te la e co n d iv id etela fra
giorno in cui io lo b e rrò nu o v o n e l Re­ voi. 18P erch é, vi dico che m a i p iù d ’o ra
gno di Dio». in p o i b e rrò d el p ro d o tto della vite fino
a che v e n g a il R egno di Dio». 19E, p re ­
so d el p a n e , av en d o reso g razie, lo
sp ezzò e lo died e loro dicendo: «Q uesto
è il m io co rp o d ato p e r voi. F ate questo
in m ia m e m o ria » . 20E p e r la coppa, fe­
ce lo stesso dopo la cena, dicendo:
«Q uesta c o p p a è la n u o v a a lle a n z a n e l
m io sa n g u e v e rsa to p e r voi».

21«M a ecco, la m a n o di colui che m i


c o n seg n a è con m e alla tavola. 22P erch é
11 Figlio d ell’uo m o se n e v a seco n d o
q u a n to è sta to stab ilito . M a qu ale sc ia ­
g u ra p e r q u ell’uo m o d a l q u ale viene
co n seg n ato !» . 23E c o m in ciaro n o a d i­
sc u tere l'u n l’altro: chi s a re b b e tr a loro
che a v re b b e fatto questo?

24A vvenne a n c h e u n a d iscu ssio n e fra


loro su chi di loro fosse d a c o n sid e ra re
il p iù g ra n d e . 25M a disse loro: «I re d e l­
le n a zio n i d o m in an o s u di esse, e q u a n ­
ti h a n n o a u to rità su di esse so n o c h ia­
m a ti b e n e fa tto ri. 26M a voi, n ie n te di
tu tto q u esto . M a che il p iù g ra n d e tr a
voi d iv en ti com e il p iù giovane, e chi
c o m a n d a co m e colui che serve. 27In fat­
ti ch i è il p iù g ra n d e: colui che è a ta ­
v ola o ch i serv e? N on fo rse chi è a ta ­
vola? O ra, io sono in m ezzo a voi com e
colui che serve. 28Voi siete quelli che
avete p e rs e v e ra to co n m e n elle m ie

(seguej

73
M e 14 Le 22

p ro v e. 29E io p re p a ro p e r voi u n Regno


com e il P a d re m io h a p re p a ra to p e r
m e, 30affinché m a n g ia te e b e v ia te alla
m ia ta v o la n e l m io reg n o , e voi siede-
re te su tro n i p e r g iu d icare le d o d ici tr i­
b ù d ’Israele. 31S im one, S im one, ecco
che S a ta n a vi h a ce rc a ti p e r vag liarv i
com e il g ra n o . 32M a io ho d o m a n d a to
p e r te che la tu a fede n o n v e n g a m e n o .
E tu, q u a n d o s a ra i co n v ertito , c o n fe r­
m a i tu o i fratelli».

26E, can ta ti i salm i, usciro n o v erso il 33Egli gli disse: «S ignore, con te sono
m o n te degli Ulivi. 27E G esù d isse loro: p ro n to a d a n d a re a n c h e in p rig io n e,
«Tutti voi sa re te scan d alizzati, p e rc h é è a n c h e alla m o rte » . 34M a gli disse: «Pie-
stato scritto: P ercu o terò il p a sto re e le . tro , ti dico che il gallo n o n c a n te rà og­
p eco re s a ra n n o disp erse. 28M a dopo es­ gi p rim a che tu , p e r tre volte, a b b ia n e ­
sere stato risvegliato, vi p re c e d e rò in g ato di co n o scerm i» .
Galilea». 29Pietro gli disse: «A nche se
tu tti s a ra n n o scan d alizzati, alm en o n o n
io!». 30E G esù gli disse: «In v e rità io ti
dico che tu, oggi, q u esta ste ssa n o tte,
p rim a che il gallo can ti d u e volte, tu m i
rin n e g h e ra i tre volte». 31M a egli diceva
più forte che m ai: «A nche se d ovessi
m o rire con te, n o n ti rin n e g h erò » . E a n ­
che tu tti gli altri dicevano lo stesso .

(La tra d u zio n e d e i due te s ti in sin o ssi è c o n d o tta su lla b a se d e l te sto fr a n c e s e


di D a n iel M a rg u era t)

3.1. Me 14,1-31 e le sue trame incastonate


La sequenza scelta in Me 14 è Tinizio del racconto della passione;
va dall’annuncio del complotto contro Gesù (14,1-2) all’annuncio del
rinnegamento di Pietro (14,30-31). La relazione fra Gesù e i suoi di­
scepoli e la predizione degli avvenimenti futuri costituiscono il tema
degli episodi successivi. A partire da 14,32, la scena si sposta al Get­
semani, e gli eventi precipitano: arresto di Gesù e comparizione da­

74
vanti al Sinedrio. 14,1-31 assume dunque un ruolo di prologo narrati­
vo alla cattura e al giudizio di Gesù.33
L’osservazione della costruzione narrativa della sequenza fa perce­
pire una coerenza voluta dal narratore. Infatti constatiamo la presen­
za di un dispositivo strutturale di cui Marco fa largo uso, dato che qui
lo troviamo per la sesta volta dall’inizio del macro-racconto:34 la co­
struzione dell’incastonatura narrativa, detta sequenza a «sandwich»,
nella quale un filo narrativo viene interrotto da una scena mediana e
ripreso al termine di questa. Prima incastonatura ai w. 1-11: la ricer­
ca dei sommi sacerdoti e degli scribi ai w. 1-2, come uccidere Gesù
(«cercavano come [...] ucciderlo» lb), termina ai w. 10-11 («cercava
come consegnarlo» llb ). La scena incastonata è l’unzione di Gesù in
casa di Simone il lebbroso (w. 3-9). Dopo il passo di transizione dei w.
12-16, dedicato alla preparazione dell’ultima cena, troviamo una se­
conda incastonatura ai w. 17-31: ai w. 17-21, una predizione di Ge­
sù («uno di voi [.‫ ]״‬mi consegnerà» 18b) è seguita da un interrogato-
rio collettivo fra i discepoli (19); ai'vv. 26-31, una predizione di Gesù
(«tutti voi sarete scandalizzati» 27a) è seguita da un diniego collettivo
dei discepoli (31b). La scena incastonata ai w. 22-25 è l’ultima cena.
Sul registro compositivo, la ricorrenza del medesimo dispositivo strut­
turale segnala che alla trama viene conferita una struttura forte. Inol­
tre, notiamo che una inclusione chiude la sequenza: le due scene in­
castonate (w. 3-9 e 22-25) trattano entrambe della cena e del corpo di
Gesù, profumato e spezzato, sull’orizzonte di una morte annunciata.
Nella trama di incastonatura, si dispiega un gioco di interazione fra
la scena esterna e la scena interna; ma avanziamo l’ipotesi che la sce­

33 Ci possiam o chiedere se l’episodio della veglia di preg h iera al G etsem ani (14,32-
42) non dovesse essere integrato nella sequenza del prologo narrativo. Quattro fattori ci
inducono a p ensare che la cesura n arrativ a passa fra 31 e 32 più che fra 42 e 43: a) 32
segna un netto cam biam ento di luogo; b) la clausola k a i euthus («e subito») in 43a lega
cronologicam ente 42 e 43; c) il tem a delle predizioni (1-31) non prosegue in 32-42, m a
lascia il posto alla collocazione di Gesù davanti alla m orte im m inente; d) un gioco di in­
clusione tem atica (cena e corpo di Gesù) unisce le due scene incastonate (3-9 e 22-25).
34 Cf. M e 3,20-35 (episodio incastonato: 3,22-30); 4,1-20 (4,10-13); 5,21-43 (5,25-
34); 6,7-30 (6,14-29) e 11,12-21(11,15-19); il procedim ento riap p are a valle della n o stra
sequenza: 14,53-72 (14,55-65) e 15,40-16,8 (15,42-46). A tal proposito si veda M a h g u e -
r a t - B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione a ll‘analisi narrativa, Boria, Ro­

m a 22011, 45-46; 64-65.

75
na incastonata funzioni come chiave ermeneutica del dispositivo nar­
rativo. Il racconto incastonante è come imo scrigno che fa risaltare
l’importanza del racconto interno. Allora possiamo chiederci: Nella
struttura appena descritta, come si costruisce la tensione narrativa?
Come si orchestra la relazione dialogica narratore-narratario?
La comparazione con il racconto di Luca è tanto più interessante in
quanto ha de costruito il dispositivo compositivo marciano.35 L’equiva­
lente di Me 14,3-9 (l’unzione in casa di Simone) si legge in Le 7,36-50.
La predizione della consegna di Gesù (Me 14,17-21) è spostata dopo la
cena in Le 22,21-23. È abitudine del narratore Luca riorganizzare il
racconto marciano evitando il sovrapporsi di trame, al fine di ottene­
re un decorso narrativo lineare. Lungi dal limitarsi a un rimaneggia­
mento letterario, le sue decisioni, come vedremo, sono cariche di si­
gnificato teologico.

3.2. Me 14,1-11: ricerca di morte e ricerca di vita


I versetti 1-2 enunciano una prima complicazione: il progetto dei
sommi sacerdoti e degli scribi e la sua finalità mortifera: come uccide­
re Gesù. A dire il vero, questo progetto era stato segnalato già a mon­
te. Prima del c. 13, col suo insegnamento apocalittico e la sua parene-
si sulla vigilanza, dopo il gesto violento di Gesù contro il Tempio di Ge­
rusalemme, 11,18 menzionava già la loro intenzione: «Essi cercavano
come farlo perire; infatti lo temevano, perché tutta la folla era colpita
dal suo insegnamento». Fin da quel momento il lettore capisce perché
in 14,1 si precisa che «cercavano come, avendolo catturato con ingan­
no, ucciderlo». Qui è presente un punto di vista valutativo e screditan­
te del narratore: il timore della folla li induce a ricercare il mezzo per
agire di nascosto con l’inganno. Il termine usato per definire il loro pro­
getto è aspro: uccìdere (apokteinein). Non sfugge al lettore un’ironia di

35 C ontrariam ente a u n ’opinione diffusa, com binare risultati della critica storica con
u n ’analisi narrativ a non è affatto illecito, purché non si confondano le p rocedure a ttra ­
verso le quali i risultati sono ottenuti. Così, postulare un n a rra to re Luca che rilegge e ri­
scrive il racconto di Marco perm ette di articolare le loro decisioni narrativ e senza lim i­
tarsi a giustapporle. Invece, v alutare diversam ente gli elem enti del racconto in funzione
del lavoro della critica delle fonti sareb b e u n a sconvenienza epistemologica.

76
situazione: nel contesto festivo e pasquale, i capi dei sacerdoti nutrono
un progetto di morte. Come potrà essere attuato? Il lettore viene la­
sciato nella più totale aspettativa: tutti gli scenari sono possibili.
Senza transizione, il racconto passa a tutt’altro luogo (w. 3-9): nel­
l’intimità della casa di Simone. Una donna anonima cosparge di profu­
mo la testa di Gesù. Prima del capitolo 13, in 12,41-44, un’altra donna
anonima aveva attirato l’attenzione di Gesù: la vedova venuta a porta­
re il suo minuscolo obolo per il Tempio. Gesù si era estasiato davanti a
questa donna che si era privata anche di quel poco che le restava per
vivere. Qui passiamo dalla penuria estrema all'eccesso: un vaso di ala­
bastro, del nardo puro, un profumo assai costoso (v. 3b). Il narratore
abbonda di epiteti, esaltando il dono per esprimere la straordinarietà e
stravaganza del gesto. Nulla è detto delle motivazioni della donna. Qui
cogliamo l’emergere della seconda complicazione: perché questo gesto
extra-ordinario? Qual è il suo significato? Che intenzione esprime?
L’azione trasformatrice è riferita con grande sobrietà. La formula­
zione è fattuale: «Ella ruppe il vaso di alabastro e versò sulla testa» (v.
3c). A partire dal v. 4, il racconto è focalizzato sul significato da attri­
buire a questo gesto. Un conflitto interpretativo si svolge fra «alcuni»
che si indignano (v. 4a) e Gesù che, in ima lunga dichiarazione, vuole:
a) proteggere la donna: «Lasciatela, perché le date fastidio?» (v. 6a);
b) affermare che: «Ha compiuto un’azione buona verso di me» (v. 6b);
c) legittimare la qualifica del suo gesto: w. 7-8, introdotti in 7a dalla
congiunzione gar {perché, infatti). Dal punto di vista dello schema qui­
nario, siamo allo stadio della soluzione. A questo punto la tensione do­
vrebbe allentarsi; accade invece il contrario: proprio qui tutto si com­
plica! Tocchiamo con mano la funzione timica del racconto.
Di che cosa si è alimentata la tensione narrativa? Alcuni (v. 4) qua­
lificano il gesto di unzione come «spreco di profumo».36 La formula­
zione è violenta. Lo «spreco di profumo» («Perché questo spreco di
profumo ha essa fatto?» v. 4) fa eco al verbo apollumi, utilizzato in
11,18 per descrivere la ricerca dei sommi sacerdoti, desiderosi di far
perire (o perdere) Gesù. Jean Delorme si è mostrato sensibile a questa

36 La TOB traduce male: «A che prò p erd ere così questo profum o?». Tradotto lette­
ralm ente, il greco dice: «In vista di che questa p erd ita di profum o?». La form ulazione è
n ettam ente più secca.

77
eco linguistica; dando un bel significato alla formula, egli parla di «pro­
fumo perso per un corpo perso».37 Il dibattito non avviene per deter­
minare se si tratta di una perdita o no; la perdita è fuori discussione.
La questione è: con quale finalità questo gesto, screditato come perdi­
ta, è stato compiuto? D’un tratto, il valore investito - che il v. 3 defini­
va in termini di preziosità inestimabile - è mercificato, quantificato: il
profumo poteva essere venduto per 300 denari (v. 5a). Inoltre, viene
menzionata un’altra destinazione: il dono ai poveri (v. 5a). L’esercizio
è fittizio, dato che il profumo è stato versato;38 ma questa finzione di
rimprovero penalizza doppiamente il gesto della donna, denigrato da
una parte perché considerato uno spreco, dall’altra perché qualificato
come un’occasione mancata di opera buona.
Gesù si oppone a questo discredito. Questo è l’oggetto dei w. 6-7.
Dopo aver protetto la donna («Lasciatela...» 6a), rivendica anzitutto
per il suo gesto la qualifica di «opera buona» {kalon ergon 6b). In se­
condo luogo elimina la concorrenza con un’altra «opera buona», met­
tendo in contrapposizione la permanenza della presenza dei poveri
con la precarietà della propria presenza («ma non avete me per sem­
pre» 7b). In terzo luogo, fa sorgere un possibile significato al suo ge­
sto metaforizzandolo (v. 8). L’imbalsamazione del suo corpo, che del
resto non avrà luogo per l’assenza del corpo, viene anticipata con que­
sto gesto che costituisce l’unzione. Gesù valorizza un gesto che antici­
pa sia il tempo (la sua morte) sia lo spazio (la sua tomba). Contro una
logica di redditività morale (il dono ai poveri), che egli non intende
escludere, fa presente un’altra logica che appartiene alla temporalità:

37 J. D e l o h m e , «Sémiotique et lecture des évangiles à propos de Me 14,1-11», in A.


Caquot (ed.), N aissance de la m éthode historico-critique, (Patrim oines. Christianism e),
Ceri, Paris 1992, 161-174, citazione a p. 170. Dello stesso autore: «Parole, Évangile et
m ém oire (Marc 14,3-9», in D. M a r g u e r a t - J. Z u m s t e i n (edd.). La m émoire et le temps.
M élanges Pierre Bonnard, L abor et Fides, Genève 1991, 112-140: «Il racconto dell’u n ­
zione apre come un portico il racconto della Passione. L’uno e l’altro, l’uno nell'altro, ra c ­
contano la perdita irrim ediabile che fa scandalo è segna definitivam ente la m em oria. È
profum o unicam ente p er essere diffuso. Acquista senso unicam ente a questa condizio­
ne. Bisognava che fosse perduto, p e r ren d ere omaggio al corpo ora scom parso‫׳‬e p er n e ­
garne sim bolicam ente la m orte» (p. 123).
38 C. F o c a n t , L'évangile selon M arc, Cerf, Paris 2004, 515: «Anziché lasciarsi in ter­
rogare da quanto capita nella realtà, essi si rinchiudono nell’im m aginario. Di colpo si ri­
velano incapaci di leggere il segno posto dal gesto dell’unzione, quando invece esso
avrebbe dovuto interpellarli col suo lato straordinario, addirittura stravagante».

78
la precarietà della propria presenza. Affermare la permanenza della
presenza dei poveri non è un aforisma né un sarcasmo, ma ima remi­
niscenza di Dt 15,11 («I poveri non mancheranno mai nel paese»).
A questo effetto di intertestualità va aggiunto un effetto di intrate-
stualità: in 12,44, la donna dell’offerta al Tempio ha dato «tutto quel­
lo che aveva»; della donna in casa di Simone il lebbroso Gesù dice che
«ha fatto ciò che era in suo potere» (8a). Da una parte e dall'altra di
Me 13, si trovano faccia a faccia due averi: da un lato (12,41-44), un
avere miserabile offerto è sopravvalutato da Gesù, perché rappresen­
ta «tutto ciò che essa aveva per vivere»; dall’altro lato (14,3-9), un ave­
re dispendioso viene sopravvalutato, perché dà senso alla morte im­
minente. Nel lettore nasce la perplessità: in quale momento si tratta di
applicare la logica della redditività e la morale dell’assistenza ai pove­
ri e in quale momento sospendere questa logica in nome dell’impera­
tivo della presenza di Gesù? L’interrogativo non è risolto, ma al con­
trario acuito dal v. 9.
Il v. 9 fa saltare i confini temporali e geografici del racconto esal­
tando la memoria di questo gesto a segno di enunciazione del macro-
racconto nel mondo intero. Il procedimento di racconto speculare o di
«mise en abyme»39 è netto: il gesto della donna fa capire l’enunciazio­
ne del macro-racconto, dal momento che annuncia come un evangelo
(una buona notizia) la morte imminente di Gesù. L’unzione in casa dì
Simone fa capire che questa morte è donatrice di vita.
Ai w. 10-11 si ritorna alla scena iniziale. Si tratta di un ritorno al
desiderio di morte dei sommi sacerdoti, di cui Giuda si fa mediatore,
con conseguente loro gioia (v. Ila ). Ma è anche un ritorno - da allora
il racconto è andato avanti - alla logica pecuniaria: c’è una promessa
di denaro. Siamo giunti allo stadio della soluzione della prima compli­
cazione. La modalità ricercata viene trovata non grazie ai loro sforzi,
ma grazie all’iniziativa di Giuda. In situazione finale, l’esitazione dei
sommi sacerdoti sul momento favorevole (segnalata al v. 2) viene tra­
sferita su Giuda ed egli se ne fa carico; d’ora in poi è Giuda che cerca

39 Sul procedim ento di «racconto speculare o replica m iniaturizzata del racconto nel
racconto» [«mise en abym e», secondo il term in e coniato da A. Gide), inclusione n a rr a ­
tiva con la quale si riprend e il ,racconto p o rtan te e il suo significato, cf. M a r g u e r a t - Bour-
q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all'analisi narrativa, 118-120.

79
come consegnarlo «al momento opportuno», sapendo che questo mo­
mento felice affretterà l’arrivo della morte.
Quale bilancio possiamo trarre da questa lettura?
Nell’insieme della sequenza dei w. 1-11, a poco a poco è apparsa
una simmetria invertita, intessuta da vari fili narrativi. Da una parte,
si producono due reazioni contrarie: la gioia dei sommi sacerdoti da­
vanti all’offerta di Giuda e la non-gioia dei discepoli che circondano Ge­
sù alla vista del gesto della donna. Dall’altra parte, il denaro gioca due
ruoli opposti: serve a dire l’evangelo sul corpo di Gesù e serve a stru­
mentalizzare il tradimento di Giuda. Infine, sono posti a confronto due
luoghi simbolici, dai valori totalmente sovvertiti: la casa di Simone il
lebbroso è un luogo di impurità dove viene annunciato anticipatamen­
te l’evangelo, mentre il «luogo» dei sommi sacerdoti, spazio di santità,
si rivela pronto a fomentare la morte.
Sul piano della storia raccontata, la costruzione a trama incasto­
nata ha introdotto un’inversione delle figure. Quelli che dovrebbero es­
sere santi cercano la morte di Gesù. Gli intimi di Gesù sbagliano logi­
ca o [via Giuda) diventano mediatori del progetto di morte. Una don­
na anonima, con un gesto del tutto incongruo, pone un atto significa­
tivo dell’evangelo in quanto tale.
Sul piano timico, attraverso queste molteplici inversioni, le aspet­
tative del lettore sono state disattese e i suoi interrogativi restarlo sen­
za risposta. Perché la donna si accinge a ungere Gesù con così tanta
stravaganza? Quando va individuato il «momento opportuno» in cui
sospendere l’aiuto ai poveri?40 Perché Giuda offre ai sommi sacerdoti
il modus operandi del loro complotto? Quanto Baroni dice a proposito
della reticenza informativa come mezzo per nutrire la tensione narra­
tiva si applica particolarmente bene al narratore Marco: egli ne parla

40 É . C u v il l ie r qualifica escatologicam ente la sospensione della logica m orale: «L’or­


dine del m istero del Regno di Dio [...] è un ordine che suppone l’istan te di un incontro
in cui il tem po di questo m ondo è posto tra parentesi, in cui le regole di questo mondo
sono sospese. Un tem po in cui si gioca l’essenziale di ciò che costituisce l’esistenza a u ­
tentica dell'individuo. [...] Il gesto di questa d onna colpisce p e r il fatto che indica il luo­
go in cui si gioca il m istero del Regno di Dio» (U évangile de M arc, B ayard-Labor et Fi­
des, Paris-Genève 2002, 275; tr. it. Evangelo secondo Marco, Qiqajon, M agnano 2011).
Si n o terà che questa soluzione, adeguata nella teologia del secondo Vangelo, non è co­
m e tale form ulata dal n a rra to re e risu lta nel lettore del lavoro interpretativo suscitato
dal non-detto del racconto.

80
così poco che il suo racconto precipita il lettore nella perplessità. Tan­
to più che, come abbiamo visto, i valori attesi vengono sovvertiti dal­
l’inversione delle figure. In breve, il racconto di Marco crea tante in­
certezze quante sono le informazioni che dà.41
Questa caratteristica del racconto marciano diventa tanto più rile­
vante quando lo mettiamo a confronto col racconto di Luca, che si ri-
fà a una gestione narrativa totalmente diversa. Come abbiamo già no­
tato, Le 22 non presenta un equivalente del racconto dell'unzione. I w.
1-6 offrono però un parallelo al racconto incastonante di Me 14,1-2.10-
11. Le differenze in rapporto a Marco sono notevoli. La ricerca da par­
te dei sommi sacerdoti e degli scribi sul mezzo per far morire Gesù vie­
ne spiegata dal fatto «che temevano il popolo» (Le 22,2b). Questo cor­
risponde all’offerta di Giuda di consegnar loro Gesù «di nascosto dal­
la folla» (Le 22,6). Luca focalizza più nettamente sulla competenza di
Giuda, che offre ai sommi sacerdoti il saper-fare e il poter-fare che a
loro manca. Ma soprattutto, il narratore spiega l’iniziativa del disce­
polo col fatto che «Satana entrò in Giuda» (Le 22,3). L’irruzione di que­
sto elemento esterno nella cerchia dei protagonisti fa della passione il
luogo di un combattimento fra Dio e il Male, e qualifica di colpo l’al­
leanza dei sommi sacerdoti con Giuda che diventa un’alleanza con Sa­
tana. Così pure si dà una risposta all’interrogativo: perché Giuda tra­
disce? Ci accorgiamo che Luca ha colmato con cura il non-detto del
racconto di Marco, riducendo le zone d’incertezza, dando informazio­
ni al lettore. In compenso, l’inserimento di Satana nella trama narra­
tiva drammatizza l’evento.

3.3. Me 14,12-16: Gesù il profeta


Questo episodio di transizione è dedicato ai preparativi del pasto del­
la Pasqua. A differenza di Luca (e di Matteo), il racconto marciano di­
mostra una personalizzazione e una fissazione sulla Pasqua di Gesù. La

41 La gestione delia tensione n arrativ a che abbiam o ap p en a descritto in Marco cor­


risponde sorprendentem en te alla definizione che viene pro p o sta da R. B a r o n i : «Il nodo
è un induttore d ’incertezza, u n generatore di discordanza, e lo scioglimento non è che
uno dei possibili futuri del racconto p iù che u n a g aranzia assoluta di concordanza»
(«C'est juste une question de timing! Du schèm a quinaire à la conception post-classique
de l’intrìgue», 208).
domanda dei discepoli riguarda la preparazione «perché tu possa man­
giare la Pasqua» (v. 12b), mentre Luca scrive «che noi la possiamo man­
giare» (Le 22,8). Al v. 14, si parla di «mia sala», mentre Luca scrive «la
sala» (Le 22,1 lb). Quello che in Luca è annunciato come un pasto co­
munitario in Marco si presenta come il pasto di Gesù con i dodici.
I commentatori sono stati colpiti dall’episodio della brocca d’acqua.
«Ed egli manda due dei suoi discepoli e dice loro: “Andate in città e vi
verrà incontro un uomo che porta una brocca d’acqua. Seguitelo, e là
dove entrerà, dite al padrone della casa: ‘Il maestro dice: Dov’è la mia
sala, dove io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?’”» (w. 13-
14). Dato che provvedere l’acqua era un compito tipicamente femmi­
nile (cf. Gv 4,28), la presenza di un uomo42 è un’anomalia sociale. Ba­
sandosi su questo dato storico, i commentatori hanno immaginato un
segnale di connivenza per un incontro clandestino, come in un ro­
manzo di spionaggio dove i protagonisti si riconoscono attraverso se­
gni convenuti.43 La ricostruzione storica è plausibile, ma sul piano nar-
ratologico la domanda adeguata è: sul lettore qual è l’effetto di questi
dettagli aneddotici in un momento così drammatico? A nostro parere,
la risposta è: questo episodio mette in rilievo il sapere predittivo di Ge­
sù. Questo sapere preciso e dettagliato riguarda del resto anche la co­
noscenza dell'allestimento interno della sala (v. 15). Ora, la stessa com­
petenza predittiva si rivelerà subito dopo anche nel secondo «sand­
wich», da un estremo all’altro dell’ultima cena (v. 17-21 e 26-31).
Questo sapere di Gesù lo colloca come signore (padrone) assoluto
degli eventi: egli li conosce in anticipo. Da parte del lettore, sorge rin ­
terro gativo: perché Gesù non va fino in fondo di tutto quello che sa e
non rivela il nome del traditore? Davvero, il narratore non smette di
giocare sull’enigma.

42 II testo (14,13b) h a anthrópos, che può significare «qualcuno» (ris), e non anèr
che indicherebbe esplicitam ente un m aschio: m a sarebbe del tutto insolito designare im a
donna con anthrópos.
43 J . G n il k a non dà im portanza all’anom alia sociale della p resen za di un uomo che
p o rta una brocca d’acqua e insiste sulla b an alità quotidiana della scena {Marco, Citta­
della, Assisi 1987, 763). Invece il fatto è posto in rilievo da S: L é g a s s e : «Per il narrato re,
questo incontro non può quindi essere classificato fra le b analità della tra d a che tutti
possono aspettarsi: si tra tta sen z’altro di una previsione che Gesù deve alla sua scienza
soprannaturale» (L’É vangile de M arc, Cerf, Paris 1997, II, 858; tr. it. M arco, Boria, Ro­
m a 2000).

82
3.4. Me 14,17-31: la comunità dell’assente
In questo passo più che il racconto eucaristico come tale (che eser­
cita sugli esegeti un potere d’attrazione fenomenale) ci interessa la
struttura della trama. Richiamiamo la sua costruzione a incastro: pre­
dizione di Gesù sul tradimento (w. 17-21) - ultima cena (w. 22-25) -
predizione di Gesù sulla caduta dei discepoli (w. 26-31). Ora proprio il
dispositivo di costruzione della trama è sintomatico, perché il racconto
dell’ultima cena, che per i primi lettori di Marco rinvia a una memoria
del pasto di Gesù e a una pratica liturgica nota, è un racconto differito.
Analizziamo il testo per mettere a confronto ciò che accade in Lu­
ca. Il suo racconto presenta una continuità pragmatica: i preparativi
(Le 22,7-13) sono immediatamente seguiti dal racconto del pasto (Le
22,14-20). È anche possibile cogliere un’ellissi tra 22,13 (la prepara­
zione della Pasqua) e 22,14 (l’ora di mettersi a tavola); il racconto sal­
ta senza transizione dall’ima all’altra.
Marco, da parte sua, ha introdotto un effetto-ritardo. Fra i prepara­
tivi e la cena viene intercalato l’annuncio che uno dei dodici lo tradirà
(w. 17-21). Marco costruisce in tal modo una commensalità, un man­
giare insieme, che integra di colpo la prospettiva delTanonimo tradi­
mento. La tristezza44 s’impadronisce dei discepoli, e ciascuno s’inter­
roga: «Sono forse io?» (v. 19). Si noti che la clausola interrogativa «for­
se io?» in greco regge una risposta negativa.45 La commensalità che si
costituisce è dunque ferita al proprio interno. Il v. 20 insiste in modo ri­
dondante: «Uno dei Dodici, che mette con me la mano nel piatto». La
menzione dell’appartenenza ai dodici designa la cerchia intima. La for­
mula mettere la mano con me nel piatto si rifa a Sai 41,10, dove desi­
gna la disgrazia somma: colui che condivide il pane con il salmista an­
che alza il suo piede contro di lui.
L’effetto di annuncio scatena la tensione narrativa (prima compli­
cazione). Con questa predizione anonima, Gesù non stigmatizza un in­

44 II verbo dell’afflizione [lupeirì) si trova di nuovo in Marco soltanto a proposito del­


l’uomo ricco, rattristato si (lupoum enos) all’invito di Gesù di dare i suoi beni ai poveri p e r
seguirlo (Me 10,21).
45 F. Blass - A. D e b r u n n e r - F. R e h k o p f , G ram m atik des n eutestam entlichen Grie-
chisch, Gòttingen, V andenhoeck und Ruprecht, 141976, § 427,2; tr. it. Gramm atica del
greco del Nuovo Testam ento, Paideia, Brescia 1982.

83
dividilo proteggendo il gruppo dal sospetto; al contrario, infiltra il so­
spetto nel gruppo. Con questa reticenza, che conferisce alla parola di
Gesù un carattere enigmatico, viene risvegliata in ciascuno dei dodici
la potenzialità del tradimento, e questo li induce a chiedersi «uno do­
po l’altro: “Sono forse io?”» (v. 19).46 Gesù sta per ritualizzare la con­
divisione del pane e del vino con un gruppo reso insicuro - in ogni ca­
so un gruppo all’interno del quale è stata iscritta la partecipazione al­
l’opera di morte, senza ridimensionarla con l’indicazione del tradito­
re. La costruzione di questo gruppo acquista significato nella misura
in cui essa non può non ricadere sul lettore. Anch’egli partecipa a que­
sto rito nel quale si fa memoria dell’ultima cena di Gesù. Il modello di
commensalità che gli è dato non è una cerchia impeccabile, ma una
cerchia peccabile, dove la colpa è oscuramente presente.
Lo statuto del tradimento è tuttavia inquadrato, notiamolo (v. 21).
La violenza fatta al Figlio dell’uomo è conforme alle Scritture, e dun­
que al disegno di Dio; non si tratta di un accidente al quale Dio sareb­
be estraneo. Inoltre, «ma che sventura per quell’uomo, dal quale il Fi­
glio dell’uomo viene consegnato!» (2la). Il «che sventura» (ouai) non
introduce una maledizione, ma un lamento funebre; l’individuo attra­
verso il quale si svolge il dramma vede la propria azione posta sotto il
segno della disperazione e della morte. La tensione narrativa innesca­
ta dall’annuncio del tradimento viene a trovarsi rafforzata.
Ai w. 22-25, l’ultima cena dà luogo a un’interpretazione della mor­
te di Gesù con la metaforizzazione del pane spezzato e della coppa con­
divisa. Questa metaforizzazione:
a) opera sotto il segno del dono, di cui Gesù è l'iniziatore (ricor­
renza di «diede loro»: w. 22a.23a);
b) annuncia l’espansione della commensalità futura («Questo è il
mio sangue dell’alleanza, versato per molti»: v. 24b);
c) instaura un regime di assenza di Gesù sotto l’orizzonte del Re­
gno futuro («mai più berrò del prodotto della vite fino al giorno in cui
io lo berrò nuovo nel Regno dì Dio»: v. 25).
Così, anticipando l’evento della crocifissione, Gesù offre ai suoi di­
scepoli una lettura della propria morte sotto il segno di un dono fon­

46 D.P. S e n i o r , The Passion o f Jesu s in thè Gospel o f M ark, Liturgical Press, Colle-
geville 1991, 53; tr. it. La passione di Gesù n e l Vangelo di M arco, À ncora, Milano 1988.

84
datore di alleanza. Insistiamo sul fatto che, contrariamente alla lettu­
ra classica di questo passo, la parola che metaforizza non è pronun­
ciata sul pane e sulla coppa, ma sul pane dato e ricevuto e sulla cop­
pa alla quale tutti hanno bevuto. Proprio nella condivisione degli ele­
menti la morte futura acquista pieno significato.
I w. 26-31 si riallacciano con il tema dei w. 17-21 esprimendo in
successione una cascata di predizioni: tutti saranno scandalizzati, Ge­
sù precederà i suoi in Galilea, Pietro rinnegherà Gesù.
In relazione ai w. 17-21, dove veniva predetto il tradimento di uno
solo, qui si prospetta il destino di tutti. Il termine tutti, del resto, lo tro­
viamo tre volte, ripreso da tre locutori diversi. Lo annuncia per primo
Gesù: «.Tutti rimarrete scandalizzati» (v. 27a). Poi è Pietro che confer­
ma, ma per prospettarlo escludendo se stesso: «Anche se tutti si scan­
dalizzeranno, io no!» (v. 29). Infine troviamo il narratore che com­
menta l’unanimità del gruppo nel rifiuto di tale predizione: «Lo stesso
dicevano pure tutti gli altri» (v. 31b). Questa insistenza sulla totalità in­
troduce la seconda complicazione della sequenza, portando la tensio­
ne narrativa al parossismo: tutti sono stati beneficiari del dono e tutti
stanno per venir meno. Il tradimento di Giuda si profila come la pun­
ta estrema di una caduta che coinvolge la partecipazione di tutti.
Dove situare la soluzione? Si profila discretamente, posto fra l’an­
nuncio della caduta di tutti (v. 27) e il disconoscimento di Pietro, che
sarà confutato dalla predizione del suo rinnegamento (w. 29-31). L’an­
nuncio della caduta di tutti è supportato da una citazione di Zc 13,7:
«Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse»; ancora una vol­
ta gli avvenimenti, pur drammatici, non sfuggono al piano di Dio atte­
stato dalla Scrittura. Ma soprattutto, Gesù ritorna su questa predizio­
ne aggiungendone un’altra: «Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò
in Galilea» (v. 28). Il verbo proagein («camminare davanti»), significa
sia precedere sia guidare.41 Per la prima volta nel Vangelo di Marco,
l’annuncio della risurrezione non è una risposta alla morte di Gesù, ma
una via d’uscita offerta ai discepoli dopo la loro defezione.48 Allo sban­

47 II prim o significato [precedere) si legge in Me 11,9, il secondo [guidare, cam m i­


nare davanti) in Me 10,32.
48 Gesù h a già annunciato la propria risurrezione quattro volte, a monte del racconto:
Me 8,31; 9,9; 9,30; 10,34. Come fa notare C u v il u e r , «In un certo modo, è “p er loro” che Ge­
sù è risorto, affinché non restino nella disperazione del rimorso» (Vévangile de Marc, 282).

85
damento dei discepoli seguirà un «dopo». Dopo l’aumento della ten­
sione creata dal «tutti», occorre dunque parlare di una soluzione. Ma
il racconto, anziché concludersi su questa soluzione tranquilla, si fa più
vivace con la dichiarazione di Pietro, che prospetta tutti i tradimenti a
esclusione del proprio; Pietro si chiama fuori dal «tutti» proclamando:
«Io no!» (v. 29). Appena enunciata, la soluzione è dunque bloccata dal
rifiuto di Pietro - un impegno che poi non manterrà. Qui troviamo una
struttura tipicamente mar ciana, prossima al malinteso, che la reazio­
ne di Pietro al primo annuncio della passione illustra molto bene (Me
8,31-33). Come Pietro aveva rimproverato Gesù in seguito all’annun­
cio della sua morte (Me 8,32), così egli qui rifiuta la possibilità del suo
venir meno, portando con sé il rinnegamento di tutti.
Riassumendo, la costruzione della trama mediante incastro in
14,17-31 non procede attraverso inversione delle figure come in pre­
cedenza, ma attraverso intensificazione della tensione narrativa. In un
primo tempo, l’anonimato mantenuto circa il traditore fa circolare il
sospetto all’interno del gruppo. In un secondo tempo, la caduta e l’ab­
bandono di Gesù si profilano come il destino di tutti i discepoli. Ma an­
ziché profilarsi la soluzione attraverso lo splendore pasquale che so­
praggiunga portando l’atteso conforto, Pietro e i suoi compagni con­
trappongono un diniego alla predizione del Maestro. L’orizzonte di Pa­
squa è un orizzonte contrastato. Al lettore resta l’impressione di un
dialogo mancato, dove Gesù non viene creduto quando annuncia la de­
fezione dei suoi, e rimane inascoltato quando afferma che questa de­
fezione non è l’ultimo atto della loro relazione. La promessa di prece­
derli in Galilea rimane come una parola campata in aria.
Posto a confronto, il testo di Luca (22,14-34) trasforma la scena del­
la cena in scena di addio, dove tutto si svolge su iniziativa di Gesù. Già
in Le 22,8, trattandosi dei preparativi della Pasqua, potevamo rilevare
la medesima piega: il Gesù lucano dispone, mentre in Marco i disce­
poli propongono.49 La focalizzazione sull’iniziativa di Gesù appare in
22,15 attraverso un marcatore enunciativo forte: «Ho tanto desidera­
to mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione». Il nar­

49 Me 14,12: «[...] i suoi discepoli gli dicono: “Dove vuoi che andiam o a fare i p re ­
parativi perché tu possa m angiare la P asq u a?‫»״‬. Le 22,8: «[...] Gesù m andò Pietro e Gio­
vanni dicendo: “A ndate a p re p a ra re p er noi la Pasqua, perché la m angiam o”».

86
ratore ha usato una parafrasi ebraica intensiva (letteralmente: «ho de­
siderato con un desiderio») per esprimere l’ardente desiderio di Gesù
nell’imminenza del suo patire.50 La temporalità è delimitata da un du­
plice riquadra: mangiare questa Pasqua ha luogo nell’imminenza di
una sofferenza che sta per venire, ma anche sotto l’orizzonte del Re­
gno di Dio («Perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si
compia nel regno di Dio», 22,16). La cena è annunciatrice di un’as­
senza in prospettiva escatologica. Viene ritagliato e preservato uno
spazio che dà senso all’assenza.
Come in Marco, l’identità di colui che consegnerà il Figlio dell’uo­
mo resta nascosta, scatenando in seno al gruppo dei discepoli un in­
terrogarsi a vicenda (22,21-23). Questa menzione inaugura quello che
si suol chiamare un discorso di addio, che amplifica il racconto dell’ul­
tima cena e va dal v. 21 al v. 34. Queste ultime parole di Gesù ai disce­
poli sono consacrate al tema della grandezza di colui che serve e al­
l’annuncio delle prove future. Sono interamente rivolte al destino dei
discepoli. Questi sono gratificati come coloro che hanno «perseverato
con me nelle mie prove» (22,28) e siederanno in trono con Gesù a giu­
dicare le dodici tribù d’Israele (22,30). Ma sono anche esposti alle pro­
ve di cui Satana è l’istigatore: «Satana vi ha cercati per vagliarvi come
il grano» (22,31). Simon-Pietro, il cui rinnegamento viene predetto do­
po che egli ha assicurato di voler andare fino alla morte per il suo mae­
stro (22,33-34), riceve prima la più bella delle garanzie: «Ma io ho pre­
gato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta con­
vertito, conferma i tuoi fratelli» (22,32). Lo scarto che separa il testo di
Luca da quello di Marco non potrebbe rivelarsi più ampio: da una par­
te (Marco), uno smarrimento del gruppo dei discepoli, del quale per tut­

50 C l a j r e C l i v a 2 h a insistito sull’ardente desiderio di Gesù di m angiare la P asqua con


i discepoli come indicatore del suo p ro g ram m a narrativo in Le 22. Com m enta così: «[...]
il tem po della sofferenza è già cominciato. La “m ano di colui che m i consegna" eviden­
zia l’im possibilità di questo “con voi” ideale. Infatti la tem poralità - “p rim a della m ia
p assione” - sfugge al controllo di Gesù, perché è form ulata con il dover-fare nel quadro
del racconto, e la composizione del gruppo dei discepoli orm ai non è più questo “con
voi” proposto in Le 22,15. [...] L’azione anaforica della m ano di colui che lo consegna ri'
vela che nel gruppo designato con questo “con voi” in 22,15 è già presen te il traditore,
è già presente la sofferenza, è già presen te l'o ra che h a inizio nella sala al piano supe­
riore e non solo al m om ento dell’arresto» (C. C l iv a z , L'ange et la su eu r de sang [Lue
22,43-44] ou Comm ent on pourrait bien encore écrire Vhistoire, Peeters, Leuven 2010,
365-411, citazione a p. 379).

87
ti è predetta la caduta, e una parola di Gesù negata o non ascoltata; dal­
l’altra (Luca), un incoraggiamento al gruppo, gratificato escatologica­
mente d’aver resistito alle prove, e la promessa che l’ostilità di Satana
non spezzerà la fede di Simon-Pietro. L’ardente desiderio di Gesù di
mangiare la Pasqua con i suoi amici si concretizza così in un discorso
testamentario dove la sorte dei discepoli, posta sotto l’egida di un’au­
torità da riscoprire nel servizio, è garantita dalla protezione divina.

4. Conclusione
La differenza nell’indagine fra l’approccio classico della trama (se­
condo lo schema quinario) e l’approccio post-classico (la tensione nar­
rativa) si è rivelata nettamente. Da parte dello schema quinario: in che
cosa e come il racconto si inscrive all'interno della successione di frasi
nell’universalità del raccontare? Da parte della tensione narrativa: co­
me giunge il racconto a captare l'interesse del lettore e a gestire la sua
attenzione, in una parola a «intrigarlo»? Da un lato, si identifica la pre­
senza delle strutture immanenti della narrazione; dall’altro ci si attac­
ca alla funzione pragmatica del testo e alla sua azione sul ricettore.
Al momento della nostra lettura di Me 14 e Le 22, abbiamo rileva­
to che i due approcci non si escludono affatto, ma che le loro indagini
si situano su due versanti differenti della testualità: uno sul versante
composizionale, l’altro sul versante dialogico. L’attenzione alla tensio­
ne narrativa è un correttivo apportato a una strutturazione della tra­
ma fissata sulla storia raccontata; essa mette in evidenza il fatto che la
gestione della trama deriva dalla costruzione del racconto e mira a sol­
lecitare la co operazione del lettore, cioè che la trama fa della narra­
zione un atto performativo che agisce sul lettore. Suscitando nel letto­
re attese che egli delude o lasciandosi andare a uno smarrimento pro­
gressivo della figura dei discepoli, Marco accentua la tensione narrati­
va al fine di sorprendere e depistare il suo lettore. L’effetto inverso con­
statato in Luca denota una gestione della tensione narrativa orientata
a confermare e rassicurare il lettore.
Ma, si obietterà, possiamo ancora parlare di sorpresa, di suspense
o di curiosità del lettore quando si tratta di racconti biblici letti mille
volte? La reiterazione secolare dei testi della Bibbia non ha forse scal­
fito la loro capacità di captare l’attenzione dei lettori? La difficoltà po­
sta dall’usura della letteratura biblica è reale. Ma bisogna individuare

88
dove sta l’insidia del già noto. Consiste nell’affrontare lo sviluppo pre­
cedente del testo anticipandone la fine. Ponendo all’inizio della lettura
un finale che ritiene di conoscere, il lettore blocca la dinamica del te­
sto, che non è più in grado di tracciargli un percorso.
Ora, in narratività, la dinamica testuale scaturisce dalla polarità
complicazione-soluzione. È proprio qui che l’approccio post-classico
della trama si rivela utile agli esegeti. Osservare come si costruisce la
tensione narrativa, attraverso quale faticoso procedere, quali ambi­
guità, quali non-detti essa viene attivata, permette di evitare lo schiac­
ciamento del testo rispettando al tempo stesso i meandri del suo per­
corso e l’interattività che esso propone al lettore. Proprio al prezzo di
questo umile e rigoroso esame il lettore ritroverà i sapori, gli stupori e
le emozioni che il narratore si sforza di far emergere all’interno del­
l’atto di lettura.
Capitolo terzo

LA TEMPORALITÀ
DELLA STORIA
DI GIUSEPPE
(GEN 37-50)

André Wénin

1. Introduzione
La storia di Giuseppe sviluppa una trama particolarmente sofistica­
ta. Prima di vedere come è qui elaborata la temporalità, non saranno for­
se inutili due preliminari: un breve richiamo della storia di questo lungo
racconto, che si snoda dal c. 37 al c. 50 del libro della Genesi, e alcuni
elementi di base sullo studio della temporalità in narratologia.

1.1. La storia di Giuseppe1


La storia comincia in Canaan, nella famiglia di Giacobbe. Giusep­
pe, primogenito della donna amata da Giacobbe, morta durante il.par­

* Prim a pubblicazione sotto il titolo: «Le tem ps dans l'histoire de ·Joseph (Gen
37-50). Repères tem porels po u r une analyse narrative», in Bìblica 83(2002), 28-53.
1 Ci perm ettiam o di rinviare a due opere su questo racconto: A. W é n i n , L’histoire de
Joseph (Genèse 37-50), Ceri, Paris 2004, e Id., Joseph ou Vinvention de la fra tern ité.
Lecture narrative et anthropologique de Genèse 3 7 -50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it.
G iuseppe o l ’invenzione della fra tella n za . L ettu ra narrativa e antropologica della Ge­
nesi. IV. Gen 3 7 -5 0 , EDB, Bologna 2007.

91
to del suo secondo figlio, Beniamino, è l’oggetto dei favori del padre. I
suoi dieci fratelli, sentendosi trascurati, odiano Giuseppe i cui sogni
sembrano riservargli grandezza e potere. Alla prima occasione si libe­
rano di lui: Giuseppe viene venduto ad alcuni mercanti, che lo condu­
cono come schiavo in Egitto. I fratelli fanno in modo che il padre lo cre­
da morto, prima di tentare invano di consolarlo (Gen 37). Poi Giuda si
separa dai fratelli, e la storia prosegue raccontando le sue avventure
con la nuora Tamar dalla quale avrà due figli; durante questo tempo,
in Egitto, Giuseppe diventa rapidamente l’uomo di fiducia di colui che
10 ha comprato, ma ben presto si ritrova in prigione perché accusato
falsamente di tentativo di violenza dalla moglie del padrone. Divenuto
11braccio destro del comandante della prigione, egli dà prova delle sue
capacità interpretando correttamente i sogni dei due alti funzionari del
faraone (cc. 38-40). Inoltre, quando il faraone è tormentato da sogni
infausti che nessuno riesce a spiegare, Giuseppe viene fatto uscire dal­
la prigione e, in presenza della corte, interpreta i sogni e dà saggi con­
sigli per prevenire la lunga carestia che, secondo lui, si abbatterà su
tutto il Paese sette anni più tardi. Nominato primo ministro d’Egitto,
Giuseppe ammassa riserve nel corso degli anni di abbondanza. Poi, al­
l’arrivo della carestia, vende il grano a tutti coloro che affluiscono in
Egitto per acquistare viveri (c. 41).
Fra quanti scendono in Egitto per acquistare grano ci sono anche i
fratelli di Giuseppe, mandati da Giacobbe, che però trattiene con sé il
figlio più giovane, Beniamino. Giuseppe li riconosce, ma si comporta
con loro come un estraneo. Li mette sotto pressione accusandoli di es­
sere venuti come spie per vedere i punti indifesi del territorio; poi li
getta in prigione prima di rimandarli in Canaan, trattenendo in ostag­
gio Simeone fino a quando gli condurranno Beniamino. Rientrati con i
viveri e il denaro nascosto nei loro sacchi, i fratelli affrontano il padre
che, diffidando dei figli, rifiuta di lasciar partire con loro il secondo fi­
glio di Rachele (c. 42), Ma quando i viveri sono finiti, Giacobbe si ras­
segna e manda di nuovo i figli in Egitto, lasciando partire con loro an­
che Beniamino, pur con la morte nell’anima, dopo che Giuda si è reso
personalmente garante di lui. All’arrivo, i fratelli sono accolti nella di­
mora di Giuseppe e viene loro restituito Simeone. Giuseppe in perso­
na li raggiunge per un pasto, nel corso del quale egli dà vari segnali
che permettono di riconoscerlo, ma essi restano sempre ciechi (c. 43).
Il giorno dopo, Giuseppe li fa partire, dopo aver nascosto la propria
coppa d’argento nel sacco di Beniamino. All’uscita dalla città, li fa ar­

92
restare e condanna Beniamino, colto in flagrante delitto di furto, a re­
stare prigioniero. A questo punto Giuda s’interpone e si offre come pri­
gioniero al posto del fratello per evitare che il padre sia una seconda
volta privato del figlio di Rachele, che egli preferisce a tutti gli altri suoi
fratelli (c. 44).
Allora Giuseppe, non potendo più trattenersi, si fa riconoscere dai
fratelli e invita tutta la famiglia a venire in Egitto perché possa so­
pravvivere alla carestia. Giacobbe, incredulo, finisce per accettare di
seguire i figli ed emigrare verso l’Egitto (cc. 44-45). Là ritrova Giu­
seppe, si stabilisce col suo clan nella terra di Gosen e beneficia della
protezione di Giuseppe. Diciassette anni più tardi, dopo aver benedet­
to i due figli di Giuseppe e annunciato il futuro dei suoi figli, muore cir­
condato da tutti i congiunti (cc. 46-49). Terminati i funerali, i fratelli
temono che Giuseppe si vendichi di loro, ma egli li rassicura, li perdo­
na e vigila su di loro fino alla propria morte avvenuta all'età di cento-
dieci anni (c. 50).

1.2. La gestione del tempo nel racconto


Conviene anche richiamare brevemente alcune nozioni di base che
riguardano la gestione della temporalità nel racconto.2 Raccontare una
storia obbliga a procedere su due tempi diversi. Da una parte, il tem­
po trascorre nella storia raccontata: le ore, i giorni e gli anni passano
secondo una cronologia che è possibile ricostruire seguendo le indica­
zioni offerte direttamente dal racconto. È il tempo narrato. D’altra par­
te, l'atto di raccontare richiede un certo tempo, e questo è il tempo nar­
rante. L’arte della narrazione consiste nel giocare abilmente su queste
temporalità differenti per dare ritmo al racconto. Infatti, si può dedi­
care più o meno tempo del racconto a riferire questo o quell’avveni­
mento: prendere del tempo per raccontare un fatto che dura assai pò­

2 Sulla questione, cf. le sintesi di D. M a r g u e r a t - Y. B o u r q u in , Per leggere i racconti


biblici. Iniziazione a ll’analisi n a rra tiva , Boria, Roma 2001, 91-105, o J.-L. S k a , «I no­
stri padri ci hanno raccontato». Introduzione alVanalisi dei racconti dell'Antico Testa­
m ento, EDB, Bologna 2012, 23-34. Più am piam ente, a proposito del tem po nel Primo
Testam ento, cf. M. S t e r n b b r g , La Grande Chronologie. Temps et espace dans le récit bi-
blique de Vhistoire, Lessius, Bruxelles 2008.

93
co, o riportare in poche parole varie ore, vari giorni e perfino assai di
più.3 Nelle scene dialogate, il tempo narrato e il tempo narrante ten­
dono a sovrapporsi, anche se i discorsi sono di solito stilizzati.4 Come
regola generale, questi giochi sul ritmo della narrazione sono indicati­
vi dell’importanza che il narratore accorda all’una o all’altra parte del
racconto. Dedicherà più tempo a ciò che considera importante o si­
gnificativo, e scorrerà rapidamente sui fatti minori. Parimenti può ral­
lentare il ritmo per introdurre dei ritardi che fanno crescere la tensio­
ne narrativa o, al contrario, accelerare il tempo per sorprendere o an­
dare all’essenziale. Le pause descrittive fermano il corso del tempo
raccontato, rappresentando così un tempo morto; il sommario sinte­
tizza rapidamente un periodo più o meno lungo della storia; l'ellissi
corrisponde a un salto temporale, quando la narrazione passa sotto si­
lenzio un avvenimento o un periodo della storia.5 Si dovrà poi aggiun­
gere che i fatti riportati non seguono necessariamente l’ordine crono­
logico: neWanalessi o flash-back, si fa riferimento a un evento ante­
riore ai fatti raccontati; al contrario, la prolessi anticipa un fatto cro­
nologicamente posteriore agli avvenimenti in corso.6
L’ampiezza della storia di Giuseppe ne fa un buon terreno di os­
servazione del modo di gestire il tempo in un racconto, perché questo
implica insieme una continuità nella quale si articolano costantemen­
te presente, passato e futuro, e un ritmo che mette in evidenza il rilie­
vo del racconto. Per esplorare la temporalità di questo lungo racconto,
(1) noi esamineremo anzitutto il suo quadro cronologico, con la sua
struttura di base e alcune particolarità, fra cui il gioco complesso fra

3 In Gen 28, il n a rra to re rip o rta dettagliatam ente il sogno di Giacobbe e la sua re a ­
zione al m om ento del risveglio (w. 10-22), poi con poche parole ricorda il suo lungo viag­
gio fino a Paddan-A ram (29,1). Ci sono genealogie come Gen 5 o Mt 1 che scavalcano
decenni e secoli, m a la descrizione dei sogni del faraone in Gen 41,1-8 si sofferm a su un
fatto che dura soltanto pochi istanti.
4 Si veda p er esem pio l’incontro fra Giuseppe e i suoi fratelli in Gen 44,3^45,20.
5 Esem pi di p au sa descrittiva: Gen 13,10 o IS am 17,4-7; di som m ario: Gen 47,27-
28; Es 40,36-38; di ellissi: Gen 22,4 (nulla viene raccontato dei tre giorni del viaggio di
À bram o e di Isacco); Me 14,40-41 (non si fa cenno a parole e spostam enti di Gesù).
6 Esempio di analessi (o retrospezione): Gn 4,2, dove viene com unicata u n ’infor­
m azione che era stata oggetto di u n ’omissione; esem pio di prolessi (o anticipazione): Gen
13,10b, dove il n a rrato re p arla già della distruzione di Sodom a e G om orra rip o rtata in
Gen 19.

94
tempo narrante e tempo narrato. In seguito, prenderemo in conside­
razione le variazioni che il narratore si permette nella gestione del
tempo: (2) le prolessi e gli annunci d’ogni genere, e poi (3) le analessi
e altri richiami di momenti passati.

2. La struttura temporale della storia di Giuseppe

2.1. Quadro cronologico globale


La narrazione della storia di Giuseppe in Gen 37-50 segue grosso
modo la cronologia della storia raccontata. Questa è segnalata nello
svolgimento da notazioni cronologiche precise che forniscono ai fatti
riportati un quadro temporale globale. Nella tavola sottostante leggia­
mo in grassetto corsivo le età date dal narratore, e, a destra, l'età di
Giuseppe al momento dei fatti situati nel tempo:

37,2 «Giuseppe aveva 17 anni...» 17


41,1 Due anni dopo, il faraone sognò... [28]
41,46 «Giuseppe aveva 30 anni quando entrò al servizio del fa­ 30
raone... »
47 «Durante i 7 anni dì abbondanza la terra produsse a pro­
fusione»
50 «Prima che venisse l’anno della carestia, nacquero a Giu­
seppe 2 figli»
41,53 «Finirono i 7 anni di abbondanza...» [37]
54 «e cominciarono i 7 anni di carestia...»
42,3 «Allora i 10 fratelli di Giuseppe scesero per acquistare in
Egitto»
Il 2 ° incontro dei fratelli avviene nel 2° anno di carestia - [38]
Giuseppe ha 38 anni:
45,6 «Perché già da 2 anni vi è la carestia nella regione, e an­
cora per 5 anni non vi sarà né aratura né mietitura»
11 «la carestia durerà ancora 5 anni» - Giacobbe e i suoi figli
emigrano in Egitto
47,9 «Giacobbe rispose al faraone: “130 di vita errabonda, po­
chi e tristi sono stati gli anni della mia vita”»
(segue)
47,28 «E Giacobbe visse 17 anni in terra d’Egitto...» Giuseppe ha [55]
38+17 = 55 anni e il tempo della vita di Giacobbe fu di
147 anni.
29 «Quando fu vicino il tempo della sua morte, Israele chiamò
il figlio Giuseppe...» 1

50,22b «E Giuseppe visse 110 anni» 110


«E Giuseppe morì a 110 anni» - dunque 55 anni dopo Gia­
26 cobbe.7 110

Leggendo questa tabella, vediamo che cinque momenti del raccon­


to sono chiaramente situati nel tempo: il momento in cui ha origine la
crisi familiare quando Giuseppe ha 17 anni (Gen 37), la sua elevazio­
ne a opera del faraone all’età di 30 anni (c. 41), le tre discese in Egit­
to narrate in un racconto continuo, ben segnalato temporalmente (cc.
42-47),8 gli ultimi giorni di Giacobbe, in particolare le sue ultime pa­
role (47,28) e la morte di Giuseppe (50,22.26). Sono questi i grandi
blocchi narrativi della storia così come è raccontata, gli «atti» del
dramma. L’atto I racconta la vendita di Giuseppe: l’atto II mostra co­
me egli ottiene la gloria; l'atto III riporta i progressivi ricongiungimen­
ti della famiglia e l’atto IV si svolge attorno alla morte di Giacobbe. In­
fine, un breve epilogo descrive in poche righe la seconda metà della vi­
ta di Giuseppe (50,22-26).
Rimangono apparentemente fuori da questo quadro gli avvenimenti
dei capitoli 38-40. Il narratore presenta come contemporanei gli inizi
di questi due episodi perché, da un lato, collega formalmente la par­
tenza di Giuda, Che si separa dai fratelli, all’epoca della vendita di Giu­
seppe (38,1: «in quel tempo»), mentre dall’altro lato, le avventure di
Giuseppe in Egitto cominciano quando giunge in casa di Potifàr (39,1),
arrivo già menzionato alla fine del c. 37 (v. 36). Ma, a parte questo pun­

7 Giuseppe vive la m età della p ropria vita m entre suo pad re era ancor vivo. Prim a
visse 17 anni con lui in C anaan, e Giacobbe vivrà altri 17 anni con lui in Egitto. Sono se­
p a ra ti p er 21 anni.
8 Dei m arcatori tem porali scandiscono le tap p e di questa sequenza: 42,17-18 (3
giorni), 27 (alla sosta p er p assare la notte), 29 (arrivati dal pad re Giacobbe); 43,2 (quan­
do hanno finito di consum are il grano), 15b (in Egitto da Giuseppe), 16 e 25 (a m ezzo­
giorno); 44,3 (al m attino), 14 (Giuseppe ancora in casa); 45,1 (quando Giuseppe si fa co­
noscere dai suoi fratelli), 25 (in C anaan da Giacobbe); 46,7 (arrivo in Egitto); 47,11 (in­
stallazione).

