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Charles Stanley Nott

INSEGNAMENTI DI GURDJIEFF
Diario di un allievo

Memorie di alcuni anni con G.I. Gurdjieff


e A.R. Orage a New York e Fontainebleau-Avon

lantana
© 2011 Lantana editore srl © Adam Nott

ISBN: 978-88-97012-30-6

Traduzione e nota all’edizione italiana a cura


delle Associazioni e Centri Italiani Studi sull’Uomo G.I. Gurdjieff
Le immagini presenti nel volume
sono state gentilmente concesse all’editore da Adam Nott

il raggio verde www.lantanaeditore.com

Di prossima pubblicazione in questa collana:


C.S. Nott, Nuovi insegnamenti di Gurdjieff. Viaggio nel mondo
Nota all'edizione italiana

Negli ultimi anni sono state pubblicate molte testimonianze relative


all'insegnamento di Gurdjieff. Rispetto a questa produzione
letteraria lo scritto di Nott si colloca sicuramente fra i testi più
interessanti per la forza della sua sincerità: è il racconto vivo di un
incontro con un uomo non comune, un maestro capace di incarnare
le sue affermazioni, un incontro che ha il potere di cambiare la vita.
Il periodo che viene descritto racchiude un momento
particolare dell'insegnamento di Gurdjieff, quello in cui venne
acquistato il castello del Prieuré, a Fontainebleau-Avon. Qui Nott
ebbe modo di assistere allo sviluppo di un'esperienza che avrebbe
lasciato una traccia nella storia spirituale del secolo. Tutto era
nuovo e lo stesso Gurdjieff era alla ricerca di come trasmettere le
proprie idee nel migliore dei modi. Stavano nascendo le sue
composizioni musicali, i suoi libri, i «Movimenti», e la divulgazione
stessa del suo pensiero cercava nuove direzioni, diverse dalla
sistematicità che troviamo ad esempio nella testimonianza di
Ouspensky. Come per molti di coloro che lo incontrarono, anche
per Nott l’insegnamento di Gurdjieff si presentava immediatamente
con le caratteristiche della novità: una via nella vita, un cammino
spirituale che non chiede di ritirarsi dal mondo, ma di vivere più
pienamente in esso.
Nott distingue fin da subito le idee dell'insegnamento, che lui
chiama il «sistema», dalla pratica dello stesso, dal «metodo», e il suo
testo ne è uno splendido racconto. Stupisce vedere

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come, anche quando parla dell’insegnamento di Gurdjieff, Nott ci
faccia anzitutto sentire la vitalità che quelle idee erano capaci di
suscitare.
L’insegnamento di Gurdjieff rivela subito la distanza tra pura
teoria e pienezza di essere, che nasce quando l’uomo si interroga sul
senso del suo esistere. Diversamente da tutti gli altri esseri, l’uomo
non si accontenta semplicemente di vivere. Questa caratteristica
per Gurdjieff non è solo un fatto da constatare, ma il segno di una
natura particolare: l’uomo si chiede perché esiste in virtù di una
nascita «speciale», che lo rende diverso dagli animali.
La sostanza di una possibile pienezza di esperienza e,
all’opposto, dell’inconsistenza di una vita di superficie è il vero e
proprio elemento ricorrente nel Diario di Nott. L’uomo è nato con
un corpo, un sentimento e un pensiero, e in virtù di questa natura
trinitaria, di questi «tre centri», è in grado di acquisire delle
particolari potenzialità. Si sviluppa seguendo le leggi generali che
regolano la crescita di tutte le forme di vita animale, ma, a
differenza degli altri animali, ha la possibilità di un altro genere di
sviluppo legato alla vita profonda della sua coscienza e della sua
capacità di presenza e di attenzione. Gurdjieff va ancora oltre,
lasciando intendere che l’uomo avrebbe la necessità di sviluppare e
di educare una facoltà che tutti ritengono di avere, ma che in verità
si possiede in misura ridotta e discontinua: la coscienza. Avvicinare
l’insegnamento di Gurdjieff assume allora un significato preciso,
quello di perseguire un’esistenza che possa crescere attraverso lo
studio dell’essere umano, delle sue possibilità e di tutto ciò che, al
contrario, gli impedisce di essere pienamente cosciente delle sue
azioni.
In questo senso l’insegnamento di Gurdjieff non può essere
considerato ima filosofia o una psicologia, ma piuttosto un cammino
lungo il quale ogni essere umano riconosce il bisogno di allargare la
propria coscienza.
Leggendo il testo di Nott osserviamo la ricchezza di
quest’avventura. L’uomo cresce non solo in virtù di quello che
apprende col pensiero, di quello che sa, ma anche «per quello che
è». Esiste in noi un bisogno di crescere in sapere ed essere: è quello
che Gurdjieff chiama comprensione.

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L’insegnamento di Gurdjieff, rispetto ad altri lavori di ricerca,
ha quindi un carattere pratico: non si rivolge a chi cerca degli stati
psichici fuori dall’ordinario ma, esattamente all’opposto, a chi vuole
approfondire il senso della vita ordinaria, quella che si vive tutti i
giorni. In questa accezione il libro di Nott diventa la testimonianza
di un cammino in cui ha un posto di primo piano la riscoperta del
valore profondo del lavoro.
Per Gurdjieff il lavoro è l’incontro tra l’azione e la materia, tra
quello che l’uomo sente e percepisce e la realtà nella quale vive. In
noi si sono depositati dei doni, ci sono stati dati dei talenti, ma
l’uomo è un cercatore di verità e il suo compito è di sviluppare
questi doni, di farli crescere. Quello che ci viene richiesto è un gesto
preciso, attento, un gesto sensibile alla qualità della materia su cui si
opera. L’attività artigianale, cui era dedicato molto tempo
all’interno dell’Istituto di Fontainebleau, diventa l’occasione per
restituire il giusto peso alle diverse facoltà umane.
Lo studio dei Movimenti va esattamente in questa direzione. I
Movimenti possono essere considerati delle danze (o «Danze Sacre»,
come a volte li chiama Nott) in cui la coordinazione dei gesti, la
difficoltà nella sequenza delle figure, il rispetto del tempo, del
ritmo, e la sensibilità al lavoro del gruppo che li esegue sviluppano
in chi li pratica una particolare attenzione. Nott ne parla come di
qualcosa di unico che assomiglia solo apparentemente a delle
antiche danze tradizionali orientali.
I Movimenti non possono tuttavia essere assimilati né alla
ginnastica né alla danza comunemente intesa, essendo diverso il
loro scopo. Quello dei Movimenti non è indirizzato allo sviluppo
fisico o alla bellezza artistica, ma allo sviluppo dell’attenzione.
Vediamo allora che nel lavoro con Gurdjieff ogni cosa è solo
apparentemente qualcosa di consueto: il lavoro fisico non è solo
fatica, i movimenti non sono semplicemente una danza o una
ginnastica. Ogni esperienza con Gurdjieff viene trasformata da uno
scopo legato alla ricerca dell’essere umano. Quando Nott ci parla
della musica di Gurdjieff, possiamo capire meglio come si distingua
rispetto al modo in cui è solitamente concepita, ossia un linguaggio
rivolto alla nostra emozionalità e pertanto vicino al gusto personale
e alla soggettività individuale. Gurdjieff ve

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deva la musica come una forma di arte oggettiva, indipendente dalla
soggettività e capace di parlare alla sensibilità del nostro
sentimento. Un percorso di ricerca verso un ascolto più puro, in cui
l’attenzione si può gradualmente liberare dai filtri che le
impediscono di entrare in contatto con un linguaggio diverso, che
parla non alla nostra testa, ma al nostro cuore.
Non restare invischiati nelle pieghe della soggettività, per
aprirci a una dimensione più oggettiva in cui le nostre
preoccupazioni non sono più al centro dell’universo, ritrovare un
posto dove diventa possibile essere al servizio di una corrente di
vita: questo è un aspetto su cui Nott ritorna di frequente e che rende
così interessanti le sue osservazioni sull’opera letteraria di
Gurdjieff, che l’autore definisce senza mezzi termini «arte
oggettiva».
Nott ricorda inoltre, nella sua Prefazione, che gli scritti di
Gurdjieff sono organizzati in tre serie: la prima, I racconti di Belzebù a
suo nipote; la seconda, Incontri con uomini straordinari; la terza, La vita
è reale solo quando «Io sono». Poi, nel momento in cui abbandona il
racconto più autobiografico per cimentarsi con i testi del Maestro,
Nott non ritorna più sulla terza serie, ma parla diffusamente della
seconda e ci fa dono di un insieme di commenti di Orage a I racconti
di Belzebù.
I racconti di Belzebù sono il primo e più importante libro di
Gurdjieff. Il protagonista è un «diavolo», Belzebù per l’appunto, che
sta tornando a casa dopo essere stato esiliato per espiare un errore di
gioventù. Belzebù è come il figliol prodigo che ritorna al padre dopo
aver riconosciuto il suo errore, ma nello stesso tempo è colui che è
sceso sulla Terra e ha aiutato gli uomini con la forza del suo sguardo
imparziale. Belzebù ci mostra dove siamo, cosa siamo e cosa
potremmo essere. Vero è che questo parte del libro di Nott
costituisce ima lettura più «difficile», e non solo per chi non abbia
già letto I racconti. Anzi, in questo caso scopriremo un tipo di
difficoltà cui non siamo abituati, la difficoltà di una riflessione attiva.
Scopriremo un libro che ci sorprende a ogni passo per l’uso di
vocaboli nuovi e per uno sviluppo logico che obbliga a non perdere
il filo dell’attenzione, pena lo smarrirsi davanti a un modo di
pensare inedito e inatteso. In questo senso la lettura de I racconti di
Belzebù, come ci dice Nott, non è paragonabile a nulla di conosciuto,

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ma è un’esperienza di messa in discussione di tutto quello che
crediamo di conoscere, per scoprire che nulla sappiamo. E lo
svelarsi di questo «non sapere» ci consente finalmente di cercare in
un modo nuovo, non per acquisire nuove etichette con cui
chiamare le cose, ma per comprendere davvero il senso del nostro
esistere.

Georges Ivanovic Gurdjieff (1877?-1949)

Gurdjieff nacque a Alessandropoli, nell’area sud transcaucasica


della Russia, da padre greco e madre armena. Ragazzo
eccezionalmente dotato, pupillo dei membri della chiesa ortodossa,
studiò medicina e prese in considerazione il sacerdozio.
Insoddisfatto dalla religione tradizionale, abbandonò gli studi e
iniziò un lungo percorso di ricerca spirituale attraverso le più
antiche tradizioni che lo portò a fondare un gruppo, i «Cercatori
della verità», con il quale compì numerosi viaggi nel Medio Oriente,
in India e in Asia.
Di questo periodo così intenso non vi sono molte testimonianze,
se non quelle, estremamente suggestive, riportate nel suo Incontri
con uomini straordinari.
Nel frattempo Gurdjieff aveva sviluppato un proprio pensiero e
un metodo di insegnamento, e prima a Mosca e poi a San
Pietroburgo organizzò intorno a sé i primi «gruppi». Nel 1915 ne
entrò a far parte lo scrittore e uomo di cultura russo P.D.
Ouspensky, e poco dopo anche il compositore Thomas de
Hartmann: saranno loro a testimoniare questa parte della vita di
Gurdjieff, il suo incessante lavoro nonostante l’incombere della
rivoluzione bolscevica, il viaggio che portò lui e i suoi allievi in
Caucaso, poi a Costantinopoli e infine in Francia, a
Fontainebleau-Avon, dove nel 1922 fondò il suo Istituto per lo
sviluppo armonico dell’uomo.
Il metodo dell’Istituto attirò rapidamente molti artisti e
intellettuali da ogni luogo, e in particolare dall’Inghilterra e dagli
Stati Uniti. All’inizio del 1924 Gurdjieff si recò per la prima volta a
New York: accompagnato da numerosi allievi diede una serie di
dimostrazioni pubbliche con lo scopo di far conoscere i principi

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dimenticati di ima «scienza dei movimenti» oggettiva e il suo lavoro
di sviluppo spirituale.
Nell’estate del 1924, dopo un incidente automobilistico quasi
fatale, Gurdjieff decise di ridurre le attività dell’Istituto e di fissare il
patrimonio delle sue idee in forma scritta. Entro il 1934 egli aveva
completato le prime due serie dei suoi scritti e parte della terza. Nel
frattempo mantenne i contatti solo con i suoi allievi più anziani e si
stabilì definitivamente a Parigi.
H lavoro con i gruppi riprese nel 1935, e sebbene egli chiedesse
ai suoi allievi un’estrema discrezione, i gruppi iniziarono a
espandersi rapidamente, anche nel corso della guerra, a
comprendere importanti figure della letteratura, dell’arte e della
medicina. Nonostante fosse ormai malato, Gurdjieff continuò
intensamente il proprio lavoro fino alla sua morte, avvenuta a Parigi
il 29 ottobre del 1949.

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INSEGNAMENTI DI GURDJIEFF
Prefazione

Sono trascorsi ormai trentacinque anni dal mio primo incontro con
quello che viene definito il «sistema» di Gurdjieff. Questo diario,
cominciato nel 1924, è un racconto parziale dei miei primi anni di
lavoro (dal 1923 al 1928) con G.I. Gurdjieff e A.R. Orage. Non è
un’esposizione del sistema, ma una testimonianza diretta di quanto
fecero e dissero questi due uomini, ricostruita a partire dai diari del
tempo e da centinaia di pagine di appunti. Il resoconto dei loro
insegnamenti non segue sempre un ordine cronologico ma,
piuttosto, sequenziale: certi argomenti furono affrontati e ripetuti,
talvolta a grande distanza di tempo, da punti di vista differenti e in
modi diversi.
Nel redigere questo diario ho pensato al numero crescente di
persone interessate alle idee di Georges Ivanovic Gurdjieff. Chi non
ha familiarità con il suo insegnamento potrebbe restare disorientato
da alcuni termini ed espressioni; al tempo stesso c’è molto materiale
interessante per i tanti insoddisfatti del nostro attuale modo di
vivere. Tra loro, mi auguro che a qualcuno venga voglia di leggere I
racconti di Belzebù a suo nipote. Critica oggettivamente imparziale della
vita degli uomini, scritti da Gurdjieff.

Quando incontrai Gurdjieff e Orage per la prima volta, ero


immaturo, ingenuo e agitato, senza alcuna conoscenza di cosa
potesse significare avere «idee reali». Non potrò mai essere
abbastanza grato a Gurdjieff per la sua infinita pazienza in quei
primi anni e ai suoi allievi più anziani per i loro consigli: in

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Particolare penso a A.R. Orage, al dottor Stjoernval e a Thomas de
Hartmann, che più tardi divennero non solo miei cari amici ma veri
e propri fratelli maggiori. Non sono più giovane: nella mia variegata
esistenza ho provato quasi tutto ciò che la vita ordinaria ha da
offrire, il cosiddetto bene e il cosiddetto male. Ora mi rendo conto
che tutto quanto sono riuscito a ottenere per il mio essere e la mia
comprensione, e quanto sono stato in grado di afferrare e cogliere
dalla realtà, lo devo a Gurdjieff e al suo sistema e metodo: mi hanno
dato un centro di gravità e uno scopo reale e, come san Paolo, oggi
posso dire: «Sia ringraziato Iddio per il suo indicibile dono».
Cosmologia e cosmogonia, la creazione e il mantenimento
dell’universo, le Leggi del Tre e del Sette, le cause della
degenerazione dell’uomo e gli strumenti per la sua redenzione,
l’escatologia: spiegazioni dettagliate di tutti questi punti possono
essere trovate nel libro di Gurdjieff Di tutto e del Tutto (I racconti di
Belzebù a suo nipote), un’opera della cosiddetta «arte oggettiva»
d’inestimabile grandezza. Un altro testo di grande valore è
Frammenti di un insegnamento sconosciuto di P.D. Ouspensky che, per
quanto non rientri nella categoria dell’«arte oggettiva», è comunque
un capolavoro di resoconto obiettivo dei discorsi di Gurdjieff in
Russia. Come introduzione al sistema di Gurdjieff è ineguagliabile,
ma mentre lo studio dei Frammenti dà soltanto conoscenza, seppure
di qualità elevata, lo studio de I racconti di Belzebù apporta
conoscenza e «comprensione».
Il sistema di Gurdjieff comprende scritti, Danze Sacre,
Movimenti ed esercizi, musica e insegnamento interiore. Gli scritti
di Gurdjieff sono organizzati in tre serie: la prima I racconti di
Belzebù; la seconda Incontri con uomini straordinari; la terza La vita è
reale solo quando «Io sono»1. Gurdjieff raccolse un gran numero di
esercizi, Danze Sacre e popolari, nel Vicino e Estremo Oriente; lui
stesso ideò molte danze e Movimenti, alcuni dei quali basati sul
simbolo dell’Enneagramma, compose e raccolse anche parecchi
brani musicali, arrangiati sotto la sua supervisione dal signor de
Hartmann: molte di queste danze e composizioni musicali sono
«arte oggettiva».
Una conoscenza teorica del sistema si può ricavare dai libri, e
ogni serio cercatore dovrebbe leggere I racconti di Belzebù e i

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frammenti. Ma l’insegnamento interiore, che include un lavoro
pratico - il cosiddetto «Metodo» -, può essere impartito solo a gruppi
speciali, da insegnanti che hanno vissuto a loro volta lunghi periodi
di intenso lavoro.
La prima parte di questo libro è un resoconto dell'attività svolta
con Gurdjieff; la seconda parte raccoglie invece alcune
considerazioni di Orage nel gruppo di New York; la terza è una
sorta di conseguenza e risultato delle prime due.

C.S. Nott

1
Nel momento in cui scriveva Fautore era disponibile la prima serie (uscita in
inglese nel 1950), mentre la seconda lo era in francese ma non inglese, ed erano
state pubblicate alcune musiche. Oggi le tre serie sono disponibili anche nella
traduzione italiana, così come sono state pubblicate anche le musiche.

