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La Legge Merlin
La Legge Merlin
L’ITALIA
Sommario: 1. La legislazione italiana prima della legge Merlin – 2. La
posizione sociale della prostitute – 3. Lina Merlin: una combattente
controcorrente – 3.1 Lettere dalle case chiuse (a cura di Lina Merlin)
– 3.2 Gli obiettivi della Riforma Merlin – 3.3 Brevi considerazioni critiche
sulla Legge Merlin – 4. Dopo la legge Merlin: Prostituzione e diritti del
lavoro – 5. La prostituta: un soggetto socialmente pericoloso – 7. I mille
volti della prostituzione: tipologie e numeri – 7.1 Bene giuridico: evoluzione
– 7.2 Dignità: oggettiva e soggettiva – 8. La prostituzione come attività
lecita ma contraria al buon costume – 9. Il diritto alla salute della prostitute
– 10. Libera scelta e coercizione nella prostituzione – 11. Il fenomeno
“escort” – 12. “Prostituzione non è libertà” (sentenza 141/2019 Corte
costituzionale) – 12.1 Post sentenza: alcune osservazioni – 13. Profili
conclusivi
1. La legislazione italiana prima della legge Merlin
Per tracciare il quadro normativo sulla prostituzione occorre partire
dalle politiche, in quanto è complesso scindere il fenomeno dalla
sua regolazione pubblica. La politica seguita dal Regno d’Italia fu
prima quella del regolamentarismo, che intendeva controllare il
fenomeno della prostituzione attraverso una serie di licenze e lo
permetteva all’interno di quelle che erano definite “case di
tolleranza”.
Il 15 febbraio 1860, seguendo l’esperienza francese inaugurata da
Napoleone nel 1802, Camillo Benso, conte di Cavour emanava il
“Regolamento del servizio di sorveglianza sulla prostituzione”
rimasto in vigore, con limitate modifiche, fino al 1958, anno di
approvazione della legge n°75, meglio conosciuta come “Legge
Merlin”. Il regolamento Cavour (decreto ministeriale del 15/02/1860)
fu il primo atto che determinava le condizioni alle quali l’esercizio
della prostituzione era consentito e le forme in cui si doveva
manifestare il controllo di polizia e il controllo sanitario su chi
esercitasse la prostituzione. Fu proprio tale Regolamento a segnare
la nascita delle case di tolleranza (“postriboli”), così chiamate
perché tollerate e disciplinate dallo Stato. Il principale obiettivo del
Regolamento era quello di controllare la prostituzione dal punto di
vista igienico-sanitario e a tale fine, infatti, veniva prevista la
creazione, in ogni capoluogo di Provincia e di circondario, di un
Ufficio Sanitario con l’unico compito di sorveglianza delle prostitute.
Il cardine della normativa era, dunque, la vigilanza sanitaria,
concentrata sullo strumento della cosiddetta “patente”, rilasciata
dalla Pubblica Sicurezza e necessaria per l’esercizio dell’attività. La
legge tollerava due differenti categorie di postriboli: quelli in cui le
meretrici avevano domicilio fisso e quelli in cui le stesse si recavano
per motivo di prostituzione. Già negli anni immediatamente
successivi all’emanazione del Regolamento Cavour, tuttavia, non
mancarono le critiche, alimentate dalle influenze che la prospettiva
abolizionista esercitava in altri paesi. La dubbia posizione dello
Stato, che traeva utili da un’attività ritenuta moralmente
inaccettabile, era, infatti da più parti criticata. Due regolamenti
successivi, il Regolamento Crispi del 1888 e il Regolamento
Nicotera del 1891, ritoccarono in maniera solamente parziale il
quadro di riferimento normativo in materia di prostituzione. Il
Regolamento Crispi, espressione dell’impegno degli abolizionisti
presenti in Italia, tentò di limitare gli aspetti di più chiara
discriminazione e repressione della libertà personale, anche se
mantenne invariato il rapporto tra lo Stato e le prostitute. Rispetto
alla normativa precedente, tale Regolamento, intendeva creare
percorsi di riabilitazione delle prostitute attraverso l’istituzione dei
patronati. La novità più evidente portata dalla normativa era, poi,
l’ampliamento a tutta la popolazione più povera del trattamento
sanitario. Nell’intenzione del legislatore ciò avrebbe dovuto facilitare
la “riabilitazione delle prostitute” ma la mentalità corrente faticava ad
accettare una riforma del genere. Il Regolamento Nicotera cercò di
arginare le critiche a cui fu sottoposto il Regolamento Crispi,
prevedendo una disciplina intermedia. Questo Regolamento
reintrodusse un sistema più severo di controlli sanitari. Il Ministro
ordinò, poi, anche un censimento di tutte le meretrici che vennero,
conseguentemente, regolarmente registrate nelle varie regioni e
nelle diverse città. La regolamentazione in esame restò in vigore
fino al 1905, quando venne promulgato un nuovo Regio decreto
grazie al quale lo Stato manteneva un controllo diretto ed una serie
di poteri discrezionali di tipo diverso esercitati dalle autorità di
polizia. Nel Novecento, a emarginare sempre più il fenomeno della
prostituzione, interveniva Cesare Lombroso che, con Guglielmo
Ferrero, pubblicava nel 1893 “La donna delinquente, la prostituta e
donna normale”. Se le donne divenivano prostitute, secondo
Lombroso questo era a causa della “pazzia morale, alla mancanza
di pudore e all’insensibilità, all’infamia del vizio” venendo attirate da
ciò che è vietato e dandosi, così, a tale genere di vita, trovandovi la
maniera migliore per guadagnarsi l’esistenza senza lavorare. In
epoca fascista, la prostituzione poteva essere esercitata solo in quei
luoghi che l’autorità di pubblica sicurezza precisava fossero “locali
di meretricio”. Dal Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza
emergeva la preoccupazione di chiarire che le case chiuse non
fossero “autorizzate” ma solo “tollerate” con le dovute e opportune
cautele previste a tutela del buon costume, dell’igiene e della
sicurezza.
2. La posizione sociale della prostituta
La maggiore urbanizzazione che si ebbe in seguito allo sviluppo
industriale a partire dalla metà del 1800 segnò un mutamento delle
mappe cittadine sia in senso geografico sia a livello di popolazione:
molte furono coloro che arrivarono dalle campagne in cerca di
lavoro. Nel XIX secolo le donne che facevano già parte del mercato
del lavoro erano impiegate soprattutto nel settore tessile, che
rappresentava il perno dell’industrializzazione italiana. Col
progredire dell’industria, sempre più meccanizzata, il lavoro
femminile subì un’inflessione. Agli arbori dell’Unificazione, un
piccolo gruppo di donne della classe media cercava impiego come
insegnante; ciò che le accomunava con le altre donne lavoratrici
consisteva nella ricezione di una scarsa retribuzione. Ciò spingeva
molte donne a cercare una seconda occupazione per incrementare.
È comprensibile, perciò, la scelta da parte di molte donne di
esercitare la prostituzione come lavoro alternativo o supplementare.
Esisteva un gran numero di donne di varia estrazione sociale che si
prostituiva saltuariamente: si tratta di casalinghe, insegnanti (anche
di classi medio borghesi); da queste donne proveniva il maggior
contrasto alla registrazione nelle liste di polizia ai fine di
un’eventuale ripercussione sulla loro vita sociale. Tra le prostitute
registrate molte erano le giovani provenienti dalle campagne.
Queste vedevano nella prostituzione un’alternativa alla miseria e
alla disoccupazione. La prostituzione, nelle infime cassi, diveniva
così un mestiere come un altro.
Il confronto tra la donna prostituta e le altre donne può essere
tracciato prendendo in considerazione alcuni aspetti. Uno di questi
emerge dalle liste di polizia, in quanto ad essere registrate sono
soprattutto le donne di giovane età, attorno ai vent’anni. Molto più
rare erano le donne prostitute che superavano i trentacinque anni.
Un ulteriore termine di raffronto tra le donne prostitute e le altre
donne è rappresentato dal livello di istruzione: le meretrici erano
considerate generalmente “poco istruite, ed anzi nella maggior parte
dei casi ignoranti e analfabete. Per quel che concerne, invece, le
donne della media borghesia che si prostituivano saltuariamente,
esse erano, per alcuni la dimostrazione di come la cultura, e non
solo l’ignoranza, potesse indurre al vizio. La disoccupazione e
l’insicurezza economica non erano però gli unici fattori scatenanti la
scelta della prostituzione: è utile considerare anche la provenienza
familiare e l’ambiente di origine, aspetto che talvolta è stato
trascurato nelle indagini governative. Un dato sembra accumunare
la maggior parte delle prostitute, ossia la mancanza di una famiglia
solida alle spalle. La privazione di affetti e legami familiari faceva sì
che molte donne cercassero altrove un sostegno maschile sia
economico che psicologico. Sebbene sia diffusa l’idea del XIX e
l’inizio del XX secolo come un’epoca in cui la sessualità era trattata
con estremo rigorismo morale, “accuratamente racchiusa nelle
camera da letto”, i rapporti sessuali prematrimoniali erano, invece,
frequenti e non condannati purché il legame si consolidasse al più
presto con il matrimonio. Alla luce di tutto ciò, emergono molte
correlazioni tra le due figure femminili: entrambe, ad esempio, erano
accumunate dalla necessità di un guadagno a fini di sussistenza o
di incremento al reddito
La prostituzione sembra presentarsi come un’alternativa ad una
serie di lavori disponibili. In tal senso, le prostitute costituiscono una
categoria del tutto coincidente con quella delle donne “normali
lavoratrici”. La corrispondenza emergeva anche dalla pratica
crescente, soprattutto al termine del XX secolo, della prostituzione
part-time quale mezzo per integrare il reddito da lavoro regolare;
questa prassi aumentò la resistenza di molte donne, che si
prostituivano occasionalmente, alla registrazione, anche a discapito
delle case di tolleranza. La regolamentazione, pur non negando la
coincidenza tra le donne “normali” lavoratrici e le donne prostitute,
cercava di mantenere separata la condizione di quest’ultime dalle
prime sottoponendole a una registrazione che le etichettava
socialmente.
3. Lina Merlin: una combattente controcorrente
Il 20 febbraio del 1958 il Parlamento italiano approvò la legge n°75,
che aveva come prima firmataria la senatrice Angelina Merlin, con la
quale veniva decretata l’abolizione della regolamentazione della
prostituzione in Italia e contestualmente, veniva avviata la lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui e la soppressione
delle case di tolleranza. Questo provvedimento fu il cardine
dell’attività politica della parlamentare socialista, che volle seguire
l’esempio dell’attivista francese (ed ex prostituta) Marthe Richard
sotto la cui direzione già nel 1946 erano state chiuse le case di
tolleranza in Francia. L’iter legislativo che portò all’approvazione di
questa legge fu decisamente travagliato, tanto da durare ben dieci
anni. Angelina Merlin nacque a Pozzonovo di Padova nel 1887, ma
ben presto si trasferì a Chioggia presso i nonni materni, dove si
diplomò maestra e si laureò in Lingue Straniere. Si iscrisse al partito
socialista nel 1919, collaborando a “L’Eco dei lavoratori” e alla
“Difesa delle lavoratrici”, di cui, più tardi, prese la direzione. È in
questi anni che maturò in lei la sofferenza nel vedere le mogli dei
pescatori e dei marinai che, lasciate sole troppo a lungo dai propri
mariti, si prostituivano agli uomini facoltosi per potersi permettere
qualche piccolo lusso o nella maggior parte dei casi per fame. Sulla
base di ciò si propose di finire quel malcostume, anche a costo di
scontrarsi con il proprio partito: la morale dell’epoca, infatti,
identificava nelle case chiuse il luogo in cui i giovani potevano “fare
esperienza”. Bloccata nella sua battaglia dal fascismo, fu mandata
al confino dal 1926 al 1930. Eletta membro dell’Assemblea
costituente nel 1946, fu la prima donna italiana a sedere in Senato,
dove ricominciò la sua attività. Il primo atto parlamentare di Lina
Merlin fu quello di presentare un progetto di legge contro la
compravendita del sesso. Un sostegno alla sua azione legislativa le
giunse grazie all’adesione dell’Italia all’Onu: in virtù di questo
accadimento, infatti, il governo dovette firmare alcune convenzioni
internazionali, tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti
dell’Uomo, che obbliga gli Stati firmatari a porre in atto “la
repressione della tratta degli essere umani e lo sfruttamento della
prostituzione”.
Attraverso la ratifica di questi trattati, era necessario oltrepassare il
regime delle case di prostituzione gestite dallo Stato, nonostante il
Ministro degli Interni dell’epoca Mario Scelba, avesse cercato di
rilasciare licenze di Polizia per l’apertura di nuove case già dal
1948. Lina Merlin proponeva un progetto di legge che: “…non mira
ad abolire quello che, in una società costituita come la nostra, è
insopprimibile, cioè il mercato dell’amore, ma intende togliere di
mezzo lo sfruttamento che si fa della prostituzione, all’ombra delle
leggi dello Stato, e ridare possibilità di scelta alle persone che, nelle
case di tolleranza, hanno solo la libertà di alienarsi”. Lina Merlin
aveva cominciato a conoscere da vicino il fenomeno della
prostituzione e le donne che la esercitavano visitando le case di
tolleranza. Le leggi che fino ad allora avevano regolamentato la
prostituzione dovevano essere abolite, senza che ad esse fosse
integrato alcun tipo di controllo o permesso di esercitarla in luogo
pubblico. Il compito dello Stato avrebbe dovuto essere quello di
istituire sistemi e strutture tese a favorire ed aiutare il reinserimento
sociale delle donne che volevano cambiare vita (il progetto
prevedeva, infatti, la creazione di istituti ad hoc con il compito
specifico di provvedere alla loro istruzione al fine di fornire loro gli
strumenti e le qualifiche per poter trovare nuovi impieghi). Furono
necessari nove anni affinché la proposta della Merlin percorresse
l’intero iter legislativo, poiché, nonostante fosse sostenuta da molti,
la legge incontrò una serie di intralci durante il dibattito in
Parlamento, dovendo essere ripresentata allo scadere di ogni
legislatura. I lavori parlamentari che portarono all’approvazione di
questa innovativa riforma, furono, poi, contrassegnati da un duro
scontro etico-politico che vide contrapposti da un lato gli
schieramenti abolizionisti e dall’altro quelli regolamentaristi. I primi,
appartenenti alle forze politiche di sinistra, ritenevano che
l’abolizione della regolamentazione della prostituzione avrebbe
liberato le donne dalla schiavitù legalizzata in cui erano da molti
anni obbligate a vivere, ridando loro dignità e parità di diritti rispetto
agli uomini. La ratio del modello si ritrova in una duplice
qualificazione della prostituzione: da un lato si condanna il
meretricio in quanto fonte di oppressione, decadenza dei costumi,
diffusione di malattie; dall’altro lo si ritiene idoneo a soddisfare i
bisogni naturali dell’uomo attinenti alla sua sfera sessuale e, per
questo motivo, non eliminabile. I regolamentaristi, appartenenti
all’ala di destra del Parlamento, affermavano, al contrario, che
soltanto lo Stato era in grado di controllare e preservare la società
civile dal degradante fenomeno del meretricio. L’esistenza delle
case di tolleranza, permetteva, infatti la riduzione al minimo
dell’adescamento lungo le strade.
Prevalse il pensiero abolizionista, in linea, con le risoluzioni
internazionali.
L’approvazione della legge, che segnò una svolta nel costume e
nella civiltà dell’Italia moderna, fu vista da alcuni come l’inizio di una
nuova era, da altri con timori. La legge Merlin, tuttavia, di fatto,
restituì la libertà a molte donne, fino ad allora oppresse dai loro
protettori e dallo Stato che guadagnava sulla loro pelle.
3.1 Lettere dalle case chiuse (a cura di Lina Merlin)
Nelle lettere che la senatrice Lina Merlin ricevette, nel dopoguerra,
da parte di molte donne italiane, si scorge la speranza di ritornare a
una vita normale al fine di dimenticare le vessazioni subite.
“Onorevole,
27 Gennaio 1951
Sono una di «quelle» e seguo con interesse quanto Lei vuol fare. Le
dirò soltanto perché a 25 anni faccio questa vita. Ho fatto le scuole
medie e poi mi sono impiegata. Il mio principale quando ha visto che
sull’atto di nascita risultavo, senza mia colpa, figlia di N. N., ha
subito preteso di approfittare di me. II resto va da sé. Ora ritornando
alla vita normale, come potrò rifarmi se dappertutto, anche
all’affittacamere, dovrò mostrare i miei dati più privati? Perché non
cerca di rimediare anche a questo? Perché tutti devono sapere i
nostri fatti personali? La ossequio”.
“Senatrice Lina
Merlin 16-5-50
Sono una ragazza di 28 anni, sono senza padre, in casa siamo in
otto componenti, quattro grandi tutti disoccupati e quattro bimbi. ò
fatto domanda al Sanatorio di F. e da […]. Per ora […] non assume
personale e per il Sanatorio ci vogliono le carte pulite, le quali
queste non le tengo. Essendo disoccupata dal 1943 e avendo una
bimba di nove (9) anni a carico, sono caduta anch’io in quel fango,
ho dovuto vendere la mia carne. Ora, già da due anni male non ne
faccio più, però la voro per me non ce n’è. Debbo ancora cadere su
quel fango? Debbo insegnare a mia figlia un domani fare male,
perché a sua madre non le danno lavoro? Anch’io voglio redimermi,
anch’io voglio essere all’altezza di tutte le ragazze e se lavoro non
me lo danno cosa debbo fare? Andare in casa di tolleranza, questo
passo non voglio farlo. Quindi mi rivolgo a Lei se può fare qualche
cosa, al meno darmi una via d’uscita. Con la speranza di essere
ascoltata. Ossequi”.
29-12-1950
“Egregia Senatrice Merlin
Da tanto tempo che volevo scrivere oggi mi sento in vena. Vedo con
mio sommo dispiacere, che ancora non si decidono di far chiudere
queste case immonde. Poveri giovani Pederasti che per pochi soldi
ci stanno. Altri giovani attivi per i ticchi depravati, camerieri, garzoni,
come capita. E quegli specchi americani… Certi dissoluti ci vedono
attraverso e assistono allo spettacolo, a pochi centimetri: lo
sapevate? Cosi la magione diventa sempre più ricca… Tutto il resto
non conta, per quella donna diabolica. Mi fanno ridere quando
vengono per far le visite di controllo. La maggioranza sono sempre
d’accordo (mangiano tutti e tutti tacciono). Nel mese di marzo 1950
venne una bella giovane di anni 21 naturalmente non pratica di
nulla. In cominciò il traffico, le fecero fare l’esame del sangue, dopo
dieci giorni ebbe la risposta positiva. Quanti sifilitici à fatti solo lei?
Mettiamo che sono solo 40 al giorno, che codesta bella signorina
accontentava, dieci giorni 400 persone. Poi il resto, le conseguenze
che vengono dopo. Questi luoghi abbietti. Non le dico poi delle
povere ragazze! Vengono sfruttate e consumate fino alle midolle. E
devono tacere e fare silenzio. Signora Senatrice faccia un’opera pia,
al più presto possibile faccia chiudere”.
22-8-50 “Preg.ma Senatrice Merlin
Fino a ieri vivevo con una grande speranza che tutto andasse bene
in merito alla pratica di matrimonio di mio marito. Purtroppo, ho
avuto una grande delusione perché mio marito à saputo che per i
miei precedenti il Ministero à passato all’Ufficio disciplina del
Ministero stesso la pratica per i provvedimenti di farlo allontanare
per sempre dal servizio. Intervenga subito lei presso […] in quanto
lui può fare molto, e può aiutarmi. La cosa va a momenti. Cosa sarà
di me? Cosa sarà dei miei due bambini? Come possiamo più
vivere? Credevo che la mia felicità da donna onesta avrebbe durata,
ma vedo che il giudizio degli uomini è troppo duro verso noi povere
peccatrici che ci siamo rimesse sulla buona strada. Tutto crolla
intorno a me. Ho peccato, ho mancato, che colpa ne tiene mio
marito, i miei figli? Volessi morire prima che la catastrofe si
abbattesse sulla mia famiglia. È una vera rovina. Non voglio più
tornare nel fango, ho conosciuto le bassezze, non voglio più
pensare a quella dannata vita. Anche ai più grandi malfattori si dà il
perdono. Perché non si vuol perdonare una donna che ora vive
veramente nella più rettitudine vita senza dare rimorsi al suo
passato? Fin quando non avrò una sua risposta vivo nell’incertezza.