96
to di contatto, ogni episodio segue la propria cronologia caratterizzata
da una certa indefinitezza. Nella storia di Giuda (38), i fatti si svolgo­
no fra la partenza di Giuda e i nove mesi che seguono al lutto che l’e­
roe fa per la sua sposa i cui due figli maggiori sono già morti in età
adulta (38,12.24.28). Quanto all’episodio della moglie di Potifàr (39,7-
20), occorre notare che è situato in rapporto a ciò che precede con una
formula usuale quando si vuol segnalare una ellissi o una lacuna del
testo la cui durata non è determinata: «Dopo questi fatti...» (39,7). L’in­
certezza sulla situazione cronologica esatta di ciò che capita a Giusep­
pe dura fino a 41,46. Al c. 41,1, il narratore preciserà che Giuseppe
resta in prigione due anni di più, ma questo riferimento non chiarisce
ancora la cronologia generale del racconto.
Così, i capitoli 38-41 sono come sottratti alla cronologia della sto­
ria di Giuseppe, e questo anche se si sa che la duplice azione comin­
cia poco dopo i fatti narrati nella seconda metà del c. 37. Il filo della
cronologia globale viene ripreso soltanto dopo l’elevazione di Giusep­
pe da parte del faraone. Questo permette probabilmente di precisare
l’estensione dell’atto II: esso comprende il blocco dei capitoli che, sen­
za un chiarimento sulla loro cronologia, riportano due storie parallele
i cui eroi sono due dei figli di Giacobbe che hanno svolto un ruolo di
primo piano nell’atto I: Giuseppe, il fratello venduto, e Giuda che ha
avuto l’idea di venderlo. La crisi familiare che occupa gli atti I e III è
del resto pressoché assente nell’atto II (cf. soltanto 40,15 e 41,51-52).

2.2. Incoerenze cronologiche in 38,1-30 e 46,8-27


In questa cronologia, il narratore tollera importanti distorsioni, che
però si guarda bene dal segnalare esplicitamente all’attenzione del let­
tore, e cioè il c. 38 e la lista genealogica di 46,8-27.
La cronologia interna del capitolo 38 suppone un tempo verosimil­
mente più lungo dei vent’anni che trascorrono fra la partenza di Giu­
seppe e il primo viaggio dei fratelli in Egitto. Giuda lascia la famiglia,
sposa la figlia di Sua che gli dà tre figli. Sceglie una moglie per il pri­
mogenito Er, ma questo muore; lo stesso avverrà poco dopo per il fra­
tello Onan. L’azione principale si sposta allora sul terzo figlio, Seia,
giunto all’età in cui ci si sposa (v. 14b). Eppure, tutta questa storia sem­
bra finita quando Giacobbe manda i suoi figli a comperare frumento
in Egitto per sé e le loro famiglie. Infatti, secondo 46,12, nella lista di

97
quelli che emigrano in Egitto non appaiono Er e Onan, già deceduti,
ma nella carovana risultano i gemelli di Tamar, Zerach e Peres. Il se­
condo è anche già padre di due figli, un’indicazione che mirerebbe a
mostrare che lo scopo del c. 38 è da porre prima dei fatti raccontati al
c. 37! Questa non è l’unica incongruenza presente nella lista dei di­
scendenti di Giacobbe. Un’altra curiosità colpisce il lettore attento: Be­
niamino, il «fratello minore» di Giuseppe, ha già dieci figli - davvero il
più prolifico dei figli di Giacobbe (46,21). Ora, si può arrivare a sup­
porre che egli abbia trent’anni, ma non certo di più...
Queste due sezioni che interrompono il racconto e la cui cronologia
implicita è, a ben vedere, poco coerente con lo svolgimento della sto­
ria di Giuseppe, possono essere qualificate come «digressioni». Del re­
sto, l’interruzione viene ogni volta indicata con una «ripresa»: 39,1 fa
da eco alla finale del c. 37 per segnalare che lo si riallaccia con il filo
narrativo principale, mentre 46,27b chiude la lista di quelli che entra­
no in Egitto riprendendo le ultime parole del racconto che la precede
(v. 7b: espressione «venire in Egitto»), parole che avevano la funzione
di «aggancio» già all’inizio della Usta (v. 8a: «entrare in Egitto»),
Il narratore si permette questi strappi cronologici, perché il fatto di
inserire queste «digressioni» è narrativamente più importante rispet­
to a una coerenza temporale perfetta. Non possiamo qui trattare tale
questione in lungo e in largo. Quindi ci accontentiamo di offrire qual­
che saltuaria annotazione circa la gestione del tempo. Da questo pun­
to di vista, è chiaro che l'inserimento della storia di Giuda9 crea nel let­
tore che affronta il sèguito la netta impressione che un tempo lungo è
trascorso dopo che Giuseppe è scomparso con i mercanti. Questo ac­
centua ancor più il senso della considerevole lontananza di Giuseppe
dai suoi e in particolare dal padre in lutto (37,34b). D’altra parte, nel
corso di questi anni, Giuseppe ha avuto il tempo di maturare in una
prova prolungata; inoltre, il lettore sarà meno stupito nel vedere che
l’adolescente ingenuo (37,4-11) è divenuto un uomo deciso che si op­
pone risolutamente alla moglie del suo padrone (39,9). La lunga lista
dei discendenti che Giacobbe conduce con sé in Egitto è collegata pro­
babilmente al processo di «ritardo» che crea la tensione narrativa: fra

9 P er questo capitolo, cf. A. Wénin, «L’aventure de Ju d a en Genèse 38 et l’histoire


de Joseph», in Revue Biblique 111(2004), 5-27.

98
il desiderio di Giacobbe di rivedere Giuseppe al più presto e la sua par­
tenza immediata, da una parte (45,28-46,1), e l’incontro in Egitto, dal­
l’altra (46,29), il narratore inserisce vari elementi che ritardano il mo­
mento atteso e fanno sperimentare al lettore la stessa impazienza che
agita Giacobbe. Questi elementi sono: la sosta a Bersabèa e l’oracolo
che potrebbe mettere in discussione il desiderio del vegliardo (46,1-4;
cf. 26,2), la descrizione della carovana e l’inventario di tutto ciò che
Giacobbe porta con sé (w. 5-7), la descrizione dettagliata e precisa del­
le persone che lo accompagnano (w. 8-27), e infine l’invio di Giuda co­
me esploratore (v. 28).

2.3. I sommari riguardanti la carestia


in 41,53-57 e 47,13-26
Occorre rilevare un altro elemento che riguarda la struttura tem­
porale della storia di Giuseppe. Il lungo atto III, nel quale si realizzano
la costruzione della fraternità e i ricongiungimenti familiari
(42,1-47,12), è inquadrato da due brevi passi che trattano dell’attività
di Giacobbe durante la carestia: un sommario (41,53-57) e un raccon­
to (47,13-26). Dunque, quanto viene raccontato costituisce il quadro
generale delle tre discese dei fratelli in Egitto ed è quindi contempora­
neo agli avvenimenti familiari. Così, è abbastanza chiaro che il som­
mario della fine del c. 41, dove viene evocato l’inizio degli anni di ca­
restia, descrive le circostanze della domanda di Giuseppe ai suoi figli
in 42,1-2. Esso trova un prolungamento allorché il narratore mostra
come Giuseppe gestisce l'a crisi preparando al tempo stesso per l’Egit­
to una politica agraria collettivista, che egli attua a partire dalla fine
degli ultimi anni di carestia, quando diventano possibili nuove semine
e si comincia a sperare in un nuovo raccolto (47,23-24).
Rimane il fatto che l’inizio del racconto di 47,13-26 riprende la fi­
nale del sommario del c. 41: la carestia è pesante e l’Egitto langue co­
me Canaan, al punto che, vendendo il grano, Giuseppe raccoglie a po­
co a poco tutto il denaro disponibile (47,13-14; cf. 41,55-57). Quanto
vi viene raccontato sembra dunque essere contemporaneo alle visite
dei fratelli. Una tale sovrapposizione è significativa perché permette di
confrontare il modo in cui Giuseppe tratta la sua famiglia e quanto fa
per le genti del Paese d’Egitto: proprio quando ammassa per il farao­
ne il denaro delle popolazioni affamate (47,14-15a), restituisce ai fra­

99
telli il loro denaro (42,25; 44,1; cf. 45,22); mentre da un lato acquista
il bestiame degli egiziani in cambio di pane (47,16-17), dall’altro in­
stalla la sua famiglia e il bestiame in pascoli abbondanti e provvede al
loro sostentamento (45,10-11; 46,32-34; 47,6.12); e quando, sotto la
pressione di egiziani minacciati dalla carestia, acquista i loro terreni
per il faraone (47,18-21), proprio allora con il consenso del faraone do­
na ai suoi una proprietà fondiaria nella migliore regione del Paese
(47,11-12), tanto che la sua famiglia giunge a godere del privilegio dei
sacerdoti, gli unici in Egitto a poter conservare la proprietà dei loro ter­
reni (47,22.26b).

2.4. Tempo narrante e tempo narrato

Se ci atteniamo alla cronologia del racconto - Giuseppe all'inizio ha


17 anni (37,2) e alla fme muore a 110 anni (50,26) - il tempo narrato
della storia di Giuseppe ricopre 93 anni. Tuttavia, la seconda metà del­
la vita dell’eroe, cioè 55 anni, è condensata in 50,22-26 con soltanto
poche righe. L’essenziale della storia dura quindi 38 anni (l’età che
Giuseppe ha quando ritrova il padre in Egitto). Ma di questi anni il nar­
ratore ricorda soltanto alcuni momenti sui quali si sofferma perché vi
accadono fatti significativi: alcuni giorni quando Giuseppe ha 17 anni
(atto I); tre giorni durante il soggiorno cananeo di Giuda e tre altri nel
corso dei 20 anni in cui Giuseppe risiede in Egitto (atto II); una decina
di giorni distribuiti su due anni per la riconciliazione e il ritrovamen­
to familiare (atto III); infine, 17 anni più tardi, i momenti della morte
di Giacobbe, e poi un giorno situato alcuni mesi dopo il suo decesso.
Tutto il resto viene passato sotto silenzio o condensato in rapidi ri­
chiami, sommari generalmente brevi o semplici marcatori temporali.
Attraverso questa gestione accurata del tempo, il narratore focalizza
l’attenzione unicamente sui momenti cruciali, per lasciare il tempo di
osservare i personaggi e di cogliere attentamente l’importanza degli
avvenimenti riportati.
A questo punto possiamo dire che il modo di gestire il tempo nel­
l’essenza della storia di Giuseppe somiglia al modo in cui è costruito il
c. 37. Dopo la descrizione del contesto della crisi, la cui soluzione co­
stituisce l’oggetto della storia (w. 1-4), questo capitolo si apre con due
piccoli dialoghi riguardanti il racconto dei sogni di Giuseppe e la loro
interpretazione da parte di altri (w. 5-8 e 9-11). Ciascuno di questi due

100
quadri è seguito da lacune che non permettono di percepire quale las­
so di tempo passi tra loro: il narratore si accontenta di segnalare la cre­
scita dell’odio e della gelosia dei fratelli. Poi il racconto è ritmato dalle
tappe del viaggio di Giuseppe. Il narratore giustappone tre piccole sce­
ne: Giacobbe che manda Giuseppe (w. 13-14), l’arrivo di Giuseppe a
Sichem dove un uomo lo incontra (w. 15-17), il complotto dei fratelli
nel momento in cui li trova (w. 18-22). Tratteggiate con vivacità attra­
verso i dialoghi, queste scene costringono il lettore a soffermarsi sui
momenti importanti in cui la tensione narrativa cresce inarrestabile. A
partire dall’arrivo di Giuseppe presso i fratelli, il narratore focalizza
l’attenzione sui fatti drammatici di cui riporta la sequenza continua su
un ritmo assai più sostenuto: crea una serie di verbi d’azione, interrotta
soltanto dalla descrizione della carovana che condurrà via Giuseppe.10
Anche il viaggio verso Ebron di colui che i fratelli mandano a portare
la tunica a Giacobbe è completamente isolato (v. 32). Troviamo ancora
interventi parlati soltanto quando Giuda propone di vendere Giuseppe
(w. 26-27), e, assai più brevemente, alla protesta di Ruben quando non
trova più il ragazzo nella cisterna (v. 30b), infine il breve dialogo a di­
stanza tra i figli e il padre a proposito della tunica insanguinata (v. 32b-
33) - tutte parole di membri del clan, che servono a drammatizzare al­
cuni momenti significativi connessi con la sparizione di Giuseppe. Il
tempo si calma soltanto nella scena finale del lutto di Giacobbe, lutto
che egli protrae «per molti giorni» (v. 34b), e che il narratore mette in
rilievo con un’ultima parola del vegliardo distrutto dal dolore, che ri­
sponde ai tentativi di consolazione dei suoi familiari (v. 35b).
La tecnica è limpida e pienamente nello stile dei narratori biblici.
Lo sfondo è costituito da sommari. I momenti essenziali sono dram­
matizzati sotto forma di dialoghi in cui il tempo narrante si avvicina al
tempo narrato; la relativa lentezza che ne deriva contribuisce ad au-

io «23Quan{j 0 Giuseppe fa arrivato presso i suoi fratelli, essi gli strapparono la sua
tunica [...] 24lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna [...] 25e si sedettero [...] e alzaro­
no gli occhi e videro [...] 26e Giuda disse [...] 27e i suoi fratelli gli diedero ascolto [...] 28e
passarono alcuni m ercanti m adianiti [...] e tirarono su ed estrassero Giuseppe dalla ci­
sterna [...] e lo vendettero agli Ismaeliti [...] 29e Ruben tornò [...] e si stracciò le vesti [...]
30e ritornò [...] e disse [...] 31e presero [...] e sgozzarono [...] e intinsero la tunica 32e
m andarono al padre la tunica [...] e la fecero pervenire a Giacobbe dicendo [...] 33ed egli
la riconobbe e disse [...] 34e Giacobbe sì stracciò le vestì [...] e si mise u n a tela di sacco
[...] e restò in lutto per molti giorni».

101
meritare la tensione. Questo procedimento sarà utilizzato soprattutto
nell’atto III, dove, in modo altamente scenico, il narratore riporta det­
tagliatamente i discorsi di Giuda e di Giuseppe, e poi una parola del fa­
raone (44,14-45,20), un quinto della durata totale dell’atto III nel qua­
le il tempo narrante ricalca in modo quasi mimetico il tempo narrato,
segno quasi tangibile che siamo al cuore del racconto. Invece le scene,
nelle quali è importante l’azione, sono impostate su un ritmo rapido e
ben modulato, dove alcune parole sottolineano elementi importanti. In­
fine, più spesso, le ellissi - tempi nei quali non c’è proprio nulla da rac­
contare e che separano i momenti significativi - sono strutturate con
nessi temporali che danno la continuità narrativa dell’insieme, o con
sommari conclusivi o introduttivi.

3. Anticipazioni di ogni genere


Il narratore della storia di Giuseppe non abusa di certo delle pro­
lessi che gli permetterebbero di prevenire il lettore fornendogli antici­
pazioni sul seguito della storia. Quando lo fa, procede in modo felpato
e senza compromettere la suspence. Invece gli piace ricorrere a pro­
cedimenti meno diretti, fra i quali al primo posto troviamo i sogni. Co­
sì pure occorrerà dire una parola dell’oracolo di Bersabèa dove Dio an­
ticipa il futuro con la sua promessa a Giacobbe (46,3-4).

3.1. Sommari proiettici


Jean-Louis Ska ha evidenziato nella storia di Giuseppe la presenza
di «sommari proiettici», una sorta di titoli che, all’inizio della narra­
zione di un’azione, la riassumono oppure orientano il modo di legger­
la attirando l’attenzione del lettore sul «come?» piuttosto che sul «che
cosa?».11 Osserviamo in particolare 37,2la: quando i fratelli stanno
complottando mentre Giuseppe viene verso di loro, il narratore dice
che «Ruben sentì e lo salvò dalle loro mani». In tal modo egli informa

11 J.-L. Ska, «Somm aires proleptiques en Gen 27 et dans l’histoire de Joseph», in


Biblica 73(1992), 518-527.

102
il lettore del risultato positivo dell’intervento che narrerà in seguito (w.
21b-24). Così pure in 45,lb, prima di far vedere come Giuseppe si fa
conoscere dai fratelli (vv. 4-13), il narratore indica di colpo che Giu­
seppe farà proprio questo, cosicché il lettore concentra la propria at­
tenzione sul modo in cui lo fa. A questi due casi rilevati da Ska, ag­
giungiamo 41,25, un riassunto prolettico da accreditare in conto alla
sensibilità pedagogica di Giuseppe: per rassicurare il faraone sulla pro­
pria capacità di interpretare i sogni e di acquetare l’angoscia che essi
provocano, gli annuncia direttamente l’essenziale dell'interpretazione
che egli poi svilupperà: «Il sogno del faraone è imo solo: Dio ha indi­
cato al faraone quello che sta per fare» (cf. w. 26.28 e 32).

3.2. I sogni di Giuseppe, loro interpretazione


e realizzazione
Ma veniamo ai sogni della storia di Giuseppe e alla loro interpreta­
zione attraverso i personaggi. I sogni degli officiali della corte d’Egitto
e quelli del faraone sono chiaramente presentati da Giuseppe come
delle prolessi, e quanto egli annuncia nell’interpretarli non tarda a rea­
lizzarsi. Del resto il narratore non manca di segnalarlo esplicitamente
(40,22b e 41,54a). Nell’interno di ciascun episodio, queste prolessi por­
tano una certa aspettativa, per lo meno nel primo caso. La cosa è me­
no chiara per i sogni di Giuseppe (37,5-11).

L’a n n u n c io d e l f u t u r o e l’a t t e s a d e l l e t t o r e

Accettiamo pure che i sogni di Giuseppe possano essere un annun­


cio del futuro. Naturalmente è proprio così che i fratelli e Giacobbe in­
terpretano la cosa. Ma il narratore non lo conferma, perché non pre­
cisa da nessuna parte che Dio è implicato in un modo o nell’altro in
questi sogni. Ora, nel Primo Testamento, Aldina da Silva l’ha dimo­
strato: un sogno non costituisce necessariamente una comunicazione
divina.12 Su questo punto, del resto, Giuseppe si distingue dai sogna­

12 A. d a S il v a , La sym bolique des rèves et des vètem en ts dans Vhistoire de Joseph


et de s e s frè r e s, Fides, Québec 1994, 42-50, che rinvia a Dt 13,2.4; Ger 23,25.28; Gb
20,8; Sir 34,1-8.

103
tori che lo precedono nella Genesi e che ricevono da Dio stesso il si­
gnificato del sogno nel quale appare o parla (20,3.6; 28,12-15; 31,10-
13; cf. 31,3; e 31,24). Nel caso di Giuseppe, il narratore lascia aleggiare
un dubbio che riflette forse la forma interrogativa delle interpretazio­
ni date dai suoi fratelli e dal padre. E il lettore, se può legittimamente
supporre che Dio intervenga per anticipare il futuro attraverso un so­
gno, non può tuttavia esserne certo, in mancanza di ima conferma au­
torevole. Per conoscerne il contenuto reale, il lettore dovrà aspettare il
seguito del racconto; ma, all’inizio della storia, non ha motivo di esclu­
dere a priori che i sogni possano essere il semplice riflesso della vani­
tà del giovane Giuseppe, come precisa Victor P. Hamilton.13
A ogni modo, i sogni suscitano nel lettore un'aspettativa. Ma le co­
se non sono chiare, finché non sappiamo che cosa questi sogni an­
nunciano nel caso siano premonitori. Giuseppe racconta i sogni, ma
non li interpreta. Lo fanno i fratelli e il padre, e nessuno garantisce che
in questo esercizio essi siano credibili.14 Inoltre, accanto alla loro in­
terpretazione, forse c’è posto per un’altra lettura, che la formulazione
ambivalente delle loro interpretazioni già suggerisce. Infatti, se di pri­
mo acchito, i sogni di Giuseppe sono per i fratelli e Giacobbe annunci
del suo destino, non possiamo escludere che essi vi vedano l’espres­
sione dei suoi desideri di grandezza. Del resto la costruzione ebraica
usata due volte (infinito assoluto con verbo coniugato) permette una du­
plice traduzione: possiamo renderla o con un futuro, eventualmente
con una sfumatura dubitativa («regnerai veramente...?» e «verremo
noi veramente...?»), o con un’espressione che metta in risalto la sfu­
matura modale della costruzione, prima con volere («Vuoi forse regna­
re...?», v. 8), poi con dovere («Dovremo forse venire...?», v. lOb).
Così dunque, da un lato, i sogni potrebbero essere un annuncio del
futuro, ed è possibile che gli uditori di Giuseppe lo intendano in tal sen­
so. Per i fratelli, il primo sogno annuncia la futura dominazione regale
di Giuseppe. La scelta dei verbi dal senso pregnante, «regnare» (malak)
e «dominare» (mashal), testimonia probabilmente lo stato d’animo dei

13 V.P. H a m il t o n , The Book o f Genesis. Chapters 1 8 -50, E erdm ans, G rand Rapids
1995, 410.
14 Cf. R. P ir s o n , «The Sun, thè Moon an d Eleven Stars: an Interp retatio n of Josephs
Second Dream », in A. W é n i n (ed.), Stu d ies in thè Book o f Genesis, Peeters, Leuven 2001,
563.

104
fratelli che implicitamente contestano quello che essi colgono del sogno
(v. 8). Del resto il loro tono tradisce una certa aggressività, segno dei ti­
mori che il racconto di Giuseppe suscita in essi. Il padre, invece, si li­
mita a dire quello che ai suoi occhi rappresentano gli astri che si pro­
stravano davanti a Giuseppe. Egli prende tuttavia sul serio la situazio­
ne: da un lato rimprovera il figlio e lo interroga sul sogno (v. 10); dal­
l’altro, tiene per sé la cosa (v. llb ). Bisogna aggiungere che Giuseppe,
alle domande forse retoriche che gli sono rivolte sul significato dei suoi
sogni, non risponde affatto; eppure proprio lui, in seguito, si rivelerà co­
me un interprete ispirato. Sulle interpretazioni udite dagli altri non si
pronuncia. Potrebbe essere perplesso sul significato dei suoi sogni?
Da un altro lato, come abbiamo messo in evidenza, il lettore non
può escludere che i sogni esprimano i desideri di Giuseppe. Ma questi
desideri forse non hanno il significato che i suoi famigliari gli attribui­
scono, perché il narratore introduce i sogni immediatamente dopo aver
inquadrato la situazione di Giuseppe in seno alla sua famiglia. In que­
sto contesto, come ha acutamente individuato Pierre Gibert, i sogni po­
trebbero esprimere i desideri profondi propri di Giuseppe in questa si­
tuazione.15 Infatti questo giovanetto si trova in una posizione difficile
(37,2-4). L’amore del padre fa di lui l’oggetto dell’odio dei fratelli, met­
tendolo così al centro di una contraddizione. Inoltre, pur inferiore ai
fratelli per un doppio motivo, come cadetto e come servo Cna'ar), è pre­
diletto da Giacobbe che gli dà una tunica quale segno della sua parti­
colare posizione. Posto così al centro del gruppo dei fratelli, Giuseppe
ne compromette l’unità e ne minaccia gravemente la pace. Su questo
sfondo, quale aspirazione potrebbero esprimere i suoi sogni, se non il
desiderio che questa tensione, diffìcilmente sopportabile a lungo, si ri­
assorba, e si riassorba a suo vantaggio? In questa prospettiva, il primo
sogno esprimerebbe il suo desiderio di essere riconosciuto dai fratelli
come centro di una fratellanza unita attorno a lui, dal momento che egli
vede in esso i fratelli nell’atto di riconoscergli il posto di privilegio che
il padre già gli riserva. Di colpo, in sogno, si realizzano contempora­
neamente il suo desiderio di essere il primo - frustrato a causa della
sua posizione di na'ar - e l’unità del gruppo dei fratelli. Il secondo so­

15 Cf. P. G i b e r t , Le récit bìblique de rève. E ssai de confrontation analytique, Profac,


Lyon 1990, 23-29 e 43-55.

105
gno esprime un desiderio analogo. Ma questa volta Giuseppe vi è pre­
sente di persona, venerato dagli astri: perciò Gibert (p. 44) ha proba­
bilmente ragione di vedervi il segno di un narcisismo che il giovane
Giuseppe non ha ancora superato, quel giovane che ben presto sarà
messo in difficoltà dalle prove che dovrà affrontare.

LiAVVERARSI DEI SOGNI

Su questa base, possiamo cercar di vedere se, nel séguito del rac­
conto, i sogni si confermano come annunci del futuro e, in caso affer­
mativo, in che senso. Il primo si realizza secondo l’interpretazione dei
fratelli quando costoro si prostrano davanti a Giuseppe in circostanze
collegate alla mietitura - i covoni del sogno - in cui Giuseppe ha ac­
quisito il suo potere (42,6; 43,26.28). Ma la lettura dei fratelli corri­
sponde soltanto su questo punto; infatti Giuseppe non «regnerà». Il
narratore lo descrive come «governatore» {shallit in 42,6; cf. 41,40) e
governa l’Egitto, non i suoi fratelli; del resto, a più riprese vedremo che
Giuseppe rifiuta che essi diventino suoi schiavi (44,16-17.33 e 50,18-
21). Davanti al loro padre, i fratelli parleranno di lui come dell’«uomo
che è signore di quella terra» (42,30.33). Giuseppe poi descriverà se
stesso come «governante (moshèl) su tutto il territorio d’Egitto» (45,8),
un titolo che i suoi fratelli riprenderanno un po’ più oltre (45,26). Ma
se l’interpretazione dei fratelli si realizza soltanto in parte, al contrario
il sogno si avvera in un modo che questi non hanno proprio previsto:
quando Giuseppe ha ammassato il grano raccolto durante gli anni di
abbondanza, la famiglia si riunisce attorno a lui ed egli vigila perché
non venga a mancar loro il cibo: Se il desiderio nascosto di Giuseppe,
«rivelato» attraverso i sogni, è la riunione della famiglia attorno a lui,
allora esso ha effettivamente compimento alla fine della storia.
Invece, l’interpretazione del secondo sogno da parte di Giacobbe si
concretizza soltanto assai parzialmente nel prosieguo della storia: la
madre di Giuseppe è morta16 e Giacobbe non si prostrerà davanti al fi­

16 Rachele è m orta p rim a dell’inizio di questa storia, e com unque, da vivo, Giusep­
pe aveva soltanto dieci fratelli, dato che su a m ad re m uore n el d are alla luce Beniam ino
(cf. 35,16-19). Quindi, l’interpretazione di Giacobbe è falsa in ogni caso. Ma forse è iro­
nico: dicendo a Giuseppe che su a m adre, sebbene m orta, dovrebbe venire a p ro strarsi
davanti a lui, Giacobbe esprim e in d irettam ente il suo scetticism o, facendo intendere che

106
glio suo: infatti, se in 47,31 il narratore parla di una prostrazione di
Giacobbe in presenza di Giuseppe, egli non s’inchina davanti a lui, ma
davanti a Dio in segno di azione di grazie. Dunque si realizza soltanto
la «venuta» alla quale l’interpretazione di Giacobbe alludeva - ma non
il sogno in quanto tale! Inoltre, questa venuta ha compimento in un
senso ben diverso da quello che gli conferiva Giacobbe (cf. 46,6-7). Det­
to questo, il secondo sogno si realizza forse in altro modo. Lo sappia­
mo: a partire da Gen 1,14-18, gli astri segnano lo scorrere del tempo.
Il fatto che essi qui si prostrino davanti a Giuseppe non è forse l’an­
nuncio di ciò che avviene quando Giuseppe anticipa sui tempi della ter­
ra, come se questi si piegassero alle sue parole (cf. 41,53-54)?17 Ma al­
lora, come negli altri sogni della storia di Giuseppe in cui intervengo­
no dei numeri, le cifre di 37,9, ossia 2 (sole e luna) e 11 (stelle), sa­
rebbero da leggere in chiave temporale, e non in chiave familiare.18 In­
fatti, dal tempo dei sogni passano 13 anni prima che Giuseppe giunga
al potere secondo lo schema 11+2 (in prigione: 41,1); se prendiamo in
considerazione il prodotto della moltiplicazione di queste stesse cifre,
22, esso corrisponde al numero dì anni che passano fino all’avverarsi
del primo sogno, quando tutti i fratelli (compreso Beniamino) si pro­
strano davanti a Giuseppe (43,26).
Così dunque, alla luce complessiva della storia di Giuseppe, i suoi
sogni si rivelano effettivamente premonitori. Ma il lettore, se prende
per buone le interpretazioni date dagli attori, rischia di lasciarsi in­
durre in errore, perché la realizzazione dei sogni va ben al di là del­
l’interpretazione restrittiva che i familiari di Giuseppe ne danno sotto
la spinta del timore, della gelosia o dell’emozione. In particolare trova
compimento l’aspetto positivo che l’accecamento degli interpreti lascia
totalmente nell’ombra. La scena dei sogni costituisce dunque effettiva­
mente un’anticipazione della storia, un programma per l’insieme del

è im possibile che il sogno si realizzi. Un tale significato è coerente con la reazione dura
di Giacobbe che rim provera il sognatore (37,10). In questo senso, si veda p e r esem pio
la lettura dì R. P i r s o n , «The Sun, thè Moon and Eleven Stars: a n Interp retatio n of Jose-
p h ’s Second Dream», in W é n i n (ed.), S tu d ies in thè Book o f Genesis, 563.
17 Cf. J.G. J a n z e n , A braham a n d A ll thè Fam ilies o fth e Earth. A Commentari! on thè
Book o f Genesis 12-50, Eerdm ans-H andsel, G rand R apids-Edinburgh 1993, 149: «il se­
condo (sogno) p arla di Giuseppe come di un signore dei tem pi e delle stagioni».
18 Cf. P ir s o n , «The Sun, th è Moon and Eleven Stars: an Interp retation of Josep h ’s
Second Dream», 561-568.
racconto.19 Ma il lettore attento, che, a partire dal racconto di Giusep­
pe, ha colto qualcosa dell’ambivalenza dei sogni, vedrà soltanto a co­
se fatte come essi si avverano, ammesso che non si limiti alla lettura
restrittiva che ne danno alcuni personaggi dalla incerta ispirazione.
Così tale «programma» resta sconosciuto fino al momento in cui il si­
gnore dei sogni, per aver interpretato correttamente i sogni degli egi­
ziani, raggiunge una posizione nella quale potrà far sì che i suoi stes­
si sogni divengano realtà. A quel punto, il lettore dovrà chiedersi in che
direzione Giuseppe intende orientarsi quando si ricorda dei propri so­
gni (42,9): sceglierà di dominare sui fratelli proprio secondo la loro in­
terpretazione, o al contrario lascerà prevalere il desiderio di unità sug­
gerito dal primo sogno? Durante l’incontro iniziale, nel corso del qua­
le Giuseppe si mostra duro verso i fratelli (42,6-17), il narratore man­
terrà l'indecisione del lettore su questo interrogativo.20

3.3. L’oracolo divino di Bersabèa (46,3-4)


Troviamo un ultimo caso di predizione del futuro nell’oracolo con
cui Dio gratifica Israele nel momento in cui si prepara a scendere in
Egitto (46,3-4). Nelle «visioni della notte» - dettaglio che assimila la
scena a un sogno - gli annuncia varie cose, nella linea delle antiche
promesse fatte ad Abramo e a Isacco, per infondergli fiducia e inco­
raggiarlo ad andare laggiù, mentre aveva vietato al padre suo Isacco
di intraprendere questo stesso viaggio per sottrarsi a una carestia
(26,2-4a): in Egitto, Dio farà di Giacobbe una grande nazione (46,3b);
scenderà con lui in questo Paese; lo farà tornare: e Giuseppe gli chiu­
derà gli occhi (v. 4). Ciò che è annunciato in questo modo non è sol­
tanto, né anzitutto forse, l’inizio del libro dell’Esodo, come spesso sì di­
ce; è anche Tultimo atto della storia di Giuseppe (47,27-50,26).
La prima parte della promessa si realizza fin dall’inizio dell’atto. In­
fatti, per diventare una grande nazione in Egitto, Giacobbe deve neces-

19 Cf. J.-M. H u s s e r, Le songe et la parole. É tude sur le reve et sa fo n ctio n dans l ’an-
cien Israel, BZAW 210, De Gruyter, Berlin-New York 1994, 237.
20 Su tale questione, cf. W é n in , Joseph ou Vinvention de la fra tern ité. Lecture nar­
rative et anthropologique de Genèse 3 7 -5 0 , 138-150; tr. it. Giuseppe o l'invenzione del­
la fra tella n za . L ettura narrativa e antropologica della Genesi. IV. Gen 3 7 -5 0 , 98-106.

108
sanamente instaUarvisi. Il narratore non manca di registrare il fatto in
47,27: «Israele si stabilì nella terra d’Egitto, nella regione di Gosen, ed
essi ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi». Per
il secondo annuncio, il narratore non precisa che Dio è con Giacobbe du­
rante il suo soggiorno in Egitto. Ma Giacobbe, quando benedice i figli di
Giuseppe, implicitamente lo riconosce dicendo di Dio che egli è stato il
suo pastore fino a oggi, ed evocando l’angelo che lo ha liberato da ogni
male (48,15-16). Quanto al suo ritorno in Canaan, il vecchio Giacobbe
ne parla due volte ai figli, come se volesse aver da loro la garanzia che
porteranno a compimento la promessa divina: prima di benedire i figli
di Giuseppe, domanda a Giuseppe di non seppellirlo in Egitto, ma nel
sepolcro dei suoi padri (47,29-31); e dopo aver benedetto i suoi figli, ri­
pete loro le sue ultime volontà con tutte le necessarie precisazioni
(49,29-32). Questa «salita» di Giacobbe verso Canaan (50,5.6.7[2x].9),
alla quale il faraone avrebbe potuto opporsi (cf. w. 4-6), occupa la me­
tà del c. 50 (w. 4-13). Infine, al momento della sua morte, come Dio ha
detto, Giuseppe è il primo a rendere onore al padre con un’emozione
autentica (50,1). In queste condizioni, l’oracolo di Bersabèa si presenta
come prolessi degli ultimi avvenimenti della vita di Giacobbe.
Detto questo, anche le ultime parole del patriarca hanno un carat­
tere prolettico. Ma questa volta hanno lo scopo di annunciare un futu­
ro che va ben oltre la storia di Giuseppe e il libro della Genesi. Nondi­
meno occorre sottolineare che Giacobbe stesso, nelle sue ultime paro­
le a Giuseppe, interpreterà la promessa di Bersabèa conferendole un
senso più ampio: «Ecco, io sto per morire - disse ma Dio sarà con
voi e vi farà tornare alla terra dei vostri padri» (48,21). A sua volta Giu­
seppe, proprio nell·imminenza della sua morte, trasmetterà tale pro­
messa ai «figli d'Israele» dichiarando: «Io sto per morire, ma Dio ver­
rà certo a visitarvi e vi farà uscire da questa terra, verso la terra che
egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe»
(50,24). Con queste parole è direttamente annunciato l’esodo.

4. Diversi ritorni sul passato


Come abbiamo già anticipato, nel suo racconto il narratore non si
discosta affatto dall’ordine cronologico dei fatti riportati. Inoltre, non
ci meravigliamo che utilizzi poco il procedimento dell’anale ssi, che
consiste nell’introdurre a un certo punto della storia un elemento an­

109
teriore che, per ragioni narrative, non è stato rivelato nel momento in
cui si è prodotto. Invece, il narratore della storia di Giuseppe predilige
le riprese da parte di alcuni personaggi di fatti già riferiti, sia per rac­
contarli a modo loro, sia per dame una loro interpretazione: un pro­
cedimento questo che spesso rivela i personaggi e il loro volto nasco­
sto, ma che anche rallenta il ritmo della narrazione, contribuendo ad
accrescerne la tensione.

4.1. Alcune analessi

L a ,p r e s e n z a d e l t r a d u t t o r e ( 4 2 , 2 3 )

Il narratore ricorre all’analessi due volte alla fine del primo incon­
tro fra Giuseppe e i suoi fratelli in Egitto. C’è anzitutto la menzione tar­
diva della presenza di un interprete al momento del primo incontro fra
Giuseppe e i fratelli in Egitto. Il narratore racconta un primo colloquio
e l’essenziale di un secondo incontro senza rivelare al lettore la pre­
senza di un traduttore fra il governatore e i fratelli. Svela questo par­
ticolare soltanto dopo che i fratelli hanno riconosciuto la propria in­
sensibilità colpevole nei riguardi del fratello minore, confessione della
quale Ruben approfitta per rivelare che egli non era affatto d’accordo
con loro (42,21-22; cf. 37,18-22). A questo punto, precisa il narratore,
essi non sanno che Giuseppe capisce quello che dicono tra loro (v. 23)
poiché la presenza dell’interprete lascia loro credere che il governato­
re non capisca la loro lingua. Nondimeno Giuseppe li capisce, e si riti­
ra in disparte a piangere (v. 24).
Ma perché mai il narratore tiene nascosta fin qui l’informazione
che avrebbe potuto dare all’inizio della scena, in 42,7a per esempio,
quando dice che Giuseppe si comporta verso di loro come un estraneo,
pur avendoli riconosciuti come i suoi fratelli? Anzitutto, procedendo in
tal modo, il narratore sottolinea bene che Giuseppe resta sorpreso del­
le parole che, pur non essendo rivolte a lui, lo riguardano in prima per­
sona, e che sono di portata tale da sconvolgerlo, poiché i fratelli rico­
noscono con esse la loro colpevolezza davanti a lui. Ma questo può an­
che voler dire che non è perché si sentono riconosciuti che i fratelli
confessano la loro colpa: lo fanno spontaneamente, senza che alcuno
abbia loro strappato questa confessione, perché hanno appena preso
coscienza di quello che la loro vittima ha vissuto. Infine, a posteriori,

110
il lettore vede quale mezzo concreto Giuseppe ha messo in opera per
non farsi riconoscere. Ma più profondamente, scopre anche che nel
momento in cui tra i figli di Giacobbe riprende il dialogo, un tradutto­
re li separa e incarna per così dire la loro difficoltà a comunicare fra
loro, da quando l’odio ha cominciato a rendere impossibile qualsiasi
parola di pace nella famiglia (cf. 37,2-4).

Il s i l e n z i o d i G iu s e p p e (42,21) ·
Nello stesso episodio, troviamo un’altra analessi che colma una la­
cuna assai più antica, dato che si trova al c. 37. Quando i fratelli si ad­
dossano l’un l’altro la colpa, evocano le grida del fratello quando gli mi­
sero le mani addosso: «Abbiamo visto con quale angoscia ci supplica­
va e non lo abbiamo ascoltato» (42,2la). Ora, nel racconto dei fatti al
c. 37, Giuseppe resta in silenzio: non viene registrata alcuna reazione
da parte sua. Qui invece i fratelli rivelano che Giuseppe ha reagito con
forza mostrando la propria angoscia e supplicandoli. Perché allora il
narratore sceglie di passare sotto silenzio questo aspetto nel racconto
del c. 37? Probabilmente vuole raccontare tutta questa scena dal pun­
to di vista dei fratelli. Dato che costoro sono sordi alle grida di Giu­
seppe, vuole non farle udire nemmeno al lettore, dandogli la sensazia-
ne che Giuseppe è inesistente ai loro occhi. Dal momento in cui i fra­
telli lo vedono arrivare, infatti, per loro è soltanto un oggetto, l’ogget­
to del loro odio omicida - e non è un caso se, ormai, la loro vittima re­
sta totalmente passiva e non è mai più soggetto di un verbo fino alla
fine dell’episodio, se non del predicato che lo nega due volte: «Giusep­
pe non c’è più» (v. 29, ripetuto da Ruben al v. 30). Verosimilmente in
questo troviamo un segno della «condanna a morte simbolica» di que­
sto personaggio che nel racconto figura ormai soltanto in quanto og­
getto dell'agire o del parlare di altri.21
Ma si pone anche l’interrogativo di sapere perché il narratore in­
troduce questo elemento sulla bocca dei fratelli, nel luogo in cui il let­
tore lo legge. Si può pensare che il narratore, avendo riferito l’aggres­
sione di Giuseppe dalla prospettiva dei fratelli, aspetta che costoro ri­

21 L’ultim o verbo di cui Giuseppe è soggetto rim ane quello del suo arrivo, al v. 23a.
In seguito egli è l’oggetto delle azioni degli altri personaggi (v. 23, 242, 28a, 31-32 [la tu ­
nica], 34, 35) o dei loro discorsi (v. 262, 32, 33, 35, 36).

Ili
prendano coscienza di questa colpa frettolosamente repressa per met­
tere al corrente il lettore. Ma perché mai si ricordano proprio in quel
momento? Il contesto ci permette di indovinarlo. Dopo aver lasciato i
fratelli in carcere per tre giorni senza che sapessero cosa stava loro ca­
pitando - una situazione che fa sperimentare a essi quello che hanno
fatto subire alla loro vittima gettata in una cisterna -, il governatore
egiziano decide che devono rientrare a casa del loro padre con un fra­
tello in meno e domandare al padre di lasciar partire con loro il fra­
tello più giovane, il figlio di Rachele che egli ha trattenuto con sé (w.
18-20; cf. 42,13). Essi si trovano dunque costretti ad affrontare un ri­
torno che richiama quello del c. 37, quando hanno privato il loro vec­
chio padre del suo prediletto, rientrando senza il loro fratello più gio­
vane, e hanno provocato in lui un dolore inconsolabile. L’angoscia che
provano al pensiero di rivivere questi avvenimenti fa loro cogliere in­
teriormente quello che Giuseppe ha vissuto - del resto essi stessi fan­
no esplicitamente il parallelo fra la disperazione che vivono e quella
che hanno visto sul volto del loro fratello.22 Proprio questa disperazio­
ne apre loro, se così possiamo dire, le orecchie ed essi finalmente si ri­
cordano di quello che allora si sono rifiutati di ascoltare. Le grida di
Giuseppe, una volta ascoltate, li inducono a prendere coscienza della
loro colpevole insensibilità. In tal modo il lettore impara come Giusep­
pe ha reagito quando i suoi fratelli l’hanno aggredito.

Le u l t i m e v o l o n t à d i G ia c o b b e ?

Un altro caso di analessi sulla bocca dei fratelli è altrettanto chia­


ro, ma assai più sospetto. Dopo la morte e la sepoltura di Giacobbe, es­
si dubitano e temono che Giuseppe voglia vendicarsi, ora che il loro pa­
dre non c’è più (50,15).23 Prendono quindi l’iniziativa di implorare il

22 Cf. G. F is c h e r , «Die Josefsgeschichte als Modell fux Versòhnung», in W é n i n (ed.),


Stu d ies in thè Book o f Genesis, 249-250. Egli p recisa che l’intervento di Ruben, il q u a­
le in 42,22 si dissocia dai suoi fratelli come già in 37,21-22.29, com pleta il collegamen­
to con gli avvenim enti di Dotan.
23 Come fa intendere J a n z e n , A braham and A ll thè Fam ilies o f thè Earth. A Com­
m entari/ on thè Book o f Genesis 1 2 -50, 201, i fratelli reagiscono in funzione della loro
colpevolezza. Sem bra che proiettino in Giuseppe ciò che fu la logica di Esaù, vittim a del
fratello: p e r rispetto verso un p ad re di cui era il preferito, rinviò il suo progetto di ven­
dicarsi del fralello (27,41).

112
perdono del fratello. Lo fanno facendo leva su una parola del padre che
il narratore non ha riportato a suo tempo. «Tuo padre prima di mori­
re ha dato quest’ordine: “Direte a Giuseppe: Perdona il delitto dei tuoi
fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male!”. Perdona dun­
que il delitto dei servi del Dio di tuo padre!» (50,16-17).
Qui si tratta di sapere se Giacobbe abbia fatto un tale discorso. In
effetti il narratore ha riportato numerose parole di Giacobbe prima del­
la sua morte (fra 47,29 e 49,32), ma non questa.24 E nemmeno parla
di un colloquio fra i fratelh e il loro padre in assenza di Giuseppe. Inol­
tre, non prende in considerazione un'eventuale rivelazione a Giacob­
be degli avvenimenti che hanno contrapposto i fratelli al c. 37. Il letto­
re ha dunque il diritto di nutrire qualche dubbio. Il narratore, infatti,
lascia ai fratelli l’intera responsabilità delle loro parole e precisa che
ciò che li induce a parlare così è il timore, il desiderio di proteggersi
da Giuseppe (50,15). Del resto, non si presentano personalmente da­
vanti al fratello, ma incaricano un portavoce, come all'inizio quando
mandarono la tunica a Giacobbe. Non tenteranno ancora di giocare
d’astuzia? In ogni caso, il lettore ha buoni motivi per dubitarne. I fra­
telli sarebbero del tutto capaci di inventare dal nulla una parola che
permetta loro di basarsi sull’autorità del defunto per ottenere il per­
dono che desiderano, speculando sul fatto che un figlio prediletto non
oserà mai opporsi alle ultime volontà del padre.
Del resto, la formulazione della supplica tende a confermare questi
sospetti, constatando che i fratelli fanno tutto il possibile perché le loro
parole tocchino Giuseppe. Da una parte, presentano la loro domanda
come l’esecuzione di un ordine formale ricevuto dal padre. Ma perché
dunque Giacobbe avrebbe dato quest'ordine ai figli anziché rivolgerlo
personalmente a Giuseppe; non ne ha avuto l’occasione? Dall’altra par­
te, la loro retorica vuole essere convincente. L’espressione «tuo padre»
fa da cornice al loro discorso come per sottolineare il legame privile­
giato fra padre e figlio, vincolo al quale i fratelli fanno riferimento, giu­
stamente; al centro, questo padre chiama i responsabili «tuoi fratelli»,
un nome inquadrato da termini che li designano come colpevoli («de­
litto» e «peccato»). Così: tuo padre dice a te che siamo tuoi fratelli, no­

24 Cf. p er esem pio W. B r u e g g e m a n n , «Genesis L 15-21: a theological exploration», in


J.A. E m erton(ed.), Congress Volume Salam anca 1983, B r i l l , Leiden 1985, 40-53.

113
nostante il delitto e il peccato verso di te: perdona dunque (2 volte). In
poche parole, davanti a questa analessi, il lettore difficilmente può evi­
tare di pensare che si tratta di un’ultima furbata dei fratelli. Ma questa
menzogna, che dimostra la loro paura e la loro diffidenza, è nondime­
no abitata dalla verità di una confessione indiretta della colpa.

4.2. Ritorni sulla storia vissuta


In una storia così lunga, il narratore ha spesso l’occasione di ope­
rare dei ritorni al passato per ripercorrere, nelle parole dei suoi per­
sonaggi, avvenimenti già raccontati. Certo, questo fenomeno si rifà in
parte all’uso narrativo della ripetizione e si rivela essenziale per la ca­
ratterizzazione dei personaggi. Tuttavia ha un aspetto temporale im­
portante. Alcuni di questi discorsi rallentano il tempo narrativo per
permettere al lettore, che già sa di che si tratta, di focalizzare l’atten­
zione su altri punti al di fuori dei fatti raccontati. Inoltre, questi ritor­
ni «ripiegano» il racconto su se stesso, invitando il lettore a tornare sul
passato assieme ai personaggi, per misurarne l’impatto sul presente (e,
se è il caso, sul futuro). Così contribuiscono a unificare il tempo del rac­
conto, svelandone lo spessore e permettendo di prendere la misura del
ruolo che il tempo occupa nel deterioramento o, al contrario nello
sblocco delle situazioni raccontate, nella stagnazione o nella matura­
zione dei personaggi.

F r e q u e n t i r it o r n i a l pa ssa t o

Così più volte Giuseppe evoca il proprio passato infelice: davanti al


coppiere del faraone (40,15), nel commentare il nome di Manasse
(41,51) e quando si fa riconoscere dai fratelli e li informa sulla durata
e sulla vastità della carestia: tutte cose che il lettore già conosce ma che
i fratelli ignorano (45,4-8). Del resto, lo si vede anche far re-interpre­
tare ai fratelli, ma a loro insaputa, alcuni scenari che li riportano a ven­
ta n n i addietro; ne abbiamo dato un esempio qui sopra (si veda 4.1.) e
non vogliamo tornarci. In modo analogo, quando nasconde la sua cop­
pa nel sacco di Beniamino e poi fa riacciuffare il gruppo dei fratelli per
accusarlo di furto e frugare nei sacchi con l’intenzione di confonderli
(44,1-12), Giuseppe probabilmente si ispira alla storia di sua madre,
Rachele, di cui i fratelli sono stati testimoni assieme a lui: il furto de­

114
gli idoli di Lab ano che lei nasconde nella sella del cammello e che dà
luogo a un inseguimento, a un’accusa, e infine a una perquisizione
pubblica, del tutto infruttuosa (31,19-35). Da parte sua, Giacobbe, qua
e là nel corso della storia, ritorna su avvenimenti passati per spiegare
l’atteggiamento che adotta o per lamentarsi dei figli (42,4, poi v. 36 e
38; 43,7.12). Al termine della sua vita, evoca davanti a loro alcuni mo­
menti forti della sua esistenza: le visite di Dio (48,3-4) e il suo accom­
pagnamento costante (48,15-16); la morte di Rachele (48,7), la sua di­
sperazione in séguito alla perdita di Giuseppe (48,11), l’offesa recata­
gli da Ruben (49,4) o il furore vendicativo di Simeone e Levi (49,5-7).25
Ma il narratore dimostra la sua padronanza di questa tecnica nel­
l’atto centrale e con i fratelli. Così, rientrati dal loro primo viaggio in
Egitto, i fratelli riferiscono a Giacobbe tutte le cose che sono capitate
laggiù (42,30-34 e 43,3-5.7). Arrivati di nuovo da Giuseppe, parlano a
lungo col suo maggiordomo del denaro ritrovato nei sacchi, evocando
nei dettagli la loro scoperta (43,20-23; cf. anche 44,8). Più oltre, Giu­
da rivolge a Giuseppe una lunga supplica nella quale toma sul passa­
to della famiglia, permettendo così la soluzione della crisi (44,18-34).
Nell’economia narrativa questi ritorni al passato hanno il ruolo di mo­
strare che il riprodursi di fatti già avvenuti è un percorso obbligato per
la guarigione dai mali che avvelenano il presente, una guarigione che
è l’unica a poter aprire alla vita un futuro (50,20-21). Soltanto quando
questo ritorno al passato ha portato i suoi frutti è possibile andare
avanti. Così, al secondo ritorno dei fratelli alla casa di Giacobbe, quan­
do finalmente si sono ritrovati, il narratore può accontentarsi di rias­
sumere brevemente il loro rapporto riportandone soltanto l’essenzia­
le, e cioè che Giuseppe è ancora vivo, anzi governa tutto il territorio
d’Egitto (45,26-27).

Il d i s c o r s o d i G i u d a a G iu s e p p e

Il modello del genere è sicuramente il discorso che Giuda rivolge a


Giuseppe nel momento più drammatico del racconto (44,18-34). Que­
sto discorso è articolato attorno a una dinamica temporale assai sal­

25 Cf. anche 41,9-13, dove il coppiere ricorda fatti che il n a rra to re h a raccontato
dettagliatam ente (cf. 40,5-23).

115
da, che costituisce il cuore stesso dell’argomentazione sviluppata da
Giuda. Meir Sternberg ha analizzato con cura il modo in cui Giuda
giunge a formulare la propria supplica affinché essa sia a un tempo
convincente e commovente.26 In realtà il suo discorso è estremamente
ripetitivo, non solo perché riprende elementi di racconto che il narra­
tore ha già esposto, ma soprattutto perché torna per tre volte su un
medesimo dato essenziale: l’amore speciale di Giacobbe per i figli di
Rachele, in particolare per Beniamino, vincolo tanto vitale.che il suo
venir meno ne causerebbe la morte.
Attorno a questo tema essenziale, Giuda rivisita il passato recente
e intravede il futuro imminente in tre tappe. Anzitutto, al loro primo
incontro, i fratelli hanno parlato a Giuseppe del loro padre e del be­
niamino della famiglia, rimasto solo dopo la sparizione del fratèllo. Poi
Giuda - in un’analessi nella quale colma una lacuna del racconto, non
potendo certo presentare la realtà in modo da implicare di più Giu­
seppe - precisa che, quando il signore egiziano ha chiesto di vedere
questo giovinetto, l’hanno avvertito che, se avesse dovuto abbandona­
re il padre, questi sarebbe morto: Malgrado ciò, il signore è stato irre­
movibile nella sua richiesta (w. 19-23). In seguito, ritornati da Gia­
cobbe, i fratelli lo hanno informato della richiesta dell’egiziano e il pa­
dre ha consegnato il loro fratello minore insistendo sulla sua unicità
dal tempo della sparizione del suo fratello Giuseppe; ha precisato che
se gli fosse capitata qualche disgrazia, i figli suoi sarebbero stati re­
sponsabili della sua morte (w. 24-29). Infine, Giuda intravede la fine
che li attende, ora che Beniamino è condannato a restare schiavo in
Egitto: tornando dal loro padre senza il fratello minore, provocheran­
no in lui un dolore tale da portarlo alla morte (w. 30-31).
A questo punto, Giuda passa a un ultimo flash-back, assumendo per
la prima volta solo su di sé in rapporto al resto dei fratelli tutta la re­
sponsabilità: afferma di essersi reso garante del fratello, impegnandosi a
ricondurlo al padre suo. Ecco, ora egli supplica l’egiziano di tenerlo co­
me schiavo e di lasciare che il giovinetto tomi dal padre (w. 32-33), per­
ché non sopporterebbe di vedere il male colpire il padre - un grido del
cuore che gli fa dimenticare il linguaggio cerimonioso fin qui usato (v. 34).

26 M. S t e r n b e r g , The Poetics o f Biblical Narrative. Ideo logicai L iterature and thè


D rama ofR eading, Indiana University Press, Bloomington 1985, 307-308.

116
Da queste ultime parole si coglie molto chiaramente che Giuda, se si of­
fre di restare in Egitto al posto di Beniamino, fa questo non più per il suo
impegno e il senso di responsabilità, ma piuttosto per amore verso Gia­
cobbe, per pietà verso questo vecchio padre che non sarebbe risparmia­
to da questa nuova disgrazia. Infatti la sua proposta, benché riguardi il
presente immediato, riporta tuttavia Giuda a più di vent’anni addietro,
quando di ritorno da Dotan egli ha visto il padre distrutto dal dispiacere
in seguito alla perdita di Giuseppe. Ora, in quel tempo, Giuda si era già
distinto dai fratelli avendo avanzato la proposta di vendere il fratello ad
alcuni mercanti madianiti che scendevano in Egitto, condannandolo co­
sì a essere schiavo in quel Paese. Ecco dunque il colpevole che ora si of­
fre per ricevere la punizione della sua colpa, subendo la stessa sorte che
un tempo egli aveva preparato alla sua vittima, affinché il male che egli
un giorno ha scatenato cessi di fare nuove vittime.
Sulla base di questa rapida lettura, cosa possiamo dire dell’effetto
di questi ritorni al passato che costituiscono il cuore del discorso di
Giuda? Queste riprese del passato danno a vedere soprattutto il cam­
mino percorso da Giuda e dai suoi fratelli - infatti è in loro nome che
Giuda parla quasi fino al termine del suo discorso, da qui il «noi» che
egli adotta. Il suo discorso è una lunga anamnesi della relazione fra
Giacobbe e i suoi figli a proposito del figlio di Rachele. Egli, Giuda, il
figlio della donna «trascurata» (29,30-31), il fratello meno amato
(37,3-4), non solo evoca a lungo la preferenza di Giacobbe per Rache­
le e i suoi figli, ma fa vedere anche che egli la ammette come un fatto
al quale egli acconsente positivamente e che addirittura lo commuove.
Anzi, giunge fino a offrire se stesso al posto del giovinetto affinché si
possa prolungare questo rapporto preferenziale dal quale dipende la
vita del padre suo, e affinché questo fratello più amato di lui rimanga
libero. Così nel ricordo della causa del dramma che ha dilaniato la fa­
miglia si disvela il fatto che ormai sono guarite l’invidia e la gelosia che
hanno generato nei fratelli l’odio e la violenza contro Giuseppe. Ormai
- e il loro affetto per il padre come la loro solidarietà con Beniamino
lo dimostrano - sono diventati figli e fratelli.