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Prologo

Fin da bambino, nel villaggio dell’Hertfordshire dove sono


cresciuto, ho avuto l’impressione che nel comportamento degli
adulti ci fosse spesso qualcosa di strano: l’atteggiamento in pubblico
e quello che si dicevano poi in privato non coincidevano. Negli anni
divenni più consapevole della differenza tra la vita come credevo
dovesse essere e come di fatto era, e con il tempo naturalmente
dovetti accettarla. «Forse», pensavo, «sono io a essere sbagliato, e
non gli adulti o la vita in sé». Eppure qualcosa in me non accettava
del tutto questa ipotesi. Da ragazzo immaginavo che dovesse
esistere, da qualche parte, un posto dove trovare soddisfazione ai
miei dilemmi: pensavo che l’avrei trovata in un lavoro, o in una
religione che non fosse quella proposta dalla parrocchia metodista.
Amavo la mia casa e i miei genitori, ma era raro che mi sentissi
appagato. Non so se ciò fosse dovuto all’influenza dei pianeti
quando sono nato o quando sono stato concepito, o a un semplice
fattore ereditario o a una miscela di tutto questo: fatto sta che
l’inquietudine interiore e un’insoddisfazione per quello che facevo -
o quello che facevo in sé - non mi davano pace; dentro di me
rimaneva sempre quella domanda inespressa: «Che scopo ha la
vita?»
A sei anni comprai il mio primo libro, dal titolo abbastanza
curioso: La ricerca di Johnny.
Lasciai la scuola a tredici anni senza aver imparato letteralmente
nulla (dal momento che sapevo leggere e scrivere senza che me lo
avessero insegnato) e cambiai un lavoro dopo l’altro, continuando a
interrogarmi sul senso della vita. A diciotto anni

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andai in Tasmania, poi in Nuova Zelanda, Australia e Canada,
lavorando con impegno in fattorie, ovili e in altre realtà che
richiedevano attività fisiche. Nel 1914, quando scoppiò la Prima
guerra mondiale, vivevo in un’isoletta vicina alle coste della
Columbia britannica. Mi arruolai immediatamente, diventando uno
dei milioni di ragazzi e giovani uomini che vennero travolti da
quella catastrofe collettiva. Nel 1917 abbandonai le trincee francesi
per un problema fisico e fu allora che cominciai a riflettere
seriamente sul significato della vita.
Avevo ricevuto un’educazione religiosa e da adolescente ero
stato maestro di catechismo domenicale e predicatore laico (ero,
alla lettera, un giovane «timorato di Dio»), ma nonostante questo la
religione istituzionalizzata mi appariva ora priva di contenuto; né
poteva darmi una risposta soddisfacente alle domande sorte in
seguito al disincanto per la guerra: in essa sembrava che vita o
morte dipendessero dal capriccio di qualche sciocco vanesio
casualmente in posizione d’autorità. La stupidità e l’assurdità di
gran parte della vita ordinaria erano nulla in confronto alla
colossale stupidità della guerra, dove migliaia di persone perdevano
la vita per la vanità o l’orgoglio di qualcuno. Mi chiedevo spesso:
«Perché tanta sofferenza? Perché politici e giornalisti diffondono
bugie? Perché vivere circondati dalle menzogne?» Incontrai un solo
uomo, George Bernard Shaw, con cui ebbi parecchie conversazioni,
pronto ad ammettere che la guerra fosse una faccenda spaventosa e
che vi fosse qualcosa di stranamente sbagliato nell’atteggiamento
degli uomini verso di essa e verso la vita in generale. Per lui era
come se vivessimo in un manicomio.
Eppure, mi dicevo, doveva pur esserci qualcuno - o qualche
insegnamento - in grado di rispondere in modo chiaro alle mie
domande. Un giorno, durante l’ultimo anno di guerra, decisi di
trovare questo maestro o insegnamento, ma per farlo avrei dovuto
mettermi alla ricerca e il posto migliore per trovare l’uno o l’altro
mi sembrò l’Estremo Oriente. Partii dopo l’armistizio e per due anni
mi guadagnai da vivere girando il mondo: America, Giappone, Cina,
Malesia, Birmania, India, Egitto e Italia. Incontrai ogni tipo di uomo
e di religione, feci esperienze interessanti e vidi meraviglie, ma non
trovai né il maestro né l’insegnamento in grado di appagarmi.

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Tomai in Inghilterra in condizioni di salute migliori, ma ancora
sofferente per i postumi della febbre da trincea e dei bombarda-
menti. Grazie ad alcuni affari a Vienna, dove risiedevo per la
maggior parte dell’anno, vissi un periodo di successo finanziario; il
denaro entrava facilmente e vivevo da giovane gaudente. Nel
frattempo mi appassionai anche alle riforme sociali e frequentai la
Toynbee Hall: ebbi così l’opportunità di lavorare in una missione di
soccorso in Russia, in Ucraina. Lì, in un distretto in cui la malattia
del comunismo non si era ancora diffusa, vissi tra i contadini uno
dei più interessanti anni della mia vita. Al rientro in Inghilterra mi
ritrovai ben presto immerso nel mondo letterario e libresco,
proiettato verso l’altissima società. Avevo tutto quello che un
giovane ambizioso può desiderare: una carriera, l’appoggio di
persone altolocate, denaro e ascendente. Avrei potuto considerarmi
appagato, soddisfatto, eppure rimaneva in me una profonda
insoddisfazione: sembravo diretto verso un vicolo cieco, sentivo che
tutte le mie esperienze non valevano nulla, che non erano altro se
non una mera facciata. Dovevo trovare il mio Libro magico delle
fiabe russe, l’Anello magico, il Ramo d’oro, qualcosa che mi desse
un’illuminazione sul significato della vita.
In quel periodo mi capitò di leggere un sonetto di Barnabe
Barnes che ben descriveva il mio stato interiore. Mi fece
un’impressione così vivida che lo lessi un centinaio di volte. E tratto
da Parthenopil e Parthenophe (1593):

Ah, dolce Contentezza! Dove sta la tua lieve dimora?


Presso i pastori e gli spensierati amanti i cui canti risuonano
per colline e le melodie si diffondono nell’aria mentre
badano alle greggi e alle mandrie al pascolo?
Ah, dolce Contentezza! Dove riposi tranquilla?
Nei cieli, con gli angeli, che innalzano lodi a Colui che ha
creato e governa a Suo ordine le menti e i cuori di ogni essere
vivente?

Ah, dolce Contentezza! Dove tieni il tuo rifugio?


Sta nelle chiese, con i devoti,
che compiacciono gli dèi con infinite preghiere
e che lo contemplano nei loro studi?

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Che tu appaia in cielo o in terra, stai
dove vuoi, qui tu non avrai dimora!

Improvvisamente, per quanto irragionevole potesse sembrare,


abbandonai l’Inghilterra e la mia vita passata: una conversazione
casuale capitata in quel periodo mise in moto dentro di me qualcosa
che mi costrinse a partire e nell’ottobre del 1923 salpai per New
York, trovai lavoro in una libreria e iniziai a cullare l’idea di
avviarne ima io stesso. La libreria, The Sunwise Tum, era una specie
di centro culturale che attirava giovani scrittori, artisti, poeti e
musicisti, e io trascorrevo i fine settimana con amici intellettuali a
Croton sull’Hudson, discutendo animatamente su come andasse
governato il mondo. La mia situazione e il mio stato interiore
tornarono presto a essere quelli di Londra: con tutta quella gente e
tutti quegli stimoli dimenticai che stavo cercando un insegnamento,
una nuova via. Ma ovunque siamo, qualunque cosa facciamo, ci
portiamo sempre sulle spalle «il vecchio uomo dei mari» di Sinbad, e
anche se ce ne dimentichiamo per un po’ lui non ci abbandona mai,
perché è parte di noi. Così, dopo tre frenetici mesi di vita sociale,
culturale e affaristica a New York, ricominciai a sentire un vuoto
interiore. E fu allora che, grazie alla comparsa apparentemente
casuale di un inglese, A.R. Orage, per me cambiò tutto.

20
I
New York e Fontainebleau (1923-25)

Alla fine di dicembre del 1923, Orage, arrivato a New York da


Fontainebleau con un certo dottor Stjoernval, chiese il permesso di
tenere nella libreria dove lavoravo una presentazione delle idee di
G.I. Gurdjieff e del suo Istituto. A Londra Orage era stato
proprietario e editore di «New Age», ritenuta da Shaw la miglior
rivista di letteratura e di pensiero che l’Inghilterra avesse sfornato
dal diciottesimo secolo. In precedenza avevo incontrato Orage una
sola volta. Il dottor Stjoernval era un medico che aveva lavorato con
Gurdjieff in Russia, e lo aveva seguito in Francia insieme alla
moglie.
Organizzammo dunque l’incontro e la sera stabilita il negozio si
affollò di un pubblico di uomini e donne eleganti e dall’aria
intellettuale. Riporto in sintesi l’intervento di Orage; è chiaro e
conciso e costituisce una base per il seguito di questo diario.
«L’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, a
Fontainebleau», disse Orage, «che si basa sul sistema di G.I.
Gurdjieff è in realtà la continuazione di una società chiamata “I
Cercatori di Verità”; la società fu fondata nel 1895 da un gruppo di
dottori, archeologi, scienziati, sacerdoti, pittori e altri, con lo scopo
di sostenere lo studio dei cosiddetti “fenomeni soprannaturali” ai
quali ognuno era interessato da un particolare punto di vista. I
membri della società organizzarono spedizioni in Persia,
Afghanistan, Turkestan, Tibet, India e in altri Paesi, studiando
antichi documenti e ogni sorta di fenomeni. Le difficoltà furono
molte, alcuni persero la vita in incidenti, altri morirono e altri

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Ancora rinunciarono. Alla fine, nel 1913, il signor Gurdjieff arrivò
in Russia con un piccolo numero di sopravvissuti. Stabilirono la loro
prima sede a Tashkent, da dove si spostarono diretti a Mosca con
l’idea di organizzare e mettere in pratica l’ingente quantità di
materiale raccolto. A Mosca il signor Gurdjieff tenne una serie di
conferenze, ottenendo l’interesse di numerosi scienziati, musicisti,
dottori, ingegneri e scrittori. Si allestirono i preparativi per avviare
un Istituto con lo scopo di formare degli allievi, ma lo scoppio della
Prima guerra mondiale, seguito dalla Rivoluzione del 1917, rese
impossibile la continuazione del lavoro.
Il signor Gurdjieff decise di lasciare la Russia. Affrontò con un
gruppo di allievi un rischioso e difficile viaggio tra le montagne
diretto a Tiflis, dove riprese il progetto di costituire il suo Istituto
per lo sviluppo armonico dell’uomo. Si unirono nuovi allievi. Più
tardi ritenne opportuno spostarsi a Costantinopoli dove, dopo molte
difficoltà, il lavoro dell’Istituto riprese. Con il passare del tempo il
signor Gurdjieff si rese conto che l’Europa sarebbe stata più adatta al
suo scopo: per un breve periodo lui e i suoi allievi si fermarono in
Germania e poi giunsero a Parigi. Lì tennero una dimostrazione di
Danze Sacre e di Movimenti, ma nonostante la consistente
partecipazione francese, furono pochi quelli che dimostrarono un
vero interesse. Dopo una laboriosa ricerca di una sede permanente,
nel 1922 fu individuato e acquistato il Chàteau du Prieuré (o
Chàteau des Basses-Loges) a Fontainebleau-Avon, dove venne
stabilito l’Istituto».
A questo punto Orage interruppe il racconto per lasciar spazio
ad alcune domande e poi proseguì: «Gli allievi sono divisi in due
categorie: quelli più interessati alla teoria che è alla base del sistema,
e quelli che sono interessati alla teoria ma che sono anche
desiderosi di lavorare ed essere formati al metodo.
Il training dell’insegnamento si basa sulle seguenti conclusioni:
nella nostra epoca la vita è diventata così complessa che l’uomo si è
allontanato dalla sua natura originale, una natura legata alle
condizioni circostanti: il paese dove nasce, l’ambiente in cui cresce
e la cultura da cui è stato alimentato. Queste condizioni gli
avrebbero dovuto indicare la via di sviluppo e la persona che
sarebbe dovuta diventare; ma la nostra civiltà, con i suoi mezzi
praticamente illimitati per influenzare l’uomo, ha reso quasi

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impossibile vivere nelle condizioni che per lui dovrebbero essere
normali. Se il progresso gli ha dischiuso nuovi orizzonti di
conoscenza e di scienza e ha elevato il suo tenore di vita ampliando,
dunque, la sua percezione del mondo, per contro, anziché elevarlo a
un livello superiore sotto tutti gli aspetti, ha sviluppato solo certe
facoltà a scapito di altre; alcune facoltà, anzi, sono state
completamente distrutte. La nostra civiltà ha rubato all’uomo le
qualità naturali ed essenziali della sua tipologia ereditaria, ma non
gli ha fornito il necessario per lo sviluppo armonico di un nuovo
tipo. Cosicché, invece di dare vita a un uomo individualmente
intero, integrato nella Natura e nell’ambiente in cui si trova, e
realmente responsabile del fatto di essere stato creato, la civiltà ha
prodotto un essere fuori dal suo elemento, incapace di vivere ima
vita piena, e al tempo stesso estraneo a quella vita interiore che per
diritto dovrebbe appartenergli.
E su questo punto che il sistema psicologico del signor Gurdjieff
prende posizione. Il sistema dimostra sperimentalmente che la
percezione del mondo di un uomo del nostro tempo e il suo stile di
vita non sono l’espressione cosciente di lui stesso come un tutto
completo; ma, al contrario, sono la manifestazione inconscia di una
sola delle sue tre parti.
Sotto questo aspetto la nostra vita psichica (come percepiamo il
mondo e il modo in cui ne esprimiamo la percezione) non è un
tutto, un intero che agisce come depositario delle percezioni e come
fonte delle nostre espressioni. Al contrario, l’uomo è diviso in tre
entità separate che non hanno quasi nulla in comune, in quanto
diverse in sostanza e funzione.
Nel sistema Gurdjieff, queste tre parti separate e assolutamente
distinte - fonti della vita intellettuale, emozionale e
istintivo-motoria, ognuna considerata come l’insieme di funzioni
proprie - vengono definite rispettivamente il centro intellettuale, il
centro emozionale e il centro istintivo-motore.
Ogni percezione ed espressione autenticamente cosciente
dell’uomo deve essere il risultato del lavoro simultaneo e coordinato
dei tre centri, ognuno dei quali deve svolgere la sua parte nel lavoro
complessivo; il che significa che ciascuno deve fornire la sua quota
di associazioni. La percezione completa di qualunque situazione è
possibile solo se tutti e tre i centri lavorano insieme.

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Ma a causa delle diverse influenze che agitano e turbano l’uomo
moderno, il lavoro dei centri è quasi sempre sconnesso, con il
risultato che le sue funzioni - intellettuale, emozionale e
istintivo-motoria - non riescono a completarsi e a correggersi l’un
l’altra; viaggiano su binari separati, si incontrano raramente. Così i
momenti di autentica coscienza nell’uomo sono pochissimi.
I tre centri non si coordinano (collegano), perché nel singolo
individuo esistono tre uomini diversi: il primo pensa e basta, il
secondo “sente” soltanto, il terzo vive unicamente dei suoi istinti e
funzioni motorie; così, in definitiva, abbiamo un uomo logico, un
uomo emozionale e un uomo fisico. Questi tre uomini in uno non si
comprendono mai l’un l’altro; non solo, ma in modo sia conscio che
inconscio si disturbano reciprocamente nei progetti, nelle
intenzioni e nell’azione; ciononostante ognuno di essi, quando è
all’opera, parla con autorità e dice “Io”.
Se osserviamo i centri al lavoro, vediamo che sono
contraddittori, divisi: l’uomo non può essere padrone di sé stesso,
perché lui stesso non può controllare il lavoro dei suoi centri, non sa
neppure quale si attiverà dopo un altro. Sono tutte cose a cui non
facciamo caso perché viviamo nell’illusione che esista una sorta di
unità dei vari “Io”.
Se osserviamo in modo corretto le manifestazioni psichiche di
un uomo moderno, vediamo chiaramente che egli non agisce mai di
sua iniziativa e per motivi che ha dentro di sé, ma tramite le sue
azioni esprime soltanto le modifiche indotte nel suo meccanismo da
cause esterne. Egli non pensa, qualcosa in lui pensa; non agisce,
qualcosa agisce tramite lui; non crea, qualcosa in lui crea; non
raggiunge nulla, qualcosa viene raggiunto tramite lui.
Tutto ciò si chiarisce quando riusciamo a capire i processi di
percezione delle influenze esterne e interne che provocano reazioni
in ogni centro.
I centri di un neonato possono essere paragonati ai rulli vergini
di un grammofono su cui, dal primo giorno o dalle prime ore,
vengono incise le impressioni del mondo interiore ed esteriore. Le
impressioni sono conservate in ogni centro nello stesso ordine
(spesso assurdo) e nella stessa relazione del momento in cui sono
state registrate. I processi del pensiero, del ragionamento, del
giudizio, della memoria e dell’immaginazione altro

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non sono che il risultato di impressioni registrate, che si combinano
e associano in vario modo sotto l’influenza di shock accidentali.
Sono proprio questi shock ad avviare con intensità diverse i rulli, il
cui contenuto va a formare il cosiddetto "apparato formatore”. Uno
shock mette in moto un'altra registrazione ed evoca un’altra
associazione e, a caduta, una sequenza di pensieri, emozioni e
azioni; e nessun centro può aggiungere nulla di suo alle
combinazioni che si sono formate negli altri centri. Di conseguenza
la percezione che l’uomo ha del mondo è il risultato del suo essere
parziale; in altri termini, nei processi di percezione dell’uomo
esistono tre modalità in scarso contatto reciproco, o casuale, e solo
parziale. Quindi ogni giudizio e conclusione cui l’uomo giunge è il
prodotto di una parte soltanto del suo insieme, l’espressione di una
minima parte del materiale immagazzinato; pertanto i suoi giudizi e
le sue conclusioni sono sempre parziali, e di conseguenza sbagliati.
Da quanto detto, capiamo che la prima tappa dello sviluppo
equilibrato dell’uomo consiste nell’indicargli come riuscire a
introdurre fin da subito il lavoro dei tre centri nelle funzioni
psichiche. Quando i tre centri riusciranno a lavorare
simultaneamente con la stessa intensità, le tre ruote principali della
macchina umana gireranno senza intoppi e non ci sarà interferenza
reciproca. Non lavoreranno come ora, a casaccio, ma funzioneranno
al meglio delle rispettive possibilità; anche in relazione al grado di
coscienza che l’uomo può avere, ma che di fatto nella vita ordinaria
non raggiunge mai.
Non bisogna dimenticare che il grado di sviluppo possibile di
ogni centro è diverso per ciascun uomo, così come differiscono le
impressioni registrate. Quindi l’insegnamento e la pratica del lavoro
devono essere strettamente individuali.
Con il passare del tempo, i disordini funzionali cui la macchina
umana è soggetta in condizioni ordinarie aumentano; si può far
funzionare la macchina in modo fluido solo dopo una lunga e
costante lotta contro i difetti accumulati. Da solo e con i suoi unici
sforzi l’uomo non è in grado di affrontare questa battaglia. Né può
appoggiarsi ai vari sistemi di auto-addestramento e di sviluppo
personale in voga (siano essi del luogo o importi dall’Oriente),
sistemi che raccomandano indiscriminatamente metodi ed esercizi:

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esercizi fisici, di meditazione, concentrazione e respirazione; diete e
digiuni, esperienze artificiali e via dicendo. Questi metodi si
rivolgono a tutti, senza valutare bisogni e capacità individuali, e
non tengono conto delle peculiarità personali. Non solo sono
inutili, ma possono anche essere pericolosi; chi tenta di riparare una
macchina difettosa senza una conoscenza completa e approfondita
può apportare cambiamenti, ma questi possono dar luogo ad altri
cambiamenti ancora che l’inesperto non è in grado né di prevedere
né di fronteggiare. Al di là della regolarità o meno del suo
funzionamento, la macchina umana ha comunque un suo equilibrio
meccanico. Quindi ogni cambiamento di una parte è vincolato alla
modifica di un’altra, ed è assolutamente necessario che tutto ciò sia
previsto e permesso.
Per chi inizia un lavoro su di sé, è importante accettare la
disciplina imposta dai metodi speciali e strettamente individuali
dell’Istituto, proprio per evitare conseguenze inaspettate e
indesiderate. Possiamo dire che uno dei suoi scopi è sviluppare
nuovi processi che cambieranno e regoleranno i vecchi. In altre
parole, in questo lavoro dobbiamo sviluppare nuove facoltà che non
possiamo ottenere nelle condizioni della vita ordinaria quotidiana;
e l’uomo non può svilupparle senza un aiuto, né seguendo metodi
generici.
L’applicazione dei metodi strettamente individuali di questo
tipo di pratica è possibile solo dopo una dettagliata valutazione della
situazione organica e psichica, dell’educazione e del contesto in cui
vive il singolo. Individuare e preparare tutto ciò richiede un lungo
periodo di tempo, soprattutto perché fin dai primi giorni, per via
dell’educazione ricevuta, l’uomo assume una maschera esteriore e
mostra un personaggio che non ha nulla in comune con chi egli è
veramente. Con l’invecchiamento questa maschera si ispessisce al
punto di impedire all’uomo di riconoscersi.
Per scoprire le peculiarità di un individuo - il reale che sta
dietro la maschera - bisogna scoprire le caratteristiche e le proprietà
del suo tipo; perciò la maschera va distrutta, e ci vuole del tempo.
Possiamo studiare e osservare l’uomo in sé, cioè il suo vero tipo, solo
dopo averla distrutta».