Baciandole le mani cordialmente la saluto”.
7-3-50 “Gentile Signora,
Ogni tanto si sente parlare della chiusura di queste case, ma ora
pare che tutto sia in silenzio. A quando questa decisione? La
preghiamo di fare presto perché noi in tanto continuiamo a soffrire.
Non vediamo l’ora di essere libere. Ci scusi e cerchi di aiutarci”.
“Onorevole Merlin,
22-9-48
Ho visto riprodotto sul giornale Omnibus, di nuovo de gli articoli per
la chiusura delle case di tolleranza. E dite che lo fate per il nostro
interesse. Vi sbagliate, perché ci farebbe proprio piacere che voi
non vi interessiate di noi e ci lasciate fare la nostra vita, perché se
noi si rimane qua è perché ancora non è arrivato il momento di
poterci ritirare da questi luoghi. Voi chiudendo cosa credete di fare?
… Tutto a svantaggio nostro e della povera gente che ci andrà di
mezzo, perché se chiudono le case faremo fuori ciò che facciamo
ora e quando avremo finito questi pochi soldi che ci siamo messe da
parte e non troveremo nulla da fare, allora sa che cosa si fa? si va a
rubare dove ci sarà, e se tenteranno di oltrepassarci la strada
saremo anche capaci uccidere, e faremo fuori chiunque, perché non
sapremo mai fare le serve, o le contadine. Voi che parlate di una
certa moralità, ma pensate piuttosto a quelle povere famiglie che
non ànno lavoro e gli uomini non sanno cosa dare da mangiare alla
sua famiglia .Abbiamo finito ora di soffrire per una guerra che ha
distrutto tanto, cosa volete fare ancora soffrire chi rimane per la sua
strada e non cerca nulla a voi.
Pensate a tutti gli infelici che non ànno niente da mangiare e che
chiedono continua-mente il nostro aiuto. E quelle ragazze che le
scrivono di chiudere sono delle donne brutte e cattive e che non
potendo avere ciò che loro vogliono sa cosa fanno? Dicono ciò che
le viene nella bocca perché le padrone non pretendono che il giusto
e quando noi non facciamo i nostri interessi facciamo la valigia e si
parte, ma nessuno ci può mandare via. Perciò pensino loro che non
si sta per le nostre soddisfazioni, stiamo solo per il nostro interesse.
Ossequi”.
3.2 Gli obiettivi della Riforma Merlin
La legge Merlin deve necessariamente essere descritta come il
risultato di un “moto di ribellione, soprattutto con il triste fenomeno
dello sfruttamento, tollerato, legalizzato e regolamentato da norme
pubbliche”. La Carta costituzionale era la fonte in cui gli obiettivi e le
ragioni dovevano essere ricercati, con particolare riferimento agli
art. 3, 32, e 41 della stessa. L’obiettivo primario della senatrice non
era quello di eliminare il fenomeno della prostituzione, che essa
stessa sapeva bene essere una piaga insopprimibile di ogni società,
quanto quello dell’abolizione della prostituzione di Stato. La
prostituzione così come regolamentata sino a quel momento non
poteva che essere parificata ad una forma moderna di schiavitù
della donna: nelle case di tolleranza le meretrici erano vittime di
ogni forma di tirannia e l’obbligo della registrazione negli elenchi di
polizia marcava in modo definitivo le loro vite future. “La dignità
della persona umana ha acquistato sempre maggiore rispetto a
mano a mano che le istituzioni civili si sono fatte sempre più
rispettose del diritto naturale. La prostituta non è libera. La
prostituzione regolamentata ammette questa degradazione della
libertà. La prostituzione regolamentata ammette che si possa
vendere l’uso del corpo di un’altra donna da parte del tenutario di
una casa di prostituzione, il quale ha dei diritti su quel corpo ed ha
una percentuale su quel commercio. Tutto questo è incompatibile
con la dignità dell’uomo e del cittadino”. Tale condizione si poneva
in evidente e innegabile contrasto con l’art. 3 della Costituzione
Italiana che sancisce il principio di eguaglianza e la pari dignità
sociale. Il secondo obiettivo consisteva, invece, nell’abolizione del
sistema di schedatura nei registri di polizia e nell’obbligo dei
controlli sanitari. In relazione a quest’ultimo è forte il contrasto con
l’art.32 della Costituzione che impone espressamente alle leggi che
tutelano la salute il divieto di violare i limiti imposti dal rispetto della
persona umana. Il terzo ed ultimo obiettivo era quello di mettere fine
alla tolleranza del lenocinio che si poneva in antitesi con l’art.41
della Costituzione in quanto l’iniziativa economica non può svolgersi
in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla liberta e alla dignità
umana. Tale legge, nel suo complesso e nonostante gli alti obiettivi,
non poteva considerarsi espressione di una legislazione liberale
finalizzata a garantire l’esercizio della prostituzione totalmente
libero. “Lo spirito dell’intera normativa è quello di considerare come
offesa al minimo etico non la prostituzione ma l’organizzazione
dell’esercizio della prostituzione che rappresenta un esempio di
obiettiva, profonda e degradante immoralità”. I dati ufficiali
sostengono che fossero tremila le donne liberate dalle case chiuse,
ma i numeri reali erano ben altri: furono, infatti, migliaia le donne
che, dopo l’approvazione della legge Merlin, si riversarono nelle
strade italiane confuse, deboli e vulnerabili. Donne che in parte
finirono, proprio a causa della loro debolezza, in altre forme di
sfruttamento, passando così dalla prostituzione nelle case di
tolleranza a quella sulla strada. In quegli anni, infatti, alcuni clan,
sfruttarono la prostituzione perché fonte di denaro e ambito ottimale
per riciclare il denaro sporco. Tuttavia, l’assenza della schedatura,
la possibilità di vedere delle alternative a quella vita e l’opportunità
di un lavoro diverso fecero diventare la scelta della senatrice Merlin
un cambiamento enorme per tutti. Molte donne lasciarono il loro
passato alle spalle, per sempre. Quelle che rimasero si
liberarono dagli sfruttatori, aiutandosi e tutelandosi tra colleghe. Si
diffuse, in quegli stessi anni, il fenomeno delle sex workers, le
lavoratrici del sesso, donne che pretendevano il riconoscimento dei
loro diritti e che proponevano di considerare la prostituzione al pari
di un lavoro come un altro.
Nel 1983, il convegno dei Comitati per i diritti civili delle prostitute
rappresentò l’elemento di rottura tra il “prima” e il “dopo”, segnando
un passo epocale nella storia dei diritti e delle pari opportunità. Per
la prima volta, infatti, le prostitute ottennero la possibilità di
rivendicare i propri diritti di persone, e di esprimersi sulle politiche
che le riguardavano.
3.3 Brevi considerazioni critiche sulla Legge Merlin
La legge Merlin, abolendo la regolamentazione della prostituzione,
avrebbe dovuto configurare la prostituzione come una libertà di
fatto; invece, la prostituzione, di per sé, non è né repressa, né
tutelata. In realtà, la legge del 1958 reprime indirettamente la
prostituzione creando una sorta di cintura sanitaria intorno alla
prostituta, stabilendo delle vere e proprie incapacità che ne riducono
pesantemente i diritti civili. La prostituzione è un’attività lecita, ma
quasi impossibile da esercitare nella sua legalità. Uno Stato è
chiamato a decidere se un’attività è lecita o illecita, regolandone le
modalità ma non può reprimerla indirettamente ledendo i diritti civili
della prostituta in campi costituzionalmente garantiti. Lo Stato
moderno non deve compiere valutazioni moralistiche di questo tipo
ma può e deve lottare, invece, contro lo sfruttamento autentico e
violento. Risulta, quindi, inequivocabile l’inadeguatezza del modello
abolizionista in termini di tutela della donna che si prostituisce.
Infatti, nonostante l’esercizio del meretricio sia connotato da
un’indiretta liceità, la perseguibilità penale predisposta dalla legge
Merlin in relazione alle condotte a questo collaterale è incapace di
proteggere e rispettare la prostituta, condannandola ad una morte
sociale. In particolare, l’interpretazione giurisprudenziale attribuita
alle ipotesi di favoreggiamento e sfruttamento colpisce soggetti che,
al contrario, intrattengono con la donna relazioni di ausilio e/o
familiari, impedendo nei fatti una piena autodeterminazione
nell’esercizio della propria attività; la qualificazione femminile di
alcune norme perpetua uno stereotipo di genere; i numerosi richiami
al buon costume e alla pericolosità sociale operati dal legislatore
accrescono la marginalizzazione dell’individuo.
4. Dopo la legge Merlin: Prostituzione e diritti del lavoro
Nei primi anni ’80, in Italia e in altri paesi cominciano ad esplodere
le contraddizioni del modello abolizionista, rappresentato nel caso
italiano dalla Legge Merlin. Questa onda di critiche nasce su spinta
diretta delle prostitute. Per la prima volta, verso la metà degli anni
’70, hanno infatti iniziato a formarsi dei gruppi di prostitute
autorganizzate, favorite senza dubbio da un generale clima di
progresso nei diritti civili delle donne e delle minoranze sessuali e
sostenute, almeno inizialmente dai gruppi abolizionisti e
femministi. In particolare, il debutto del movimento europeo delle
sex worker è identificato con la protesta a Lione, nel 1975, durante
la quale un gruppo di prostitute occupò la chiesa di Saint-Nizier per
denunciare il trattamento discriminatorio e violento inflitto loro da
parte delle autorità pubbliche. Non solo dunque il regime
abolizionista non difendeva le prostitute dallo sfruttamento e
dall’abuso di organizzatori, clienti, e altri, ma contribuiva invece
attivamente a queste ingiustizie, trattando di fatto le prostitute come
criminali. Per ragioni simili, nacque non molto tempo dopo anche in
Italia un gruppo che si dette il nome di Comitato per i diritti civili
delle prostitute e che ancora oggi rappresenta una delle voci di
riferimento nel panorama italiano e internazionale. Secondo il
Comitato, in parte questi ricatti e discriminazioni istituzionali erano
dovuti al pregiudizio contro le prostitute, diffuso in vari gradi in tutti i
paesi, a prescindere dal tipo di legge e in parte essi erano attribuibili
in modo preciso agli effetti della legge abolizionista. Nonostante le
grosse difficoltà organizzative, nel 1985, grazie anche al forte
legame con i movimenti femministi, allora schierati per la causa dei
diritti delle prostitute, si svolge ad Amsterdam la prima conferenza
mondiale del movimento e viene redatto un celebre manifesto
chiamato World Charter for Prostitutes’ Rights, che ha segnato le
linee guida dei diritti delle sex worker per lungo tempo. La richiesta
originale di questo documento è il riconoscimento del lavoro
sessuale come lavoro, con i diritti e i doveri che ne derivano. Questa
richiesta di riconoscimento positivo si accompagna alla lotta contro
la criminalizzazione subita dalle sex worker. Questi stessi elementi
si ritrovano, in forme diverse, in altri documenti collettivi successivi,
come il Sonagashi Sex Workers’ Manifesto, scritto a Calcutta da
un’organizzazione di sex worker, il Durbar Mahila Samanwaya
Committee, che oggi conta 65.000 aderenti, oppure il Manifesto on
the Rights of Sex Workers in Europe, scritto dalla conferenza di sex
worker riunite a Bruxelles nel 2005 intorno all’International
Committee on the Rights of the Sex Workers in Europe. Alcuni
Paesi, quali Olanda, Germania, Australia e Nuova Zelanda, a partire
dagli anni ’90 hanno fatto la scelta di includere le rappresentanti
delle organizzazioni di sex worker nella formulazione e nella
valutazione delle loro politiche prostituzionali. Questa collaborazione
ha prodotto nuovi approcci legislativi, neoregolamentaristi o di
decriminalizzazione, in cui ogni caso la prostituzione è riconosciuta
come un lavoro. Alcuni effetti di normalizzazione e legalizzazione
del lavoro sessuale iniziano a manifestarsi in questi contesti, dove il
livello di isolamento privato e pubblico, almeno per le sex worker
europee, appare diminuito.
5. La prostituta: un soggetto socialmente pericoloso
La prostituta è stata a lungo considerata un soggetto socialmente
pericoloso per l’ordine precostituito. La polizia di pubblica sicurezza
era l’organo addetto al controllo e alla protezione della società da
ogni possibile pericolo; il suo compito era quello di farsi carico di
tutti quei soggetti che con la loro condotta potessero arrecare un
danno all’ordinamento o ai consociati. La figura della prostituta era,
per l’ideologia ottocentesca, l’emblema della devianza femminile. La
concezione della società di fine XIX secolo era, infatti strutturata in
ruoli determinati secondo i quali ogni donna rispettabile sottostava
alla tutela maschile, di conseguenze le numerose donne
indipendenti che affluivano nelle città venivano classificate come
prostitute. L’emergente emancipazione femminile destava
turbamenti e alimentava l’inquietudine generale. La prostituzione
divenne una questione fortemente dibattuta. Se da un lato era
necessario contrastare il fenomeno che rientrava nella più ampia
lotta alla devianza; dall’altro sussistevano posizioni favorevoli ad un
disciplinamento dello stesso le quali ritenevano la prostituta “nata
con la tendenza alla devianza sessuale”. La prostituzione costituiva
una valvola di sicurezza sociale; in conformità a tale idea si
affermava la regolamentazione del fenomeno, scelta che,
nonostante le critiche, fu perseguita da Cavour e delineò il quadro
sociale italiano fino al 1958. Il pericolo che la donna prostituta
rappresentava riguardava la società nella sua interezza poiché essa
costituiva una minaccia all’ordine pubblico per la sua condotta
libera, alla moralità e alla stabilità delle famiglie per la sua
sessualità sregolata, alla salute pubblica in quanto portatrice di
malattie veneree. Alla luce di ciò, si evince come la donna prostituta
era la figura che più di tutte assumeva i caratteri della devianza: il
suo essere donna la relegava in una condizione di inferiorità, la sua
condotta la poneva in una posizione slegata da ogni categoria
femminile tradizionale, l’essere indipendente e sola la inseriva i
vagabondi indigenti. Lo Stato italiano ricorse alla regolamentazione
per contenere il fenomeno della prostituzione e soprattutto per
controllare la vita delle donne che la esercitavano. Al giorno d’oggi,
l’art.54 del Testo unico degli enti locali attribuisce al sindaco il
potere di adottare, con atto motivato e nel rispetto dei principi
generali dell’ordinamento giuridico, ordinanze necessarie ed urgenti
volte a prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano
l’incolumità dei cittadini. Il dl. n. 92 del 23 maggio 2008 – recante
Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e convertito in legge
24 luglio 2008, n.125 – amplia ulteriormente tale potere,
ricomprendendo anche l’adozione di atti a tutela di esigenze di
incolumità pubblica e sicurezza urbana. Secondo la dottrina,
quest’ultima nozione ricomprende sia la criminalità, sia il degrado
urbano e sociale dei centri abitati; sul punto interviene anche la
novella del 2008, il cui art.1 recita “per sicurezza urbana si intende
un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa,
nell’ambito delle comunità locali, nel rispetto delle norme che
regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità nei
centri urbani, la convivenza civile e la coesione sociale” e il cui art.2,
elencando gli ambiti di intervento del sindaco include “i
comportamenti che, come la prostituzione di strada, possono
offendere la pubblica decenza anche per le modalità con cui si
manifestano, ovvero turbano gravemente il libero utilizzo degli
spazi pubblici o la fruizione cui sono destinati o che rendono
difficoltoso o pericoloso l’accesso ad essi”. Per quanto riguarda il
campo di applicazione geografica dei divieti, alcuni atti interessano
l’intero territorio comunale, mentre altri individuano specifiche aree
considerate maggiormente soggette all’esercizio del meretricio al
punto che l’ordinanza del comune di Verona del 24 febbraio 2009, n.
17 proibisce la “prostituzione negli edifici condominiali quando
venga accertato che essa provochi disturbo alla tranquillità degli
altri residenti o offenda la convivenza civile con cui essa si svolge”.
Accanto ad una possibile violazione dell’art.3 Costituzione dovuta
alla disparità di trattamento inerente all’esercizio della prostituzione
sul territorio italiano, la lettura delle ordinanze sindacali mostra una
correlazione tra preoccupazioni di pericolosità pubblica delle
condotte previste dal decreto ministeriale citato e considerazioni di
immoralità; per esempio l’ordinanza del sindaco di Pisa del 1
giugno 2012, n.60 considera il meretricio lesivo “delle regole sociali
o di costume su cui si regge una corretta, ordinata e civile
convivenza”. La reazione della giurisprudenza in materia appare
contrastante. L’ordinanza del T.A.R. Veneto n. 22/2009, per
esempio, dispone la sospensione cautelare del provvedimento del
sindaco di Verona n.81/2008, che poneva il divieto di concludere
contratti sessuali o di esercitare la prostituzione su strada; in
particolare il giudice amministrativo sottolinea l’esistenza di un
“incisione di diritti e libertà individuali non suscettibili di successivo
ristoro” considerando che l’attività di meretricio è lecita
nell’ordinamento italiano e che la sanzione era da applicarsi
indiscriminatamente su tutto il territorio comunale “prescindendo
dall’accertamento di situazioni specifiche e localizzate, riferibili
all’esigenza di tutela della sicurezza urbana”. Opposta è invece la
conclusione adottata dal T.A.R. Lazio con sentenza n. 12222/2008,
la quale conferma la legittimità dell’Ordinanza comunale
n.242/2008; pur riconoscendo l’attività di meretricio come
espressione della libertà sessuale dell’individuo, il giudice
amministrativo sostiene che la stessa sia “con ogni e più forte
ragionevole probabilità, il terminale d’una filiera criminale”,
sottraendo “spazi di vita sociale e civile al resto della collettività, che
in pari libertà d’ espressione e di pensiero degli stessi sex workers,
può non condividerne, né accettarne il mercato ed i suoi effetti” e
considerando che l’art. 41, c.2, Costituzione pone un limite di
iniziativa economica riconosciuta dai ricorrenti in capo alla
prostituta, qualora quest’ultima sia in contrasto con l’utilità sociale o
tale da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità.
Emergono alcuni profili di incostituzionalità delle cosiddette
ordinanze antiprostituzione. Innanzitutto, risulta evidente la
violazione della libertà dei soggetti coinvolti nel mercato del sesso
garantita dal art. 23 Costituzione. In secondo luogo, è possibile
configurare una lesione della libertà di espressione (art.21 Cost.) dal
momento che l’ordinanza romana, punisce sia le contrattazioni di
meretricio che quei comportamenti idonei ad intraprendere queste
ultime. Tale impostazione non appare conforme all’ordinamento
italiano; né sembra giustificare un richiamo alla clausola generale
del buon costume prevista dall’art.21, c.6, Costituzione. Infine, si
sottolinea una violazione dell’art.16, c.1, Costituzione in riferimento
alla libertà di circolazione sull’intero territorio italiano, la quale è
coperta da una riserva di legge assoluta e subordinata a motivi di
sanità e sicurezza. Da un lato, sembra logicamente inaccettabile la
giustificazione addotta dall’ordinanza romana, secondo cui
“l’esercizio dell’attività di meretricio produrrebbe gravi situazioni di
turbativa della sicurezza stradale, a causa di comportamenti
gravemente imprudenti, in violazione del codice della strada, di
soggetti che, alla guida di propri veicoli, sono alla ricerca di
prestazioni sessuali; dall’altro, manca un nesso di casualità trai
comportamenti inibiti e la presenza di rifiuti e residui organici,
presumibilmente pericolosi alla salute pubblica, abbandonati nei
luoghi abitualmente frequentati da soggetti coinvolti nel mercato del
sesso.