G iu d a e la l e z io n e d i T a m a r

Anche se i numerosi ritorni al passato di questo discorso servono


soprattutto a mettere in evidenza la guarigione radicale che gli avve­
nimenti degli ultimi mesi hanno operato nei fratelli, occorre aggiunge­

117
re che all’orizzonte può tornare alla memoria un altro momento di tan­
to tempo prima, benché non sia evocato direttamente né da Giuda né
dal narratore. Il portavoce dei fratelli, Giuda, è un uomo che conosce
dall’interno i sentimenti di un padre che, come Giacobbe, ha visto spa­
rire due figli e rischia di perdere «l’unico» che ancora gli resta. Giuda
non ha forse avuto paura, quando doveva dare il figlio Seia a Tamar?
Non ha forse rifiutato di esporre l’ultimo dei suoi figli a un pericolo che
egli riteneva mortale (38,11.14b)? Su questa base, il lettore compren­
de meglio il comportamento di Giuda nei riguardi del padre.27 Del re­
sto l’avventura con Tamar gli ha anche insegnato che un colpevole che
dice la verità per risparmiare a un innocente la sofferenza che rischia
di infliggergli, consente al bene e alla vita di vincere il male che ha fat­
to.28 Non è forse proprio questo che egli fa ora alla presenza di questo
signore del quale ignora ancora che è suo fratello?
Secondo noi, questo richiamo discreto fa capire, che la parte del lo­
ro passato che Giuseppe ha fatto rivivere ai fratelli non è l’unico fatto­
re della loro crescita verso la fraternità: va tenuto presente anche ciò
che il tempo ha apportato a ciascuno come esperienza di vita e di ma­
turazione personale - in particolare a Giuda, poiché il narratore l’ha
raccontato al c. 38. Non è stato forse necessario molto tempo, e la lun­
ga maturazione che il tempo ha permesso, affinché Giuseppe fosse ca­
pace di dire alla nascita di Manasse: «Dio mi ha fatto dimenticare ogni
affanno e tutta la casa di mio padre» (41,51b)? Ora questo nome, lun­
gi dal consacrare un oblio, come Giuseppe sembra dire, conserva piut­
tosto la memoria dì ferite il cui trauma ha smesso di fargli male pro­
prio quando, con l’aiuto del tempo e delle circostanze, la vita ha potu­
to riprendere il sopravvento.

5. Conclusione
È chiaro che non soltanto il narratore della storia di Giuseppe ela­
bora un racconto in cui la gestione del tempo sottolinea sapientemen­

27 Su questo punto si veda la bella analisi di S t e r n b e r g , La Grande Chronologie.


Temps et espace dans le récit biblique de Vhistoire, 97-99.
28 Questa lettura è argom entata in A. W é n i n , «La ru se de T am ar (Gen 38).Une ap-
proche narrative», in Science et E sp rit 51(1999), 265-283, cf. pp. 276-282.

118
te per 11 lettore le vie della comprensione della trama nella sua pro­
fondità umana. Non solo sollecita tutto l’acume del lettore proponen­
dogli l’enigma dello statuto e della realizzazione complessa dei sogni
di Giuseppe, ma anche compone un racconto che illustra come, per i
personaggi stessi, il lavoro sul tempo che si compie nel racconto del
passato è essenziale per la vita. Perché il racconto - veicolo della me­
moria - si avvera nella storia di Giuseppe come il luogo per eccellen­
za in cui i personaggi progrediscono veramente nella loro ricerca del­
lo shalom, del «benessere», ricerca che passa attraverso la riconcilia­
zione con il passato. E questa è la condizione della costruzione della
vera fratellanza che a sua volta garantisce l’accesso al pane, alla vita.
Così il narratore, discretamente, nello sviluppare il suo superbo rac­
conto fa comprendere al lettore che il racconto - che assume ed ela­
bora la temporalità umana - è essenziale alla vita.
Capitolo quarto

GIUSEPPE INTERPRETE
DEI SOGNI IN PRIGIONE
(GEN 40).
ALCUNE FUNZIONI
DELLA RIPETIZIONE
NEL RACCONTO BIBLICO
André Wénin

La nostra estetica letteraria occidentale non sopporta la ripetizione.


Vi vede quasi sempre una caduta di stile, un indizio di cattivo gusto da
parte dello scrittore. La ammette solo in rare eccezioni, quando essa ri­
esce a creare significativi effetti speciali. Non è così nell’estetica biblica,
in cui i diversi fenomeni di ripetizione abbondano anche quando essa
ha il carattere di un’arte letteraria che mira all’essenziale e dà volentie­
ri prova, secondo l’espressione di Robert Alter all’inizio di un capitolo
sulle «tecniche di ripetizione», «di una rigorosa economia di mezzi».1
In realtà, il racconto biblico sa sfruttare con intelligenza le straor­
dinarie risorse narrative della ripetizione e le molteplici potenzialità

* Prim a pubblicazione in: P. A b a d ie (ed.), M ém oires d ’É criture. Hommage à Pierre


Gibert s.j. offerì par la Faculté de Théologie de Lyon, Lessius, Bruxelles 2006, 259-273.

1 R . A l t e r , L ’a rt du récit biblique, Lessius, Bruxelles 1999, 123; tr. it. L ’arte della
narrativa biblica, Q ueriniana, Brescia 1990. La presen te breve introduzione si ispira a
questo capitolo (123-155).

121
che derivano dall’introduzione di variazioni più o meno importanti al­
l’interno di schemi ripetitivi. Di volta in volta questi possono riferirsi
alla scelta di parole o espressioni (leitmotiv), alla costruzione delle fra­
si, all’impiego di motivi (immagine concreta, azione o oggetto) e di te­
mi, alla disposizione di sequenze operative o di intere scene. Il lettore
accorto sarà in grado di scoprirle dove sembrano assenti; dove invece
sono più visibili, farà attenzione alle pur minime variazioni. Ne va del­
la sua capacità di saper scorgere nel racconto un’insistenza, un’am­
plificazione, un giudizio implicito o un commento interpretativo. Inol­
tre questo gli permetterà di gustare la sottile ironia o la comicità di una
situazione, di percepire una ingenuità o una manipolazione, di coglie­
re una strategia o un gioco ingannatore. Grazie alla ripetizione, potrà
meglio percepire il punto di vista di un personaggio, l’intreccio di una
scena, la verità, talvolta molto relativa, di una parola detta. Insomma,
nel racconto biblico la ripetizione è elevata al rango di tecnica narra­
tiva nel pieno significato del termine e costituisce uno dei luoghi in cui
la finezza e l’acutezza del lettore vengono sollecitate a servizio della
comprensione del racconto. Per illustrare alcune potenzialità di questa
tecnica, in questo capitolo studieremo m a pagina della Genesi in cui
essa è particolarmente presente: l’episodio in cui, nella sua prigione
egiziana, Giuseppe interpreta i sogni di due compagni di detenzione di
alto rango, funzionari del faraone, al servizio dei quali egli si trova
(Gen 40).
Negli studi della storia di Giuseppe, questo episodio non è affatto
valorizzato. Nell’insieme della trama, rappresenta infatti soltanto una
tappa transitoria, che prepara l’incontro di Giuseppe con il faraone e
poi l’ascesa del giovane ebreo (Gen 41). Se, a motivo delle ripetizioni
e dell’insistenza del narratore sui dettagli, produce nel racconto un si­
gnificativo ritardo, è con lo scopo di meglio valorizzare una compe­
tenza che qualifica l’eroe in vista di ciò che dovrà compiere in seguito,
mentre la centralità dei sogni e del loro compimento ricorda che Giu­
seppe aspetta sempre che si realizzino quelli che, all’inizio della sto­
ria, egli raccontava ai suoi fratelli e a suo padre (Gen 37,5-10). Prima
di considerare dettagliatamente le numerose ripetizioni che costellano
questo episodio, sarà utile leggerlo in una traduzione letterale, pre­
stando attenzione alla costruzione della trama.

122
1. La trama

1.1. L’esposizione
La trama di questo racconto è molto semplice.2 La sua esposizione
consiste in un micro-racconto veloce e generico che serve a presenta­
re la situazione di partenza (w. 1-4).
1Dopo questi fatti, il coppiere del re d’Egitto e il panettiere offesero il lo­
ro padrone, il re d’Egitto. 2Il faraone si adirò contro i suoi due funzio­
nari, il capo dei coppieri e il capo dei panettieri. 3E li fece mettere in de­
tenzione nella casa del capo delle guardie, nella prigione dove Giusep­
pe era detenuto. 4E il capo delle guardie assegnò loro Giuseppe perché
li accudisse; ed essi restarono in detenzione per un certo tempo [lett.:
per dei giorni],

I personaggi sono posti e presentati gli uni di fronte agli altri. I due
funzionari in capo passano dalla corte dove stanno accanto al loro pa­
drone - il faraone, il re d’Egitto (w. 1-2) - alla prigione dove uno schia­
vo detenuto è assegnato al loro servizio (w. 3-4). L’espressione ebrai­
ca bemìshmar, che traduciamo «in detenzione», indica che sono in at­
tesa del giudizio del re3 per la colpa che hanno commesso e che ne giu­
stifica la prigionia, colpa cui il narratore non dà importanza.4 La loro
detenzione è dunque provvisoria.
Ciò detto, notiamo che il narratore vuole evidenziare la condizione
ufficiale dei personaggi. Egli propone una vera e propria gerarchia e
la sottolinea ripetendo alcune parole. Al vertice c’è il faraone, re d’E­
gitto (due volte nel v. 1), «padrone» dei funzionari, che stanno sul se­

2 Per la stru ttu ra compositiva del testo, cf. C . W e s t e r m a n n , G enesis 3 7 -50. A Corri'
m entary, Augsburg, M inneapolis 1986, 72-73, che adotta la stessa partizione n arrativ a
di H. G u n k e l , G enesis, V andenhoeck u n d Ruprecht, GÒttingen 91977, 428-432, e che io
qui seguo. Per u n 'a ltra proposta, cf. D.W. C o t t e r , Genesis, Liturgical Press, Collegeville
2003, 294.
3 Per questo significato, cf. G u n k e l , Genesis, 428, o N.M. S a u n a , G enesis, Jew ish Pu­
bi! cation Society, Philadelphia 1989, 277. Si veda la stessa espressione in Gen 42,17.19;
Lv 24,12 e Nm 15,34.
4 G. v o n R a d , La Genèse, Labor et Fides, Genève 1964, 378. La m enzione della col­
pa serve a sottolineare che la detenzione non è arb itraria. Quindi, come dice G.J. W e n -
h a m , G enesis 16-50, W ord Books, Dallas 1994, 381, p er il racconto non è necessario p re ­

cisare la n a tu ra di questa colpa.

123
condo gradino. Il coppiere e il panettiere del v. 1 sono in realtà dei «ca­
pi» (due volte al v. 2), proprio come il «capo delle guardie» (due volte
ai w. 3-4). Sul gradino inferiore si colloca Giuseppe, la cui posizione
inferiore è accentuata dalla ripetizione dei termini che designano le
funzioni elevate: egli è soltanto un detenuto preposto al servizio dei due
alti funzionari.

1.2. La complicazione
L’azione inizia realmente con i sogni del coppiere e del panettiere.
Essa si sviluppa in tre fasi che sono sempre più estese. La prima cor­
risponde all’elemento che avvia l’azione (v. 5).
5E sognarono un sogno, loro due, ciascuno il suo sogno in una medesi­
ma notte, ciascuno secondo il significato del suo sogno, il coppiere e il
panettiere che erano del re d’Egitto, che erano detenuti nella prigione.

Presentando i sogni, il narratore continua ad adoperare il genere


telling (o narrativo) e si serve dell’onniscienza per indicare subito e
chiaramente al lettore, ma all’insaputa dei personaggi, che i sogni dei
due funzionari, anche se avvengono nella stessa notte, sono differenti.
Ha inoltre cura di segnalare - cosa essenziale per il seguito - che que­
sta differenza riguarda il significato del sogno di ciascuno.5 Richiama
poi il legame tra i sognatori e il re d’Egitto come pure la loro deten­
zione. Si tratta di ripetizioni apparentemente oziose (cf. w. 1-3), a me­
no che rappresentino un modo di suggerire che i sogni hanno preci­
samente qualche cosa a che vedere con il fatto che i sognatori hanno
un diretto legame con il re e che attualmente sono detenuti, cosa che
sarà confermata dall’interpretazione di Giuseppe.
6E alla mattina Giuseppe venne da loro e li vide, ed ecco [erano] abbat­
tuti. 7E interrogò i funzionari del faraone che erano con lui in detenzio­
ne nella casa del suo padrone, dicendo: «Perché oggi avete la faccia co­
sì triste?». SE gli risposero: «Un sogno abbiamo sognato e non c’è un in­
terprete per esso». E Giuseppe disse loro: «Non a Dio sono le interpre­
tazioni? Raccontatemi, vi prego».

5 In questo senso, per esempio W bsterm a nn , Genesis 37 -50, 74, e S a iin a , Genesis, 277.

124
Il dialogo iniziale tra Giuseppe e i funzionari costituisce il secondo
momento della complicazione. Il narratore abbraccia ora un modello
scenico come per offrire al lettore di assistere direttamente alla scena.
Arrivando al mattino, Giuseppe constata l’abbattimento insolito di co­
loro che egli serve - il narratore ce lo fa d’altronde vedere con i suoi
occhi.6 Allora interpella coloro che considera compagni di detenzione,
come suggerisce la nuova sottolineatura: «i funzionari del faraone che
erano con lui in detenzione nella casa del suo padrone». Questa peri­
frasi serve infatti a indicare che Giuseppe considera coloro che stanno
davanti a lui come detenuti che condividono la sua sfortunata condi­
zione.7 Assieme a lui, il lettore conferma ciò che presagiva: è il sogno
a turbare i funzionari, o non piuttosto il fatto che non ne capiscono il
significato e che, essendo in prigione, non possono accedere agli in­
terpreti professionali della corte (cf. 41,8)?8 Osserviamo che essi par­
lano proprio di un sogno, al singolare, come se avessero fatto lo stes­
so sogno (v. 8a). Giuseppe propone allora il suo aiuto chiedendo di rac­
contare il sogno, non senza aver prima preso la precauzione di preci­
sare che le interpretazioni appartengono a Dio. Qui trapelala fede del
giovane schiavo che, non essendo uno specialista di sogni, si affida a
Dio che lo sta assistendo da quando è in Egitto, ma verosimilmente non
è escluso che, parlando così di Dio, Giuseppe si protegga le spalle: se
non sarà in grado di interpretare, potrà sempre dire che non conosce
i segreti degli dèi; se, invece, la sua interpretazione si rivelerà esatta,
agli occhi di prossimi del re figurerà come un ispirato.
La terza fase della complicazione è molto più lunga delle due pre­
cedenti. Si svolge in due tempi paralleli: ogni funzionario racconta il suo
sogno, che poi Giuseppe interpreta (w. 9-13 e 16-19); la prima inter­
pretazione si prolunga a causa di una richiesta del giovane al coppiere,
al quale ha appena annunciato la prossima riabilitazione (w. 14-15).

6 Al v. 6b, «ed ecco» (wehinnéh) indica che il n a rra to re adotta il punto di vista del
personaggio p er segnalare ciò che egli percepisce. Cf. J.-L. S k a , « N os pères nous o n t ra-
conté». Introduction à Vanalyse des récits de VAncien Testament, Cerf, Paris 2011, 67:
tr. it. «I nostri padri ci hanno raccontato». Introduzione alVanalisi dei racconti dell'an­
tico testam ento, EDB, Bologna 2012. All’inizio dei racconti di sogni (w . 9 e 16), la stes­
sa particella segnala che sono raccontati secondo il punto di vista di chi h a il sogno.
7 Per W e n h a m , G enesis 16-50, 382, l’espressione sottolinea piuttosto la vulnerabili­
tà dei due che hanno avuto il sogno,
8 Cf. G u n k e l , Genesis, 429, o v o n R a d , La Genèse, 375.

125
9E il capo dei coppieri raccontò il suo sogno a Giuseppe e gli disse:
«Nel mio sogno, (ed) ecco (c’era) una vite davanti a me, 10e sulla vite
tre tralci. E appena cominciò a germogliare, apparve il fiore e i suoi
grappoli maturarono acini. 11Ora, la coppa del faraone era nella mia
mano, e presi gli acini e li spremetti nella coppa del faraone e diedi
la coppa in mano al faraone». 12E Giuseppe gli disse: «Questa è la sua
interpretazione: i tre tralci sono tre giorni. 13Ancora tre giorni e il f a ­
raone solleverà la tua testa9 e ti farà tornare nella tua carica. E tu
darai la coppa del faraone nella sua mano, secondo la consuetudine
di prima, quando eri il suo coppiere. 14Ma se tu volessi ricordarti di
me (che sono stato) con te, quando sarà bene per te, trattami, ti pre­
go, con un atto di fedeltà: ricorda me davanti al faraone e fam m i usci­
re da questa casa. 15Perché io sono stato rubato, rubato dal paese de­
gli Ebrei; e anche qui non ho fatto nulla perché mi mettessero in que­
sto buco». 16E il capo dei panettieri vide che aveva interpretato in be­
ne10 e disse a Giuseppe: «A nch’io, nel mìo sogno, (ed) ecco (c’erano)
tre canestri di dolci11 sul mìo capo 17e, nel canestro il (più) in alto,
(c'era) ogni sorta di cibi per il faraone, fatto dal panettiere; e l ’uccel­
lo li mangiava dal canestro da sopra la mia testa». 18E Giuseppe ri­
spose e disse: «Questa è la sua interpretazione: i tre canestri sono tre
giorni. 19Ancora tre giorni e il faraone solleverà la tua testa da sopra
te e ti appenderà a un albero, e l’uccello mangerà la tua carne da so­
pra te».

Proseguendo in showìng (o modo scenico), il narratore non rispar­


mia tempo per far udire dettagliatamente il racconto dei due sognato­
ri e l’interpretazione data da Giuseppe ai loro sogni; vi ritorneremo con
calma. Permette in questo modo al lettore di accorgersi subito dell’ar­
te di cui Giuseppe dà prova. Infatti il lettore è già stato avvertito che i

9 Traduzione letterale di u n ’espressione dai significati molteplici, che, in questo ra c ­


conto, diventa oggetto di un gioco di parole. Ai w . 13 e 20, significa certam ente «con­
vocare» (= sollevare la testa) o anche «liberare» (come in 2Re 25,27), alm eno p e r q u an ­
to rig u ard a il coppiere, m a nell’in terpretazione del sogno del panettiere, al v. 18a, va in­
tesa nel senso letterale di «togliere la testa». Cf. M. Cohen, «Étude sém antique des locu-
tions n s ' ro ’s - n s ’ ‘(st-ro’s et n s ’ ‫׳‬awón - n s ‘ ‘cet-'awàn en h éb reu biblique», in Z eitsch-
rìft fiir A lttestam entliche W issenschaft 115(2003), 54-72.
10 0: «da bene» (= a favore). A nche se l’ebraico è am biguo, in ogni caso non può si­
gnificare «interpretare bene».
11 II significato di questo hap ax è incerto. Noi adottiam o la soluzione pro p o sta da
M. D a h o o d , «Eblaite ha -ri and Genesis 40,16 hort», in Biblischen N otizen 13(1980), 14-
16, adottato in particolare da A. d a S il v a , La sym bolique des rèves et des vètem en ts dans
l ’histoire de Joseph et de se s frères, Fides, Québec 1994, 104-105.

126
sogni non sono uguali e che la loro interpretazione è differente: Giu­
seppe lo scoprirà? Quando il narratore, usando la sua onniscienza, gli
dà accesso al modo in cui il panettiere vede l’interpretazione favore­
vole del primo sogno (v. 16a) e poi gli fa ascoltare l’inizio del suo rac­
conto («Anch’io...»), il lettore capisce che questo funzionario conside­
ra il suo sogno simile a quello del suo collega12 - come già la comune
parola dei due uomini faceva sottintendere al versetto 8b. Visibilmen­
te, dunque, il panettiere si aspetta anch’egli un’esegesi positiva del suo
sogno, e il lettore si chiede se Giuseppe non cadrà anch’egli vittima del­
l’apparente somiglianza dei due sogni, lui che si è mostrato così sicu­
ro di sé quando ha spiegato il sogno al coppiere, non esitando di chie­
dergli di ricordarsi di lui e di dimostrare la sua riconoscenza a inter­
pretazione avverata. Ma Giuseppe non cade nella trappola e non cède
nemmeno alla piaggeria per far piacere al panettiere.13 Malgrado met­
ta in luce le evidenti similitudini con l’altro sogno, la sua interpreta­
zione è effettivamente del tutto diversa.
Al termine della complicazióne, la tensione, sia per i personaggi sia
per il lettore, è al culmine, tanto più perché i funzionari non reagisco­
no all’interpretazione del loro sogno. Dal momento che la trama ruo­
ta tutto attorno al personaggio di Giuseppe, ciò non aggiungerebbe al­
cunché.14 Infatti, quando il narratore ricorre all’ellissi per saltare al
terzo giorno preannunciato da Giuseppe, tutti si chiedono - ma ognu­
no a modo suo - se le sue interpretazioni si verificheranno.

1.3. Scioglimento (o risoluzione) ed epilogo


20E al terzo giorno, giorno del compleanno del faraone, questi fece un
banchetto per i suoi servitori e sollevò la testa del capo dei coppieri e la
testa del capo dei panettieri, in mezzo ai suoi servitori. 21E fece tornare
il capo dei coppieri nel suo ufficio di coppiere e questi diede la coppa

12 In questo senso G u n k e l , Genesis, 430, o S a r n a , Genesis, 279.


13 Cf. P. G i b e r t , Le récit biblique de rive. E ssa i de confrontation analytique, Facul-
té de théologìe, Lyon 1990, 63: «Giuseppe non p u n ta al proprio interesse m a alla veri­
tà», o B. G h e e n , «W hat Profit fo r Us?». Rem em bering thè S to ry o f Joseph, University
Press of America, Lanham -New York-London 1996, 97.
14 Cf. W e s t e r m a n n , G enesis 3 7 -5 0 , 78, o W . B r u e g g e m a n n , G enesis (Interpretation),
John Knox, A tlanta 1982, 321.

127
nella mano del faraone, 22ma il capo dei panettieri (lo) appese, come
Giuseppe aveva interpretato per loro. 23Ma il capo dei coppieri non si ri­
cordò di Giuseppe, e lo dimenticò.

Tornando al modo narrativo per raccontare lui stesso la risoluzio­


ne, il narratore non elimina immediatamente la tensione, preferendo
tener alta la suspense fino alla fine. Cominciando infatti col racconta­
re che il re «sollevò la testa» dei due funzionari (v. 20) lascia aleggia­
re il dubbio sull’esattezza dell’interpretazione di Giuseppe. Solamente
l’ultima parola, «[lo] appese» (v. 22a) rivela il significato esatto, per il
panettiere, dell’espressione «sollevare la testa», che, nel caso, signifi­
ca la sua decapitazione (o impiccagione), conformemente alla lettura
che Giuseppe ha fatto del suo sogno. Così, colui che, all’inizio, era nel­
la posizione di uno schiavo, acquisisce una superiorità che, se le sue
parole sono affidabili, è legata all’assistenza del Dio al quale «appar­
tengono le interpretazioni» (v. 8b).
L’epilogo sorprende un po’ (v. 23). Il lettore infatti si aspetta - o me­
glio spera - con Giuseppe che, una volta liberato, il coppiere si ricor­
derà di lui. Invece, egli lo dimentica.15 Questa assenza di un finale po­
sitivo rilancia la tensione in vista dell’episodio successivo (Gen 41) in
cui, due anni dopo, il funzionario ingrato si ricorderà di colui che gli
aveva predetto la sua riabilitazione presso il re.16 Vi torneremo.

2. Studio delle ripetizioni


In questo racconto, la ripetizione è una tecnica narrativa così im­
portante da meritare di essere osservata con profonda attenzione.
Quando abbiamo letto il racconto strutturato, abbiamo visto che, all’i­
nizio del testo, le apparenti ridondanze miravano a un particolare ef­

15 L'inclusione fra 40,1-4 e 40,22-23 sottolinea il futuro dei tre detenuti ricordati al­
l’inizio. A tal proposito, G r e e n , «W hat P ro fitfo r Us?», 88, osserva che, dei tre cam bia­
m enti dì posizione che ci si aspetterebbe secondo il racconto, solo quello di Giuseppe non
si realizza (v. 23).
16 In tal senso, G.W. C o a t s , Genesis, w ith an Introduction to N arrative Literature,
E erdm ans, G rand Rapids 1983, 281, h a ragione quando dice che questa scena non ha
una vera conclusione, poiché i l suo finale rilancia la tensione n arrativ a. Così p u re G u n -
k e l , Genesis, 432.

128
fetto di insistenza o servivano al narratore per suggerire con finezza la
prospettiva particolare di un personaggio. Quanto all’epilogo, esso è in­
teramente tessuto di termini e di espressioni ripresi dal racconto stes­
so (w. 20-23). Capita che l’atteso «terzo giorno» (cf. w. 12-13 e 18-19)
corrisponda al compleanno del faraone (v. 20a). «Sollevando la testa»
del coppiere e del panettiere (v. 20b), il sovrano realizza la prima par­
te degli annunci di Giuseppe (cf. w. 13 e 19), mentre la seconda parte
si verificherà più avanti: il re «fa tornare il coppiere nel suo ufficio» e,
come quest’ultimo aveva visto in sogno, «dà la coppa nella mano del
faraone» (v. 21, cf. w. 13 e llb ); quanto al panettiere, è davvero ap­
peso o impiccato a un albero (v. 22a, cf. v. 19).
Queste ripetizioni hanno l’evidente scopo di sottolineare che le pa­
role di Giuseppe si compiono alla lettera,17 ma anche di mantenere la
suspense fino all’ultimo, e non senza arguzia. Ma esse mettono ugual­
mente in evidenza il contrasto finale: tutte le parole di Giuseppe si rea­
lizzano, eccetto la richiesta fatta al coppiere. Lo indica, al v. 23, la ri­
presa di un verbo che, al v. 14 è oggetto di un'insistenza, «ricordarsi»
(.zakar), e del suo antonimo, «dimenticare». Così, invece di «ricor­
darsi» e di «fare ricordo» di Giuseppe davanti al faraone (v. 14), il cop­
piere «non si ricorda» di lui e «lo dimentica» (v. 23), deludendo la spe­
ranza di libertà che Giuseppe aveva riposto in lui.18
Il narratore ricorre alla stessa tecnica scegliendo di riportare in mo­
do scenico il racconto dei sogni dei funzionari e le interpretazioni di
Giuseppe (w. 9-19). In questo caso mantiene due volte la stessa se­
quenza di azioni, circoscrivendo le tappe per meglio evidenziarle. Pos­
siamo così confrontare tra loro i due racconti di sogni (2.1.) e anche le
interpretazioni, compreso il legame tra queste ultime e il racconto dei
sogni (2.2.).

17 In questo senso, p er esem pio S a r n a , Genesis, 280, e W e n h a m , G enesis 16-50, 384.


18 Cf. R. A l t e r , Genesis. Translation and Commentari/, N orton an d Co., New York-
London 1996. 233.

129
2.1. Comparazione dei due racconti di sogni
(w. 9 b -ll e 16b17‫)־‬

9bNel mio sogno, (ed) ecco: 16bAnch’io, nel mio sogno, (ed) ecco:
(c’era) una vite davanti a me, 10e sul­ (c’erano) tre canestri di dolci sul mio
la vite tre tralci. capo
E appena cominciò a germogliare, 17e, nel canestro il (più) in alto,
apparve il fiore e i suoi grappoli ma­ (c’era) ogni sorta di cibi per il farao­
turarono acini. 11Ora, la coppa del fa­ ne, fatto dal panettiere;
raone era nella mia mano,
e presi gli acini e li spremetti nella e l’uccello li mangiava dal canestro,
coppa del faraone e diedi la coppa in da sopra la mia testa.
mano al faraone.

I due racconti dei sogni mescolano realismo e fantasia.19 Comin­


ciano allo stesso modo: «Nel mio sogno, ed ecco [...]».20 In seguito en­
trambi presentano immediatamente «tre» elementi collegati al mestie­
re del sognatore (tralci, canestri). Il sognatore stesso è poi reso pre­
sente mediante una parte del corpo importante nell’esercizio del suo
ufficio (mano, testa) e con alcuni oggetti tipici del suo compito di nu­
trire il re: un contenitore (coppa, canestro, 3 volte ciascuno) e il suo
contenuto (succo d’uva, dolci e cibi vari). Infine, da entrambe le parti,
si parla del faraone e del suo servizio. La struttura dei due sogni, pur
adattandosi a ciascun sognatore e al suo ufficio all’interno della corte,
non manca quindi di elementi comuni. Probabilmente tali elementi
spiegano come mai i funzionari - di certo almeno il panettiere - pos­
sano credere che i sogni siano analoghi (w. 8a e 16).
Ma la serie ordinata delle similitudini mette in luce un certo nume­
ro di differenze che non devono rimanere insignificanti. Infatti, non so­
no legate al rispettivo mestiere di ciascun sognatore, ma piuttosto a ciò
che essi sperimentano nel sogno. Come scriveva già Hermann Gunkel
all’inizio del secolo scorso: «Il coppiere sogna di adempiere al suo uf-

19 Prendiam o a prestito l’idea da G u n k b l , Genesis, 425, seguito da S a h n a , Genesis, 278.


20 II secondo racconto comincia con un «Anch’io [...]», del quale precisiam o più so­
p ra la funzione.

130
fido, mentre il panettiere vorrebbe farlo, ma ne è impedito».21 Cer­
chiamo di andare avanti e di essere più precisi. Nel sogno riportato dal
coppiere, la natura e l’uomo si uniscono in una sequenza di atti per­
fettamente concatenati, anche se il tempo vi è come compresso:22 tre
azioni della vigna - germogliare, fiorire, maturare - si prolungano con
altre tre del coppiere - prendere, spremere, dare.23 Si instaura così
una specie di alleanza tra la natura e l’uomo a servizio del faraone (no­
minato anch’egli tre volte), poiché il beneficiario finale del dono è lui,
che riceve «in mano» ciò che era «nella mano» del coppiere. In questo
sogno regna l’armonia, diversamente da quanto avviene per il panet­
tiere che, nel suo sogno, non è del tutto attivo, mentre, da parte sua,
la natura feconda è completamente assente. Per quanto l’uomo abbia
preparato del cibo per il faraone, questi non ne trarrà profitto, dal mo­
mento che gli uccelli (una natura ostile) lo mangiano senza che il pa­
nettiere dimostri di fare alcunché per impedire che ciò che ha «sulla
testa» sia portato via e distrutto (w. 16 e 17).24

2.2. Comparazione delle due interpretazioni


(w. 12-13 e 18-19)

12Questa è la sua interpretazione: i 18Questa è la sua interpretazione:


tre tralci sono tre giorni. i tre canestri sono tre giorni.
13Ancora tre giorni e il faraone solle­ 19Ancora tre giorni e il faraone solle­
verà la tua testa verà la tua testa
e ti farà tornare nella tua carica. da sopra te
E tu darai la coppa del faraone nella e ti appenderà a un albero,
sua mano, secondo la consuetudine e l’uccello mangerà la tua carne da
di prima, quando eri il suo coppiere. sopra te.

21 G u n k e l , Genesis, 430. Così pure, M. F i s h b a n e , Biblical Interpretation in A n cien t


Israel, C larendon Press, Oxford 1985, 450.
22 Per V.P. H a m il t o n , The Book o f Genesis. Chapters 18-50, E erdm ans, G rand Ra-
pids 1995, 479, la costruzione del v. 10 crea u n ’im pressione di rapidità.
23 Anche G ib e r t , Le récit biblique de rève, 61, m ette in luce questa dinam ica.
24 Cf. in tal senso D a S ilv a , La sym bolique des réves, 106.

131
Ricordiamo che il narratore ha avvisato in partenza il lettore che i
due sogni hanno ciascuno una propria interpretazione (v. 5). Questi sa­
rà dunque più sensibile alle differenze che il panettiere non pare aver
percepito. Invece Giuseppe vi presta attenzione. È vero che, come scri­
ve von Rad, egli «estrae solo alcuni elementi della visione», selezio­
nando gli «elementi decisivi»25 che servono all’interpretazione. Egli ri­
prende infatti ogni volta l’inizio e la fine dei sogni che gli sono stati rac­
contati. I «tre» elementi nominati all’inizio - tralci e canestri - sono in­
terpretati come termine temporale: «Eccone l’interpretazione: i tre
sono tre giorni. Ancora tre giorni, [...]» (w. 12-13 e 18-19). La parte fi­
nale dei due sogni, così diversa nei due casi, costituisce l’altro appog­
gio dell’interpretazione, dal momento che Giuseppe la legge come evo­
catrice del futuro di ciascun sognatore. Come ha visto (v. llb ), il cop­
piere, ristabilito nel suo ufficio, metterà la coppa nella mano del fa­
raone (v. 13b); mentre del panettiere, che ha visto gli uccelli mangiare
il cibo del faraone sopra la sua testa (v. 17b), gli uccelli mangeranno la
carne dopo che il re avrà «sollevato la sua testa da sopra di» lui e ap­
peso le sue spoglie in un gesto di supremo disonore (v. 19).26
Il modo di procedere di Giuseppe è dunque identico per ognuno dei
due funzionari: a dettare il tenore dell’interpretazione è il finale posi­
tivo o negativo del racconto e la sorte del sognatore si avvera confor­
memente all’esito della storia che racconta. Ne è indice il netto paral­
lelismo tra le due interpretazioni, sottolineato da due identici inizi (cf.
sopra). Ma Giuseppe prolunga questa simmetria aggiungendo imme­
diatamente per l’uno e per l’altro: «Il faraone solleverà la tua testa» (w.
13 e 19). In questa ripresa si può certamente vedere un tratto di mor­
dente ironia nei riguardi del panettiere: avendo intuito quanto egli si
aspetti un’interpretazione positiva (v. 16a), Giuseppe comincia col far­

25 V o n R a d , La Genèse, 379. G ib e r t , Le récit biblique de rève, 61-63, d a p a rte su a ,


d i s t in g u e le d u e i n t e r p r e t a z i o n i : la p r i m a è s e le t ti v a n e l l a s c e l t a d e g li e le m e n ti d a d e c o ­
d i f i c a r e , l a s e c o n d a i n v e c e li r i p r e n d e t u tt i.
26 S a u n a , G enesis, 280, e W e n h a m , Genesis 1 6 -5 0 , 384, sottolineano l’aspetto infa­
m ante della punizione del p anettiere. Possiam o no tare del resto il gioco sulla p reposi­
zione cal («su») nel sogno (3 volte: «sul mio capo», «il più alto» [cèlyón], «sulla testa»)
e nell’interpretazione di Giuseppe (3 volte: «la tu a te sta su di te», «su u n palo» e «su di
te»): nell'interpretazione, questo uso ripetuto è negativo, dato che la tem atica è anche
sottolineata dall’azione di ap pendere il corpo. In questo senso, D a S il v a , La sym bolique
des rèves, 99-100.

132
gliela sperare, prima di smentirlo freddamente. Ma osserveremo che
nello stesso momento il narratore intraprende un gioco analogo con il
lettore, il quale, per un breve istante, può credere che Giuseppe sia ca­
duto nella trappola della somiglianza dei sogni, prima di rendersi con­
to che non è affatto il caso.

3. La ripresa del racconto in 41,9-13


Abbiamo visto che la fine del racconto del c. 40 rilancia la tensio­
ne narrativa segnalando in breve la dimenticanza di cui Giuseppe è og­
getto da parte dell’uomo di cui ha previsto la riabilitazione (40,23). La
conseguenza attesa non si fa aspettare. Nell’occasione in cui il coppie­
re si confronta con un faraone agitato da sogni e dall’incompetenza dei
sapienti d’Egitto, la memoria gli tom a (41,9-13).
9Il capo dei coppieri si rivolse al faraone dicendo: «Io devo ricordare og­
gi le mie colpe.10II faraone si era adirato contro i suoi servitori, e mi mi­
se in detenzione nella casa del capo delle guardie, me e il capo dei pa­
nettieri. 11E abbiamo sognato un sogno una stessa notte, io e lui; cia­
scuno secondo l'interpretazione del suo sogno, abbiamo sognato. 12Ora
là, con noi, c'era un giovane ebreo, servitore del capo delle guardie: gli
raccontammo i nostri sogni ed egli interpretò·, per noi i nostri sogni cia­
scuno secondo il suo sogno, egli interpretò. 13E come egli aveva inter­
pretato per noi, così fu: io mi fece tornare nella mia carica e lui (lo) ap­
pese». 14E il faraone mandò a chiamare Giuseppe, e lo fecero uscire in
fretta dal buco [...].

Qui opera un altro tipo di ripetizione: è la ripresa nella bocca di un


personaggio di una storia di cui il narratore ha già dato precedente-
mente la propria versione.27 Qui, il coppiere è in posizione di narrato­
re intradiegetico, e il suo racconto è perfettamente corretto. Non solo,
egli dà prova di umile sincerità (v. 9b), ma il suo racconto è conforme a
quanto ha raccontano l’affidabile narratore al capitolo precedente, co­

27 Troviamo un meraviglioso esem pio di questo tipo di ripetizione qualche pagina


prim a, in Gen 39, nella scena in cui la moglie di P o t i f à r m anipola i fatti p e r calunniare
Giuseppe con la sp eranza di farlo condannare. Cf. l’analisi di A l t e r , L a r t du récit bibli-
que, 149-153 o di A . W é n i n , Joseph ou lin v en tio n de la fra tern ità , Bruxelles, Lessius,
2005, 107-114; tr. it. G iuseppe o l ’invenzione della fra tella n za . L ettu ra narrativa e a n ­
tropologica della Genesi. IV. Gen 3 7 -50, EDB, Bologna 2007.

133
me attestano le numerose riprese del vocabolario usato (cf. i corsivi nel­
la traduzione letterale qui sopra). Il suo esordio (v. 9b) rinvia alla «col­
pa» evocata dal narratore in 40,lb, ma anche forse al suo oblio, di cui
si sovviene dopo due anni. L’impiego del verbo zakar («ricordarsi») ri­
chiama infatti la domanda di Giuseppe (40,14) e la negligenza finale del
coppiere (40,23).28 Il funzionario racconta in seguito la collera del fa­
raone e rincarcerazione (41,10: cf. 40,2-3a), poi menziona i sogni di­
versamente interpretati (41,11: cf. 40,5)29 e, diversamente dal narrato­
re del c. 40, introduce Giuseppe soltanto nel momento in cui ne ha ne­
cessità (41,12a: cf. 40,3b-4)30 per poter evocare il racconto dei sogni e
le interpretazioni che ne ha dato (41,12b: cf. 40,9-13.16-19). Termina
affermando che le sue parole si sono rivelate esatte, poiché egli stesso
è stato riabilitato mentre l’altro è finito appeso (41,13: cf. 40,21-22).
La storia è quindi proprio identica. Ma la narrazione che ne viene
fatta dal coppiere è totalmente diversa. La scarsa importanza che que­
st’ultimo accorda alle diverse parti della vicenda si allontana parecchio
da quella che riservava loro il narratore. Se l’esposizione e il primo
tempo dell’azione (40,1-5) sono abbastanza sviluppati (41,9-12a) e se
l’epilogo è riassunto (41,13, cf. 40,21-22), l’essenziale del racconto del
narratore si riduce a una breve frase (41,12b, cf. 40,6-19). Il coppiere
sintetizza infatti in modo narrativo tutto ciò che il narratore ha scelto
di raccontare scenicamente per mezzo di lunghi dialoghi; egli omette
pure tutti gli effetti di ritardo e quindi di suspense utilizzati da que­
st’ultimo; infine il suo racconto assume un punto di vista esterno, poi­
ché un personaggio non è in grado di far luce sui pensieri segreti di un
altro, come fa il narratore onnisciente in 4 0 ,6 b e l6 a .
Se la narrazione del coppiere è molto diversa da quella del narra­
tore, ciò è dovuto al fatto che la finalità del suo racconto non è la stes­
sa. Raccontando la storia, il narratore si dilunga a mostrare al lettore

28 In questo senso, W e n h a m , G enesis 16-50, 391, e H a m il t o n , G enesis 18-50, 490.


Invece p er G r e e n , « W h a t Profit fo r Us?», 100, si trattereb b e della sola colpa contro Giu­
seppe.
29 Qui il n a rrato re di 40,5 dava prova di onniscienza, m a non è così nel caso del
coppiere che evoca i sogni sapendo già, p er esp erienza personale, che ciascuno aveva
la sua interpretazione.
30 È l a t e c n i c a d e l l ’e s p o s i z i o n e r i t a r d a t a o d i f f e r i t a , a s s a i f r e q u e n t e n e i r a c c o n t i b i ­
b lic i: c f. S ka, «Nos p ères nous ont raconté», 24-25.

134
l’intelligenza e la sapienza di Giuseppe. Attento agli altri e pieno di sol­
lecitudine, pur riconoscendo che la sua situazione è ingiusta (40,7-8,
cf. v. 15), il giovane sa consapevolmente invocare Dio (40,8b) e appro­
fitta del passaggio della grazia per tentare di uscire dalla prigione sol­
lecitando il sentimento di gratitudine del suo interlocutore e suggeren­
do di sfuggita che, anche se è recluso, egli è innocente (40,14-15). Si
dimostra soprattutto un eccellente interprete di sogni: dimostra una
capacità che il lettore della Genesi non gli riconoseva prima e che il
narratore concede di osservare con calma grazie alle ripetizioni, ri­
servando anche una certa suspense per rendere la cosa più evidente
quando la sottolinea nella conclusione (40,22b).31
Il coppiere non ha questa preoccupazione. Egli desidera venire in­
contro al problema del faraone che è gravemente turbato dai sogni
(41,8). Racconta la sua storia solo per indicare al re una soluzione. Se­
condo le parole di Westermann si accontenta di «un riassunto breve e
chiaro [...] che permette al faraone di imparare quanto necessario».32
Lo fa però con intelligenza. Appellandosi alla memoria del re per ren­
dere il suo racconto credibile e collegandolo a qualcosa che il faraone
può ricordare, il coppiere comincia e termina con un paio di episodi
che questi conosce: la sua collera contro i suoi due funzionari e la lo­
ro prigionia (41,10) e poi il contrastato giudizio reso al termine della
faccenda (v. 13b). Tra i due episodi nomina Giuseppe (w. 11-12), limi­
tandosi, dopo averlo presentato, ai sogni e alle interpretazioni che egli
ne ha fatto. Per farlo impiega sei parole dalla radice hlm («sognare») e
quattro dalla radice ptr («interpretare»). Tali ripetizioni sono altamen­
te significative dell’insistenza tematica che sta al centro del racconto
del coppiere. Egli presenta Giuseppe come l’uomo al quale il re può ri­
correre per trovare una via d’uscita dall’impasse in cui l’hanno im­
merso i suoi sogni e l’incompetenza dei sapienti egiziani. Infatti, qua­
lunque cosa si possa dire della sua poco invidiabile situazione di gio­

31 Così si spiegano, secondo H a m il t o n , G enesis 18-50, 283, i vuoti del racconto: il


n a rrato re non dice nulla dei sentim enti dei funzionari dopo che Giuseppe h a in terp re­
tato, e nem m eno alla fine della storia. II racconto m ette soltanto in risalto Giuseppe e la
sua facoltà di interprete.
32 W e s t e r m a n n , Genesis 3 7 -5 0 , 8 8 .

135
vane inacar), di straniero (ebr. civri) e di schiavo (ceved, v. 12a),33 il gio­
vane prigioniero si è rivelato competente ed efficace al massimo gra­
do come interprete di sogni.34
Così, senza attardarsi su dettagli che rischierebbero di disturbare
l’essenziale, il coppiere stabilisce magnificamente quanto nella storia
serve al suo scopo, con l’eleganza di lasciare al re la cura di trarre lui
stesso le conclusioni. Narrato così, il suo racconto ha una notevole ef­
ficacia, tant’è vero che, senza por tempo in mezzo, il re fa ciò che pro­
babilmente il funzionario voleva (e Giuseppe aveva sperato): lo tira fuo­
ri dal sotterraneo (41,14) per parlargli dei suoi sogni inquietanti, ag­
giungendo: «Ora io ho sentito dire di te che ti basta ascoltare un sogno
per interpretarlo» (41,15b) - proprio quello che il coppiere voleva che
rimanesse impresso del suo racconto. Rispondendo: «Non io, ma Dio
darà la risposta per la pace del faraone» (v. 16), Giuseppe ritornerà su
un dettaglio, per lui importante, che il coppiere nel suo racconto ave­
va sottovalutato: è da Dio che riceve la sua arte, non dalle tecniche di­
vinatorie che il faraone gli attribuisce sulla base del racconto del cop­
piere.35

4. Conclusione
Dal punto di vista narrativo, il breve racconto di Gen 40 e la sua ri­
presa da parte del coppiere in 41,9-13 giocano molto su diversi tipi di
ripetizione.36 C’è anzitutto la ripetizione di termini o di espressioni, che
può sottolineare un’insistenza tematica (come in 40,1-4 e in 41,11-12)
o attirare l’attenzione del lettore su una prospettiva propria del perso­

33 Questa caratteriz 2azione d iretta è assente nel racconto del n a rra to re al capitolo
40. Ma essa risalta dal resto del racconto: «giovane» rinvia a 37,2, «ebreo» è preso dal­
le parole di Giuseppe in 40,15 (cf. anche 39,14.17) e Giuseppe è p resentato come «ser­
vo» (= schiavo) in 39,17.
34 In questo senso, G r e e n , « W h a tP ro fit fo r Us?», 100.
35 Cf. H a m il t o n , G enesis 18-50, 490.
36 In scala maggiore, la ripetizione di coppie di sogni è tipica della storia di G iù-.
seppe: in Gen 37, una perso n a sogna due volte e intervengono due interpreti; in Gen 40,
ci sono due sognatori e un solo interprete, m a ciascun sogno h a un significato p artico ­
lare; in Gen 41, un sognatore h a due sogni, e un solo in terp rete dà u n a spiegazione uni­
ca. Cf. G r e e n , «W hat ProfLt fo r Us?», 96.

136
naggio interessato (40,5 e 7). Altrove, la ripresa di termini o di espres­
sioni-chiave è usata per indicare la realizzazione di parole dette in pre­
cedenza (come in 40,21-22), oppure, al contrario, una mancanza di
compimento (in 40,23).
Il fenomeno della ripetizione si estende anche a insiemi più conse­
guenti. Così, la ripresa di una sequenza di azioni come queHa del rac­
conto dei sogni e della loro interpretazione (40,9-19) suscita !,atten­
zione e la sagacia del lettore, il cui compito è in tal caso di apprezza­
re il significato delle similitudini e delle differenze, sia sul piano della
trama che della costruzione dei personaggi. D'altronde, nelle narra­
zioni bibliche la ripresa da parte di un personaggio del racconto di un
episodio in cui è stato coinvolto da vicino (come in Gen 41,9-13) è ab­
bastanza frequente. Essa permette di osservare come narratori diver­
si raccontino la stessa storia ognuno a modo suo, cosa che porta il let­
tore a chiedersi che cosa può spiegare tali differenze.
Questa tecnica corrente nei racconti biblici non collima con ciò che
noi ci attendiamo da un’opera letteraria. Ma questo breve saggio mo­
stra sufficientemente che non manca di efficacia e che a modo suo con­
tribuisce a sollecitare con discrezione !’intelligenza attiva del lettore.

137
Capitolo quinto

IL PUNTO DI VISTA
NEL RACCONTO BIBLICO
Daniel Marguerat

La narratologia è una scienza nuova. Riandiamo con la memoria al­


la frattura originale da cui è nata e cioè la distinzione tra story e dis-
course - o, per chi lo preferisce, tra fabula e costruzione del racconto
- che risale al 1970 a opera di Seymour Chatman.1 La prima applica­
zione di ampio respiro al racconto biblico risale al 1981 ed è l'opera
di Robert Alter, The Art of Bìblical Narrative.2 Da allora l’apparato con­
cettuale e l’attrezzatura metodologica dell’analisi narrativa sono andati
progressivamente costruendosi. Ma per una scienza quarant’anni so­
no ancora la giovinezza... Un primo bilancio è stato impostato nel ma­
nuale di analisi narrativa Pour lire les récits bibliques.3 Fra le infor­
mazioni proposte, che portano a rimettere in questione le prime intui­
zioni fornite dai narratologi, figura il riesame della nozione di «punto
di vista». Dedichiamo questo capitolo a riscrivere il percorso degli stu­
diosi su questa nozione.

* Prim a pubblicazione in A. D e t t w i l l e r - U. P o p l u t s (edd.), S tud ìen zu M a tth à u s und


Johannes / É tudes sur M atth ìeu e t Jean. F estsch rift fììr Jean Zu m stein pour son 65e an-
niversaire, TV2, Zurich 2009, 91-107 e in A. B a r b i - S. R o m a n e l l o (edd.), La narrazione
nella e della Bibbia, M essaggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2012 ,1 1 3 -1 4 2 .

1 S. C h a t m a n , S tory and Discourse. N arrative S tructure in Fiction and Film, Cornell


University Press, Ithaca-London 1978; tr. it. Storia e discorso. La stru ttu ra narrativa nel
rom anzo e nel film , Pratiche, P arm a 1981, ried. Il Saggiatore, Milano 2010.
2 R. A l t e r , The A r t o f Bìblical N arrative, Alien an d Unwin, London 1981; tr. fr. V a rt
du récit biblique, Lessius, Bruxelles 1999; tr. it. L ’arte della narrativa biblica, Querinia-
n a, Brescia 1990.
3 Tr. it. D . M a r g u e r a t - Y. B o u r q u in , Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all'a ­
nalisi narrativa, Boria, Roma 2001, 22011.

139
Procederemo in cinque tempi. Nel primo tempo, ricorderemo la de­
finizione del punto di vista secondo Uspensky, con i diversi registri sui
quali si iscrive. In un secondo tempo esporremo la posizione di Genet­
te con la sua tipologia delle focalizzazioni: questa tipologia ha cono­
sciuto un enorme successo, è diventata classica e finora è stata impie­
gata nel quadro della maggior parte delle opere di analisi narrativa.
Ma proprio la sua definizione delle focalizzazioni è stata criticata, an­
zitutto da Mieke Bai e più recentemente dal linguista francese Alain
Rabatel. Come terzo tempo presenteremo le obiezioni e la ricostruzio­
ne del concetto di punto di vista proposto da Rabatel. Il seguito del ca­
pitolo prow ederà a due applicazioni—infatti una teoria, per quanto se­
ducente, non vale assolutamente niente finché non è stata messa alla
prova del testo. Applicheremo anzitutto questo nuovo approccio del
punto di vista all’episodio della guarigione dello storpio alia Porta Bel­
la del Tempio, narrato in At 3,1-10 e in seguito faremo vedere come
l’approccio per mezzo del punto di vista possa illuminare la costruzio­
ne di una sequenza narrativa, nel caso Me 8,22-38. Una breve conclu­
sione costituirà il quinto tempo.4

1. Il punto di vista e la sua definizione


È evidente che in un racconto gli avvenimenti della storia raccon­
tata (la story) non sono esposti in una prospettiva neutrale, ma da una
particolare angolatura. Proprio la scelta di uno specifico punto di vista
determina la costruzione del racconto. Possiamo dire che per una stes­
sa storia raccontata (una stessa fabula), ci sono infiniti punti di vista
possibili, ognuno dei quali può concretizzarsi in una particolare co­
struzione del racconto.5 A questo stadio preliminare possiamo dire che

4 Gli studi sul punto di vista {o prospettiva) nella n arrazio n e biblica sono rari. Se­
gnaliamo: G. Y a m a s a k i , W atching a Biblical N arrative. Point o fV iew in Biblical Exegesis,
Clark, New York 2007; RRENAB, R egards croisés su r la Bible. É tudes su r le p o in t de
vue. A ctes du Ille colloque International du R éseau de recherche en n a rrativité biblique,
Paris 8-10 ju in 2006, Cerf, Paris 2007; J.L. R e s s e g u i e , L'exégèse narrative du N ouveau
Testament. Une introduction, Lessius, Bruxelles 2009, 235-240, tr. it. Narratologia del
Nuovo Testam ento, Paideia, Brescia 2008.
5 Su questi concetti narratologici, rinviam o a M a r g u e r a t - B o u r q u in , Per leggere i rac­
conti biblici. Iniziazione a ll’analisi n arra tiva , 25-35.

140
la tradizione sinottica offre grosso modo tre varianti di punti di vista
per una stessa storia raccontata, cioè la storia della vita, della morte e
della risurrezione di Gesù di Nazaret. Ogni vangelo sinottico si distin­
gue per la cristallizzazione narrativa del punto di vista di un narrato­
re ed è possibile, per astrazione e per sintesi, ricostruire questo punto
di vista che regge tutta la strategia narrativa spiegata nel testo; si par­
lerà allora del punto di vista di Marco, di Matteo e di Luca.
Cos’è dunque il punto di vista? È «il rapporto che il narratore in­
trattiene con la storia raccontata».6 Il punto di vista è dunque un atteg­
giamento cognitivo che il narratore adotta quando costruisce il raccon­
to della storia di cui vuole rendere conto. Se prendiamo ad esempio nei
vangeli il personaggio collettivo dei «giudei», differenziamo il punto di
vista insieme critico e distante di Marco dal punto di vista più ostile di
Matteo con la sua fissazione sulla figura dei farisei, e infine la massifi­
cazione che fa Giovanni, che presenta i «giudei» come un’entità quasi
uniformemente aggressiva nei confronti del Rivelatore.7 Il punto di vi­
sta è un atteggiamento del narratore che si applica a tutti gli elementi
del racconto, sia che si tratti di persone, di oggetti o di valori.
A Boris Uspensky dobbiamo l’aver concettualizzato la nozione di
punto di vista.8 In questa nozione egli individua una quintuplice di­
mensione: spaziale, temporale, psicologica, fraseologica e ideologica.
Il punto di vista è dunque inquadrato, o, se preferiamo, determinato
da questi cinque registri.
1) La dimensione spaziale: nel descrivere l’azione, il narratore può
occupare una serie di posizioni. Può unirsi al personaggio e descrivere
la casa quando questi vi entra, descrivere poi la strada quando esce, op­
pure può tenersi a distanza e descrivere l’azione del suo personaggio in
mezzo alla folla. Dipende dal fatto che desideri o meno associare il per­
sonaggio al lettore, se voglia o meno porre l'accento sul personaggio.
2) La dimensione temporale: il narratore può descrivere una sto­
ria al passato perché essa è storicamente anteriore al tempo che egli

6 P. L u b b o c k , The Craft o f Fiction, Cape, London 1921, 251; tr. it. Il m estiere della
narrativa, Sansoni, Firenze 1984; Milano 22000.
7 Su questo cf. J. Z u m s t e i n , «A usgrenzung aus dem Judentum und Identitàtsbildung
im Johannesevangelium », in F. S c h w e it z e r (ed.), Religion, Politik und Gewalt, Mohn, Gii-
tersloh 2006, 383-393.
8 B . U s p e n s k y , A Poetics o f Composition. The Structure o f thè A rtistic Text a n d Typo-
logy o f a Compositional Form, University of California Press, Berkeley 1973.

141
sta vivendo e vuole che sia accolta come tale, ma può anche (come
spesso accade nei vangeli, specialmente in quello di Marco) passare
improvvisamente al presente e proporre al suo lettore la sincronia.
Può anche fare un’ellissi a partire dal suo posizionamento storico, co­
me accade in Mt 28,15: «Questo racconto [le voci sul furto del corpo
del Risorto da parte dei discepoli] si è propagato fra i giudei fino ad
oggi». C’è un salto dal tempo del racconto al tempo dell’enunciazione
narrativa.
3) In terzo luogo abbiamo la dimensione psicologica. Essa si con­
cretizza nei verbi del «sentire gli effetti»: egli pensò, egli si chiedeva,
prese paura, ebbe pietà, gli sembrava che... Qui il punto di vista corri­
sponde a una visione interiore, cioè a una informazione che il narra­
tore offre sull’interiorità di un personaggio.
4) La dimensione fraseologica ·, la scelta delle parole, la scelta di un
linguaggio è determinante nella percezione che il narratore vuole crea­
re nel suo lettore, ma al di là di questa evidenza, Uspensky raccoman­
da di prestare attenzione al modo in cui il punto di vista del narratore
impregna il discorso riportato dei personaggi. Quando in Luca un mae­
stro della legge si rivolge a Gesù chiedendo: «Maestro, cosa devo fare
per avere la vita eterna?» (Le 10,25), il narratore esprime un atteg­
giamento di deferenza da parte del legista, un rapporto di tipo scola­
stico verso Gesù e una considerazione alta di Gesù visto come capace
di risolvere una cruciale questione soteriologica. Ancora una volta, il
punto di vista del narratore costruisce l’immagine proposta al lettore
e suscita in lui un atteggiamento di empatia nei riguardi del legista.
5) Quinta e ultima dimensione: Videologia. Il termine è esplosivo,
ma lo usiamo intendendo il sistema di valori che il narratore propone
nel corso del suo racconto. Per evocare come il narratore costruisca un
universo di valori che egli, più che dichiarare esplicitamente nel rac­
conto, instilla, basta ricordare come sono trattate, nel Vangelo di Gio­
vanni, da un lato la figura del discepolo prediletto, «il discepolo che egli
amava» (Gv 19,26), e dall’altro lato la figura di Giuda «uno dei suoi di­
scepoli, lo stesso che lo avrebbe consegnato» (Gv 12,4). Nei vangeli,
«l’ideologia» del narratore si confonde con un’indiscussa adesione ai
valori rappresentati da Gesù. Ogni opposizione a questi valori pone i
personaggi nel campo dei nemici - ma è proprio «l’ideologia» (dicia­
mo: la teologia) paradossale del narratore Marco a situare spesso i di­
scepoli nel campo degli oppositori, che non comprendono le parole di
Gesù o rifiutano il suo annuncio (cf. Me 6,37.52; 8,14-21.31-33; 9,18-

142
19.32; 10,35-38; ecc.). Marco scompiglia le carte associando i disce­
poli a posizioni ostili a Gesù.9
Rimanendo a questo primo stadio di comprensione del punto di vi­
sta - uno stadio elementare, che in seguito diventerà più complesso -,
possiamo già fare due osservazioni interessanti.