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Dopo aver detto ciò, Orage invitò gli interessati alle conferenze
successive, di cui avrebbe comunicato luogo e ora, poi passò a una
breve descrizione della vita al Prieuré e del tipo di lavoro che vi si
svolgeva; e alla fine chiese se vi fossero domande. Ce ne furono
parecchie ma non riuscii a seguirle, sebbene il pubblico sembrasse
fortemente interessato e si fosse levato qualche dibattito. A me la
presentazione non disse molto: non fui capace di afferrare
nemmeno una delle idee, forse per me troppo nuove. Il tutto si
sarebbe potuto concludere lì e il sistema di Gurdjieff sarebbe potuto
restare una delle tante possibilità inesplorate, ma il giorno seguente
Orage entrò in libreria e, dopo che gli fui presentato, mi chiese che
impressione avessi avuto. «Assolutamente nessuna», dissi, «non
sono stato in grado di coglierne il senso».
«Non importa», rispose, «Gurdjieff arriverà qui tra una
settimana con quaranta allievi per dare una dimostrazione di Danze
Sacre ed esercizi. Perché non viene?» Siccome la danza mi aveva
sempre interessato, accettai.
Era la prima volta che incontravo Orage ma fu come se lo avessi
conosciuto da sempre, fu come incontrare un amico intimo che mi
era simpatico e che non vedevo da tanto tempo.
La prima dimostrazione si tenne alla Leslie Hall e tutti i posti
erano gratuiti. La sala era piena di persone per così dire
«interessanti», ovvero scrittori, pittori, musicisti, persone dedite alla
lettura o che amavano discutere d’arte.
Trovai Orage dietro le quinte, stava facendo dondolare una
bimba tenendola per le mani e parlava con un uomo e una donna,
evidentemente i genitori. Quando si allontanarono mi disse che
l’uomo era un poliziotto in borghese, venuto ad accertarsi che non
fossero presentate danze «erotiche».
Presi posto fra il pubblico. Passò parecchio tempo e iniziammo a
spazientirci. Poi verso le ventuno Orage salì sul palcoscenico e,
dopo aver chiesto silenzio, disse: «La dimostrazione di questa sera
riguarderà perlopiù diversi movimenti del corpo umano recuperati
dall’arte dell’antico Oriente - esempi di ginnastica sacra, Danze
Sacre e cerimonie religiose preservate in alcuni templi del
Turkestan, Tibet, Afghanistan, Kafìristan, Chitral e altri luoghi. Per
molti anni il signor Gurdjieff, assieme ad altri membri de

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“I Cercatori di Verità”, ha condotto una serie di indagini nel Vicino
e Estremo Oriente; queste indagini hanno dimostrato che in
Oriente certe danze non hanno perso quel profondo significato che
avevano nel lontano passato, un significato religioso e scientifico
nel vero senso dei termini. Danze Sacre, posizioni e serie di
movimenti sono sempre stati un momento vitale dell’insegnamento
nelle scuole esoteriche dell’Oriente. Il loro scopo è duplice:
apportare un certo tipo di conoscenza, ed essere un tramite per
raggiungere uno stato armonico dell’essere. Attraverso la
combinazione di movimenti non naturali e non abituali l’individuo
arriva ai limiti estremi della resistenza, ed eseguendo questi
Movimenti tocca una nuova qualità del sentire, ima nuova qualità
di concentrazione e attenzione e una nuova direzione della mente,
tutto per uno scopo definito.
La danza in Oriente conserva ancora un significato totalmente
diverso che in Occidente. Nei tempi antichi la danza era una branca
della vera arte, finalizzata a una conoscenza elevata e alla religione.
Come noi oggi condividiamo la conoscenza mediante i libri, gli
antichi trasmettevano il sapere attraverso le opere d’arte,
soprattutto le danze; per i cristiani delle origini, ad esempio, la
danza nelle chiese rappresentava ima parte importante del rito.
L’antica Danza Sacra non si limita a essere tramite di un’esperienza
estetica ma è come un libro, uno scritto che racchiude una
determinata porzione di conoscenza. Si tratta tuttavia di un libro
che non può essere letto da chiunque. Uno studio dettagliato delle
Danze Sacre, di movimenti speciali e di posizioni, uno studio che ha
richiesto molti anni di ricerca, ne ha dimostrato l’importanza nel
lavoro per lo sviluppo armonico dell’uomo, lo sviluppo
contemporaneo di tutti i suoi poteri, uno dei principali obiettivi del
signor Gurdjieff. Nel suo sistema gli esercizi e le ginnastiche sacre
sono impiegati come mezzo per educare la forza morale dello
studente, per svilupparne la volontà, la pazienza, la capacità di
pensare, la concentrazione e l’attenzione, l’udito, la vista, il tatto e
via dicendo.
Il programma di stasera riguarderà principalmente danze di
gruppo. All’Istituto queste danze precedono i Movimenti
individuali più complicati, che sono in gran parte danze assolo.
Oltre

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ai Movimenti, terremo una dimostrazione di “fenomeni
soprannaturali”, uno degli argomenti di studio all’Istituto Gurdjieff,
e dei quali più tardi daremo una breve spiegazione. H pubblico è
pregato di non applaudire».
Dopo una lunga pausa entrò il signor de Hartmann assieme a
ima piccola orchestra. Thomas de Hartmann, un aristocratico della
vecchia scuola, era stato paggio alla corte dello zar ma aveva
rinunciato alla vita di corte per dedicarsi alla musica. Era un
brillante pianista e compositore. Nizinskij danzò in pubblico per la
prima volta nel suo balletto II fiore rosa, uno dei primi presentati da
Djagilev a Mosca. Sua moglie, Madame de Hartmann, da giovane
era stata una cantante d’opera emergente: i due incontrarono
Gurdjieff a Mosca, allo scoppio della Rivoluzione abbandonarono
tutto e lo seguirono per le montagne, diretti a Tiflis.
Restai molto colpito dal modo in cui il signor de Hartmann
rimase seduto al pianoforte durante la lunga pausa. L’orchestra era
irrequieta e noi del pubblico bisbigliavamo tesi fra di noi,
guardandoci attorno per curiosare fra i presenti, Hartmann invece
sedeva assolutamente tranquillo, rilassato, pur accogliendo tutto
dentro di sé.
Alla fine gli allievi salirono sul palcoscenico e si disposero in
file. Erano vestiti con pantaloni e tuniche bianche, corte quelle
degli uomini e lunghe quelle delle donne, che apparvero con i
capelli raccolti da nastri dorati. Nelle danze orientali successive gli
uomini e le donne indossarono costumi fastosi, disegnati da
Gurdjieff e ispirati a quelli ancora in uso in Oriente all’inizio del
secolo, costumi che io stesso ricordavo di aver visto.
All’ordine ruki storn (o ruki v storonu) gli allievi stesero le braccia
in fuori; cominciò la musica e, tenendo le braccia stese, batterono
con i piedi ritmi complicati. Andarono avanti in quel modo per più
di quindici minuti. Seguì un «gruppo macchina», in cui i Movimenti
sembravano rappresentare il funzionamento di macchinari o di loro
singole parti, con allievi che da soli o a gruppi di due o tre erano
impegnati in movimenti diversi ma che costituivano un insieme
armonioso. A un primo gruppo di sei esercizi obbligatori seguirono
altri sei; «obbligatori» perché prima di poter eseguire danze e
Movimenti più complicati, gli allievi erano obbligati a frequentare

29
un corso. Erano definiti «esercizi di ginnastica» ma mi apparvero
totalmente diversi da ciò che per me era la ginnastica. Dei primi sei,
tre provenivano dal tempio di Medicina a Sari in Tibet, e tre da una
scuola esoterica del Kafiristan, i Veggenti. Questi esercizi, i
Movimenti e la musica, mi produssero un effetto elettrizzante. Era
come se li avessi già visti, erano nuovi eppure familiari, e desiderai
di farli io stesso con tutto l’istinto e il sentimento.
A questi esercizi seguì un gruppo più articolato, l’Iniziazione di
una sacerdotessa, frammento di un mistero, chiamato anche I Cercatori di
Verità, in cui la moglie di Gurdjieff faceva la parte della sacerdotessa.
Durante lo svolgimento di quei Movimenti, posture, gesti e
danze, fu come se tutti i presenti stessero prendendo parte a una
cerimonia religiosa. La musica mi commosse nel profondo, e
commosse tutti gli spettatori. Il cambiamento di atmosfera nella sala
fu avvertito nettamente.
Poi ci fu ima serie di danze dervisce con costumi appropriati. La
serie comprendeva la danza derviscia Ho Ya del Chian (o Tu Dio
Vivente)', ima Grande Preghiera di un ordine di monaci che si
definivano «coloro che sopportano la libertà» e che la gente
chiamava «coloro che hanno rinunciato»; il Passo del Cammello
dall’Afghanistan; Movimenti rituali dei monaci velati dell’Ordine
Lakum; una cerimonia funebre per un derviscio morto nel
monastero di Subari in Thershzas; danze di dervisci guerrieri e
Movimenti rituali dei Dervisci Rotanti.
Le danze dervisce vennero eseguite dagli uomini, solo qualche
donna ebbe una parte minore. I ritmi e i movimenti erano vigorosi,
forti, positivi, maschili. Ce n’era uno che raffigurava l’uomo come
forza, per così dire, realmente attiva.
Poi ci fu la rappresentazione di un pellegrinaggio. Ci venne
detto: «Nell’Asia, soprattutto Centrale, le persone che hanno fatto
voto di soffrire volutamente per ima grazia ricevuta o sperata,
intraprendono pellegrinaggi particolari. Si dirigono a un luogo
santo in modo insolito e doloroso, per esempio rotolando,
camminando aU’indietro oppure sulle ginocchia. Vi mostreremo un
tipo di pellegrinaggio comune in Caucaso e nel Turkestan. Si
chiama “misurare la via secondo la propria lunghezza”. Talvolta

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la strada è molto lunga, anche più di mille chilometri. Il pellegrino
affronta il viaggio da casa al luogo santo con qualsiasi condizione
atmosferica, magari con un bagaglio di cinquanta chili e spesso
portando un oggetto fragile, un dono per il tempio. Sebbene un
pellegrinaggio del genere spesso provochi ferite che, secondo le idee
occidentali, dovrebbero infettarsi, gli osservatori non hanno
riscontrato un solo caso in cui le ferite non fossero guarite il giorno
dopo».
Due o tre allievi salirono sul palco e si inginocchiarono, poi si
stesero a terra. Raccolsero le gambe, si drizzarono in piedi nel punto
dove le dita delle mani si erano appoggiate, e ripeterono il
movimento in circolo. Si racconta che il famoso santo sufi, Rabia,
«corona degli uomini anche se donna», fece questo pellegrinaggio
da casa sua a La Mecca su una distanza di alcune centinaia di
chilometri.
Seguì poi La Pizia, frammento di una cerimonia che si teneva nei
santuari di Hudarika nel Chitral. Venne rappresentata come il
sonno magnetico della sacerdotessa che, all’inizio dell’anno, predice
gli avvenimenti futuri ai confratelli del santuario.
Le danze delle donne - fu detto - erano una sintesi di esercizi
preparatori delle novizie di vari conventi, e certi Movimenti
facevano parte del loro rito. Avevo visto qualcosa di simile nel nord
dell’India e in Cina, ma né in Oriente né in Occidente avevo visto
nulla di paragonabile per bellezza, grazia e fascino. Avevano nomi
come l’Oca Sacra, gli Amori Perduti, la Preghiera, il Valzer. Se le danze
dervisce avevano espresso virilità e mascolinità, queste
manifestavano le qualità passive della donna: tenerezza e
femminilità. E la musica, con le sue dolci melodie, aveva la qualità
di un profondo richiamo.
Per me la serata toccò il culmine con la serie di Movimenti
chiamati II Grande Sette o II Grande Gruppo. Provenivano da un
ordine religioso fondato presso il monte Ararat, gli Aissori, una
setta cristiana con elementi sufi. La serie di Movimenti era basata su
un simbolo molto antico, l’Enneagramma, strutturato
matematicamente come i Movimenti dell’ordine dei Puri Esseni,
risalente a centinaia di anni prima di Cristo.
Per tutta la serata fui attraversato da pensieri e sentimenti,
ricordando per associazione vivide esperienze emotive: danze di

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uomini e donne viste in India e in Cina, canti di donne
incredibilmente melodiosi sentiti nei templi, tamburi, il Taj Mahal,
la Sfinge e le piramidi; e poi immagini di Buddha, i cori e l’eco
dell’organo nelle vecchie cattedrali a Pasqua, tutto ciò che della
religione, della musica e dell’arte mi aveva profondamente toccato
era stato gradualmente risvegliato. La musica del Grande Gruppo
iniziò lenta e solenne, come un richiamo, e continuò in un
crescendo e calando ondulato di note; la mia mente seguiva con
attenzione i complicati movimenti degli allievi, quando un senso di
gioia mi pervase. La felicità che sentivo si mescolava a qualcosa di
opposto: non proprio alla tristezza, ma a una profonda serietà. Era
come se il Movimento mi stesse comunicando qualcosa e io cercassi
di capire, di decifrare uno scritto. Poi la musica si dilatò in un
trionfante crescendo, ed ebbi un’illuminazione. «E questo che ho
sempre cercato», pensai, «è questo che ho inseguito fino ai confini
del mondo. Sono giunto al termine della mia ricerca». Era una
convinzione netta, priva di incertezze, e da allora non sono mai
stato assalito da nessun dubbio.

Durante l’intervallo che seguì al Grande Gruppo, non sentivo alcun


bisogno di parlare e distrarmi: anche il resto del pubblico parlava a
bassa voce, senza inutili chiacchiericci. Erano tutti disorientati,
perché i Movimenti non rientravano in nessuna categoria di danza
conosciuta.
Poco dopo Orage tornò sul palcoscenico e cominciò a descrivere
l’esercizio dello Stop. Lo spiegò così: «In questo esercizio, al
comando “stop”, l’allievo deve arrestare ogni movimento. Il
comando può essere dato ovunque e in ogni istante. Al di là di cosa
stia facendo, se sta lavorando, se è a riposo o a tavola, l’allievo deve
fermarsi immediatamente. Deve mantenere la tem sione muscolare,
l’espressione facciale, il sorriso, lo sguardo, fissi come nell’istante in
cui Lordine l’ha sorpreso. Le posture che si manifestano servono ai
neofiti per il lavoro mentale, per velocizzare il lavoro intellettuale
sviluppando al contempo la volontà. L’esercizio dello Stop non
inventa nuove posizioni, si tratta solo di un movimento interrotto.
Di solito cambiamo postura in modo così inconsapevole da non
notare le posizioni che assumiamo tra una posa e l’altra. Con
l’esercizio dello Stop la transizione tra due posture viene interrotta.