7. I mille volti della prostituzione: tipologie e numeri
La legge Merlin non ha definito la nozione di “prostituzione”. Una
valida motivazione è da rintracciare nel fatto che all’epoca non si
sapesse bene cosa si dovesse intendere per prostituzione. Si
trattava di un fenomeno ben più “unitario” rispetto ad oggi, in quanto
nella quasi totalità dei casi la prostituta era una donna che svolgeva
tale mestiere in maniera continuativa. La prostituzione richiede
l’offerta indiscriminata e abituale del corpo della donna a fini
sessuali in cambio di un corrispettivo economico del cliente.
Essenziale alla nozione di prostituzione è la prestazione sessuale,
la dazione del proprio corpo, indiscriminata dove indiscriminata
significa senza scelta del partner. Il secondo requisito, invece, è
quello della professionalità con il quale si vuole esprimere
l’abitualità che tale comportamento deve avere. La problematicità
della definizione riguarda il comportamento materiale, ossia la
dazione del proprio corpo, e risiede nel dilemma se sia necessaria o
meno la congiunzione carnale o se, al contrario, possano confluire
anche comportamenti sessuali diversi da quest’ultima; dottrina e
giurisprudenza propendono nel ritenere che “vada inteso come
episodio di prostituzione anche l’assecondare quelle deviazioni che
trovano il loro soddisfacimento in situazioni che differiscono o
addirittura prescindono dal normale svolgersi dell’atto sessuale.
L’ultimo profilo discutibile relativo alla finalità lucrativa della
prestazione si individua esclusivamente nel comportamento di chi
tragga da quest’ultima, in tutto o in parte, la propria fonte di reddito
(si individua, tale requisito, pertanto, anche nella condotta di chi
svolga in via principale un’altra professione e si dedichi alla
prostituzione solo in via secondaria per soddisfare bisogni o lussi
che non potrebbe altrimenti permettersi).
Tradizionalmente, si pensa alla prostituzione come un rapporto a
due tra chi esercita il meretricio ed il cliente il quale
necessariamente implicherebbe quantomeno un contatto fisico tra i
medesimi. Viceversa, sia la
giurisprudenza di legittimità quanto le Corti di merito hanno
ripetutamente ribadito che l’elemento caratterizzante l’atto di
prostituzione non è necessariamente costituito dal contatto fisico tra
i soggetti della prestazione, bensì dal fatto che un qualsiasi atto
sessuale venga compiuto dietro pagamento di un corrispettivo e
risulti finalizzato, in via diretta ed immediata, a soddisfare il
desiderio di colui che ha chiesto o è destinatario della prestazione.
La prima distinzione tra forme di commercio del sesso si basa sul
luogo in cui avviene l’incontro tra cliente e prostituta: al chiuso o
all’aperto. Nella categoria di prostituzione all’aperto si colloca la
sola prostituzione di strada, caratterizzata dall’attesa del cliente da
parte della prostituta in un luogo all’aperto, sia che il rapporto
sessuale avvenga poi in una situazione semipubblica o in uno
spazio privato. In tal modo, il prezzo di una prestazione contrattata
è minimo, dal momento che non vi sono costi infrastrutturali da
pagare. Si tratta di un vantaggio economico sia per il cliente che per
la prostituta. Anche l’interazione è ridotta al minimo. La strada come
luogo di lavoro può rappresentare una situazione ottimale per la
prostituta dal punto di vista dell’indipendenza e della gestione del
proprio guadagno. Nella prostituzione di strada lo svantaggio più
evidente per la donna è che nel corpo a corpo con il cliente essa si
trova sola, generalmente in un luogo isolato. Dal punto di vista del
cliente, la prostituzione di strada, oltre a rappresentare un costo
inferiore, può avere un’attrattiva particolare proprio per il fatto di
legare il sesso al rischio, per l’anonimato meglio garantito rispetto
alla frequentazione di bordelli o di night club, per la possibilità di
scegliere. La prostituzione al chiuso, invece, abbraccia tutti i casi in
cui la prostituta attende il cliente in un locale, sia pubblico che
privato: un bordello autorizzato, un night club, un Eros Center. Tutte
queste localizzazioni possibili per l’incontro con il cliente hanno in
comune il fatto di non implicare l’appropriazione di uno spazio
pubblico, al contrario della prostituzione all’aperto. In questa
categoria si collocano anche le prostitute che lavorano come
“escort” ovvero come accompagnatrici. Il contatto con il cliente
avviene con l’intermediazione di un’agenzia per la quale la donna
lavora accompagnando il cliente in determinate occasioni. Si rende
quindi necessario il ricorso a qualche forma di pubblicità. Vi sono
norme di legge che limitano la pubblicità alla prostituzione, anche se
vengono molto spesso aggirate o disattese con il ricorso ad attività
paravento. La prostituzione al chiuso presenta altri costi aggiuntivi
rispetto a quella all’aperto: uno di questi è rappresentato dall’affitto
per l’utilizzo dei locali. L’incontro avviene con forme un po’ meno
sbrigative rispetto alla prostituzione di strada, e in genere si
contratta un determinato arco di tempo. Questo tipo di prostituzione
è visto con sfavore dalla prostituta e con favore dal cliente, in
quanto la prima vende anche l’illusione di essere desiderato non
solo sessualmente ma come persona completa.
Con il passare del tempo, il mutare del “mestiere”, ma soprattutto
l’emergere di varie tipologie e persino di generi di prostituzioni e
prostitute, ha portato ad una progressiva disgregazione del concetto
unitario di prostituzione. Si parla oggi di “prostituzioni”. Esiste la
donna che viene costretta a prostituirsi attraverso minacce o
violenza: in questi casi si è di fronte a vere e proprie “schiave” del
sesso a pagamento. Parlare di libertà di autodeterminazione in
questi casi sarebbe assurdo. Esistono poi casi intermedi, in cui una
donna è spinta alla prostituzione dall’indigenza e da condizioni
sociali degradate, di cui taluno abusa e approfitta. Si tratta di casi
che si situano in una zona grigia tra la capacità di autodeterminarsi
e la costrizione. Vi è, infine, la donna che per sua scelta libera e
volontaria decide, per mille motivi, di prostituirsi (escort). Chi
agevola una tale attività non fa altro che fare un favore a colei che
la esercita. Di conseguenza, non vi è alcuna attività dannosa, non vi
è alcuna vittima. Semmai, potrebbe pensarsi alla Dignità della
persona, bene giuridico a cui pensavano oltre cinquant’anni fa i
compilatori della Legge Merlin. La disciplina vigente punendo l’altrui
condotta collaborativa, spinge la persona dedita alla prostituzione
ad una condizione di solitudine professionale esistenziale anche in
caso di prostituzione come scelta libero-professionale. A queste
varie tipologie di prostitute corrispondono spesso varie tipologie di
clienti, e differenti tipologie di “sfruttatori”, “reclutatori e
“favoreggiatori”. Le stime per i clienti in Italia si situano tra i 2,5 e i 9
milioni, dove per cliente si intende un uomo che abbia comprato
sesso almeno una volta nella vita.
Il concetto di prostituzione si è ulteriormente allargato a dismisura
fino a comprendere casi al limite tra il fenomeno in questione e
diverse relazioni più o meno comuni – in cui si mischia il sesso con
l’interesse – che un tempo mai sarebbero rientrate nella già
menzionata nozione. Per quanto riguarda la vendita di sesso da
parte delle prostitute, in Italia, le cifre si aggirano fra i 50.000 e i
100.000, di cui almeno la metà lavorerebbe al chiuso, mentre
sarebbero 25.000 le street workers, cioè coloro che vendono sesso
nelle strade italiane. Rispetto al resto d’Europa, la quantità di sex
worker rende l’Italia abbastanza simile ad altri Paesi quali la
Germania, il Belgio, la Svizzera, la Francia, la Spagna. L’aspetto
originale italiano è invece la forte presenza di prostituzione in
strada. La maggior parte dei dati che circolano sulla prostituzione
riguarda infatti quest’ultima, più facile da monitorare. È la situazione
che emerge negli anni ’60, ’70, ’80; a partire dagli anni ’90, invece,
le prostitute delle classi medie lavorano per lo più al chiuso.
Per quanto concerne l’età, chi lavora in strada è più giovane,
generalmente si ha una media tra i 20 e i 25 anni, mentre al chiuso
è più facile trovare sex worker sui 30-35 anni.
In Italia, come nel resto d’Europa, è presente un’offerta di servizi
anche da parte di minori. L’evoluzione tecnologica ha sicuramente
contribuito alla crescita di episodi in cui ad essere coinvolte sono
giovani donne.
Il lento spostamento del bene giuridico – dalla moralità pubblica alla
libertà di autodeterminazione della persona – ha forse contribuito
all’ampliamento della nozione di prostituzione, non più
necessariamente legata al continuativo esercizio del mestiere in
pubblici postriboli, ma anche a episodi più circoscritti in cui
comunque si comprime la libertà della persona.
7.1 Bene giuridico: evoluzione
Nel 1958 la Legge Merlin intende tutelare il buon costume e la
moralità pubblica, il cui titolare esclusivo è lo Stato, con la
conseguenza di considerare la prostituta al pari di un soggetto
passivo dello sfruttamento, o del favoreggiamento. La donna è un
soggetto incapace di autodeterminarsi e, per questo motivo,
destinataria di un paternalismo giuridico volto a rispettare e a
promuovere una nozione oggettiva di dignità. Tuttavia, con il
passare del tempo, dottrina e giurisprudenza hanno reinterpretato la
ratio legis, prendendo in considerazione alcuni profili.
Innanzitutto, esse riconoscono la poliedricità del fenomeno del
meretricio: la stessa Legge Merlin proibisce quelle condotte
connotate da coercizione e subordinazione della donna,
determinando una differenziazione categoriale della prostituzione,
che non consente di perseguire o condannare moralmente l’attività
svolta nel rispetto della volontà dell’individuo coinvolto. Sul punto
l’unico profilo problematico rimane l’ipotesi in cui la donna sia
condizionata da fattori economico-sociali, trasformando la propria
scelta in una forma di coercizione indiretta ed – eventualmente –
chiamando in causa la responsabilità statale nei confronti del libero
sviluppo dell’individuo. In secondo luogo, nella sua dimensione
volontaria la prostituzione è da ritenersi espressiva della libertà
sessuale dell’individuo, considerando che, secondo la Corte
Costituzionale, “essendo la sessualità uno degli essenziali modi di
espressione della persona umana, il diritto di disporne liberamente
è senza dubbio un diritto soggettivo assoluto, che va ricompreso tra
le posizioni soggettive direttamente tutelate dalla Costituzione ed
inquadrato tra i diritti inviolabili della persona umana che l’art 2
impone di garantire” (C. Cost., 10.12.1987, n. 561, par. 2);
analogamente la stessa libertà è da ricomprendersi sotto la
previsione dell’art. 6 CEDU in materia di rispetto alla vita privata
dell’individuo, come affermato dai giudici di Strasburgo (nel caso
Dudgeon c. Gran Bretagna 1981). Ulteriore profilo da considerare in
materia è l’evoluzione della condizione della donna nell’ordinamento
italiano. Nel 1958 lo status femminile era ancora da ricomprendersi
in un modello maschilista e patriarcale tale per cui la donna – per la
sola appartenenza al genere femminile – non era ritenuta in grado di
autodeterminarsi; tale realtà aveva pertanto indotto il legislatore ad
assumere una posizione paternalistica e di protezione nei suoi
confronti. Oggigiorno, nel rispetto e nell’attuazione dell’art.3
Costituzione, la donna sembra aver conquistato un’eguaglianza
formale e sostanziale parificabile a quella maschile e, di
conseguenza, la sua qualificazione come soggetto di diritto non
consente più all’ordinamento di considerarla incapace di
autodeterminarsi. La dottrina, con il passare degli anni, ha cosi
sempre più spostato l’asse della tutela verso il bene giuridico della
libertà di autodeterminazione della persona in materia sessuale.
Anche la giurisprudenza ha fatto altrettanto, sia pure con qualche
ritardo rispetto alla dottrina. A partire soprattutto da una sentenza
della Cassazione del 2004 che peraltro traeva spunto da altri
interessanti precedenti, si proceduto ad una ridefinizione del bene
giuridico. Ad avviso della Cassazione, la legge Merlin aveva
proceduto a porre in primo piano “accanto alla salvaguardia della
moralità pubblica, del buon costume e dell’ordine sociale, la dignità
e la libertà della prostituta”. Il “nuovo” bene giuridico è dunque
quello della “dignità e libertà della persona umana” con particolare
riguardo al libero esercizio del meretricio al fine di evitare lo
sfruttamento della stessa o comunque il pericolo di una qualsiasi
forma di speculazione. Questo bene giuridico viene ritenuto, dal
giudice di legittimità, “preminente rispetto all’altro” (ovvero quello
della moralità pubblica). Non mancano isolate sentenze più
“conservatrici” che mantengono il vecchio inquadramento della
moralità pubblica e del buon costume, e altre “intermedie” che
abbinano l’originario, antico interesse tutelato a quello più
“moderno” della libertà di autodeterminazione sessuale della
prostituta. Il ricorso ad un ulteriore bene giuridico, la dignità, non
deve far pensare a quest’ultima come una novità assoluta. La si
ritrova, infatti, nei dibattiti che hanno portato alla Legge Merlin,
anche per il fatto che la situazione delle prostitute nei postriboli di
stato, nella prima metà del Novecento, non era probabilmente
conforme a canoni di dignità. La si incontra poi in svariate pronunce
giurisprudenziali, ma di solito accompagnata dalla menzione di altri
beni giuridici, nei confronti dei quali aveva in realtà funzione
servente se non “ornamentale”. La stessa sentenza n.35776 del
2004, apripista del mutamento di rotta verso la tutela della libertà
sessuale della persona, aveva inserito a fianco di tale libertà il
riferimento alla dignità della persona stessa. In tal caso, non si
trattava certo di una dignità di tipo oggettivo, ma piuttosto
soggettivo, ovvero di una dignità propria della persona che si
prostituisce, legata a doppio filo e servente alla libertà sessuale
della persona stessa. La dignità irrompe sulla scena
giurisprudenziale, per mettere a tacere ogni tentativo di dar
rilevanza alla libera scelta della persona che si prostituisce o anche
al suo genuino consenso nei confronti di attività di ausilio da parte di
terzi.
La ridefinizione del bene giuridico cambia tutto. Non si tratta più di
un bene giuridico collettivo-statuale (moralità pubblica) ma
individuale: la libertà di autodeterminazione della prostituta in
materia sessuale, la sua dignità.
7.2 Dignità: oggettiva e soggettiva
La dignità: un concetto importante, che ispira riverenze e
soggezione e che a partire dal secondo dopoguerra, è stato oggetto
di un incessante processo di giuridificazione che ha portato a
considerarla “la base stessa dei diritti fondamentali”, nonché ad
attribuirle un ruolo funzionale in relazione a questi ultimi. Un valore
riconosciuto come centrale dalla gran parte delle costituzioni e da
varie carte dei diritti fondamentali dell’uomo. Allo stesso tempo,
un’idea difficilmente definibile, sfuggente nei suoi contorni ma
persino, forse, nei suoi connotati tipici. Proprio per questo non è ben
chiara la possibilità di un suo utilizzo come bene giuridico,
considerando anche, che per dottrina e giurisprudenza consolidate, i
beni protetti devono avere il carattere della c.d. “afferrabilità”. La
dignità umana è un principio di grande importanza ma da
maneggiare con estrema cautela. Quando si estende l’utilizzo di tale
amplia nozione agli ambiti più variegati, si rischia di sfruttarne le
nobili origini e gli indubbi richiami emozionali per giustificare, senza
l’ausilio di ulteriori argomenti razionali, soluzioni normative
addirittura potenzialmente lesive di diritti umani; quegli stessi diritti
si cui la dignità doveva essere la più autorevole e inflessibile
protettrice. In particolare, un problema di tal genere si pone quando
la dignità umana si scontra con la libertà di autodeterminazione
dell’individuo. Vi sono ipotesi in cui, ad es., una persona,
esercitando una sua libertà di autodeterminazione, vorrebbe attuare
una condotta, ma quella condotta viene ritenuta lesiva della dignità
umana. Entra in gioco qui la contrapposizione tra dignità intesa in
senso oggettivo e dignità intesa in senso soggettivo. La dignità
oggettiva (o “impersonale) è un qualcosa di esterno alla volontà del
soggetto da proteggere, e derivante da parametri di tipo sociale,
morale di riferimento. Ciò implica, da un lato “che ciascun soggetto
è debitore del dovere di rispetto della propria dignità nei confronti
dell’intero genere umano o di un determinata collettività di persone”;
e dall’altro, che la libertà si configura come un attributo passibile di
essere limitato senza alcuna riserva.
Per dignità soggettiva (o “personale) si intende quella che consegue
alle libere scelte di un soggetto capace di autodeterminarsi. Fine
principale della concezione soggettiva è “precostituire le condizioni
minime per una libera costruzione dell’identità, difendendo
l’individuo da un’illegittima “imposizione di modelli valoriali
dominanti, a scapito del pluralismo e delle diversità e creando così
una sfera protettiva che lo isola dalla realtà esterna. In questa
prospettiva, ciascuno ha una propria dignità e un proprio tipo di
dignità, e ogni dignità è diversa da soggetto a soggetto. In materia
sessuale, ad esempio, ciò che è dignitoso per qualcuno può essere
ripugnante per qualcun altro. E se si riconosce libertà di
autodeterminazione in materia sessuale, occorre anche riconoscere
che ciascuno si autodefinisce il proprio concetto di dignità anche in
materia sessuale. Se si tutelasse la dignità sotto un profilo
soggettivo e non oggettivo, le prospettive cambierebbero
drasticamente: ad esempio non si potrebbe legittimamente
sottoporre a pena un comportamento solo perché poco dignitoso per
una maggioranza della popolazione. Si potrebbero castigare quelle
condotte lesive della dignità soggettiva, ovvero quelle condotte che
costringono un soggetto ad agire diversamente rispetto a ciò che lui
considera dignitoso. In tal contesto, la dignità umana deve essere
invece intesa in senso oggettivo, in quanto diviene irrilevante
l’atteggiamento soggettivo della prostituta. Ne deriva che la
contrattualizzazione dell’attività sessuale, anche se scelta
deliberatamente e liberamente, si pone in contrasto con la tutela
della dignità della persona, che è il bene giuridico tutelato dalla
legge. Vendere e acquistare prestazioni sessuali non può, pertanto,
considerarsi una forma di espressione della libertà della persona
oggetto di tutela costituzionale.
8. La prostituzione come attività lecita ma contraria al buon costume
Benché il bene giuridico tutelato dalla legge Merlin sia attualmente
ricondotto all’autodeterminazione della donna coinvolta nel mercato
del sesso, l’ordinamento italiano è ancora fermo nel riconoscere la
contrarietà al buon costume del meretricio. Nella Costituzione
Italiana la nozione di buon costume si ritrova come limite esterno
alla libertà religiosa e a quella di espressione (artt. 19 e 21);
diversamente sono numerosi i richiami operati dalla legislazione
ordinaria. Nell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale in
materia di buon costume, si registra un rigetto del paternalismo
giuridico e morale giacché la “legge morale vive nella coscienza
individuale e così intesa non può formare oggetto di un regolamento
legislativo (C. Cost., 4.2.1965, n.9, par.5); un’affermazione della sua
relatività storica e della sua portata limitante circoscritta a quanto
strettamente necessario a garantire la libertà dell’individuo (C.