1.1. Gesù camminava sulle acque


(Mt 14,22-33 e Gv 6,16-21)
Se confrontiamo due versioni evangeliche dell’episodio di Gesù che
cammina sulle acque, quella di Matteo (Mt 14,22-33) e quella di Gio­
vanni (Gv 6,16-21), constatiamo che ciascun evangelista, per raccon­
tare la sua storia, ha scelto imo specifico punto di vista. Qui noi non ci
poniamo nella prospettiva della critica delie fonti e non pretendiamo
che la versione giovannea sia una rilettura del racconto matteano; la
questione è troppo complessa per essere trattata in questa sede ed è
soprattutto al di fuori del nostro interesse. Senza difendere alcuna ipo­
tesi genealogica, ci limiteremo dunque a confrontare il modo di tratta­
re narrativamente una scena il cui contenuto (la fabula) si equivale in
entrambe le parti, escluso l’episodio di Pietro che si trova soltanto in
Matteo.
Nel racconto di Matteo, è evidente che il punto di vista adottato è
quello di Gesù. È lui che costringe i suoi discepoli a imbarcarsi per la
traversata (14,22); venuta la sera egli si trova solo e il drammatico qua­
dro della barca sbattuta dalle onde si presenta come lo spettacolo che
egli ha sotto gli occhi (w. 23b-24; nemmeno una parola del narratore
sulla paura dei discepoli!). È ancora Gesù che cammina verso di loro
sul mare e li esorta alla fiducia (w. 25.27); fra questi due episodi (al v.
26) c’è un brusco cambiamento di punto di vista che si focalizza sulla
paura dei discepoli. La stessa strategia del narratore si ripete nell’epi­
sodio di Pietro che cammina sulle acque: esortazione di Gesù e azione
di Pietro (w. 28-29), focalizzazione sulla paura di Pietro (v. 30) e poi

9 P e r u n ’a p p l i c a z i o n e d e ll e c i n q u e d i m e n s i o n i d e l p u n t o d i v i s t a (o p r o s p e t t i v a ) a L e
10,25-37, c f . R e s s e g u i e , U exégèse narrative du N ouveau Testament. Une introduction,
235-240, t r . i t . N arratologia d el Nuovo Testamento.

143
replica di Gesù (v. 31). In finale, focalizzazione sugli occupanti della
barca che si prostrano davanti a Gesù (v. 33). C’è dunque alla fine una
massiccia focalizzazione su Gesù, senza tuttavia che il narratore ci dia
accesso alla sua interiorità: la terza dimensione del punto di vista se­
condo Uspensky, quella psicologica, è riservata alle brevi fecalizzazio­
ni sui discepoli, il loro timore o la loro adorazione (w. 26, 30, 33). Che
cosa pensa Gesù, come reagisce davanti allo spettacolo della barca in
pericolo, perché li raggiunge camminando sulle acque? Davanti a que­
sti interrogativi, il lettore non trova risposte, constata invece - qui sta
il paradosso del racconto - che la paura dei discepoli non si scatena
davanti alla tempesta, ma davanti all’irruzione di Gesù che viene pre­
so per un fantasma: il loro grido di terrore (v. 26b) fa immediatamen­
te seguito alla menzione di Gesù scambiato per un fantasma.
Il clima è ben diverso nel racconto di Giovanni. In quel caso, al
contrario, il punto di vista adottato è quello dei discepoli nella barca.
A evidenziarlo basta un semplice sguardo alla stesura del testo: la
maggior parte dei verbi hanno come soggetto i discepoli (6,16b-
17.19.21 a) e inoltre, la traversata ha luogo per iniziativa loro (sono
loro a imbarcarsi verso Cafàrnào: 6,17). Il racconto drammatizza la
situazione di pericolo (v. 18), e sono i discepoli che «videro Gesù che
camminava sul mare e si avvicinava alla barca» (v. 19). Sono ancora
loro che, dopo aver udito le parole con le quali Gesù si identifica («So­
no io, non abbiate paura!»), vogliono prenderlo sulla barca, ma inva­
no, perché in quel preciso momento la barca tocca la riva. Enigmati­
co finale giovanneo, che simboleggia l’inafferrabilità del Cristo pa­
squale nella barca-Chiesa.
Non possono esserci dubbi: in Giovanni la telecamera è installata
nella barca, mentre in Matteo è dietro a Gesù. Queste opposte regie
narrative sono a servizio di due diverse ermeneutiche: cristologica in
Matteo, ecclesiologica in Giovanni. Nel primo Vangelo si dispiega una
cristologia della presenza del Risorto in mezzo ai suoi, con l’annes­
sione di una piccola catechesi sulla «poca fede» esemplificata dall’e­
pisodio di Pietro (14,28-31). Giovanni, da parte sua, rilegge l'episodio
come una metafora della situazione della Chiesa sotto la croce, del
suo dramma, della sua impressione di fallimento; la venuta del Cristo
corrisponde alla sorpresa pasquale, sotto forma di una parola pacifi­
cante; non è possibile «imbarcare» il Risorto: l’annuncio pasquale
promette una presenza, ma la presenza dell’Assente (in Gv 20,17: con
il noli me tangere Maria di Magdala riceverà lo stesso messaggio).

144
Constatiamo insomma fino a che punto la regia narrativa, e qui in par­
ticolare la scelta di un punto di vista, sia a servizio della lettura del rac­
conto che il narratore vuole suscitare nei suoi lettori.

1.2. La parabola del samaritano (Le 10,25-37)


La nostra seconda osservazione si rifa alla parabola del samarita­
no (Le 10,25-37). La storia è molto nota, ma lo è meno la strategia nar­
rativa adottata in questa occasione dal locutore Gesù. Qual è il punto
di vista adottato nella parabola? In altre parole: chi vede l’evento che
accade? 0 ancora: con quali occhi il Gesù di Luca vuole farci scoprire
la fabula dell’uomo ferito e soccorso?
Contrariamente alla ricezione classica di Le 10, non crediamo che
la scrittura della parabola voglia farci condividere il punto di vista del
samaritano pietoso. Questa comprensione classica è indotta dalla fi­
nale (w. 36-37) nella quale il dialogo tra Gesù e il dottore della legge
verte sull’esemplarità del comportamento del samaritano. Ma rileggia­
mo attentamente la parabola stessa. Chi assiste agli eventi dall’inizio
alla fme? L’uomo aggredito dai briganti. Del resto il racconto inizia con
lui («un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico [...]»: v. 30).
Una serie di segnali narrativi porta a concludere che Gesù ha volu­
tamente adottato un punto di vista che, surrettiziamente, fa come en­
trare il lettore «nella pelle» del ferito. Quattro segni sono evidenti.
Primo segno■, il ferito è una persona indeterminata dall’identità del
tutto indistinta, senza nome né qualifica, chiamato con il termine ge­
nerico «un uomo» (anthrópos, v. 30b) che precisa unicamente la sua
appartenenza all’umanità. Un’identità così vaga può solo facilitare l’i­
dentificazione con il lettore.
Secondo segno: il levita e il sacerdote vedono il ferito, ma lo scan­
sano senza fermarsi. Perché? La critica storica ha immaginato che l’os­
servanza delle norme di purità impedisse loro di avvicinarsi a un uo­
mo sanguinante.10 Forse, ma il racconto non ne parla. Rimanendo fer­

10 L’esem pio classico e brillante di questo approccio re sta J. J e r e m i a s , Die Gleich-


nisse Jesu, V andenhoeck und Ruprecht, Gòttingen 71965, 200-203; tr. it. Le parabole di
Gesù, Paideia, Brescia 1967.

145
mi su interrogativi narrativi, ci chiediamo: perché questo silenzio del
racconto sui motivi di una decisione così poco compassionevole? Ri­
sposta: perché il punto di vista adottato dal narratore è quello del fe­
rito e perché il racconto offre soltanto quello che può conoscere. Il fe­
rito sul bordo della strada constata che non si prendono cura di lui, ma
è proprio condannato a fare questa constatazione senza poterla spie­
gare. Conta solo il risultato: la mancanza di assistenza di cui è vittima!
Terzo segno: la parabola offre solo le informazioni disponibili al
viaggiatore ferito e non ne dà altre. Il sacerdote e il levita sono identi­
ficabili dai loro vestiti, ma come abbiamo visto le loro motivazioni ri­
mangono oscure. Da dove sbuca il samaritano? Dove andrà dopo? Non
lo sappiamo. Invece, non manca alcun dettaglio sulle cure con cui il sa­
maritano lo soccorre: olio e vino sulle ferite, caricamento su una ca­
valcatura, accompagnamento all’albergo, copertura finanziaria del suo
soggiorno. Insomma, il lettore vede con gli occhi del ferito.
Quarto segno: la domanda finale posta da Gesù al dottore della Leg­
ge è: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è ca­
duto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La formulazione di questa do­
manda ci offre la chiave della scelta del punto di vista. Infatti essa in­
terroga sull’identità del prossimo non più a partire dal donatore (tale
era la prospettiva del dottore della Legge nella sua domanda iniziale:
«e chi è mio prossimo?» v. 29), ma a partire dal beneficiato. È dunque
a partire dall’indigenza che si decide la condizione di prossimo, e non
con una definizione teorica. La questione decisiva è: chi si è fatto pros­
simo al bisogno altrui? Per permettere al lettore questo ribaltamento
riguardo alla questione su chi sia il prossimo, ci voleva un espediente.
Quale? Proprio il racconto, il racconto-parabola che, ancora una volta
senza dichiararlo, fa entrare il lettore nel punto di vista di un essere
umano che ha urgente bisogno di essere aiutato e considerato prossi­
mo dagli altri. Ancora una volta è la parabola, o piuttosto il punto di
vista di colui che la racconta, che provoca il rovesciamento di pro­
spettiva al termine del quale, sull’esempio del dottore della Legge, non
può che rispondere nel modo evidente: se sono nella disperazione,
qualunque sia la mia identità, mi aspetto che un altro si riconosca co­
me mio prossimo. Il punto di vista scelto dal parabolista ha così com­
piuto lo spostamento che corrisponde, per Gesù, al giusto modo di pen­
sare riguardo al prossimo. Per Gesù non si trattava di lavorare sulla ri­
sposta, ma sulla domanda.

146
1.3. Non c’è racconto senza punto di vista
Potremmo allungare l’elenco di osservazioni sulla scelta del punto
di vista, rilevando ad esempio la successione di punti di vista orche­
strati all’interno di uno stesso racconto. È il caso della parabola del ric­
co e del povero Lazzaro (Le 16,19-31), in cui la prima scena si focaliz­
za su Lazzaro e la sua impotente miseria (16,19-21), mentre la secon­
da in verte la prospettiva (16,22-31): Lazzaro è muto mentre il narra­
tore introduce il lettore nella disperazione del ricco. La parabola si nu­
tre di questo cambiamento del punto di vista che fa entrare successi­
vamente il lettore nella pelle dei due protagonisti. Ci basti aver evoca­
to tale procedimento; non ci soffermeremo oltre.
Concludiamo. Possiamo riassumere questo primo tempo basato
sulla definizione del punto di vista secondo Uspensky affermando che
con lui è posto un assioma: non esiste un racconto senza punto di vi­
sta, come non c’è immagine senza che la telecamera o la macchina fo­
tografica sia stata posizionata in un punto specifico che determina il
suo campo visivo. Rimanendo nella metafora fotografica, il punto di vi­
sta del narratore non riguarda solo un luogo scelto, ma anche un tem­
po scelto, una descrizione dell’interiorità dei personaggi, una scelta lin­
guistica (adottata dal narratore o prestata ai personaggi) e, elemento
in assoluto più cruciale, una scala di valori che sottende la sua valuta­
zione dei personaggi. In questo caso parleremo più specificamente del
punto di vista valutativo del narratore.
È però necessario constatare che i cinque registri non si situano tut­
ti sullo stesso piano. Uno dei cinque stona ed è il registro fraseologico.
Infatti, prendendo in considerazione il discorso prestato a un perso­
naggio, si passa dalla domanda «chi vede?», che permette di circo­
scrivere il punto di vista del narratore, alla domanda «chi parla?». Ci
si interroga infatti sul personaggio al quale il narratore assegna un
punto di vista. Torneremo più avanti su quest’ambiguità, che sta pre­
cisamente all’origine di nuovi approcci al punto di vista. Ora, la do­
manda è la seguente: sotto quali modalità narrative è comunicato il
punto di vista del narratore? Gérard Genette si è impegnato su tale
questione.

147
2. Le tre focalizzazioni secondo Gérard Genette
A proposito delle opere di Gérard Genette abbiamo affermato che
avevano stabilito una posizione divenuta classica in narratologia. A
questo specialista francese delle scienze del linguaggio dobbiamo la
prima sistematizzazione dei modi narrativi.11 Genette vuole risponde­
re alla domanda: chi vede nel racconto e come vede? La sua risposta
si basa su ima tipologia di tre possibili focalizzazioni. Notiamo che si
tratta sempre di diversi mezzi che il narratore ha a disposizione per
esprimere il suo punto di vista. Riassumiamo brevemente quanto oggi
è ampiamente conosciuto.
Genette distingue tra la voce narrativa e il modo narrativo. La vo­
ce è quella che trasmette al lettore il mondo valoriale del narratore. Il
modo è piuttosto il canale di trasmissione dell'informazione. Se ricor­
diamo quanto abbiamo detto della concettualizzazione di Uspensky, ci
accorgiamo che egli mescola i due. Genette, invece, li separa: da un
lato c’è la trasmissione di valori, da un altro la domanda: come è tra­
smessa rinformazione? Qui il linguista francese spiega la sua triplice
focalizzazione.

2.1. Tre modi di trasmettere l'informazione


Il primo tipo che egli mette in evidenza è il discórso non focalizza­
to, detto anche a focalizzazione zero: esso è caratterizzato dall’appor­
to di informazioni che superano il quadro spazio-temporale dell'episo­
dio narrativo. «In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain e con
lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. Quando fu vicino
alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico
figlio di una madre rimasta vedova [...]». Questo racconto di Le 7,11-
17, la risurrezione del figlio della vedova di Nain, è drammatizzato al­
l’inizio dalla duplice menzione della vedovanza della donna e dell’uni­
cità del figlio che essa porta alla tomba. Queste due informazioni ap­
partengono al narratore onnisciente: egli dispone di una conoscenza

11 G . G e n e t t e , Figures III, Seuil, Paris 1972, 206-211; tr. it. Figure III. Discorso del
racconto, Einaudi, Torino 1987.

148
che mancherebbe a uno spettatore, ma che egli comunica al lettore. Il
lettore riceve quindi il benefìcio di una conoscenza superiore a quella
dei testimoni della scena.
Secondo tipo: il discorso in focalìzzazione interna. Continuiamo il
racconto: «Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per
lei e le disse: “Non piangere”» (7,13). Affermare che Gesù è preso da
compassione, etimologicamente «preso nelle viscere» (esplagchnisthè,
13b), ci dà accesso all'interiorità del personaggio Gesù. Ancora una vol­
ta è il narratore onnisciente che opera e associa il lettore all’intimità
del personaggio.
Terzo tipo: il discorso in focalìzzazione esterna. Esso corrisponde
a ciò che ogni spettatore della scena è in grado di constatare. Se il di­
scorso non focalizzato è una «visione da dietro» (che comunica una co­
noscenza del narratore aderente alla scena), se la focalìzzazione in­
terna è una «visione con» (che comunica una conoscenza intima del
personaggio), la fecalizzazione esterna si qualifica come «visione da
fuori», in cui il narratore dice meno di quanto può sapere il personag­
gio. Proseguendo il racconto di Le 7: «Gesù si avvicinò e toccò la bara,
mentre i portatori si fermarono. Poi disse: “Ragazzo, dico a te, àlza-
ti!”» (7,14). Qui, direbbe Genette, siamo nell’ambito strettamente fat­
tuale, tipico di una fecalizzazione esterna.
Il successo della tipologia delle fecalizzazioni proposta da Genette
si fenda sulla sua chiarezza e semplicità, che spiega come essa si sia
imposta ormai per quasi quarant’anni. Cosa c’è di più semplice che po­
stulare una visione «neutra», cioè esterna, una visione interna che of­
fre al lettore l'interiorità nascosta dei personaggi e una visione a stra­
piombo che beneficia di una conoscenza antecedente o successiva al­
l’evento raccontato? In realtà, questa semplicità è un po’ troppo sem­
plice. Ossia, più esattamente, essa nasconde delle imperfezioni.

2.2. L’obiezione: confondere narratore e focalizzatore


Mieke Bai è stata la prima a sospettare della teoria di Genette.12
Questa narratologa ritiene infatti insufficiente fermarsi a una nozione

12 M . B a l , Narratology, University of Toronto Press, Toronto 1977, 21997, 142-154.

149
generale della focalizzazione. Dal momento che, a proposito della nar­
razione, si distingue tra il narratore e ciò che è raccontato, essa pro­
pone parallelamente di distinguere tra il soggetto della focalizzazione
(focalizor) e l’oggetto della focalizzazione {thè focalized object). Il fo­
calizzai or e è l’agente che vede quanto è raccontato secondo l’angolo
visuale adottato nella costruzione della trama (esempio: Gesù che ve­
de la vedova alla porta di Nain), mentre l’oggetto focalizzato è ciò ver­
so cui è diretta l’attenzione del focalizzatore (esempio: la vedova e il
corteo funebre).
L’obiezione fatta a Genette è enorme: «In un momento decisivo del­
la storia della teoria del racconto, è stata scoperta l’importanza essen­
ziale di questo delegato, l’autonomia di colui che l’autore ha deliberata-
mente investito della funzione narrativa nel racconto: il narratore. In un
altro momento, altrettanto decisivo anche se più recente, è stata scoperta
la presenza di colui al quale questo narratore delega, a sua volta, ima
funzione intermedia tra lui stesso e il personaggio: il focalizzatore».13
Mieke Bai rimprovera dunque a Genette di confondere narratore e
focalizzatore, come se, a livello del racconto, il narratore fosse il solo a
poter stabilire un punto di vista. Gli rimprovera in secondo luogo di as­
similare inadeguatamente la focalizzazione per mezzo di (un soggetto
focalizzatore) e la focalizzazione su (un oggetto focalizzato). Mette così
il dito sul fatto che le focalizzazioni di Genette si fissano a livello di chi
vede nel racconto, mentre rimane fuori del campo di riflessione ciò che
è visto. In altre parole, il punto di vista è un’emissione la cui ricezione
si situa al livello dell’oggetto considerato (persona o cosa).
A livello del focalizzato, Mieke Bai introduce una distinzione tra un
oggetto percettibile (quando è esterno al focalizzatore) o impercettibi­
le (quando si tratta di un dato interno a un personaggio, del quale di­
spongono solo coloro che hanno accesso alla sua psicologia). In questo
modo essa raggiunge il dualismo focalizzazione esterna / focalizza­
zione interna di Genette, ma situandolo a livello dell'oggetto guardato
piuttosto che a livello di chi lo guarda.
Dal nostro punto di vista, l’obiezione di Mieke Bai non ha prodotto
un concetto operativo atto a sostituire quello di Genette. La sua distin­
zione tra soggetto e oggetto della focalizzazione è corretta, ma non fa

13 Bal , Narratology, 32.

150
ancora vacillare la trilogia delle focalizzazioni di Genette. Di contro, la
sua critica segnala implicitamente dove si trova l’imperfezione. Genet­
te considera il punto di vista che proviene dal narratore, ma non è in
grado di spiegare come e secondo quali modalità il narratore delega il
suo punto di vista ai personaggi del suo racconto oppure lo assume co­
me sua affermazione personale. A che punto il narratore definisce il
suo punto di vista e lo fa passare attraverso un personaggio? La no­
zione di punto di vista si rivela più complessa di quanto sembrava. Il
linguista Alain Rabatel si è inserito in questo punto debole e ha pro­
posto un nuovo paradigma del punto di vista.

3. Il punto di vista secondo Alain Rabatel


L’attacco più pesante alla tipologia di Genette è stato inferto da
Alain Rabatel, un linguista dell’Università di Lione II. Il suo primo ar­
ticolo sull’argomento, pubblicato nel 1997, ne fa vedere la natura; es­
so si intitola: «L’introvabile focalizzazione esterna».14 Il titolo è un pro­
gramma: esso manifesta il licenziamento della nozione di focalizzazio­
ne esterna proposto da Genette. Secondo Rabatel, il racconto denomi­
nato «neutro», o in visuale esterna, non esiste più dell’idea di un rac­
conto non focalizzato, cioè a focalizzazione zero. La sua definizione di
punto di vista è del tutto inclusiva. Ai suoi occhi, il punto di vista «cor­
risponde al modo in cui un soggetto osserva un oggetto, in tutti i si­
gnificati del verbo “osservare”, sia che l’oggetto sia un oggetto concre­
to o un oggetto linguistico. Quanto al soggetto [focalizzatore], respon­
sabile della referenziazione dell’oggetto, egli esprime il suo punto di vi­
sta direttamente, con commenti impliciti, e anche indirettamente, me­
diante la referenziazione, cioè per mezzo delle scelte di selezione, di
accostamento, di attualizzazione del materiale linguistico, e ciò in ogni

14 A. R a b a t e l , «L'mtrouvable foealisation externe. De la subordination de la vision


extem e au point de vue du personnage ou du n arrateu r» , in L ittéra tu re 107(1997), 88-
113. Il suo studio fondam entale sul soggetto è: La construction textuelle du p o in t de vue,
Delachaux et Niestlé, Lausanne-Paris 1998. Si può trovare u n a presentazione dei lavori
di questo ricercatore nello studio di Y. B o u r q u in , «Vers une nouvelle approche de la fo-
calisation», in C. F o c a n t - A. W é n i n (edd.), A n a lyse narrative et Bible. D euxièm e collo-
que International du RRENAB, Louvain-la-Neuve, avril 2004, University Press-Peeters,
Leuven 2005, 497-506.

151
figura, dalle scelte più soggettive a quelle apparentemente più oggetti­
ve, dalle impronte più esplicite agli indizi più implìciti».15 In altri ter­
mini: ogni discorso è necessariamente fatto da una persona ed emana
da lei in piena soggettività evidente o nascosta, esplicita o velata.
Il punto di vista non manca mai, perché il discorso denuncia sem­
pre una certa percezione della realtà, percezione alla quale può ac­
compagnarsi un giudizio di valore. Mentre Genette li differenziava, Ra­
bat el associa dunque maniera e voce. Con lui oltrepassiamo un punto
che sembra essere di non ritorno: nessun discorso è senza origine, cioè
senza punto di vista, sia che si tratti del narratore o che si tratti dell'i­
stanza alla quale egli delega, cioè un personaggio del racconto. L’idea
di un neutralismo enunciativo dev’essere scordata. Del resto il lingui­
sta lionese mette finemente in luce lo stretto rapporto che lega il nar­
ratore ai suoi personaggi: «Compreso (verrebbe da dire “soprattutto”)
quando il racconto sviluppa il punto di vista di un personaggio, esso
costruisce al tempo stesso il punto di vista del narratòre sul personag­
gio e sul punto di vista del personaggio».16 Quando il narratore Luca
formula la domanda del maestro della Legge a Gesù in 10,25 («Mae­
stro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?»), gli attribuisce
un punto di vista deferente e aperto nella domanda, che il lettore re­
gistra, ma simultaneamente è il suo punto di vista di narratore a co­
struire narrativamente un tale atteggiamento.
Volendo sintetizzare la posizione di Rabatel, arriviamo alle seguen­
ti cinque affermazioni:
1) il punto di vista implica una componente percettiva, alla quale
a volte si accompagnano un sapere più o meno esteso (componente co­
gnitiva) e alcuni giudizi di valore (componente assiologica);
2) il focalizzatore, cioè la fonte enunciativa, può essere sia il nar­
ratore, sia un personaggio del racconto: il lettore percepisce la scena
attraverso i suoi occhi;

15 A. R a b a t e l , «Points de vue et rep résen tatio n s du divin dans 1 Sam uel 17,4-51. Le
récit de la Parole et de l’agir hum ain dan s le com bat de David contre Goliath», in R R E -
NAB, Regards croisés su r la Bible. É tudes su r le po in t de vue. A ctes du IIP colloque in-
ternational du R éseau de recherche en narrativité biblique, Paris 8-10 ju in 2 006, 15-
55, citazione pp. 15-16.
15 A. R a b a t e l , «Les verbes de perception en contexte d’effacement énonciatif: du point
de vue représenté aux discours représentés», in Travaux de linguistique 46/1(2003), 49-
88, citazione pp. 50-51.

152
8) all’altro polo, l’oggetto focalizzato (ciò su cui si orienta il punto
di vista) può essere oggetto di una visione interna oppure esterna. I
personaggi hanno anch’éssi la possibilità di accedere al pensiero degli
altri personaggi, sia pure in modo congetturale (come accade nella vi­
ta quotidiana);
4) l’ampiezza e la profondità del sapere variano da caso a caso; a
volte si rivelano più o meno limitate, altre volte più o meno estese;
5) l’espressione del punto di vista oscilla tra il polo soggettivante e
il polo oggettivante.

3.1. Il punto di vista rappresentato, raccontato o asserito


Detto questo, il punto di vista non si cristallizza in modo uniforme.
Rabatel distingue tre tipi di punto di vista, a seconda che sia rappre­
sentato, raccontato o asserito.17 Vediamo. Gli esempi sono tratti dal te­
sto di Le 7,11-17.
Anzitutto, il punto di vista rappresentato è quello a partire dal qua­
le le percezioni sono veicolate, assieme ai pensieri associati a tali per­
cezioni. Esempio: «ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico fi­
glio di una madre rimasta vedova, e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei [...]» (Le
7,12-13). Gesù è il focalizzatore e il verbo «vedere» introduce la per­
cezione rappresentata: la donna, che è appena stata descritta come
una vedova che seppellisce il figlio unico.
In secondo luogo, il punto di vista può essere raccontato: è il pun­
to di vista a partire dal quale gli eventi vengono affrontati, ma senza
che un verbo di percezione lo venga a segnalare mediante uno stacco
enunciativo. Con il suo racconto, il narratore si accontenta di porre
l’accento su un attore della scena (ricordiamo che per il narratore il
processo di empatia consiste nel far condividere al lettore i sentimen­
ti o le emozioni che sono in un personaggio). Esempio: «Vedendola, il
Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non pian­
gere!”» (Le 7,13). Il racconto pone l’accento su Gesù e sulla compas­

17 A. R a b a t e l , «Fondus enchainés énonciatifs. Scénographie énonciative et point de


vue», in Poétique 126(2001), 151-173, cf. pp. 152-157.

153
sione che egli prova davanti alla scena della disperazione della vedo­
va che gli si presenta.
In terzo luogo, il punto di vista asserito traspare nel contesto delle
parole e dei valori che esse esprimono. «Si avvicinò e toccò la bara,
mentre i portatori si fermarono. Poi disse: "Ragazzo, dico a te, alza­
ti!5’» (Le 7,14). Questo punto di vista corrisponde a un giudizio sulla si­
tuazione del ragazzo: egli può essere svegliato, mentre sua madre e la
folla lo considerano morto.
Ci accorgiamo che il punto di vista raccontato è il tipo più velato di
rappresentazione del punto di vista: il racconto presenta gli eventi a
partire da una prospettiva scelta (narratore o personaggio), ma lo fa
senza segnalarlo per mezzo dello stacco enunciativo costituito da un
verbo di percezione. In Le 7,12, la costruzione della scena con la sua
presentazione dei protagonisti della storia corrisponde al punto di vista
raccontato del narratore, cioè al punto di vista del quale il narratore è
la fonte, quello che egli ha scelto di adottare per presentare e dram­
matizzare l’evento: «Quando [Gesù] fu vicino alla porta della città, ecco
veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di ima madre rimasta
vedova; e molta gente della città era con lei». Dove Genette identificava
una focalizzazione esterna, con l’aggiunta di una focalizzazione zero
sulle informazioni che oltrepassano il quadro spazio-temporale della
scena, Rabatel insiste sulla dimensione soggettiva e selettiva delle in­
formazioni date e propone di parlare di un punto di vista raccontato.
All’altra estremità della rappresentazione, cioè sul modello più
espressivo, troviamo il punto di vista asserito. Esso domina nei testi ar­
gomentativi in cui l’autore esprime il suo punto di vista; nei testi nar­
rativi lo incontriamo ogni volta che un personaggio parla o che il nar­
ratore esprime il suo parere. La citazione matteana di compimento
(«Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto
dal Signore per mezzo del profeta‫ ״‬.», Mt 1,22) è un classico caso di
punto di vista asserito attribuibile al narratore, il quale commenta l’a­
zione che si sta svolgendo; ma il narratore cita e fa suo il punto di vi­
sta pronunciato dal profeta stesso, espresso nella sua dichiarazione:
abbiamo dunque a che fare con due punti di vista incastonati o em­
bricati, quello del profeta (la citazione) è infatti accolto dal narratore
che gli conferisce il carattere di parola compiuta.

154
4. Due applicazioni
Prima di passare all’applicazione delle categorie di Rabatel, fac­
ciamo il bilancio del percorso compiuto fin qui. Abbiamo iniziato de­
finendo il punto di vista come una posizione cognitiva del narratore
riguardo alla storia che egli racconta. Con Uspensky, abbiamo preci­
sato che questo rapporto tra il narratore e la storia raccontata si de­
clina su cinque registri: spaziale, temporale, psicologico, fraseologico
e ideologico. Con alcuni esempi, abbiamo mostrato che l’adozione di
uno specifico punto di vista (quello di un personaggio) o l’alternanza
di punto di vista possono costituire un’importante risorsa narrativa.
Con Genette, ci si impegna sul terreno delle modalità di espressione
del punto di vista: focalizzazione zero, focalizzazione esterna o inter­
na sono tre modi, tre canali con i quali il narratore informa il lettore.
Nei confronti di questa tipologia, che ha goduto di una lunga fortuna,
sono state espresse due obiezioni. Da un lato, non bisogna confonde­
re il soggetto focalizzatore con l’oggetto focalizzato; il soggetto foca-
lizzatore può essere sia il narratore sia un personaggio del racconto.
Si tratta allora di determinare chi focalizza e non solo come il testo è
focalizzato. La seconda obiezione, formulata da Rabatel, è che la fo­
calizzazione esterna non esiste, poiché ogni elemento del racconto de­
nota un angolo di visuale specifico, un punto di vista a partire dal qua­
le è espresso. Tale punto di vista può essere rappresentato, racconta­
to o asserito.
Come vedremo, la posizione decisa di Rabatel non potrà essere so­
stenuta in assoluto. Dopo l’individuazione dei punti di vista espressi, il
racconto presenta infatti alcuni passaggi residui, del tutto fattuali, che
diremmo non focalizzati. L’espressione «Pietro cammina», se non è
collegata con alcun testimone, né con un verbo di percezione o non di­
venta oggetto di alcun commento del narratore, non è focalizzata. Lo
slogan «tutto è punto di vista» trova qui il proprio limite. Lo verifi­
chiamo subito nella prima applicazione testuale.

4.1. At 3,1-10 e la successione delle focalizzazioni


Il racconto della guarigione dello storpio alla Porta Bella del Tem­
pio in At 3,1-10 appare all’inizio del libro degli Atti. Esso ha un ruolo
significativo perché presenta il primo gesto di guarigione compiuto da­

155
gli apostoli, subito dopo il racconto della Pentecoste e il lungo discor­
so di Pietro che lo segue. Anche il nostro racconto è seguito da un di­
scorso di Pietro, che ne fa una lettura cristologica: la guarigione dello
storpio è interpretata come il segno della risurrezione di Gesù.18
Come si presenta lungo il testo la successione dei punti di vista?
Versetto 1. L’inizio del testo non è focalizzato; siamo nel fattuale:
«Pietro e Giovanni salivano al Tempio». L’ultimo segmento, invece,
«per la preghiera delle tre del pomeriggio» non appartiene al registro
fattuale, ma enuncia l’intenzione dello spostamento degli apostoli ver­
so il Tempio, che corrisponde al loro punto di vista, come segnala il
narratore. Si tratta dunque del punto di vista raccontato dei due apo­
stoli. Il narratore avrebbe potuto non parlarne affatto, lasciando che il
motivo del loro spostamento rimanesse incerto.
Versetto 2 : «Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fm dal­
la nascita; lo ponevano ogni giorno presso la porta del Tempio detta
Bella, per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel Tempio».
Dire che l’uomo è storpio «fin dalla nascita» e che veniva posto «ogni
giorno» esprime il punto di vista del narratore, un punto di vista rac­
contato, che supera il quadro temporale dell’evento. Anche in questo
caso, il narratore avrebbe potuto tacere questa informazione o elar­
gire altri dettagli; selezionare l’origine e la durata della sua malattia
deriva dalla regia del racconto. Il fatto che lo storpio sia posto alla
Porta Bella «per chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel Tem­
pio» è ancora un punto di vista raccontato, ma appartiene a coloro
che lo depongono in quel luogo; infatti l’intenzione è legata alla loro
interiorità. Si tratta dunque del punto di vista raccontato dai portato­
ri dell’infermo.
Il versetto 3 ci orienta doppiamente sull’infermo: «Vedendo Pietro
e Giovanni che stavano per entrare nel Tempio, li pregava per avere
un’elemosina». La formulazione «vedendo» comporta un verbo di per­
cezione; la camera cambia angolazione e noi ci troviamo per così dire
associati allo sguardo dello storpio che vede i due uomini che si ap­
prestano a entrare nel Tempio. Per la prima volta, lo storpio diventa
soggetto di una percezione, mentre fino a quel momento era solo og­

18 Su questo testo, cf. D. M a r g u e r a t , Les A ctes des apótres (1-12), L abor et Fides,
Genève 2007, 113-121; tr. it. A tti degli apostoli (1-12), EDB, Bologna 2011, 127-137.

156
getto dell’attenzione e dell’intenzione degli altri. La fine del versetto in­
siste anch’essa su di lui, con un punto di vista raccontato: egli solleci­
ta Pietro e Giovanni «per avere un’elemosina».
Il versetto 4 tom a al modello non focalizzato: «Allora Pietro assie­
me a Giovanni, fissando lo sguardo su di lui Il seguito nasce da
un punto di vista asserito, introdotto dal verbo dichiarativo dire (le-
geìn): «e gli disse: “Guarda verso di noi!”». Dopo un inizio non foca-
lizzato: «Egli si volse a guardarli», il versetto successivo è tipico di un
punto di vista raccontato, quello dell’infermo («sperando di ricevere da
loro qualche cosa»). Questo punto di vista raccontato interviene in vi­
sione interna: l’attesa dell’uomo appare dal non percepibile, ma il nar­
ratore si associa a essa.
Fin dall’inizio del racconto constatiamo che c’è una rapida alter­
nanza nel modello di focalizzazione all’interno dello stesso versetto: il
testo passa da una fonte all’altra, dal narratore a coloro che portano
lo storpio, dall’infermo agli apostoli. In questo caso parliamo di rac­
conto plurifocalizzato. Infatti il modello di focalizzazione può essere
stabile, cioè limitato a una sola persona (racconto monofocalizzato); è
variabile se vari personaggi percepiscono la scena di volta in volta,
mentre è detto molteplice quando la successione delle diverse focaliz-
zazioni diventa veloce, come nel nostro caso. La rapida alternanza, so­
prattutto quando la focalizzazione salta da un personaggio all’altro, in­
tensifica l’aspetto drammatico del racconto. Nel caso presente, notia­
mo che il narratore ci associa di volta in volta alla percezione dell’in­
fermo e a quella degli apostoli e che in questo modo li mette a con­
fronto, fa in modo che si esprima l’attesa dell’infermo di ricevere un’e­
lemosina, rende la sua delusione tanto più sorprendente e la ripercus­
sione della sua guarigione tanto più inaspettata. %
È quanto accade al versetto 6, che presenta in modo massiccio il
punto di vista asserito di Pietro: «Pietro gli disse: “Non possiedo ar­
gento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Na­
zareno, àlzati e cammina!‫»״‬. Questa presa di posizione dell’apostolo
vede succedersi una constatazione di impotenza («Non possiedo ar­
gento né oro»), poi l'affermazione di un possesso, che può essere do­
nato: la certezza del potere risanante del nome di Gesù Cristo. Qui ac­
cade l’inatteso e la storia ha una svolta. In modo non focalizzato, i ver­
setti 7 e 8 descrivono il rinvigorimento delle caviglie dell’uomo e il suo
ingresso nel Tempio in compagnia degli apostoli. Osserviamo l’esube­
ranza linguistica con la quale il narratore esprime la ritrovata mobili­

157
tà; i verbi di movimento si succedono a raffica: balzare, camminare,
entrare, saltare, lodare Dio.19
Nuovo cambiamento di focalizzazione al versetto 9: «Tutto il popo­
lo lo vide camminare e lodare Dio». Il lettore è associato al punto di vi­
sta del popolo testimone dell’avvenimento. Il verbo di percezione ve­
dere segnala un punto di vista rappresentato; il lettore empatizza con
il popolo e con quello che percepisce: !,incedere e la lode dell’ex-infer­
mo. Il versetto IO si collega con un altro verbo di percezione: ricono­
scere {epiginòskein). Un perché {hot() esplicativo enuncia il punto di vi­
sta, che è allora rappresentato e non asserito poiché non è impiegato
alcun verbo dichiarativo: «perché riconoscevano che era colui che se­
deva a chiedere l’elemosina alla Porta Bella del Tempio». Due sostan­
tivi qualificano la situazione finale: la gente è «ricolma di meraviglia e
stupore per quello che gli era accaduto». Qui si esprime il punto di vi­
sta del narratore, un punto di vista raccontato in visione interna: il nar­
ratore associa il suo lettore all’interiorità dei personaggi. Il cambia­
mento di focalizzazione che abbiamo rilevato a metà percorso si è av­
verato nella seconda parte del racconto, pur senza uguagliare la rapi­
dità dei versetti 1-6. Di contro, l’apparizione del nuovo attore (il popo­
lo testimone) permette di misurare il duplice effetto del miracolo: il
mendicante non mendica più, non è più escluso dal Tempio, ma loda
Dio al suo interno e in compagnia degli apostoli. Una simile riabilita­
zione sociale e religiosa dell’infermo provoca lo stupore del popolo, e
noi indoviniamo come mai il narratore in finale metta a fuoco il suo
disorientamento: egli prepara il bisogno di una spiegazione, di una let­
tura teologica del miracolo, che il discorso di Pietro offrirà nei verset­
ti successivi (3,12-26).
Bilancio. L’identificazione dei modelli di focalizzazione ha permes­
so di mettere in luce la regia narrativa piuttosto sofisticata qui messa
in opera dal narratore Luca. Lungi dal limitarsi a un gioco di estetica
letteraria, il cambiamento di angolo di visuale sostiene l’effetto del te­

19 Anche se il racconto non è focalizzato, la scelta di linguaggio non è esente da in ­


tenzione erm eneutica; la rico rren za so rprendente del verbo saltare ([ez]hallesthai) de­
nota u n effetto di intertestualità con Is 35,6 nella versione della Settanta: «Lo zoppo sa l­
te rà [haleitai) come u n cervo». La guarigione dello storpio di At 3 riceve p er questo ver­
so un valore di com pim ento escatologico (cf. M a r g u e r a t , Les A cte s des apótres, 120; tr.
it. A tti degli apostoli (1-12), 136).

158
sto sul lettore e conduce alla sorpresa di una guarigione non richiesta
né prevista. Tocchiamo qui un’eccellenza nell’arte di raccontare, che si
verifica lungo tutto il corso della narrazione degli Atti di Luca. Assie­
me a Marco, Luca dimostra di essere il narratore più dotato del Nuo­
vo Testamento.

4.2. Il punto di vista come marcatore strutturale


in Me 8,22-38
La seconda analisi del testo sarà di tutt’altro ordine. Con un preci­
so esempio, mostreremo come il narratore Marco ricorra al punto di
vista quale mezzo per legare tematicamente vari episodi in seno a una
sequenza narrativa. Faremo vedere come una successione di punti di
vista può corrispondere a un dispositivo strutturale che lega varie sce­
ne l’una all’altra e le organizza in sequenza. Si tratta di Me 8,22-38,
una sequenza che dà il via alla sezione mediana del Vangelo di Marco
e che è comunemente detta sezione del cammino (8,22-10,52). Il tito­
lo deriva dal fatto che corrisponde geograficamente all’andare di Gesù
e dei suoi discepoli dalla Galilea a Gerusalemme e che all’interno di
questi tre capitoli il narratore ha raggruppato una serie di conversa­
zioni di Gesù con i suoi discepoli «lungo il cammino».
Il nostro punto di partenza è un’osservazione di Yvan Bourquin, in
un suo bell’articolo.20 Bourquin studia lo stupefacente racconto della
guarigione di un cieco in 8,22-26; la sua singolarità dipende dal fatto
che, caso unico nei vangeli, Gesù compie il suo miracolo in due ripre­
se. Dopo un primo tentativo nel quale applica un po’ di saliva sugli oc­
chi del cieco e gli impone le mani, Gesù gli chiede se vede qualcosa.
«Vedo la gente - costui diceva -, perché vedo come degli alberi che
camminano» (8,24). Allora Gesù gli impone di nuovo le mani sugli oc­
chi «ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva di­
stintamente ogni cosa» (8,25). Fenomeno unico nella tradizione dei mi­
racoli evangelici, unico e privo di commento da parte del narratore. Il
motivo della resistenza del cieco al gesto terapeutico rimane un enig­

20 Y . B o u r q u in , «Point de vue et “vision floue” chez Marc», in É tu d es théologiques e t


religieuses 83(2008), 405-412.

159
ma sul quale i commentatori inciampano. In prospettiva narratologi-
ca, la questione si sposta dal perché a qual è l’effetto sul lettore? Qua­
le effetto vuole produrre sul lettore un racconto così strano?
Dicevamo che il nostro punto di partenza è un’osservazione di Yvan
Bourquin sul testo. Egli nota che il racconto presenta un altro elemen­
to rarissimo in un racconto di miracoli: Gesù sollecita il punto di vista
del cieco («Vedi qualcosa?»). Proprio la risposta a questa domanda,
l’ammissione di una vista indistinta, provoca la ripetizione del gesto te­
rapeutico fino a una visione chiara. Ora, se continuiamo la lettura del
testo di Marco, notiamo che la stessa disposizione strutturale si ripe­
te: l’articolazione di un processo in due tempi su una questione nella
quale Gesù sollecita il punto di vista di un personaggio.
Infatti, la scena che segue è un interrogatorio sull’identità di Gesù
(8,27-30). «Per la strada, interrogava i suoi discepoli dicendo: “La gen­
te, chi dice che io sia?”». Una serie di risposte approssimative corri­
sponde alla visione sfocata del cieco. «Ed essi gli risposero: "Giovanni
il Battista, altri dicono Elia e altri uno dei profeti”». Poi arriva il se­
condo momento, introdotto dalla domanda: «Ma voi, chi dite che io
sia?». E la risposta di Pietro: «Tu sei il Cristo».
Lette una di seguito all’altra, le due scene si illuminano reciproca­
mente. La difficile guarigione del cieco funziona a livello simbolico il­
lustrando la difficoltà per l’uomo di cogliere, di comprendere, di arri­
vare alla verità, anche se Gesù opera a favore di questa comprensio­
ne. La seconda scena fa comprendere di quale verità si tratta: l’identi­
tà di Gesù in quanto Cristo. La sua verità non si svela in un solo mo­
mento né a tutti. Pietro proferisce il titolo corretto: «Tu sei il Cristo».
Siamo allo stadio della visione chiara. Il blocco di questa confessione
mediante l’ordine di non parlarne (8,30), concretizzazione della teoria
marciana del segreto messianico, conferma l’esattezza della confes­
sione cristologica di Pietro.
Ma come comprendere tale dignità messianica? La ripercussione
che costituisce la reazione di Pietro, in seguito all’annuncio da parte di
Gesù della passione del Figlio dell’uomo, è ben nota: «Pietro lo prese
in disparte e si mise a rimproverarlo» (8,32). Si è data invece poca at­
tenzione al fatto che la disposizione strutturale in due tempi qui riap­
pare, permettendo la comprensione del passo. Primo tempo (8,32-33):
Pietro rimprovera Gesù, il quale ha predetto che la sua sofferenza e la
sua morte precederanno la sua risurrezione (qui Marco ricorre al ver­
bo forte dell’esorcismo, epitimàn, minacciare). Come reagisce Gesù? A

160
sua volta respinge Pietro (stesso verbo epìtimàn), contestando il suo
punto di vista: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo
Dio, ma secondo gli uomini» (8,33b). La violenta esortazione di Gesù
è un invito a modificare il proprio giudizio, a cambiare punto di vista,
ad abbandonare quello degli uomini per adottare quello di Dio. Qui Pie­
tro si trova in regime di visione sfocata. Il cieco vedeva gli uomini co­
me alberi che camminano, Pietro vede Gesù come un Messia che non
soffre.
Il secondo tempo (8,34-38) apporta la correzione. Esso non si si­
tua sul terreno cristologico, ma su quello etico: «Se qualcuno vuol ve­
nire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua.
Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (8,34b-35). Il ri­
fiuto di Pietro è smascherato come un errore di prospettiva che non
riguarda solo la cristologia, ma la condizione credente: salvare la vi­
ta è un cammino di rinnegamento di sé e di rottura nei confronti del
mondo. Sbagliarsi riguardo a Cristo significa fare un errore sulla sal­
vezza. Seguire Gesù vuol dire acconsentire a un itinerario di rifiuto e
di insicurezza.
Qui noi siamo interessati a rilevare la funzione programmatica
esercitata dalla guarigione del cieco di Betsaida all’inizio della sezio­
ne del cammino (8,22-10,52). Ben più che un episodio aneddotico, vi
dobbiamo vedere un’espressione condensata dell’esperienza del let­
tore del secondo Vangelo, nella sua difficoltà di giungere a credere.21
Questo processo di condensazione simbolica ha un nome: il racconto
speculare. La difficile guarigione del cieco di Betsaida è un racconto
speculare (mise en abyme) della condizione del lettore di Marco. La
riuscita differita della guarigione illustra la fragilità del credente così
come Marco lo configura, in preda al malinteso, al dubbio, alle resi­
stenze di un immaginario religioso che contraddice in pieno l’annun­
cio del Messia sofferente.
Il racconto di Marco evoca a più riprese questa lentezza nel crede­
re. Abbiamo osservato come essa emerga nelle due scene che seguo­
no il nostro racconto. Poco più avanti appare nella figura del padre del
ragazzo posseduto: «Credo; aiuta la mia incredulità» (9,24). Rispunta

21 B o u r q u in , «Point de vue et “vision floue” chez Marc», 412.

161
ancora nella discussione dei discepoli per sapere chi fosse il più gran­
de (9,34), mentre Gesù ha appena annunciato per la seconda volta la
sua passione. Rinasce poi nella domanda dei figli di Zebedeo di condi­
videre la sua gloria (10,35), mentre per la terza volta Gesù annuncia
la sua prossima sofferenza. Insomma, in tanti modi nel suo Vangelo
Marco configura il difficile itinerario di una fede la cui verità sfugge,
una fede che, anche cercata, non si trova subito, una fede che deve
passare da una visione sfocata alla visione chiara.
Ponendo la difficile guarigione del cieco di Betsaida all’inizio della
sezione del cammino e duplicando la sua disposizione strutturale, Mar­
co si è servito dell’interrogatorio sul punto di vista per problematizza­
re l’accesso alla fede. Secondo lui, per accedere a una «chiara visione»
dell’identità di Cristo è necessario seguire un cammino arduo, nel qua­
le con dolore si passa da un punto di vista a un altro.

5. Conclusione
Al termine del percorso, chiediamoci: a che cosa serve il concetto
di punto di vista per l’esegesi? Intravediamo tre utilità.
In primo luogo, il concetto di punto di vista fa percepire il carattere
costruito, scelto, orientato, deliberato di ogni informazione che il rac­
conto comunica al lettore sulla storia raccontata. Non solo il racconto
non è un’enumerazione neutra di fatti, ma la scelta del o dei punti di
vista programma la lettura che il narratore si aspetta dal suo lettore.
In secondo luogo, il concetto di punto di vista permette di diagno­
sticare con finezza la regia narrativa adottata dal narratore nella di­
stribuzione delle fonti, di informazione lungo il racconto. In questo, di­
sponiamo di un autentico scanner della gestione narrativa dell’infor­
mazione.
In terzo luogo, l’alternanza dei punti di vista lungo il racconto per­
mette di capire meglio come il narratore orchestra un confronto o un
concorso di visuali dell’evento, allo scopo di far emergere quella che
vuole privilegiare. Effettivamente alcuni racconti si presentano come
un confronto di punti di vista, una specie di forum ermeneutico, in cui
un’interpretazione (o un punto di vista) emergerà alla fine. Un esem­
pio tipico è il racconto di Zaccheo in Le 19,1-10, con una successione
di punti di vista del narratore su Zaccheo (vuole vedere Gesù malgra­
do la sua bassa statura), della folla su Zaccheo (è un peccatore), di Zac­

162
cheo su se stesso (distribuisco e rimborso a coloro che ho defraudato)
e di Gesù su Zaccheo (egli è un figlio di Abramo); quest’ultimo punto
di vista, quello di Gesù, ha la meglio e falsifica i precedenti. Un bell’e­
sempio, che dimostra che il punto di vista non è mai soltanto uno
sguardo sulla realtà; tutto dipende dall’affidabilità che il lettore accor­
da a questo sguardo.
Capitolo sesto

LUCA, REGISTA
DEI PERSONAGGI
Daniel Marguerat

I personaggi «non impongono nulla (a parte la loro presenza lancinante),


non obbligano,' non affermano, nemmeno condannano,
si accontentano di proporre scelte di vita, di senso,
sollevano interrogativi inaspettati, stupori,
suggeriscono piste nascoste per rinnovare la nostra esplorazione della realtà,
la quale è talmente ricca e complessa da rimanere sempre inesauribile»
( S y lv ie G e r m a i n , Les personnages, Gallimard, Paris 2004, 18-19).

I personaggi stanno al racconto come le foglie all’albero: portano


vita, movimento e colore. I personaggi adomano il racconto; inoltre,
per mezzo loro la narrazione coinvolge il lettore, la lettrice, ne risve­
glia le emozioni, ne scatena le ire, ne suscita l’interesse. I personaggi
si offrono come zone di identificazione, porte d’ingresso attraverso le
quali il lettore si immerge nel mondo del racconto.
È inoltre necessario che il personaggio sia credibile, attraente, rea­
listico; deve incarnare valori ai quali il lettore è sensibile. Fra gli evan­
gelisti, il più dotato a disegnare personaggi attraenti è probabilmente
l’evangelista Luca. Il suo talento si misura in base al solco che ha im­
presso nella memoria cristiana. Dopo la lettura dei testi narrativi del
Nuovo Testamento, che cosa è rimasto infatti nella memoria cristiana?
La folla di personaggi che abitano il «mondo del racconto» neotesta‫־‬

* Questo testo è già apparso nel volume curato da C. F o c a n t - A. W é n in (edd.), A naly-


se narrative et Bible. D euxièm e colloque International du RRENAB, Louvain-La-Neuve.
a v ril2 0 0 4 , Peeters, Leuven 2005, 281-295.

165
mentario racchiude un buon numero di figure che provengono da Lu­
ca-Atti: Maria ed Elisabetta nel Vangelo dell’infanzia, il buon samari­
tano, il figlio prodigo, il povero Lazzaro, Marta e Maria, Zaccheo sul­
l’albero, i due ladroni al Golgota, l’apostolo Pietro a Pentecoste, l’eu­
nuco etìope, il centurione Cornelio, Aquila e Priscilla a Corinto, Stefa­
no, Paolo infaticabile missionario... Insomma, Luca ha garantito il suc­
cesso dei suoi personaggi tanto quanto si può dire che un autore ha
garantito il successo della sua opera. Da dove deriva questo successo?
Non ci sembra che esso derivi unicamente dall’imponente mole
narrativa dell’opera di Luca (in tutto 52 capitoli tra Vangelo e Atti de­
gli apostoli). È piuttosto collegato a un’arte particolare di Luca nella
composizione, o caratterizzazione, dei suoi personaggi. Quest’arte si
manifesta attraverso la complessità delle caratterizzazioni, ma anche
nel fatto che i suoi personaggi non evocano un solo aspetto, una virtù
o un vizio, ma che in essi si condensa una trama. Lo mostreremo in
questo capitolo illustrandolo con alcuni esempi.

1. Luca, compositore dei personaggi


La composizione dei personaggi lucani è spesso complessa. È chia­
ro che, se la confrontiamo con l’opera romanzesca di Balzac, tale com­
plessità risulta molto relativa. Ma nel contesto della letteratura biblica,
che a livello di scrittura si mantiene su un principio di economia, i per­
sonaggi di Luca spiccano per la molteplicità dei loro tratti. Nel Vange­
lo di Marco, le figure narrative sono lineari: il cieco Bartimeo è un osti­
nato mendicante (Me 10,46-52); la donna che ha perdite di sangue è
un’ammalata audace (5,25-34); l'uomo ricco è impantanato nei suoi
beni (10,17-22), ecc. Matteo comprime la componente narrativa a van­
taggio degli elementi discorsivi, tende a ridurre i suoi personaggi a un
quadretto finito.1 Giovanni, invece, quando configura i suoi personag­
gi, preferisce sviluppare il loro pensiero.

1 Si può m ettere a confronto, p e r esem pio, il trattam en to m atte ano dell’indem onia­
to di G erasa (Mt 8,28-34) con quello di Marco (5,1-20) o quello della em orroissa (Mt 9,20-
22 par. Me 5,25-34). La com pressione n arra tiv a può arriv are fino alla sparizione dei p e r­
sonaggi secondari a tutto vantaggio della sola relazione di Gesù con il personaggio p rin ­
cipale (Mt 8,14-15 par. Me 1,29-31).

166
Non è così per Luca, il quale accumula intorno ai personaggi, an­
che secondari, una serie di piccole informazioni significative. Il primo
personaggio che incontriamo in Luca-Atti è il sacerdote Zaccaria, pa­
dre di Giovanni. In tre versetti (Le 1,5-7), il narratore riunisce, come in
una miniatura giapponese, una molteplicità di tratti, che si rifanno al
registro politico (l’epoca di Erode, re della Giudea), al registro sociale
(il sacerdozio, la classe di Abia), genealogico (la discendenza da Aron­
ne di Elisabetta) e religioso (la giustizia davanti a Dio e l'impeccabile
fedeltà ai comandamenti di Zaccaria ed Elisabetta). Il v. 7 si conclude
con l'annuncio del loro dramma familiare, che è insieme sociale e reli­
gioso: l'assenza di discendenza nella vecchiaia. Restando al Vangelo
delLinfanzia, un’identica minuzia di particolari caratterizza i ritratti di
Maria (1,26-27), di Simeone (2,25-26) e di Anna (2,36-37). Luca li di­
pinge dichiarando chi sono (telling), mentre a partire dal c. 3, metterà
Giovanni al centro del suo racconto mostrandone l’attività (showing).2
Non è necessario moltiplicare gli esempi. Ricordiamo questa preci­
pua capacità lucana a costruire con poche parole una figura narrativa
i cui tratti derivano da diversi registri, i quali conferiscono in tal mo­
do al personaggio spessore e credibilità al cospetto del lettore. La ca­
ratterizzazione lucana si evidenzia in primo luogo per il frequente ri­
corso alla componente affettiva, in secondo luogo per l’uso del burle­
sco, in terzo luogo per il gusto della dimensione paradossale.

1.1. La componente affettiva


Il ricorso alla componente affettiva avvicina Luca-Atti alla storio­
grafia drammatica più che a una storiografia pragmatica come quella
dello storico greco Polibio.3 Nel creare i suoi caratteri, Luca integra l’a­

2 Su queste categorie: D. M a r g u e r a t - Y. B o u rq u in , Per leggere i racconti biblici. In i­


ziazione a lle n a tisi narrativa, Boria, Roma 22011, 80-81.
3 B. G e n tili - G. C e r r i distinguono negli antichi la storiografia tragica (che include i
sentim enti) dalla storiografia p ragm atica im p ern iata sui p a ram etri oggettivi della tram a;
q uest’ultim a vive di un prim ato accordato all’intelletto nella caratterizzazione, m a non
è affatto il caso in Luca-Atti (H istory and Biography in A n cien t Thouqht, Gieben, A m ­
sterdam 1988).