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Il corpo, immobilizzato da un comando improvviso, è costretto a
fermarsi in una posizione che non aveva mai assunto, e questo
consente una migliore osservazione di sé. L’uomo può vedersi sotto
una nuova luce, può sentire e percepirsi in modo diverso, rompendo
così il circolo vizioso del suo automatismo.
L’arbitrarietà dei nostri movimenti è un’illusione. Analisi
psicologiche e lo studio delle funzioni psicomotorie presentati dal
sistema Gurdjieff dimostrano che ogni nostro movimento,
volontario o involontario, è la transizione inconscia da una postura
automatica all’altra: l’uomo assume tra le posizioni possibili quelle
che si accordano con la sua personalità; e il numero di posture è
ridottissimo. Tutte le nostre posture sono meccaniche. Non ci
rendiamo conto di quanto strettamente connesse fra loro siano le
nostre tre funzioni, motoria, emozionale e mentale. Dipendono una
dall’altra, una è il risultato dell’altra, sono in costante azione
reciproca. Quando cambia una, cambiano anche le altre. Le posture
del vostro corpo corrispondono ai vostri sentimenti e ai vostri
pensieri. Un cambiamento nei sentimenti produrrà un
cambiamento corrispondente nell’attitudine mentale e nella
postura fisica. Cosicché, se desideriamo cambiare le abitudini del
sentimento o il solito modo di pensare, prima dobbiamo cambiare le
abitudini nella postura. Ma nella vita ordinaria è impossibile
acquisire nuove posture fisiche perché l’automatismo dei processi
mentali e dei movimenti abituali vi si oppone. I processi del
pensare, del sentire e del muoversi sono, per così dire, tutti vincolati
e inoltre devono funzionare entro i limiti delle posizioni
automatiche.
Il metodo dell’Istituto per predisporre lo sviluppo armonico
consiste nell’aiutare l’uomo a liberarsi dall’automatismo, e
l’esercizio dello Stop è un aiuto. Con il fisico mantenuto in una
posizione inconsueta, i corpi sottili dell’emozione e del pensiero
possono dilatarsi in un’altra forma.
È importante ricordare che per attivare la volontà ci vuole un
comando esterno. Senza volontà l’uomo non può mantenere queste
posizioni intermedie. Non può imporsi lo Stop, perché le posture
combinate delle tre funzioni sono troppo forti per essere mosse
dalla volontà. Ma il comando “stop” che arriva dall’esterno svolge il

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ruolo delle funzioni mentali ed emozionali, il cui stato di solito
influenza la postura fisica; la postura fisica allora, non più schiava
delle posture mentali ed emozionali, è indebolita e, a sua volta,
indebolisce le altre posture; e per un breve istante la volontà può
dominare le nostre funzioni».
A questo punto Gurdjieff salì sul palcoscenico e potei osservarlo
da vicino. Indossava un completo scuro e un cappello floscio nero:
era un uomo possente ma che si muoveva agile sui piedi, come una
tigre. Guardò il pubblico con un mezzo sorriso e ci scrutò tutti con i
suoi penetranti occhi scuri. Non rientrava in nessun tipo a me noto:
di certo non il tipo «mistico», lo yogi, il filosofo o il «maestro»;
poteva essere un uomo che ha compiuto spedizioni archeologiche
nell’Asia Centrale.
Dopo che gli allievi si furono raccolti a un lato del palcoscenico,
Gurdjieff lanciò qualcosa in aria e gli allievi corsero ad afferrarla.
Egli gridò «stop» e, come per magia, il gruppo si trasformò in statue
ferme in posizioni diverse. Passò circa un minuto. «Davolna», disse
Gurdjieff, e tutti si rilassarono e uscirono. L’esercizio fu ripetuto
parecchie volte.
Poi seguirono le Chorovods, danze popolari e folcloristiche;
prima di ogni danza Madame de Hartmann salì sul palcoscenico per
una breve spiegazione. Cominciò così:
«In Asia quasi ogni comunità ha le sue danze. L’Istituto ne ha
raccolte oltre duecento. La prima che presentiamo, che di solito
viene eseguita da giovanette, arriva dalla regione di Kumurhana in
Turchia, sebbene abbia origine nell’antica Grecia: le posizioni delle
danzatrici richiamano molto le raffigurazioni sulle urne e sui vasi
antichi». Fu esattamente così e la melodia ritmata sarebbe potuta
uscire dal flauto di Pan. Seguì una danza del raccolto, dall’oasi di
Kerie, con uomini e ragazze attorno a una donna.
La danza dei Tikins della Transcaspiana proveniva dal
tradizionale Festival dei Tappeti. Era una tradizione di Tikins
portare in città i tappeti che erano stati tessuti durante l’anno nei
vari distretti, e festeggiare. I tappeti venivano pettinati e poi
pressati, in modo da rendere visibili solo le fibre sottili della lana. La
pressatura avveniva in molti modi diversi: nel Khorassan, per
esempio, si correvano le corse dei cammelli sui tappeti distesi, in
Persia venivano spiegati lungo le strade per farli calpestare dalla
gente, dai cammelli e dagli asini.
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Presso i Tikins, i tappeti - considerati i più raffinati - venivano stesi
e calpestati a tempo di musica.
Dopo le danze popolari ecco i Lavori Manuali. Madame de
Hartmann disse: «Questi esercizi fanno parte del lavoro ritmico
dell’Istituto, cioè lavoro manuale eseguito ritmicamente. Una
pratica comune in Oriente, dove i vari lavori manuali erano
accompagnati dalla musica per migliorare la produzione. Come
risulta dalle iscrizioni, molte costruzioni colossali dell’antico
Oriente furono erette al suono della musica. Questa tradizione
esiste ancora alle sorgenti del Pianje, nell’oasi di Kerie e in altri
luoghi. In inverno, quando non si possono più lavorare i campi, i
contadini si ritrovano nell’edificio più grande e svolgono le varie
attività accompagnati dalla musica. Le osservazioni condotte
all’Istituto Gurdjieff sul lavoro fatto al suono della musica ritmata
dimostrano che la produttività cresce da cinque a venti volte
rispetto a quella di un lavoro senza accompagnamento musicale. Vi
presenteremo tre attività: cardare e filare la lana; cucire scarpe e
rammendare calze; tessere tappeti».
I movimenti del lavoro, accompagnati dalla musica e da una
sorta di coro muto degli allievi, mi interessarono in modo
particolare; in una fabbrica di guanti nel Devonshire avevo infatti
osservato delle ragazze al lavoro: una cantava una canzone popolare
e le altre la seguivano con un mormorio ritmico. In Giappone e Cina
avevo l’abitudine di osservare i portatori che svolgevano lavori
monotoni, come issare cime o piantare pali cantando in coro;
lavoravano con allegria. Non potei evitare di paragonarlo al modo
in cui, in Nuova Zelanda, avevo sgobbato per settimane
interminabili scavando buche per i pali, o ero stato sottoposto ad
altre sfacchinate, soffrendo una noia incredibile. Fino a
cinquant’anni fa si usava lavorare con ritmo in qualsiasi parte nel
mondo, anche in Inghilterra. I canti di lavoro dei marinai si
accompagnavano agli sbuffi di vapore delle navi. In Germania, negli
anni che precedettero la Prima guerra mondiale, si sperimentò la
musica nelle fabbriche e in Inghilterra si provò con la musica
diffusa per radio, ma in entrambi i casi non ci fu incremento della
produzione: mancava il ritmo. Nella fabbrica di mio padre il lavoro
era manuale, e ogni volta che le ragazze cominciavano a cantare
insieme spontaneamente il lavoro aumentava e migliorava.

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Ora pare che tutto questo sia stato spazzato via dalla pianificazione
e dall’automatizzazione. Il ritmo umano, che nel lavoro è un fattore
istintivo ed emotivo, è stato soppiantato dal ritmo disumano della
macchina e del nastro trasportatore. Resta insoddisfatta una
necessità profonda, e questo porta a un bisogno di esperienze fuori
dal comune, estreme, e talvolta addirittura al crimine.
Dopo il secondo intervallo iniziò l’ultima parte del programma,
«i trucchi», «mezzi trucchi», e i «veri fenomeni soprannaturali».
Orage disse: «Presenteremo ora alcuni fenomeni cosiddetti
“soprannaturali”, anch’essi studiati all’Istituto. Il signor Gurdjieff fa
rientrare tutti questi fenomeni in tre categorie: trucchi, mezzi
trucchi e veri fenomeni soprannaturali. I trucchi sono realizzati in
modo artificiale e l’illusionista fa credere che abbiano origine da
una qualche forza naturale; i mezzi trucchi, come trovare un
oggetto nascosto da bendati, non dipendono invece dalla destrezza
delle mani; la terza categoria, i veri fenomeni, si basano su leggi che
la scienza ufficiale non spiega.
Facciamo un esempio noto a tutti: trovare un oggetto nascosto.
Si nasconde qualcosa senza che la persona lo sappia e questa,
bendata, lo trova tenendo per mano uno spettatore. Il pubblico
pensa che il prestigiatore legga nel pensiero dell’altro, ma si sbaglia.
Si verifica davvero un fenomeno senza uso di trucchi e che non ha
nulla a che fare con la trasmissione del pensiero. Si produce per il
riflesso del sistema muscolare delle nostre esperienze emozionali.
Poiché per ogni minima vibrazione del corpo c’è una reazione
muscolare, sia in stato di rilassamento che in contrazione, e con
molto addestramento, è possibile captare le vibrazioni più sottili
che si manifestano anche nelle persone più imperturbabili, persino
se provano a dominarle in tutti i modi. La mano tenuta dalla
persona bendata reagisce inconsciamente a quanto sa del
nascondiglio; i suoi lievi, quasi impercettibili cambiamenti sono un
linguaggio che il medium interpreta - in modo consapevole se
conosce il segreto, istintivamente se è all’oscuro di questa legge - e
che gli fa indovinare dov’è nascosto l’oggetto.
Il signor Gurdjieff definisce mezzi trucchi i fenomeni di questo
tipo, determinati da leggi diverse da quelle ipotizzate e al tempo
stesso in essenza non artificiali.

36
Nella terza categoria rientrano i fenomeni la cui manifestazione
dipende da leggi inspiegabili dalla scienza ufficiale: fenomeni
davvero soprannaturali. Nulla a che vedere con lo spiritismo, i
fantasmi e via dicendo. È sperimentare la reazione di una forza
inferiore all’impatto con una forza superiore; o la reazione di allievi
con un livello inferiore rispetto a qualcosa che arriva da un livello
superiore. All’Istituto lo studio di questa classe di fenomeni è
organizzato molto seriamente e in assoluta sintonia con i metodi
della scienza occidentale. Non tutti i membri o allievi possono
prendervi parte e per farlo sono necessarie tre condizioni. La prima
è una vasta e profonda conoscenza in qualche settore particolare, la
seconda è una mente perseverante e scettica per natura, la terza e la
più importante è l’indispensabile certezza a priori della lealtà
dell’allievo, per avere la garanzia che non abuserà egoisticamente
della conoscenza che potrebbe acquisire.
Quanto ai trucchi, il loro studio è considerato necessario per i
futuri ricercatori di fenomeni autentici e per ogni allievo
dell’Istituto. La loro conoscenza libererà l’uomo da tanta
superstizione e gli apporterà una capacità di osservazione critica
necessaria allo studio di fenomeni veri, che richiedono un
atteggiamento assolutamente imparziale e un giudizio scevro da
idee pregresse.
Tra gli allievi presenti, alcuni hanno lavorato per lungo tempo a
questi fenomeni e ne hanno già familiarità, ma ci sono anche allievi
più giovani che sono lungi dal comprenderli. A ogni modo
parteciperanno tutti agli esperimenti.
Questa sera tutti i fenomeni verranno presentati come autentici,
anche se in realtà saranno di tre tipi: trucchi, mezzi trucchi e veri
fenomeni soprannaturali. Ma lasciamo la classificazione alla vostra
perspicacia».
«Il primo», continuò Orage, «è un esercizio di memorizzazione:
ricordare parole. Alcuni allievi passeranno ora fra voi e
trascriveranno le parole, in qualsiasi lingua. Siamo in grado di
memorizzare e ripetere fino a quattrocento parole per sessione, ma
per non annoiarvi ci limiteremo a quaranta, quanto basta per darvi
un’idea della possibilità di sviluppare la memoria rapidamente. Va
sottolineato che nel sistema Gurdjieff l’insegnamento è raramente

37
diretto, ma quasi sempre indiretto. Bisogna ricordare che tutti gli
esercizi sono pensati per sviluppare la velocità della mente e
dell’attenzione che, a loro volta, hanno per scopo fondamentale la
crescita armoniosa dell’allievo. Non ci sono esercizi particolari per
sviluppare la memoria: i risultati arrivano grazie al lavoro e agli
esercizi complessivi che supportano lo sviluppo dell’uomo nel suo
insieme».
Furono annotate circa quaranta parole e lette ima sola volta agli
allievi sul palcoscenico, che poi iniziarono a ripeterle; e per quanto
ricordi, la maggior parte le citò correttamente, nonostante molti
termini fossero parecchio strani. Poi Madame de Hartmann, seduta
tra il pubblico, disse: «Ora, se mi date dei numeri li trasmetterò per
suggestione agli allievi». Si mise di fronte a loro sul palcoscenico, e
dopo pochi minuti gli allievi cominciarono a ripetere i numeri che
le erano stati dati.
Poi continuò: «Il prossimo esercizio riguarderà la trasmissione a
distanza, tramite rappresentazione, di nomi o forme di oggetti. Vi
chiediamo di mostrare o nominare aU’allievo seduto tra voi qualche
oggetto che indossate. Il suo nome o la sua forma verranno
indovinati dagli allievi sul palcoscenico».
Sul mio orologio da tasca avevo una piccola rara giada tiki,
acquistata in Nuova Zelanda. Gliela mostrai e gli allievi ne diedero
una descrizione azzeccata.
Dopodiché il signor de Hartmann disse: «Ora vi chiedo di
suggerire sempre alla stessa allieva il nome di un’opera lirica
qualsiasi che sia stata scritta sulla faccia della Terra. Lei me lo
trasferirà e io ne suonerò un pezzo. Nel frattempo chiedo alle
persone in prima fila di restare tranquille». Poi suonò dei brani da
un certo numero di opere, alcuni mai sentiti prima.
Per tutto il tempo l’attenzione del pubblico restò fìssa sul
palcoscenico: io ero assolutamente disorientato. A questo punto il
signor de Salzmann salì con un cavalletto e dei grandi fogli di carta,
e Madame de Hartmann si sedette nuovamente tra il pubblico.
Orage disse: «Vi chiediamo di suggerire sempre allo stesso modo
all’allieva che vi siede accanto il nome di un essere qualsiasi, dal
microbo infinitesimale all’animale più grande esistente o
preistorico, di acqua, di terra o di aria. Lei lo trasmetterà all’artista
sul palco che lo disegnerà». Subito dopo il signor de Salzmann

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fece lo schizzo di vari animali con sorprendente rapidità e
precisione. Così, dopo quasi quattro ore, il programma della serata
ebbe termine.
I trucchi e i mezzi trucchi mi lasciarono completamente
sconcertato. Come «spettacolo» erano molto più difficili di quanto
avessi visto fare da professionisti. Avrei potuto pensare che gli
allievi avessero frequentato corsi di magia ma rimasi piuttosto
sollevato, anzi sorpreso, quando riconobbi tra gli allievi due tizi
che, come me, a Londra erano stati soci del Club 1917. Nonostante
tutto sembrò magia e, come avrei scoperto, lo era per davvero.
Mentre mi alzavo per andarmene, mi resi conto che non c'erano
state dimostrazioni di «fenomeni veri» e mi chiesi perché. Tanto
tempo dopo e con molto studio compresi che in effetti un'evidente
dimostrazione di veri fenomeni c’era stata.

Nei giorni seguenti non feci altro che pensare alle danze e alla
musica; ero disorientato dalle sensazioni che avevo provato e che
avevo cercato per tanto tempo. Il pensiero andò ovviamente al
Cristiano de II viaggio del pellegrino2. La mia famiglia infatti era
cresciuta con John Bunyan e la Bibbia e i parenti materni erano
originari delle parti di Bunyan: quand'ero bambino mi sembrava
che il suo protagonista vivesse nel villaggio vicino. Conoscevo il
libro quasi a memoria e mi tornò alla mente il seguente passo:

Vidi quindi nel mio sogno che la via che il Cristiano doveva
percorrere era protetta da entrambi i lati da un muro, che si
chiamava salvezza. Fu dunque per questa via che il Cristiano
si mise in cammino con passo rapido, sebbene fosse sempre
oppresso da quel suo peso.
Giunse così a una salita. Lì stava una Croce e un po’ più in giù
un sepolcro. Vidi allora nel mio sogno che appena il
Cristiano giunse alla Croce, il fardello cadde dalle sue spalle e
cominciò a rotolare giù fin dentro il sepolcro e poi non lo
vidi più.
Il Cristiano allora tutto felice e contento disse: «M’ha dato
riposo mediante il Suo dolore e la vita mediante la Sua
morte». Si fermò un poco, ancora sorpreso per quanto era
avvenuto; infatti non riusciva a capire come mai la sola vista
della Croce avesse potuto liberarlo dal suo peso.

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Dunque guardò e riguardò ancora la Croce, finché le sorgenti
che erano nella sua testa inviarono acqua giù sulle sue gote.
Ero giunto al termine della mia ricerca, è vero, ma il
pellegrinaggio era appena iniziato.

Per un giorno e mezzo i giornali di New York diedero ampio spazio


alla dimostrazione. Uno dei più ignobili settimanali dedicò due
pagine di immagini e commenti fantasiosi. Un articolo titolava II
Grande Armonizzatore si accorda. Un altro descriveva un’immaginaria
vita al Prieuré, e raccontava come gli allievi si radunassero a
mezzanotte su un grande prato e cominciassero a danzare
selvaggiamente; al culmine appariva Gurdjieff in persona che,
camminando fra loro, li incitava: «Danzate, danzate, danzate verso
la libertà!» Ci sono sempre giornalisti che pur di destare scalpore nel
lettore della domenica infangano anche le più nobili idee.
Nonostante gli articoli scandalistici, alle successive
dimostrazioni la sala fu zeppa di un pubblico attentissimo. Ovunque
tra i cosiddetti «impegnati», quelli che discutono di tutto, l’argo-
mento di conversazione verteva su «hai visto le danze di Gurdjieff?»
Alcuni dicevano che gli allievi erano ipnotizzati, altri che erano
intimoriti perché non sorridevano mai; altri erano infastiditi perché
non riuscivano a inquadrare le danze in una categoria, in modo da
etichettarle e scrivere articoli su di loro e sul «sistema». Nessuno
aveva la soddisfazione di poter spiegare agli altri di cosa si trattasse,
il che insospettiva una parte dell’intellighenzia che, se non fosse
stato per l’alto profilo degli allievi più anziani di Gurdjieff, non
avrebbe esitato a farsi beffe di loro. Orage infatti godeva di una
reputazione letteraria interazionale; del signor de Salzmann,
Gordon Craig3 aveva detto che in tutto l’Occidente nessuno aveva la
sua competenza in illuminazione e allestimento teatrale. De
Hartmann era un musicista di prima grandezza, e il dottor
Stjoernval in Russia era un notissimo psichiatra. Inoltre, tre delle
giovani allieve - un’inglese, un’armena e una montenegrina - erano
annoverate fra le migliori danzatrici europee. Come disse qualcuno:
«Ci deve pur essere qualcosa in quel sistema, per costringere talenti
così diversi a seguire Gurdjieff».