Cost.,9.7.1992, n.368); e una considerazione del pluralismo etico
contemporaneo da individuarsi nel “rispetto della persona umana,
valore che anima l’articolo 2 della Costituzione” (C. Cost.,
11.7.2000, n.293 par.3). Diversamente, soffermandosi
sull’opera di concretizzazione operata dalla giurisprudenza di
legittimità con riguardo al meretricio, si individua il ricorso ad un
criterio descrittivo della nozione di buon costume idoneo a garantire
la “civile convivenza dei consociati”. In particolare, la Suprema
Corte afferma che il buon costume “corrisponde al complesso dei
principi di media moralità, indispensabili per la convivenza sociale,
ai quali, in una determinata epoca e in un determinato ambiente,
informano normalmente la loro condotta le persone che intendono
vivere onestamente” (Cass. Civ., 22.5.1951, n. 1272), mentre, con
riguardo al più specifico esercizio della prostituzione, gli stessi
giudici sottolineano come quest’ultimo sia oggetto di riprovazione
sociale, “in quanto avvertita dalla generalità delle persone come
violatrice di quella morale corrente che rifiuta, sulla scorta delle
norme etiche che rappresentano il patrimonio della civiltà attuale, il
commercio per danaro che una donna faccia del proprio corpo”
(Cass. Civ., Sez. III, 1.8.1986, n.4927). La considerazione di
contrarietà della al buon costume del meretricio comporta una
vulnerabilità della prostituta all’interno dell’ordinamento italiano,
data la paradossale mancanza di tutela sancita indirettamente da
quest’ultimo. La connotazione di immoralità attribuita
dall’ordinamento alla prostituzione sembra da un lato, riflettere il
sentire comune della popolazione imponendo coattivamente un
modello comportamentale conformista e, dall’altro, contribuire alla
stigmatizzazione della donna che, lecitamente, eserciti tale attività.
9. Il diritto alla salute della prostituta
Il diritto alla salute, per quanto possa variare nel contenuto
all’interno dei vari confini nazionali, rimane strettamente collegato
alla più completa realizzazione della personalità umana. Così,
secondo il preambolo alla Costituzione dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità (1946), la salute corrisponde ad uno “stato di
completo benessere fisico, psichico e sociale e non ad una semplice
assenza di malattia”, mentre numerose ricerche rivelano che le
prostitute soffrono di disturbi fisici e psichici.
Nonostante l’art 32, c.2, Costituzione abbia operato quale ratio legis
per l’emanazione della legge Merlin, ci si chiede se la prostituta sia
titolare del diritto alla salute sotto un profilo sostanziale. La risposta
sembra affermativa, considerando l’odierno sistema sanitario.
Quest’ultimo infatti, in attuazione degli artt. 2, 3 e 32 Costituzione,
rivolge la propria funzione di tutela a favore della generalità degli
individui e, a parità di bisogno, ognuno ha diritto alle medesime
prestazioni; parimenti è garantita l’equità di accesso a chiunque,
indipendentemente dalle condizioni socioeconomiche o dalla
provenienza geografica; infine la tutela della salute è garantita sotto
una prospettiva onnicomprensiva. Tale triade è tuttavia
accompagnata anche da un principio solidaristico, il quale richiede
alla collettività di partecipare solidalmente al finanziamento del
servizio in modo da garantire prestazioni gratuite a coloro che non
potrebbero sostenere simili costi. Simile efficacia legislativa a tutela
del diritto alla salute della prostituta si ritrova in particolare, in
relazione al virus dell’HIV. Accanto a disposizioni di carattere
pratico, la legge 5 giugno 1990, n.135, si caratterizza infatti per
l’interesse prestato a tutelare i diritti fondamentali dell’individuo. In
particolare, l’art 5, c.1, recita: “l’operatore sanitario e ogni altro
soggetto che viene a conoscenza di un caso di AIDS, ovvero di un
caso di infezione da HIV, anche non accompagnato da stato
morboso, è tenuto a prestare la necessaria assistenza e ad
adottare ogni misura o accorgimento occorrente per la tutela dei
diritti e delle libertà fondamentali dell’interessato, nonché della
relativa dignità”, sancendo nei commi e nelle disposizioni
successive un obbligo di anonimato dei risultati, un divieto di
discriminazione generale, nonché la necessità del consenso nella
sottoposizione agli esami diagnostici e nel trattamento dei dati.
Contestualmente l’HIV è ricompreso tra quelle patologie che nel
tempo possono determinare dei danni alla salute o dei rischi per la
vita e, di conseguenza, il portatore del virus beneficia di quelle cure
essenziali garantite dal sistema sanitario in vista del rispetto del
nucleo essenziale del diritto alla salute di cui egli è titolare.
Non è un mistero che dai tempi della approvazione della legge
Merlin le prostitute non siano affatto calate di numero, ma anzi si
siano moltiplicate in modo esponenziale.
La maggior parte di esse è stata costretta a riversarsi nelle strade
dando vita a problemi non di poco ordine e di decoro pubblico, di
sicurezza e salute per le stesse prostitute. Al tempo esse erano
protette all’interno delle case di prostituzione, sia nella loro
incolumità, sia nella loro salute, mentre oggi tale mestiere viene
spesso esercitato in luoghi malsani, freddi, nascosti, ma nello
stesso tempo esposti al pubblico. Il risultato di tutto ciò è che il
lavoro dei sex workers è un lavoro rischioso sia per l’incolumità
fisica che per la salute degli
stessi. Non a caso da anni i
rappresentanti delle organizzazioni dei “lavoratori del sesso” lottano
per avere diritti pari a quelli degli altri lavoratori. La società attuale,
però, non se la sente di offrire protezione e diritti a chi compie scelte
che la stessa Corte di Cassazione, ritiene “discutibili sul piano
morale” ma certamente “non illecite”. Benché le malattie
sessualmente trasmissibili interessino la popolazione globale, la loro
prevenzione e trattamento sono trattati diversamente sul territorio
europeo alla luce dell’eterogenea interpretazione della nozione di
diritto alla salute e dei dissimili sistemi sanitari nazionali.
La particolare attenzione che i Governi nazionali hanno dedicato alla
questione è sempre stata percepita come volta a difendere i clienti e
le loro famiglie, piuttosto che le prostitute, da sempre considerate
origine e veicolo del male.
10. Libera scelta e coercizione nella prostituzione
“Prostituire” significa concedere ad altri, per denaro o per qualsiasi
interesse materiale, ciò che, secondo i principi morali di una
società, non può costituire oggetto di lucro: la propria dignità; ci si
prostituisce per vivere, per fare carriera. È bene chiedersi quando
una donna sia libera di scegliere e quando invece sia costretta.
Bisogna tener conto del fatto che la prostituzione è spesso
connessa a situazioni di disagio sociale che influenzano le scelte
delle donne, scelte che possono dipendere da circostanze storiche,
sociali, politiche ed economiche. La libera scelta è possibile quando:
non c’è sfruttamento o coercizione, la donna è consapevole della
propria decisione, ha la possibilità di avere alternative e altri mezzi
di sostentamento oltre la prostituzione. L’ordinamento può
consentire alla donna di offrire prestazioni sessuali a scopo di lucro,
risolvendo la transazione sessuale nell’esercizio di quel diritto al
lavoro riconosciuto da documenti interazionali e costituzionali,
nonché dalla giurisprudenza europea. Con il caso Aldona
Malgorzata Jany e altri c. Staatssecretaris van Justitie (2001), la
Corte di Giustizia dell’Unione Europea afferma che la prostituzione,
quando esercitata in via autonoma dalla prostituta, sotto la propria
responsabilità e senza vincoli di subordinazione, si identifica nell’
esercizio di un’attività economica a carattere autonomo che, in
quanto tale, gode della libertà di stabilimento (art.43 TFUE). Il diritto
della donna a prostituirsi si risolve in una “disponibilità controllata
del diritto al lavoro” la cui regolamentazione è affidata dal legislatore
ad una disciplina speciale in grado di rispettare i principi del
sistema. Riconoscere la prostituzione come una professione
significa garantire alla donna i suoi diritti fondamentali, senza la
necessità di prevedere, ad esempio garanzie sulla professionalità
della prestazione. Il diritto al lavoro ricomprende “la libera scelta
dell’impiego” e, conseguentemente, il consenso dell’individuo
all’esercizio di quest’ultimo diventa una condizione necessaria
idonea, a giustificare la mercificazione del corpo umano. Sul punto,
l’Unione Europea riconosce come la donna, indipendentemente
dallo specifico motivo che la porta a prostituirsi, appartenga
comunque ad una categoria vulnerabile. Questo è il contesto
socioeconomico in cui il legislatore deve intervenire: “l’oggetto
dell’intervento del diritto non è semplicemente la lotta contro la
mercificazione della sessualità, quanto piuttosto la tutela di chi non
può prestare validamente il proprio consenso, per ragioni sociali
giudicate strutturali all’attività che svolge”. Lo stesso principio di
indisponibilità del corpo umano a fini di lucro riflette la volontà
legislativa di evitare che “l’ineguale distribuzione della ricchezza
incide su scelte particolarmente rilevanti per la sfera individuale: è
infatti dimostrato come il legame della donna con il mercato del
sesso abbia ripercussioni sulla sua vita sociale e ciò porta a
domandarsi se, piuttosto del termine prostituta o sex worker, non
sarebbe più corretto parlare di “donna prostituta” al fine di non
addossarle la completa responsabilità della scelta e di riconoscere
l’esistenza di un fattore coercitivo esterno.
Nonostante ciò, un’ingerenza legislativa volta ad impedire alla
donna di vendere il proprio corpo in quanto vittima del mercato
finisce per oggettivare comunque l’individuo, privandolo cosi della
propria capacità d’agire”. Al contrario, le stesse prostitute, nel
Manifesto “Sex Workers in Europe” rivendicano il loro status e
richiedono l’intervento del diritto al solo fine di tutelarle in quanto
lavoratrici e quindi parti deboli del contratto di lavoro. Il femminismo
radicale, invece, identifica il meretricio quale violazione del principio
di eguaglianza, formale e sostanziale, anch’esso racchiuso in carte
costituzionali e internazionali. Il meretricio comporta infatti la
mercificazione del corpo femminile, tramandando la subordinazione
cui le donne sono ancora oggigiorno soggette e operando come
strumento di affermazione della propria virilità da parte dell’uomo.
La violazione del principio di eguaglianza non è però determinata da
sole considerazioni di genere dal momento che la prostituta è scelta
ed acquistata dal cliente anche sulla base della sua apparenza;
analogamente ulteriore inosservanza è da riscontrarsi ogni volta il
legislatore introduca un quadro normativo che punisca la sola
prostituta, considerando che la transazione richiede il
coinvolgimento di almeno due parti.
Il consenso non è uno strumento tale da misurare il livello di
oppressione alla quale è soggetto una persona. Il consenso ad
essere violata è, di per sé stesso, una forma di oppressione. La
pressione, la coercizione non possono essere misurate secondo il
grado di consenso. Durante “il periodo storico della schiavitù” anche
gli schiavi acconsentivano e questo consenso, era soltanto, il
prodotto della loro incapacità a vedere o sentire e del non avere
alcuna altra alternatività. Se il consenso fosse stato il criterio per
determinare se la schiavitù fosse o meno una violazione dei diritti
umani delle persone, questa non sarebbe stata riconosciuta come
tale, poiché uno degli elementi chiave era costituito
dall’accettazione da parte di molti schiavi della propria condizione.
L’uso del termine “consenso” suppone la violazione dei diritti
economici, civili, sociali, politici, fisici e sessuali, poiché si basa su
valori sessisti predominanti. Le donne che vendono sesso non
hanno il diritto di opporsi alle richieste dei propri clienti o di stabilire i
termini degli incontri: qualcosa le rende più vulnerabili a stupri. Alle
donne che verosimilmente hanno detto sì alla prostituzione, non
viene riconosciuto il diritto di dire “no” allo stupro: esse stesse sono
la causa degli stupri da loro subiti. Il diritto di “chi tace acconsente”
viene erroneamente applicato alle prostitute. Il silenzio della
maggior parte di queste è la conseguenza dell’intimidazione, del
terrore, della vergogna, della dissociazione. Il loro silenzio
come quello delle donne battute non può essere mai inteso come
silenzio. Non esiste il diritto ad acconsentire che il nostro corpo
venga trattato in modo qualunque, come, per esempio, che venga
aggredito brutalmente. Un consenso di questo tipo è contro i valori
fondamentali della nostra legislazione; il corpo umano deve essere
rispettato e tale rispetto verrebbe meno se venissero tollerate
aggressioni brutali tra individui. Se si accettasse l’idea della forza
quale parte integrante del sesso commerciale, il consenso che si
potrebbe dare non significherebbe necessariamente assenso.
Quando paura e disperazione producono acquiescenza e
l’acquiescenza è interpretata come consenso, il termine “consenso”
perde, in realtà, di significato.
11. Il fenomeno “escort”
Tra gli effetti collaterali scaturiti da alcuni da alcune vicende penali,
vi è quello di aver richiamato l’attenzione dell’opinione pubblica su
un neologismo di derivazione anglosassone. Ci si riferisce al
termine “escort”, di derivazione inglese, che in epoche più pudiche e
più ingenue evocava, presso il largo pubblico, un fortunato modello
di fascia della Ford, il cui nome intendeva senza dubbio alludere alla
funzione di “accompagnamento” cui la vettura era destinata nella
vita quotidiana delle famiglie. Che il termine escort sia divenuto oggi
il più in voga in Italia per designare una prostituta è ormai nozione
ampliamente diffusa a seguito di una vera e propria collezione di
episodi di cronaca. Alla folgorante fortuna di questo neologismo,
hanno contribuito vari fattori, non ultimo il suo timbro “aristocratico”,
“raffinato”, “elitario”, in apparenza scevro da connotazioni volgari.
Lontano dal costituire uno stigma semantico offensivo e degradante,
come il tradizionale epiteta prostituta, esso evoca oggigiorno uno
status femminile che è non solo socialmente tollerato, ma al
contrario della rappresentazione dei media può persino risultare
prestigioso. Il termine “escort” attestato nella lingua inglese non
prima del XVI-XVII secolo, è un sostantivo di genere neutro,
registrato dai più autorevoli dizionari britannici e americani con il
significato primario di “scorta”, “accompagnatore a scopo onorifico,
di protezione o difesa”. Tale termine si è diffuso negli ultimi tempi
nel linguaggio informale e mediatico per indicare una figura
femminile – spacciata per nuova ma in realtà assai meno di quanto
comunemente si creda – assimilabile per funzione e prestazioni alla
tradizionale prostituta, ma non completamente identificabile con
essa, i virtù dei tratti marcatamente elitari che la contraddistinguono:
indipendenza professionale, esclusività, discrezionalità nella scelta
della clientela, tariffe elevate. Sino all’ultimo periodo del Novecento
e all’inizio del XXI secolo il termine “escort” non è attestato in lingua
italiana, o figura in modo sporadico, con significati ormai divenuti
obsoleti. L’edizione del 1988 del Vocabolario della Lingua Italiana di
Nicola Zingarelli, ad es., lo registra come sostantivo raro, di genere
maschile invariabile, con il significato esclusivo di “accompagnatore
turistico”; mentre la più recente edizione 2000/2001 del Dizionario
della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, non lo
registra neppure. Dal canto loro, i principali dizionari editi negli anni
‘80-‘90 non includono mai il termine “escort” nell’elenco dei sinonimi
di prostituta, tra i quali figura invece quello di “squillo”, un termine
derivato dall’inglese informale call-girl con il significato di “prostituta
disponibile mediante chiamata telefonica”. Oltre al significato di
“scorta”, i dizionari della lingua inglese registrano un significato
secondario del termine “escort”, che si avvicina maggiormente
all’accezione italiana divenuta usuale nel linguaggio corrente, sia
pure con un’inversione di genere dal femminile al maschile. Sotto il
profilo delle prestazioni specifiche, il tratto caratterizzante una figura
femminile nel suo ruolo sociale di accompagnatrice e intrattenitrice
di uomini è, fin dall’antichità classica, la disponibilità sessuale: una
prerogativa funzionale, che finisce per assimilarla ad una prostituta.
Designare una donna sessualmente disponibile mediante
l’eufemismo “accompagnatrice” non è una novità odierna, ma è una
pratica linguistica documentata da tempo. Già nell’antica Grecia, il
termine etèra, col quale si designavano a partire da Erodoto le
“cortigiane di lusso” in opposizione alle prostitute ordinarie, significa
“compagna”. Tale eufemismo non deve però trarre in inganno: la
prestazione principale delle etère oltre ad intrattenere
preliminarmente gli ospiti con una raffinata conversazione,
consisteva nel concedersi sessualmente ai convitati, in cambio di
cospicue ricompense in denaro o in oggetti preziosi.
L’uso del termine “escort” come sinonimo di accompagnatrice è
ufficialmente accolto a partire dall’edizione 2008-2009 del
Vocabolario della Lingua Italiana dello Zingarelli (“Persona retribuita
per accompagnare qualcuno in viaggi od occasioni mondane ed è
disponibile a prestazioni sessuali”). Tuttavia, esso figurava già da
alcuni anni nel Dizionario delle parole straniere nella Lingua Italiana
dove alla voce “escort” compare quella che può essere assunta
come la definizione standard del termine nel senso corrente: “Donna
giovane e avvenente che partecipa, a pagamento, a cene, serate in
locali notturni, non escludendo rapporti sessuali mercenari”. Sorge
una questione. Se la escort, è in fondo solo la versione più
aggiornata di una tipologia femminile ampiamente rappresentata nel
corso dei secoli, deve individuarsi una ragione che giustifichi il
ricorso ad un ennesimo neologismo per definirne ruolo e funzioni
che, dissimulati dietro una parvenza raffinata, rinviano pur sempre a
quelli tipici della prostituta ordinaria.
Sin dall’antichità e presso le società più diverse, le ragioni della
ricchezza del vocabolario usato per designare una prostituta sono
molteplici. Alcune di queste ragioni sono di natura essenzialmente
culturale e sociale, altre obbediscono invece a precisi meccanismi di
natura psicologica e linguistica. Le prostitute, infatti, non si
configurano mai come una classe omogenea: per differiscono per
“rango” professionale, per la clientela maschile cui si rivolgono, per
l’entità del compenso richiesto ecc. Tali differenze si riflettono
invariabilmente sotto l’aspetto lessicale, come dimostra l’adozione
dell’appellativo “escort”, ostentato dalle giovani donne che
concedono in maniera redditizia e gratificante i loro favori sessuali a
uomini dotati di prestigio e potere senza sentirsi di fatto delle vere
“prostitute”. Questo neologismo, col suo “innocente” significato di
“scorta”, assume infatti un adeguato valore eufemistico, privo di
contenuti offensivi, a differenza di termini in voga fino a non molto
tempo addietro, che sono percepiti come ormai inappropriati per il
loro carattere diventato nel frattempo ingiurioso.