167
spetto affettivo. In questo modo, drammatizzando l’azione con il regi­
stro affettivo, moltiplica il potere di identificazione del personaggio da
parte del lettore.
Un esempio tipico ne è la caratterizzazione della vedova di Nain (Le
7,12). Gli indicatori di fragilità si susseguono: essa è vedova, il suo uni­
co figlio morto è portato alla sepoltura, una folla considerevole è «con
lei»; vedendo tutto questo Gesù «fu preso da grande compassione per
lei» (7,13). La reazione emotiva di Gesù è preparata dall’insistenza del
narratore sull’infelicità della donna.
È sempre Luca che, al Getsemani, dipinge Gesù angosciato, mentre
prega «nella lotta» e il suo sudore diventa come gocce di sangue
(22,44). Nei primi secoli questa annotazione non è stata ben tollerata,
e la tradizione manoscritta è molto rimaneggiata su questo punto, con
varianti e omissioni.4 Non dobbiamo stupirci: nel cuore della storia del­
la passione, questa annotazione manifesta l’estremo sconforto di Gesù
e corregge l’immagine dell’eroe martire che il resto del racconto luca­
no presenta sulla morte del Maestro. Nei canoni dell’antichità, la mor­
te nobile esige infatti il silenzio al posto del lamento, anche se indiriz­
zato a Dio.
Prendiamo un altro esempio dagli Atti: la storia di Paolo e Sila im­
prigionati a Filippi (16,20-34). Il racconto della loro tristezza, dopo che
sono stati incarcerati sotto false accuse, flagellati e gettati nella parte
più interna del carcere, commuove il lettore: la loro liberazione mira­
colosa lo rallegra, ma l’emozione ritorna con la disperazione del car­
ceriere che sta per uccidersi immaginando che i prigionieri siano eva­
si. Paolo lo salva dal suicidio gridando: «Non farti del male; siamo tut­
ti qui» (16,28). Curiosamente, la reazione di Paolo provoca la conver­
sione del carceriere, mentre ci si aspetterebbe che egli rimanesse più
impressionato dal prodigio del terremoto. L’attenzione rivolta alla sua
disperazione diventa per lui portatrice del vangelo.
La caratterizzazione lucana ha la capacità di risvegliare risonanze
affettive che rendono credibili i personaggi al crocevia del mondo nar­
rativo e del mondo del lettore.

4 Le 22,43-44 è omesso nel papiro P75 (III secolo) e in molti codici prestigiosi del IV-
V secolo: l’A lexandrinus (prim a m ano corretto), l’A lexandrinus e il Vaticanus (codici A B).

168
1.2. L’effetto burlesco

Luca è l’unico narratore neotestamentario che fa ridere il lettore


utilizzando coscientemente l’umorismo come risorsa narrativa. Sotto­
scrive così in modo significativo la massima di Orazio: «Ottiene il suf­
fragio di tutti, colui che unisce l’utile al dilettevole, e che contempora­
neamente incanta il lettore e lo istruisce».5 Questo procedimento è pa­
lese negli Atti.6
In At 5,17-26, gli apostoli sono imprigionati per ordine del Sinedrio
onde impedire che predichino nel Tempio... Ora, durante la notte, un
angelo li libera e ordina lóro di andare a insegnare nel Tempio, il che
scatena la costernazione delle guardie del Sinedrio davanti alla cella
vuota; un anonimo segnala loro la presenza degli apostoli nel luogo
proibito e nell’attività vietata!
At 12,13-16: la serva Rode sente bussare alla porta della casa in cui
sono riuniti i cristiani in preghiera. Riconosciuta la voce di Pietro fug­
gito dalla prigione, essa dimentica di aprirgli per metterlo in sicurez­
za e corre prima ad avvertire i fratelli e le sorelle della comunità... che
la trattano da pazza e non le credono.
At 19,11-17: alcuni esorcisti giudei, figli di Sceva, tentano di esor­
cizzare nel nome di Gesù. Ma lo spirito cattivo si ritorce contro di loro
con questa comica battuta: «Conosco Gesù e so chi è Paolo, ma voi chi
siete?» (19,15). E scagliandosi sugli esorcisti usurpatori del nome, li trat­
ta con tale violenza che salvano la propria vita fuggendo feriti e nudi!
At 20,7-12: il racconto della risurrezione di Èutico è impressionan­
te, ma non deve far dimenticare che questo ragazzo è morto cadendo
dal terzo piano, addormentatosi perché Paolo non smetteva di parlare!
L’autore degli Atti sa alternare tragedia e comicità, caldo e freddo.
L’utilizzo del burlesco esalta pertanto la drammaticità delle situazioni.
Il lato ridicolo dei personaggi è al servizio di un umorismo di Dio che
rompe i poteri minacciosi o, più semplicemente, concretizza la totale
sorpresa rappresentata dall’intervento divino di Dio nella storia.

5 O ra z io , A rs poetica, 343-344: «Omne tulit punctum qui m iscuit utile dulci / lecto-
rem delectando p ariterque m onendo».
6 L’uso del burlesco negli Atti è stato bene illustrato da R.I. P ehvo, Profit w ith De-
light. The Literary Gerire o fth e A c ts o f thè A postles, Fortress Press, Philadelphia 1987,
61-64.

169
1.3. La dimensione paradossale

Luca coltiva il piacere di costruire personaggi paradossali.


Osserviamo l’episodio dell’incontro tra Gesù e Zaccheo (Le 19,1‫־‬
10). Zaccheo è capo degli esattori di imposte, è ricco. Contempora­
neamente, «basso di statura» (19,3), deve appollaiarsi su un sicomòro
per veder passare Gesù; inoltre, la folla lo disprezza perché è un pec­
catore (19,7). Con pochi tratti, il narratore ha dipinto il ritratto di un
uomo potente e debole, temuto e disprezzato. Gesù interviene nel cuo­
re di questo paradosso, «alzando gli occhi» su di lui per autoinvitarsi
nella sua casa. A quest’uomo forte, ma reso fragile, Gesù offre di ac­
coglierlo, e questa accoglienza si traduce in un cambiamento nella ge­
stione dei suoi beni (19,8).7
Luca ama i paradossi attraverso i quali può svelare ai lettori le de­
bolezze dei grandi personaggi della società greco-romana; così facen­
do ha modo di indicare la fragilità umana attraverso la quale passa la
grazia. Accade così con il centurione di Cafàmao in Le 7,1-10. Que­
st’uomo è molto probabilmente romano, comunque non è un giudeo,
dunque è impuro. Conosce il potere della parola, perché dà ordini, e
può trasferire su Gesù il potere performativo della parola (7,7-8). Ma,
contemporaneamente, egli esperimenta la propria impotenza davanti
alla malattia del servo che «aveva molto caro» (7,2). Un simile para­
dosso si trova nel samaritano della parabola (Le 10,29-37), disprezza­
to dai giudei:8 egli è l’unico a provare compassione di fronte alla sof­
ferenza del viaggiatore aggredito; o ancora nel ritratto del contadino
ricco, che programma di allargare i granai senza sapere che morirà
quella stessa notte, passando tragicamente dall’illusione della sicurez­
za all’annientamento (Le 12,16-21). Ricordiamo anche il ritratto luca­
no del governatore Pilato, in grado di decretare per tre volte l’inno-

7 II verbo al presente «io do ai poveri la m età dei miei beni» è ambiguo; perm ette
anche di intendere che Zaccheo dichiari a Gesù, che h a offerto di essere suo ospite, quel­
lo che in verità è: non uno spoliatore dei suoi simili, m a colui che ridistribuisce u n a p a r­
te im portante delle sue ricchezze. Quindi, il verbo di 19,5 «Gesù, alzando gli occhi, gli
disse» assum e il suo significato forte: Gesù passando scru ta ciò che costituisce la verità
profonda di quest'uom o, al contrario della folla cieca.
8 Luca fornisce al suo lettore, a m onte della parabola, l’inform azione sulla viva ten ­
sione religiosa fra giudei e sam aritani: Le 9,51-55.

170
cenza di Gesù, ma succube alla pressione della folla che reclama Ba­
rabba (Le 23,4.14.22).
Concludendo, in Luca si manifesta il desiderio di rivestire i perso­
naggi, di conferire loro uno spessore che drammatizza l’azione e fa­
vorisce l’identificazione da parte del lettore. Luca dimostra un innega­
bile interesse a mettere in scena personaggi di alto rango; ma, lungi
dal servirsene semplicemente per aumentare il prestigio della fede cri­
stiana, punta sulle contraddizioni o sul paradosso dei personaggi ri­
spetto alla loro condizione sociale. Il suo è un richiamo a smontare
l’immagine sociale per discernere su quale umana debolezza il vange­
lo possa venire ad ancorarsi. Siamo in sintonia con la citazione di
Sylvie Germain citata in apertura del capitolo: questi personaggi «si ac­
contentano di proporre scelte di vita, di senso, sollevano interrogativi
inaspettati». Il burlesco o il paradosso rappresentano per il narratore
la svolta narrativa della sorpresa della grazia.

2. I personaggi lucani, condensato della trama


Quali elementi costruiscono i personaggi lucani?
Possiamo dire che nella biografia greco-romana i personaggi sono
trattati come entità morali, incarnano cioè delle virtù o dei vizi. Ne è
splendido esempio la Vita dei dodici Cesari di Svetonio, galleria di ri­
tratti nella quale si alternano imperatori buoni e cattivi. Da parte sua, il
romanzo greco ha arricchito e affinato il ventaglio di personaggi a di­
sposizione della tragedia e della commedia.9 Vediamo così farsi strada,
in Achille Tazio o in Senofonte di Efeso, due romanzieri del III secolo, il
tipo dell’eroe intrepido o dell'eroe innamorato, degli amanti vittime del
destino, dei banditi minacciosi (ribelli o pirati), dei genitori dell’eroe, del
funzionario detentore di un potere repressivo, ecc. Insomma, il roman­
zo greco genera gli eroi che gli servono per nutrire la sua trama.10 Il ca-

9 Consultare l’articolo di A. B illault, «C haracterization in th è A ncient Novel», in G.


(ed.), The N ovel in thè A n cien t World, Brill, Leiden 1996, 115-129.
S c h m e lin g
10 W.S. Kurz è sensibile a questo accostam ento fra Luca e la biografia greco-rom a­
na: i personaggi sono trattati come paradigm i («N arrative Models for Im itation in Luke-
Acts», in Greeks, Romans, and Christians. E ssa ys in honor o fA .J . M alherbe, F ortress
Press, M inneapolis 1990, 171-189).

171
ratiere più o meno stereotipato della trama, da un romanzo all’altro,
esplica una certa permanenza delle tipologie di personaggi che si ritro­
vano nelle opere romanzesche.
Tale rapporto fra trama e personaggio sussiste per il racconto lu­
cano: la trama vi genera i suoi personaggi, ma in Luca con un effetto
particolare in quanto il personaggio può diventare un condensato del­
la trama. Il confronto con il romanzo greco è certamente limitato: i ro­
manzieri fanno evolvere le loro figure narrative da un capo all’altro del
loro ampio racconto. In Luca-Atti, a parte Gesù, la figura collettiva dei
dodici discepoli, Pietro e Paolo, gli altri personaggi rimangono secon­
dari ed emergono spesso in un unico micro-racconto. Tuttavia, questi
personaggi secondari sono la concretizzazione, all’interno del micro­
racconto, della trama che sfocia dal macro-racconto. In altre parole, i
personaggi secondari del mondo lucano possono rappresentare la pun­
tuale irruzione della trama del ma ero-racconto in un episodio partico­
lare. Lo dimostreremo riguardo a tre figure: il personaggio come con­
cretizzazione di una parola (logion), come rappresentazione dell’oriz­
zonte geografico del macro-racconto e come concretizzazione dell’in­
treccio soteriologico del macro-racconto.

2.1. Il personaggio, concretizzazione di una parola


{logion)
Le 7,36-50: una donna entra in casa di Simone il Fariseo, dove Ge­
sù è a tavola, inonda i suoi piedi con le sue lacrime, li bacia e li unge
di profumo, con gran scandalo dell’ospite che giudica questa donna
«peccatrice» (7,39). La composizione lucana mette in scena la peda­
gogia di Gesù, che lega all’evento appena verificato un insegnamento
all’intenzione del fariseo: ima parabola e la sua applicazione invitano
Simone a interpretare il gesto carico di affettività della donna verso Ge­
sù come la conseguenza di un perdono ricevuto.
Nella composizione del racconto, un elemento stuzzica la curiosità:
il narratore qualifica fm dall’inizio la donna come «peccatrice nella cit­
tà» (7,37). Questa non è per lui un’abitudine consolidata; infatti spes­
so qualifica i personaggi nel corso o alla fine del racconto (cf. Le 16,8;
17,16). Perché proferire questo epiteto all’apertura della scena? Inol­
tre, il termine «peccatore» si collega con il versetto 34, che parla del
Figlio dell’uomo come di un «mangione e un beone, un amico di pub­

172
blicani e di peccatori». I commentatori generalmente rilevano che qui
abbiamo a che fare con un effetto di composizione tipicamente lucano:
la cucitura, tramite una parola che collega, di due scene eterogenee,
nel caso 7,18-35, in cui Gesù fa un parallelismo tra il suo destino e
quello di Giovanni Battista sotto l’egida del rifiuto, e 7,36-50, in cui Ge­
sù riceve in casa di Simone un omaggio contestato.11 Il termine «pec­
catore» farebbe da cerniera tra l’uno e l’altro.
Tuttavia, la portata di questo legame è nettamente maggiore di una
semplice cucitura letteraria. Il v. 34 riproduce il giudizio dispregiativo
dei contemporanei di Gesù sul suo atteggiamento ritenuto amorale. Ge­
sù vi oppone l’affermazione secondo cui «la Sapienza è stata ricono­
sciuta giusta da tutti i suoi figli» (v. 35). La scena si conclude senza che
l’identità dei figli evocati sia stata svelata. Per effetto di affinità, la sce­
na di cui ci occupiamo concretizza questa identità. La donna «pecca­
trice» di 7,36 rappresenta uno di quésti peccatori di cui il Figlio del­
l’uomo è accusato di essere amico e uno di quei figli dai quali la Sa­
pienza è stata riconosciuta giusta. Le dichiarazioni aperte dai versetti
34 e 35 trovano nella scena seguente una verifica.
Improvvisamente, tutta la trama di 7,18-35 si condensa nell’emer­
genza narrativa della donna presso Simone. Alla domanda che il verset­
to 35 scatena presso il lettore (chi dunque riconosce giusta la Sapienza?),
l’episodio in casa di Simone fornisce una risposta, indubbiamente inat­
tesa. A Simone che protesta, Gesù non chiederà di dar prova di tolle­
ranza morale verso una donna dai dubbi costumi; gli è piuttosto chiesto
di ratificare la sua accoglienza della Sapienza nella persona di Gesù. Nel­
la prospettiva di lettura messa in atto da Luca, l’intreccio del dibattito tra
Simone e Gesù non è etico, ma cristologico; ne va del riconoscere Gesù
come ipostasi della Sapienza. Ne dà prova la costruzione della dichiara­
zione di Gesù che segue la parabola e la risposta di Simone:
«Vedi questa donna?
Sono entrato in casa tua:
tu non mi hai dato l’acqua per i piedi, lei invece mi ha bagnato i piedi
con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli.
Tu non mi hai dato un bacio, lei invece, da quando sono entrato, non ha
cessato di baciarmi i piedi.

11 F ra gli altri, W . W ie f e l, Das Evangelium nach Lukas, Evangelische V erlagsanstalt,


Berlin 1988, 153.

173
Tu non hai unto con olio il mio capo, lei invece mi ha cosparso i piedi
di profumo.
Per questo ti dico: sono perdonati i suoi molti peccati, perché ha molto
amato.
Invece colui a cui si perdona poco, ama poco» (7,44b-47).

L’antitesi che domina l’argomentazione {tu non hai - lei invece) si


gioca sull’atteggiamento verso Gesù: Simone non ha riconosciuto chi
era il suo invitato, mentre la donna peccatrice, esclusa dai convitati,
l'ha intuito. La conclusione si impone: il personaggio della donna, co­
me è stato composto e messo in scena da Luca, offre al logion (la pa­
rola) dei versetti 34-35 una concretizzazione esemplare.
Il secondo esempio è preso dall’ingresso di Gesù nella casa di Mar­
ta e Maria (Le 10,38-42). È nota la molteplicità di interpretazioni di cui
questa pericope è stata oggetto. L'interrogativo cruciale è: su che cosa
verte esattamente la contrapposizione delle due sorelle? Il dualismo
Marta-Maria è stato connotato da vari tipi di valori: vita attiva versus
vita contemplativa, via diaconale versus via monastica, giustificazione
per mezzo delle opere versus giustificazione per la fede.12 A dire il ve­
ro, la lettura di questa scena è da sempre sovraccaricata da una me-
taforizzazione pesante dei due personaggi femminili, metaforizzazio-
ne per la quale il narratore non offre alcuna chiave. «Il Signore le ri­
spose: “Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una
cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sa­
rà tolta”» (10,41-42). Ma qual è questa «parte migliore»?
Qualcuno ha proposto di associare la scena alla parabola del sa­
maritano, immediatamente precedente (10,30-37). La sequenza così
costituita (10,25-42) unirebbe da una parte il dialogo di Gesù e del­
l’uomo della Legge sull’osservanza della Legge, e d’altra parte la para­
bola del samaritano, in terzo luogo poi la scena presso Marta e Maria.
Con esattezza, il doppio comandamento dell’amore enunciato dal dot­
tore della legge al versetto 27 (amare Dio - amare il prossimo) riceve­

12 Sulla storia della recezione, cf. A. S o lig n a c - L. D o n n a t, «M arthe et Marie», in Dic-


tionnaìre de spiritualité ascétique e t m ystique, X, 1978, coll. 664-673, e F. B ovon, L'É-
vangile selon Lue 9,51-14,35, Labor et Fides, Genève 1996, 108-111. Per u n a discus­
sione delle letture fem m iniste della pericope si veda V. K o p e rsk i, «Luke 10,38-42 an d Acts
6,1-7. W omen and Discipleship in th è Literary Context of Luke-Acts», in J. V e rh e y d e n
(ed.), The Unity o f Luke-A cts, University Press-Peeters, Leuven 1999, 517-544.

174
rebbe un’illustrazione crociata in chiasmo: la parabola illustrerebbe il
comandamento dell’amore verso il prossimo, mentre il dialogo presso
Marta e Maria concretizzerebbe l’amore di Dio.13 Ora, collocare la sce­
na in casa di Marta e Maria sotto l’egida dell’amore di Dio è artificio­
so; non si tratta di amare Dio, ma di ascoltare la parola di Gesù
(10,39). L’ascolto di Maria non è in opposizione a una mancanza di
amore di Marta, ma all’«abbondante diaconia» di sua sorella.
Se cerchiamo di chiarire qual è la «parte migliore» scelta da Maria,
il contesto narrativo a monte presenta una soluzione. Alla soglia di Le
10, due logia di Gesù sulla sequela illustrano la radicalità dell’esigen­
za di Gesù e la necessità della scelta:
«Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò do­
vunque tu vada”. Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uc­
celli del cielo i loro nidi; ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il ca­
po”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Permettimi di andare
prima a seppellire mio padre”. Gesù gli replicò: “Lascia che i morti sep­
pelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Un altro
ancora disse: “Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da
quelli di casa mia”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all'a­
ratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio”» (9,57-62).

La «parte migliore» che Gesù saluta nell‫׳‬atteggiamento di Maria è


la scelta buona, cioè la buona priorità dettata dall’urgenza; questa ur­
genza, nella logica del Vangelo di Luca, è significata dalla presenza di
Gesù e dalla prossimità del Regno che essa manifesta. Tra le parole sul­
la sequela e la sequenza di 10,25-42 trova spazio un discorso di invio
dei discepoli che illustra precisamente l’urgenza escatologica. Poiché
«il Regno di Dio è giunto fino a voi» (10,9), i missionari devono sbri­
garsi, non portare con sé né borsa, né sacco, né sandali e perfino non
fermarsi a salutare nessuno lungo la strada (10,4). La prossimità del
Regno esercita una pressione che esige di essere riconosciuta e quie­
tanzata con gesti decisi. Entrando nella dimora di Marta e Maria, Ge­
sù diventa come uno di quei missionari il cui discorso descrive il com­
portamento (10,5-7).14 Come Gesù è entrato nella loro casa, Marta e

13 B o v o n , VÉ vangile selon Lue 9 ,5 1 -1 4 ,3 5 , 8 2 .


14 R.M. Price, The Widow Traditions in Luke-Acts. A Fem inist-C ritical Stu d y, Scho-
lars Press, A tlanta 1 9 9 7 , 1 7 5 - 1 7 8 .

175
Maria hanno reagito diversamente: Marta si è lasciata assorbire dai
compiti dell’ospitalità, mentre Maria ha colto l’imperiosa necessità di
votarsi, lasciando da parte ogni impegno, all’ascolto della Parola.
Questa osservazione sulla trama narrativa a monte di Le 10,38-42
evita di abbandonare l’episodio di Marta e Maria a uno sfrenato proces­
so di allegorizzazione, che investe il racconto di valori a esso del tutto
estranei; il percorso della composizione, segnalato a monte e illustrato
dalle consegne del discorso di invio, riceve in questo episodio una dram­
matizzazione narrativa particolarmente sorprendente. In altri termini, i
personaggi di Marta e Maria concretizzano le parole sulla sequela for­
nendo, la prima, un contro-modello, e la seconda un modello.15

2.2. Il personaggio,
rappresentazione dell’orizzonte geografico degli Atti
Soffermiamoci su un’altra figura: l’eunuco etìope in At 8,26-40. La
storia dell’incontro di questo dignitario con l’evangelista Filippo, su
una via deserta, è famosa. L’episodio è interessante anche solo dal
punto di vista della costruzione del personaggio. Il narratore non sen­
te il bisogno di presentare Filippo, la cui identità è già stata rivelata a
monte: egli è uno dei sette scelti dalla Chiesa di Gerusalemme in 6,5
per il servizio delle mense; le sue capacità di evangelista in Samaria
sono state dimostrate in 8,5-25. Al contrario, la presentazione dell’eu­
nuco è oggetto di una mole inusitata di dati. Con un comportamento
da miniatore giapponese, il narratore ha condensato in un quadretto
una somma impressionante di informazioni:
«Un uomo etìope, eunuco, dignitario di Candace, regina di Etiopia, che
era responsabile di tutti i suoi beni, venuto a prosternarsi a Gerusalem­
me, stava tornando, seduto su un carro. Correndo innanzi, Filippo inte­
se che leggeva il profeta Isaia e gli disse: “Capisci quello che stai leg­
gendo?‫״‬. Egli rispose: “E come potrei capire, se nessuno mi guida?‫»״‬
(8,27-31a).

15 Nello stesso senso, si p otrà leggere o ra A.-L. Z w illin g , Frères et soeurs dans la
Bible. Les relations fratern elles dans VAncien T estam ent e t le N ouveau Testam ent, Cerf,
Paris 2010, 135-158.

176
Appare immediatamente che la costruzione del personaggio è para­
dossale. Da un lato, l’uomo è potente: officiale della corte di Candace,
egli esercita una considerevole responsabilità; ha i mezzi finanziari per
permettersi un carro equipaggiato e un rotolo del libro di Isaia. Dall’al­
tro lato, gli eunuchi sono degli esclusi: -gli autori greci e latini non na­
scondono a loro riguardo disprezzo e angherie.16 Israele li considera
«alberi secchi» (Is 56,3), come degli impuri e non li ammette nelle as­
semblee: nella cinta del Tempio, non possono andare oltre la corte dei
pagani. Fisicamente e socialmente, gli eunuchi sono esseri a parte. «Bi­
sogna evitare gli eunuchi e fuggire da ogni contatto con coloro che so­
no privati della loro virilità».17 Se si è recato a Gerusalemme per pro­
sternarsi, non è potuto penetrare nel Tempio; egli sperimenta una ri­
cerca religiosa inappagata. D'altra parte, pur sapendo leggere, non com­
prende di che cosa parli il testo di Isaia e confessa di non poterlo fare
senza essere aiutato. Il ministro etìope incarna il paradosso dell’uomo
potente ed escluso, fiancheggiando nell’opera di Luca altri personaggi
di cui abbiamo già parlato: Zaccheo il ricco capo degli esattori di impo­
ste, ma detestato dalla folla (Le 19,1-10), o il centurione di Cafarnao im­
potente davanti alla malattia del suo servo (Le 7,1-10). Il narratore ri­
volto a Teofilo ha un’evidente simpatia per questo tipo di personaggi, la
cui situazione contraddittoria riceve una soluzione dal vangelo.18 Ai per­
sonaggi ordinari, Luca preferisce i personaggi che si trasformano, che
evolvono a partire da una situazione colpita dall’impotenza.
Leggendo i commenti consacrati ad At 8,26-40, ci accorgiamo che
sono essenzialmente preoccupati di determinare lo status religioso del­

16 N ell'antichità gli eunuchi appartengono «ai gruppi u m an i più spesso disprezzati


e scherniti» (G. P e tz k e , art. eunouchos, in E W N T II, 1981, col. 202). L ucian o di S a m o sa ta
(II secolo) ironizza sull’eunuco che «non è né uom o né donna, m a non so proprio qual
composto, u n brutto miscùglio, un m ostro estraneo alla n atu ra u m ana» (trattato L'eu­
nuco 6, G arzanti, Milano 2010).
17 F la v io G iuseppe, A ntich ità giudaiche 4,290. L’antropologia giudaica, che collega la
procreazione alla benedizione, non può che rip u d iare la castrazione. F ilo n e di A le s s a n ­
d r ia com m enta Dt 23,2: la Legge «espelle in anticipo dalla san ta assem blea tutte le p e r­
sone che non ne sono degne, a com inciare da quegli individui di sesso incerto [...]. Es­
sa esclude infatti gli eunuchi con gli organi lesionati o asportati» [De specialibus legibus
1,325).
18 D.B. G o w le r studia la caratterizzazione lucana con l’aiuto delle categorie antino-
m iche onore/vergogna («C haracterization in Luke: A socio-narratological Approach», in
Bìblical Theology B ulletin 19/2[1989], 54-62).

177
l’eunuco etìope.19 È pagano? La difficoltà sta nel fatto che il primo bat­
tesimo di un non ebreo verrebbe fuori nel racconto degli Atti senza al­
cun scalpore, mentre un po’ dopo, l’accesso dei pagani alla salvezza fa
problema al momento dell’incontro di Pietro con Cornelio a Cesarea
(At 10,1-11,18; cf. 11,17). Da qui la perplessità dei commentatori, che
considerano prematuro il battesimo di un eunuco pagano - non to­
glierebbe così in qualche modo a Cornelio la primizia della concessio­
ne della salvezza ai non-giudei? Si è quindi preferito pensare che l’eu­
nuco di Etiopia facesse parte dei «timorati di Dio», quei pagani attrat­
ti dal giudaismo, che vivevano nell’orbita della sinagoga, ma che, a dif­
ferenza dei prosèliti, non avevano fatto il passo della conversione. I ti­
morati di Dio rappresentano infatti una specie di via di mezzo tra il
giudaismo e il paganesimo.20 Il fatto di essere andato a Gerusalemme
per prosternarsi (proskùnein) dà credito a questa ipotesi storica. È
quindi sorprendente che Luca non segnali affatto la sua condizione di
timorato di Dio, cosa che invece indica molto bene altrove.21 Guarda­
re più da vicino la caratterizzazione dell’eunuco ci permetterà di co­
gliere le ragioni di questo silenzio? Probabilmente sì.
Torniamo alla descrizione del personaggio: «Un uomo etìope, eu­
nuco, funzionario di Candace, regina di Etiopia...» (8,27). Colpisce im­
mediatamente, dopo l’indicazione del suo sesso (anèr: un uomo ma­
schio), la designazione della sua origine: etìope; solo dopo c’è la pre­
cisazione: eunuco. Perché la priorità è data alla geografia? Bisogna sa­
pere che per gli antichi, l'Etiopia [Cush] passa per essere l’estremo li­
mite dell’impero romano. Omero considerava gli etìopi come gli uomi­
ni più lontani (Odissea 1,23: eschatoi andróri).22 Nel I secolo, l’Etiopia
e la sua capitale Mero e [oggi Sud Sudan, lungo il Nilo] fanno sognare i

19 Si veda fra altri: C.K. B a r r e t t , The A cts o f thè A p o stles I, Clark, E dinburgh 1994,
420-421; tr. it. A tti degli apostoli, I, Paideia, Brescia 2003.
20 D. M a r g u e r a t, La prem ière histoire du christianism e (Les A ctes des apótres),
Cerf-Labor et Fides. Paris-Genève 22003, 97-122. tr. it. La prim a storia d el cristianesi­
mo. Gli A tti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsam o 2002, 82-104.
21 Negli Atti degli apostoli il tim orato di Dio è designato con la form ula tim orato dì
Dìo (10,2.22; 13,16.26;) o adoratore dì Dio (credente inD io, venerante Dio, rendente cul­
to a Dio) (13,43; 16,14; 17,4.17; 18,7.13).
22 Gli autori classici idealizzano gli etiopi p er la loro bellezza e pietà. Strabone situa
l’Etiopia agli «estrem i confini» dell'im pero (Geografìa 17,2,1). Dalla lontana Cush, l’AT
attende che le genti portino i loro doni al Signore (Sof 3,10; Is 18,7; 45,14; Sai 68,32).

178
romanzieri greci. Seneca riporta la spedizione inviata da Nerone nel
61-62 alle sorgenti del Nilo {Naturales quaestiones, 6,8). Il gusto per
l’esotismo era di moda. Insomma, quando mette in scena un etìope che
torna al suo Paese, il narratore evoca per il lettore un viaggiatore ve­
nuto dagli antipodi e che vi fa ritorno.
Questa origine esotica dell’eunuco non può fallire nel far sognare il
lettore degli Atti. Essa evoca alla sua memoria anche la promessa del
Risorto in At 1,8: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giu­
dea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra {eschaton tès
gès)». I «confini della terra» sono l’orizzonte universale nel quale si in­
scrive la geografia degli Atti. Negli Atti, la missione cristiana supererà
effettivamente queste tappe: Gerusalemme, la Giudea, poi la Samaria
(At 8,4-25), prima di espandersi nell’impero romano.
Il ruolo del nostro episodio in seno al macro-racconto si sta ormai
chiarendo. La conversione dell’eunuco etìope non oscura il battesimo
di Cornelio da parte di Pietro, in At 10, che segna l’accesso dei paga­
ni alla salvezza. At 8 non fa concorrenza ad At 10, dal momento che a
livello di macro-racconto la sua funzione è diversa: anticipare la fina­
le geografica degli Atti. Sappiamo che l’opera di Luca si conclude a Ro­
ma (At 28,16-31). Roma non è l’estremità della terra; secondo la men­
talità romana essa è piuttosto il centro del mondo. Invece, con l’eunu­
co venuto dai confini della terra, il racconto anticipa una finalità geo­
grafica non raccontata, ma sperata: la diffusione del vangelo fino ai
confini del mondo.23
Dal punto di vista della trama del macro-racconto, il momento di
questa anticipazione è ben scelto. At 8 precede At 9, che relaziona sul­
la svolta di Paolo sulla via di Damasco. Ora, Paolo sarà l’artefice di que­
sta espansione del vangelo nell’impero: «Quest’uomo è lo strumento
che ho scelto per me, affinché porti il mio nome davanti alle nazioni,
ai re e ai figli di Israele» (9,15). L’orizzonte universale della testimo­
nianza cristiana è dunque richiamato proprio prima che Dio converta
colui che diventerà l’agente di questo programma di espansione. L’e­

23 Cf. il com m entario dettagliato in D. M a r g u e r a t, L e sA c te s des apótres (1-12), La-


bor et Fides, Genève 2007, 301-313; tr. it. A tti degli apostoli (1-12), EDB, Bologna 2011,
343-357, e soprattutto P. F a b ie n , Philippe « l ’évangéliste» au tournant de la m ission dans
les A ctes des apótres. Philippe, Sim on le magicien et l ’eunuque éthiopien, Cerf, Paris
2010, 157-269.

179
pisodio dell’eunuco etìope annuncia, profeticamente, la riuscita di que­
sto programma.
Improvvisamente, richiamando l’Etiopia, l’orizzónte geografico de­
gli Atti si condensa in un personaggio straniero. La sua brusca do­
manda a Filippo suona come una risposta alla promessa del Risorto in
At 1,8: «Che cosa impedisce che io sia battezzato?» (8,36).

2.3. Il personaggio,
concretizzazione dell’intreccio soteriologico degli Atti
Abbiamo evocato la figura del centurione Cornelio, il cui incontro
con l’apostolo Pietro rappresenta una svolta nel racconto degli Atti (At
10). Anche in quel caso il narratore ha composto con minuzia un ri­
tratto, che si condensa in tre versetti:
«Un ‫־‬uomo di Cesarea dì nome Cornelio, centurione della coorte detta
Italica. Era religioso e timorato di Dio con tutta la sua famiglia; faceva
molte elemosine al popolo e pregava sempre Dio. Un giorno, verso le tre
del pomeriggio, vide distintamente in visione un angelo di Dio venirgli
incontro e chiamarlo: “Cornelio!”» (10,1-3).

In poche righe, sono enumerati otto indizi, di ordine sociale, cultu­


rale e religioso. Cornelio è caratterizzato come: 1) un maschio; 2) di no­
me Cornelio; 3) centurione; 4) religioso; 5) timorato di Dio; 6) genero­
so in elemosine; 7) orante: 8) visionario. A eccezione del terzo indizio
(il suo status militare), tutto collima con il ritratto di un pio ebreo. In
altre parole, Cornelio è posto all’inizio del racconto come il prototipo
del giusto. Un po’ più tardi, nei loro discorsi retrospettivi, gli emissari
di Cornelio non eviteranno tale termine presentando il loro capo a Pie­
tro: «È il centurione Cornelio, uomo giusto e timorato di Dio, stimato
da tutta la nazione dei Giudei» (10,22).
Il lettore potrebbe concludere: ecco il ritratto di un pagano merite­
vole. Cornelio è dunque abilitato a svolgere il ruolo decisivo che il nar­
ratore gli assegna, a poter partecipare all’abolizione della frontiera tra
puro e impuro (oggetto della visione di Pietro sulla terrazza: 10,11-16).
Pietro applicherà la sua visione alla casa di Cornelio e ne opererà la
traduzione teologica: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa
preferenza di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a
qualunque nazione appartenga» (10,34-35). Conosciamo il seguito: la

180
violenta spinta dello Spirito Santo che tronca la parola a Pietro e si ri­
versa su Cornelio e la sua famiglia (10,44). Pietro tira le conseguenze
procedendo al battesimo delle persone presenti: «Chi può impedire che
siano battezzati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spi­
rito Santo?» (10,47; cf. 11,17).
Come abbiamo visto, la bravura del narratore consiste nel fare di
Cornelio il ritratto di un quasi-ebreo. A parte il suo status di centurio­
ne, tutti gli indizi si addicono a un «giusto». La cosa interessante qui
è che l’interferenza identitaria comincia con la caratterizzazione di
Cornelio. Vediamo in che modo. La visione di Pietro sulla terrazza è
quella di un telo nel quale si mescolano alla rinfusa animali puri e im­
puri, con una voce celeste che lo invita a sacrificare e a mangiare.
(10,11-16). Metaforicamente, questa visione annuncia che la barriera
millenaria tra il puro e l’impuro è abolita da Dio stesso. Quando Pietro
dichiara alla famiglia di Cornelio che «Dio accoglie chi lo teme e pra­
tica la giustizia, a qualunque nazione appartenga» (10,35), egli appli­
ca l’ermeneutica teologica della visione. Questo enunciato discorsivo è
dunque anticipato narrativamente nella caratterizzazione di Cornelio.
Infatti il centurione è posto nel racconto come una figura ambigua: pa­
gano, ma rivestito delle qualità eminenti di un credente ebreo.24 L’ef­
fetto pragmatico di questo ritratto è precisamente di indurre !,indeci­
sione: se questo pagano esemplare riveste i tratti del giusto, che diffe­
renza c’è tra l’uno e l’altro?
La sequenza di At 10,1-11,18 dispiega narrativamente quello che
il narratore ha condensato del ritratto di Cornelio (10,1-3), cioè che per
accedere a Dio non c’è differenza tra l'ebreo e il non-ebreo. La co­
struzione del personaggio di Cornelio sintetizza il messaggio soteriolo-
gico della sequenza, decisiva nella trama degli Atti.25

24 Buona percezione della costruzione dei personaggi di At 10 in E . S t e f f e k , «Simon,


sum om m é Pierre, et T h o m m e en question”. La m ise en intrigue des p ersonnages en Ac
10,1-11,18», in Raconter, interpréter, annoncer. Parcours de N ouveau Testament. Mé-
langes offerts à D aniel M arguerat pour son 60ème anniversaire, Lab or et Fides, Genève
2003, 296-304.
25 Ne è prova il fatto che, dopo il versetto di transizione a m onte costituito da 9,43,
centrato sull'attività di Pietro, la sequenza 10,1-11,18 p arte con la descrizione di Cor­
nelio sul quale il n a rra to re fìssa l’attenzione; ora, si sarebbe potuto proseguire sulla lo­
gica petrin a e continuare a focalizzare sulla perso n alità dell’apostolo. Invece, h a prefe­
rito rom pere e m ettere in campo, con la descrizione di Cornelio, un effetto di indecisio­
ne che introduce narrativam en te la tem atica soteriologica della sequenza.

181
3. Conclusione: il protagonista del racconto
Todorov distingue tra i racconti centrati sulla trama e i racconti cen­
trati sui personaggi, in quanto questi ultimi rivelano una forte compo­
nente psicologica.26 Come nella storiografia ellenistica, nel racconto di
Luca-Atti prevale l'intreccio o trama. I personaggi (secondari) vengono
abbandonati lungo il racconto se la trama spinge più oltre l’interesse
del lettore. Ma quanto abbiamo visto nel corso di questo studio, è l’ar­
te lucana di mettere in scena i personaggi in modo tale che essi cri­
stallizzino un motivo teologico della trama. Si tratta certamente di una
subordinazione dei personaggi alla trama, ma con la particolarità che
tra loro e la trama si svolge un gioco di anticipazione o di conferma.

25 Citato da S. C h atm an , Story and Discourse, Cornell University Press, Ithaca-London


1978, 113; tr. it. Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film , Prati­
che, Parm a 1981, ried. Il Saggiatore, Milano 2010. Utile riflessione sul rapporto fra p er­
sonaggio e tram a in 0. L e h tip u u , «C haracterization and Persuasioni The Rich M an and thè
Poor Man in Luke 16,19-31», in D. R h o ad s - K. S y re e n i (edd.), Characterization in thè Go-
spel. Reconceiving N arrative Criticism, Sheffield Academic Press, Sheffied 1999, 7 4 8 1 ‫־‬.

182
Capitolo settimo

IL GIOCO DELL’IRONIA
DRAMMATICA.
L’ESEMPIO DEI RACCONTI
DI ASTUZIE E INGANNI

André Wénin

Questo capitolo si propone di illustrare le capacità narrative dell’i­


ronia e di approfittarne per abbozzare una tipologia dei racconti che
narrano un inganno, una dissimulazione, una menzogna, e che, nel ra-
contarle, creano una certa ironia drammatica.1 In questo ambito, non
sarà certamente mutile un breve richiamo all'ironia come tecnica nar­
rativa. L’ironia nasce da una schermaglia tra le posizioni dei perso­
naggi del racconto e del lettore, posizioni determinate dai rispettivi li­
velli di conoscenza di cui dispongono. Generalmente distinguiamo due
tipi di ironia. L’ironia verbale è frutto di un «contrasto fra due sensi
possibili di un’unica dichiarazione, contrasto inerente ai termini della

* Prim a pubblicazione sotto il titolo: «Le je u de l’ironie dram atique dans les récits
de ruses et de trom peries», in A. P a s q u ie r - D. M a r g u e r a t - A. W é n in (edd.), L ’intrigue
dans le récit biblique. Q uatrième colloque International du RRENAB, Università Lavai,
Québec, 19 m ai - le v ju in 2008, Peeters, Leuven 2010, 159-170.

1 Non ogni racconto di tal genere sviluppa necessariam ente questo motivo n a rra ti­
vo allo scopo di ottenere degli effetti di ironia. Così, p er esem pio, nell’episodio detto «del­
la moglie sorella» in Gen 12,10-20: 20 e 26,7-11, il trucco del p a triarc a non dà spazio
ad alcuna particolare ironia. Inoltre, ii motivo non viene sviluppato come tale, nella m i­
sura in cui non si racconta l'inganno prop riam en te detto.

183
frase», cioè legata alla formulazione stessa della parola.2 Così, ad
esempio, dopo che Assalonne ha rovesciato Davide suo padre, l’amico
di quest’ultimo, Cusài, va da lui con lo scopo di fare la spia a favore del
re destituito. Arrivando, saluta Assalonne dicendo: «Viva il re! Viva il
re!» (2Sam 16,16). Ma qual è questo re? Dovrebbe essere Assalonne,
che Cusài sta salutando; in realtà quest’ultimo pensa a Davide, che sta
cercando di aiutare efficacemente (cf. 15, 333.(37‫־‬
L’ironia drammatica o di situazione risulta invece da un «contrasto
fra la percezione non corretta di una situazione da parte perlomeno di
uno dei personaggi e la percezione più completa della situazione da
parte del lettore (e, a volte, anche di alcuni dei personaggi)».4 Nelle pa­
gine che seguono tratteremo questo tipo di ironia.
Un’ultima precisazione: nel senso letterale del termine, l'ironia non
è necessariamente divertente. Non va confusa con l’umorismo, anche
se il suo uso può far sorridere o ridere. Si caratterizza soprattutto per
il suo carattere allusivo o suggestivo, che lascia al lettore il compito di
riconoscerla. In questo si distingue dal sarcasmo o dalla derisione, che
di solito sono più espliciti, più pesanti e quindi anche più aggressivi.5
Detto questo, analizzeremo tre modelli presenti nei libri della Ge­
nesi e di Samuele. Il primo è di gran lunga il più ricorrente e il più at­
teso: il lettore vi si trova in posizione uguale a quella dell’ingannatore
e, con lui, in posizione superiore a quella dell’ingannato che paga lo
scotto dell’ironia. Nel secondo modello, il lettore, che conserva una po­
sizione superiore a quella dell'ingannato, è tuttavia in posizione infe­
riore in rapporto al personaggio che gioca d’astuzia. In un terzo mo­
dello, il narratore garantisce al lettore una posizione superiore o ugua­

2 J.-L. S k a, «I nostri pa d ri ci hanno raccontato». Introduzione a ll’analisi dei rac­


conti d e ll’A ntico Testamento, EDB, Bologna 2012, 97; ed. fr. «Nos pères nous ont ra-
conté». Introductìon à l ’analyse des récits de iA n c ie n Testarnent, C ahiers Évangile 155,
Cerf, Paris 2011, 58. Per u n a trattazione sintetica dell'ironia nei racconti biblici, cf. que­
sto studio pp. 95-101, o D. M a r g u e r a t - Y. B o u rq u in , Per leggere i racconti biblici. In izia ­
zione aU’analisi n arrativa, Boria, Roma 2001, 117-118 e 122.
3 C. C o n ro y , A bsalom Absalom ! N arrative a n dL anguage in 2 S a m 1 3 -20, Biblical In-
stitute Press, Roma 1978, 114.
4 S k a , « I nostri padri ci hanno raccontato», 100.
5 E.M. G ood, Irony in thè Old Testament, Almond Press, Sheffield 1981, 27-3.0, che di­
stingue anche la parodia (basata su un effetto di stile) e la satira, un sarcasm o sviluppato.

184
le a quella dell’ingannatore e inferiore a quella dell’ingannato: in que­
sto caso l’ironia colpisce l’ingannatore più che l’ingannato, come nel
caso dei primi due modelli.

1. Al pari deH’ingannatore,
il lettore è superiore alTingannato
Visto che l’ironia dipende dalle rispettive posizioni dei personaggi
e del lettore, il caso più frequente dei racconti di dissimulazione e di
astuzia è quello in cui il lettore si trova allo stesso livello di cono­
scenza dell’ingannatore e in posizione superiore a quella deU’ingan-
nato. Da questa posizione il lettore è in grado di seguire l’intero gioco
tra i personaggi, in particolare l’attuazione dell’inganno. L’ironia sì
esplica quindi interamente a spese dell’ingannato. Questo tipo di sce­
na può essere molto breve oppure può dar vita a racconti più o meno
sviluppati, come nel caso di Gen 27,1-29 (Giacobbe inganna Isacco per
ottenere la sua benedizione), o Gen 39,11-20 (la moglie di Potifàr in­
ganna tutti sul conto di Giuseppe). Ecco in breve alcuni esempi.
In Gen 27,42-28,2, Rebecca è informata dell’ira vendicatrice di
Esaù nei confronti di Giacobbe. Dopo aver rivelato la cosa a Giacobbe
e avergli consigliato di mettersi al riparo per un certo tempo presso lo
zio Labano, si rivolge a Isacco: il suo modo di esprimersi («Se Giacob­
be prende moglie [...1 tra le ragazze della regione, a che mi giova la
vita?») mostra chiaramente al lettore quello che Rebecca vuole: per­
suadere Isacco della necessità di inviare Giacobbe all’estero per pren­
dere moglie. Ma il lettore sa che ella omette di svelare al marito il ve­
ro motivo della sua iniziativa, cioè la paura di perdere i suoi due figli
nello stesso giorno, motivo che ha espresso parlando poco prima con
Giacobbe (27s45b). Quando, in seguito, Isacco convoca Giacobbe per
inviarlo presso Labano, non si rende conto di essere stato manipolato.
Questo fatto non è sfuggito al lettore che così è di nuovo «attirato» nel
campo di Giacobbe e Rebecca.
In Gen 31,33-35, dopo che Labano ha frugato tutte le tende del
campo di Giacobbe per trovarvi i suoi dèi che Rachele ha rubato, en­
tra nella tenda della ladra e la trova seduta sulla sella del cammello in
cui, come il narratore ha rivelato al lettore, ha nascosto il suo bottino.
Rachele usa il pretesto di una indisposizione femminile per non alzar­
si e rischiare di essere smascherata. Ignaro dell’inganno, Labano la­
scia la tenda a mani vuote. Con Rachele, il lettore respira e gode del­
l’ironia che colpisce il padre vendicativo.
In ISam 11,1-11, gli anziani di labes di Gàlaad, assediati dagli am­
moniti, domandano a Nacas, il re nemico, di poter beneficiare di una
tregua di sette giorni - il tempo di vedere se qualcuno in Israele verrà
a salvarli. Il narratore racconta allora che i messaggeri, a detta degli an­
ziani inviati in tutto il Paese di Israele, arrivano direttamente nella cit­
tà di Saul che è appena stato proclamato re. Quando i messaggeri tor­
nano a Iabes e annunciano ai loro concittadini assediati che la salvez­
za è vicina, questi informano Nacas che andranno da lui il giorno se­
guente. L’effetto-sorpresa è totale negli ammoniti, quando Saul li attac­
ca di primo mattino. Così diventano ugualmente vittime dell’ironia del
narratore.
In ISam 27,8-12, Davide è diventato vassallo del principe filisteo
Achis che gli ha donato la città di Siklag. Da lì, Davide attacca alcuni
gruppi stranieri del sud del Paese. Quando il suo sovrano filisteo glie­
ne chiede conto, Davide fa intendere di aver condotto le sue razzie con­
tro Giuda e i suoi alleati. Il narratore racconta come Achis cada nella
trappola: egli crede che Davide, per dimostrarsi leale verso di lui, non
abbia esitato a rendersi odioso verso il suo popolo. Per colmo di iro­
nia, in 29,6-11, Achis dirà perfino a Davide quanto lo stimi, mentre
quest’ultimo non esiterà a calcare la dose presentandosi come un an­
gioletto (v. 8).
In questi pochi esempi, il narratore offre al lettore tutti gli elemen­
ti necessari perché possa godersi l’ironia osservando il nucleo del pro­
cesso della dissimulazione o dell’inganno così come è messo in atto
dalTingannatore. Se necessario, fa uso della sua onniscienza per chia­
rire alcuni elementi suscettibili di far vedere come l’inganno riesca a
spese delTingannato, che rimane in posizione inferiore e non si rende
conto di essere stato abbindolato. Quando, in seguito, il narratore rac­
conta come l’ingannato si renda conto, ma troppo tardi, di essere sta­
to tradito, l’effetto dell’ironia si trova raddoppiato nella misura in cui
è evidenziata l’impotenza del personaggio. Così, in ISam 19,11-17,
quando Saul, informato dai suoi emissari, scopre che Mical ha protet­
to la fuga di Davide, deve accontentarsi di rimproverare sua figlia che
si è dimostrata più astuta di lui.
2. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’imbroglione
Non sempre il lettore domina del tutto la situazione. Si verifica que­
sto caso quando il lettore non dispone di un livello di conoscenza suf­
ficiente per osservare l’insieme del procedimento. Il gioco dell’ironia
diventa qui più sottile. Lo illustreremo con tre esempi.

2.1. L’astuzia dei figli di Giacobbe a Sichem (Gen 34)


In Gen 34,13, nell’episodio di Dina a Sichem, il narratore ricorre
all’onniscienza per avvertire esplicitamente il lettore che si sta prepa­
rando una furberia. Vediamo come. In seguito all’avventura tra il prin­
cipe e Dina, i figli di Giacobbe sono in trattative con il giovane e suo
padre. Affermano che alleanze matrimoniali saranno possibili tra i lo­
ro clan, a patto che le genti di Sichem accettino la circoncisione. Ma -
il narratore ne informa direttamente il lettore - la proposta nasconde
un imbroglio, un tranello (bemìrmah, «con astuzia»). Ciò crea una si­
tuazione particolare per il lettore così informato.
Da un lato, il lettore si trova in posizione superiore in rapporto a
Sichem e a suo padre Camor. Ora, sul momento, questi ultimi consi­
derano interessante la proposta di cui ignorano che procede dalla vo­
lontà degli ingannatori (v. 18). Anzi si affrettano a metterla in atto in
modo da venir incontro alle esigenze dei fratelli nella speranza di ot­
tenere il matrimonio con Dina. Li vediamo allora mentre dispiegano
tutto il loro talento retorico - parlando persino di interessi economici
dei quali i figli di Giacobbe non hanno parlato - al fine di convincere
gli uomini di Sichem ad accettare di essere circoncisi (w. 19-24). In
questi discorsi, Camor e Sichem usano essi stessi una certa astuzia per
influenzare con belle maniere i loro concittadini; con ciò è rafforzata
l’ironia verso il principe e suo padre.6 Infatti, ascoltandoli parlare, il

6 Su questo punto, cf. le p ertinenti osservazioni di G. v o n R ad , La Genèse, Labor et


Fides, Genève 1968, 340, che p a rla di «piccolo capolavoro di diplomazia» e che sottoli­
n ea il fatto che Cam or e Sichem tacciono accuratam ente il vero motivo della loro m os­
sa. Cf. anche D. L u cian i, Dina (Gen 34). Sexe, m ensonges e t id éa u x, Safran, Bruxelles
2009, 68-71.

187
lettore si tiene a distanza perché è stato avvisato dal narratore che la
proposta dei fratelli di Dina è un’astuzia. Si dice allora che queste per­
sone fanno probabilmente una cattiva scelta e che Sichem, che occu­
pa una posizione molto influente ma è accecato dal desiderio (v. 19),
sta per trascinare il suo popolo in un’avventura pericolosa. Va notato
che il narratore non è avaro della sua onniscienza per far percepire
tutto questo (w. 18-19).
D’altra parte, il narratore mantiene il lettore in ima posizione sub­
alterna in rapporto ai fratelli, e ciò impedisce di approfittare piena­
mente dell’ironia della situazione. Infatti, fino a questo punto il lettore
continua a ignorare quale tranello si nasconda dietro le parole dei fra­
telli di Dina.7 Sa che la circoncisione richiesta nasconde un tranello,
ma non percepisce ancora in che modo i fratelli sfrutteranno la situa­
zione una volta che gli uomini di Sichem saranno circoncisi; ignora
perfino se abbiano preparato un piano in anticipo. Questa posizione in­
feriore del lettore non può certo essere fonte di ironia. Invece, è utile
per attirare la curiosità, far crescere la suspense prima di creare la sor­
presa quando, tre giorni dopo, Simeone e Levi approfitteranno vergo­
gnosamente della fiducia dei sichemiti convalescenti per passarli tran­
quillamente a fil di spada e riprendersi la sorella (w. 25-26).

2.2. L’inganno di Io ab e della donna di Tekòa (2Sam 14)


Un caso un po’ diverso si trova in 2Sam 14, nell’episodio della don­
na di Tekòa. È meno esplicito, dal momento che il narratore svela so­
lo indirettamente che c’è un inganno e si guarda bene dall’annuncia­
re subito di che cosa si tratta. Soltanto il contesto permette al lettore
di capirlo.
Assalonne, figlio di Davide, è stato bandito dal padre dopo l’uccisio­
ne del fratello Amnon. Tre anni dopo, le cose sono cambiate, come il
narratore dimostra usando per due volte della sua onniscienza: «Poi il
re cessò di sfogarsi contro Assalonne, perché si era consolato per la
morte di Amnon. Ioab, figlio di Seruià, si accorse che il cuore del re si
rivolgeva ad Assalonne» (13,39-14,1). Il racconto prosegue così: «Allo­

7 Siili’indeterm inatezza nella quale il n a rra to re tiene il lettore a proposito della n a ­


tu ra dell’inganno, cf. L u cian i, Dina (Gen 34), 62-68.

188
ra mandò a prendere a Tekòa ima donna saggia, e le disse: “Fingi di es­
sere in lutto, mettiti una veste di lutto, non ti ungere con olio e com­
pòrtati da donna che pianga da molto tempo un morto; poi entra pres­
so il re e parlagli così e cosi”. Ioab le mise in bocca le parole» (14,2-3).
Vedendo che la scelta di Ioab cade su una donna «saggia» (haka-
mah) e ascoltando le sue istruzioni perché fìnga di essere in lutto, il let­
tore capisce che il generale di Davide prepara un inganno a spese del
re. Ma la somma stringatezza che caratterizza la parte finale del suo
discorso non permette di saperne di più. D’altra parte, il fatto che Ioab
prenda questa iniziativa dopo che si è reso conto del cambiamento di
atteggiamento da parte di Davide nei confronti di Assalonne fa pensa­
re che il sèguito sia legato a questa situazione. Ma né il narratore né
Ioab lasciano filtrare qualcosa su questo punto.
Il lettore, quando vede la donna entrare dal re, è chiaramente in
posizione superiore in rapporto a Davide, in quanto conosce i prece­
denti di ciò che sta accadendo. Ma resta altrettanto chiaramente in po­
sizione inferiore in rapporto a Ioab e alla donna, dei quali non cono­
sce né la strategia né le intenzioni. Da questa posizione intermedia
ascolta il discorso della donna a Davide con un orecchio ben diverso
da qiiello del re. A mano a mano che avanza il racconto della donna
riguardo al figlio che ha ucciso il suo fratello e il cui avvenire è mi­
nacciato dall’atteggiamento del suo ambiente, egli prende coscienza
che si tratta di Assalonne che ha assassinato suo fratello e di ciò che
suo padre farà di lui. E quando la donna assilla Davide affinché pren­
da delle misure protettive verso l’assassino, capisce finalmente dove
Ioab vuole arrivare con il suo stratagemma: impedire che Assalonne
subisca la vendetta e permettergli di tornare dall’esilio.
Del significato criptato del discorso della donna, Davide non si ren­
de conto. Quindi, a mano a mano che il lettore (al corrente del fatto che
si tratta di un'astuzia) comprende ciò che è celato nel discorso della
donna, aumenta l’ironia nei confronti di Davide. E infatti, più si ridu­
ce la posizione di inferiorità del lettore nei confronti di Ioab e della
donna e più la sua posizione diventa superiore in rapporto a Davide.
Capita dunque che la posizione iniziale del lettore lo costringa a dar
prova di intelligenza per comprendere lo stratagemma che sa svolger­
si sotto i suoi occhi; e, nella misura in cui riesce in questo lavoro di de­
cifrazione, egli si assicura una posizione che gli permette di vedere più
chiaramente in ciò che avviene e che Davide non può capire. In que­
sto processo, a poco a poco si fa avanti una suspense: progressiva­

189
mente il lettore arriva ad attendere con crescente impazienza la con­
clusione della faccenda, cioè il momento in cui Davide vedrà chiaro pu­
re lui. Infatti, mentre nella conversazione la donna conduce a poco a
poco Davide a prendere posizione verso il «figlio assassino del fratel­
lo», il lettore sa che egli si impegna a sua insaputa su un terreno in cui
lo aspetta la realtà della sua stessa famiglia. Che cosa farà quando in­
fine si troverà di fronte a questa realtà?

2.3. L’inganno di Tamar (Gen 38)


In Gen 38, l’episodio di Giuda e Tamar, le cose si presentano in ma­
niera analoga, con il lettore in posizione superiore rispetto all’inganna­
to e inferiore in rapporto a chi inganna. Ma il modello è ancora più raf­
finato che nei racconti visti in precedenza, e questo per due ragioni.
La prima è che qui la storia è quella di un ingannatore ingannato,8
che, concatenandoli, unisce i primi due modelli. Giuda, quando ri­
manda Tamar dal padre dopo la morte di Onan (v. 11), lascia intende­
re che questo allontanamento è provvisorio: «Fin quando il mio figlio
Seia sarà cresciuto», afferma. Ma il narratore onnisciente cita in se­
guito un monologo interiore che svela la vera intenzione di Giuda: egli
allontana Tamar per timore di veder morire Seia. Il lettore comprende
che Giuda non ha intenzione di dare un giorno suo figlio a questa don­
na, che egli vede come portatrice di sfortuna per i suoi. Condividendo
la conoscenza di Giuda - è avendo quindi la capacità di valutare que­
sto atteggiamento che pregiudica un’innocente - il lettore è in posizio­
ne superiore nei confronti di Tamar che torna dal padre suo (questo
caso di inganno si rifà infatti al primo modello, e notiamo che non dà
luogo a ironia verso Tamar, nella misura in cui nessuna attenzione è
stata finora accordata al suo personaggio). Molto tempo dopo - e quat­
tro versetti più avanti -, la situazione si rovescia. Tamar ha capito il
gioco di Giuda; infatti, anche se Seia è cresciuto, si accorge che non gli
è stata data in matrimonio (v. 14b). Il narratore fa di nuovo uso della

8 Per u n ’analisi sistem atica dell’ironia in Gen 38, cf. M. O ’C a l la g h a n , «The S tru ttu ­
re and M eaning of Genesis 3: Ju d a h an d Tam ar», in Proceedings o f thè Irish Biblical A s-
sociation 5(1981), 72-88, e J.-L, Ska, «L’ironie de Tam ar (Gen 38)», in Z e itsc h riftfu r die
alttestam entliche W issenschaft 100(1988), 261-263.