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D’altra parte, un lettore londinese di «New Age» mi disse: «Peccato
vedere un uomo della reputazione e del calibro di Orage rinunciare
alla vita letteraria di Londra per correre dietro a un ciarlatano». Una
signora, parlandomi della dimostrazione, disse: «Mi pare di capire
che il signor Gurdjieff vive nella foresta di Fontainebleau insieme a
Katherine Mansfield, e che si definiscono “gli Amanti della
Foresta”».
Il mio primo incontro personale con Gurdjieff ebbe luogo
qualche giorno dopo la dimostrazione. Stavo parlando con Jane
Heap, venuta nella libreria dove lavoravo. Era editore e seguiva
assieme a Margaret Anderson la pubblicazione de «The Litde
Review» che, sebbene non fosse l’equivalente americano di «New
Age» in Inghilterra, aveva finalità simili. Pochi minuti dopo che se
ne fu andata entrarono Orage e il dottor Stjoernval. Sentii subito di
essere niente più che un adolescente in presenza di due adulti. E
poco dopo feci un altro paragone, ancora più sbalorditivo: arrivò
Gurdjieff, impressionante nel suo cappotto nero, con lo scollo e il
cappello di astrakhan. Con un brillio negli occhi cominciò a
scherzare con gli altri. Poi fece qualche passo e me lo trovai accanto,
in piedi. Lo guardai e rimasi colpito dall’espressione dei suoi occhi,
di una profondità che esprimeva comprensione e compassione.
Irradiava un potere e un «essere» formidabili, mai riscontrati in
nessuno durante i miei viaggi, e sentii che il dottor Stjoernval e
Orage stavano a Gurdjieff come due giovani stanno a un anziano.
Ero un po’ imbarazzato e, come da mia abitudine, cercai di fare
conversazione. Presi una copia del Tertium organum di Ouspensky,
che avevo tentato di leggere invano, e gli chiesi: «Ha letto questo,
signor Gurdjieff?» Fece un gesto con la mano e rispose: «Molto
difficile». Interpretai che lo intendesse difficile per lui. Allora dissi:
«Signor Gurdjieff, se c’è posto, mi piacerebbe venire a lavorare al
suo Istituto». «Abbastanza posto», rispose. «Ma anche necessario
pensare alla vita. Molti giovani all’Istituto studiano per la vita. Uno
sarà ingegnere. Studia per avere diploma. Nella vita molto
importante avere diploma».
Con uno sguardo riassunse la mia condizione come quella di un
giovane immerso nei suoi sogni - sogni della testa, sogni delle
emozioni, sogni di donne -, un giovane, o perlomeno una parte di

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me, allettato dall'idea di vivere in una comunità, sollevato da ogni
responsabilità. Fu l'unica occasione in cui provai a parlare di libri
con Gurdjieff.

Fra gli amici intellettuali di Croton, uno solo dimostrò interesse per
le idee dell'Istituto, e mi dispiacque. Si trattava dell'artista
Boardman Robinson. La «sinistra» era vagamente ostile. Ma la
sinistra è sempre ostile alle idee che si prefiggono il cambiamento
dello stato interiore dell'uomo, vuole modificare la situazione, i
risultati esteriori. «Cambiamo la forma di governo e tutto andrà
bene». «Il meglio deve ancora venire». Per la sinistra la felicità è nel
futuro, ma, come disse Pope:

La speranza scaturisce eterna nel petto dell'uomo;


L'uomo non è mai, ma aspetta sempre di essere benedetto.

Dico questo perché fino ad allora ero vissuto in mezzo alla


cosiddetta intellighenzia e ne condividevo le convinzioni,
avviandomi a diventare un intellettuale fossilizzato, identificato
con idee ritrite.

Quasi ogni sera Gurdjieff incontrava gruppi di persone. Non teneva


conferenze nel modo solito, piuttosto si trattava di dialoghi
informali fatti soprattutto di domande e risposte. Una volta, a un
incontro nell'appartamento di Jane Heap, non riuscivo a
concentrarmi sulla conversazione: ero continuamente attratto da
una bella donna seduta lì vicino ed ebbi uno shock quando,
rispondendo a qualcuno, Gurdjieff cominciò a parlare proprio di
sonno e di attenzione. Indicandomi disse: «Questo giovanotto, ad
esempio, non ha attenzione, è per tre quarti addormentato». Mi
svegliai dai sogni a occhi aperti e cominciai a prestare attenzione.
Qualcuno gli chiese in che modo fosse possibile acquisire
capacità di attenzione, e Gurdjieff rispose (non tenterò di
riprodurre il suo inglese stentato, se non occasionalmente): «In
generale sono poche le persone che ne hanno. E possibile dividere
l'attenzione in due o tre parti. In questo lavoro dovete tentare di
ottenere capacità di attenzione. Solo dopo averlo fatto

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potrete iniziare a osservare voi stessi e a conoscervi. Dovete iniziare
dalle piccole cose».
«Quali sono le piccole cose con cui iniziare?»
Gurdjieff: «Voi avete continui movimenti nervosi che fanno
pensare alla gente che siete dei poveri sciocchi e che non avete
alcuna autorità su voi stessi. La prima cosa da fare è notare questi
movimenti e fermarli. Lavorare in gruppo può servirvi, perfino la
vostra famiglia vi può aiutare. Allora potete fermare questi
movimenti agitati. Fatene il vostro scopo. Dopodiché, forse, potrete
procurarvi dell’attenzione. Ecco un esempio di ciò che significa fare.
All’inizio di questo lavoro tutti vogliono fare grandi cose. Se
cominciate con grandi cose non farete mai nulla. Prima cominciate
con piccole cose. Se volete suonare delle melodie senza esservi
esercitati in precedenza, non potrete mai suonare delle vere
melodie. E quello che suonerete vi farà odiare dalle persone. La
stessa cosa avviene in campo psicologico: per raggiungere un
obiettivo reale è necessaria una lunga pratica. All’inizio dovete
cercare di raggiungere obiettivi limitati. Se affrontate subito grandi
cose, non farete mai nulla e non sarete mai nulla. E le vostre
manifestazioni faranno irritare le persone, che finiranno per
odiarvi».

Verso la metà di gennaio del 1924 partecipai a un incontro nello


studio O’Neil. C’era già tanta gente seduta, persone benestanti,
interessate all’arte contemporanea, alla musica e alle idee.
L’incontro era stato fissato per le nove di sera ma Gurdjieff arrivò
quando erano quasi le dieci. Entrò da un’altra stanza, indossava un
abito grigio e un paio di vecchie ciabatte e teneva in mano una
grande patata bollita. Calò un silenzio gelido. Si sedette di fronte a
noi sul bordo di un basso pianale e cominciò a mangiare. Sembrava
recitare una parte, quella del bonario gentiluomo di mezza età a un
ricevimento. Fece una battuta, e l’atmosfera piuttosto tesa si dissolse
nello scoppio di una risata. Dopo qualche commento cambiò
espressione e chiese se non ci fossero delle domande.
La prima fu: «Potrebbe dire qualcosa sulla Legge del Tre?»
Gurdjieff disse: «Facciamo un semplice esempio, il pane. Avete
farina, acqua. Li mescolate. È necessaria una terza cosa, il calore,

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e allora avrete del pane. Così è in tutto. Ci vogliono tre forze, tre
princìpi. Allora avrete un risultato».
Un altro chiese: «Forse è una domanda sciocca, ma qual è
secondo lei la differenza tra gli uomini e le donne?»
Gurdjieff: «In generale, negli uomini è più sviluppata la mente,
nelle donne remozione. Gli uomini sono logici, le donne non sono
logiche. Gli uomini dovrebbero imparare a sentire di più, le donne a
pensare di più. Prima che diventi reale per voi, una cosa dovete
pensarla, percepirla, sentirla. In merito al sentire, voi non sapete
cosa significhi “sentire con i sensi”, confondete le sensazioni con le
emozioni, e le emozioni con le sensazioni. Dovete imparare a
riconoscere i momenti in cui pensate, in cui sentite con le emozioni
e in cui sentite con i sensi. Tre processi necessari, e per
comprendere ci vuole tanto lavoro».
Le domande proseguirono poi numerose: «Cos’è la sofferenza?
Non intendo il dolore fisico, ma la sofferenza che pesa sui
sentimenti e sulla mente. Forse mi riferisco alla sofferenza
emozionale e mentale, che spesso sembra immotivata».
Gurdjieff: «Ci sono diversi tipi di sofferenza. In generale, tutti
soffrono. Ma gran parte della sofferenza è meccanica. Esistono due
fiumi di vita. Nel primo la sofferenza è passiva e inconsapevole. Nel
secondo la sofferenza è “volontaria”, che è molto diversa ed è di
grande valore. Ogni sofferenza ha una causa e una conseguenza.
Oggi gran parte della sua sofferenza è causata dai suoi calli o perché
qualcuno glieli pesta. Per passare nel secondo fiume, si deve
abbandonare tutto».

«Può dirci che posto occupa l’amore nel suo sistema?»


Gurdjieff: «L’amore ordinario è accompagnato dall’odio. Amo
questo, odio quello. Oggi le voglio bene, la prossima settimana, la
prossima ora, il prossimo minuto la odio. Chi è in grado di amare
veramente, può essere; chi può essere, può fare\ chi può fare, è. Per
conoscere il vero amore, bisogna dimenticare tutto sull’amore e si
deve cercare una direzione. Per come siamo non possiamo amare.
Amiamo perché qualcosa in noi si combina con le emanazioni
dell’altro, il che avvia associazioni piacevoli, forse per le
emanazioni chimico-fisiche del centro istintivo, del centro
emozionale o del centro intellettuale. Oppure l’amore dipende

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dalle influenze della forma esteriore o da emozioni - io Tarmo
perché lei mi ama, o perché non mi ama - o da suggestioni di altri,
da un senso di superiorità o pietà; e si ama per tante altre ragioni,
soggettive ed egoistiche. Ci lasciamo influenzare. Proiettiamo le
nostre emozioni sugli altri. Rabbia genera rabbia. Riceviamo ciò che
diamo. Ogni cosa attrae o respinge. C’è Tamore del sesso, che
normalmente gli uomini e le donne identificano come “amore”.
Quando svanisce, l’uomo e la donna non si “amano” più. C’è Tamore
emozionale, che evoca l’opposto e fa soffrire le persone. Più avanti
parleremo di amore cosciente».
In risposta a un’altra domanda, Gurdjieff disse: «Tutta la vita ha
bisogno di amore. Le mucche danno più latte e le galline più uova se
i loro proprietari le amano. I risultati sono diversi a seconda di chi
semina. Uomini energici possono far seccare le piante con l’odio, e
anche distruggere altre persone. Cominci ad amare le piante e gli
animali, poi forse imparerà ad amare le persone».
«D’accordo», disse chi aveva posto la domanda, «ma cos’è
Tamore? Ne parliamo continuamente, ma quando me lo chiedo so
di non sapere. Forse amare una persona significa augurargli il suo
bene. Ma so cos’è bene per gli altri? Perfino il bene che immaginavo
per i miei figli e per cui talvolta ho lottato, non si è rivelato tale».
«Se sa di non sapere è già molto», rispose Gurdjieff. «Venga ai
gruppi e ne riparleremo».

«Perché gli uomini spesso sono attratti da donne - o le donne sono


attratte da uomini - che li fanno soffrire?»
Gurdjieff: «Rifletta su quanto ho detto riguardo all’amore
emozionale». „

Quando ascoltavo Gurdjieff agli incontri mi sentivo sempre bene,


credevo di essere già «sulla via», capace di «fare» e che da allora in
poi sarei stato molto diverso, ma bastava un giorno ed ero già
ricaduto nelle vecchie abitudini. Nella mia essenza sentivo che le
sue parole erano la verità che da tempo aspettavo di ascoltare; ma
nella vita cominciai a farmi un’idea sulla difficoltà di «fare»
qualcosa. «Sentivo» che era vero, ma non lo «comprendevo».

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Parlai a Orage della mia difficoltà nel ricordare quanto veniva
detto agli incontri e di fame uso. Mi disse: «Per lei non è ancora il
momento di “fare”. Bisogna ponderare ogni cosa che Gurdjieff dice,
per imparare e prepararsi». Chiesi cosa intendesse per «ponderare»,
e mi rispose: «Per un verso significa pensare con la parte pensante di
ogni centro: intellettuale, emozionale e motore. Nel Nuovo
Testamento si dice: “Maria ponderò tutte queste cose nel suo
cuore”. Significa tornarci sopra, soppesarle». Quando tentai di
ponderare mi resi conto di non averlo mai fatto prima. Avevo
soltanto rimuginato qualcosa con una parte delle emozioni. Così,
ricordandomi di quello che Gurdjieff aveva detto di me, cominciai a
rammentare quello che avevo sentito sul sonno: «Svegliati, tu che
dormi!», dice il profeta; «Ora Cristo è risorto dai morti e diviene la
primizia di coloro che dormono», dice san Paolo. Secondo i sufi, il
Cristo sorto nel corpo di Gesù entrò a Gerusalemme sull’Asino del
Desiderio. Nel Mahabharata uno dei grandi eroi si chiama il
«Conquistatore del sonno». I greci si riferivano al corpo come alla
«Tomba dell’Anima»; e nella Chiesa ortodossa a Pasqua si canta
«Cristo è risorto dai morti. Ha conquistato la morte con la morte, e
ha dato vita a coloro che erano nella tomba». L’idea echeggia anche
nella poesia. Un poeta dell’epoca Tudor, ad esempio, scrisse:

Per tutta la notte trilla il galletto


Trombettiere che annuncia il giorno
Sbatte le ali e grida forte «Mortali!
Mortali! Sveglia! Sorgete!»

Il canto del gallo - che ritengo una delle più dolci melodie in natura
- viene spesso associato al risveglio. Prudenzio disse: «Al canto del
gallo Cristo risorse dal mondo degli Inferi». E quando il gallo cantò,
san Pietro si «ricordò» di sé.
L’idea è presente anche nelle fiabe. C’è La bella addormentata. In
ognuno di noi c’è qualcosa di addormentato e che aspetta di essere
svegliato dal bacio del vero insegnamento. Anche alcune
filastrocche riecheggiano il concetto: «Ragazzetto blu» che sta
«profondamente addormentato sotto un pagliaio». Il poeta sufi Aitar
ne La conferenza degli uccelli parla del «sonno che riempie la vita».

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Le conversazioni e le dimostrazioni cominciarono a farmi
sentire il gusto di quanto profondamente fossi addormentato. Il
primo segnale che in effetti qualcosa stesse lavorando nel mio
subconscio e stesse cambiando lo ebbi in un sogno.
Nel novembre del 1917, quando ero ferito, avevo abbandonato
le trincee della Somme, e da allora un sogno mi tormentava quasi
ogni notte: ero di nuovo nell’esercito, pronto a entrare in azione,
sicuramente per andare a morire; spesso mi sparavano e mi
svegliavo quando stavo cadendo. Il tutto era sempre accompagnato
a uno stupore, misto ad abbattimento, disperazione e rammarico per
essere stato trascinato ima volta ancora in quella terribile situazione
senza scampo. Tutti i sentimenti di paura, scoramento e
disperazione erano compressi nei pochi secondi prima del risveglio.
Il sogno era talmente più vivido della realtà che mi ci volevano un
paio di minuti per riprendermi, enormemente sollevato. Una lunga
e costosa terapia psicanalitica non aveva dato alcun risultato
duraturo; quand’ero dall’analista mi sentivo sollevato perché gli
trasferivo la mia sofferenza, ma appena me ne andavo la paura
tornava. Un risultato dell’analisi fu scoprire che i sogni spesso sono
causati da paura e apprensione, soldi e cibo, così come dal sesso. La
psicanalisi ordinaria è come se si limitasse a prendere un pezzo di
acciaio piegato e a raddrizzarlo, ma appena lo molla, di solito
l’acciaio riprende la piega. Deve essere ritemprato. H sistema di
Gurdjieff sembrava essere ima tecnica per ritemprarlo.
Dopo alcune settimane di frequentazione degli incontri e delle
dimostrazioni, il sogno ritornò. Ero nell’esercito, assoluta- mente
depresso e scoraggiato, col biasimo per essermi lasciato riacciuffare
da quella situazione intollerabile senza apparente via di uscita.
Stavamo per entrare in azione e farci massacrare. In guerra - e nello
stato di veglia - la Natura di solito predispone degli ammortizzatori
tra la paura e la prospettiva di ferite dolorose, sofferenza e morte;
ma nei sogni questi ammortizzatori sono rimossi e io soffrivo
perché mi rendevo conto di cosa davvero fosse la guerra. Stavolta,
nel sogno, qualcosa si modificò: mi ero allontanato dal reggimento,
stavo su un’altura, faceva buio ma nell’oscurità riuscivo a
distinguere l’esercito in basso allontanarsi in marcia senza di me e
mi sentii enormemente sollevato.

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Avevo alle spalle una vivida luce in cui intravedevo le sagome di
due uomini. Mi voltai, vidi Gurdjieff e Orage e sentii uno di loro
dire: «Una via di scampo?» Poi mi svegliai.

H sogno ricorrente non mi abbandonò mai del tutto, ma un po’ alla


volta si fece meno oppressivo e presentò sempre ima soluzione; nel
tempo si accompagnò solo a un vago disturbo. Forse non volevo
dimenticarlo completamente, forse volevo ricordare lo stato di
sonno di quando offrii me stesso in sacrificio a Moloch, Kali, Shiva
il distruttore, Marte o come si voglia chiamare la forza di
distruzione.

Ci furono altre dimostrazioni di Movimenti e danze, alla Neigh-


borhood Playhouse presso la chiesa di St Mark’s in The Bowery, e
alla Camegie Hall. Alla Neighborhood venne letto quello che, ne I
racconti di Belzebù, divenne il capitolo Dall’autore, dove si parla del
«fiume della Vita»; e fu qui, quando gli allievi stavano lasciando il
palco alla fine di una dimostrazione, che Gurdjieff, con un tono di
voce che i più potessero sentire, chiamò una giovane donna, una
danzatrice bella e brava, e la rimproverò. Le disse: «Tu rovini il mio
lavoro. Danzi per te stessa, non per me». La giovane cominciò a
giustificarsi, ma lui fece un gesto con la mano e andò via. Rimasi
piuttosto scosso, ma mi fece capire la relazione tra il sistema di
Gurdjieff e l’idea cristiana di fare tutto per la gloria di Dio, di
lavorare per il proprio essere interiore e per la gloria di Dio.