12. “Prostituzione non è libertà” (sentenza 141/2019 Corte
costituzionale)
Con la sentenza n°141 del 6 marzo 2019 la Corte costituzionale ha
dichiarato infondata la questione di legittimità sollevata con
ordinanza del 7 febbraio 2009 dalla Corte d’Appello di Bari per
asserito contrasto con gli art. 2, 13, 25 comma 2, 27 e 41 Cost.
dell’art.3 comma 1, n°4 parte prima e 8 della l.20 febbraio 1958,
n°75, la cd. “legge Merlin” nella parte in cui configura come illecito
penale il reclutamento ed il favoreggiamento della prostituzione
volontariamente e consapevolmente esercitata. La questione di
costituzionalità rispetto ad alcune norme contenute nella legge
Merlin era stata sottoposta alla Consulta dai giudici della Corte
d’Appello di Bari, che l’avevano sollevata nel corso del processo
penale sulla vicenda delle cosiddette “escort” presentate nel 2008-
2009 all’allora premier Silvio Berlusconi dall’imprenditore Giampaolo
Tarentini. La Corte d’Appello di Bari aveva sostenuto che l’attuale
realtà sociale è ben diversa da quella dell’epoca in cui le norme
incriminatrici furono introdotte: accanto alla prostituzione “coattiva” e
a quella per “bisogno”, oggi sussisterebbe una prostituzione “libera
e volontaria”, qual è quella delle “escort” (dovendo intendere per
“escort” l’accompagnatrice retribuita, disponibile anche a prestazioni
sessuali). Tale scelta costituirebbe espressione della libertà di
autodeterminazione sessuale, garantita dall’art.2 della Costituzione:
libertà che verrebbe lesa dalla punibilità di terzi che si limitino a
mettere in contatto “l’escort” con i clienti o ad agevolare la sua
attività. Al contrario, la Corte costituzionale ha delineato che l’art.2
della Costituzione, nel riconoscere e garantire “i diritti inviolabili
dell’uomo”, si pone in stretta connessione con il successivo art.3,
secondo comma, che al fine di rendere effettivo questi diritti,
impegna la Repubblica a rimuovere gli ostacoli economici e sociali
per il “pieno sviluppo della persona umana”. I diritti di libertà, tra i
quali rientra anche la libertà sessuale, sono riconosciuti dalla
Costituzione in relazione alla tutela e allo sviluppo del valore della
persona umana. La prostituzione, però, rappresenta solo una
particolare forma di attività economica. In tal contesto, la sessualità
è considerata una “prestazione di servizio” avente il fine di
conseguire un profitto. La Costituzione italiana contiene alcuni
principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel
loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione
costituzionale o da altre leggi costituzionali. Questi principi, pur non
essendo espressamente menzionati tra quelli non assoggettabili al
procedimento di revisione costituzionale appartengono all’essenza
dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione ed hanno una
valenza superiore rispetto alle altre norme o leggi di rango
costituzionale. Uno di questi principi è indubbiamente la Dignità
Umana. Essa è da considerare come un concetto che discende dal
principio personalista per il quale l’individuo è il centro
dell’organizzazione sociale e politica, titolare di diritti anteriori allo
Stato. L’essenza della dignità si concretizza nel fatto che l’essere
umano merita assoluto rispetto di per sé. Quello della dignità umana
è un valore supremo che non conosce distinzioni e graduazioni di
status personali; la dignità si propone come valore autonomo da non
confondere e da non assimilare rispetto a quello, pure
fondamentale, della libertà.
Il valore della dignità umana riassume, tutti gli altri valori contenuti
nella Costituzione. La dignità esprime la saldatura tra eguaglianza,
libertà e solidarietà oltre che cogliere il legame tra i diritti
fondamentali, sottolineandone l’universalità, l’indivisibilità e
l’effettività. Il bene giuridico tutelato va individuato, perciò, non nella
tutela della libertà di autodeterminazione sessuale o nel valore
paternalistico della pubblica moralità, ma nel rispetto del principio
della dignità della persona nella sua dimensione sessuale declinata
in senso oggettivo, ossia come principio che si impone a
prescindere dalla volta e dalle condizioni del singolo individuo, e che
va considerato alla stregua di un valore inderogabile da preservare.
Nella sentenza in esame, la Corte ha sottolineato la necessità di
non limitarsi ad una concezione assoluta, fredda e tirannica
dell’autodeterminazione, ma di riconoscere il suo carattere “fluido”
condizionabile da molteplici fattori (economici, familiari, affettivi,
sociali…) che vanno a ridurre il ventaglio delle sue opzioni
esistenziali. La Corte costituzionale non ha neppure ritenuto che
venga ad essere violata la libertà di iniziativa economica privata per
il fatto di impedire la collaborazione di terzi all’esercizio della
prostituzione in modo organizzato e imprenditoriale. Tale libertà è
protetta dall’art.41 della Costituzione solo in quanto non
comprometta valori preminenti, quali la sicurezza, la libertà e la
dignità umana.
La Corte giustifica così la scelta del legislatore italiano di inibire,
attraverso le norme oggetto di impugnazione, la possibilità che
l’esercizio della prostituzione formi oggetto di attività imprenditoriale
per superare l’obiezione secondo la quale tali previsioni finiscono
col vietare ogni cooperazione anche con quelle persone che si
prostituiscono volontariamente
Il fatto che il legislatore individui nella persona che si prostituisce il
soggetto debole del rapporto spiega, la scelta di non punirla, a
differenza di quanto avviene per i terzi che si intromettono nella sua
attività. La Corte – a sostegno del fatto che l’offerta di sesso a
pagamento non può essere concepita quale espressione di un diritto
costituzionalmente tutelato – sottolinea come il patto avente ad
oggetto lo scambio tra prestazioni sessuali e utilità economica sia
considerato tradizionalmente un contratto nullo per illeceità della
causa in quanto contrario alle buone maniere determinando, quale
unico effetto giuridicamente rilevante, la soluti retentio: la persona
che si prostituisce ha cioè il diritto a trattenere le somme ricevute
dal cliente anche se, di contro, non può agire giudizialmente nel
caso di mancato pagamento spontaneo.
Per la Corte d’Appello di Bari, le norme incriminatrici sarebbero in
contrasto sia con il principio di offensività (dal momento che il bene
protetto non sarebbe più la morale pubblica o il buon costume ma la
libera autodeterminazione della persona, le condotte sarebbero
produttive di un vantaggio per lo stesso interesse tutelato) sia con i
principi di tassatività e determinatezza (dal momento che la formula
“chiunque, in qualsiasi modo favorisca…” risulterebbe
eccessivamente generica). La Consulta ha invece escluso la
violazione del principio di offensività: “l’individuazione dei fatti
punibili è rimessa alla discrezionalità del legislatore, nel limite della
non manifesta irragionevolezza, poiché implica valutazioni
politiche”. Resta comunque ferma, rispetto alla disciplina vigente,
l’operatività del principio di offensività “in concreto”, che impone al
giudice di escludere il reato quando la condotta risulti
concretamente priva di ogni attitudine lesiva. Il concetto di
offensività oggi è comunemente accolto in un’accezione
“relazionale”, poiché ogni tentativo di sua definizione implica il
collegamento con un’altra entità, rappresentata dal bene giuridico.
Al contempo, la Corte ha anche negato che la norma incriminatrice
del favoreggiamento della prostituzione risulti in contrasto con i
principi di determinatezza e tassatività sulla base del fatto che
l’eventuale esistenza di contrasti sulla rilevanza penale di
determinate marginali ipotesi di favoreggiamento rientra nella
fisiologia dell’interpretazione giurisprudenziale.
12.1 Post sentenza: alcune osservazioni
La Consulta ha finito così di disattendere le aspettative del
garantismo. Da un lato, la Corte ha mostrato un chiaro
autocontrollo, mosso anche dalla preoccupazione per il presunto
vuoto di tutela che si sarebbe generato per l’effetto di una pronuncia
caducatoria; dall’altro lato, è evidente però che la sentenza non
potrà in alcun modo consentire il superamento dei dubbi che
ruotano da sempre in ordine a tali fattispecie, tanto in relazione al
profilo dell’offensività, quanto alla linea di demarcazione tra lecito e
illecito.
La chiosa con la quale la Consulta ha spronato una verifica in
concreto da parte del giudice ordinario dell’offensività delle condotte
di reclutamento e favoreggiamento potrebbe addirittura finire con
l’alimentare maggiormente l’incertezza del diritto. Sul fronte del
legislatore continuano ad avvicendarsi in Parlamento numerosi
progetti di legge per la riforma della disciplina della prostituzione, tra
i quali quello presentato dalla Lega il 7 febbraio 2019, che tuttavia
non contiene previsioni relative alle fattispecie di reclutamento e
favoreggiamento se non, per l’ipotesi di ausilio reciproco tra soggetti
esercenti la prostituzione.
13. Profili conclusivi
Indipendentemente da valutazioni di ordine morale o da
considerazioni di sul ruolo della donna nella realtà attuale, ciò che
appare realmente degradante e contrario a qualsiasi istituto inerente
all’essere umano – sia esso diritto fondamentale, clausola generale
o accordo commerciale – non è intrinseco alla prostituzione stessa,
ma è esito delle condizioni in cui questa è esercitata.
Analogamente la prostituta rimane una figura marchiata poiché,
nonostante il lento processo di emancipazione e di
“costituzionalizzazione” femminile, rimane una cultura sociale
fondata sul binomio donna onesta – donna di malaffare, come
dimostra lo stesso linguaggio corrente, il quale spesso ricorre a
termini dispregiativi nei confronti della seconda, operando come uno
strumento di controllo sociale.
La legge 75 del 20 febbraio 1958 è nata per arginare il fenomeno della schiavitù della
donna ai fini dello sfruttamento sessuale; non vieta la prostituzione in sé, ma chi la
favorisce e la sfrutta. A sei mesi dall'approvazione il Parlamento italiano chiudeva
definitivamente 560 case chiuse. Un mercato del sesso che prima dell'approvazione
della Merlin era regolamentato dallo Stato.
Durante il periodo fascista Angelina venne spedita al confino in Sardegna perché aveva
rifiutato di aderire al regime.
Nell’Italia del dopoguerra la sua proposta (per l’abolizione della regolamentazione della
prostituzione, e per la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui e protezione
della salute pubblica) divise il paese. Le donne avevano da poco ottenuto il diritto al voto
ma la strada dell’emancipazione era ancora lontana. Da una parte c'erano madri e mogli
dalla moralità ineccepibile; dall'altra c'erano le prostitute, considerate minorate, viziose,
asociali. Erano schedate, eportavano il marchio della loro condizione senza la possibilità di
rifarsi una vita (dal mensile Sempre, febbraio 2018).
Lina Merlin aveva visto la prostituzione come una «schiavitù legalizzata della donna» e
l’aveva toccata con mano. Con Carla Barberis (moglie del futuro Presidente della
Repubblica Sandro Pertini), scrisse nel 1955 il libro Lettere dalle case chiuse: 70 lettere
ricevute dalle ragazze delle case di tolleranza e dal personale di servizio. Alcune
favorevoli, altre contrarie alla chiusura. In ogni caso donne, come oggi, violentate, sedotte
e abbandonate, povere, costrette dagli eventi. «Sono una povera ragazza sfruttata,
sempre, sono una di quelle ma per il mio bambino farei tutto» (Lettera n. 3).
Tutte si rivolgevano a lei chiamandola “mamma Lina”: «Ci salvi tutte Onorevole, e che
nessuna debba più essere sfruttata da nessuno e minacciata dalla polizia». Spesso
entravano spontaneamente ma non riuscivano ad uscirne. «Si entra nell’incoscienza, il
miraggio d’ambizioni stupide. E dopo quando vediamo che questo denaro è veramente
sudato con il nostro dono migliore, non dà né il risultato e nemmeno la felicità, non siamo
più capaci di trovare la vera via» (Lettera n. 54).
L’iter della legge durò dieci anni. Il business attorno ai bordelli coinvolgeva molti
onorevoli e suoi compagni di partito. Quando la proposta arrivò in discussione in
Parlamento, la combattente Lina invitò Pietro Nenni ad ordinare al partito di votare a
favore. «Altrimenti – disse – farò i nomi dei compagni che sono proprietari di casini». E
lui: «Dio mio, Lina, e come faccio ad avvertirli tutti?».
Si trovò a fronteggiare una serie di luoghi comuni, gli stessi che continuano ad
essere sbandierati oggi. Come il fatto che non se ne può fare a meno perché è un’esigenza
fisiologica. Lei però aveva le idee chiare, come spiegherà in un’intervista del 1963
ad Oriana Fallaci: «Questo Paese di viriloni che passan per gli uomini più dotati del
mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli riesce di
conquistare le donne, a questi cretini, peggio per loro».
Poi c’erano gli intellettuali come Dino Buzzati, decisamente contrari a questa
legge che avrebbe «troncato un filone di civiltà erotica che, nell’ambito delle case chiuse,
veniva trasmesso, con le parole e con l’esempio, di generazione in generazione».
Una volta una donna le urlò per strada: «Dove mando ora i miei figli?». E lei, schietta:
«Dalle figlie delle sue amiche».
La legge 75 fu approvata il 20 febbraio 1958 e sei mesi dopo vennero chiusi i postriboli.
Le prostitute registrate in Italia a quella data erano 2.705 suddivise in 567 case con 3.353
posti letto.
In un suo discorso Lina parlò al cuore delle donne perché «bisogna che nella donna si
risvegli la coscienza di chi deve compiere una duplice missione sociale: di lavoratrice e
di madre. Quando la donna comprenderà ch’ella è parte, e non la meno trascurabile, della
classe degli sfruttati, parteciperà alla lotta contro il regime che la opprime».
“Ma c’è un altro aspetto negativo della legge Merlin che non ho visto indicare da alcuno. Essa cioè – e
non ho nessuna intenzione di scherzare – ha troncato un filone di civiltà erotica, che, nell’ambito delle
case chiuse, veniva trasmesso, con le parole e con l’esempio, di generazione in generazione,
alimentando un’arte spesso raffinata, che temo sia ormai disperso per sempre. Cosicché la Merlin può
essere paragonata a quell’ Erostrato che è leggenda abbia appiccato il fuoco alla grande biblioteca
d’Alessandria, distruggendo un immenso capitale di cultura, mai più recuperato”.
Questo incredibile, ma sincero e “colto” giudizio nostalgico sulla fine delle “case chiuse” è di un
importante intellettuale italiano: Dino Buzzati. Lo si può leggere in appendice al libro che alla legge
Merlin, e al dibattito che suscitò nell’Italia uscita dalla guerra e rapidamente avviata al suo “boom”
economico, ha dedicato recentemente Sandro Bellassai ( “La legge del desiderio. Il progetto Merlin e
l’Italia degli anni ‘50” Carocci 2006, pag 189, euro 16,50).
Per lo scrittore e il giornalista di cui si è da poco celebrato il centenario – e che sappiamo aver avuto un
rapporto complesso e tormentato con l’altro sesso, tra l’altro raccontato nel romanzo “Un amore”, uscito
nel ’63 e basato sulla vicenda autobiografica di un relazione lunga e tempestosa con una prostituta – la
fine delle “case chiuse” equivale dunque alla distruzione di una essenziale istituzione culturale. Buzzati
dice di voler dire la verità, e si aspetta reazioni scandalizzate. Il suo punto di vista è eticamente
coerente, poiché in alternativa al “progetto Merlin”, propone di “tenere in alto onore” il mestiere delle
prostitute, per la funzione sociale insostituibile che svolgono, tanto più che “un uomo che pratica, anche
una sola volta, una puttana, si mette automaticamente, da un punto di vista morale, al suo livello, anzi
un poco più in basso, se devo stare alla comune opinione, perché, pagando, la incoraggia a persistere
sulla “strada del vizio””.
Il testo di Buzzati – tratto da una raccolta di pareri uscita nel ’65 a cura di Gian Carlo Fusco “Quando
l’Italia tollerava”, e ristampata nel ’95 da Neri Pozza – è significativo di una cultura maschile che molto
raramente, negli anni un cui si discusse della legge Merlin, si manifestò in modo così aperto. Nel libro di
Bellassai è seguito da un altro testo molto significativo e toccante. E’ la lettera indirizzata alla senatrice
Merlin da una prostituta che la incoraggia a continuare a battersi per l’abolizione delle “case di
tolleranza” e racconta la sua storia, che sembra uscita da un romanzo di Zola o di Hugo.
Figlia maggiore di un tipografo socialista idealista e colto, subito orfana della madre, e poi del padre
che muore sognando la fine della dittatura fascista e l’avvento di un mondo di liberi e uguali, con in
mano le fotografie delle figlie e di Matteotti, questa donna sarà stuprata a 16 anni da un avvocato molto
“per bene” che avrebbe dovuto garantirle un impiego, tradita dalle false promesse e dai ricatti di lui, e
poi avviata alla “carriera” di prostituta in “case” di alto livello, per poter mantenere agli studi la sorella
minore, tenuta rigorosamente all’oscuro di quel suo vero “lavoro”.
In questa lettera quel tempio alessandrino dell’erotismo evocato da Buzzati assume le tinte squallide di
un luogo di violenza, ipocrisia, sopraffazione quotidiana, dal quale l’autrice della lettera sogna di potersi
un giorno emancipare, nella continua evocazione degli ideali socialisti del padre e della stessa Merlin.
Ho cominciato dalla fine del libro di Benassai, perchè questa essenziale antologia restituisce
immediatamente molti dei contenuti su cui l’autore si sofferma lungo cinque densi capitoli, ricchi di
rimandi alle discussioni parlamentari e, ancor più, alla vasta produzione di articoli, inchieste
giornalistiche e sociologiche, e diversi film, che nel decennio ’50 parlano di un mutamento nelle
relazioni tra i sessi che già annuncia una rivoluzione femminile avvertita da molti come il rischio di una
imminente catastrofe.
La senatrice socialista Lina Merlin presenta il suo progetto per abolire le “case chiuse” il 6 agosto del
1948. La legge verrà approvata dieci anni dopo il 20 settembre 1958 con una larga maggioranza: 385
voti a favore, 115 contro. Il voto segreto non permette ricostruzioni al dettaglio, ma il dato rilevante è il
consenso trasversale tra la sinistra socialista e comunista e il mondo cattolico rappresentato da quasi
tutta la Dc. E tuttavia – come argomenta Benassai – all’interno del fronte abolizionista si possono
ritrovare punti di vista e culture distintissimi: dal più severo moralismo cattolico – a cui da voce in
Parlamento Mario Scelba in persona – a quelle istanze libertarie e femministe che si affacciano in una
sinistra comunque ancora pervasa da un moralismo si segno diverso, ma non meno opprimente.
Il dibattito sulla legge, tra i politici, i medici, sui rotocalchi, è usato da Benassai come la cartina di
tornasole per testare lo stato dell’autocoscienza maschile in un passaggio storico fondamentale per la
costruzione della nuova Italia postfascista. Una autocoscienza che ne emerge assai debole,
caratterizzata dalla sostanziale rimozione del problema del desiderio degli uomini quale premessa del
fenomeno prostituzione, e da una nascente paura di fronte a un protagonismo femminile che comincia
a emergere prepotentemente nelle cronache della “società dei consumi” che si afferma anche in Italia.
Negli interventi di tanti parlamentari e soprattutto medici (questi ultimi per lo più contrari alla legge per
motivi “sanitari”) torna e ritorna l’altalena di una immagine della donna che oscilla dall’”angelo del
focolare”, indispensabile al buon ordine sociale, alla mantide tentatrice, alla virago femminista: dietro a
questi stereotipi si intravvedono le donne reali che vogliono lavorare fuori casa, che non sono più tanto
disposte a servire in silenzio mariti “sultani”, che osano fumare in pubblico e guidare l’automobile, che
un’altra legge del tempo comincia a ammettere nella magistratura. Uno scenario inquietante per molti
uomini e per la cultura tradizionale: anche il Belpaese insegue modelli “made in Usa”, dove per molti il
“matriarcato” è già una realtà trionfante.
Ma c’è anche qualche raro maschio che cerca di guardare in faccia la realtà. Per esempio Guido
Piovene, che intervenendo a un convegno nel 1961, invita il suo uditorio maschile a prendere atto che
la supremazia del “capofamiglia” è finita. E che questo può essere un bene per gli stessi uomini: “…
come nella lotta sociale, di cui questo è un aspetto, l’affrancarsi dei dominati porta seco anche
l’affrancarsi dei dominatori, essendo triste per entrambi sostenere una parte che la storia non consente
più”. Una osservazione che non ha perso nulla della sua attualità.
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Legge Merlin
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Legge Merlin
Stato Italia
Legislatura II
Schieramento DC, PCI, PSI, PRI
Promulgazione 20 febbraio 1958
Indice
1Storia
2Contenuto
3I risvolti sociali
4Il dibattito
o 5.1Questioni costituzionali
6Note
7Bibliografia
8Voci correlate
9Collegamenti esterni
Storia[modifica | modifica wikitesto]
Contenuto[modifica | modifica wikitesto]
La legge stabiliva, nel termine di sei mesi dall'entrata in vigore della stessa, la chiusura
delle case di tolleranza, l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e
l'introduzione di una serie di reati intesi a contrastare lo sfruttamento della
prostituzione altrui.