190
sua onniscienza per svelare al lettore, questa volta, il punto di vista del­
la donna. In questo modo rovescia le posizioni: con la sua intuizione,
Tamar raggiunge la posizione del lettore e di Giuda, ma all’insaputa di
quest’ultimo. Il lettore si ritrova così a fianco di Tamar, e guadagna ima
posizione superiore rispetto a Giuda, un ingannatore che, a sua insa­
puta, sta per essere ingannato a sua volta da un’astuzia di colei che
egli cerca di trarre in inganno.
In realtà, in rapporto a Tamar, le cose sono più complesse. Infatti,
prima ancora che il narratore garantisca al lettore una posizione ugua­
le a quella della nuora di Giuda in ciò che concerne il motivo della sua
iniziativa, gliel'ha mostrata mentre si travestiva e si velava, poi mentre
andava ad aspettare Giuda a lato della strada (w. 13-14a). Assicura co­
sì la posizione superiore del lettore nei confronti di Giuda, ma lo lascia
in posizione inferiore rispetto a Tamar per quanto riguarda la strategia
concreta e lo scopo che essa persegue mascherandosi in quel modo.
Verso i personaggi il lettore si ritrova dunque nella stessa posizio­
ne rilevata in 2Sam 14. Ma qui il modello è anche più raffinato. In­
fatti, le indicazioni del narratore che permettono al lettore di uscire a
poco a poco dalla sua iniziale posizione inferiore in rapporto a Tamar
sono nettamente più sottili e nel racconto giungono più tardi. Duran­
te tutto l’incontro della donna con Giuda, il lettore gode dell'ignoran­
za di costui sottolineata dal narratore (Gen 38,15-18); inoltre, nulla
capisce della strategia di Tamar e delle sue intenzioni, per esempio
quando ella chiede dei pegni a Giuda. Nulla del resto gli rivela che es­
sa abbia delle idee precostituite al riguardo: troppi elementi della si­
tuazione gli sfuggono. Quando il lettore viene a sapere che lei ha con­
cepito dal suo rapporto intimo con Giuda, può immaginare che po­
trebbe aver raggiunto uno dei suoi scopi: avere un figlio dal sangue
del marito defunto (v. 19), ma il narratore non lo conferma. In segui­
to, quando vede che Giuda si rassegna a lasciare alla «prostituta» i pe­
gni per non coprirsi di ridicolo, ma senza la minima coscienza di ciò
che realmente sta facendo - nuovo tratto di ironia a suo discapito -
(w. 20-23), il lettore si dice che Tamar sarà in grado, in caso di falli­
mento, di fornire le prove dell’identità del genitore di suo figlio, ma
ignora se essa ne farà uso, e, in caso affermativo, in che modo. Solo
quando Giuda ordina di condurla per essere bruciata il lettore com­
prende come Tamar userà delle prove che ha in mano e che quindi
Giuda sta per essere smascherato, mentre è ben lungi daH'immagi-
nare ciò che lo aspetta (vv. 24-25).

191
Qui, insomma, la posizione superiore del lettore in rapporto alla
parte ingannata si rafforza solo lentamente, anche se si verifica in più
riprese. Il lettore è lasciato per così dire in aspettativa. Quanto alla sua
posizione inferiore in rapporto al personaggio che inganna, essa evol­
ve, diversamente da ciò che accade nell’episodio di Dina nel quale nul­
la filtra prima dello scioglimento. Ma questa evoluzione è molto lenta,
cosa che contribuisce a tenere intatto il mistero, ad accrescere l’impa­
zienza del lettore e quindi a rafforzare l’effetto sorpresa dell’azione de­
cisiva, costituita dall’iniziativa intempestiva del personaggio inganna­
to a sua insaputa. Questo modello sarà riprodotto su vasta scala nel
lungo racconto dei capitoli da 42 a 45 della Genesi, nei quali il lettore
si trova in posizione superiore in rapporto ai fratelli di Giuseppe e al
loro padre Giacobbe Qui stesso in posizione inferiore in rapporto ai fi­
gli), ma in posizione inferiore riguardo a Giuseppe. Anche qui il ribal­
tamento è dovuto all’iniziativa di uno dei personaggi vittima (di nuo­
vo) della strategia di dissimulazione, e cioè di Giuda (44,18-34).9

3. II lettore in posizione inferiore


in rapporto alTingannato
In tutti gli esempi precedenti, il narratore assicura al lettore ima po­
sizione superiore rispetto alla persona ingannata, ottenendo effetti di
ironia a spese di quest’ultimo. Alcuni racconti, più rari, rovesciano
questa situazione: il narratore pone il lettore in posizione uguale o su­
periore in rapporto all’ingannatore, ma in posizione inferiore in rap­
porto alTingannato. Due esempi mostreranno le possibilità che questa
opzione rappresenta nel tipo di racconto di cui stiamo trattando.

9 A tal proposito cf. A . W é n in , «L’a venture de Juda en Genèse 38 et l’histoire de Jo ­


seph», in R evue Biblìgue 111(2004), 5-27 (soprattutto pp. 19-21), e Id., Giuseppe o l'in ­
venzione della fra tella n za . L ettura narrativa e antropologica della Genesi. IV. Gen
3 7-50, EDB, Bologna 2007, passim .
3.1. Saul cerca di attirare Davide in una trappola
(ISam 18,14-29)
La scena del matrimonio di Davide offre un primo esempio di que­
sto modello poco frequente. In questo racconto, Saul tenta di attirare
Davide in un tranello: gli promette successivamente la mano delle sue
due figlie Merab e Mical, mettendo come condizione il successo in ope­
razioni militari rischiose contro i filistei, nelle quali il re conta che il gio­
vane perderà la vita. Il racconto comincia così: «Davide riusciva in tut­
te le sue rischiose, poiché il Signore era con lui. Saul, vedendo che ri­
usciva proprio sempre, aveva timore di lui» (w. 14-15). Questo avvio
pone immediatamente il lettore in posizione superiore rispetto a Saul.
Il narratore onnisciente lo informa infatti non solo dei successi di Davi­
de, ma anche della presenza del Signore con lui, al suo fianco. Saul, che
constata questi successi, non percepisce da chi siano favoriti e comin­
cia a temere. In seguito, per tutta la durata della scena, il narratore ap­
profitta della sua onniscienza per svelare i maneggi segreti di Saul, del
quale fa vedere chiaramente la doppiezza del linguaggio dietro alla qua­
le egli nasconde la volontà di eliminare Davide. Pur allettando quest’ul­
timo con la prospettiva di sposare sua figlia, spera che ciò gli sia fata­
le; si sbarazzerà così del suo giovane rivale senza aver dovuto fare al­
cuna cosa contro di lui (w. 17.21 e 25). Comportandosi in questo mo­
do, il narratore rende Saul trasparente per il lettore, non nasconden­
dogli nulla del tranello che prepara per Davide (posizione uguale).10 Ma,
a differenza di Saul, il lettore sa già che è fatica sprecata, dal momen­
to che il Signore assiste Davide. Saul acquisirà coscienza su questo pun­
to quando, per due volte, Davide sarà sfuggito all’insidia dei filistei:
«Saul si accorse che il Signore era con Davide e che Mical, sua figlia, lo
amava» (v. 28). Nel corso dell’intero episodio, l’ironia del narratore si
esercita dunque a detrimento del re.
Dal lato dell’«ingannato» potenziale, però, la situazione si presen­
ta diversamente. Mentre, nei racconti esaminati precedentemente, i
personaggi che si vuole ingannare ne sanno meno del lettore (e del-

10 Sulle tecniche narrativ e che perm ettono di ren d ere Saul trasp a re n te p e r il letto­
re, cf. A. W é n in , «M arques linguistiques du point de vue dans le récit biblique. L’exem-
ple du m ariage de David (1S 18,17-19)», in E phem erides Theologicae Lovanienses
83(2007), 319-337.

193
!,«ingannatore», evidentemente), David resta straordinariamente in
ombra. Davanti alle proposte insidiose di Saul, risponde con domande
o, con molta diplomazia, evita di confidarsi: «Chi sono io, che cos’è la
mia vita, e che cos’è la famiglia di mio padre in Israele, perché io pos­
sa diventare genero del re?» (v. 18); e ai servitori: «Vi pare piccola co­
sa diventare genero del re? Io sono povero e di umile condizione» (v.
23b). Fiuta forse la trappola di Saul che ha già tentato due volte di uc­
ciderlo (18,11)? Vuole nascondere il suo desiderio o le sue ambizioni?
Anche se l’espressione «diventare genero di» lascia intravedere il pun­
to di vista del giovane eroe, forse anche la sua speranza inespressa, le
sue risposte lasciano il lettore - e verosimilmente anche Saul - in una
posizione inferiore. Solo poco prima della conclusione finale il narra­
tore rivela al lettore il sentimento di Davide in rapporto alla proposta
di Saul che «a Davide sembrò giusta» (v. 26a), cosa che lo decide a met­
tersi all’opera per ottemperare alla condizione fissata dal re che vede
fallire il suo trucco quando Davide gli porta i prepuzi di duecento fili­
stei (w. 26b-27). Così, in questa scena, se l’ironia scorna seriamente
l’immagine del re, non intacca affatto la personalità di Davide.

3.2. Davide cerca di ingannare Uria (2Sam 11,7-13)


Un altro episodio dello stesso tipo vede questa volta Davide essere
oggetto di un’analoga ironia dalla parte del narratore. Questa è tutta­
via più fine che nel racconto appena letto, nella misura in cui il narra­
tore lavora molto di più per allusione, lasciando al lettore la cura di in­
dovinare ciò che è scritto tra le righe. Si tratta della breve scena che
narra diversi incontri tra Davide e Uria l’Ittita in 2Sam 11,7-13.
Dopo aver saputo che Betsabea è incinta in seguito al suo adulterio
con lei, Davide manda a chiamare Uria al fronte. Da quando questi ar­
riva, il narratore fa capire al lettore che il re non si comporterà leal­
mente. «Davide gli chiese come stessero Ioab e la truppa e come an­
dasse la guerra» (v. 7b). Il narratore comincia dunque riassumendo ra­
pidamente un interrogatorio che Davide ha probabilmente voluto esau­
stivo, come fa pensare la triplice ripetizione del termine lishlóm («no­
tizie»). Riporta in seguito in extenso e con l’uso del discorso diretto le
ultime parole del re che, per il lettore che conosce gli avvenimenti pas­
sati ed è al corrente della gravidanza di Betsabea, mostrano chiara­
mente dove Davide vuole arrivare. «Poi Davide disse a Uria: “Scendi a

194
casa tua e lavati 1 pie di’’» (v. 8a). Con ogni evidenza, il trucco di Davi­
de mira ad addossare a Uria la paternità del figlio dell’adulterio per
mascherare quest’ultimo.11 In questo contesto, l’offerta di cibo desti­
nata a Uria (v. 8b) ha come probabile scopo di ben disporlo quando ri­
entrerà da sua moglie. Ma quando il lettore vede in seguito che Uria
rimane col corpo di guardia del palazzo e va a dormire con i servi del
re, capisce che il trucco di Davide è fallito. Del resto, il narratore vi in­
siste quando conclude riprendendo (ironicamente) le parole dell’ordi­
ne reale: «Non scese a casa sua» (v. 9). Dopo la spiegazione dell’Ittita
alla domanda stupefatta di Davide che gli chiede perché non è andato
a casa sua, il narratore riprende la scena con altri elementi di su­
spense. Anche se Davide lo ha ubriacato durante un pasto ben innaf­
fiato, Uria esce nuovamente «la sera per andarsene a dormire sul suo
giaciglio [...] con i servi del suo signore». E il narratore torna a sotto-
lineare lo scacco della strategia di dissimulazione del re ripetendo: «Ma
non scese a casa sua» (v. 13).
Diversamente da quanto accade nel racconto precedente, il narra­
tore non usa mai la sua onniscienza per svelare chiaramente il trucco
di Davide. Preferisce limitarsi a una narrazione apparentemente og­
gettiva della scena, lasciando al lettore il compito di comprendere da
sé quanto accade tra i personaggi. Ma focalizzando l’attenzione, dall’i­
nizio e per tutta la scena, sui soli tentativi di Davide di condurre il ma­
rito tradito a rientrare a casa sua, fa in modo che il lettore, al corren­
te del problema al quale il re cerca di dare ima soluzione, possa capi­
re chiaramente la strategia di Davide. Ma in questo modo non è solo
una posizione uguale che il narratore dà al lettore nei confronti di Da­
vide. Infatti, se questi cerca di nascondere il suo gioco, lo smaschera­
tore - a sua insaputa, potremmo dire - si trova in vantaggio su di lui.
Così il narratore offre astutamente al lettore una posizione superiore
nei confronti del re e gli concede di gustare l’ironia che lo colpisce
quando vede i suoi ripetuti sforzi scontrarsi con la resistenza tanto fer­
ma quanto inattesa dell’ufficiale ittita.12

11 È l’ipotesi bene argom entata di M. S t e r n e e r g , The Poetics o f Biblical N arrative.


Ideological Literature and thè B ram a o f Reading, Indiana University Press, Blooming‫־‬
ton 1985, 200.
12 In questo senso, Sternbehg, The Poetics o f Biblical Narrative. Ideological L itera ­
ture and thè D rama o f Reading, 200-201, che precisa come queste inferenze riguardanti
Io scopo degli intrighi del re siano necessari per la coerenza del racconto.

195
Invece, per quanto riguarda Uria, il narratore procede in tutt'altro
modo. Non rivela né ciò che pensa, né i motivi per cui resiste agli in­
viti così benevoli e allettanti del re. La replica relativamente lunga che
fa sentire al v. 11 può infatti essere compresa in due modi. Ecco cosa
dice: «L’arca, Israele e Giuda abitano sotto le tende, Ioab mio signore
e i servi del mio signore sono accampati in aperta campagna, e io do­
vrei entrare in casa mia per mangiare e bere e per giacere con mia mo­
glie? Per la tua vita, per la vità della tua persona, non farò mai cosa si­
mile». Da un lato, la fermezza di propositi e l’argomentazione avan­
zata danno di Uria l’immagine di un militare integro che si attiene a
quello che riconosce come suo dovere, anche quando un re compren­
sivo si mostra incline a permettergli una piccola deviazione. Dall’altro
lato, il modo in cui esplicita senza giri di parole la proposta del re di
«scendere a casa sua» seguita da un regalo di vivande, in termini di
«entrare, mangiare, bere e giacere con mia moglie» fa sospettare che
abbia ben compreso dove il re vuole arrivare, ma che non intenda far­
gli questo piacere. Dopo tutto, come dimostra M. Sternberg, non è im­
possibile che sospetti qualcosa di quanto è accaduto tra il re e sua mo­
glie.13 Allo stesso modo, dicendo che il «suo signore» è Ioab piuttosto
che Davide, potrebbe lasciar intravedere il suo disprezzo nei confron­
ti di un re che si lascia andare a certe manovre. Tra queste due possi­
bilità, né Davide né il lettore hanno modo di scegliere. Quest’ultimo ri­
mane dunque in posizione inferiore in rapporto all’Ittita, pur godendo
dell’ironia sull’impotenza di Davide che la resistenza del soldato con­
tribuisce a creare.
Possiamo notare che, in questi ultimi due esempi, il narratore rac­
conta un’astuzia che fallisce. Con benefìcio di inventario, è forse pre­
cisamente questo che conduce il narratore a garantire al lettore ima
posizione superiore nei confronti dell’ingannatore, del quale è impor­
tante mettere a nudo le intenzioni per poter rendersi conto del loro fal­
limento. Infatti, non si vede bene come un ingannatore il cui trucco ri­
esce potrebbe essere oggetto di ironia nel racconto stesso che narra il

13 S te r n b e r g , The Poetics o f Bìblical N arrative. Ideologìcal L iterature and thè B ra ­


ma ofR eading, 201-203 si basa principalm ente sui fatto che la venuta di B etsabea e l’a n ­
nuncio della sua gravidanza hanno avuto dei testim oni, fossero p u re soltanto i m essag­
geri che, p er alm eno due volte, hanno fatto da tram ite fra gli am anti di u n a sera (11,4-
5). Per l’analisi della dichiarazione di Uria, cf. pp. 203-207.

196
suo successo - per quanto effimero possa essere. Invece, se qualcuno
cerca di ingannare e non ci riesce, non presta facilmente il fianco al­
l’ironia?

4. Conclusione
Questo capitolo non è esaustivo. Tenta solamente di mettere in lu­
ce alcune potenzialità narrative del gioco sui livelli di conoscenza e sul­
le rispettive posizioni dei personaggi e del lettore, potenzialità corren­
temente sfruttate nei racconti di astuzie e inganni. Questi giochi con­
tribuiscono potentemente a creare effetti di ironia, ma anche di su­
spense e di sorpresa; non sono senza importanza nemmeno per la ca­
ratterizzazione dei personaggi coinvolti e a volte servono a orientare il
giudizio del lettore in rapporto alle loro azioni.
Capitolo ottavo

COSTRUZIONE
DEL DISCORSO
E COSTRUZIONE
DEL RACCONTO.
IL DISCORSO
COMUNITARIO DI MT 18
Daniel Marguerat

Un’importante differenza tra l’esegesi storico-critica e l’analisi nar­


rativa sta nel fatto che la prima esercita una lettura diacronica, men­
tre la seconda si vuole deliberatamente sincronica. Intendiamo dire
che l’interrogativo storico-critico si rivolge alla genealogia del testo, al­
la sua origine, alle fonti che utilizza e al lavoro di rilettura operato dal­
l’autore (diacronia). L’approccio narratologico invece opera sul testo
così come si presenta alla lettura (sincronia), senza guardare al pro­
cesso della sua nascita, ma focalizzando l’interesse sugli effetti del te­
sto sul lettore. In altri termini, lo storico-critico si appassiona per quel­
lo che sta a monte del testo, mentre la narratologia si è equipaggiata
per esplorarne quanto sta a valle.

* U n'altra versione di questo studio è apparsa in: C. C uvaz - C. C o m b e t-G a lla n d - J.-D.
- C. N ih a n (edd.)‫ ־‬Écritures e t réécritures. La reprise interprétative des traditions
M acch i
fondatrices p a r la littératire biblique e t extrabiblique, Peeters, Louvain 2012, 299-318.

199
Di conseguenza, gli esegeti che rinunciano al settarismo metodolo­
gico e ricorrono contemporaneamente alla critica storica e alla narra-
tologia lo fanno, molto spesso, in successione. Dopo aver esplorato ciò
che sta a monte del testo, cioè la storia della sua nascita, passano in
seguito al racconto nel suo stato finale e auscultano la strategia del nar­
ratore verso i suoi lettori. Ma sarebbe possibile che la critica storica e
l’analisi narrativa, invece di succedersi senza incrociarsi, articolino en­
trambe la loro rispettiva indagine? La coabitazione a distanza potreb­
be fare spazio alla collaborazione metodologica?
Noi difendiamo l’idea che l’analisi narrativa può proporre i suoi
mezzi per illuminare non più il testo finale, ma il processo stesso di
costruzione del testo. La narratologia è in grado di apprezzare e di
commentare il lavoro di rilettura cui si dedica il narratore sulle sue fon­
ti documentarie? Noi sosteniamo di sì, ed è ambizione di questo capi­
tolo dimostrarlo, prendendo spunto da un’analisi del discorso di Mt 18.
La scelta di una sequenza del primo Vangelo non è casuale. L’iden­
tificazione delle fonti letterarie di Matteo è stata infatti oggetto di un
intenso lavoro, condotto con slancio dalla critica storica, a volte fino al
particolare, a volte fino all’eccesso, e l’archeologia letteraria del testo
di Mt 18 ha permesso di ritracciare una genealogia che oggi ci si pre­
senta con nitidezza. I cinque grandi discorsi matteani sono emblema­
tici dell’opera compositiva del narratore, che riorganizza le sue fonti
documentali per costruire grandi insiemi tematici.1 Come attesta il
trattamento letterario che fa di Marco e della Fonte delle parole di Ge­
sù (Fonte Q), Matteo si distingue da Luca, che non smembra le sue fon­
ti, ma le giustappone in una successione sequenziale. L’analisi storico­
critica ha eseguito bene l’auscultazione diacronica del testo matteano.
La scelta del testo di Mt 18 è determinata dal fatto che il processo
di composizione redazionale di Matteo è particolarmente evidente in
questo discorso e rappresentativo della sua strategia di scrittura.

1 Si p u ò leggere u n a presentazione dei risultati della critica delle fonti sul vangelo
di Matteo nel contributo di È . C u v illie r , «L’évangile selon M atthieu», i n D. M a r g u e r a t
(ed.), Introduction au N ouveau Testament. Son histoire, son écriture, sa théologie, La-
bor et Fides, Genève 420 08, 70-74; tr. it. Introduzione al Nuovo Testamento, Claudiana,
Torino 2004, 77-81.

200
1. Prologo: un discorso dalle origini molteplici
La storia del discorso di Mt 18 non pone più alcun problema alla
critica delle fonti. Sull’esempio del resto del Vangelo, il testo matteano
proviene da una quadruplice origine: a) la ripresa del testo di Marco;
b) la ripresa di frammenti della Fonte delle parole di Gesù (Fonte Q);
c) la ripresa di materiali della comunità dell’evangelista; d) i testi re­
datti dall’evangelista.2 Applicando questa griglia di lettura ai 35 ver­
setti del discorso, ci si accorge che, dal punto di vista delle sue origini,
questo testo è un vero mosaico: di volta in volta l’evangelista ha attin­
to dai tre insiemi tradizionali e ha legato il tutto con aggiunte di sua
mano per farne un’unità. Il lavoro di composizione di questo patch­
work è impressionante.
Passiamo in rivista il testo, sintetizzando i risultati cui sono perve­
nuti i ricercatori.
Il discorso inizia con un dialogo di Gesù con i suoi discepoli sulla
questione «chi è il più grande?» (18,1-5); si tratta di una ripresa di Me
9,34-37. Matteo ha tagliato l’introduzione narrativa di Me 9,33 e ri­
formulato la stesura dei w. 3-4. Questi due versetti provengono dal re­
dattore; è possibile l’influenza di una tradizione di lettura di Me 9,36
nella sua comunità.3
La serie di ingiunzioni sullo scandalo (18,6-9) che segue, eccetto
l’introduzione redazionale della lamentazione del v. 7 e la soppressio­
ne di Me 9,45 (che fa ridondanza), è una riproduzione abbastanza fe­
dele di Me 9,42-47.
Segue la parabola della pecora smarrita (18,10-14).4 Si tratta di
una riscrittura della parabola come Matteo l’ha letta nella Fonte delle

2 Negli ultim i due casi, l'identificazione p recisa degli interventi redazionali sulle tr a ­
dizioni della com unità di Matteo va p re sa con cautela: in m an can za di m ateriale com­
parativo, è talvolta azzardato distinguere con certezza la rip resa di un dato trad izio n a­
le da un testo redatto dall'autore del Vangelo. Si può rischiare, m a con prudenza.
3 Cf. W.D. Davies - D.C. A llis o n , The Gospel according to S a in t M atthew , II, Clark,
Edinburgh 1991, 756-757: U. Luz, D as Evangelium nach M a tth à u s (M t 18-25), Benzi-
ger-Neukirchener, Zurich-Neukirchen 1997, 10-11: tr. it. Vangelo di M atteo, Paideia,
Brescia 2010, III.
4 È com unem ente accettato che il v. 11 non appartiene al testo originale di Matteo,
m a p resen ta una glossa del testo occidentale e bizantino che richiam a Le 19,10.
parole di Gesù (cf. Le 15,4-7). Il narratore l’ha fatta precedere al v. IO
da un avvertimento contro il disprezzo dei piccoli.
La regola disciplinare che segue (18,15-18) segna una transizione
verso il materiale della tradizione propria della comunità di Matteo;
troviamo tuttavia un parallelo alla prima parte di questa regola con tre
clausole nella Fonte delle parole di Gesù (Le 17,3).
Le parole sulla preghiera nel nome di Gesù (18,19-20) provengono
dalla tradizione propria della comunità di Matteo.
Il dialogo con Pietro sul perdono illimitato (18,21-22) è scaturito
dalla Fonte delle parole di Gesù (Le 17,4), ma è stato fortemente ritoc­
cato dall’evangelista.
Invece la parabola del servo ingrato, che conclude il discorso
(18,23-35), proviene dalla comunità matteana. L’evangelista l’ha cor­
redata con un’introduzione (v. 23) e una conclusione (v. 35), con riser­
va di altre intrusioni nel corpo del testo - si sospetta in particolare che
il redattore abbia ingrandito la cifra del debito fino a diecimila talenti
per motivi allegorici.5
In tutto, a costituire questo discorso di Gesù dall’inizio alla fine so­
no sette micro-unità incollate insieme.
Com’è sua abitudine, l’autore del primo Vangelo ha posto il suo di­
scorso in una nicchia narrativa preparata da Marco, nel caso specifi­
co l’indicazione di un insegnamento privato di Gesù ai suoi discepoli
in 9,33-50. Ne ha ereditato l’uditorio del discorso (i discepoli: 18,1); ne
ha pure ereditato le prime due micro-unità con la tematica dell’acco­
glienza dei piccoli e il dibattito sulla vera grandezza, il materiale della
Fonte delle parole di Gesù gli ha poi permesso di continuare l’argo­
mentazione con la parabola della pecora perduta, che diventa una ri-
scrittura della pecora smarrita, e la regola disciplinare riguardo al fra­
tello che si perde. L’inserimento delle due parole sulla preghiera
(18,19-20) è una cerniera che fa pendere la tematica verso una pare-
nesi del perdono.
L’insieme del discorso matte ano è dedicato alle relazioni comuni­
tarie, ma nell’argomentazione si scopre uno slittamento dalla temati­
ca dell’accoglienza dei pìccoli (18,1-10.14) a quella del fratello smarri­
to (18,15-20), e poi a quella del perdono illimitato (18,21-35). Possia­

5 II punto della situazione in Luz, Das Evangelium nach M a tthà us (M t 18-25), 66-68.

202
mo pensare a una strutturazione retorica del discorso? L’opinione dei
commentatori varia da una struttura bipartita (con una cesura tra i w.
14 e 15 o tra i w. 20 e 21) a una struttura tripartita (w. 1-14; 15-20;
21-35). L’unico indice narrativo chiaro è l’intrusione della figura di Pie­
tro che si avvicina a Gesù, al v. 21; a livello di linguaggio, la sua do­
manda («quando mio fratello commette colpe contro di me») ricalca l'i­
nizio della regola disciplinare del v. 15 («se il tuo fratello commetterà
una colpa contro di te»). La ripresa non è casuale; segnala che Pietro
torna alla ribalta al v. 21 sull’enunciato della regola al v. 15. Questo du­
plice indizio, narrativo e linguistico, porta a privilegiare una struttura
tripartita nella quale si succedono tre periodi: i w. 1-14 in cui domina
il tema dei «piccoli»,6 i w. 15-20 sulla regola disciplinare e i w . 21-35
sul tema del perdono.7 Ogni periodo termina menzionando il Padre ce­
leste (w. 14, 19 e 35).8
La retorica matteana non va tuttavia serrata in una via troppo car­
tesiana. La logica di Matteo, semitica, è molto più associativa che li­
neare; essa procede per slittamenti più che per conseguenze dedutti­
ve. Due indici di questa logica associativa: a) l'abbondanza delle paro­
le-aggancio che legano le sentenze di Gesù nei primi dieci versetti;9
b) lo scivolamento dal tema dei «piccoli» (w. 1-10) a quello dello smar­
rimento (w. 12-13), in cui si prepara il passaggio dal primo al secon­
do periodo centrato sulla procedura disciplinare nei confronti del fra­
tello che ha commesso una colpa.
Detto questo, la genealogia del discorso, così come l’abbiamo evo­
cata, fa sorgere due interrogativi ricorrenti nei lavori dedicati a Mt 18.
Chi sono i «piccoli» di cui parla Mt 18,1-14? E, legata a questa do­
manda, a chi è rivolto il discorso: a questi piccoli stessi o ad altri? È il
nostro primo interrogativo.
Secondo interrogativo: come interpretare !,inserimento della rego­
la disciplinare di 18,15-17, che appare come un corpo estraneo nel di­

6 II term ine m ikros (piccolo) rito rn a ai vv. 6, 10 e 14.


7 La posizione m ediana (o transizionale) di 18,15-20 è stata suggerita da R. F a b ris ,
M atteo, Boria, Roma 21996, 394.
8 «Il P adre vostro che è nei cieli» (v. 14); «il P adre mio che è nei cieli» (v. 19); «il
P adre mìo celeste» (v. 35).
9 «Di questi piccoli» (vv. 6/10), «bam bino» (w. 2/3/4/5), «m e/in m e» (vv. 5/6),
«scandalo/scandalizzare» (caduta/cadere) (skandalon/skandalizó ) (vv. 6/7/8/9).

203
scorso, tanto più che il motivo dell’illimitatezza del perdono sembra
rendere mutile la sua misura di esclusione?
Queste due domande riguardano la costruzione del discorso di Mt
18. Quanto alla costruzione del racconto di Mt 18, cioè al suo inseri­
mento nella trama del primo Vangelo, aggiungiamo altri due interro­
gativi. Terzo interrogativo: che ruolo ha l’inserimento redazionale del­
la figura di Pietro in 18,21 e come valutarne la portata?
Quarto interrogativo: una volta accettato il lavoro di composizione
redazionale di Mt, l’osservazione dell’inserimento del discorso nella
trama del macro-racconto ci informa sulla funzione di questo discorso
nella strategia del narratore?
Constatiamo che, su questi quattro interrogativi, ogni volta il pun­
to di partenza è il lavoro di ricostruzione della storia del testo matte a-
no. Ancora una volta, è nostra intenzione mostrare che gli strumenti
dell’analisi narrativa permettono di farsi carico degli interrogativi sca­
turiti dalla critica storica.

2. A chi è rivolto il discorso?


La questione dei destinatari del discorso dipende, come abbiamo
detto, dalTidentifLcazione di questi «piccoli» la cui presenza domina i
w. 1-14. A prima vista, la situazione sembra semplice: le proposte di
Gesù si innestano su una domanda dei discepoli, i quali gli si accosta­
no e gli chiedono chi è il più grande nel regno dei cieli (18,1). In Mat­
teo, il metodo dell’accostamento seguito dal proferimento di una paro­
la è tipico della creazione di un insegnamento privato destinato ai di­
scepoli.10 In risposta alla domanda sulla grandezza escatologica, Gesù
inizia la sua argomentazione accogliendo un bambino, esibito quale
modello di piccolezza e di insignificanza sociale (come si usava nel­
l’antichità). Diventare umile come il bambino, continua Gesù, significa
essere il più grande nel regno dei cieli (18,4). Il problema dei destina­
tari nasce al v. 6, nell’ingiunzione a non scandalizzare «imo solo di
questi piccoli ,che credono in me». L’imperativo è ripetuto al v. 10 nel­
l’esortazione a non «disprezzare uno solo di questi piccoli», e al v. 14

10 Mt 5.1; 13,10.36: 14,15; 15,12.23; 17,19; 18,1; 24,1.3.

204
nel ricordo della volontà del Padre celeste «che neanche tino di questi
piccoli si perda».

2.1. Chi sono i «piccoli»?


Chi sono questi «piccoli»? I commentatori sono esitanti. Secondo
alcuni, si tratta di tutti i credenti; la loro interpretazione si basa sul v.
6, in cui essi sono qualificati come «questi piccoli che credono in me»;
trova fondamento anche dal precedente versetto di 10,42 («Chiunque
avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di que­
sti piccoli perché è un discepolo [...]»).11 Altri pensano a un gruppo spe­
cifico all’interno dei credenti, particolare a causa della sua condizione
ecclesiale (i nuovi convertiti, i laici ecc.) o sociale (gli ignoranti, i ceti
sociali più bassi).12 A nostro parere è da scartare che si tratti di tutti i
membri della Chiesa matteana; l’imperativo di non disprezzarli
(18,6.10.14) contraddirebbe la definizione dell’auditorio in 18,1, nel
quale i discepoli sono, come altrove nel Vangelo, rappresentanti dei
credenti. In conclusione, i «piccoli» costituiscono una parte della co­
munità e precisamente i credenti che si caratterizzano per la loro fra­
gilità. Lo stesso significato si impone del resto in 10,42, dove la condi­
zione di «piccolo» non equivale alla condizione di discepolo (mathètès),
ma qualifica la condizione diffìcile di alcuni discepoli.
Ma se di questo si tratta, come va compreso l’invito rivolto ai de­
stinatari del discorso di farsi «piccoli come questo bambino» (18,4)?
La fragilità è una condizione da scegliere? Tutti i membri della comu­
nità sono forse chiamati ad affiliarsi al gruppo dei fragili? Che nel di­
scorso la piccolezza sia contemporaneamente una condizione da pro­
teggere (18,4-10) e una condizione da assumere (18,2-3) solleva, nel­
la decifrazione della parenesi di Mt 18, una difficoltà maggiore.
Su questo punto preciso la questione dell’identificazione dei «pic­
coli» rimbalza sui destinatari del discorso. Come ha precisato Ulrich

11 Così p er esem pio R.T. F r a n c a , The Gospel o f M atthew , E erdm ans, G rand Rapids
2007, 674: «all tra e disciples become, an d m ust be tre a te d as, “little ones”».
12 Così p e r esem pio D . S e n io r, M atthew , Abingdon, Nashville 1998, 207; D avies - Al-
lis o n , The Gospel according to S a in t M atthew , 762-763, adottano la m edesim a posizio­
ne, p u r ritenendo impossibile precisare di quale tipo di fragilità si tratta.

205
Luz,13 se i destinatari sono i «piccoli», allora l’invito a non disprezzar­
li assume il valore di un’esortazione solenne. A chi sono rivolti allora
gli imperativi che scandiscono il discorso dal v. 3 al v. 10, dal momen­
to che nessun segnale evidenzia un cambiamento di destinatari?

2.2. Una strategia del narratore


Dal nostro punto di vista, questa oscillazione deriva da una stra­
tegia del narratore. Guidato dalle sue fonti, Matteo ha allineato alcuni
imperativi senza precisare con chi il lettore, la lettrice sono chiamati a
identificarsi, né quale ruolo sono chiamati ad assumere. Sono questi
«piccoli», oggetto della protezione divina e paradigma della condizio­
ne del credente (18,14)? Oppure sono quelli ai quali è destinata la ter­
ribile ingiunzione di automutilazione, nel caso facessero cadere uno
dei «piccoli» (18,8-9)? La collocazione del lettore è fluida, e, a nostro
parere, lo è volutamente. Infatti se il narratore non definisce i «picco­
li» se non per la loro condizione di fragilità, non definisce neppure i
«grandi»: non cita né scribi, né profeti, né anziani14 che facevano par­
te della comunità.
Non è possibile decidere se il discorso di Mt 18 si rivolga ai «pic­
coli» oppure ai «grandi». Ora, da parte di un narratore che non esita
a colmare i vuoti del testo di Marco quando Io ritiene necessario, l’in­
decisione può essere solo cosciente. Mediante questa indeterminatez­
za, il narratore costringe il lettore a chiedersi quale sia la sua condi­
zione nella comunità·, è un «piccolo» che il discorso protegge? È un
«grande» che causa la caduta di altri credenti, convocato per questo a
riconoscere la gravità del suo comportamento? Il discorso invita i let­
tori a un dibattito interno alla comunità sul ruolo e lo stato di ciascu­
no. Di conseguenza, Tinvito a diventare «bambino», che apre il di­
scorso (18,3), vale anche per i «grandi»: ascoltando questa parola es­
si comprendono che i «piccoli» che fanno cadere sono l’esempio stes­
so della condizione credente, che sono chiamati ad assumere ispiran­
dosi alla loro umile condizione. Come sarà confermato dalla nostra let­

13 Luz, Das Evangelium nach M a tth à u s (M t 18-25), 21-22.


14 Mt 5,12: 10,41: 13,52; 23,9-10: 23,34.

206
tura della regola disciplinare di 18,15-17, la composizione del discor­
so vuole avere un effetto pratico: mettere in relazione, all’interno del­
la comunità, coloro che sono separati da conflitti o dal pericolo.
Chi sono i «piccoli», chi sono i «grandi»? Rifiutandosi di fissare
narrativamente la loro identità, il narratore provoca queste domande
e stimola il dibattito.

3. La regola disciplinare (18,15-17)


Nell’esegesi del discorso di Mt 18, la presenza della regola discipli­
nare ha sempre fatto problema.
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te , 15 va’ e ammoni­
scilo fra te e lui solo.
Se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello.
Se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone perché ogni
cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.
Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà
neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano» (Mt
1 8 ,1 5 -1 7 ).

Questa disposizione disciplinare, che declina in tre tempi la pro­


cedura da adottare nei confronti del fratello che ha peccato, deriva
probabilmente dalla giurisdizione giudeo-cristiana della Chiesa di
Matteo: il vocabolario e la forma letteraria attestano un’origine tradi­
zionale.16 Ma essa dà l’impressione di essere un corpo estraneo den­
tro un discorso che culmina con un invito al perdono illimitato (18,21-
22). Quale logica tiene insieme l’avvertimento a non scandalizzare i
«piccoli» (18,6), la regola disciplinare (18,15-17) e l’invito al perdono
(18,21-22)?

15 La clausola «verso di te», non trad o tta dalla TOB e dalla Bible de Jérusalem , è
assente in due im portanti m anoscritti onciali del IV-V secolo (Sinaitico e Vaticano). Tut­
tavia, la sua om issione sulla base del parallelo Le 17,4 è verosim ile più che il suo in se­
rim ento tardivo, dato che la soppressione perm etteva di generalizzare il caso del pec­
cato togliendogli la dim ensione in terpersonale («verso di te»).
16 Già R. B u ltm a n n , Die G eschìchte der synoptischen Tradìtìon (1921); tr. fr. L'hì-
stoire de la tradition synoptique, Seuil, Paris 1 9 7 3 ,1 8 0 -1 8 1 , 549. Sulle categorie eb rai­
che del linguaggio e i paralleli nella letteratu ra ebraica, cf. C.S. K e e n e r, C om m entary on
thè Gospel o f M atthew , E erdm ans, G rand Rapids 1999, 453-454.

207
Non si può contestare che la regola in seno al discorso comunita­
rio dia l’impressione di estraneità. Qui l’evangelista ha inserito un te­
sto che, dal punto di vista della forma letteraria (enunciato di diritto
casistico), del tema (correggere il fratello o escluderlo) è a priori ete­
rogeneo al contesto. Ma, attraverso la costruzione del discorso, si è la­
sciato andare a una rilettura di questa regola tradizionale. La critica
redazionale (Redaktionsgeschichte) lo ha già fatto notare.17 Ricorren­
do da un lato all’osservazione sincronica del testo e dall’altro lato alla
dimensione di intertestualità, proseguendo su questa strada identifi­
chiamo tre aspetti del nuovo inquadramento della regola: a) una sim­
metria sul tema dell’esclusione; b) il percorso argomentativo del di­
scorso; c) l’effetto di intertestualità.

3.1. Le due esclusioni


La regola disciplinare espone una procedura in tre momenti nei ri­
guardi del «fratello che ha commesso una colpa contro di te»: anzitut­
to l’ammonimento (18,15), fatto in privato; in seguito il colloquio con
uno o due testimoni (18,16); infine la comunicazione alla Chiesa (de­
nominata con il suo titolo teologico di ekklèsia, 18,17); se a sua volta
anche questa ha esito negativo, conduce alla rottura della relazione:
nel linguaggio giudeo-cristiano, pagano e pubblicano sono l’antonimo
del credente.
Diversamente dalla lettura classico-istituzionale di questo fram­
mento, notiamo intanto che la procedura è di natura eminentemente
interpersonale. Anzitutto il litigio è di tipo relazionale e non riguarda
una qualche trasgressione denunciata alla comunità («se il tuo fratel­
lo ha commesso una colpa contro di te»). Poi la prima fase della pro­
cedura comanda di regolare la controversia tra le due persone coin­
volte (18,15b). Infine, nel caso di fallimento della terza fase, è pre­
scritto che il fratello colpevole «sia per te come il pagano e il pubbli­
cano» (18,17b): nel linguaggio giudaico-cristiano, pagano e pubblica­
no sono antonimi del credente. Si tratta di una gestione di conflitto in­

17 In prim o luogo: G. B ornkam m , «Die Binde- und Losegewalt in d er Kirche des Mat-
thaus», in Id., G eschichte und Glaube II, Kaiser, M unchen 1971, 3 7 5 0 ‫־‬.

208
terpersonale mediante una procedura di riconciliazione e non di un’ar­
ma a disposizione del gruppo ecclesiale per eliminare le sue pecore ne­
re.18 L’invito a riconciliarsi con il fratello è già risuonato in 5,23-24.
Matteo, che visibilmente la ritiene una priorità, fa presumibilmente eco
a difficoltà della sua Chiesa.
Ma è soprattutto interessante notare che questa misura di esclu­
sione è stata preceduta nel discorso da un’altra esclusione: la parola
di Gesù sui fautori di scandalo ai w. 8-9. Se la mano, il piede o l’oc­
chio sono mediatori di scandalo, se cioè causano la perdita di un «pic­
colo», «tàglialo [...] càvalo e gettalo via da te» (18,8a.9a). Gesù parla di
automutilazione con una retorica manifestamente iperbolica; il signifi­
cato è chiaro: far cadere il fratello debole è un crimine così grave che
piuttosto che acconsentirvi è meglio amputarsi.19 In ambedue i casi,
che si tratti di guardarsi bene dallo scandalizzare il fratello fragile
(18,6-9) o di essere condotto a causa del rifiuto del peccatore a non
considerarlo più come un fratello (18,15-17), il motivo dell'esclusione
interviene come l’ultima possibilità. Ma la successione ha un’impor­
tanza decisiva: colui che come ultima istanza deciderà l’esclusione del
peccatore ostinato dovrà prima essersi interrogato per sapere se non
deve separarsi in se stesso da ciò che fa scandalo. L’effetto della co­
struzione del discorso è impressionante: l’auscultazione dell’integrità
personale precede l’esame dell’integrità del fratello.

3.2. La nuova inquadratura della regola


L’integrazione della regola disciplinare nel percorso retorico di Mt
18 giunge a una grandiosa nuova inquadratura della stessa regola. Se­
guiamo il filo dell’argomentazione.
Dopo la chiamata a diventare come il bambino per entrare nel regno
dei cieli (18,3) e l’invito a esaminare la propria integrità personale per

18 Con G. B a r b a g l io , «Correzione fratern a e procedim ento giudiziale. Lettura stori­


co-critica di Mt 1 8 , 1 5 - 1 7 . 1 8 » , in J.E. A g u il a r C hiù - R M a n z i - F . U rs o - C. Z e s a t i E s t r a ­
d a (ed d j, «Il Verbo di Dio è vivo». S tu d i su l Nuovo Testam ento in onore del Cardinale A.

Vanhoye, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2 0 0 7 , 4 6 - 5 0 .


19 Luz sm inuisce il testo attribuendo qui alle m em b ra del corpo un valore m etafori­
co: si trattereb b e di un'esortazione ai «piccoli» a sep ararsi dagli uom ini che vogliono di­
struggere la loro fede {Das Evangelium nach M atthdus [Mt 18-25], 2 3 .

209
eliminare ciò che in se stessi potrebbe far cadere il debole (18,6-9), il nar­
ratore inserisce la parabola della pecora perduta, che ha letto nella Fon­
te delle parole di Gesù (cf. Le 15,4-7). Ma le versioni lucana e matteana
della parabola sono notevolmente diverse. Mentre in Luca la parabola
mira al ritrovamento della pecora perduta e alla gioia che ciò fa esplo­
dere (Le 15,7), Matteo ri-configura il racconto per dare la precedenza al­
la ricerca della pecora: la sua scoperta è solo un’opzione possibile («se
riesce a trovarla» v. 13); inoltre, la conclusione non insiste sulla gioia ce­
leste per la scoperta, ma sulla volontà divina di non lasciare che nean­
che uno si perda (18,14). D’altra parte, Matteo non parla come Luca del­
la pecora perduta («se ha cento pecore e ne perde una», Le 15,4), ma
della pecora smarrita («se una di loro si smarrisce», Mt 18,12). La figu­
ra del «piccolo», che ha dominato il discorso fino a questo punto, si tro­
va riqualificata nell’immagine parabolica del fratello smarrito: all’istan­
te, lo smarrimento del fratello non ha la connotazione della colpa, ma di
uno stato di fragilità che richiede l’investimento della ricerca.
Aggiungiamo che, diversamente dal racconto lucano, la parabola
matteana si presenta meno come una storia raccontata che come uno
studio di casi esposti in forma metaforica. La formula retorica «Che co­
sa vi pare?» (18,12a) interpella il lettore, al punto che «la “parabola”
diventa un dialogo dell’autore con il suo lettore, la sua lettrice implici­
ti, di cui cerca il consenso».20 Ugualmente, concludere la ricerca della
pecora con un «in verità io vi dico» (v. 13) contribuisce a dare all’in­
sieme della parabola una forte dimensione argomentativa.
La regola disciplinare segue immediatamente. Per il lettore è im­
possibile ignorare il contesto interpretativo che gli è stato assegnato.
In presenza della regola, la necessità teologica di fare di tutto per ri­
cercare il fratello smarrito gli è imposta come una norma ermeneuti­
ca. La disposizione in tre fasi non potrà quindi essere considerata una
disciplina di scomunica.21 Dev’essere letta, invece, come il percorso da
seguire per ritrovare la persona smarrita, in quanto escluderla dalla

20 Luz, Das Evangelium nach M a tth à u s (M t 18-25), 25.


21 «La Chiesa h a pronunciato u n giudizio di esclusione, la scom unica, che la socie­
tà giudaica conosceva bene, e poteva essere p ronunciata soltanto dalle au to rità investi­
te» (M.-J. L a g h a n g e , Évangile selon S a in t M atthieu, Gabalda, Paris 1948, 355). La d e ri­
va interpretativa a p artire dall’uso successivo della regola m attean a nell’istituzione ec­
clesiastica è evidente in q uesta lettura.

210
comunità significherebbe alla fine il fallimento del triplice sforzo in­
trapreso - o, per rimanere nel linguaggio parabolico, il contrario del­
la gioia del ritrovamento (18,13). La regola vuole dotare i membri del­
la comunità di una capacità di riconciliazione.
Va anche ricordato che la regola non prescrive le cose da fare a pro­
posito del fratello che ha commesso una colpa, ma il tipo di condotta
da adottare con il fratello peccatore. Il peccato di cui si parla («se il tuo
fratello commetterà una colpa contro di te», 18,15) ci è sconosciuto; al
contrario è precisato il carattere della relazione da salvaguardare (si
tratta di un fratello) e il ruolo determinante dell’ascolto nella riuscita
dell’operazione (tra i w. 15 e 17 il verbo ascoltare torna per ben tre
volte). Come scrive con competenza Francois Genuyt, «il peccato ri­
mane indefinito, ma non ha importanza; la cosa principale è l’ascolto
e il rifiuto di ascoltare determina nel dettaglio il peccato, al punto da
essere il criterio dominante per chiarire la situazione. [...] Questo è
dunque lo scopo della procedura nel caso del peccatore: verificare la
natura del legame fraterno».22 In altre parole: nella procedura di ri­
conciliazione, il criterio decisivo non è la gravità del peccato commes­
so; lo è invece la salvaguardia del legame fraterno.
Il logion del v. 18 segnala che l’esclusione del fratello non ha solo
conseguenze sociali, ma anche soteriologiche: ciò che la comunità le­
ga è legato anche nei cieli. Teologicamente, questa dichiarazione è pe­
sante. Ma ci ricorderemo che la rottura delle relazioni non è lo scopo
della procedura, bensì il catastrofico scenario che ci si può prospetta­
re in caso di fallimento. Dopo le parole sulla preghiera ai w. 19-20 (sui
quali torneremo), l’invito al perdono senza limiti si inscrive nella logi­
ca argomentativa che abbiamo descritto finora. Il carattere illimitato
del perdono è significato simbolicamente con il «70 volte 7», con il qua­
le Gesù risponde all’offerta già generosa di Pietro di perdonare sette
volte (18,21-22). La parabola del servo spietato giustifica questo modo
di parlare, ancora una volta in modo iperbolico (dopo 18,8-9): com’è
possibile limitare l’esercizio del perdono, se noi stessi siamo stati og­
getto di una colossale rimessa dei debiti? La parabola illustra l’evi­
denza di una reciprocità nel perdono, dopo che l’uomo ha avuto il be­
neficio dello straordinario perdono di Dio.

22 F. G e n u y t, «M atthieu 18», m S é m io tiq u e et Bible 82(1996), 8-9.

211
È chiaro che questo imperioso invito al perdono non annulla il
provvedimento di scomunica in caso di fallimento; costituisce tuttavia
l’orizzonte di comprensione, il cui solenne finale (cf. 18,35) non può
sfuggire al lettore, alla lettrice. Del resto, la minaccia escatologica che
pesa sul rifiuto di perdonare costituisce l’ultima parola del discorso.

3.3. Un effetto di intertestualità


Una terza dimensione della rilettura matteana della regola tradi­
zionale è percepibile in un discreto effetto di intertestualità. Il con­
fronto con la versione lucana della prima clausola della regola (Le 17,3)
mostra che Matteo ha optato per ima precisa descrizione dell’atteg­
giamento da adottare davanti al fratello colpevole: «Va’ e ammonisci­
lo fra te e lui solo» (18,15). L’uso del verbo elegchein (riprovare, rim­
proverare, rinnegare) fa eco alla parenesi di Lv 19,17, che precede im­
mediatamente il comandamento dell’amore verso il prossimo: «Non
coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera (in greco:
elegcheis) apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un
peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i fi­
gli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono
il Signore» (Lv 19,17-18).
È importante constatare che l’esortazione a rimproverare gli altri è
qui considerata come la concretizzazione dell’amore verso il prossimo.
Lo stesso legame fra rimprovero e amore verso gli altri è attestato nella
letteratura giudaica.23 Questo accostamento è istruttivo, poiché dimostra
che in seno al giudaismo contemporaneo, il rimprovero fatto al fratello
di fede è considerato positivamente come un modo di applicare nei suoi
riguardi l’imperativo dell’amore verso il prossimo. Ancora, nel Testa­
mento dì Gad 4,1-3, il fatto di esporre direttamente la riprovazione da­
vanti alla comunità, senza enunciarla anzitutto in privato, è considera­
to una mancanza di amore. «Guardatevi dunque, figli miei, dall’odio,
poiché esso fa commettere l’iniquità contro il Signore stesso. Infatti non
si vuole più sentire le parole dei suoi comandamenti sull’amore del pros­

23 È attestato a Q um ràn (1QS 5,24-6,1; CD 9,2-8) come p u re nel Testam ento d i Gad
4,1-3; 6,3-7.

212
simo, e si pecca contro Dio. Appena un fratello cade, subito si corre a
dirlo a tutti, ci si affretta a farlo giudicare e punire con la morte».24
Letta in questa luce, la regola comunitaria appare come un freno
potente posto accanto alla denuncia ecclesiale della colpa del fratello.
Prima che ì’ekklèsia conosca il suo caso, gli sono offerte due occasio­
ni di sentire il rimprovero che gli viene fatto. Se mettiamo insieme la
costruzione retorica delle due esclusioni, la quale invita a esaminare
se stessi prima di esaminare gli altri, l’argomentazione che culmina
nella chiamata al perdono illimitato e infine l’eco intertestuale a Lv
19,17-18, non è concesso di dubitare della volontà di una nuova in­
quadratura della regola tradizionale propria del narratore.
Estrapolata da questa costruzione del discorso, la regola si presta
a un’interpretazione pericolosamente settaria. La storia del cristiane­
simo ne offre la triste conferma. Eppure Matteo si era sforzato di pre­
munire i suoi lettori da una tale comprensione.

4. La figura di Pietro (18,21-22)


Il nostro terzo interrogativo concerne il ruolo di Pietro nel discor­
so. Con questo passiamo dall’esame della costruzione del discorso a
quello della costruzione del racconto. Ormai l'interrogativo è il se­
guente: quali sono gli effetti della rilettura matteana delle sue fonti se
consideriamo il discorso in seno alla trama del macro-racconto? In al­
tre parole: quali effetti di significato fa percepire la lettura di Mt 18 nel
suo contesto narrativo?
Una modifica apportata dal narratore ai w. 21-22 attira l’attenzio­
ne: Matteo ha ritoccato la versione presentata dalla Fonte delle parole
di Gesù (Le 17,4) per farne un dialogo tra Pietro e Gesù sul limite del
perdono, che viene quindi a precedere la parabola del servo spietato.
L’inserimento della figura di Pietro è intrigante.25 Come va compresa?

24 Citato secondo A. D u p o n t-S o m m er - M. P h ilo n e n k o (edd.), La Bìble. É crits interte-


stam entaìres, Gallimard, Paris 1987, 910.
25 Sulla figura di Pietro n el prim o Vangelo, si p o trà consultare lo studio di K. S y re e -
ni, «Peter as C haracter and Symbol in thè Gospel of M atthew», in D.M. R h o a d s - K. S y r e e -
ni (edd.), C haracterization in thè Gospels. Reconceiving N arrative Criticism, Sheffield
Academic Press, Sheffield 1999, 106-152 e anche E. S t e f f e k , «Rocher et p ierre d ’a-

213
Possiamo banalizzarla considerandola un diversivo per animare il rac­
conto:26 ma perché scegliere questo personaggio? Possiamo nuova­
mente banalizzare vedendolo intervenire qui nel suo ruolo usuale di
portavoce dei discepoli (cf. Mt 14,28; 15,15; 16,16; 17,4; 19.27);27 ma
bisogna notare che il procedimento redazionale più corrente in Matteo
è di far intervenire il gruppo dei discepoli.28 Inoltre, a eccezione del no­
stro testo, Pietro non interviene neppure una volta in un grande di­
scorso del Vangelo; la sua ultima apparizione narrativa precede pro­
prio Mt 18: Pietro è l’interlocutore di Gesù nel botta e risposta sul pa­
gamento della tassa del Tempio (17,24-27).

4.1. L’esempio-tipo del perdono


La presenza di Pietro in Mt 18 è dunque singolare. Acquista signi­
ficato se consideriamo la parabola che segue e se investiamo la cono­
scenza che il lettore possiede del personaggio.29 La parabola del servo
spietato (18,23-35) mette in scena un personaggio al quale è stato ri­
messo un debito colossale, e che si rifiuta di rimetterne uno, irrisorio,
al suo compagno di servizio. Ora, anche Pietro è stato oggetto di un
perdono colossale: egli ha rinnegato il suo maestro, ma continua a far
parte del gruppo dei discepoli (28,15). Egli è anche colui del quale Ge­
sù fa la roccia su cui fondare la sua Chiesa (16,18). Se cerchiamo un
paradigma della condizione credente fondata sul perdono di Dio, la
scelta di Pietro è la più adeguata. Introdurlo nel discorso assume, a
partire dal macro-racconto, una particolare consistenza: Pietro è Ve-
sempio-tipo del credente beneficiario del perdono.

choppem ent. La figure am bigue de Pierre dans l’évangile selon M atthieu», in Cahier Bi-
blique de Poi e t Vie 46(2007), 44-58.
26 S y r e s n i fa tuttavìa osservare che l’intrusione di nuovi personaggi costituisce un
to rn an te nel discorso: cf. 13,36 e 24,1 («Peter as C haracter an d Symbol in th è Gospel of
M atthew», p. 138)..
27 S. G ra s s o , «La parab o la del re buono e del servo spietato (Mt 18,21-35). Analisi
narratologica», in R ivista Biblica 46/1(1998), 34, adotta questa posizione, m a in trodu­
ce im a innovazione attribuendo alla figura n arra tiv a di Pietro la funzione di essere p o r­
tavoce dei n a rra ta ri, cioè dei lettori im pliciti dell’evangelo.
28 Mt 13,10.36; 14,15; 15.12.23.33; 17,10.19; 19,10.25; 21,20; 24,3.
29 Con D.W. U lr ic h , True Greatness. M atthew 18 in its L iterary Context, PhD, Union
Theological Seminary, Richm ond (VA) 1996, 249-255.
Anche la successione del dialogo (18,21-22) e della parabola (18,
23-35) merita un apprezzamento. L’offerta di Pietro (perdonare sette
volte) è già generosa: nel giudaismo l’usanza è di arrivare a perdona­
re tre volte, a immagine di Dio che concede il suo perdono tre volte;30
ma è rifiutata da Gesù in nome di un’eliminazione di ogni limite al per­
dono (70 volte 7). Come accettare un’esigenza così smisurata? La para­
bola lo fa sapere, precisamente, reimpostando lo statuto dì chi perdo­
na. Sottomettendo la sua proposta di sette perdoni, Pietro si situa nel­
la posizione di colui che offre con generosità, tanto più che il caso in­
vocato è l’atteggiamento da adottare verso il fratello che ha peccato
contro di lui («se il mio fratello commette colpe contro di me, quante
volte dovrò perdonargli?», 18,21). La sua condizione di persona lesa
rende l’offerta di Pietro ancora più magnanima. Ora, mediante la para­
bola, Gesù lo conduce a cambiare stato identificandosi con un uomo
gratificato dal perdono. Da donatore, diventa graziato. La domanda del
re conduce precisamente a questa riqualificazione deU’iniziale condo­
no del debito: «Servo malvagio, ió ti ho condonato tutto quel debito
perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo com­
pagno, così come io ho avuto pietà di te?» (18,32-33). L’ingratitudine
umana si radica su un malinteso: non ha registrato la responsabilità
inerente alla sua condizione di graziato.