In febbraio accompagnai Orage a Boston per la preparazione di una


dimostrazione e la possibile formazione di un gruppo. Speravo di
essere d’aiuto, perché a Boston e a Cambridge, nel Massachusetts,
conoscevo gente importante. Quando ero stato a Cambridge, nel
1919, avevo pensato di laurearmi in letteratura e psicologia, ma ero
ancora demoralizzato e scosso dalla guerra e non riuscivo a studiare.
Un giorno, mentre mi trovavo alla biblioteca Widener, mi resi
conto che la specializzazione in un indirizzo psicologico avrebbe
richiesto almeno tre anni, e che c’erano tanti indirizzi, ognuno
dedicato a un solo aspetto della psiche umana. Al fine di avere una
visuale completa del l’uomo, ci sarebbe voluto moltissimo tempo

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per frequentare tutte le scuole più note. Ma poi, davvero avrei
saputo molto di più su me stesso e sugli altri? Qualcosa mi disse di
no. Lo stesso accadde con lo studio accademico della letteratura:
non ero più interessato alla cultura fine a sé stessa. Abbandonai
l’idea di studiare a Harvard e ripresi il mio pellegrinaggio in giro per
il mondo. Ma strinsi amicizia con Charles Townsend Copeland,
rinsaldata durante questa mia seconda permanenza in America.
Charles Townsend Copeland era un professore e ima figura
pubblica, ma anche una persona di grande calore umano. Pensai che
avrebbe potuto rivelarsi molto utile e lo dissi a Orage. «Ne dubito»,
rispose. «Ho incontrato un solo professore interessato a vere idee, il
professore francese Denis Saurat. Perfino gli uomini d’affari
mostrano più interesse dei professori, degli studiosi o degli
scrittori».
Nessuna persona «importante» con cui parlai dimostrò il
minimo interesse per Gurdjieff: lo consideravano l’ennesimo
eccentrico filosofo venuto dall’Europa.
Il mio soggiorno con Orage a Boston mi permise di parlargli e
conoscerlo meglio. Quando gli chiesi quale fosse lo scopo del
viaggio di Gurdjieff in America, disse: «Le dimostrazioni, gli
incontri e le conferenze sono come ima rete gettata in mare. Fra
centinaia di persone che assistono solo alcune, insoddisfatte di sé
stesse e della vita, avvertiranno che noi abbiamo qualcosa che
cercano. Ciò non significa necessariamente che quei pochi siano
degli “infelici”. Magari hanno una vita attiva, soldi a sufficienza e
una posizione agiata, ma sentono che al di là della vita ordinaria c’è
dell’altro. In altre parole, alcune persone hanno un centro
magnetico, o il suo embrione, sono loro ad avere la possibilità di
lavorare su di sé, il resto dell’umanità non ne sente il bisogno e non
farà nulla. Noi offriamo alle persone l’opportunità di avere uno
scopo nella vita, di fare uso della sofferenza - quell’insoddisfazione
che avvertono - per il loro bene. Quanti se ne accorgeranno?
Staremo a vedere».
«Lei era insoddisfatto di sé e della vita, quando ha incontrato
Gurdjieff?», chiesi.
«Lo ero. Mi stavo già disilludendo dell’ambiente puramente
letterario e culturale quando venne a trovarmi Ouspensky nel

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1914: facevo sempre più fatica per costringermi a scrivere gli
articoli per il settimanale “New Age”. Fu ima profonda delusione
rendermi conto che la mia vita intellettuale, assieme a quanto di più
elevato e migliore della cultura occidentale, non mi portava da
nessuna parte. Come si diceva: “Non avevo trovato Dio”».
«Dunque lei ha conosciuto Ouspensky prima di incontrare
Gurdjieff?»
«Sì. Avevo una corrispondenza con lui quand’era giornalista in
Russia; venne da me nel 1914, prima di rientrare in Russia
dall’Oriente. Allo scoppio della Rivoluzione lo misi in contatto con
il signor F.S. Pinder, che rappresentava il governo britannico a
Ekaterinodar. Ouspensky era in difficoltà e Pinder gli procurò un
lavoro nel suo staff. Il governo non volle pagarlo e credo che lo
abbia fatto Pinder di tasca sua. La seconda volta che venne in
Inghilterra, passò a trovarmi. Contattai alcuni scrittori, dottori,
psicologi e si organizzarono degli incontri nello studio di Lady
Rothermere, a St John’s Wood. Ouspensky aveva trovato ciò che io
stavo cercando. Ma dopo che Gurdjieff partecipò al gruppo di
Ouspensky per la prima volta, riconobbi in lui il maestro.
Alla fine vendetti “New Age”, rinunciai alla vita letteraria e al
gruppo di Ouspensky e andai a Fontainebleau. Le prime settimane
al Prieuré furono un’autentica sofferenza. Mi venne detto di scavare
ma da anni non facevo esercizio; la sofferenza fisica era tale che
rientrato in stanza, una specie di cella, piangevo letteralmente per
la fatica. Non mi si avvicinava nessuno, neppure Gurdjieff. “Ho
rinunciato a tutta la mia vita per questo?”, mi domandavo. “Prima
almeno avevo qualcosa, ma adesso?” Proprio quando ero nella
disperazione più profonda e sentivo di non poter andare avanti
ancora per molto, mi ripromisi di compiere uno sforzo ulteriore: fu
quello il momento in cui avvenne dentro di me il cambiamento.
Cominciai ad apprezzare il lavoro pesante, e una settimana dopo
venne Gurdjieff e mi disse: “Ora, Orage, penso che abbia scavato
abbastanza. Andiamo in un locale a prendere un caffè”. Da allora le
cose furono diverse e quanto accaduto apparteneva già al passato.
Fu la mia iniziazione».
Così fu per Orage, che con la rivista «New Age» aveva
rappresentato il migliore punto di riferimento per ogni branca del

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pensiero contemporaneo, l’Orage per cui uomini del calibro di
Chesterton, Belloc, Shaw, Wells e Arnold Bennett avrebbero scritto
volentieri gratis sulla sua rivista, e che T.S. Eliot aveva definito il
miglior critico letterario contemporaneo.
Orage mi fece sapere che nel suo ultimo viaggio a Londra da
Ouspensky, Gurdjieff aveva portato come interprete proprio F.S.
Pinder. Ouspensky contestò una qualche traduzione di Pinder, ma
Gurdjieff la ritenne corretta; considerava Ouspensky troppo
intellettuale, con molta teoria e poca pratica.
Alla fine, di tutti gli allievi inglesi, restarono al Prieuré solo
Orage, Pinder e pochi altri; i restanti rientrarono a Londra. Tra gli
allievi di Ouspensky c’era un tale J.G. Bennett che rimase al Prieuré
per pochi giorni; non rivide più Gurdjieff fino al 1949, poco prima
della sua morte. Per un certo periodo si fermò al Prieuré insieme
alla moglie anche Rowland Kenney, direttore del «Daily Herald»
nel suo primo anno di attività (1912).
Orage disse di essere grato a Ouspensky per avergli fatto
incontrare Gurdjieff: «Solo allora», mi disse, «cominciai a
distinguere tra conoscenza e comprensione. Ouspensky per me
rappresentava il sapere, un grande sapere, e Gurdjieff la
comprensione, sebbene anche Gurdjieff ovviamente disponesse di
tutto il sapere».
ES. Pinder era un ingegnere civile e pure lui non esitò a
riconoscere in Gurdjieff il maestro. Dopo l’incontro con Ouspensky
a Ekaterinodar fu imprigionato dai bolscevichi e condannato a
morte. Durante la prigionia perfezionò la sua conoscenza della
lingua russa. Alla fine venne liberato e dopo la guerra fu decorato
ufficiale dell’Impero britannico.
Mi colpì il fatto che Orage, Pinder e Kenney, uomini
straordinari nel vero senso del termine, uomini di comprensione,
avessero in comune con me il fatto di aver ricevuto tutti, nelle
scuole inferiori, quella che chiamavano «dis-educazione».
L’amicizia con uomini più anziani, e in un certo senso più saggi,
fondata su qualcosa di essenziale e con uno scopo comune
fondamentale è una vera benedizione; un’amicizia che può essere
affiancata ma non sostituita dall’amicizia e dall’amore per una
donna. Mi ritengo fortunato ad aver avuto questi tre amici, «come la
lama affila la lama...».

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Quando eravamo a Boston chiesi a Orage se non avesse
intenzione di avviare un gruppo esoterico a New York, perché avrei
voluto parteciparvi.
«No», mi rispose, «nessun gruppo esoterico e nemmeno me-
soterico. Ne siamo molto lontani. Sarà già tanto se riusciremo ad
avviare un gruppo esoterico esteriore».
«Ma il Prieuré non è forse una scuola esoterica?», chiesi allora.
«Lo è, probabilmente oggi è Tunica nel mondo occidentale; ma
si può anche stare al Prieuré e rimanere inconsapevoli: dal Prieuré
si può ricevere solo nella misura in cui si lavora su sé stessi, vale a
dire con sforzi autentici. Per molte persone che attualmente ci
vivono, il posto è soltanto una maison de sauté».
«I nostri punti di partenza sembrano diametralmente opposti»,
dissi. «Ho affrontato quasi ogni tipo di attività fisica e mi sono
guadagnato da vivere con diversi lavori; ho viaggiato e vissuto in
venti Paesi diversi, ma non ho mai usato la testa. Con gli
intellettuali mi sento senza argomenti, ottuso come una pecora
davanti al tosatore. Con il lavoro fisico o gli affari mi riesce facile,
ma ho difficoltà a usare la testa. Non riesco a elaborare, sento e
basta».
«Bene», disse, «credo di poter affermare che delle attuali
correnti di pensiero ne so più di tanti altri, ma quando ho
cominciato a lavorare con Gurdjieff mi sono reso conto subito che
non capivo quasi nulla. Ho dovuto ricominciare da capo. Alla fine,
in questo sistema, ripartiamo tutti da zero. Al tempo stesso, in
questo lavoro, la mia esperienza di editore può tornare utilissima».
E aggiunse: «Il fatto è che lei pensa con le emozioni. Deve imparare
a pensare con la testa. Uno scopo di questo lavoro è rendere l’uomo
capace di sentire con i sensi, con le emozioni e di pensare
simultaneamente. Siamo tutti “anormali” perché uno o più centri
sono sottosviluppati. Per questo motivo Gurdjieff definisce la sua
scuola “ Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo”».
«E vero che siamo tutti anormali?», chiesi. «Prenda Bernard
Shaw, per esempio. Ci siamo visti parecchie volte. Avrei pensato
che fosse normale».
«Ho conosciuto bene gli Shaw per parecchi anni», disse Orage,
«ero con loro il giorno che si sono sposati. Shaw percepisce con la

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testa, gli manca la cosiddetta “comprensione emozionale”. Una
volta Shaw e io stavamo pranzando con un’amica e la conversazione
cadde sull’emozione e l’intelletto. La donna gli disse: “Vede Shaw, a
lei manca la comprensione emozionale”. “Cosa intende?”, disse lui.
“È ovvio che ho comprensione emozionale”. “Oh no”, disse lei,
“Orage ce l’ha, ma non lei”. Shaw si irritò, perché non riusciva a
vedere che era così. Più tardi, dopo che se ne fu andato, la donna
disse: “Povero vecchio Shaw. È rimasto un po’ offeso. Il suo
problema è che la sua intelligenza gli ha dato alla testa”».
«Mi dispiace», dissi, «che nessuno dei miei amici a Cambridge o
a Boston sia interessato alle idee di Gurdjieff, o a una dimostrazione
delle danze. Quando ero a Harvard, nel 1919, credevo che la vita
della gente di cultura a Cambridge fosse la migliore che si potesse
trovare: mi sembrava qualcosa di simile alla vita culturale inglese
del diciottesimo secolo, quella precedente ai momenti bui dei tempi
successivi».
«Sono d’accordo», disse Orage, «ma secondo Gurdjieff lo
sviluppo interiore dell’individuo non dipende dalla cultura,
sebbene la cultura possa fare da base. Al contrario, la cultura
dipende dall’individuo sviluppato, o piuttosto da un gruppo di
uomini che lavorano insieme. Il fiorire e lo sbocciare della cultura,
che si manifestano di tanto in tanto nel corso della Storia e
apparentemente senza ragione - come la costruzione delle cattedrali
gotiche, il Rinascimento, le commedie di Shakespeare -, sono
esempi dell’opera di un gruppo di uomini che lavorano
coscientemente. Un’altra cosa: non riuscirà a convincere nessuno
della validità delle idee di Gurdjieff con argomentazioni
intellettuali. E noi non vogliamo convincere o convertire le
persone. Offriamo uno strumento di aiuto a chi ne sente il bisogno.
Sa bene che chi è in salute non ha bisogno del medico. Gurdjieff
dice che il Prieuré è un’officina dove si riparano automobili guaste».

Tomai a New York, deciso a partecipare attivamente alle danze e ai


gruppi, ma qualcosa mi tratteneva. C’era una sorta di lotta tra due
parti di me. Una diceva: «Fai uno sforzo. Fallo». L’altra diceva:
«Aspetta, non sai in cosa ti stai imbarcando». Mi tratteneva davvero
una paura mista a timidezza e inerzia: paura di dover rinunciare a

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qualcosa di caro, qualcosa di vago cui mi aggrappavo. Così, invece di
prendere parte attiva alle classi di Movimenti, mi limitai ad
assistere. Ero quel che ero, dunque non potevo fare diversamente,
«una macchina può comportarsi solo da macchina». Temevo
soprattutto di essere ostacolato nella realizzazione del mio sogno
prezioso: avviare ima libreria a New York.
In genere capricci e desideri hanno origini che ignoriamo,
alcune legittime, altre no. Quelle non legittime, dannose, vanno
represse; le innocue andrebbero soddisfatte, altrimenti possono
essere fonte di disturbo. «Soddisfi i capricci innocui ma non li
coltivi», disse Orage. «In questo lavoro non le si chiede di rinunciare
a nulla. Quando non si è più identificati, le cose e le associazioni
cadono da sé. Dopotutto, deve pur guadagnarsi da vivere in qualche
modo, e perché non con una libreria?»
«Voglio anche andare al Prieuré», dissi.
«Bene, perché non entrambe le cose? Trascorra l’estate
all’Istituto, poi tomi e avvìi la sua attività. Ma mi dica, perché vuol
fare il libraio?»
«Perché sono un appassionato di libri».
«Secondo me, fare il libraio perché si è appassionati di libri è
come fare il macellaio perché si ha una passione per gli animali».
C’era un altro problema. In Russia avevo incontrato una
giovane americana, poi ognuno se ne era andato per la sua strada e
ci eravamo ritrovati a New York. Condividevamo molte cose e ci
fidanzammo, ma i nostri interessi comuni parvero subito
indebolirsi. Lei cominciò a infastidirsi per il mio interesse al sistema
di Gurdjieff, e dopo la prima dimostrazione si rifiutò di partecipare
agli incontri. Lamentava che Gurdjieff fosse contrario alla
Rivoluzione russa e che io stessi perdendo interesse per le cose in
cui ci eravamo impegnati entrambi: «la riforma sociale e il bene
degli altri». Quando le dissi che mi stavo organizzando per andare al
Prieuré e le chiesi di venire, lei rispose: «No, devi scegliere tra
Gurdjieff e me». Lo riferii a Orage che disse: «A Londra conoscevo
un uomo in una situazione simile: era innamorato di una donna. Col
tempo in lui si manifestò un desiderio che voleva realizzare. Un
desiderio molto importante. Ne parlò con lei, che cominciò a
sollevare obiezioni. Più ne discutevano più lei lo supplicava, con le
lacrime agli occhi, di non farlo.

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L’uomo alla fine cedette, ma appena disse alla donna di aver
rinunciato ai suoi progetti lei lo disprezzo per la sua debolezza.
Dopodiché la relazione finì. Lui non si perdonò mai e dovette
impegnarsi moltissimo per realizzare il progetto iniziale, che
comunque subì dei cambiamenti». Questa storia mi fece una grande
impressione: Orage non poteva saperlo, ma un fatto simile era
accaduto anche a me qualche anno prima. Neppure io mi ero
perdonato e, se non fosse stato per il racconto di Orage, avrei potuto
ripetere l’errore.
«Deve ricordarsi», continuò Orage, «che le donne americane
sono peggio delle altre. È ovvio che tutte le donne vogliono averla
vinta, ma una tragedia della vita americana è che le donne l’hanno
avuta vinta al punto da dominare gli uomini. La forza passiva è
diventata attiva. Una conseguenza è che qui il numero di divorzi è
enorme rispetto all’Europa. Per Gurdjieff la colpa del
deterioramento della condizione delle donne americane è degli
uomini. La cosa strana è che per gli americani è un segno di
“progresso”.
A tale riguardo, perfino le contadine dell’Europa Centrale
capiscono istintivamente l’arte dell’amore meglio di tante donne
sofisticate americane o inglesi. Le donne non riescono a crescere
interiormente perché gli uomini restano bambini. Le donne
desiderano essere dominate nel giusto modo, ma per dominare una
donna ci vuole un uomo. Gli uomini europei sono diventati
relativamente adulti in migliaia di anni. Gli americani, anziché
continuare dal punto di arrivo degli europei, sono regrediti
all’infanzia o quantomeno all’adolescenza. È imo svantaggio
enorme ma al tempo stesso un’opportunità. È possibile fare qualcosa
con i bambini. Gurdjieff dice che gli americani hanno più possibilità
di fare del bene rispetto agli uomini di qualsiasi altra nazione, ma
sono talmente alla mercé di ideali sbagliati, importati dall’Europa e
infine distorti - hanno raggiunto potere e ricchezza facilmente - che
la loro civiltà potrebbe decadere e marcire molto prima della
maturazione. In una vera civiltà la donna comprende la sua
funzione e desidera soltanto essere una donna».
Comunicai alla mia giovane compagna la scelta di andare a
Fontainebleau.

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Durante quell'inverno di nuove esperienze quasi quotidiane, mi
capitò di incontrare una «saggia». Venni a sapere di lei tramite un
amico, e su suo suggerimento le feci avere il mio nome completo,
data di nascita e un onorario. Dopo qualche giorno mi arrivarono
quattro fogli, con una fitta descrizione delle mie caratteristiche
essenziali e delle potenzialità buone e cattive, e anche una traccia
delle circostanze in cui probabilmente mi sarei imbattuto. Alcune
cose dette su di me furono straordinarie, potenzialità nel bene e nel
male che nemmeno sospettavo. Delineò anche le caratteristiche di
persone che non avevo ancora incontrato, e che in seguito
divennero parte della mia vita.
Viveva in una cittadina a nord dello Stato di New York e andai a
trovarla. Era la tipica «saggia»: tranquilla, simpatica, piccolina come
quelle che avevo già incontrato nei villaggi russi; perché nella
vecchia Russia ogni villaggio aveva la sua, donne insolitamente
dotate di una saggezza subconscia popolare, a cui si rivolgevano i
contadini per consigli e per discutere i loro problemi. Non era una
medium nella solita accezione spiritualista. Le chiesi come sapesse
tante cose su di me, che non aveva mai visto né sentito nominare.
Disse: «Non lo so. Prendo il suo foglio fra le mani, faccio qualche
calcolo, poi mi siedo alla macchina da scrivere, mi metto in un certo
stato e semplicemente mi arrivano. All'inizio dicevo alla gente
quello che secondo me sarebbe successo loro, ma questo dipende da
molte cose e spesso mi sbagliavo, così ho smesso. Ora mi occupo
solo del carattere, e sento di poter aiutare le persone parlandogli
delle potenzialità che hanno, buone e cattive».
Poteva esprimere ciò che scopriva di una persona tramite la
scrittura solo quando era sola, e non a voce ma usando quel dono
che gli spiritisti definiscono - o piuttosto mal definiscono -
«psicometria». Sembra quasi che il film della nostra vita venga
prodotto alla nascita e ci venga donato, e che certe persone in stati
particolari possano vederne in antìcipo alcuni spezzoni. Se ci
predicono il «futuro» lo interpretiamo soggettivamente, e
sprechiamo energia sperando nel bene e temendo il male che ci
aspettiamo.
Diventammo amici e la accompagnai a una dimostrazione.
«Questo», disse, «è autentico. H signor Gurdjieff è un uomo che
comprende cosa sia la vera religione. È un uomo che ha visto Dio».