La legge, proibendo l'attività delle "case da prostituzione" [14], puniva sia lo sfruttamento sia
il favoreggiamento della prostituzione, in particolar modo «chiunque in qualsiasi modo
favorisca o sfrutti la prostituzione altrui»[15]. La norma prescriveva anche la costituzione di
un Corpo di polizia femminile, che da allora in poi si sarebbe occupata della prevenzione e
della repressione dei reati contro il buon costume (sanzionati anche dalla stessa legge
Merlin come «libertinaggio») e della lotta alla delinquenza minorile[16].
Il dibattito[modifica | modifica wikitesto]
Pur essendo l'argomento per sua natura scabroso, e perciò improponibile sui pudibondi
mezzi di informazione dell'Italia degli anni cinquanta, nel Parlamento e nella società si
creò una spaccatura trasversale tra coloro che sostenevano l'opinione di Merlin, fra cui
molti esponenti di area cattolica, e molti altri che invece opposero un atteggiamento di
rifiuto totale e categorico. Anche dopo l'approvazione della legge il dibattito continuò
acceso per lungo tempo.
Lo scontro fra i favorevoli e i contrari raggiunse comunque i banchi delle librerie quando
Merlin, insieme alla giornalista Carla Voltolina, moglie del deputato socialista e futuro
Presidente della Repubblica Sandro Pertini, pubblicò nel 1955 un libro intitolato Lettere
dalle case chiuse, nel quale - attraverso la prosa ingenua e spesso sgrammaticata delle
lettere indirizzate a Merlin dalle stesse sfortunate vittime della realtà dei bordelli italiani - il
fenomeno emergeva in tutto il suo innegabile squallore [17].
Sul fronte opposto, il giornalista Indro Montanelli si batté pervicacemente contro quella che
ormai veniva già chiamata - e si sarebbe da allora chiamata - la legge Merlin.
Nel 1956 diede alle stampe un polemico libello intitolato Addio, Wanda! nel quale scriveva:
«[…] in Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali
puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni
trovavano la più sicura garanzia […]»
Oltre Montanelli, si scagliarono contro la legge altre personalità della cultura, come il
critico letterario e celebre anglista Mario Praz, che sosteneva incrementasse
l'omosessualità maschile, la pederastia e la zooerastia, e non tutelando davvero la figura
femminile[18] e il filosofo tradizionalista di destra Julius Evola[19][20].
Nel 1963 la legge fu investita dalla questione di legittimità costituzionale per quanto
riguardava sia l'articolo 32 della Costituzione, sia, dal punto di vista formale, l'articolo 3, n.
8 della legge Merlin (specificatamente il reato di favoreggiamento della prostituzione), che
secondo i giudici fiorentini avrebbe violato gli articoli 13, 25 e 27 della Costituzione poiché
formulato in maniera troppo generica, ma i giudici della Corte costituzionale reputarono
invece corretta la formulazione della norma, con sentenza dell'anno successivo [21]; ciò
riaccadde altre volte nella storia repubblicana.
Dagli anni ottanta nel dibattito politico italiano hanno preso corpo numerose richieste per
l'abrogazione - totale o parziale - della legge Merlin, giudicata non più al passo con i tempi.
La legge è ritenuta da più detrattori non idonea a gestire il fenomeno della prostituzione in
Italia che, di fatto, rimane una realtà presente e costante. In Italia, infatti, non è
considerato reato la vendita del proprio corpo, ma lo sfruttamento del corpo altrui anche se
in ambiente organizzato. Ciò ha permesso il proseguire, di fatto, della mercificazione
corporale nelle strade oltre che nelle case, ma in clandestinità [22].
Inoltre, prima dell'entrata in vigore della legge la prostituzione nelle strade era molto poco
diffusa, mentre dopo l'entrata in vigore è aumentata notevolmente [senza fonte]. Negli anni
novanta, soprattutto, si è sviluppato il fenomeno della prostituzione legata all'immigrazione
clandestina, esploso poi negli anni successivi. Il traffico di donne, talvolta anche
minorenni, e i lauti guadagni del loro sfruttamento sono passati sotto il controllo delle mafie
italiane e dei loro Paesi d'origine, queste ultime talvolta presenti sul territorio italiano.
Nonostante si siano succedute negli anni numerose proposte di modifica presentate dai
politici di vari schieramenti nonché la proposizione di referendum abrogativi, e nonostante i
continui tentativi di confondere lo sfruttamento della prostituzione con i rischi sociali e
igienici della prostituzione in sé (che la legge non regolamenta), il testo di Lina Merlin
approvato nel 1958 è per gran parte tutt'ora in vigore.
Iniziative legislative e referendum abrogativi[modifica | modifica wikitesto]
Molti hanno presentato nel corso degli anni proposte di legge per l'abolizione o
l'attenuazione della legge Merlin, ad esempio i Radicali Italiani, la Lega Nord, La Destra e
il Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute guidato da Pia Covre e Carla Corso[23].
La ministra per le pari opportunità Mara Carfagna (Forza Italia-Popolo della Libertà)
propose nel 2008 un disegno di legge proibizionista contro la prostituzione stradale, che
però non arrivò mai all'iter parlamentare.
Il 27 luglio 2013 sulla Gazzetta ufficiale della Corte suprema di cassazione è stato
pubblicato il quesito referendario intitolato «Volete voi che sia abrogata interamente la
legge 20 febbraio 1958, n. 75, intitolata Abolizione della regolamentazione della
prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui?» [24][25][26]. Il quesito è
stato depositato da Angelo Alessandri e Matteo Iotti (Progetto Reggio) e Luca Vezzani
(PdL); l'iniziativa è stata promossa dai sindaci di diverse città italiane e la raccolta firme è
partita in alcuni comuni già durante il mese di agosto 2013 [27][28]. Tuttavia la proposta si
arenò poiché al 16 ottobre venne a mancare il numero necessario di firme per la
proposizione del referendum[29].
Nel marzo 2014 venne presentato un disegno di legge da parte della senatrice Maria
Spilabotte del Partito Democratico al fine di regolamentare il lavoro delle prostitute
volontarie[30], iniziativa che però non si è mai concretizzata in una norma di legge pur
godendo dell'appoggio trasversale di molti gruppi, fra cui Lega Nord, Movimento 5
Stelle, Nuovo Centrodestra, PSI e Forza Italia. Nello stesso mese la Lega Nord ha avviato
una nuova raccolta firme per un referendum abrogativo [31][32][33], anche questo non andato
in porto.
Di contraltare sono stati presentati anche disegni di legge per inasprire le sanzioni, come
quello della deputata Caterina Bini (PD) nel 2016, proponendo l'introduzione del modello
neo-proibizionista nordico (chiamato abolizionismo dalle femministe radicali) ai danni dei
clienti, e quello di analogo contenuto di Alessandra Maiorino (M5S) nel 2022. Alcuni
comuni italiani, sul modello di dette legislazioni proibizioniste, hanno introdotto ordinanze
che prevedevano pesanti multe per i clienti delle prostitute di strada, con possibile arresto
in flagranza di reato (fino alla depenalizzazione di tali fattispecie) da parte della polizia
municipale, per i reati di intralcio al traffico e atti osceni in luogo pubblico[34]; spesso tali
misure sono state ritenute incostituzionali e regolarmente le risultanti sanzioni sono state
invalidate da pronunce giudiziarie, in quanto nemmeno la stessa legge Merlin prevede
sanzioni di questo tipo e secondo l'art. 23 «Nessuna prestazione personale o patrimoniale
può essere imposta se non in base alla legge» [35][36].
Nel 2017, basandosi sul decreto legislativo n. 46/2017 (cosiddetto decreto Minniti-
Orlando sull'immigrazione clandestina), il sindaco di Firenze Dario Nardella (PD) ha
emesso un'ordinanza sul divieto di chiedere o accettare prestazioni sessuali a pagamento
per strada, con pene dall'arresto fino a tre mesi e multe fino a €200 anche se il rapporto
non si è consumato[37]. Le equivalenti proposte di alcuni sindaci di istituire quartieri a luci
rosse nei loro comuni (ad esempio a Roma da parte di Ignazio Marino) sono peraltro
sempre state abbandonate su richiesta dei prefetti, perché in contrasto con la legislazione
nazionale definita nella legge Merlin, che configurerebbe per i Comuni stessi (non titolari
della facoltà di legiferare su temi etici e di sicurezza avocati al solo Stato) il reato di
favoreggiamento della prostituzione[38].
La sentenza inoltre stabilisce che la prostituta ha il diritto morale a essere pagata, con IVA
a carico del cliente (tuttavia tale contrattazione, da un punto di vista civilistico sarebbe un
contratto nullo e non impugnabile), e rende quindi legale la tassazione delle prostitute
libere professioniste e l'affitto di appartamenti a uso di prostituzione, se non c'è
sfruttamento; tuttavia non mette al sicuro i locatari dall'essere inquisiti, non avendo il
precedente, in un sistema di civil law, validità di norma come in common law, ma
solo funzione nomofilattica[8].
Parte della dottrina e giurisprudenza considera desueta la parte sul divieto di
"Adescamento e invito al libertinaggio" senza molestia o pagamento, specie dopo i
cambiamenti culturali nel costume seguiti alla rivoluzione sessuale degli anni 1960 e al
cambio di linguaggio dei mass media a partire dagli anni 1980[40]. Inoltre, nel 1981, fu
abolito il Corpo di Polizia Femminile previsto dalla legge, ritenuto superfluo in seguito
all'entrata delle donne nella normale Polizia di Stato e al rinnovamento della vecchia
"Squadra del buon costume", divenuta in seguito "Squadra di contrasto alla criminalità
extracomunitaria e prostituzione".
Altre sentenze hanno definito come prostituzione anche servizi senza contatto come
il sesso virtuale[41] e talvolta i servizi di messaggistica erotica, mentre è stato invece
stabilito che certi tipi di contatto sessuale non siano configurabili come prostituzione, come
ad esempio la lap dance, definita una «legittima forma d'arte» dalla Cassazione anche
quando è condotta solo per l'eccitamento sessuale del pubblico [42]; gli spettacoli privati
sono considerati leciti entro certi limiti[43]: nel caso i clienti consumino atti sessuali dopo
l'esibizione erotica, alcune sentenze hanno considerato ciò lecito se non c'è costrizione,
ma libera scelta dell'artista, e se non c'è pagamento apposito per tale atto (in questo caso
sarebbe prostituzione), e il fatto invece non costituirebbe reato in caso di rapporto non
completo[44] o semplice "toccamento"[43]. Tali atti sessuali non sarebbero considerati
prostituzione sfruttata se messi in atto dalla ballerina, su propria iniziativa, per "fidelizzare"
il cliente e incrementare il proprio guadagno personale (sentenza Cassazione 3 giugno
2017)[42].
Questioni costituzionali[modifica | modifica wikitesto]
Fin dal dibattito e da poco dopo l'approvazione, furono sollevate diverse questioni di
costituzionalità della legge, sempre respinte dalle Corte costituzionale, unico organo
giudiziario col potere di abrogare parti di legge. L'ultima volta [45] è avvenuto nel 2018, in
seguito a sentenza della corte d'appello di Bari del 2017 (che in primo grado aveva
respinto la questione di costituzionalità sollevata dagli avvocati difensori) sul c.d. processo
"escort" Tarantini-Berlusconi, dopo che la corte barese ha rilevato una possibile
incostituzionalità dei reati di reclutamento e favoreggiamento della prostituzione, in caso di
prostitute consenzienti e non sfruttate, in relazione agli articoli 2 (diritti inviolabili, tra cui
quello di disporre del proprio corpo) e 41 (libertà di iniziativa economica) della
Costituzione[46]. La Corte costituzionale con sentenza del 5 marzo 2019 ha dichiarato non
fondate le questioni, ritenendo che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di
politica criminale della legge Merlin di considerare lecita la prostituzione in sé e di punire le
condotte di terzi che la agevolino o sfruttino.
Note[modifica | modifica wikitesto]
19. ^ J. Evola, I testi del Meridiano d’Italia, Edizioni di Ar, Padova 2002, ep. 53-54;
«Le donne, che la letteratura ottocentesca chiamava 'perdute', per un certo verso esercitano un'utile
azione diversiva, dati tutti coloro che, non essendo in grado di sopprimere o trasformare un impulso
elementare, chiuse le vie della esplicitazione più spicciativa di esso, non possono non cercarne di
altre. Vi è un lato per cui quelle ragazze, che si vorrebbero additare al disprezzo generale e di cui
l'antropologia lombrosiana di beata memoria avrebbe voluto fare addirittura la controparte del
delinquente, assolvono ad una funzione sociale protettiva di utilità indiscutibile, con un sacrificio
che, per essere inconscio e involontario, non è per questo meno reale.»
Bibliografia[modifica | modifica wikitesto]
Sandro Bellassai, La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l'Italia degli anni
Cinquanta, Roma, Carocci 2006, ISBN 978-88-430-3806-0
Malte Koenig, Democrazia e diritti umani. L'abolizione della prostituzione
regolamentata in Italia e Germania 1918-1958, in: «Scienza & Politica», Vol. 27, Nr. 53,
2015, pp. 375–389 (PDF).
Tamar Pitch, La sessualità, le norme, lo Stato. Il dibattito sulla legge Merlin, in:
«Memoria: rivista di storia delle donne», 17, 1986, pp. 24–41.
Vittoria Serafini, Prostituzione e legislazione repubblicana: l'impegno di Lina Merlin, in:
«Storia e problemi contemporanei», 10.20, 1997, pp. 105–119.
Maria Antonietta Serci, L'Alleanza femminile italiana 1944-1950. Per una legge contro
lo schiavismo sessuale delle donne, in Donne nelle minoranze, a cura di Patrizia
Gabrielli, «Storia e problemi contemporanei», 2015, 68, pp. 65–89.
Molly Tambor, Prostitutes and Politicians: The Women's Rights Movement in the Legge
Merlin Debates, in: Penelope Morris (a cura di), Women in Italy, 1945-1960: An
Interdisciplinary Study, New York, Palgrave Macmillan 2006, pp. 131–145.
Casa di tolleranza
Lina Merlin
Marthe Richard
Prostituzione
Prostituzione in Italia
Trattamento legale della prostituzione
Prima della Legge Merlin – Un decreto del 1859, voluto dal conte di Cavour,
autorizzava l’apertura di case controllate dallo Stato per l’esercizio della
prostituzione in Lombardia.
Nel febbraio del 1860 il decreto fu trasformato nella Legge “Regolamento del
servizio di sorveglianza sulla prostituzione”. La Legge fissava le tariffe e altre
norme, come la necessità di una licenza per aprire una casa e di pagare le tasse
per i tenutari, controlli medici da effettuare alle prostitute per contenere le
malattie veneree. Il testo definitivo della legge, approvato nel 1888, vietava
inoltre l’apertura di case di tolleranza in prossimità di luoghi di culto, asili e scuole
e imponeva che le persiane dovessero restare sempre chiuse: di qui il nome di
“case chiuse”.
Per tutti i primi anni del 1900 e durante il fascismo non si registrarono variazioni
rilevanti nella legislazione sulla prostituzione se non una disposizione di Benito
Mussolini degli anni ’30 che imponeva ai tenutari di isolare le case con muri detti
“muri del pudore” alti almeno 10 metri. Si arrivò così al 20 settembre 1958,
quando a seguito di un lungo dibattito nel Paese, venne introdotto il reato di
sfruttamento della prostituzione e si decise di chiudere le case di tolleranza con la
cosiddetta Legge Merlin, dal nome della promotrice e prima firmataria, Angelina
(Lina) Merlin del Partito Socialista.
All’epoca fra gli oppositori c’era Indro Montanelli che nel 1956 aveva pubblicato un
breve saggio polemico intitolato “Addio Wanda!” che, in certo senso, rispondeva al
libro pubblicato l’anno precedente dalla giornalista Carla Voltolina, moglie del
futuro presidente Sandro Pertini, e dalla stessa Lina Merlin, intitolato “Lettere dalle
case chiuse”.
Dal 1958 ad oggi, il tema della prostituzione continua a rimanere al centro del
dibattito politico e innumerevoli sono state le proposte di variazione e di revisione
della Legge 75/58, meglio nota come la Legge Merlin.
LA “LEGGE MERLIN”
L’intera vita della senatrice Angelina “Lina” Merlin, prima donna eletta al Senato della
Repubblica Italiana, fu caratterizzata da grandi battaglie ideologiche contro le ingiustizie. La sua
straordinaria tenacia le costò lunghi periodi di privazioni e sofferenze ma fu proprio grazie a questa
stessa tenacia che riuscì, infine, a raggiungere i propri obiettivi e a cambiare lo status quo.
Lina Merlin era una giovane maestra elementare, già militante pacifista allo scoppio della prima
guerra mondiale, quando, nel 1919, aderì allo schieramento antifascista e si iscrisse al Partito
Socialista guidato da Matteotti, con il quale collaborò direttamente raccontando le violenze
squadriste nel veneziano. Nel 1926 fu licenziata dal governo fascista, colpevole di essersi rifiutata
di firmare il giuramento di fedeltà al regime. Nello stesso anno, dopo aver lavorato insieme a Turati
a Milano, venne arrestata e confinata per cinque anni in Barbagia, nel centro della Sardegna.
Durante la seconda guerra mondiale, partecipò attivamente alla resistenza e, nel 1946, fu eletta
nell’Assemblea Costituente, in cui contribuì in particolare alla stesura definitiva dell’articolo 3
(“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di
sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”). Due
anni dopo, fece il suo ingresso al Senato e diede inizio alla battaglia legislativa contro lo
sfruttamento della prostituzione. Nell’agosto 1948, durante l’ultima sessione parlamentare prima
delle vacanze estive, senza alcun preavviso nei confronti dei colleghi, Lina Merlin presentò la sua
prima proposta di per l’abolizione della regolamentazione della prostituzione. Nessuno dei suoi
colleghi senatori, che inizialmente presero poco sul serio l’iniziativa, avrebbe immaginato che, dopo
dieci anni di lotta serrata, questa sarebbe diventata legge dello Stato, imponendo la chiusura
definitiva delle case di tolleranza.
Nel secondo dopoguerra, in Italia, le “case tolleranza” erano un fenomeno accettato e diffuso: sul
territorio nazionale se ne contavano più di 700, di cui 16 soltanto nella capitale. Il volume di affari
era considerevole, stimato in circa 14 miliardi di lire annui, del quale però le prostitute ricevevano
soltanto una minima parte, poiché la maggior parte degli introiti era diviso tra le tasche dei gestori e
le tasse. Le condizioni di vita delle oltre 3000 donne che lavorano nelle case chiuse - in larga
maggioranza provenienti da famiglie molto povere, orfane o abbandonate dai genitori - rasentavano
la schiavitù. Queste erano spesso costrette a vivere recluse nel luogo di lavoro, potendo uscire
soltanto se accompagnate da un agente della Squadra del Buon Costume, costrette a lavorare per
una paga miserevole, con turni che andavano ben oltre le dieci ore al giorno, e spesso si ritrovavano
ad intrattenere anche più 30 rapporti sessuali quotidiani, alla mercé delle perversioni (e a volte delle
violenze) del cliente di turno. Dal punto di vista sociale, invece, le case chiuse erano considerate
un’attività normale, accettata a tal punto che, all’epoca, quasi la metà degli italiani aveva avuto il
proprio primo rapporto sessuale con una prostituta, in molti casi accompagnati dal padre, quasi
fosse un rito di passaggio verso l’età adulta.