4.2. Un perdono senza misura


Va detto che nella parabola Matteo ha fatto ricorso a una spettaco­
lare asimmetria tra rimmensità del debito dovuto dal servo (10.000 ta­
lenti, dieci volte il gettito fiscale annuale del regno di Erode o ancora
250.000 anni di lavoro di un operaio)31 e l’esiguità del debito che gli è
dovuto (100 denari, 600.000 volte meno del debito precedente). La
sproporzione mostruosa tra il dare e l’avere è ancora una volta un’i­
perbole di stile orientale; ci fa però capire che la grazia di cui il servo è
beneficiario non è paragonabile con quanto egli stesso può rimettere.

30 Yoma 87a ( S tr a c k - B i lle r b e c k , I, 51969, 796).


31 Secondo F la v io G iuseppe, il gettito fiscale delle tetrarch ie di Filippo, di Erode An-
tipa e di Archelao, i tre successori di E rode il G rande, raggiunge i 900 talenti l’anno [An­
tichità giudaiche 17,318-320).

215
In primo piano ormai non c’è più l’immensità del perdono da con­
cedere, ma la dismisura del perdono ricevuto. La parabola ha inverti­
to i ruoli: l’ingiunzione a perdonare diventa l’evidente e leggera con­
tropartita della grazia divina. Pietro, il discepolo che rinnega il suo
maestro, rappresenta qui il paradigma del colpevole perdonato.

5. La funzione del discorso nella strategia


del narratore
In questa quarta parte, valuteremo in modo più globale la funzione
di Mt 18 all’interno della trama del Vangelo. Ci interessa osservare l’ef­
fetto della presenza del discorso comunitario nel macro-racconto. In
che cosa consiste questo racconto? Esso mette insieme indistintamen­
te biografia di Gesù ed esortazione morale. Lo scopo è di far vedere il
legame che qui si crea tra il racconto su Gesù (la cristologia) e il di­
scorso esortativo (la parenesi). Vedremo che questo legame rivela una
profonda struttura della teologia del primo Vangelo.

5.1. Il discorso di Mt 10
All’interno del Vangelo, Mt 18 non è il primo discorso dedicato alla
vita ecclesiale. Lo ha preceduto il c. 10, con l’invio dei discepoli. Come
si presenta questo racconto a monte? Il discorso di Mt 10 non appare
prima che nel discorso della montagna (Mt 5-7) Gesù abbia presentato
il vangelo del Regno e che un ciclo di miracoli (Mt 8-9) abbia fatto ve­
dere come l’efficacia della parola del Messia si concretizzi in mezzo al
suo popolo. La successione narrativa è eloquente‫־‬, dopo aver dimostra­
to l’onnipotenza di Gesù mediante la sua Parola e le azioni terapeuti­
che, il discorso di Mt 10 mostra Gesù che associa i suoi discepoli a que­
sto potere inviandoli in missione. Prima Gesù, poi i discepoli.
Il cuore del discorso si trova in 10,24-25a: «Un discepolo non è più
grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; è suffi­
ciente per il discepolo diventare come il suo maestro e per il servo co­
me il suo signore». Qui è stabilita la conformità cristologica della Chie­
sa: la condizione dei discepoli non dev’essere né più né meno che quel­
la del loro Maestro, modellata sul suo destino di autorità e di servizio.
Per questo motivo il narratore fa vedere il destino di Gesù prima che
egli si pronunci sulla vocazione dei suoi discepoli.
5.2. La sequenza narrativa
Come abbiamo visto, il nostro discorso, diversamente da Mt 10, ri­
guarda i rapporti interni alla comunità. Assieme ad altri ricercatori,32
noi consideriamo Mt 18 come il centro di una sequenza da 16,21 a
20,34, che costituisce una specie di pausa tra, da un lato, i grandi con­
flitti di Gesù con le autorità di Israele (12,1-16,20) e dall’altro lato la
ripresa di questo confronto con l'ingresso messianico in Gerusalemme
(21,1-11). Questa pausa, come fa vedere lo schema qui sotto, è segna­
ta dal cammino di Gesù verso la sua passione e la sua morte.

16,21-28 · Annuncio passione I (16,21)


Passione e seguito

17,1-13
Trasfigurazione

17,14-21
Guarigione

Annuncio passione II (17,22-23)

La tassa per il Tempio prima della


‫·־···׳‬ Pasqua (17,24-27)

19,1-30
Dibattiti e controversie Gesù va in Giudea (19,1)

20,1-16
Parabola

Annuncio passione III (20,17-19)

32 Cf. U. Luz (che segue u n a pro p o sta di Jack D. Kingsbury): Das Evangelium nach
M a tth d u sfM t 1-7), EKK 1/1, Benziger-Neukirchener, Z urich-N eukirchen52002, 33; tr. it.
Vangelo di M atteo (1-7), Paideia, Brescia 2 0 1 0 ,1.
«bere il calice che io sto per bere»
(20 ,22)
«dare la propria vita in riscatto per la mol­
titudine» (20,25-28)

20,29-34
Guarigione

.··:'■■';‫־‬ ‫׳‬ ‫־‬ ] Ingresso messianico a Gerusalemme

A monte di Mt 18, il racconto presenta due annunci della passione


(16,21 e 17,22-23) come pure l’episodio della tassa per il Tempio, del­
la quale sappiamo che veniva pagata in occasione del pellegrinaggio
pasquale. Quindi narrativamente Mt 18 si presenta come il discorso
che Gesù tiene davanti ai suoi discepoli mentre affronta Gerusalem­
me, la sua sofferenza e la sua morte.33
Già prima, lo spostamento di Gesù dalla Galilea alla Giudea (19,1)
conferma questo orientamento verso la passione. Il terzo annuncio del­
la passione (20,17-19) è seguito dalla domanda della madre dei figli di
Zebedeo che i suoi figli siedano con Cristo nel suo regno (20,25-28). La
risposta di Gesù, che enuncia esplicitamente l’etica di conformità cri­
stologica: «bere il calice che io sto per bere» (20,22) rinvia al cammi­
no di sofferenza; il modello etico è il Figlio dell'uomo, che viene «per
servire e dare la propria vita in riscatto per la moltitudine» (20,28). In-
somma, in questo contesto non sorprende che la parenesi di Mt 18 co­
minci con un invito a diventare come un bambino: l’etica di abbassa­
mento e di umiltà, che si dispiega lungo tutto il discorso comunitario,
riceve dal contesto narrativo il proprio radicamento e il proprio mo­
dello cristologico. A questo proposito, il Cristo della passione insegna
ai suoi come conformarsi a lui.
L’inserimento delle esortazioni di Mt 18 nella trama del macro-rac­
conto, e in particolare nella sequenza 16,21-20,34, ha la massima im­

33 Questo punto di vista è bene sviluppato da M. K o n r a d t , «“W hoever hum bles him -
self like this child....‫ ״‬. The Ethical Instruction in M atthew ’s Community D iscourse (Matt
18) and its N arrative Setting», in J. v a n d e r W a t t - R. Zim m erm ann (edd.), M oral Langua-
ge in thè N ew Testament. The Interrela ted n ess o f Language and E thics in E arly Chri­
stian Writings, M ohr Siebeck, Tubingen 2010, 105-138.

218
portanza. Leggendo il primo Vangelo, ci si scontra infatti di continuo
su inviti all’obbedienza, dei quali ci si chiede dove si fondino. In ter­
mini tecnici, il lettore di Matteo è spesso alla ricerca del legame tra l’in­
dicazione della salvezza e l’imperativo etico: siamo salvati per obbedi­
re o dobbiamo obbedire per essere salvati?34 Qui il radicamento cri­
stologico che ricevono gli imperativi di Mt 18 assume tutto il suo valo­
re. Esso indica ciò a cui l’ingiunzione rinvia, ciò che le dà legittimità e
la fonda: l’agire preveniente di Cristo. Allo stesso modo, abbiamo visto
in che maniera, nella parabola del servo spietato, l’ingiunzione al per­
dono era re-inquadrata e risituata di fronte al dono ricevuto. L’etica del
servizio e dell’attenzione verso il fratello, l’etica della premura con i
«piccoli», è ima solidificazione della sequela di Cristo sul suo cammi­
no di umiltà. Il lettore del vangelo non si confronta con un imperativo
spoglio; riceve invece la Parola prescrittiva di colui che ha assunto la
fragilità fino al limite estremo.

5.3. Cristo-pastore
In questo contesto cristologico, lo svolgimento matteano della para­
bola della pecora smarrita merita ulteriore attenzione (18,12-14). L’e­
same della ri-scrittura alla quale si abbandona il narratore ha fatto
constatare che Matteo insisteva sullo sforzo del pastore nel cercarla,
mentre Luca punta sulla gioia del ritrovamento. La parabola matteana
è un invito a cercare il fratello separato come il pastore che parte alla
ricerca della sua pecora perduta. Ora, nel linguaggio biblico, la meta­
fora del pastore non è di certo casuale; essa rinvia a Dio pastore del
suo popolo Israele (Ez 34,11-22), come pure al pastore messianico da­
vidico annunciato dalla profezia (Ez 34,34; 37,24). La ricerca del fra­
tello smarrito trova il suo fondamento nella Scrittura.
Possiamo aggiungere che l’immagine del pastore trova nel Vange­
lo di Matteo un forte ancoraggio cristologico. Matteo presenta Gesù co­
me il pastore messianico di Israele (2,6), che si dedica alle pecore sper­
dute del suo popolo (9,36; 15,24). Nel discorso missionario di Mt 10, i

34 A tal proposito cf. D. M a r g u e r a t , «Indicatif du salut et im p ératif éthique chez Mat-


thieu. Une alternative?», in D. S e n io r (ed.), The Gospel o f M atthew a t thè Crossroads o f
E arly C hristianity, Peeters, Leuven 2011, 241-261.

219
discepoli sono incorporati alla ricerca di Gesù, il quale cerca le pecore
senza pastore (9,36; 10,6). Il rimodellamento della parabola della Fon­
te delle parole di Gesù assume tutto il suo significato in questo conte­
sto, contribuendo a costruire un’etica della premura verso il fratello
che condivide l’azione di Cristo.35 L’attenzione richiesta nei confronti
dei membri fragili della comunità riproduce la vocazione del pastore
messianico;36 assume la figura dell’imitatio Christi.
Proprio alla luce di questo ancoraggio cristologico così marcato noi
collochiamo la promessa che la preghiera viene esaudita (w. 18-19),
seguita dall’enigmatico versetto 20: «Perché dove sono due o tre riuniti
nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro». In questa sentenza e non
senza ragione è stato visto un equivalente cristologico della shekinah,
la presenza della gloria di Dio in mezzo al suo popolo.37 Ma, ancora
una volta, come comprenderla a partire dal suo inserimento narrati­
vo? Se quanto abbiamo appena detto sul fondamento cristologico del
discorso è corretto, la formula assume una colorazione specifica. Pos­
siamo parafrasarla in questo modo: se due o tre fratelli sono riuniti nel
nome di Cristo-pastore e agiscono seguendo il suo modello di atten­
zione premurosa verso i membri della comunità, allora Cristo sarà in
mezzo a loro, e quello che gli domanderanno avrà effetto nei cieli
(18,19), poiché così facendo parteciperanno alla vocazione di Cristo-
pastore. È infatti straordinario che la promessa di esaudimento da par­
te del Padre celeste sia legata a una sola condizione, che non è l’ogget­
to della domanda, ma la sua modalità: «Se due di voi sulla terra si met­
teranno d’accordo per chiedere qualunque cosa» (18,19). La condizio­
ne non riguarda la domanda, ma i richiedenti: è necessario che la lo­
ro preghiera sia «sinfonica»,38 cioè che essa si conformi all’etica di ri­
conciliazione spiegata fin dal versetto 15.

35 L’evidenziazione della dim ensione cristologica risale in m odo esem plare a J. Du-
pon t nel suo articolo: «Les im plications christologiques de la parabole de la b reb is per-
due», ih Jésus aux origines de la christologie, Leuven University Press, Leuven 1989
nuova ed., 331-350.
36 F r a n c e (The Gospel o f M atthew , 687-688) individua questa connotazione cristo­
logica, m a la com m enta parten d o dalla figura del buon pastore nel quarto Vangelo; ora,
Matteo la sviluppa sufficientem ente dal suo punto di vista.
37 H. F r a n k e m Ol l e , Jahw ebund undK irche Christi, Aschendorff, Miinster 1974, 27-36.
38 G e n u y t , «M atthieu 18», 10.

220
Il famoso affresco del Giudizio finale in Mt 25,31-46 offre un’altra
modulazione su questo tema del rapporto tra la cristologia e l’etica: ve­
nire in soccorso ai miseri va compreso teologicamente sul modello del
come se. Prendersi cura dei deboli, è come se si venisse in aiuto a Cri­
sto: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più
piccoli, l'avete fatto a me» (25,40). Mt 18 esplora il registro del come:
aver cura dei «piccoli», significa agire come Cristo-servo.

6. Conclusione
Le quattro domande che sono servite da griglia di lettura per il di­
scorso comunitario di Mt 18 hanno permesso di vedere che l’analisi
narrativa e la critica delle fonti possono fare causa comune. Ciò do­
vrebbe aiutare a superare l’idea che la critica delle fonti (con il suo in­
terrogarsi diacronico) e la narratologia (con la sua prospettiva sincro­
nica) siano condannate a occupare spazi diversi. Al contrario, l’artico­
lazione ben ponderata delle due procedure apre un campo di creativi­
tà fecondo, capace di rinnovare il dibattito oggi logoro della critica let­
teraria. In questo contesto, l’apporto specifico dell’analisi narrativa
consiste nel valutare tutte le dimensioni del lavoro di interpretazione
operato dal narratore quando rilegge altri testi. Nel nostro caso, ha
permesso di cogliere la strategia narrativa dell’evangelista su quattro
punti: l’indeterminazione dell’identità dei «piccoli» come interpellan­
za al lettore, un nuovo inquadramento della regola disciplinare nel pro­
cesso di riconciliazione, la riconfigurazione del perdono con l’ausilio
della figura di Pietro e il fondamento dell’imperativo nel dono di Cri­
sto ai suoi. Un sìmile dispositivo narrativo rivela un pensiero teologi­
co coerente e potente.
Capitolo nono

DAVIDE E LA STORIA
DI NATAN (2SAM 12,1-7).
IL LETTORE
E LA «FICTION»
PROFETICA
DEL RACCONTO BIBLICO
André Wénin

1. La storia di Davide: fiction o storiografìa?1

1.1. Che cos’è la fiction


In un’eccellente opera chiarificatrice intitolata Le propre de la fic­
tion, Dorrit Cohn2 cerca di mettere in luce gli evidenziatori formali dei
racconti di fiction nella moderna letteratura occidentale. Definisce an­
zitutto la fiction come un racconto i cui elementi non si riferiscono né
obbligatoriamente né esclusivamente al mondo reale, e che, così fa­

* Prim a pubblicazione in: D. M a r g u e h a t (ed.), La Bible en récits. L ’exégèse biblique


à l'heure du lecteur, Labor et Fides, Genève 2003, 153-164.

1 In questo capitolo, il term ine «storiografia» è usato secondo il suo significato {eti­
mologico) di «scrittura della storia» o del passato.
2 D. C o h n , Le propre de la fictio n , Seuil, Paris 2001; or. ingl. The D istinction o f Fic­
tion, Johns Hopkins University Press, Baltim ore 1999.

223
cendo, crea un mondo proprio, anche se esso può assumere molti trat­
ti dalla realtà fuori-testo. Quando tuttavia lo fa, non è soggetto al cri­
terio dell’esattezza, come accade invece per lo storico.3 Il narratore
quindi rimane padrone del mondo che egli crea.
Nel corso della sua opera, Cohn precisa le differenze formali tra
racconto di fiction e storiografia e ne elenca quattro.
1) Dove la fiction conosce due livelli - la story e il discourse (in ita­
liano: la storia raccontata e la costruzione della sequenza dei fatti e la
loro presentazione narrativa concreta) -, la storia ne aggiunge uno a
monte della story: cioè gli avvenimenti che sono accaduti e che il rac­
conto deve cercare di rendere con precisione. Ciò richiede dallo stori­
co una precisione sconosciuta all’autore della fiction.
2) Al pari di un autore di fiction, l’autore di un racconto storiogra­
fico manipola necessariamente le strutture della temporalità: così, ad
esempio, l’ordine di presentazione dei fatti non è mai strettamente cro­
nologico. Tuttavia, le libertà che lo storico si concede da questo punto
di vista sono dettate dalle fonti a sua disposizione, dalle necessità di
interpretazione o dal soggetto stesso più che da una preoccupazione
estetica o da una strategia narrativa.
3) Le differenze che riguardano le situazioni narrative sono ben
maggiori. L’onniscienza di cui gode il narratore nella fiction, special-
mente nei confronti dei personaggi, è evidentemente inaccessibile allo
storiografo. Quest'ultimo è tenuto il più delle volte a una fecalizzazione
esterna - l’occhio dell’osservatore esterno - tranne quando le fonti sto­
riche di cui dispone gli permettono di svelare cose normalmente na­
scoste. La sua narrazione sarà dunque fatta più di sommari o di rias­
sunti che di scene (modo narrativo, o telling). In queste condizioni, la
posizione dello storico ha qualcosa di analogo a quella di un narratore
omodie getico, poiché fa parte dello stesso mondo dei fatti di cui tratta.
4) Ne consegue che nel racconto storico non è possibile distingue­
re l’autore il cui nome figura in copertina, dal narratore che racconta
la storia, mentre questa distinzione si impone per un racconto di fic­
tion, anche se non è sempre facile individuarla.4

3 C o h n , Le propre de la fictio n , 29-33. M. S t e r n b e r g , The Poetics o fB ib lica l N arra­


tive. Ideological L iterature and thè D ram a o f Reading, Indiana University Press, Bloo-
m ington 1985, 25-26.
4 C f. C o h n , Le propre de la fictio n , 167-200.

224
Torniamo brevemente al terzo punto, che Cohn sviluppa più am­
piamente nel suo libro. In una fiction in terza persona - è il caso di
gran lunga più frequente nei racconti dell’Antico Testamento -, il nar­
ratore ha accesso a una conoscenza che sfugge al comune mortale,
specialmente per tutto ciò che riguarda la vita interiore dei personag­
gi e gli avvenimenti nascosti o confidenziali. In questo senso, alcuni
procedimenti formali indicano che abbiamo a che fare con un testo di
fiction. In breve, possiamo dire che la fiction si riconosce per il fatto
che «usa effettivamente del suo potenziale di focalizzazione» (p. 46),
sia per rappresentare la psicologia dei personaggi sia per «descrivere
il mondo che li circonda così come è messo a fuoco dal loro sguardo»
(pp. 71-72).5
Sulla questione di sapere se un romanzo storico va considerato o
meno come un racconto di fiction, assieme ai teorici del genere, Cohn
riconosce che i fatti raccontati perdono la loro realtà; e in ogni caso gli
evidenziatori formali enumerati qui sopra pongono il romanzo storico
dal lato della fiction. Nondimeno, il carattere di questo genere lettera­
rio ha qualcosa di particolare; un romanzo di questo tipo, infatti, su­
scita nel lettore, secondo l’espressione di J.W. Turner, delle «attese sto­
riche». Generalmente, l'autore di un romanzo storico classico si con­
forma a queste attese, riconoscendo così la distinzione che la tematica
storica impone al suo compito nei confronti delle altre opere di fiction.6

1.2. Il carattere delle storie di Davide


Offerto questo chiarimento teorico, che dire sulle storie bibliche di
Davide? Stando al primo criterio, in genere la ricerca ammette che al­
la base dei racconti dei libri di Samuele ci siano dei fatti, e l’esegesi
storico-critica fa il possibile per isolarli, tentando inoltre di ricostruire

5 «È m ediante il suo potenziale unico in ciò che rig u ard a la p resentazione dei p e r­
sonaggi che la fiction rom pe nella m an iera più sistem atica e radicale con il mondo e ster­
no al testo», il m ondo reale, scrive in altro luogo C o h n , Le propre de la fictio n , 3 3 . Più
avanti (p. 4 3 ) , lei cita le parole di K. H a m b u r g e r , Logique des genres littéraires, Seuil, P a­
ris 1987, 88: «La fiction è l’unico spazio cognitivo in cui rio-origine (la soggettività) di
im a terza perso n a può essere ra p p re se n tata come tale».
6 C o h n , Le propre de la fictio n , 2 3 6 - 2 3 7 .

225
la storia dei testi stessi per operare poi la distinzione tra ciò che po­
trebbe essere storicamente esatto e ciò che deriva da successive ela­
borazioni e, dunque, riflette le preoccupazioni storiche o teologiche di
epoche diverse. Il livello referenziale è dunque presente, anche se la
componente strettamente legata ai fatti narrati è verosimilmente mo­
desta. Per quanto riguarda invece gli altri tre criteri, il racconto bibli­
co pende dal lato della fiction. Ad esempio, il trattamento a volte sofi­
sticato della temporalità è molto spesso dettato dalla strategia narrati­
va, come fa meravigliosamente vedere Shimon Bar-Efrat nel suo stu­
dio della temporalità nel racconto del conflitto tra Davide e Assalon­
ne.7 Nessuno potrà dubitare che il narratore del racconto è distinto da­
gli autori e redattori reali (e successivi) dei testi. Egli dispone della fa­
coltà dell’onniscienza, che usa certamente con economia, ma che gli
permette di variare la focalizzazione del suo racconto e di entrare nel­
la psicologia dei personaggi e perfino, nei segreti di Dio. Nell’episodio
sul quale tra breve ci soffermeremo, ad esempio, il narratore ci fa sco­
prire quando Betsabea entra nelle mire di Davide (2Sam ll,2-5):8 egli
è testimone delle udienze private di Uria dal re (11,7-13), coglie i bi­
sbigli dei cortigiani (12,18) e svela il giudizio di Dio sulle malefatte se­
grete di Davide (ll,27b).9
In queste condizioni, difficilmente possiamo sfuggire alla seguente
conclusione: il genere contemporaneo che più si imparenta con la sto­
ria biblica di Davide è il romanzo storico. Parlando di questo tipo di
storiografia «fictionalizzata»,10 Tolstoj era convinto - come ci ricorda
Cohn 11 - che essa si avvicinava «alla verità più di qualunque narra­
zione storica», nella misura in cui «permette allo scrittore di rendere
gli avvenimenti storici sotto la forma dell’esperienza personale e im­

7 S. B a h - E f h a t , N arrative . A r t in thè Bible, Alm ond Press, Sheffield 1989, 167-175.


8 Cf. J.-P. S o n n e t , «“Il était un hom m e...”. Le récit biblique entre généralité poétique
et particularité hìstorique», in S. K l im is - L. V a n E y n d e (edd.), L ittérature e t savoir(s), Pu-
blications des Facultés U niversitaires Saint-Louis, Bruxelles 2002, 183-184.
9 Cf. nello stesso senso i tem i ·elencati da R. A l t e r , L ’a rt du récit biblique, Lessius,
Bruxelles 1999, 53-54; tr. it. L ’arte della narrativa biblica, Q ueriniana, Brescia 1990.
10 E spressione che si rifa a Alter, che p arla appunto di «storia fictionalizzata [o ro ­
m anzata]» e di «prosa di fiction [o n arrativ a di finzione] storicizzata», rinviando alla «hi-
storicized fiction» di H.N. S c h n e id a u , Sacred D iscontent. The Bible a n d W estern Tradi-
tion, Louisiana State University Press, Baton Rouge 1976, 215.
11 C o h n , Le propre de la fictio n , 226-227.

226
mediata di esseri umani individuali», grazie alle molteplici risorse del­
la narrazione focalizzata.12 E se, come tutti gli esseri umani, i perso­
naggi storici sono opachi agli occhi degli altri e quindi anche a quelli
dello storico, «l’autore di un romanzo storico [...] trae invece vantag­
gio da questa opacità; è precisamente in quei “territori oscuri” della
storia che egli può liberamente servirsi della sua immaginazione e la­
sciarsi andare “all’introspezione delle sue figure storiche”», scrive an­
cora Cohn, citando Brian McHale.13
Ma, come ci ricorda Jean-Pierre Sonnet,14 Meir Sternberg si è vigo­
rosamente opposto a una simile classificazione dei racconti biblici. La
sua opinione è categorica: in conclusione afferma che il racconto bibli­
co, «non è né fiction storicizzata né storia fìctionalizzata, ma storiogra­
fia pura e semplice».15 Secondo lui, nella storiografìa antica si possono
trovare tutti i connotati della fictionalità.16 Per sostenere questa tesi, se­
gnala l’assenza di rottura formale tra la parabola fictionale di Natan e
il suo contesto narrativo. Ma in questo esempio, oltre a trascurare alcu­
ni tratti distintivi spesso rilevati e sui quali torneremo, pare che dimen­
tichi che Natan non può permettersi di insistere sul carattere fittizio del­
la sua storia se intende incastrare Davide con il suo stratagemma.
In questa sede non possiamo riprendere l’intera argomentazione di
Sternberg, ma ci accontenteremo dell’essenziale. Secondo lui, affinché
ci sia scrittura della storia {hìstory-jvnting), basta che il discorso pre­
tenda di ricordare il passato e questo nella cultura originaria, nel taci­
to contratto stabilito tra lo scrittore e i suoi lettori (p. 25). Ma una si­
mile rivendicazione è forse così chiara nell’opera dei deuteronomisti?
Certamente, gli autori successivi non avevano intenzione di scrivere un
racconto di fiction. Intendevano quindi fare della storiografia? Il loro

12 Cf. in questo senso anche A l t e r , V a r i du récit biblique, 212-213.


13 B. M c H a l e , P ostm odernist Fiction, M ethuen, New York 1987, 87, citato da C o h n ,
Le propre de la fiction, 234.
14 S o n n e t, «“Il était u n hom m e...”. Le récit biblique en tre généralité poétique et par-
ticularité historique», 185-188.
15 S te r n b e r g , The Poetics o f Biblical Narrative. Ideological Literature a n d thè Dra-
ma ofR eading, 34-35. Per l’argom entazione, cf. pp. 24-35.
16 S t e r n b e r g , The Poetics o f Biblical N arrative. Ideological Literature and thè Dra-
m a ofR eading, 30.

227
scopo era di comporre una relazione di fatti (record offact), secondo
l’espressione di Sternberg? Non era piuttosto, come ha dimostrato l’e­
segesi storica, di fare della propaganda politica o ideologica, di tenta­
re di comprendere il dramma dell’esilio o ancora di condurre i lettori
a ritornare a Dio, ricorrendo se necessario al «privilegio della libera
invenzione», che, per Sternberg, appartiene alla fiction?17 Quanto al­
l’opera deuteronomista nella sua condizione finale, la verità che essa
rivendica18 è di tipo storiografico o teologico? Il ricorso a tecniche cor­
renti in quella che noi chiamiamo fiction si spiega meglio se la posta
in gioco è del secondo tipo. Se poi il narratore non nasconde la sua pre­
tesa all’onniscienza, questa non verte sul livello fattuale, ma è al ser­
vizio di una verità di ordine teologico e antropologico. Del resto, per
giustificare questa onniscienza, Sternberg invocherà un fattore estra­
neo ai testi stessi, e cioè l’ispirazione che garantisce l’autorità storio­
grafica del racconto (p. 34). Ma l’ispirazione garantisce questo tipo di
autorità o non piuttosto il carattere profetico del discorso?
Secondo Sternberg, che in questo si avvicina a Cohn, la fiction è ca­
ratterizzata dall’indipendenza nei confronti della fattualità nella crea­
zione del mondo del testo (p. 26). Le storie di Davide - parzialmente
indipendenti dalla fattualità - non corrispondono piuttosto bene a que­
sta definizione? È vero che il loro mondo è popolato di figure storiche
- e senz’altro anche di alcuni fatti che lo sono altrettanto - e questo
contribuisce a renderlo verosimile. E, secondo Aristotele, la verosimi­
glianza rende il racconto persuasivo, in quanto essa racconta la storia
come se fosse accaduta.19 Ora il deuteronomista si adopera sicura­
mente per persuadere i suoi lettori. Ma, secondo noi, il mondo che in
tal modo esso crea deriva la sua verità intrinseca dall’antropologia e
dalla teologia che esso propone più che dai fatti riportati, altrimenti es­

17 Cf. in tal senso J. V e r m e y l e n , La loi du p lu s fo rt. H ìstoire de la rédaction des ré-


cits davidiques, de 1 S a m u el 8 à 1 Rois 2 , Peeters ■University Press, Leuven 2000.
18 Per S te r n b e r g , The Poetics o f Biblìcal Narrative. Ideologica! Litarature a n d thè
D rama ofR eading, 32, questa p retesa di verità è proprio ciò che fa la n a tu ra storiogra­
fica dell’im presa.
19 A r i s t o t e l e , D ell‘arte poetica, 145 lb , 15-18, (testo greco-italiano), traduzione di
C. G a l l a v o t t i , Arnoldo M ondadori-Fondazione Valla, M ilano-Roma 1974, 32gr-33it (cf.
sopra capitolo 3, 1.1). Cf. anche, sulla prossim ità della fiction o n arra tiv a d ’invenzione
e della storia quanto alla rap p resen tazio n e del tem po, le considerazioni di P. R ic c eu h ,
Temps et récit III, Seuil, Paris 1985, 342-348.

228
sa avrebbe oggi smesso di interessare molta gente, a eccezione degli
appassionati di letteratura o di storia antiche. Allora, se la storia di Da­
vide non è stata voluta come fiction - che senso avrebbe avuto a quel­
l’epoca? -, rimane il fatto che ne ha le caratteristiche, il che non si­
gnifica che sia priva di verità. Ma tale verità non ha niente a che ve­
dere con la volontà di suscitare e di santificare una credenza letterale
nel passato (/iterai belìef in thè past, p. 32) come vuole Sternberg. In
questo senso, ci sentiamo più vicini a quanto scrive Jean-Louis Ska a
proposito dei racconti patriarcali: «L’intenzione di questi racconti bi­
blici non è veramente di "informare” sulla storia, su “quanto è real­
mente accaduto”. Vogliono piuttosto formare la coscienza religiosa di
un popolo. [...] Lo stile e il genere letterario dei racconti sono scelti in
funzione di tale scopo».20 Quindi, se il narratore è considerato affida­
bile, è perché chiede di essere creduto in modo che la sua storia pos­
sa trasformare colui che la legge nella misura in cui accetta di entrare
nel mondo che il racconto gli presenta. Per illustrare questa singolare
verità della fiction, andremo a vedere come essa gioca il suo ruolo nel­
la storia di Davide, più precisamente nell'episodio che siamo soliti
chiamare «parabola di Natan».

2. La storia di Natan in 2Sam 12


ossia il potere di verità della fiction
1Il Signore mandò Natan a Davide, e Natan andò da lui e gli disse: «Due
uomini erano nella stessa città, uno ricco e uno povero. 2Il ricco aveva
bestiame minuto e grosso in grandissimo numero, 3mentre il povero non
aveva nulla, se non una pecorella, una sola, piccina, che egli aveva com­
prato. E la fece vivere e crebbe con lui e con i figli, insieme; del suo pa­
ne mangiava, alla sua coppa beveva, sul suo seno dormiva: divenne per
lui come una figlia. 4Un viandante arrivò dall'uomo ricco e questi, ri­
sparmiò di prendere dal suo bestiame minuto e grosso quanto era da
servire al viaggiatore che era venuto da lui, e prese la pecorella dell'uo­
mo povero e la servì all’uomo che era venuto da lui». 5Davide si adirò
molto contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, è de­
gno di morte l’uomo che ha fatto quello [...]».

20 J.-L. Ska, La parola di Dio nei racconti degli uomini, Cittadella, Assisi 2000; tr.
fr. Les énigm es du passé. H istoire d 'Israèl e t récit biblique, Lessius, Bruxelles 2001, 44.

229
2.1. Natan racconta un caso reale o fittizio?
In un dibattito risalente già al 1985,21 Bernard C. Lategan e Willem
S. Vorster hanno discusso per capire se Davide ascolta la storia del po­
vero e del ricco raccontata da Natan in 2Sam 12,1-4 come l’esposizio­
ne di un fatto reale o come un racconto di fiction, un mashal secondo
la qualifica del Talmud di Babilonia {Boba Bathra 15b). Anzitutto, Da­
vide non può non notare il carattere di finzione di questa storia, anche
se Natan «parla di questo personaggio di fiction come se fosseun uo­
mo in carne ed ossa».22 L’anonimato dei personaggi e del luogo nel ver­
setto introduttivo è, secondo Lategan, una chiave che indica all’audi­
torio, e dunque a Davide, che sta per ascoltare una storia. Per Vorster,
invece, la reazione appassionata del personaggio regale mostra chia­
ramente che egli ha preso il fatto come un caso reale - posizione que­
sta condivisa abbastanza ampiamente dalla critica.23 Nei suo libro Da­
vid as Reader, Hugh Pyper fa eco a questo dibattito e termina conclu­
dendo che il lettore non è in grado di risolverlo.24
Bisogna ammettere che su tale questione c’è ambiguità. Del resto,
la storia del testo porta una traccia della volontà di togliere l’equivoco.
Nella tradizione lucianea della Settanta, seguita da testimoni della Ve-
tus Latina, l’inizio del discorso di Natan si presenta in modo diverso:
invece di cominciare bruscamente il racconto come nel testo masore-
tico, Natan si prende la briga di interpellare Davide come un giudice
cui chiede di pronunciarsi sul caso (krisis) che sta per esporre. Secon­
do noi questa correzione deriva da una comprensione corretta del rac­
conto. Infatti, inizialmente il narratore lascia il lettore nell’indecisione
sulla posizione di Davide in ascolto della storia di Natan, ma poi scio­
glie qualsiasi equivoco quando, senza attendere oltre, riferisce la col­

21 B.C. L a t e g a n - W.S. V o r s t e r , Text and Reality. A sp ects o f Reference in Biblical


Texts, Scholars Press, A tlanta 1985, soprattutto p. 81 (Lategan) e pp. 95-112 (Vorster).
22 L a te g a n - V o r s t e r , Text and Reality. A sp ects o f Reference in Biblical Texts, 81.
23 Cf. p er esem pio S t e r n b e r g , The Poetics o f Biblical N arrative. Ideological Litera-
ture and thè D rama ofR eading, 429, il quale p arla di u n a parab o la allusiva che Davide
prende p er un caso di giustizia originale, o R. P o l z in , D avid and thè Deuteronom ist. P art
Three. 2 Sam uel, Indiana University Press, Bloomington 1993, 120; fra i com m entatori,
H J . S t o e b e , D as zw eite Buch Sam uelis, G iitersloher Verlagshaus, Giitersloh 1994, 302.
24 H . S . P y p e r , D avid as Reader. 2 S a m u el 12:2-15 and thè Poetics o f Fatherhood,
Brill, Leiden 1996 (soprattutto pp. 89-90).

230
lera del re. Infatti, anche se un racconto di fiction può scatenare sen­
timenti molto intensi in colui che lo riceve, non sarebbe plausibile che
il Davide dei libri di Samuele si indigni così tanto davanti a un caso del
quale avrebbe colto il carattere di fiction.
Rimane il fatto che l’argomentazione di B. Lategan non può essere
spazzata via con un semplice colpo di mano. La storia di Natan pre­
senta chiaramente i tratti di una storia di fiction in quanto niente, fuor­
ché la verosimiglianza del fatto che racconta, permette di rifarsi a un
fatto realmente accaduto.25 Oltre al carattere anonimo dei personaggi,
visitatore compreso, sulla stessa linea possiamo poi anche rilevare una
certa esagerazione nei tratti che descrivono i due protagonisti, come
pure la rapida introspezione cui Natan si lascia andare per suggerire,
con una punta di sarcasmo, il motivo nascosto del ricco preoccupato
di «risparmiare» il proprio bestiame, un verbo che suggerisce il movi­
mento interiore sottinteso al gesto del ricco: dal suo punto di vista, in­
fatti, egli «ha pietà» dei suoi beni che «risparmia» (secondo i due si­
gnificati dello stesso verbo). Ciò detto, come spiegare che Davide ab­
bia preso la storia come l'esposizione di un fatto reale? Due elementi
possono chiarire la questione: il primo riguarda il modo di raccontare
del profeta, il secondo le condizioni di accoglienza da parte del re.

2.2. La strategia narrativa di Natan


Nel modo di raccontare la sua storia, Natan fa di tutto per mani­
polare Davide e condurlo a intervenire in favore del povero, al punto
da fargli dimenticare il carattere fittizio del suo racconto. Comincia
con una descrizione molto sobria: due uomini, uno ricco e uno pove­

25 Contro J.P. F o k k e l m a n , N arrative A r t and Poetry in thè Books o f Sam uel. Voi. 1.
King D avid (II Sam. 9-20 & IK in g s 1-2), Van Gorcum, A ssen 1981, 72, il quale sostiene
che la storia di N atan non contiene «alcun tratto linguistico o stilistico che indichi che la
storia è fittizia», e U. S i m o n , «The Poor M an’s Ewe Lamb: An Example of a Juridical P ara­
tile», in Biblica 48(1967), 207-242, soprattutto pp. 220-221. Noi procediam o sch ieran ­
doci con H. G u n k e l , D as M àrchen im A lte n Testam ent, Mohr, Tubingen 1921, 36, che ri­
scontra nella storia di N atan il m ateriale di u n racconto (storia) popolare: schem atism o,
anonim ato dei personaggi, co ntrasti eccessivi, esagerazione sentim entale delle descri­
zioni. In tal senso anche J. R o s e n b e r g , King and Kin. Politicai A llegory in thè Hebrew Bi-
ble. Indiana University Press, Bloomington 1987, 39.

231
ro, in uno stesso luogo.26 La prossimità geografica contribuisce a met­
tere in evidenza il contrasto fra i rispettivi possedimenti: l’uno ha be­
stiame minuto e grosso in grande abbondanza e l’altro non ha nulla,
eccetto un’unica pecora. L’evocazione è oggettiva, quasi neutra, anche
se non è indifferente presentare i personaggi e i loro beni in quest’or­
dine, e ancor meno contrapporre inizialmente un «gran numero» (di
bestiame) a «nulla», prima di aggiungere che questo nulla non è esat­
tamente niente.
Questa tendenza si rafforza chiaramente nel seguito del v. 3, come
hanno notato molti commentatori. Qualificando la pecora come «pic­
cina» e precisando che il povero ha dovuto comperarla - contraria­
mente al ricco che possiede i suoi beni quasi naturalmente -, Natan
sottolinea già con discrezione un investimento particolare dell’uomo
verso la sua unica bestiola. Il seguito va nella stessa direzione, ma con
un crescendo. Natan si adopera a descrivere con importanti dettagli
come questa agnella sia giunta un po’ per volta a essere trattata come
una figlia. Tra l’uomo e questa pecora che ha fatto vivere si intreccia
un’autentica intimità affinché, con lui e i suoi figli, essa cresca, man­
giando il suo cibo, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno.
Tutti questi dettagli hanno l’effetto di caricare di una forte emozione la
descrizione di questo povero che, privo di tutto, sembra voler com­
pensare la mancanza di ogni cosa con un sovrappiù di investimento re­
lazionale e affettivo che conferisce alla sua agnella un valore inesti­
mabile, non rapportabile con il suo valore di mercato.
Una tale strategia narrativa prepara evidentemente l’ascoltatore a
comprendere la fine della storia in un certo modo. Il Natan narratore
mira infatti ad attribuire al gesto del ricco un carattere ignobile e odio­
so e per arrivarvi si adopera a suscitare nell’ascoltatore Davide un’im­
mensa simpatia per il povero conferendo alla sua descrizione una po­
tente carica affettiva. Così, quando il re si sente raccontare che il ric­
co prende l’unica pecora del povero per dimostrarsi buon ospite agli
occhi del viaggiatore di passaggio, dà assai minore importanza al fur­
to rispetto al fatto che il ricco non ha avuto alcuna pietà (v. 6), che cioè

26 Questa analisi si. ispira a quella di J.P. F okkelm an, King D avid (li Sam. 9-20 & I
Kings 1-2). 72-75.

232
non ha accordato alcun tipo di considerazione all’importanza affettiva
e al valore esistenziale dei quali il povero investiva la sua pecorella.
Questa insensibilità davanti a un uomo che la vita ha reso vulnerabile
è di fatto ben più grave del furtarello commesso. Proprio questa in­
sensibilità conferisce al furto quell’aspetto di crudeltà e di disumanità
che Davide denuncia. Il narratore Natan lo ha del resto sottilmente
condotto raccontando il finale. Infatti quando, dopo una descrizione
piena di empatia verso il povero, riprende un tono neutro per relazio­
nare sul furto del ricco, da un lato rafforza l’impressione della crude­
le insensibilità che si manifesta con questo gesto, dall’altro e soprat­
tutto, astenendosi così da ogni critica, crea un vuoto d’aria nel quale
Davide è inghiottito e che lo spinge a provvedere subito a questa in­
tollerabile assenza di giudizio.
Con il suo modo di implicare affettivamente l’uditore nella storia
che sta ascoltando, l’abile strategia narrativa di Natan contribuisce
senza alcun dubbio a occultarè agli occhi di Davide il lato fittizio del
suo racconto. A ciò si aggiunge la situazione nella quale Davide si tro­
va quando è messo a confronto con questa storia, storia alla quale l’au­
torità del profeta della promessa (cf. 2Sam 7) deve pure dare un peso
particolare, oltre a una certa credibilità.27 Ma, come sottolinea Jan
Fokkelman, la reazione irruenta del re («si adirò»), sia pure prepara­
ta dallo spettacolare lavoro narrativo di Natan, ha qualcosa di eccessi­
vo. L’ira lo fa uscire dal ruolo di giudice per far spazio alla perdita di
controllo, segno che Davide è sempre sotto pressione in seguito all’a­
dulterio e all’eliminazione del marito tradito, di cui si è parlato nel pre­
cedente capitolo. Esplodendo letteralmente davanti alla storia che Na­
tan gli espone, può essere che Davide manifesti non soltanto la sua in­
dignazione e la sete di giustizia, ma anche un oscuro desiderio di ri­
abilitarsi ai propri occhi come re giusto cercando di equilibrare l’ec­
cessiva ingiustizia di ieri con una giustizia altrettanto eccessiva.28 La
strategia narrativa di Natan è riuscita a toccare Davide e a risvegliare
la sua parte migliore, in modo che egli possa, per così dire, ritrovare
se stesso.

27 Cf. lo sviluppo di F o k k e lm a n , King D avid (II Sam. 9-20 & I Kings 1-2), 76.
28 In tal senso F o k k e l m a n , King D avid (II Sam . 9-20 & I Kings 1-2), 76-77.

233
2.3. Quando la fiction fa vedere la verità
Calcando un po’ i tratti, questo testo fa vedere come un racconto di
fiction, pur senza voler veramente dissimulare il suo carattere fittizio,
possa essere accolto come se rinviasse a un fatto reale, purché il nar­
ratore si mostri particolarmente abile nel saper attirare il lettore nel
mondo del suo racconto, e purché l’uditore o il lettore, per un motivo
o per l’altro, sia pireparato ad ascoltare la storia in questo modo.
Ma non abbiamo lì il solo rapporto tra la storia di Natan e la realtà
- intradiegetica, naturalmente - del libro di Samuele. C’è anche quan­
to il profeta indica chiaramente a Davide lasciando cadere la mannaia,
dopo le sue parole di infuocata condanna: «Sei tu, quell’uomo» (v. 7a].
Queste brevi parole aprono a Davide gli occhi. Anzitutto gli tolgono il
velo circa il carattere fittizio della storia, sulla quale si è appena pro­
nunciato. Ma gli mostrano al tempo stesso che questo racconto fittizio
rinvia a una realtà cui il re non pensava, e che essa non ha niente di
fittizio! Lo obbligano quindi a interpretare sia il racconto fittizio sia la
realtà che lo riguarda. Così, alcune parole del racconto svelano il loro
doppio significato, finora inavvertito da Davide: sono le quattro parole
che, al v. 3, puntualizzano la descrizione molto emotiva della relazione
tra il povero e la pecorella («mangiava, beveva e dormiva [...] come una
figlia [òat]»). Esse rinviano alle parole di Uria che ha rifiutato di anda­
re a incontrare Bat-sheva secondo l’invito di Davide (11,11), ma anche
alle manovre del re per condurvelo contro il suo volere (11,13). Dopo
questo richiamo, il finale del racconto di Natan non fa che sottolineare
la crudele disumanità di cui Davide si è reso colpevole in seguito alla
resistenza del marito tradito, allo scopo di salvare le apparenze, pro­
prio come il ricco. Ma affinché la fiction svolga efficacemente il suo ruo­
lo di verità, non è tuttavia necessario che essa ricalchi la realtà che cer­
ca di denunciare.29 Basta che miri al cuore. La rilettura del passato re­

29 La strategia n arra tiv a di N atan gli im pone di p ren d ersi im a certa libertà con la
realtà colta attraverso la fiction: come sottolinea S t e r n b e r g , The Poetics o f Biblical N ar­
rative. Ideological Literature and thè D rama o fR eading, 429, il n a rra to re intradiegeti-
co rim odula i fatti a modo suo così che l’ascoltatore non possa cogliere di colpo (imme­
diatam ente) l’analogia con la p ro p ria situazione e quindi resti «oggettivo» nel giudizio
che dà su quanto gli viene raccontato. È in gioco la riuscita della strategia del locutore.
In tal senso anche U . S i m o n , «The Po or M an's Ewe Lanib», 221 e 226.

234
sa inevitabile da quanto la fiction ne ha svelato, farà il resto, come di­
mostra il seguito del discorso di Natan (12,7b-12‫ ־‬soprattutto w. 9-10).
A questo punto vediamo meglio che la fiction di Natan nascondeva
agli occhi di Davide una realtà che egli non voleva vedere. Una volta tol­
ta la maschera, Davide non può più rifiutarsi di guardare questa real­
tà in faccia, tanto più che ha appena mostrato le sue qualità di cuore e
il suo desiderio di giustizia. Ma credendo alla realtà del fatto racconta­
to nel racconto fittizio del profeta, il re si avviava già verso la propria
verità. Come scrive Fokkelman,30 «mentre Davide immagina che la sto­
ria è realmente accaduta, la verità è già all’opera in lui. Dal punto di vi­
sta di Natan, la fiction, resa operativa e attraente da mezzi letterari, è
il veicolo ideale della verità [...]».
Quando si tratta di condurre un essere alla sua verità nascosta, la
fiction dà prova di un’efficacia tremenda. Ha infatti il potere di assu­
mere il reale senza farsene asservire, in modo da poterlo rimodellare
per strappare il velo delle apparenze, per passare oltre il rifiuto o l’in­
capacità di guardare le cose in faccia, e far venire alla luce la verità na­
scosta. Tanto più che quanto vale per Davide all'interno del racconto
potrebbe valere ugualmente per il lettore della sua storia. Certo, il nar­
ratore della storia di Davide si adopera per mettere il suo lettore in una
posizione superiore rispetto a quella del re. Dandogli accesso al giudi­
zio di Dio (ll,27b) e al motivo della venuta di Natan (12,la), lo dota di
un sapere nettamente superiore che gli permette di godere dell’ironia
della situazione. Il lettore è così in grado di comprendere che la storia
di Natan ricama sugli eventi riportati nel capitolo precedente, ed è
dunque in grado di cogliere immediatamente che Davide, al v. 5, pro­
nuncia la sua propria condanna. Ma non goda troppo in fretta nel ve­
dere che il re è preso in trappola. Infatti quando Natan apre gli occhi
del re dicendo «Tu sei quell’uomo!», in modo inatteso il lettore può
sentirsi indicato da quel «tu»; può trovarsi così implicato nella faccen­

30 F o k k e l m a n , King D avid (IISam . 9-20 & I Kings 1-2), 81. Rinvia alla versione ingle­
se dell'articolo di P. R ic c eu r , «H erm éneutique de l’idée de révélation». Cf. P. R ic c eu r et al,
La révélation, Facultés Universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1977, 15-54: «Il paradosso
più estrem o è questo: quando il linguaggio si spinge il più lontano possibile nella fiction
[...] arriva a dire le cose più vere, perché ridescrive la realtà troppo conosciuta, sotto i tra t­
ti nuovi della favola. Fiction e ridescrizione, in questo, vanno di p ari passo» (p. 40).

235
da come un «uomo» tormentato dalla concupiscenza al pari di Davide
e, come quest’ultimo, raramente esente da dissimulazione, ingiustizia
e insensibilità verso gli altri.31 Tocca allora a lui rileggere la storia del
c. 11 per vedere se in qualche modo non si applichi a lui. Forse si po­
trebbe arrivare a dire questo: il narratore conferisce al lettore nei con­
fronti di Davide una posizione superiore della stessa natura di quella
di cui quest’ultimo gode nei confronti dei personaggi nel racconto; lo
fa per meglio attirare il lettore in una trappola, conducendolo cioè a
incriminare Davide prima di trovarsi lui stesso accanto al re sul ban­
co degli accusati.32

3. Conclusione
In questo caso avremo notato che lasciando le regole della storio­
grafia e adottando le tecniche della fiction il narratore della storia di
Davide può preparare il suo lettore a un interrogativo esistenziale si­
mile alla questione con la quale Davide si deve scontrare. Così, a due
livelli, il testo illustra il potere di verità della fiction. Non una verità che
corrisponde a quella dei fatti, ma la verità che è quella di chi accoglie
la storia e si apre a essa. Come afferma J. Fokkelman a proposito del­
la parabola di Natan, «anche se la realtà contenuta nella storia rac­
contata può essere nulla, la verità che contiene è massima. La para­
bola non mostra la realtà di Davide, ma mostra tuttavia la verità della
sua realtà».33 In questo senso, quanto secondo noi corrisponde all’in­
tenzione profonda di questi racconti è analogo allo scopo del profeta
Natan quando propone al re la sua storia. Così, come Natan non an­
nuncia il genere letterario né !,intenzione della storia che racconta, la­
sciando che Davide creda alla sua «realtà», allo stesso modo, il narra­
tore della storia detta deuteronomista inizia la sua storia lasciando il
suo lettore senza «contratto di lettura» esplicito che lo avverta dello

31 Cf. King and Kin. Politicai AUegory in thè Hebrew Bible, 4 0 , s e g u i t o d a


R o sen ber g ,
H.S. D avid as Reader. 2 S a m u el 12:1-15 a n d thè Poetics o f Fatherhood, 93-94.
P y peh ,
32 R. P o l z in , D avid and thè D euteronom ist. P art Three. 2 Sam uel, 1 2 0 , c h e a l l e p p .
1 2 7 - 1 3 0 m o s t r a c o m e i l e t t o r i o r i g i n a r i d e l r a c c o n t o s i t r o v a s s e r o a n c h ’e s s i c o n d a n n a t i
d a lle p a r o le d i N a ta n .
33 F o k k e lm a n , King D avid (Il Sam. 9-20 & I Kings 1-2), 8 1 -8 2 .

236
scopo non primariamente storiografico del suo racconto (invece, clas­
sificando questi racconti nella categoria dei «profeti» o dei «libri stori­
ci», i canoni ebraico e greco inducono a un certo tipo di lettura di que­
sti libri). Infatti, secondo noi, l’intenzione è meno di raccontare la sto­
ria, come sostiene Sternberg, che di proporre al lettore, mediante una
storia, un percorso di verità in vista della trasformazione del suo es­
sere grazie al potere che la fiction possiede di far emergere ciò che ri­
marrebbe molto spesso interrato nell’opacità caratteristica di ogni
realtà umana. Tutto ciò, purché il lettore consenta a esporsi alla veri­
tà del racconto, adottando un atteggiamento che potrebbe sottilmente
proteggerlo dal leggere questo racconto come una storiografia che fon­
da, tra le altre cose, il monoteismo, il senso dell'identità nazionale o il
diritto alla Terra.34

34 Come s c r i v e S t e r n b e r g , The Poetics o f Bìblical N arrative. Ideological Literature


and thè D rama ofR eading, 32.

237
Capitolo decimo

IL SERPENTE DI NM 21,4-9
E DI GEN 3,1.
INTERTESTUALITÀ
ED ELABORAZIONE
DEL SIGNIFICATO
André Wénin

«Ogni testo richiama alla memoria del lettore, della lettrice, altri
testi». Questa frase enuncia l'essenza dell’intertestualità, «un proce­
dimento che spezza la linearità della lettura sollecitando, nei lettori,
la memoria di altri testi letti o ascoltati precedentemente».1 Se l’ese­
gesi storica affronta questo fenomeno dal lato del problema delle fon­
ti o delle influenze redazionali reperibili in un testo - dunque di un
processo da situare dalla parte dello scrittore -, i metodi letterari
orientano l’attenzione dalla parte del lettore e degli effetti di signifi­
cato prodotti in lui dal reperimento di similitudini, di echi, di riferi­
menti indiretti. Dalla citazione identificata come tale alla semplice re­

* Prim a pubblicazione in: T. R ó m e r (ed.), The Books o fL evìticu s and Num bers, Pee-
ters, Leuven-Paris-Dudley 2008, 545-554.

1 D. M a r g u e r a t - A. C u r t i s , «Préface», in Io. (edd.), In tertextualités. La Bible en


échos, Labor et Fides, Genève 2000, 5-11, dove si p o trà trovare u n a sintetica p resen ta ­
zione di ciò che è l’intertestualità. Cf. anche la p resentazione un p o ’ più dettagliata e
ad attata all’Antico Testam ento di C . N ih a n , «De la loi comme pré-texte. Tours et détours
d’une allusion dans le débat exilique su r la royauté en 1 Sam uel 8-12», in M a r g u e r a t -
C u r t is (edd.), Intertextualités. La Bible en échos, 43-72 (in particolare pp. 43-57).

239
miniscenza, dalla ripresa di una struttura all’analogia della trama, in­
fatti, una vasta tavolozza di molteplici fenomeni lega i testi tra di lo­
ro, sollecitando la memoria del lettore e mettendo alla prova la sua
sagacia, esigendo, in ogni caso, la sua partecipazione attiva nella co­
struzione del significato - cosa che diventa costringente nel caso di
una «intertestualità obbligatoria», secondo il termine di Michel Riffa-
terre, cioè «quando il significato dipende dall’intertesto».2 Essendo la
Bibbia, secondo Paul Ricoeur, «il più grande intertesto vivo»,3 i giochi
di echi tra i testi vi abitano in numero così grande e vario da richie­
dere grande attenzione del lettore preoccupato di entrare nella so­
stanza di ciò che legge.
Il caso si presenta in particolare quando un piccolo racconto indi-
pendente, corrispondente a una «pericope», appartiene a una narra­
zione più lunga, come il lungo racconto che va dalla Genesi fino alla
fine del Secondo libro dei Re. Nello studio narrativo di questo breve
racconto, tale contesto «vasto» può fornire alcuni elementi che apro­
no a un sovrappiù di significato mediante il legame con altri episòdi
che invita a prendere in considerazione. Lo mostreremo prendendo
spunto dal breve racconto detto «del serpente di bronzo» in Nm 21,4-
9. Esamineremo inizialmente il racconto in se stesso per evidenziare
alcuni tratti di costruzione del senso a partire da uno sguardo sulla
struttura narrativa e sulle ripetizioni. Mostreremo in seguito come un
accostamento tra questo racconto e la figura del serpente di Gen 3
permetta di scoprirvi altre armonie aprendo a un’altra dimensione del
suo significato.

1. Il serpente di bronzo (Nm 21,4-9)


Il racconto del serpente di bronzo è l’ultimo degli episodi di ribel­
lione di Israele nel deserto. L’ultimo, ma anche il più conciso, il più sti­
lizzato. Nel testo, l’unità letteraria è molto ben delimitata. L’inizio è in­
fatti segnalato da uno spostamento del popolo che si allontana da un

2 M . R if f a t b r r e , «La trace de lJintertexte», in La Pensée 215(1980), 4-1 8 (citazione


p resa dal sommario); egli la m ette in contrapposizione con l'intertestualità «aleatoria» che
il lettore può identificare, m a senza che sia posto in gioco il significato stesso del testo.
3 La frase è di M a r g u e r a t - C u r t i s , «Préface», 9 .

240
luogo dove si trovava (v. 4: «Si mossero dal monte Or»); alla fine è ri­
preso lo stesso verbo per segnalare un nuovo spostamento verso Obot,
dove il popolo stabilisce il suo campo: «Gli Israeliti si mossero e si ac­
camparono a Obot» (v. 10). L’incidente raccontato avviene precisa-
mente tra queste due tappe, «lungo il cammino». Ecco una traduzione
precisa del racconto.
4Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar dei Giunchi, per
aggirare il territorio di Edom e il popolo perse animo/pazienza durante
il viaggio. 5Il popolo parlò contro Elohim e contro Mosè: «Perché ci ave­
te fatto salire dalVEgitto per morire in questo deserto? Perché qui non
c'è né pane né acqua e la nostra gola è nauseata da questo cibo di mi­
seria». 6E Adonai mandò fra il popolo serpenti brucianti e morsero il po­
polo, e morì un popolo numeroso da Israele. 7Il popolo venne da Mosè
e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore
(Adonai) e contro di te; prega Adonai che allontani da noi il serpente».
Mosè pregò per il popolo. 8Il Signore (Adonai) disse a Mosè: «Fatti un
bruciante e mettilo sopra un’asta; ogni morso che lo vedrà vivrà». 9E
Mosè fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta: se il serpente
mordeva un uomo, (questi) guardava il serpente di bronzo, e viveva.
10Gli Israeliti si mossero e si accamparono a Obot.

1.1. Struttura narrativa del racconto


Dal punto di vista narrativo, il racconto ha una struttura molto sem­
plice. Proponiamo una prima lettura che la segue passo a passo. Al v.
4, Vesposizione evoca brevemente le circostanze dell’incidente: nel
corso di una nuova tappa del cammino nel deserto, sembra che il po­
polo ritorni sui propri passi, poiché, in seguito al rifiuto di Edom di la­
sciarlo passare, riprende la via del Mare dei Giunchi (o Mar Rosso) che
ha attraversato per uscire dall'Egitto (Es 13,18; 15,4.22).4 È questo fat­
to a determinare il suo scoraggiamento? In realtà, l’espressione ebrai­
ca non è chiara. È detto che la nefesh del popolo diventa «corta», cioè
il suo «respiro» o il suo «desiderio», la sua «volontà», o se vogliamo la

* In tal senso, G .B . G ra y , Num bers, T&T Clark, E dinburgh 1903, 277. J. S c h a h b e r t,


N um eri, E chter Verlag, W urzburg 1992, 84, fa ugualm ente il collegamento con il rifiuto
di Edom.