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Non basta dire «conosci te stesso», ed è sempre uno shock
prendere conoscenza del proprio lato oscuro, perché non lo si vuol
vedere.
«Il sistema di Gurdjieff offre una tecnica», disse una volta Orage.
«Puoi sapere dei tuoi difetti per anni, ma finché non farai tu stesso
lo sforzo giusto, rimarrai quello di sempre. Il suo sistema ha un
metodo che non è insegnato nei libri e con cui, un po’ alla volta,
puoi imparare come compiere questo sforzo per conoscere te stesso;
ma devi prepararti a lavorare per molto tempo, per anni forse, e ci
saranno lunghi periodi in cui nulla sembrerà accadere né cambiare
in te».

Gurdjieff portò gli allievi a Boston e poi a Chicago, dove si tennero


dimostrazioni e conferenze. I risultati di tutto questo sforzo furono
modesti: i semi caddero su un terreno pietroso. Di ritorno a New
York, si tenne una dimostrazione finale alla Carnegie Hall. Ci
furono problemi con l’orchestra e il sindacato dei musicisti, che
insistette sull’impiego di alcuni orchestrali supplementari,
compreso un pianista. Così Gurdjieff fece a meno di tutti e il signor
de Hartmann suonò da solo un pianoforte a coda. Fu l’unica
dimostrazione a pagamento a New York con i posti. Parte del
pubblico si sedette nei posti più economici e distanti; alcuni di
quelli costosi restarono liberi, così il signor Gurdjieff invitò le
persone ad avvicinarsi e a occuparli, cosa che fecero. Il programma
fu molto lungo, durò quasi quattro ore; ciononostante furono pochi
quelli che uscirono prima del termine e gli altri non restarono solo
per cortesia! Vennero eseguite tutte le danze e i Movimenti, i
trucchi e i mezzi trucchi. E furono lette tutte le spiegazioni eccetto
la lettura della Neighborhood Playhouse, che alla fine venne
inserita ne I racconti di Belzebù.
Ricordo quella serata particolare per un fatto che in seguito mi
stupì profondamente. Ero in compagnia di una ricca e giovane
signora, venuta col desiderio di vedere Orage più che la
dimostrazione. Dopo la rappresentazione la donna suggerì di
invitare Gurdjieff a prendere un caffè insieme a noi. A sorpresa egli
accettò. Ci portò al bar Child, a Columbus Circle, dall’altra parte
della strada, lasciando alla Camegie Hall tutti gli ospiti importanti.
Rimasi colpito dal modo in cui egli attraversò la strada

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in mezzo al traffico, non lo fece in modo nervoso e teso come gran
parte delle persone, ma come se stesse sentendo con Finterà
presenza, assolutamente consapevole di cosa stesse facendo, simile a
un saggio elefante che avevo visto farsi strada in una zona impervia
della foresta birmana. Mentre prendevamo il caffè, Gurdjieff parlò
delle difficoltà che aveva incontrato nel raccogliere denaro per il
suo lavoro: «La gente è disposta a sborsare qualunque cifra per
sciocchezze», disse, «ma non vuole pagare per ciò di cui ha
veramente bisogno, neanche nella vita ordinaria». Gli feci alcune
domande solo perché pensavo di doverlo fare, egli rispose, ed ecco
che «pur guardando non vidi e ascoltando non compresi». In più,
condizionato com’ero da un’educazione religiosa per cui «la
salvezza era gratuita per tutti», mi ero fatto l’idea che
l’insegnamento di Gurdjieff dovesse essere impartito gratuitamente,
e che un uomo come lui non avrebbe avuto difficoltà a procurarsi
tutto il denaro di cui aveva bisogno. Così, sebbene avessi potuto
donargli poche centinaia di dollari che gli sarebbero tornate utili,
mi trattenni; in seguito questo episodio e altri ancora divennero per
me ciò che lui definiva un «elemento di richiamo» per il rimorso di
coscienza.
Gurdjieff aveva affidato a Orage un grande compito: trovare
fondi sufficienti per la sua permanenza in America. Orage non si
preoccupava di essere povero, ma detestava la povertà, perché
quand’era giovane la sua famiglia l’aveva sofferta parecchio. E
detestava anche schiavizzarsi nella ricerca di fondi e chiedere soldi
per un fine qualsiasi, anche non suo. Gurdjieff era sbarcato a New
York con quaranta persone e senza denaro; al tempo stesso aveva
insistito che la prima dimostrazione fosse gratuita. Così Orage aveva
dovuto sfoderare al meglio tutte le sue qualità: il fascino, la
persuasività, la fama di editore. A ogni modo gli americani sono
generosi e donano davvero volentieri per qualcosa che li tocca,
senza aspettarsi un tornaconto materiale o pubblicitario che per
loro, di solito, è importante. Il denaro affluì.
«Secondo Gurdjieff siamo ingenui rispetto al denaro», disse in
quel periodo Orage riguardo a tutto questo. «Siamo ipnotizzati a
livello individuale e collettivo da idee sui soldi vecchie di secoli.
Migliaia di persone vanno in bancarotta e altre centinaia di migliaia
stanno perdendo il lavoro in Inghilterra, adesso, perché il dittatore

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finanziario Montagu Norman4 dice che il sistema monetario non va
cambiato. Ogni epoca ha le sue superstizioni, in ogni periodo
uomini e donne vengono sacrificati a falsi idoli, falsi ideali.
Gurdjieff dice che Gatteggiamento verso il denaro fa parte dello
stato onirico in cui viviamo. Se gli uomini potessero svegliarsi, le
cose cambierebbero rapidamente. Il rapporto di Gurdjieff con i soldi
è diverso da tutti quelli che conosco: ne ha bisogno per il suo scopo,
senza denaro non si può realizzare nulla di importante; più di un
viaggio apostolico di Gesù venne finanziato da donne ricche. Può
sembrare che Gurdjieff sprechi denaro ma egli valuta, e non lo usa
per sé stesso. Alcuni giorni fa un uomo gli ha dato un assegno di
cento dollari per il suo “grande lavoro”, facendo intendere che si
trattava di un favore; Gurdjieff lo ha ringraziato profusamente e il
giorno dopo lo ha invitato a cena in ristorante. A tavola eravamo in
dieci. Quando il cameriere ha portato il conto, Gurdjieff ha detto
che non andava bene perché era stato dimenticato qualcosa, così il
cameriere ha portato via il conto. Quando è tornato, Gurdjieff ha
controllato, ha pagato, ha dato al cameriere una cospicua mancia e
ha lasciato il conto sul tavolo in modo che il benefattore potesse
vederlo. Gli ero seduto accanto. Era esattamente di cento dollari».

Durante un incontro qualcuno chiese: «Qual è il posto della volontà


libera nel suo sistema?»
«L'uomo ordinario», replicò Gurdjieff, «non ha volontà, non fa
nulla da sé. Ciò che si considera come volontà è solo un forte
desiderio. Un uomo forte ha desideri forti, uno debole ha desideri
deboli. L'uomo è tirato di qua è di là dai suoi desideri, dalle sue
voglie. Non ha un vero desiderio, bensì tante voglie. Un uomo può
avere molti desideri, uno predomina, ed egli dedica la sua vita a
soddisfarlo: sacrifica tutto, e la gente dice che ha una forte volontà.
Solo l’uomo che ha un “Io” può avere volontà. Quando l'uomo ha un
“Io” può essere padrone di sé stesso, e dunque ha una volontà libera,
non una voglia o un desiderio, che dipende dalle circostanze, che
può cambiare a seconda del cibo, della gente, del clima, del sesso. La
vera volontà appare con il desiderio cosciente, agendo
volontariamente. Ma dovete lavorare per anni, per secoli forse.
Dentro di noi abbiamo un Padrone che però è addormentato.

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Deve svegliarsi e controllare tutti gli altri piccoli padroni presenti in
noi. Molto spesso la cosiddetta volontà è un adeguarsi alla
propensione e alla riluttanza ad agire. Ad esempio, la mente vuole
qualcosa, ma non i sentimenti. Se la mente è più forte dei
sentimenti, l’uomo obbedisce alla mente. Se più o meno si
equivalgono, ne risulta un conflitto, un’esitazione, un
tentennamento. Ecco cos’è la libera volontà nell’uomo ordinario.
Egli è governato ora dalla mente, ora dai sentimenti, ora dal corpo,
più spesso ancora dal centro sessuale».
Dopo l’incontro qualcuno chiese a Orage: «Il sistema offre una
tecnica per raggiungere la libera volontà? Esiste una presentazione
chiara o una descrizione stampata del sistema?»
Orage rispose: «Questa domanda va considerata sotto due
aspetti: c’è una tecnica definita - un metodo - per il lavoro pratico su
di sé, e poi c’è anche un aspetto teorico, come quello insegnato da
Ouspensky a Londra. Al Prieuré sono impartiti entrambi, ma per i
neofiti il lavoro è soprattutto pratico. Gurdjieff dice che metodo
pratico e teoria vanno insegnati un po’ per volta, che sono come
tasselli dati separatamente per essere poi ricomposti e saldati
assieme. Dice anche: “Ma dovete preparare il legante. Senza legante
nulla si salderà”. La volontà e il suo conseguimento sono un grande
mistero. Nessuno ha mai visto la volontà, ma possiamo vederne le
manifestazioni in chi la possiede. Gurdjieff, per esempio, ha una
volontà tremenda. È il potere di fare».
«Allora, come descriverebbe a parole la tecnica per acquisire la
volontà?», chiese un altro.
«Prima di tutto», rispose Orage, «deve sapere che si può ottenere
una volontà sbagliata. Un uomo, ad esempio, può desiderare il
potere sulle persone per scopi materiali. Dopo un certo tempo
qualcosa si cristallizza in lui, ma è una cristallizzazione sbagliata. Si
può riassumere il metodo in questa frase: sofferenza volontaria e
lavoro cosciente. La sofferenza volontaria è costringersi a
sopportare le manifestazioni sgradevoli degli altri; il lavoro
cosciente è lo sforzo di sentire, ricordare e osservare sé stessi. È il
fare piccole cose coscientemente, lo sforzo che si oppone all’inerzia
e ai meccanismi dell’organismo; ma non per guadagno o profitto

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personali, non per esercizio, per la salute, per sport, divertimento o
scienza; e non per testardaggine, per simpatia e antipatia. Ricordarsi
di sé non diventa mai un’abitudine. È sempre il risultato di uno
sforzo cosciente, che all’inizio è piccolo ma che aumenta con la
pratica. Un momento di ricordo di sé è un momento di coscienza,
cioè di coscienza di sé non nell’accezione comune, ma coscienza del
vero Sé che è “Io”, e che si accompagna a una consapevolezza
dell’organismo: corpo, sentimenti e pensieri».

Durante un altro incontro una scrittrice chiese a Gurdjieff:


«Talvolta sento di essere più cosciente quando scrivo. È davvero così
o me lo immagino?» Egli rispose: «Lei vive nei sogni e scrive i suoi
sogni. Molto meglio per lei se lava un pavimento coscientemente
piuttosto che scrivere centinaia di libri come sta facendo ora».
Sul ricordo di sé disse: «L’uomo non può ricordarsi di sé perché
cerca di farlo con la mente, almeno all’inizio. Il ricordo di sé
comincia con la sensazione. Va fatto con i centri istintivo-motore
ed emozionale. La mente sola non rappresenta l’essere umano più di
quanto un guidatore rappresenti l’intero equipaggio. Il centro di
gravità del cambiamento risiede nei centri motore ed emozionale,
che però si preoccupano solo dell’immediato. La mente invece
guarda avanti. Il desiderio del cambiamento, di essere ciò che si
dovrebbe essere, deve stare nel centro emozionale, e la capacità di
fare nel corpo. Il sentimento può essere forte ma il corpo è pigro,
impaludato nell’inerzia. La mente deve imparare il linguaggio del
corpo e del sentimento, il che avviene con una corretta
osservazione di sé. Un aspetto benefico del ricordo di sé è che si
possono fare meno sbagli nella vita. Ma per un ricordo di sé
completo, tutti i centri devono lavorare simultaneamente, e devono
essere stimolati artificialmente; il centro mentale dall’esterno, gli
altri due dall’interno. Dovete distinguere tra sensazioni, emozioni e
pensieri; e dire a ogni sensazione, emozione e pensiero “ricordami
di ricordarti”; per questo dovete avere un “Io”. E dovete cominciare
a separare le cose interiori dalle cose esteriori, a separare “Io” da
“esso”. È come ho già spiegato a proposito della considerazione
interiore ed esteriore».

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Qualcuno disse: «Non ho ben chiaro cosa intende per
considerazione».
Gurdjieff replicò: «Le farò un semplice esempio. Io sono
abituato a sedere a gambe incrociate, ma considero l’opinione dei
presenti e mi siedo come loro, con i piedi a terra. Questa è
considerazione esteriore.
Quanto alla considerazione interiore, qualcuno mi guarda e
penso mi guardi di traverso. Questo dà inizio ad associazioni nei
miei sentimenti; e se sono troppo debole per impedirmi di reagire,
mi infastidisco. Considero interiormente, e manifesto il mio
fastidio. È così che viviamo normalmente; quello che proviamo
dentro di noi lo manifestiamo all’esterno.
Dovremmo cercare di stabilire un confine tra l’interno e
l’esterno, talvolta dovremmo considerare esteriormente più di
quanto facciamo ora; per esempio essere più gentili con le persone
di quanto lo siamo normalmente. Potremmo dire che quanto è
sempre stato all’esterno deve essere all’interno, e quanto era
all’interno deve essere all’esterno. Purtroppo noi reagiamo
continuamente. Perché, però, dovrei essere infastidito o ferito da
chi mi guarda di traverso o non mi guarda affatto? Magari è lui
stesso schiavo delle opinioni altrui, è un automa, un pappagallo che
ripete le parole degli altri. Probabilmente qualcuno gli ha pestato i
calli. Domani forse può cambiare. Se è un debole, e io sono
infastidito da lui, sono ancora più debole di lui. E poiché
“considero”, facendo di una mosca un elefante, ed entro in uno stato
di risentimento, rischio di compromettere le mie relazioni con gli
altri.
Deve essere compreso molto chiaramente, facendone una regola
inderogabile, che non dovete permettervi di diventare schiavi delle
opinioni altrui; dovete essere Uberi dalla gente che vi circonda.
Quando diventerete Uberi interiormente, sarete veramente Uberi da
loro.
Talvolta è necessario far finta di essere arrabbiati. Se vi danno
uno schiaffo su una guancia, non è detto che dobbiate porgere
l’altra. Qualche volta è necessario rispondere in modo tale che
l’altro si dimentichi persino sua nonna. Ma interiormente non lo
dovete considerare. D’altro canto se siete interiormente Uberi,
aUora può anche succedere che se qualcuno vi colpisce una guancia

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dobbiate offrire l’altra. Dipende dal tipo di uomo. E a volte un uomo
non dimenticherà una tale lezione in cento anni. A volte uno
dovrebbe rivalersi, a volte no. La scelta dell’azione è possibile solo a
un uomo interiormente libero. L’uomo ordinario non può scegliere,
non può fare una valutazione istantanea e imparziale. Perché in lui
l’esterno è l’interno. E necessario lavorare su sé stessi, imparare a
essere imparziali, a classificare e ad analizzare ogni situazione come
fosse quella di un estraneo; solo allora si può essere giusti. Essere
giusti al momento dell’azione vale cento volte di più che essere
giusti a cose fatte. E solo quando potete veramente essere imparziali
con voi stessi, potrete esserlo anche verso gli altri.
Ma è necessario qualcosa di molto grande per arrivare a questo.
La volontà libera non si ottiene chiedendola, né la si può comprare
in un negozio. L’azione imparziale è la base della libertà interiore: è
il primo passo verso la volontà libera».
«Bisogna soffrire continuamente per mantenere la coscienza
aperta?», fu chiesto a un altro incontro.
«Come vi ho già detto», disse Gurdjieff, «la sofferenza può essere
di tante specie. La sofferenza può essere un bastone a due estremità.
Una conduce agli angeli, l’altra al diavolo. L’uomo è ima macchina
molto complicata. Accanto a ogni strada buona, c’è sempre la
corrispondente strada cattiva. L’una costeggia sempre l’altra. Dove
c’è poco bene c’è anche poco male; dove c’è molto bene, c’è anche
molto male; dove c’è un positivo forte ci sarà anche un negativo
forte. Ma se c’è tanto male non necessariamente ci sarà altrettanto
bene. Con la sofferenza è facile ritrovarsi sulla strada sbagliata. La
sofferenza si trasforma facilmente in piacere. Molte persone amano
la propria sofferenza. La prima volta che ricevete ima botta, sentite
male; la seconda, meno; la quinta volta avete già voglia di essere
picchiati. Bisogna sempre stare in guardia e non addormentarsi;
bisogna sapere in ogni momento ciò che è necessario, perché si può
uscire di strada e cadere nel fosso».
«Quale parte svolge la coscienza nell’acquisizione di un “Io”?»,
chiese qualcun altro.
«All’inizio», replicò Gurdjieff, «la coscienza aiuta, in quanto
permette di risparmiare del tempo. Un uomo che ha coscienza può
essere calmo; chi è calmo ha tempo, e può approfittarne per
lavorare. In seguito la coscienza serve ad altro.