Dunque, alle fondamenta della proposta di Lina Merlin, vi era innanzitutto una questione
costituzionale. Cosciente che la prostituzione fosse un fenomeno capillare e pressoché impossibile
da estirpare, la senatrice riteneva inaccettabile che uno stato di diritto potesse trarre risorse
economiche dallo sfruttamento dei liberi cittadini. Non riteneva ammissibile che, da una parte, lo
stato italiano promuovesse pari dignità universali mentre, dall’altra, potesse tollerare, sotto il suo
controllo indiretto, fenomeni di moderna schiavitù. Merlin, in ogni caso, non era sola nella sua lotta.
Per quanto numerosi esponenti politici, in particolare appartenenti agli schieramenti di centrodestra,
ritenevano inaccettabile la chiusura delle case di tolleranza e l’istituzione del reato di sfruttamento
della prostituzione - al punto che un senatore democristiano, medico di professione, affermò di
fronte al parlamento, che per evitare la prostituzione «dovremmo essere costruiti come gli animali
inferiori, per esempio, il corallo, che è asessuale e non ha il sistema nervoso» - il Partito Socialista
e quello Comunista appoggiavano questa battaglia e, nel 1948, il ministro dell’interno Mario
Scelba decise di bloccare la concessione di licenze per l’apertura di nuove case chiuse, cercando per
lo meno di ridurre il fenomeno ed impedirne la proliferazione. Inoltre, il tema si trovava al centro
del dibattito internazionale: nel 1946 la Francia aveva chiuso le case di tolleranza, grazie alla spinta
data dalle battaglie di Marthe Richard, ex prostituta e spia entrata in politica dopo la guerra. Proprio
nel 1948, lo sfruttamento della prostituzione veniva discusso anche nelle aule dell’Assemblea
Generale delle Nazioni Unite, che si espresse nel 1949 attraverso la “Convenzione sulla
soppressione del traffico di persone e dello sfruttamento della prostituzione altrui”.
Con il passare del tempo, l’impegno della deputata comincia a riscuotere maggior successo al di
fuori delle aule del parlamento. Nell’estate 1949, un folto gruppo di prostitute si recò fuori da
Montecitorio, piangendo e implorando Lina Merlin, affettuosamente chiamata mamma, di non
desistere e di proseguire con la difesa dei loro diritti. Presto, all’appoggio della sinistra e a quello
delle dirette interessate, si aggiunse quello del mondo cattolico militante, che, nonostante la
profonda divergenza nelle motivazioni, morali più che civili, auspicava la chiusura delle case
chiuse. L’approvazione degli attivisti cattolici si trasformò immediatamente nell’appoggio
parlamentare della Democrazia Cristiana, permettendo così alla proposta di legge Merlin di
ottenere, sulla carta, la maggioranza, dato che gli unici oppositori rimasero i liberali, parte dei
qualunquisti, i monarchici e l’MSI. Nonostante ciò, l’opinione pubblica restò profondamente divisa,
anche a causa dell’influenza dei media, foraggiati da una campagna di propaganda organizzata
dall’ANECA (Associazione nazionale esercenti case autorizzate), che raccolse oltre 60 milioni di
lire in pochi mesi, destinati alle più importanti testate “borghesi”.
Il lungo e complesso iter della Legge Merlin, che attraversò dieci anni di storia italiana (e ben nove
diversi governi) a causa di continui rinvii e azioni di disturbo promosse dagli oppositori, si risolse
finalmente il 20 febbraio 1958, quando la Camera dei Deputati approvò con 385 voti favorevoli
e 115 contrari la proposta di Lina Merlin, trasformandola nella Legge n. 75. La prostituzione di
Stato non sarebbe più esistita, le disposizioni emanate dal governo Crispi nel 1883 furono
definitivamente abrogate e, soprattutto, lo sfruttamento e ed il favoreggiamento della prostituzione
vennero riconosciuti come reati. Ciò che sfuggì, e che tutt’ora sfugge a molti, è che, invece, non fu
vietata la prostituzione in sé, nonostante più di qualche deputato avesse spinto in tal senso. «Io
voglio vivere – afferma la Merlin – in un Paese di gente libera: libera anche di prostituirsi,
purtroppo. Ma libera».
LETTURE ED APPROFONDIMENTI:
- “Lettere dalle case chiuse” (PDF), a cura di Angelina Merlin e Carla Barberis:
http://www.fondazioneannakuliscioff.it/…/_…/white_merlin.pdf .
- Sandro Bellassai, “La legge del desiderio. Il progetto Merlin e l'Italia degli anni Cinquanta”,
Carocci 2006.
OF: Come no, senatrice. E tornato a essere uno degli argomenti del giorno per gli
italiani, che la presero per un dispetto. E si lamentano, s'agitano, s'inquietano; quasi,
anziché cinque anni, fossero passati due giorni e non riuscissero a darsene pace.
LM: Ah! Questo Paese di viriloni che passan per gli uomini più dotati del mondo e poi
non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli riesce di conquistare le
donne, a questi cretini, peggio per loro. Perché non fanno come i miei compagni di
Adria? Un giorno vado ad Adria e dico: com'è, compagni, che voi non mi avete mai
chiamato a fare una conferenza sulla mia legge? «Perché non ci interessa, Lina»,
rispondono. E ora le voglio raccontare una storia, le voglio. Un altro giorno vado a
tenere una conferenza in una sede del Psi a Milano e appena entro qualcuno mi infila
una busta gialla tra le mani. La apro e c'è scritto: «Compagna, pensa al male che fai
con la tua legge: dove può andare un vedovo vecchio e gobbo se non in quelle
case?». Io raggiungo il tavolo e dico: m'è stata consegnata una lettera così e così,
spero che il compagno sia tra noi per rispondere a una domanda. Compagno, come
può fare una vedova vecchia e gobba che non sa dove procurarsi un bel giovanotto?
Ma scusate, compagni, chi ve lo ha detto che le donne non hanno i loro problemi?
Pressapoco il discorso che feci alla Camera: se voi ritenete che quello sia un servizio
sociale, e i cittadini maschi abbiano diritto a quel servizio sociale, allora istituite il
servizio obbligatorio per le cittadine dai 20 anni in su. E che anche per le cittadine
sia considerato un servizio sociale. Alcuni giornalisti commentarono la mia logica
come indecorosa. Indecorosa io, che non ho mai detto una parola volgare e invece
dell'espressione prostituta uso sempre l'aforisma "quelle disgraziate". Volgare io, che
dico come quel prete di Londra: «Non chiamatele prostitute; sono donne che amano
male perché furono male amate».
OF: C'è stato un processo per sfruttamento della prostituzione al tribunale di Firenze
e il giudice ha accettato l'eccezione avanzata dal difensore secondo cui la sua legge
è incostituzionale perché non tiene conto dell'articolo della Costituzione col quale lo
Stato si impegna a difendere la salute del cittadino. L'ordinanza del giudice è ora
all'esame della Corte costituzionale e...
LM: Oh, sì. Ero sicura che fosse venuta a farmi arrabbiare su questo. E urlo: la mia
legge è costituzionalissima e se la Corte costituzionale prende anche solo in
considerazione l'ordinanza di quel giudice, allora è il crollo di tutto. Allora vuoi dire
che il mio Paese non merita nulla, che il mio Paese è selvaggio, che i giudici ^ del
mio Paese non conoscono neanche il significato delle leggi: ma che si rileggano un po'
Montesquieu! Io sono stata uno dei 70 soloni che hanno fatto la Costituzione, sa, la
Costituzione io la conosco, e conosco l'articolo sulla salute pubblica perché l'ho
voluto. Che dice questo articolo? «La Repubblica ha il dovere di difendere la salute
dei cittadini purché ciò non offenda la loro dignità umana». Purché ciò non offenda
la loro dignità umana: chiaro? E sottoporre quelle disgraziate a visita coatta non è
offendere la loro dignità umana? Tanto più che non sono più schedate. E allora come
fanno a sceglierle? Col criterio che avevano prima con le clandestine? Fermare tutte
quelle che camminano sole per strada, magari senza documenti o fumando? Le è mai
capitato di camminar sola per la strada, la notte, magari fumando?
OF: Lo Stato potrebbe far visitare tutti, uomini e donne, sani e malati, come si fa per
la vaccinazione contro il vaiolo. La polizia potrebbe cominciare dalle passeggiatrici
sicure, quelle che fanno la posta in punti precisi...
LM: Ma non sa proprio nulla, lei! Quella di far visitare tutti i cittadini malati, uomini
e donne, è una legge che esiste già e che non è stata ancora applicata. Quanto alle
passeggiatrici, no: come facciamo, se non abbiamo le prove, se non sono schedate?
Le schediamo di nuovo? Diamo loro di nuovo quella tessera che Benito Mussolini
chiamava ipocritamente sanitaria e che era peggio di una condanna a vita, di un
marchio sulla fronte degli schiavi? Ma lo sa che il giorno in cui una donna non voleva
o non poteva fare più la prostituta, e andava in questura e diceva «ecco la vostra
tessera», per prima cosa doveva tornarsene al paese col foglio di via e per anni
restava una vigilata speciale della questura? Ma lo sa che se aveva un figlio, questo
restava per tutta l'esistenza il figlio di una schedata? Quasi tutte quelle disgraziate
hanno un figlio e anche se per lui sono le madri migliori del mondo, anche se lo
tirano su bene, viene sempre il giorno in cui egli ha bisogno di un foglio bollato, di
dare informazioni per partecipare a un concorso. E allora vien fuori che è il figlio di
una schedata e non può fare non dico il diplomatico, nemmeno il questurino.
Schedarle vuoi dire ridare loro la tessera di prostitute, vuoi capirlo, sì o no?
OF: Senatrice Merlin, sono d'accordo con lei; non si arrabbi. A partire da questo
momento però mi comporterò come se non fossi d'accordo con lei e, la prego non si
arrabbi, le porrò alcune domande che riassumono le colpe delle quali la accusano.
LM: Colpe? Che colpe? Accuse? Che accuse? Non ho mica fatto nulla di male, io, ho
fatto una cosa buona.
OF: Lo so, senatrice Merlin: e nessuno l'ha mai ringraziata per questo. L'hanno
insultata, derìsa, lapidata. Nessuno, lo sappiamo, è più odiato del benefattore, e la
gratitudine non esiste. Dunque mi risponda, la prego. Prima accusa: le prostitute,
dopo l'applicazione della sua legge, sono raddoppiate.
LM: Può darsi; è aumentata la popolazione, saranno aumentate anche quelle
disgraziate. E comunque qual è il termine di confronto? Le hanno contate? Le
avevano contate prima? Come dice? Si vedono? E prima non si vedevano? Se ne
vedevano meno, dice? Ma faccia il piacere, ma non sa proprio nulla lei! Non si
vedevano quando non si volevano vedere. Io le ho sempre viste. Una volta, a Milano,
ho fatto le quattro del mattino, le quattro del mattino ho fatto, incontrandole
ovunque.
OF: Seconda accusa: aumento delle malattie veneree. Questo lo dicono persone
molto serie, però. Qui ci sono i dati.
LM: Ma come è ingenua, lei! I dati di chi? E contrapposti a quali dati? Ma lo sa che nel
1937 ci furono centinaia di migliaia di casi? Diminuirono fortemente con la scoperta
degli antibiotici, ma crebbero di nuovo nel 1953, quando le case erano ancora
aperte: si sono chiuse nel 1958. E il fatto che rispetto agli antibiotici si crei
assuefazione e dopo un certo uso non abbiano più lo stesso effetto, dove lo mette? E
il fatto che tutte le malattie vanno soggette a cicli, dove lo mette? C'è una gran
recrudescenza della poliomielite e del cancro in questi anni: anche questa è colpa
della senatrice Merlin? E come si combatte quella recrudescenza, semmai? Riaprendo
le case che son focolai di infezione? Senta, lei che non capisce proprio nulla: lo sa
quante volte quelle disgraziate erano visitate nelle case? Due volte la settimana. Le
pare sufficiente? Con decine di clienti al giorno ciascuna? E a cosa serviva visitare
2.500 donne, tante vivevano nelle case chiuse, quando fuori c'erano almeno
50mila'clandestine non obbligate a marcar visita? E le tenutarie che dicevano al
dottore: «Dottore, non dica che la Rosetta l'è ammalata, mi lavora tanto», e il
dottore che le accontentava? Ma stia zitta, stia!
OF: Terza accusa: aumento dei delitti sessuali, dei teddy boys che si organizzano in
bande, del pappagallismo. E non parlo, perché mi fa ridere, del problema dei militari
che secondo taluni osservatori si son trasformati in soldataglie voraci e pronte ad
attentare a spose virtuose, zie ignare, vergini candide...
LM: Ma non capisce proprio nulla, lei! Ma crede proprio a tutto, lei! Guardi
quell'asino che vola, guardi: l'ha visto? Delitti sessuali! Come se prima non
esistessero! Teddy boys! Di 14 e 15 anni, magari. Come se prima, a quell'età,
potessero entrare in case dove si poteva entrare solo a 18! Pappagallismo! Come se
non ci fosse mai stato. Ora i militari. Se lei non vuole parlarne, ne parlo io. Silenzio!
Stia zitta. Anzi, stia attenta: quanti sono i militari in una grande città? Decine di
migliaia. Quante case c'erano in una grande città? Al massimo 16. Per un totale di
250 donne. Bastavano? Eh? Evidentemente i militari si arrangiavano altrove. Che
continuino ad arrangiarsi. Costano troppo, dirà lei...
OF: Quarta accusa: quella che la prostituzione non si sia per niente abolita, anzi che
continui come prima, nella stessa brutale umiliazione morale, nello stesso
sfruttamento, nella stessa desolazione. Questo, e non si arrabbi, senatrice Merlin, è
proprio vero. Comunque lo credo anch'io.
LM: Ma è matta lei! Ma davvero non capisce nulla! E chi pretendeva di abolire la
prostituzione? Io?!? La mia legge mirava solo a impedire la complicità dello Stato.
Rilegga il titolo: «Abolizione della regolamentazione della prostituzione e lotta
contro lo sfruttamento della prostituzione altrui». Stop. Io avevo anche aggiunto «...
e contro il pericolo delle malattie veneree», ma me l'han tolto perché c'era già una
legge. Davvero mi meraviglio che dica simili bestialità. La prostituzione non è mica
un crimine, è un malcostume. E ammettiamo che per taluni sia un crimine: la
differenza tra le clandestine e le regolamentate è la stessa che passerebbe tra i ladri
autorizzati a rubare e i ladri che come in tutto il mondo rubano di nascosto. Scusi,
conosce un Paese in tutto il globo terrestre, uno solo, dove non esista la
prostituzione?
OF: La Cina, almeno a sentire le testimonianze dei cinesi. E in questo credo che
siano sinceri.
LM: Può darsi. In uno Stato dittatoriale è possibile. Le fucilano. Ma io non accetto la
dittatura, nessuna specie di dittatura. Io voglio vivere in un Paese di gente libera:
libera anche di prostituirsi, purtroppo. Ma libera.
OF: Dica, senatrice Merlin: conosce per caso qualche prostituta che ha smesso di
esercitare?
LM: Eccome. E molte si sono anche sposate. A Venezia, dove c'è una casa di
recupero, abbiamo avuto tre matrimoni in un mese. Sposate, sono brave, sa. La
lezione è stata molto dura e ora risultano mogli fedelissime.
OF: Nessuna si è fatta monaca, che lei sappia?
LM: Qualcuna sì, ma pochissime. E son tutte finite al Cottolengo: a curare quei
poveretti. Secondo me erano approdate per suggestione alla malavita; quindi pronte
a subire una suggestione contraria. Lo dico senza malizia, io non ho nulla contro le
monache. Sono stata educata come mia madre e mia nonna in un collegio di
monache e mi ci sono trovata fantasticamente.
OF: Sinceramente: insulti ne ha mai ricevuti? Insomma, le è mai capitato che per
strada qualcuna la riconoscesse e le mandasse contro qualche accidente?
LM: Mi riconoscono sempre, e mi salutano con dolcezza, e mi chiamano "Mamma
Merlin". Gli insulti mi venivano, mi vengono, dai tenutari. Settemila lettere ho
ricevuto e a volte mi scrivevano perfino: «Ti ricordi quando la prostituta la facevi
tu?». Quelle disgraziate invece sono piene di gratitudine. Ho parlato con 2mila donne
e non ne ho trovata una sola che fosse contro. Ah, non dimenticherò mai quel luglio
caldo, quando un gruppetto di loro venne a Montecitorio. Piangevano: «Signora, con
questo caldo, 14 ore chiuse dentro una camera, a servire 120 uomini al giorno,
signora, non è possibile, chiuda quelle case e sarà una santa!». In carcere, io sono
stata prigioniera politica in sette carceri, sognavano sempre che qualcuno le
chiudesse, quelle case. Sere fa ne ho trovata una: clandestina. Vede, signora, mi
dice, è sempre un gran mestieraccio: ma ora almeno vado con chi voglio e più di due
o tre clienti per sera non mi permetto. Un gran sollievo. Capirà... E poi, non essendo
più schedate, possono anche smettere.
OF: Senta, senatrice. Io non so se lei è anarchica o liberale, più che socialista. Certo,
in un partito dev'essere assai scomoda.
LM: Scomoda? Scomodissima! Anarchica, sa, non è mica un'offesa per me: al
contrario. Liberale, bah! Può anche darsi: son socialista, ma socialista per davvero,
io. E così dettero l'ordine di farmi decadere da parlamentare; non essendoci riusciti,
cominciarono a stancarmi, a logorarmi. C'era un'inondazione e mandavano me,
cascava un argine e mandavano me, bisognava visitare 12 paesini di fila e mandavano
me: via la povera vecchia a bagnarsi e ammalarsi. Finché diedi le dimissioni e decisi
di non presentarmi più alle elezioni.
9-03-2009
http://www.universitadelledonne.it/merlin.htm
Lo scopo della legge Merlin (legge 20 febbraio 1958, n. 75), è quello di abolire la
regolamentazione della prostituzione, difendere la libertà personale di chi si prostituisce
e pervenire ad una più efficace lotta nei confronti di ogni forma di parassitismo. Da qui
la chiara ed aperta dichiarazione di programma nel proprio titolo: "Abolizione della
regolamentazione della prostituzione e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione
altrui".
In breve...
Nei primi articoli (1 e 2), si vieta l'esercizio delle case di prostituzione nel territorio dello
Stato e si dispone la chiusura dei "locali di meretricio". La parte centrale apporta ampie e
profonde modifiche al Codice Penale relativamente ai delitti di lenocinio, di
sfruttamento di prostitute e di "tratta". È riformata inoltre la fattispecie dell'adescamento
al libertinaggio (art.5). I rimanenti articoli (8-11) contengono disposizioni di carattere
strettamente amministrativo: alcune prevedono la istituzione di patronati ed istituti di
rieducazione che sono messi a disposizione sia delle meretrici, che uscite dalle "case",
decidano di lasciare quel mestiere, sia di tutte le altre donne che desiderino tornare ad
una vita più onesta; altre norme prevedono la costituzione di un corpo speciale di polizia
femminile; infine, ci sono le disposizioni finali e transitorie (art.12-15).
Nel dettaglio...
Venendo a questo punto ad una analisi più dettagliata della normativa, è da osservare che
la parte più significativa, sotto il profilo della lotta contro lo sfruttamento della
prostituzione, è tutta contenuta negli articoli 3 e 4.
L'art. 3 è composto da otto disposizioni, per i quali casi particolari sono previste la
reclusione da due a sei anni ed una multa. A grandi linee, queste disposizioni possono
essere ordinate in tre diversi gruppi:
Il punto n. 1 recita: è punito con la reclusione da 2 a 6 anni e con la multa da 500.000 lire
a 20.000.000 di lire ... "chiunque abbia la proprietà o l'esercizio, sotto qualsiasi
denominazione, di una casa di prostituzione, o comunque la controlli, la gestisca,
l'amministri oppure partecipi alla proprietà, esercizio o direzione di essa". Il reato
consiste nel predisporre un'attrezzatura domestico-alberghiera da destinare a
congiungimenti carnali di terzi. Non è escluso il reato in caso di eventuale fraudolenta
sublocazione dell'appartamento. Tale reato non concorre con quello di favoreggiamento,
mentre concorre con quello di sfruttamento.