241
sua «vita», la sua «anima». Secondo alcuni si tratta di impazienza,5 se­
condo altri di scoraggiamento, frutto di un desiderio frustrato;6 per al­
tri ancora di un’incapacità a contenere la propria ira o la propria rab­
bia.7 A questo punto del racconto è difficile decidere.
La complicazione ha inizio al versetto 5: il popolo esprime il suo
sentimento sotto forma di una critica, rivolta a Elohim e a Mosè in uno
stesso movimento (usando il «voi»).8 Il rimprovero mette in causa l’a­
zione congiunta di questi due attori in rapporto al popolo. Il contenu­
to non è nuovo: secondo i contestatori, la liberazione dall’Egitto volu­
ta da Adonai e da Mosè non ha come scopo la vita, ma la morte del po­
polo. Il popolo ne vede un segno nell’assenza di pane e di acqua, cioè
di un nutrimento di base indispensabile alla vita. Però, contrariamen­
te ad altre scene analoghe, in cui il narratore registra una mancanza
e fornisce così una base «oggettiva» alla critica del popolo (per esem­
pio Es 15,23; 17,1; Nm 20,2), qui nulla indica che la penuria di cui gli
israeliti si lamentano sia giustificata da una reale mancanza. Infatti il
narratore ha precisato fin dall’inizio, al v. 4b, che qui è in causa so­
prattutto lo stato d’animo del popolo.
A questo proposito, la parte finale delle parole del popolo è rivela­
trice. Lì infatti il popolo corregge la sua critica: ammette che c’è pane
da mangiare, ma lo qualifica negativamente. Il termine qui usato,
qHoqel, non è impiegato in nessun’altra parte nella Bibbia ebraica, e
il suo significato non è chiaro, anche se la maggioranza degli autori
pensa che questo termine vada compreso a partire dal verbo qalal,
«essere leggero». Tuttavia anche questa ipotesi non permette di preci­
sare l’esatta portata della sua qualifica negativa: è un pane di miseria,
un nutrimento ricevuto con parsimonia, o ancora troppo leggero per

5 T.R. A s h le y , The Book ofN um bers, E erdm ans, G rand Rapids 1993, 401, o B.A. L e ­
N um bers 21-36. A N ew Translation w ith Introduction and Commentari/, Double-
v in e ,
day, New York 2000, 86; essi rinviano p er esem pio a Es 6,9; Gdc 10,16; 16,16; Zc 11,8;
Gb 21,4.
6 In questo senso, S c h a r b e r t , N umeri, 84, o J. d e V a u lx , Les Nombres, Gabalda, Pa­
ris 1972, 234.
7 Così G ra y , N um bers, 277, che propone di tra d u rre non «in via», m a «a causa del­
la via».
8 L’espressione «parlare contro» (dibbér be-) è caratteristica delle ribellioni del po­
polo (Nm 12,1.8; 16,13-14).

242
bastare a saziare il popolo?9 Diffìcile determinare la sfumatura esatta.
Comunque, il senso generale è abbastanza chiaro per far capire che ciò
che scatena la critica del popolo non è tanto un problema obiettivo
quanto il suo stato d’animo in rapporto a ciò che sta vivendo.10 Del re­
sto questa cosa è sottolineata da un gioco dì parole tra l’espressione
descrittiva del narratore «e fu corta la nefesh del popolo» (v. 4b) e il
modo in cui il popolo qualifica il suo stato d’animo: «la nostra nefesh
è nauseata» (v. 5b): la sua gola (o anche il suo appetito) ha la nausea.
Ecco allora che cosa «rende corto» il suo «desiderio», che cosa gli fa
perdere coraggio o pazienza.
La reazione divina raccontata al v. 6 costituisce il secondo momen­
to della complicazione. Alla critica formulata contro Elohim (v. 5a), ri­
sponde Adonai. Il cambiamento del nome divino è già significativo; po­
trebbe già suggerire che, criticandolo, il popolo tratta il Dio con il qua­
le si è alleato come una divinità anonima Celohim), dalle intenzioni po­
tenzialmente malevole. Ma è proprio «il suo» Dio, Adonai, che reagi­
sce, e lo fa mandando fra il popolo serpenti il cui morso bruciante ope­
ra devastazioni e semina morte. In realtà, il verbo è più preciso. La co­
niugazione particolare usata in ebraico per il verbo shalah (il piel) può
far capire che Adonai «lascia andare» i serpenti, a loro «lascia libero
corso». Vorrebbe dire che fino a quel momento Adonai tratteneva i ser­
penti e adesso li libera contro il popolo ribelle.
Terzo momento della complicazione: il nuovo intervento del popo­
lo che si rivolge a Mosè in termini ben diversi dai precedenti (v. 7a).
Alludendo alle sue parole precedenti, il popolo confessa che la sua cri­
tica costituisce un peccato contro Dio - chiamato questa volta Adonai
- e contro la sua guida. Con questo nuovo atteggiamento riconosce con­

9 Secondo D e V a u lx , Les Nombres, 235 e J. S tu r d y , N um bers, Cam bridge University


Press, London-New York-Melboume 1976, 148, il cibo non è sufficiente. Per H. S e e b a s s ,
N um eri, N eukirchener Verlag, N eukirchen 1993-2002, 313, il cibo è troppo leggero p er
dare forza al corpo.
10 In questo senso, A s h le y , The Book o f N um bers, 404 e L e v in e , N um bers 2 1 -36. A
N ew Translatìon w ith Introduction and Commentary, 87, sottolineano giustam ente il di­
sprezzo di cui il popolo dà prova davanti alla m anna.
temporaneamente che Adonai e Mosè, lungi dal desiderare la sua mor­
te, come erano stati accusati, rappresentano invece una difesa dalla
morte: Mosè mediante la sua intercessione e Adonai con il suo potere
di allontanare il serpente. Parlando in questo modo, il popolo riabilita
de facto i due attori cui erano rivolte le sue critiche, indirettamente
perché riconosce una colpa nei loro riguardi e direttamente appellan­
dosi a loro perché cessi il flagello che lo colpisce a causa del proprio
peccato. Dunque, agli occhi del popolo l’unica possibilità di una solu­
zione positiva dipende dall’azione congiunta dei due personaggi cui
era rivolta la critica iniziale.
Accettando l’invito del popolo a intercedere a suo favore, Mosè av­
via l’azione decisiva (w. 7b-8) consistente in una parola nuova, que­
sta volta di Adonai. Quest’ultimo indica a Mosè come procedere per ot­
tenere la salvezza richiesta, che si realizzerà in un modo diverso da
quello che il popolo immagina:11 Adonai non caccerà il serpente, come
Israele spera. Preferisce segnalare, per chi sarà morso dal serpente, un
modo per sfuggire alla morte. Invece di una salvezza collettiva, Adonai
presenta un metodo nel quale ognuno è chiamato a implicarsi perso­
nalmente, primo fra tutti Mosè. Lui stesso criticato, potrebbe infatti ri­
fiutarsi di fare quanto Adonai propone e in tal modo abbandonare il
popolo alla morte. Ma in seguito, se Mosè eseguirà il comando di Dio,
la vita di ogni individuo dipenderà da se stesso, più precisamente dal­
lo sguardo con cui vedrà il «bruciante» posto sulla sommità di un’asta
e la cui presenza sarà un segno (nès).12 II metodo salvifico proposto da
Adonai non avrà nulla di magico né di passivo, ma si realizzerà a prez­
zo della cooperazione di ognuno al restauro della vita.
L’epilogo (v. 9) dimostra la verità della parola divina, grazie a Mo­
sè che esegue quanto Adonai gli ha detto, come sottolineano le corri­
spondenze tra ordine ed esecuzione:

11 Si veda a questo proposito T.E. F r e th e im , «N umbers», in J. B a b to n - J. M uddim an


(edd.), The O xford Bible Commentary, University Press, Oxford 2001, 110-134, so p rat­
tutto 125-126.
12 II term ine usato qui è spesso tradotto con. «asta», m a il suo significato è « b an ­
diera, stendardo, insegna», com unque un oggetto destinato a «segnalare, avvertire» e
quindi ad attirare lo sguardo. Cf. p e r esempio: G ra v , N um bers, 278: D e ·V aulx, Les Nom-
bres, 235; o ancora A s h le y , The Book o f N um bers, 405.

244
Ordine del Signore (Adonai) Esecuzione (v. 9)
(v. 8)
«Fatti un bruciante Mosè fece un serpente di bronzo
e mettilo sopra un’asta, e lo mise sopra l’asta
e sarà morso e lo vedrà e se- il serpente mordeva un uomo,
vivrà [wahay)». guardava il serpente di bronzo
e viveva (wahay).

Secondo l’ordine ricevuto, Mosè innalza su un'asta il serpente che


ha fatto di bronzo.13 In ebraico, l’espressione nehash nehoshet, ripetu­
ta due volte, costituisce un gioco di parole: si può tradurre letteral­
mente «serpente serpeggiante» (ossia la quintessenza del serpente).
Evidentemente essa rafforza l’allusione ai serpenti, a causa del cui
morso il popolo muore. Secondo la parola di Adonai, la presenza di
questo segno non ha lo scopo di allontanare i serpenti o di privarli del
loro potere mortifero. Funziona piuttosto come un segno dato da Mo­
sè, destinato a essere visto nella misura in cui è proprio il vedere che
deve far vivere. Ma, per gli israeliti, questo «vedere» 0va’ah) suppone
concretamente un «guardare» (nabat all’hifìl), cioè un movimento con­
sistente nel dirigere gli occhi verso il segno.
Una volta dato l’ordine a Mosè, Adonai rimane del tutto inattivo.
Solo il suo mediatore ha accesso alla sua parola; il popolo ne vedrà uni­
camente il risultato: esattamente il serpente issato sull’asta. Quindi,
guardare il serpente di bronzo significa dar fiducia a Mosè il quale,
senza che ciò sia chiaramente illustrato al popolo, interviene come
agente del Dio nascosto, al quale i peccatori colpiti hanno appena ri­
conosciuto il potere di tener lontana la morte.

13 La variazione fra i term ini che indicano il serpente ai w . 8-9 è diffìcile da spie­
gare. M entre sono «i serpen ti brucianti» (h anneha$him hasserafìm) che uccidono il po ­
polo (v. 6), A donai chiede di fabbricare un «bruciante» (saraf, v. 8), e Mosè fa un «ser­
pente di bronzo» (nehash nehoshèt, v. 9). Il term ine usato da A donai significherebbe in
particolare ciò che, nei serpenti, fa m orire, cioè il m orso b ruciante? Da p arte su a Mosè
deve p u r dare u na realtà concreta a questo, e lo fa realizzando un serpente di bronzo.

245
1.2. Struttura logica del racconto
Possiamo opportunamente completare questa prima lettura della
narrazione con un rapido sguardo alla struttura logica del racconto. A
partire dal v. 7 abbiamo un netto capovolgimento. Diversi richiami ver­
bali sottolineano un’opposizione tra due parti parallele. La prima par­
te del racconto (w. 5-6) comprende tre tappe: (a) il popolo parla con­
tro Dio e Mosè; (b) Adonai reagisce liberando i serpenti e (c) questi col­
piscono a morte Israele. Nella seconda parte le cose si capovolgono:
(a’) il popolo pronuncia una nuova parola per riconoscere che il suo
primo intervento era peccaminoso; (b’) in seguito all’intervento di Mo­
sè, Adonai dice cosa conviene fare per vivere; (c’) dopo che Mosè ha
eseguito quanto Dio gli ha chiesto, il morso del serpente non è più mor­
tale. La tavola che segue evidenzia le corrispondenze.

5Il popolo parlò contro Elohim e 7Il popolo venne da Mosè e disse:
contro M osè: «Abbiamo peccato perché abbiamo
«Perché ci avete fatto salire dall’Egit­ parlato contro Adonai e contro di
to per morire nel deserto? [...!». te [...] prega Adonai che allontani da
noi il serpente».

Mosè pregò per il popolo.


6E Adonai mandò fra il popolo ser­ 8Il Signore (Adonai) disse a Mosè:
penti brucianti «Fatti un bruciante e mettilo so­
pra un’asta; ogni morso che lo ve­
drà vivrà».
9E Mosè fece un serpente di bronzo
e lo mise sopra l’asta.
e morsero il popolo e morì un po­ E se il serpente mordeva un uomo
polo numeroso da Israele. (questi) guardava il serpente di
bronzo e viveva.

Uno sguardo alla tabella permette di sottolineare altri due elemen­


ti. Il primo riguarda la massiccia presenza di Mosè nella seconda par­
te. Se il popolo lo squalifica, lo emargina con la sua critica iniziale, gli
restituisce poi il suo posto centrale facendone un intercessore presso
Adonai. Da quel momento, Mosè occupa a pieno titolo una posizione
di mediatore facendo di volta in volta ciò che gli chiedono il popolo e

246
poi Adonai. Insomma, egli è messo fuori gioco dagli israeliti, ma, ap­
pena essi accettano di restituirgli il suo posto, torna ad avere un ruo­
lo capitale nel processo che permette ai peccatori di vivere.
Dalla lettura della tabella si evidenzia un secondo elemento impor­
tante. Confrontando le due parti, ci accorgiamo che sono operanti due
logiche opposte: quando il popolo rimprovera a Dio la sua intenzione
occulta di farlo morire (v. 5: verbo mut), è abbandonato alla morte da
colui che esso accusa di volere la sua morte (v. 6b: stesso verbo). Quan­
do invece afferma la propria convinzione che Adonai è in grado di al­
lontanare ciò che provoca la morte e fa quanto quest’ultimo dice per­
ché viva (v. 8: wahay, vivrà), effettivamente vive (v. 9b: la stessa forma
wahay deve essere tradotta qui «viveva» in funzione della posizione
sintattica del verbo. I fatti accadono come se Adonai si conformasse al-
rimmagine che Israele si fa di lui.

2. Le concatenazioni: domande senza risposta


Dato questo duplice sguardo d’insieme, ci dobbiamo interrogare
sulle concatenazioni del racconto. Infatti, benché nulla manchi allo
svolgimento della trama, che sembra perfettamente scorrevole, la so­
brietà della narrazione lascia del tutto in ombra alcuni elementi lega­
ti al significato fondamentale di quanto è narrato.
Una prima domanda scaturisce dal nesso intertestuale tra Nm 21,4-
9 e altri episodi anteriori del libro dei Numeri in cui, come nel nostro
racconto, il popolo afferma di rimpiangere l’Egitto e in cui appare chia­
ramente che Dio lo castiga con le cose con cui ha peccato. In Nm 11,
il popolo assalito dalla bramosia (v. 4) si mette a piangere e a recla­
mare la carne affermando di rimpiangere il buon cibo con cui si sa­
ziava in Egitto e di provare disgusto per la manna. Rispondendo final­
mente a queste suppliche, Adonai manda una gran quantità di quaglie,
ma il popolo muore per aver voluto soddisfare ingordamente il suo ap­
petito (w. 32-33). Il narratore lo sottolinea nella parte fìnal^: «Egli
[Adonail chiamò quel luogo col nome di Kibrot-Taavà - sepolcri di bra­
mosia - perché là seppellirono il popolo che si era abbandonato alla
bramosia» (v. 34). In Nm 14, gli israeliti non vogliono entrare nella ter­
ra promessa e rimpiangono di non essere morti nel deserto: «Fossimo
morti in terra d’Egitto o fossimo morti in questo deserto! Perché il Si­
gnore (Adonai) ci fa entrare in questa terra per cadere di spada? [...]»

247
(w. 2 b 3 ‫)־‬. Adonai 11 prenderà in parola e li condannerà a morire nel
deserto come pare che desiderino (w. 27-29). Dio stesso lo esplicita:
«Così come avete parlato alle mie orecchie, io farò a voi! I vostri ca­
daveri cadranno in questo deserto, voi tutti [...] quanti avete mormo­
rato contro di me» (w. 28-29). Questo rapporto tra colpa e castigo, ap­
pena illustrato per due volte, non pare verificarsi in Nm 21,4-9. Nasce
la domanda: esiste un nesso - e se sì, quale? - tra la critica del popo­
lo e il fatto che Adonai mandi i serpenti che seminano la morte?
Un altro dubbio si inserisce tra l’intervento dei serpenti e la con­
fessione del suo peccato da parte del popolo. Infatti, il narratore non
dice nulla sul modo in cui il popolo prende coscienza d’aver peccato né
spiega in alcun luogo il suo rapido voltafaccia. Gli israeliti hanno ap­
pena rimproverato a Dio la sua volontà di morte (v. 5), quando pare
che credano che solo lui è in grado di allontanare i serpenti che pro­
vocano la morte (v. 7). Sarebbero dunque i serpenti a provocare la lo­
ro conversione?
Infine, la finale del racconto è quanto più succinta possibile: «Se
questi guardava il serpente di bronzo, viveva». C’è un intrinseco rap­
porto tra il fatto di guardare il serpente innalzato da Mosè e il fatto di
vivere, o si tratta soltanto di un processo miracoloso, forse magico,
provocato dal bronzo di Mosè - interpretazione esplicitamente pro­
spettata, ma sconfessata dall’autore della Sapienza di Salomone nel
suo breve commento a questo racconto: «Chi si volgeva a guardarlo era
salvato non per mezzo dell’oggettò che vedeva, ma da te, Salvatore di
tutti» (Sap 16,7)?u
Invano cercheremo la risposta a questi interrogativi nel racconto di
Nm 21. Il narratore non stabilisce alcun rapporto esplicito tra la criti­
ca del popolo e l'invio dei serpenti. L’arrivo dei rettili e la morte che
essi infliggono al popolo sono semplicemente seguiti dalla confessione
del peccato: il popolo sembra considerarlo un castigo divino, è dopo
confessa il suo peccato; il nesso non è stabilito esplicitamente. Infine,

14 La spiegazione può variare secondo il piano in cui ci si pone. Un significato a n ­


tico possibile è evidentem ente l’effetto magico del serpente dalle virtù curative (B.A. Le-
vinb, Num bers 21-36. A N ew Translation w ith Introduction and Comm entary, §9). Ma è
chiaro che, nel racconto così come lo leggiamo in Nm 21, la guarigione è il frutto della
conversione che lo sguardo esprim e ( S c h a r b e r t, N um eri, 84). In tal senso cf. S e b b a ss, N u­
meri, 325-326.

248
la sola vista del serpente permette di vivere a chi è stato morso, senza
che il racconto fornisca spiegazioni sul processo di guarigione.

3. Il serpente di bronzo e il serpente di Gen 3


Proprio qui un accostamento intertestuale interno alla Torah per­
metterà al lettore di andare oltre nell’interpretazione di ciò che il rac­
conto narra e di chiarire le questioni che esso lascia senza risposta.15
In questo breve racconto, il termine «serpente» (nahash) ritorna cin­
que volte, tante quante in Gen 3,1-14. Due volte poi, in Nm 21, l’e­
spressione ridondante nehash [han]nehoshet risuona nel finale del rac­
conto, al v. 9, come per suggerire che in questo testo si tratta del Ser­
pente per eccellenza. Questo rapporto intertestuale è stato sfruttato dal
Targum di Nm 21: parlando al popolo, la voce divina fa il legame tra i
serpenti che puniscono il popolo per aver recriminato a causa del nu­
trimento troppo leggero e il serpente dell’Eden che, al contrario, non si
è lamentato di dover mangiare la polvere: «Una volta, ho maledetto il
serpente e gli ho detto: “La polvere sarà il tuo nutrimento" [cf. Gen
3,14]! Ho fatto salire il mio popolo dal paese d’Egitto e ho fatto scen­
dere per essi la manna del cielo [...]. E il mio popolo si è messo a mor­
morare davanti a me a proposito della manna che sarebbe un cibo
troppo leggero! Venga (dunque) il serpente che non ha mormorato a
causa del suo cibo e domini sul popolo che ha mormorato a causa del
suo cibo! Per questo YHWH lanciò contro il popolo i serpenti brucian­
ti 16
Il rapporto operato dal Targum non è l’unico possibile in fatto di
nesso tra la critica di Israele e l'invio dei serpenti. Infatti, fin dalle pri­

15 La Torah p arla poco di serpenti. Giacobbe p arag o n a D an a u n serpente che. sul­


la strada, m orde i garretti del cavallo facendo precipitare a te rra il suo cavaliere (Gen
49,17) - e questo è seguito dalla p reg h iera «Io spero nella tu a salvezza, Adonai» (v. 18);
in Es 4,3 e 7,15, il bastone di Mosè si m u ta in u n serpente sul quale Mosè h a potere (in
Nm 21, inoltre trasform a un serpente in oggetto rigido); infine, Dt 8,15 può essere letto
come un richiam o dì Nm 21,6, dato che Mosè vi descrive il deserto come il luogo del
«serpente bruciante».
16 II testo del Targum N eofiti di Nm 21,6 è citato nella versione di R. L e D e a u t, Tar­
gum du P entateuque III. Nombres, Cerf, Paris 1979, 192. La versione dello Pseudo-Jo­
nathan (p. 193) precisa che l’episodio del serp en te è collocato «nei giorni (antichi) del­
le origini del mondo».

249
me parole del popolo si fa strada un altro accostamento con il serpen­
te della Genesi. Cosa fa quest’ultimo quando inizia a parlare in Gen
3,1? Evoca il nutrimento dato da Dio: «Veramente Dio ha detto: “Non
mangerete di tutti gli alberi del giardino?” [...]». In questa sede è im­
possibile analizzare dettagliatamente questa parola divina.17 Conside­
reremo dunque solo questo: a proposito di nutrimento - di quanto per­
mette di vivere -, il serpente getta il sospetto su Dio. Mentre egli ha da­
to all’uomo tutti gli alberi del giardino eccetto uno, il serpente omette
di ricordare questo dono e attira l’attenzione su ciò che Dio non ha do­
nato. Ma formula la frase in modo tale che è possibile intendere che
Dio ha proibito di mangiare di ogni albero: del resto la donna capirà
proprio in questo modo, poiché essa rettifica rispondendo al serpente
che, al contrario, essi mangiano degli alberi del giardino (Gen 3,2b).
Se è così, sulle labbra del serpente Dio appare come un essere male­
volo che impedisce di mangiare e dunque di vivere.
Forse, a una prima lettura, il rapporto con Nm 21,5 non appare af­
fatto. Eppure più di un punto in comune avvicina la parola del serpen­
te dell’Eden con la critica del popolo all’inizio del nostro racconto. In­
fatti, il popolo occulta il dono del cibo che Dio gli ha dato e arriva a di­
re che, nel deserto in cui si trova, «non c’è né pane né acqua» (mentre
poco dopo, implicitamente confessa che ciò è falso). Su questa base, so­
spetta che Dio, pur facendo credere di desiderare che viva, poiché l’ha
fatto uscire dal Paese della sua schiavitù, lo voglia invece far morire:
«Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per morire nel deserto?». La lo­
gica degli israeliti è esattamente la stessa del serpente dell’Eden: dis­
conoscono il dono di Dio e lo sospettano di volerli privare della vita.
In queste condizioni, quando, nel deserto, Adonai «libera» i ser­
penti al morso fatale, altro non fa che abbandonare il popolo a ciò di
cui ha adottato la logica mortifera. Tale logica è del resto rivelata fin
da Gen 3. Infatti, anche se in seguito alla colpa l’uomo e la donna non
muoiono fisicamente, la loro esclusione dal giardino e il loro allonta­
namento dall’albero della vita rappresentano per essi una forma di
morte. Insomma, inviando i serpenti, Adonai prende per così dire il po­

17 Ci siam o sofferm ati a lungo su questa pericope nella n o stra opera D ’A d a m à


A braham ou les errances de Vhumain. Lecture de Genèse 1,1-12,4, Cerf, Paris 2007, 97-
105; tr. it. Da A dam o ad Abram o o l'errare d e ll’uomo. L ettura narrativa e antropologi­
ca della Genesi, 1: Gen 1,1-12,4, EDB, Bologna 2008.

250
polo in parola, in modo che, secondo la bella formula del libro della
Sapienza (Sap 11,16), è proprio punito «con le cose con cui ha pecca­
to», come viene anche illustrato nelle pagine del libro dei Numeri evo­
cate qui sopra.
Comprendiamo allora come il popolo, appena colpito, scopra il suo
peccato e lo confessi. I serpenti, oltre a essere il suo castigo, gli rivela­
no cos’è che lo fa morire, gli aprono gli occhi sul potere distruttivo del­
la sua colpa. E se aderire alla logica del serpente conduce alla morte,
non c’è altra possibilità di vita al di fuori del ritorno a coloro che han­
no dimostrato il desiderio che Israele viva: Mosè e Adonai, che lo han­
no liberato dalla schiavitù dell’Egitto. Su questo punto, la domanda di
Israele è precisa: «Che Adonai allontani da noi il serpente (han-
nahash)». Udita in questo modo, la richiesta è proprio giustissima: ciò
che va allontanato dal popolo non sono tanto i serpenti quanto il ser­
pente, cioè quello che lo spinge interiormente al male.18 Ne deriva che
la reazione di Adonai è assolutamente in sintonia con la domanda del
popolo. Infatti, come via di salvezza egli non indicherà altro che il mo­
do in cui il popolo può allontanare il serpente, cioè quanto, dal suo in­
terno, lo conduce alla ribellione e alla morte.
Ma come può il fatto di alzare su un’asta un «serpente serpeggian­
te» permettere di neutralizzare questo serpente interiore? Per com­
prenderlo, è necessario precisare cosa rappresenta questo serpente di
bronzo, affinché chi lo vede possa avere la vita. In realtà, come sug­
gerisce l'espressione usata, il nehash [han]nehoshet è una duplice figu­
ra.19 Da una parte, rappresenta ciò che provoca la morte del popolo,
cioè il serpente della bramosia insoddisfatta (volere più e meglio della
manna) e del sospetto che porta ad accusare Dio di volere la morte.
D’altra parte, è ugualmente il segno della volontà di vita di Adonai che
chiede a Mosè di innalzarlo per rispondere alla domanda di salvezza
del popolo. Allora, guardare il serpente di bronzo è, per ogni individuo
che è morso, accettare di vedere in faccia ciò che, nell’intimo, lo con­
duce alla morte: la logica mortifera del serpente. Ma è anche rinun­
ciare chiaramente a questo atteggiamento riconoscendo che, attraver­

18 Nell’ebraico, il singolare può avere u n significato collettivo, come sottolineano


molti. Ma alla luce di Gen 3, la scelta qui del singolare colpisce davvero molto.
19 La cosa è abbozzata da D e V a u lx , L es Nombres, 237.

251
so Mosè, Dio vuole la vita, non la morte, dei suoi. Questo sguardo di­
venta dunque consapevolezza della colpa e della sua causa e fiducia in
Mosè, la cui presenza e la cui opera testimoniano la costante volontà
di vita di Dio.
Vedere che ciò che fa morire è la bramosia che spinge a disprez­
zare il dono ricevuto e la sfiducia che porta a sospettare che Dio voglia
la morte; lasciare questo atteggiamento alle spalle per credere che Dio
può dare la vita, e che lo vuole, anche quando l’uomo precipita se stes­
so verso la morte: ecco il movimento interiore che fa vivere, in quan­
to è liberazione dal serpente. A donare la vita non è allora il serpente
di bronzo e neppure Adonai. È la ritrovata fiducia nella sua parola e
nel suo portavoce - lettura ben attestata dagli scritti posteriori, parti­
colarmente dal midrash del quarto Vangelo che traspone Nm 21,4-9
sulla figura di Gesù: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così
bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede
abbia in lui la vita eterna» (Gv 3,14-15).20 Ecco come Adonai allonta­
na il serpente facendo sì che ogni membro del popolo apprenda egli
stesso a privare il serpente del suo potere mortifero.
Alla luce di questa lettura, è ancora possibile apportare una preci­
sazione su una sottile variante che concerne il nome divino. Il popolo
parla contro Dio (v. 5), ed è Adonai a rispondere inviando i serpenti (v.
6) e la parola a Mosè (v. 8). Chi ha letto Gen 3,1-5 ricorderà che, sug­
gerendo che Dio non vuole la vita, il serpente parla di «Elohim», men­
tre, altrove nel racconto, il narratore usa sempre il doppio nome Ado­
nai Elohim. Ora, in Nm 21, il popolo, nel momento in cui sposa la lo­
gica del serpente, parla contro Elohim, il Dio anonimo che lo priva del­
la vita. Invece, è Adonai che reagisce, il Dio che, dal mezzo del roveto,
ha dato il nome a Mosè legandolo alla sua volontà di vita e di libertà
per Israele (cf. Es 3,14-15). In questo senso, possiamo forse vedere nel­
l’invio dei serpenti un primo gesto di salvezza di Adonai, che consiste

20 Cf. in questo senso Sap 16,7.12; Gv 3,14; m a anche p er esem pio il Targum Pseu-
do-Jonathan di Nm 21,7 (guardare il serpente significa «dirigere il proprio cuore verso
il Nome della parola di YHWH»), il Talm ud Babilonese, T rattato Rosh H ashana, 29a (non
è il serpente che fa vivere, m a il «volgere lo sguardo verso il cielo e servire con tutto il
cuore il Padre celeste»). Cf. altre testim onianze in D e V a u lx , Les Nombres, 237-238 e S e e -
b a s s , N um eri, 326.

252
neirindicare al popolo peccatore la sua colpa per mezzo di un castigo
che gliene svela al tempo stesso la causa e la conseguenza?
Avremo già capito che leggere il racconto a questo livello di signifi­
cato è possibile solo sullo sfondo della figura mitica dell’inizio della Ge­
nesi, segno che un rapporto intertestuale fondato nel quadro del ca­
none biblico può offrire a un testo un significato nuovo e al tempo stes­
so più profondo.
BIBLIOGRAFIA

Narratologia
A dam J.-M., Le récìt, PUF, Paris 31991.
-,L a description, PUF, Paris 1993.
-, «Décrire des actions: raconter ou relater?», in Lìttérature 95(1994),
3-22.
- Le texte narratif: traité d ’analyse textuelle des récits, Nathan, Pa­
ris 1994 (nuova edizione rivista e ampliata).
-, Les textes, types et prototypes, Armand Colin, Paris 22008.
A dam J.-M. - R evaz E., L'analyse des récits, Seuil, Paris 1996, 63-77.
A risto tele , Dell’arte poetica, a cura di C. G allavotti , Mondadori, Fon­
dazione Lorenzo Valla 21974.
B a l M., Narratologie: essaìs sur la signification narrative dans quatre
romans modernes, Klincksieck, Paris 1977.
-, Narratology: Introduction to thè Theory of Narrative, University of
Toronto Press, Toronto 1985.
B onom i A., L o spirito della narrazione, Bompiani, Milano 1994.
B onzon R., «Paul Ricoeur, Temps et récìt une intrigue philosophique»,
in Revue de Théologie et de Philosophie 119(1987), 341-367.
B ooth W.C., La retorica della narrativa, La Nuova Italia, Scandicci 1996.
B ourneuf R. - Q uellet R., Vuniverso del romanzo, Einaudi, Torino
1976, 2000.
B rémond C., Logique du récìt, Paris, Seuil, 1973; tr. it. La logica del rac­
conto, Bompiani, Milano 1977.
-, Il divenire dei temi: al di qua e al di là di un racconto, La Nuova Ita­
lia, Scandicci 1997.

255
B res J., La narrativité, Duculot, Louvain-la-Neuve 1994.
BUhler P., «L’interprete interprété», in R B uhler - C. K arakash (edd.),
Quand interpréter c’est changer, Labor et Fides, Genève 1995,
237-262.
C hatman S., Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel
film, Pratiche, Milano 21998.
D àllenbach L., Il racconto speculare: saggio sulla «mise en abyme»,
Pratiche, Parma 1994.
Eco U., I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990.
-, Sei passeggiate nei boschi narrativi. Harvard University; Norton
Lectures 1992-1993, Bompiani, Milano 1994.
-, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi,
Bompiani, Milano 1979; 2011.
G en ette G ., Figure III, Seuil, Paris 1972; tr. it Figure, 3: Discorso del
racconto, Einaudi, Torino 1976.
-, Nuovo discorso del racconto, Einaudi, Torino 1987.
-, Soglie. I dintorni del testo, Einaudi, Torino 1989.
-, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997.
I ser W., L’atto della lettura. Una teoria della risposta estetica, Il Mu­
lino, Bologna 1996.
K ermode F., The Art of Tellìng: Essays on Fiction, Harvard University
Press, Cambridge MA 1983.
L arivaille P., «L’analyse (morpho)logique du récit», in Poétique
19(1974), 368-388.
L odge D., L’arte della narrativa, con una nota di H. G ro sser , Bompia­
ni, Milano 1995.
L ubbock R, Il mestiere della narrativa, Sansoni, Firenze 1984; Milano
2000 .
M aingeneau D., Les termes clés de l’analyse du discours, Seuil, Paris
1996.
M archese A., L’officina del racconto. Semiotica della narrativa, Mon­
dadori, Milano 1987.
M ariani E., La struttura narrativa: come funziona la macchina del rac­
conto: con appendice bibliografica sugli studi di semiotica narrati­
va aggiornata al 1985, Longo, Ravenna 1985.
M eneghelli D. (ed.), Teorie del punto di vista, La Nuova Italia, Scandicci
1998.
P iegay-G ros N., Introduction à l’intertextualité, Dunod, Paris 1996.

256
P rince G., Narratologia: la forma e il funzionamento della narrativa,
Pratiche, Parma 1984.
-, «Narratologie classique et narratologie post-classique», in Vox Poe­
tica 2006 (http://www.v0x-p0 etica.0rg/t/articles/prince.html).
P ropp V., Morfologia della fiaba, Einaudi, Torino 1988.
R eutler Y . , Introduction à Vanalyse du roman, Bordas, Paris 1991.
R icceu r P., D u texte à Vaction. Essais d ’herméneutique 2, Seuil, Paris
1986; tr. it. Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book,
Milano 1989, 1994.
-, Il conflitto delle interpretazioni. Trattato di ermeneutica, Jaca Book,
Milano 1986.
-, Tempo e racconto, 1, Jaca Book, Milano 1986.
-, Tempo e racconto, II: La configurazione nel racconto di finzione, Ja­
ca Book, Milano 1987.
-, «Eloge de la lecture et de l’écriture», in Études théologiques et reli-
gieuses 64(1989), 395-405.
-, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993.
R iffaterre M., «La trace de l’intertexte», in Za pensée (1980), 4-18.
S choles R. - K ellogg R., La natura della narrativa, il Mulino, Bologna
1986.
S ternberg M., Expositional Modes and Temporal Ordening in Fiction,
Johns Hopkins University Press, Baltimore-London 1978.
-, «Telling in Time (I): Chronology and Narrative Theory», in Poetìcs
Today 11(1990), 901-948; «Telling in Time (II): Chronology, Teleo-
logy, Narrativity», in Poetics Today 13(1992), 463-541; «How Nar-
rativity Makes a Difference», in Narrative 9/2(2001), 115-122.
T omassini G.B., Il racconto nel racconto: analisi teorica dei procedi­
menti d ’inserzione narrativa, Bulzoni, Roma 1990.
T urchetta G.../Z punto di vista, Laterza, Roma-Bari 1999.
U spensky B., A Poetics of Composition: thè structure ofthe artistic text
and typology of a compositional form, University of California
Press, Berkeley 1973.
V itoux P., «Le jeu de la focalisation», in Poétique 51(1982), 359-368.
V ittorini R , Fabula e intreccio, La Nuova Italia, Firenze 1998.
V olpe S., L’occhio del narratore: problemi del punto di vista, Quaderni
del Circolo semiologico siciliano 20, Palermo 1984.

257
Narratologia biblica
A letti J.-N., L'arte di raccontare Gesù Cristo: la scrittura narrativa del
vangelo di Luca, Queriniana, Brescia 1991.
-, Il racconto come teologia. Studio narrativo del terzo Vangelo e del
libro degli A tti degli Apostoli, Dehoniane, Roma 1996; nuova edi­
zione riveduta e aumentata EDB, Bologna 2009.
-, Le Christ raconté. Les Evangiles comme littérature?, in F. M ies (ed.),
Bible et littérature. L’homme et Dieu mis en intrigue, Lessius, Na-
mur 1999, 29-53.
A lter R., The A rt of Biblical Narrative, Alien and Unwin, London 1981;
tr. fr. L’art du récit biblique, Le Livre et le Rouleau 4, Lessius, Bru­
xelles 1999; tr. it. di E. G atti , L’arte della narrativa bìblica, Queri­
niana, Brescia 1990.
A nderson J.C. - M oore S.D. (edd.), Mark and Method: New Approaches
in Biblical Studies, Fortress Press, Minneapolis 1992.
B arbi A. - R omanello S. (edd.), La narrazione nella e della Bibbia, Mes­
saggero-Facoltà Teologica del Triveneto, Padova 2012.
B ar - E frat S., Narrative A rt in thè Bible, Almond Press, Decatur GA
1989, 47-92.
B aroni R ., «Histoires vécues, fìctions, récits factuels», in Poétique
151(2007), 259-277.
-, La tension narrative. Suspense, curìosité et surprise, Seuil, Paris
2007.
-, L’oeuvre du temps. Poétique de la discordance narrative, Seuil, Pa­
ris 2009.
B arthes R., «Lanalyse structurale du recit: a propos d’Actes X-XI», in
Recherches de Science religieuse 58(1970), 17-37.
B ourquin Y., Une image de Marc: approche narrative du deuxième
évangile, Mémoire de spécialisation en NT, Lausanne 1994.
-, «Vite!·, le cadre temporei de 1Jévangile de Marc», in Cahiers prote-
stants (1995), 41-46.
-,L a confession du centurion. Le Fils de Dieu en croix selon l’évangi-
le de Marc, Editions du Moulin, Poliez-le-Grand 1996.
B rossier E ., Dire la Bible. Récits bibliques et communication de la foì,
Centurion, Paris 1986.
BO hler P. - H aberm acher J.-F. (edd.), La narration: quand le récit de-
vient communication, Labor et Fides, Genève 1988.

258
C u l pepper R.A., Anatomy of thè Fourth Gospel: a Study in Literary De­
sign, Fortress F|ress, Philadelphia 1983.
D e lo rm e J . , A u risque de la parole: lire les évangiles, Seuil, Paris 1991.
E dwards R.A., M atthew’s Story of Jesus, Fortress Press, Philadelphia
1985.
F okkelman J.P., Come leggere un racconto biblico. Guida pratica alla
narrativa biblica, EDB, Bologna 2003.
P unk R.W., The Poetics ofBiblical Narrative, Polebridge Press, Sono-
ma 1988.
G iroud J.-C., «Lire les Ecritures», in Sémiotique et Bible 87(1997), 48-60.
Kurz W.S., «Narrative Models for Imitation in Luke-Acts», in Greeks,
Romans, and Christians. Essays in honor ofA.J. Malherbe, Fortress
Press, Minneapolis 1990, 171-189.
-, Reading Luke-Acts: Dynamics of Biblical Literature, Westmin-
ster/John Knox Press, Louisville 1993.
L'évangile de Jean: une lecture narratologique, Animation biblique oe-
cuménique romande, Evangile et Culture/CCRT, Lausanne 1994.
L icht J., La narrazione nella Bibbia, Paideia, Brescia 1992.
L ongman T., Literary Approaches to BiblicalInterpretation, Zondervan,
Grand Rapids 1987.
M arguerat D., «Strukturale Textlektiiren des Evangeliums», in S chel -
bert G. - M arguerat D. - V enetz H.-J. (eddj, Methoden der Evange-
lien-Exegese, Benziger, Ziirich 1985, 41-86.
-, «Raconter Dieu. L'évangile comme narration historique», in BO hler
P. - H aberm acher J.E. (edd.), La narration. Quand le récit devient
communication, Labor et Fides, Genève 1988, 83-106.
-, «“Et quand nous sommes entres dans Rome”: l’énigme de la fin du
livre des Actes (28,16-31)», in Revue d ’Histoire et de Philosophie
Religieuses 73(1993), 1-21.
-, «La construction du lecteur par le texte (Marc et Matthieu)», in C.
F ocant (ed.), The Synoptic Gospels. Source Criticism and The New
Literary Criticism, Leuven University Press, Leuven 1993, 239-262.
-, «La mort d’Ananias et Saphira (Ac 5,1-11) dans la stratégie narra­
tive de Lue», in New Testament Studies 39(1993), 209-223.
-, «L'évangile de Jean et son lecteur», in CADIR, Le temps de la lectu­
re: exégèse biblique et sémiotique, Cerf, Paris 1993, 305-324.
-, «Entrare nel mondo del racconto. La rilettura narrativa del Nuovo
Testamento», in Protestantesimo (1994), 196-213.

259
-, «Entrer dans le monde du récit», in Bulletin d ’information biblìque
42(1994), 8-12.
-, «L’exégèse biblìque: éclatement ou renouveau?», in Foi et vie
93(1994), 7-24.
-, «L’analyse narrative. Mode d’emploi», in Bulletin d'information bi-
blique 44(1995), 3-11.
-, «Entrer dans le monde du récit. Une présentation de l'analyse nar­
rative», in Transversalités. Revue de l ’I nstitut catholique de Paris
59(1996), 1-17.
-, «Le Dieu du livre des Actes», in A. M archadour (ed.), L’Evangile ex-
ploré. Mélanges offerts à S. Légasse, Cerf, Paris 1996, 301-331.
-, «Il “punto di vista” nella narrazione biblica», in RivBiblt 58(2010),
331-353.
-, Le Dieu des premiers chrétiens, Labor et Fides, Genève 1997; tr. it.
Il Dio dei primi cristiani, Boria, Roma 2011.
-, «“Il a comblé de biens les affamés et renvoyé les riches les main vi-
des" (Le 1,53). Riches et pauvres, un parcours lucanien», i n F. B ian ­
chini - S. R omanello ( e d d .) , Non mi vergogno del Vangelo, potenza dì
Dio. Studi in onore di Jean-Noèl Aletti, Gregorian Biblical Press,
Roma 2012, 327-350.
M arguerat D. - B ourquin Y., Pour lire les récits bibliques. Initiation à
l’analyse narrative, Cerf-Labor et Fides, Paris-Genève 42009; tr. it.
Per leggere i racconti biblici. Iniziazione all’analisi narrativa, Bor­
ia, Roma 22011.
M arin L., «Essai d’analyse structurale à.'Actes 10,1-11,18», in Recher-
ches de Science religieuse 58(1970), 39-61.
M cK night E., The Bible and thè Reader: an Introduction to Literary Cri-
ticism, Fortress Press, Philadelphia 1985.
-, Post-Modem Use of thè Bible. The Emergence o f Reader-Oriented
Crìticism, Abingdon Press, Nashville 1988.
M oitel P, «Des récits d’Évangile. Apprentissage d’une lecture», in Ca-
hiers Evangile 93(1995).
-, «De longs récits d!Evangile. Construction et lecture», in Cahiers
Evangile 98(1996).
M oore S.D., Literary Crìticism and thè Gospels: thè Theoretical Chal-
lenge, Yale University Press, New Haven 1989.
«Narrativité et théologie dans les récits de la Passion», in Recherches
de Science religieuse 73(1985), 5-244 (articoli di P. R icceur, P. B eau -
champ , P. C orset , J. D elo rm e , J. C alloud , ecc.).

260
P erini G.,L e domande di Gesù nel vangelo di Marco. Approccio prag­
matico: ricorrenze, uso e funzioni, Pontifìcia Università Lateranen-
se, Roma 1998.
P ete rsen N.R., Literary Criticism far New Testament Critics, Fortress
Press, Philadelphia 1978.
P owell M.A., What is Narrative Criticism?, Fortress Press, Minneapo­
lis 1990.
R eymond S ., L’expérience du chemin de Damas: approche narrative d ’u-
ne expérience spirituelle, Mémoire de spécialisation en NT, Lau­
sanne 1993.
-, «La conversion de Saul en Ac 9», in Bulletin d ’information biblique
42(1994), 13-16.
R hoads D. - M ichie D., Mark as Story: an Introduction to thè Narrative
o f a Gospel, Fortress Press, Philadelphia 1982.
Riva E., «L’esegesi narrativa: dimensioni ermeneutiche», in Rivista Bi­
blica Italiana 37(1989), 129-160.
S ka J.L., «La “nouvelle critique” et l’exégèse anglo-saxonne», in Re-
cherches de Science religieuse 80(1992), 29-53.
-, «Sincronia: l’analisi narrativa», in H. S im ian -Y ofre (ed.), Metodologia
dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1994,42Ó09,139-170 e 223-
234 (glossario comparato).
-, «Our Fathers Have Told Us». Introduction to thè Analysis ofHebrew
Narratives, Pontificio Istituto Biblico, Roma 1990; tr. it. «I nostri
padri ci hanno raccontato». Introduzione all’analisi dei racconti
dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 2012.
S ka J.L. - S onnet J .-P . - W énin A., L’analyse narrative des récits de
VAncien Testament, Cerf, Paris 1999.
S onnet J.-P, «Y a‫־‬t‫־‬il un narrateur dans la Bible? La Genèse et le mo-
dèle narratif de la Bible hébraique», in E. M ies (ed.), Bible et litté-
rature. L’homme et Dieu mis en intrigue[ Éditions Lessius, Namur
1999, 9-27.
S ternberg M ., The Poetics o f Biblical Narrative. Ideological Literature
and thè Brama ofReading, Indiana University Press, Bloomington
1985.
S tibbe M.W.G., John as Storyteller, Cambridge University Press, Cam­
bridge 1992.
T annehill R.C., «The Disciples in Mark: thè Function of a Narrative Ro-
le», in Journal of Religion 57(1977), 386-405.

261
-, The Narrative Unity ofLuke-Acts: a Literary Interpretation, 2 voli,
Fortress Press, Philadelphia 1986.
V ignolo R., «Una finale reticente: interpretazione narrativa di Me
16,8», in Rivista Biblica Italiana 38(1990), 129-188.
W énin A., Samuel juge et prophète, Cerf, Paris 1994.
-, Entrare nei Salmi, EDB, Bologna 2003.
-, L’histoire de Joseph (Genèse 37-50), Cerf, Paris 2004.
-, Joseph ou Vinvention de la fraternità. Lecture narrative et anthró-
pologique de Genèse 37-50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it. Giusep­
pe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropolo­
gica della Genesi. IV. Gen 37-50, EDB, Bologna 2007.
-, Da Adamo ad Abramo o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e an­
tropologica della Genesi. I. Gen 1,1-12,4, EDB, Bologna 2008.
Z um stein J., «Critique historique et critique littéraire», in Miettes exé-
gétiques, Labor et Fides, Genève 1991, 51-62.
-, L’apprentìssage de la fo t A la découverte de Vévangile de Jean et
de ses lecteurs, Moulin, Aubonne 1993.

Ampia bibliografia in J.-N. A l e t t i , L’arte di raccontare Gesù Cristo,


Queriniana, Brescia 1991, 205-212, e in J.-L. S ka , «I nostri padri
ci hanno raccontato». Introduzione all’analisi dei racconti del­
l’Antico Testamento, EDB, Bologna 2012, 155-180.

262
ALCUNE PUBBLICAZIONI
DEGLI AUTORI

Daniel Marguerat
Le Dieu des premiers chrétiens, Labor et Fides, quarta edizione rive­
duta e aumentata, Genève 2011; tr. it. Il Dio dei primi cristiani, Bor­
ia, Roma 2011.
L’intrigue dans le récit biblique. Quatrième colloque International du
RRENAB, Université Lavai, Québec, 29 m ai-ler juin 2008, con A.
P asquier - A. W én in (edd.), Peeters, Leuven 2010.
Qui afondé le christianìsme? Ce que disent les témoins des premiers
siècles, con E. J u nod , Labor et Fides-Bayard, Genève-Paris 2010; tr.
it. Chi ha fondato il cristianesimo? Cosa dicono i testimoni dei pri­
mi secoli, EDB, Bologna 2012.
Pour lire les récits bìblìques. Initiation à Vanalyse narrative, con Y.
B ourquin , Cerf-Labor et Fides, Paris-Genève 42009; tr. it. Per legge­
re i racconti biblici. Iniziazione all'analisi narrativa, Boria, Roma
2001; 22011; (tradotto anche in inglese, spagnolo, portoghese).
L'aube du christianìsme, Bayard-Labor et Fides, Paris-Genève 2008.
Il primo cristianesimo. Rileggere il libro degli Atti, Claudiana, Torino
2012 .
Dieu est-il violent?, con diversi autori, Bayard, Paris 2008.
La Bible en récits. Vexégèse biblique à Vheure du lecteur, con diversi
autori, Labor et Fides, Genève 2003.
La première histoire du christianìsme (LesActes des apótres), Cerf-La­
bor et Fides, Paris-Genève 22003; tr. it La prima storia del cristia­
nesimo. Gli Atti degli apostoli, San Paolo, Cinisello Balsamo 2002
(tradotto anche in inglese, tedesco, portoghese, arabo).
Quand la Bible se raconte, con diversi autori, Cerf, Paris 2003.

263
Intertextualités. La Bible en échos, con A . C urtis (edd.), Labor et Fides,
Genève 2000.

André YVénin
Isaac ou Vépreuve d ’Abraham. Approche narrative de Genèse 22, Les­
sius, Bruxelles 22008; tr. it. Isacco o la prova di Abramo. Approccio
narrativo a Genesi 22, Cittadella, Assisi 2005.
D’A dam à Abraham ou les errances de Vhumain. Lecture de Genèse
1.1-12,4, Cerf, Paris 2007; tr. it. Da Adamo ad Abramo o Ferrare
dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi. I. Gen
1.1-12,4, EDB, Bologna 2008; (tradotto anche in portoghese).
Vives. Femmes de la Bible. Postface de Sylvie Germain, con C. F ocant ,
Lessius, Bruxelles 2007; tr. it. La donna la vita. Ritratti femminili
della Bibbia, Postfazione di S. G erm a in , Acquerelli di M . S o n net ,
EDB, Bologna 2008 (tradotto anche in spagnolo).
Joseph ou l’invention de la fraternìté. Lecture narrative et anthropo-
logique de Genèse 37-50, Lessius, Bruxelles 2005; tr. it. Giuseppe
o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica
della Genesi. IV. Gen 37-50, EDB, Bologna 2007; (tradotto anche in
spagnolo e portoghese).
Uhistoire de Joseph. Genèse 37-50, Cerf-Évangile et Vie, Paris 2004;
(tradotto in spagnolo e portoghese).
L’analyse narrative des récits de VAncien Testament, con J.-L. S ka -
J.-P. S o n net , Cerf-Évangile et Vie, Paris 1999; (tradotto in spagnolo).
Le livre de Ruth. Une approche narrative, Cerf-Évangile et Vie, Paris
1998; (tradotto in spagnolo e portoghese).
David, Goliath et Saill. Le récit de 1 Samuel 16-18, Lumen Vitae, Bru­
xelles 1997.

264
INDICE

Abbreviazioni scritturistiche ................. ............................. pag. 5

Introduzione .......................................................................... » 7
Un’autentica rivoluzione....................................................... » 8
Il testo: finestra, tessuto, specchio ...................................... » 9
La frattura originaria............................................................ » 11
Il mezzo per eccellenza per dire Dio nellas to ria ............... » 12
Nascita di un apparato di le ttu ra ......................................... » 13
Una teologia narrativa .......................................................... » 14
Tre obiezioni......................................... ................................. » 16
Il programma di questo lib ro .............................................. » 19

Capitolo primo
QUATTRO LETTORI PER QUATTROVANGELI ..................... » 25
1. Lettore codificato e lettore edificato............................... » 27
2. Vangeli in cerca di le tto ri...... .......................................... » 32
3. Conclusione ...................................................................... » 57

Capitolo secondo
ALLA RICERCA DELLA TRAMA.
UNA LETTURA DELLA PASSIONE (MC 14E LC 22) ........... » 59
1. Tensione drammatica e tensione narrativa .................. » 61
2. Schema quinario e tensione narrativa ........................... » 62
3. Percorsi di Me 14,1-31 e Le 22,1-34 ............................. » 71
4. Conclusione ...................................................................... » 88

265
Capitolo terzo
LA TEMPORALITÀ DELLA STORIA DI GIUSEPPE
(GEN 37-50) .‫׳‬ 91 «
1. Introduzione » 91
2. La struttura temporale della storia di Giuseppe » 95
3. Anticipazioni di ogni genere » 102
4. Diversi ritorni sul p a ssa to » 109
5. Conclusione » 118

Capitolo quarto
GIUSEPPE INTERPRETE DEI SOGNI IN PRIGIONE
(GEN 40). ALCUNE FUNZIONI DELLA RIPETIZIONE
NEL RACCONTO BIBLICO » 121
1. La trama » 123
2. Studio delle ripetizioni » 128
3. La ripresa del racconto in 41,9-13 » 133
4. Conclusione : » 136

Capitolo quinto
IL PUNTO DI VISTA NEL RACCONTO BIBLICO » 139
1. Il punto di vista e la sua definizione » 140
2. Le tre focalizzazioni secondo Gérard Genette » 148
3. II punto di vista secondo Alain Rabatel » 151
4. Due applicazioni » 155
5. Conclusione » 162

Capitolo sesto
LUCA, REGISTA DEI PERSONAGGI » 165
1. Luca, compositore dei personaggi » 166
2. I personaggi lucani, condensato della trama » 171
3. Conclusione: il protagonista del racconto » 182

Capitolo settimo
IL GIOCO DELL’IRONIA DRAMMATICA.
L’ESEMPIO DEI RACCONTI DI ASTUZIE E INGANNI » 183
1. Al pari dell’ingannatore,
il lettore è superiore all’ingannato » 185

266
2. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’imbroglione............................................. » 187
3. Il lettore in posizione inferiore
in rapporto all’ingannato ............................................... . » 192
4. Conclusione ....................................................................... » 197

Capitolo ottavo
COSTRUZIONE DEL DISCORSO E COSTRUZIONE
DEL RACCONTO. IL DISCORSO COMUNITARIO DI MT 18 » 199
1. Prologo: un discorso dalle origini molteplici................ » 201
2. A chi è rivolto il discorso? ............................................. » 204
3. La regola disciplinare (18,15-17).................................. » 207
4. La figura di Pietro (18,21-22) ........................................ » 213
5. La funzione del discorso nella strategia del narratore .. » 216
6. Conclusione ..................................................................... » 221

Capìtolo nono
DAVIDE E LA STORIA DI NATAN (2SAM 12,1-7).
IL LETTORE E LA «FICTION» PROFETICA
DEL RACCONTO BIBLICO ..................................................... » 223
1. La storia di Davide: fiction o storiografìa?.................... » 223
2. La storia di Natan in 2Sam 12 ossia il potere
di verità della fiction........................................................ » 229
3. Conclusione ..................................................................... » 236

Capitolo decimo
IL SERPENTE DI NM 21,4-9 E DI GEN 3,1.
INTERTESTUALITÀ ED ELABORAZIONE DEL SIGNIFICATO » 239
1. Il serpente di bronzo (Nm 21,4-9) ................................ » 240
2. Le concatenazioni: domande senza risp o sta................ » 247
3. Il serpente di bronzo e il serpente di Gen 3 ................ » 249

Bibliografia ......................................................................... . » 255

Alcune pubblicazioni degli autori ........................................ » 263

267
IN COPERTINA
Tavola di G. Cordiano

| lu e s to libro, che vede la luce nel m om ento in cui la riscoperta dei


V 3£«sapori» della narrazione biblica spicca il volo, vuole m ostrare la
fecondità di alcuni stru m en ti dell’analisi narrativa applicandoli a
sequenze scelte dell’Antico e del Nuovo Testamento.
Da una trentina d’anni i ricercatori hanno a disposizione metodologie
appropriate per lo studio della narratologia biblica, ma dopo i balbettìi
iniziali si tratta ora di affinarle m ettendone in luce le potenzialità. La
sfida non è soltanto percorrere in ogni direzione i retroscena del rac­
conto per osservarne l’architettura nascosta - anche se questa scoperta,
per così dire archeologica, vale da sola la svolta: l’interesse sta piuttosto
nel pollare alla luce effetti di significato insospettati, scaturiti da narra­
zioni che pure si pensava di conoscere bene. Ai lettori e alle lettrici stan­
chi di approcci convenzionali, di percorsi ripetitivi, questo libro apre le
porte a domande originali e significative.

DANIEL MARGUERAT
Biblista, professore emerito di Nuovo Testamento all'Università di Losanna,
è uno specialista di fama internazionale su Gesù e il cristianesimo primitivo.
Tra i suoi libri apparsi in italiano: Per leggere i racconti biblici. La Bibbia
si racconta. Iniziazione all'analisi narrativa (con Y. Bourquin, Boria, Roma 2011);
Il Dio dei primi cristiani (Boria, Roma 2011); Chi ha fondato il cristianesimo?
Cosa dicono i testimoni dei primi secoli (con É. Junod, EDB, Bologna 2012);
Il primo cristianesimo. Rileggere il libro degli A tti (Claudiana, Torino 2012).

ANDRÉ WÉNIN
Gesuita, insegna Esegesi dellAntico Testamento alla Facoltà
di Teologia dell'Università Cattolica di Louvain-la-Neuve.
Tra le sue pubblicazioni in italiano: Giuseppe o l'invenzione
della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della
Genesi. IV. Gen 37-50 (EDB, Bologna 2007); Da Adamo
ad Abramo o l'errare dell'uomo. Lettura narrativa ISBN 978-88-1 0 -40 Z 45 -0
e antropologica della Genesi. I. Gen 1,1-12,4 (EDB,
Bologna 22013); La donna la vita. Ritratti femminili
della Bibbia (con C. Focant, EDB, Bologna 2008). 788810 402450
€ 26,00 (IVA compresa)

Potrebbero piacerti anche