Il punto n. 2 integra la tutela penale del numero precedente, colpendo chiunque abbia la
suddetta proprietàe "la conceda in locazione" per lo scopo menzionato. Per incorrere nel
reato, quindi, è sufficiente essere a conoscenza della destinazione dell'immobile. Anche
questo reato non concorre con quello di favoreggiamento, mentre concorre con quello di
sfruttamento, quando il prezzodella locazione risulta esoso.
Il n. 4 prevede due casi criminosi, il reclutamento di una persona "al fine di farle
esercitare la prostituzione" e l'agevolazione di quest'ultima per lo scopo suddetto. Il
concetto di "reclutamento" è piuttosto ampio, ma in questo caso si ritiene sufficiente che
venga posta in essere un'opera di reperimento di persone che intendano prostituirsi,
prospettando loro i guadagni realizzabili. Come possiamo osservare, l'appartenenza di
tali numeri a questo primo gruppo è evidente: la ragione delle incriminazioni
corrisponde univocamente alla principale tendenza ispiratrice della legge, cioè
l'abolizione della regolamentazione della prostituzione. E nello specifico: l'abolizione di
ogni tipo di "casa di prostituzione", che consenta l'esercizio del "mestiere" all'interno di
un'organizzazione implicante necessariamente la soggezione della prostituta alle ferree
regole della "impresa", con gli ineliminabili rischi per l'incolumità fisica e morale delle
donne.
Al secondo gruppo appartengono i casi che possono ricondursi al concetto di
"avviamento" alla prostituzione: vi rientrano il punto n. 4, (seconda parte), e il punto n.
5, (prima parte).
Per quanto riguarda il n. 4, la parte che qui interessa è quella in cui si colpisce l'
"agevolazione" di una persona al fine di farle esercitare la prostituzione. L'
"agevolazione" implica la ricerca, la persuasione e l'induzione di individui al fine di
fargli esercitare l'attività di cui sopra. La distinzione fra "agevolazione" e
"favoreggiamento" è stata oggetto di dibattito, che si è risolto in questo modo: nella
figura delittuosa dell'agevolazione, a differenza del favoreggiamento, la persona
agevolata o favorita non è ancora "corrotta".
Come abbiamo visto, il n. 5 incrimina gli atti di lenocinio di maggiorenni compiuti "sia
personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia per mezzo della stampa o con
qualsiasi altro mezzo di pubblicità". Il lenocinio è un'attività di "mediazione" compiuta
da terzi, cioè da persone diverse da chi si prostituisce, diretta ad offrire prestazioni
carnali altrui. Non è necessario lo scopo di lucro. Richiedendo la legge il luogo pubblico
o aperto al pubblico, oppure il mezzo stampa o altro "media", non rientra nella
fattispecie il caso di colui che fissi gli appuntamenti per mezzo del telefono, o procuri
nuovi clienti alla prostituta, scegliendoli nella sua cerchia di conoscenze.
Il n. 6 disciplina il delitto di "tratta" punendo "chiunque induca una persona a recarsi nel
territorio di un altro Stato o comunque in un luogo diverso da quello della sua abituale
residenza, al fine di farvi esercitare la prostituzione, ovvero si intrometta per agevolarne
la partenza".
L'art. 4 prevede, infine, un raddoppio di pena per il caso in cui i reati sopra citati siano
commessi ai danni di persone, che per motivi diversi, siano prive di piena e consapevole
libertà di scelta, in ciò manifestando un intento diverso rispetto al sistema precedente, e
cioè quello di colpire il lenocinio in modo indiscriminato.
INDICE
14/08/2018
GETTY IMAGES
Torniamo indietro nel tempo. (Ange)lina è una ragazza minuta con occhi
che scintillano di curiosità mentre, aspettando la cena vicino al fratellino
Mario, studia il vecchio dagherrotipo che mostra un uomo – con i baffi a
manubrio e l’espressione volitiva – che le somiglia un po’. «Ma davvero,
nonna, il bisnonno Carlo è stato per- seguitato dagli Austriaci?». La donna
annuisce, rigirando la minestra. «Lui era un carbonaro, lo sai che cosa vuol
dire?». «Un patriota». La bambina sorride. L’ha imparato a scuola: è
brava, molto. Il fratellino alza lo sguardo. «Allora anch’io da grande voglio
essere un patriota». La nonna ride. «A tavola, putei, che la zuppa si
fredda». Se non altro a Chioggia dalla nonna, c’è sempre da mangiare e da
scaldarsi. Lina però è di Pozzonovo, un paesino agricolo della Bassa
Padovana. Ci è nata il 15 ottobre del 1887, figlia di una maestra e del
segretario comunale. Ha nove tra fratelli e sorelle e, quando la nonna si è
offerta di badare a lei e a Mario, tutti le sono stati grati. Intanto Mario non
è disposto a lasciar cadere il discorso. «E tu, Lina, che cosa vuoi fare da
grande?». «La maestra», risponde subito lei. «Vuoi essere come la
mamma?». Lina non risponde. Dieci figli da accudire sono troppi. I soldi
non bastano mai e il papà quando è giù di morale alza un po’ il gomito. No,
lei non sarà come la mamma. Non lo vede in quel modo, il suo futuro e
quello delle donne in generale.
Lina viene spedita nel Nuorese e Dante in Basilicata. Sono anni duri per
Lina, isolata a Orune, un paesino sperduto e arretratissimo, “un cocuzzolo
di montagna sempre battuto da un vento infernale”, e alle prese con
difficoltà economiche; ma lei ha una marcia in più. Si fa fotografare con un
costume locale, in una postura orgogliosa. Insegna tutto quello che sa alle
donne e ai bambini del posto e matura un’ulteriore consapevolezza sociale
e politica: un autogol per i fascisti. Quando torna al Nord con l’amnistia del
1929, Lina è più decisa che mai a continuare le sue battaglie. Molti anni
dopo Enzo Biagi le domanderà in una celebre intervista: «Che cos’è per lei
il socialismo?», e Lina, ormai anziana ma lucida come un diamante,
risponderà: «Giustizia sociale». Rientrata dal confino, “una prigione
all’aperto”, come l’aveva definito, si stabilisce a Milano e nel 1933 sposa
Dante. Lui ha 55 anni, lei 46. Prendono in affido la cuginetta Franca,
rimasta orfana, che diventa la loro bambina. Il destino vuole però che Lina
sia moglie per poco: tre anni dopo Dante muore improvvisamente, ma la
lotta prosegue. La loro casa di via Catalani, 63 diventa un punto di
riferimento per personaggi come Pertini, Basso, Morandi, che lì
metteranno a punto la strategia dell’insurrezione ormai prossima. Lina c’è
sempre: viene anche catturata dai nazisti, ma riesce a scappare. Il 25 aprile
imporrà la resa al Provveditorato. Nel 1946 come senatrice sarà una del- le
21 donne a far parte della Costituente, il gruppo scelto dei 75 per scrivere il
testo fondante della Repubblica. Una fonda- mentale specifica dell’articolo
3 porta il suo imprinting: «Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge
(...) senza distinzioni di sesso». Quando Lina chiede questa aggiunta,
tentano di liquidarla come banalità: è sottinteso! Ancora una volta la
donnina con la cadenza veneta dice no: niente sottintesi, la parità di genere
la esplicitiamo. E ancora una volta chi la dura la vince.
La "povera senatricetta"
Durante gli anni della sua battaglia per far approvare la legge, le arrivano
centinaia di lettere dalle ragazze delle case chiuse, e il ritratto dei bordelli
che ne emerge fa paura, ben lontano dal paradiso descritto dai loro
sostenitori. Le inquiline dei postriboli sono costrette a perdere ogni dignità,
prigioniere dentro le case, sfruttate, malate, considerate esseri umani di se-
rie B, ricattate dalle tenutarie, dai medici incaricati di certificare il loro
stato di salute per conto dello Stato o di liberarle da gravidanze
indesiderate, dai funzionari, dai clienti. «Ci aiuti, signora deputatessa», le
dicono le ragazze. E anche: «Lei è una santa». Lina non è affatto una
stupida bigotta. Semplicemente non tollera l’idea che la repubblica per la
quale lei e quelli come lei hanno lottato, per la quale ha visto morire tanti
amici, fratelli, compagni di lotta, si renda complice di questa tratta delle
schiave. Fa chiudere circa sei- cento case e introduce il reato di
sfruttamento della prostituzione.
〈〉
Highlight Lazio - Cremonese del 28 Maggio 2023 - Lega Serie A
Ci vollero esattamente sette mesi per dare corso alla legge: il 20 settembre 1958, vennero
chiuse 560 case di tolleranza in cui venivano ospitate circa 2.700 prostitute. La senatrice
Lina Merlin impiegò dieci anni per far approvare il testo
di F. Q. | 20 FEBBRAIO 2018
A 60 anni di distanza, il tema delle case di tolleranza fa ancora parte del dibattito
politico. La Lega propose una raccolta firme per abolire la legge. E in questa
campagna elettorale è stato proprio il Carroccio a parlarne di nuovo
con l’avvocatessa Giulia Bongiorno, candidata da Matteo Salvini. Quattro anni fa
è stato il Pd a presentare un disegno di legge per regolare il fenomeno della
prostituzione in strada, ma la proposta si è arenata.
Il racconto del dibattito parlamentare che affrontò l'abolizione delle case chiuse
conteneva passi da antologia: "La donna di grande ingegno è per lo più sterile"
di Fabrizio d'Esposito | 29 APRILE 2014
Ancora Pieraccini, nella stessa seduta: “C’è poi un’altra questione: in certi Paesi
non esistono preconcetti o pregiudizi sessuali: per esempio, sulla verginità delle
donne. L’imene è considerata giustamente come un organo transitorio. Arrivati a
una certa età, l’epoca pubere, l’imene ha terminato la sua funzione, perché è
sostituita dalla produzione pilifera: l’imene prima, poi la produzione pilifera
servono di protezione all’ingresso di parassiti, specialmente insetti, negli organi
genitali. Ma queste considerazioni ci trascinerebbero in altro campo, e non è oggi
il caso di fermarcisi sopra. In ogni modo si riferiscono a popolazioni nordiche
europee, dove si riconosce piena libertà alla vita sessuale”.
I lenoni esistono da Adamo ed Eva
Ancora Caporali, nella stessa seduta: “Il cervello pesa 1157 grammi nell’uomo e
995 nella donna secondo il celebre anatomista Broca. (…). L’intelligenza è
minore nella donna, che non ha mai avuto geni come un Dante, un Leonardo, un
Raffaello, pure avendo avuto Giovanna D’Arco, Madame Curie, Santa Caterina
da Siena e Madame Lebrun nella pittura. La donna di grande ingegno è per lo
più sterile. L’eunuco non ha mai avuto un genio. Le prostitute difficilmente
escono incinte”.
L a famosa “Legge Merlin”, 20 febbraio 1958, n.75 che ha chiuso le “case di tolleranza”, “postriboli”
o come altro si voglia chiamare questi luoghi in cui il mercato del sesso era regolamentato dallo Stato,
compie 65 anni.
Pozzonovo (Padova) il 15 ottobre 1887 e morta Padova il 16 agosto 1979. Era figlia di un’insegnante e di un
segretario comunale. Dottoressa in Lingue straniere, insegnò lingua e letteratura francese alle medie. Aveva
la tessera del partito socialista che non esitò a stracciare a causa di divergenze di vedute. Politica e
partigiana.
Durante il periodo fascista venne spedita al confino in Sardegna perché rifiutò di aderire al regime. Paladina
degli ultimi si batté contro ogni discriminazione fra i cittadini, per garantire uguaglianza di diritti e pari
dignità sociale fra donne e uomini come sancito da quella Costituzione Italiana che lei stessa aveva
contribuito a scrivere: sua la frase dell’art. 3 «Tutti i cittadini… sono uguali davanti alla legge, senza
distinzioni di sesso…».
e lotta contro lo sfruttamento della prostituzione”, durò dieci anni. La proposta avviata nel 1948 che non
vieta la prostituzione in sé, ma chi la favorisce e la sfrutta, divenne legge N. 75 solo il 20 febbraio 1958.
Durante il dibattito emersero tante ipocrisie e falsi moralismi nei confronti della donna, per non parlare delle
battute di sarcasmo rivolte a Lina Merlin, ma che non sfiorarono minimamente questa donna tutta d’un
pezzo. Lottò contro un certo tipo di mentalità che voleva tenere la donna in una condizione di inferiorità
rispetto all'uomo.
Cesare Lombroso diceva che la causa della prostituzione «è biologica: le prostitute come i delinquenti,
presentano caratteri fisici, mentali e congeniti». Tolstoj, invece, era convinto che la prostituzione fosse
Regolamentare la prostituzione - diceva Lina Merlin - non significa incanalarla perché non dilaghi, ma
organizzarla e favorirla». La legge 75 fu approvata il 20 febbraio 1958 e sei mesi dopo vennero chiusi i
postriboli. Le prostitute registrate in Italia a quella data erano 2.705 suddivise in 567 case con 3.353 posti
letto.
«Trovo strano - disse rivolgendosi agli onorevoli - che questa gente si preoccupi di dare le case di tolleranza
In un suo discorso Lina parlò al cuore delle donne perché «bisogna che nella donna si risvegli la coscienza di
chi deve compiere una duplice missione sociale: di lavoratrice e di madre. Quando la donna comprenderà
ch’ella è parte, e non la meno trascurabile, della classe degli sfruttati, parteciperà alla lotta contro il regime
che la opprime».
Elena Marinucci nell'Introduzione alla biografia su Lina Merlin - non le perdonarono di aver liberato quelle
Il business attorno ai bordelli coinvolgeva molti onorevoli e suoi compagni di partito. Quando la legge
arrivò in discussione in Parlamento, la combattente Lina invitò Pietro Nenni ad ordinare al partito di votare
a favore. «Altrimenti – disse – farò i nomi dei compagni proprietari di casini». E lui: «Dio mio, Lina, e come
C'era un forte lavoro di lobby per mantenere aperto il business delle "case chiuse". Una delle donne
che vi lavorava le scriveva a questo proposito: «Sappia, illustrissima signora, che c'è stato un congresso di
questi grandi mercenari di carne umana. I proprietari e le proprietarie di questi postriboli sono più forti
del Governo». E ancora: «Hanno stanziato un capitale di circa sessanta milioni per convincere i deputati e i
ministri, e sono certi che le case lei no riuscirà maii a farle chiudere. Poi le devo dire che un tale personaggio
che ha fatto la difesa di queste grandi case, appartiene alla categoria dei mercenari.»
Ma per fare questo lavoro ci vuole stomaco e questa donna conclude: «Qui è una cosa da morire!»
Come il fatto che l’uomo non può fare a meno del sesso perché è un’esigenza fisiologica. Lei però aveva le
idee chiare, come spiegherà in un’intervista del 1963 ad Oriana Fallaci: «Questo Paese di viriloni che
passan per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli
Poi c’erano gli intellettuali come Dino Buzzati, decisamente contrari a questa legge che avrebbe «troncato un
filone di civiltà erotica che, nell’ambito delle case chiuse, veniva trasmesso, con le parole e con l’esempio, di
generazione in generazione».
prostituzione, e per la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui e protezione della salute
«Chi scorresse, tra non molti anni, le cronache italiane di questo dopoguerra, non potrebbe non stupirsi del
clamore suscitato nel nostro Paese dal Progetto di legge per l’abolizione della regolamentazione della
Le donne avevano da poco ottenuto il diritto al voto ma la strada dell’emancipazione era ancora lontana. Si
dividevano tra madri e mogli dalla moralità ineccepibile mentre le prostitute erano considerate “minorate”,
“viziose”, “asociali”. Schedate, portavano il marchio della loro condizione senza possibilità di rifarsi una
vita.
Prostituzione, una schiavitù legalizzata
Lina Merlin aveva riconosciuto nella prostituzione una «schiavitù legalizzata della donna» e l’aveva toccata
con mano.
Assieme a Carla Barberis (moglie del futuro Presidente della Repubblica Sandro Pertini), scrisse nel 1955 il
libro Lettere dalle case chiuse in cui raccolse 70 lettere ricevute dalle ragazze delle case di tolleranza e dal
personale di servizio. Alcune favorevoli, altre contrarie alla chiusura delle case chiuse. In tutti i casi donne -
come le donne che oggi vediamo prostituirsi per strada - violentate, sedotte e abbandonate, povere, madri
Lettera n. 3:
Sono una povera ragazza sfruttata, sempre, sono una di quelle, ma per il mio
bambino farei tutto
"Mamma Lina"
Le donne che le scrivevano la vedevano come una possibile salvatrice e le si rivolgevano chiamandola
“mamma Lina”:
Ci salvi tutte Onorevole… e che nessuna debba più essere sfruttata da nessuno e
minacciata dalla polizia
Scorrendo le pagine del suo libro, ci si accorge di come il fenomeno nella sostanza non sia cambiato. Schiave
allora che il mercato della sesso era regolamentato dallo Stato. Nella Lettera n. 7 dal libro Lettere dalle case
chiuse
Ci fanno firmare tante cambiali, ci indebitiamo per vestirci, per le malattie, per
tutto, e pensi che se spendiamo 50 dobbiamo firmare per 100, e la Questura è
d’accordo con il padrone... Ci salvi tutte Onorevole… e che nessuna debba più
essere sfruttata da nessuno e minacciata dalla polizia. Si guardi anche da questa,
che quasi sempre sono d’accordo […] (però poi vengono con noi e non ci danno
niente
E schiave oggi del racket della prostituzione. Disperate lo erano allora e disperate lo sono oggi. Schiave di
una mentalità maschilista che le aveva private del voto per molti anni e che utilizzava una presunta inferiorità
femminile come strumento di piacere degli uomini, e oggi schiave di sfruttatori che le tengono soggiogate a
Le nostre “schiave prostitute”, oggi, sono per lo più straniere, vittime di organizzazioni criminali che, come
Uomini italiani questi, che comprano il corpo di donne disperate, povere economicamente e
intellettualmente, ingannate, che con la loro richiesta finanziano la criminalità organizzata che sta dietro al
si vede un’alternativa.
Nella Lettera n.54
Oggi si parla di scelta, di libertà ma non si parla di fare la "prostituta" ma annacquando il termine di "sex
worker". Se si va a scavare nella vita di queste donne sempre più giovanissime si trovano delle ferite
profonde, fatte di violenza, anestetizzazione psicologica, ricatti, uso di droghe per poter stare sulla strada a
fare il "mestiere" e persecuzioni da parte delle organizzazioni criminali che agiscono indisturbate grazie a
perfezionato. Quella di Lina Merlin è stata una grande battaglia contro lo sfruttamento sessuale legalizzato. E
oggi?
Ancora oggi la riapertura delle famose “case chiuse” viene riproposta da qualche nostro politico per
regolamentare la prostituzione, per ridurre le malattie, per non lasciarla in mano alla criminalità, ma
soprattutto viene vista come un’occasione per lo Stato di fare cassa e prendere voti.
Di fatto con la pandemia il volto della prostituzione di strada ha subito modifiche. I volontari che vanno in
strada ad incontrare le vittime di tratta, segnalano che il fenomeno ha avuto una forte virata al “chiuso”: negli
appartamenti, centri massaggi, night club, ecc. dove queste donne rimangono chiuse per ore a soddisfare i
clienti. Succede che sono meno visibili agli occhi della società e hanno meno opportunità di aggancio da
«Un fenomeno sommerso di cui non conosciamo i numeri - raccontano i volontari dell'unità di strada della
Papa Giovanni XXIII che da anni è in prima linea nell'aiuto delle donne trafficate - ma basta guardare gli
annunci on line per capire che si tratta di un problema di grandi dimensioni. Spostando l’attività al chiuso, la
criminalità organizzata può agire indisturbata, senza essere vista, per cui le vittime sono ancora di più nelle
mercato del sesso non troveranno quella dignità conquistata col sangue dalle nostre donne italiane, la