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L’uomo ordinario spende gran parte del suo tempo in
considerazioni varie: quando un’associazione si ferma ne inizia
subito un’altra - esce al mattino contento, un attimo dopo è triste,
un attimo dopo ancora è risentito o arrabbiato - ed è così che si
ritrova alla mercé di centinaia di associazioni inutili, come una
macchina che lavora in continuazione. L’energia immagazzinata
nel sonno mette in moto le associazioni della giornata e si consuma
durante l’arco del giorno. La nostra riserva di energia è sufficiente
per i bisogni della vita meccanica ordinaria, ma non per il lavoro su
noi stessi. Se paragoniamo il consumo di energia dovuto alle nostre
esperienze meccaniche al consumo elettrico di una lampadina da
quindici watt, allora il consumo richiesto per un lavoro attivo su di
sé corrisponde a una lampadina da cento watt, che consuma la
corrente disponibile con grande rapidità. Se usiamo la riserva di
energia per associazioni inutili - ansia, risentimento,
preoccupazione e così via - riusciremo a lavorare, per esempio, solo
la mattina, ma non ci resterà più energia per il resto della giornata.
E senza questa energia, l’uomo è soltanto un pezzo di carne.
Dobbiamo imparare a fare economia della nostra energia. La Natura
ci ha fatti in modo tale che, funzionando normalmente, possiamo
avere energia sufficiente per entrambi i lavori, il lavoro di tutti i
giorni e il lavoro su di sé. Ma abbiamo dimenticato come lavorare in
modo normale, perciò sprechiamo energia. La totalità dell’energia
prodotta dalla nostra dinamo e immagazzinata nella nostra batteria
viene utilizzata dai movimenti, dalle emozioni, dalle sensazioni,
dalle manifestazioni; e il consumo non riguarda solo ciò che è
necessario, ma ciò che non lo è affatto. Per esempio, quando vi
sedete e parlate, avete bisogno di energia per questo, ma voi
gesticolate pure. Ciò è forse necessario per dare più risalto, ma alle
gambe e agli altri muscoli non serve nessuna energia; eppure,
quando state seduti, rimanete continuamente tesi. Anche se lo
sapete, non potete impedirvelo. La vostra mente non ha alcun
potere di dare ordini. È necessaria una lunga pratica per liberarsi
dalle tensioni inutili. Tuttavia, il corpo non consuma tanta energia
quanto le associazioni. Ogni istante abbiamo migliaia di pensieri, di
sentimenti,

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di esperienze inutili piacevoli e spiacevoli; e tutti si producono
senza un “Io”. L’energia impiegata in un lavoro cosciente si
trasforma in riserva per il futuro, ma quella spesa senza coscienza è
perduta per sempre».
«Come si fa a risparmiare energia?»
«Ci vuole molto tempo per impararlo. Non potete iniziare
cercando di risparmiare l’energia delle emozioni. Cominciate con
quello che è più facile, l’energia nel corpo; quando lo avrete
imparato, vi sarete fatti una sensibilità che servirà da chiave».
«Consumiamo meno energia da sdraiati?»
«Quando siete stesi ricevete meno impulsi dall’esterno, ma è
possibile che consumiate più energia in associazioni mentali. Forse
potete consumarne meno camminando piuttosto che stando seduti,
perché le gambe si muovono per inerzia e hanno solo bisogno di un
impulso di tanto in tanto. Quando un automobilista ingrana la
prima, la macchina consuma più energia di quando è in velocità,
perché a quel punto gran parte del movimento dipende dalla forza
d’inerzia. La stessa cosa accade a voi: quando siete sdraiati in preda
alle associazioni, consumate come una macchina che va in prima.
Allo stesso modo può variare il consumo di energia per ogni singolo
muscolo».
«Qual è il punto di vista del suo insegnamento riguardo alla
morale?», gli venne chiesto a un altro incontro.
«La morale», disse, «può essere oggettiva o soggettiva. La morale
oggettiva è la stessa ovunque e per tutti. La morale soggettiva varia a
seconda del Paese e del periodo. Ognuno la definisce in modo
diverso: ciò che per uno è “bene” per l’altro è “male”, e viceversa. La
morale soggettiva è un bastone che ha due estremità: lo si può girare
come si vuole. Dalla comparsa dell’uomo sulla Terra, dal tempo di
Adamo e con l’aiuto di Dio, della Natura e di tutto ciò che ci
circonda, un po’ alla volta si è formato in noi un organo, la cui
funzione è la coscienza. Ogni uomo possiede quest’organo, e chi è
guidato dalla coscienza vive secondo i precetti della voce interiore.
Ma l’uomo vive seguendo i capricci della coscienza soggettiva che,
come la morale soggettiva, è diversa in ogni luogo.
La coscienza oggettiva non è un bastone a due estremità. E la
percezione molto precisa che si è formata in noi, nel corso dei

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secoli, di ciò che è bene e ciò che è male. Purtroppo, per svariate
ragioni, quest’organo in genere è coperto da una specie di crosta,
che solo una sofferenza intensa può rompere. In quel caso la
coscienza inizia a farsi sentire, ma poi l’uomo si tranquillizza e la
sua voce viene nuovamente sepolta. Per mettere a nudo la coscienza
in circostanze ordinarie ci vuole uno shock molto violento: se a un
uomo muore la madre, ad esempio, egli sente subito il suo richiamo.
Il dovere di ogni uomo, infatti, è amare, onorare e avere cura della
propria madre, ma l’uomo raramente è un buon figlio e quando un
genitore muore egli ricorda inevitabilmente come si è comportato
nei suoi riguardi e comincia a soffrire e a provare rimorso. Ma
l’uomo è un vero maiale, e come tale ben presto dimentica tutto; la
coscienza affonda ed egli torna a vivere automaticamente, come
prima. Chi non ha coscienza non può essere veramente morale.
Altro esempio. Posso anche sapere ciò che non va fatto ma, per
debolezza, non posso fame a meno. Magari il medico ha detto che il
caffè mi fa male: ci penso, ma lo ascolto e mi astengo dal caffè solo
quando non ho voglia di berlo. E così con tutto, l’uomo può essere
morale solo quando è sazio. Fareste meglio a dimenticare la morale.
Ogni discussione sulla morale in questo momento è inutile come
versare il nulla nel vuoto. Il vostro scopo è essere Cristiani nel vero
senso del termine, ma per esserlo, dovete essere in grado di fare, e al
momento non ne siete capaci. Quando sarete in grado di fare, sarete
capaci di diventare Cristiani.
Quanto alla morale esteriore, essa è ovunque diversa, dunque ci
si dovrebbe comportare in modo simile agli altri. Come dice il
proverbio, “quando si va a Roma, bisogna fare come i romani”.
Questa è la morale esteriore. Per la morale interiore dovete essere
capaci di farei»

***

In aprile mi imbarcai per Londra. Osservando il profilo dei


grattacieli di New York allontanarsi, ripercorsi le esperienze e gli
eventi degli ultimi sei mesi. A volte nella vita si attraversano deserti
emozionali, terre aride in cui non accade nulla. In altri momenti le

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esperienze e le impressioni abbondano. A volte si vive in un’oasi, a
volte in ima giungla tra gli animali selvaggi. Pochi mesi, settimane o
giorni possono contenere anni di vita. Quanto a me, avevo trascorso
un periodo in una terra colma di esperienze emozionali e mentali.
Era strano che avessi trovato un maestro e un insegnamento
proprio a New York, dove non mi sarei mai aspettato di incontrare
un solo riferimento alla vita interiore. Quando vi ero stato la prima
volta, nel 1919, la gente mi era piaciuta. Ma la città, come luogo per
viverci, mi aveva fatto repulsione. Avevo provato gli stessi
sentimenti anche questa seconda volta, e tuttora resta una città a me
estranea come nessun’altra capitale al mondo, anche più di Pechino.
Ma al di là della mia avversione per la città, la ripenso sempre con
un sentimento di gratitudine, poiché le devo molto. Gurdjieff
diceva: «Ogni bastone ha due estremità, una buona e una cattiva».
New York è una città che fa paura e, come tutte le grandi città,
è un centro di tensioni. Una grande città è una sorta di dinamo che
assorbe l’energia di milioni di individui, tutti raggruppati dalla
Natura in certe zone del pianeta - di certo per uno scopo cosmico -
simili a formiche e termiti nelle loro gigantesche costruzioni. E
come le termiti - che sacrificano vista, sesso e libertà per la colonia -
sfoggiano con indubbio orgoglio le dimensioni dei loro termitai,
allo stesso modo certi abitanti di New York e Londra vantano la
propria città come la più importante al mondo.
Si può dire che Francia e Inghilterra stanno all’America come
l’antica Grecia stava alla giovane Roma. Per centinaia di anni la
Grecia continuò a influenzare enormemente le nuove popolazioni
europee e anche Roma, ormai affermata potenza.

Appena arrivai a Londra scrissi al Prieuré e chiesi il permesso di


andarci a lavorare. Nel frattempo sistemai i miei affari.
Sebbene una parte di me desiderasse ancora andare all’Istituto a
Fontainebleau, un’altra continuava a opporre resistenza. Non
ricevetti risposta, così quella parte di me iniziò a inventare ogni
pretesto possibile per non partire, sostenuta dalla timidezza e dalla
paura dell’ignoto. Forse avrei dovuto seguire gli affari anziché

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dedicare il mio tempo a qualcosa che, dopotutto, si sarebbe potuto
rivelare l’ennesima vuota religione. La lotta tra il sì e il no continuò
per un paio di settimane, quando qualcosa in me, o la Grazia di Dio,
mi spinse a partire.
Arrivai a Fontainebleau e presi un fiacre. Mentre il cavallo
trottava lungo la strada, le emozioni mi si rivoltarono come se
fossero rimescolate da un cucchiaio e i miei apparati riceventi
registrarono tutto in modo così vivido che oggi le impressioni sono
chiare come allora: il sole, le fronde degli alberi, il piccolo tram
sferragliante da Samois, il canto delle seghe e il fresco e dolce
profumo della segatura dalla falegnameria, le case, le persone e il
cupo château del principe Orloff.
Il fiacre si fermò davanti a grandi cancelli e il cocchiere disse:
«Prieuré». Lo pagai e per quanto ero teso gli lasciai una mancia tale
da fargli togliere il cappello. Al di là del muro riuscivo a scorgere il
tetto eroso dello château, mentre dal cortile giungeva il rumore di
una fontana zampillante, un suono gradevole per quella calda
giornata primaverile. All'entrata della portineria c'era un
campanello a maniglia con la scritta Sonnez fort. Tirai forte e attesi.
Tutto era tranquillo. Tirai ancora. Dopo un po' comparvero due
ragazzini che senza dir nulla raccolsero i miei bagagli e li portarono
nella conciergerie; il più grande, che si chiamava Valya, mi fece
cenno di sedere. Scomparvero. Passò parecchio tempo. Mentre
aspettavo seduto, lasciai che le impressioni mi penetrassero in
profondità, e subito avvertii nell'atmosfera qualcosa di molto
insolito. Non so se fosse dovuto alla traccia lasciata dagli antichi
monaci, dalla piccola corte di Madame de Maintenon, o dal lavoro
di Gurdjieff e dei suoi allievi, ma assomigliava a quello che si prova
nei templi antichi e nelle chiese, e capii che con la scelta di venire il
mio desiderio più profondo, seppure inconscio e inespresso, era
stato esaudito.
Il filo dei pensieri fu interrotto da Madame de Hartmann che
entrò e mi strinse la mano. «Il signor Gurdjieff ha ricevuto le mie
lettere?», chiesi. «Aspettavo una risposta».
«Le sue lettere?», disse. «Il signor Gurdjieff non risponde alle
lettere. Perché ha aspettato tanto? Siamo rientrati già da tre
settimane. Ma le mostro la sua stanza, forse vuole riposare. Sì? Mi
scusi, ma ho molto da fare».

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Mi condusse alla stanza, che si trovava al primo piano ed era
sontuosamente arredata in stile francese antico. La finestra si
affacciava su una distesa di prati e su sentieri ombreggiati, sulle
aiuole, su piccoli specchi d’acqua che in pieno sole luccicavano
dorati; più distante, la foresta. Mi appoggiai al davanzale assorbendo
la bellezza, e tutte le tensioni e i timori svanirono.
Ancora una volta mi tornò in mente II viaggio del pellegrino:

Allora lo vidi entrare tremando di paura per i leoni, ma


prestando molta attenzione alla direzione del portiere; li
sentì ruggire ma i leoni non gli fecero nulla. Allora batté le
mani finché giunse alla porta dove stava il custode.
«Signore», cominciò Cristiano, «che casa è questa? Posso
fermarmi qui per la notte?» «Questa Casa», rispose il
portiere, «è stata costruita dal Signore della Collina per
offrire riposo e rifugio ai pellegrini». Inoltre gli chiese da
dove venisse e dove stesse andando.
Cristiano: «Vengo dalla Città della Distruzione e sono diretto
al Monte Sion. Ma siccome il sole è tramontato, vorrei
possibilmente fermarmi qui per la notte».
Portiere: «Come ti chiami?»
Cristiano: «Ora mi chiamo Cristiano, ma una volta mi
chiamavo Senzagrazia. Appartengo alla razza di Iafet, che
Dio persuase ad abitare nelle tende di Sem».
Portiere: «Come mai sei giunto qui così tardi? Il sole è ormai
tramontato».
Cristiano: «Sarei arrivato prima, ma purtroppo mi sono
addormentato nel rifugio che sta presso la Collina; sarei
comunque sempre arrivato prima, se non avessi perduto il
mio rotolo. Così, dalla cima della Collina dove ero già
giunto, fui costretto a ritornare lì dove m’ero addormentato.
Meno male che lo ritrovai proprio nei paraggi!»

Dopo essermi riposato mi recai nella foresta, dove parecchie


persone erano impegnate a tagliare ramoscelli, ripulire il terreno,
bruciare rifiuti o segare ceppi. Una giovane donna conosciuta a New
York interruppe Fattività per salutarmi. Arrivò Gurdjieff, ma a
parte un’occhiata nella mia direzione non badò più a me e così
anche gli altri. Mi allontanai alquanto perplesso e iniziai a
gironzolare. Sentivo il bisogno di compagnia così mi unii a un

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gruppo di persone e lavoricchiai fino a quando suonò la campana
della torre e tutti andarono a prendere il tè.
All’inizio, per pochi giorni, dormii in ima stanza del «Ritz»,
come gli allievi avevano soprannominato le stanze riccamente
arredate riservate agli ospiti e ai nuovi arrivati. Da lì fui spostato al
piano superiore, nel «corridoio dei monaci»; in seguito venni
trasferito all’ultimo piano, in uno degli alloggi un tempo occupati
dalla servitù e che davano sul cortile della stalla: il «vicolo della
mucca». Ero Ubero di fare qualunque cosa e in apparenza nessuno
sembrava notarmi. Ma volevo lavorare, e quando chiesi cosa potessi
fare mi fu detto di aiutare nella foresta, così mi unii a un gruppo
qualsiasi.
Ho detto che «in apparenza nessuno sembrava notarmi». Di
fatto, tutto quello che facevo, il modo in cui lo facevo, e quello che
dicevo veniva riferito a Gurdjieff. Ero al corrente del duro lavoro
fisico che mi avrebbe aspettato al Prieuré, e che molti tipi
«intellettuali» lo trovavano estremamente faticoso, ma per me era
cosa da nulla, abituato com’ero alle lunghe ore di lavoro in Australia
come tuttofare o alla vita di trincea in Francia; anzi, una situazione
del genere rendeva il lavoro molto piacevole. Ma dovevo ancora
scoprire come lavorare almeno semi-coscientemente.
Alla sera durante i Movimenti provavo una soddisfazione fisica,
emotiva e mentale mai sperimentata prima, nemmeno nelle danze
popolari dei pastori dell’Europa Centrale e della Russia. In queste
danze c’era qualcosa di nuovo, che non era né popolare né classico,
anche se in parte lo era; il jazz e i balli in voga, che mi avevano
appassionato e in cui ero considerato piuttosto bravo, ora mi
apparivano vuoti e insensati, perfino subumani. Con il passare del
tempo imparai ancora qualcosa sui Movimenti e sulle danze, e fui in
grado di apprezzare sempre più la danza classica, quella popolare e i
balletti, e sempre meno la danza «moderna». Forse era una di quelle
piccole passioni che inconsciamente temevo di perdere. A tale
proposito, dopo un mese circa di permanenza al Prieuré, venni
invitato a ima festa in un cabaret di Montparnasse da un vecchio
amico, il giovane principe M. con cui avevo lavorato in Russia; fui
contento di stare in compagnia sua e dei suoi amici, ma l’atmosfera
del luogo e i balli mi fecero stare male, fisicamente.

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La nostra vita quotidiana seguiva una routine che cambiava
spesso. La campana della sveglia suonava dalla torre alle sei e
mezzo. La colazione consisteva in grandi pezzi di pane tostato col
caffè; poi c’era il lavoro nei giardini o nella foresta, o nella casa.
Dalle dodici e trenta alle due c’era la sosta per il pranzo. Alle
quattro c’era il tè e alle sei e mezzo la cena; seguivano i Movimenti e
le danze fino alle dieci o alle undici. Durante il giorno il signor
Gurdjieff teneva discorsi per tutti, e colloqui individuali con i
singoli allievi.
Alcuni giorni dopo il mio arrivo un allievo mi accompagnò in
una breve perlustrazione del posto. Lo château era stato regalato da
Luigi XIV a Madame de Maintenon. L’aveva in parte edificato sulle
rovine di un vecchio monastero, di cui restavano solo alcune pietre;
su una di queste riuscii a decifrare: Ad maiorem gloriam Dei. Il
castello passò a Maitre Labori, l’avvocato di Dreyfus, e nel 1922
Gurdjieff lo comprò dal suo esecutore testamentario con tutto
l’arredo e i quadri, alcuni di Rosa Bonheur.
L’edificio era ben proporzionato, dentro e fuori. Infondeva un
senso di agio e benessere. Nel terreno di proprietà di tredici acri,
cinto da un alto muro, scorreva un ruscello proveniente da Avon.
C’era poi una schiera di casette separata dallo château e riparata dagli
alberi, il Paradou, dove vivevano la madre e la sorella sposata di
Gurdjieff, il fratello Dimitri con la sua famiglia, gli Stjoemval e i de
Salzmann. Dietro il Paradou c’erano un’aranciera abbandonata e la
Study House.
La Study House era stata costruita dagli allievi un anno e mezzo
prima con il materiale di un hangar dismesso. Aveva l’aspetto di un
tekke derviscio. Le pareti e il pavimento erano di terra. All’interno,
oltre l’ingresso, c’era una piccola galleria con un posto a sedere, con
tutto intorno appesa una collezione di strumenti a corda e tamburi
del Vicino e Estremo Oriente; alle pareti c’erano parecchi certificati
e diplomi in caratteri orientali, conferiti a Gurdjieff in momenti
diversi. Il pavimento della Study House era coperto da tappeti della
Persia, dell’Afghanistan e di altri Paesi orientali, e c’erano tappeti
anche sulle pareti. Entrando, a destra, c’era un divanetto circondato
da tendaggi, il posto di Gurdjieff. Lungo le pareti della House
c’erano i posti per gli spettatori, separati dallo spazio centrale da

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uno steccato di legno dipinto. In fondo c’era un rialzo in terra
pavimentato in linoleum per i Movimenti, e di fronte una piccola
fontana. Le finestre erano colorate e decorate con tinte gradevoli e
armoniose; e distribuite sulle pareti si leggevano iscrizioni con detti
e aforismi in un alfabeto tra il persiano e il turco. L’atmosfera era
quella di un luogo sacro, per l’effetto della combinazione dei colori
sui sensi e sui sentimenti (Gurdjieff sapeva come produrre
determinati effetti con i colori, e anche con i suoni e i movimenti), e
per le vibrazioni degli allievi che eseguivano le Danze Sacre e i
Movimenti.
Attraversando l’aiuola in piena fioritura venni condotto a una
piscina, che aveva accanto un gazebo posto su un’altura. Da lì
iniziavano gli orti della cucina e oltre si intravedeva la foresta con i
suoi sentieri. Era un luogo di bellezza, dignità e fascino, ma
soprattutto avvolto dall’atmosfera di un’antica chiesa o di un
monastero, ancor vivo e vitale.
Passammo accanto a un gruppo di bambini che giocavano -
Nikolai Stjoernval, la piccola Boussique Salzmann di cinque anni,
alcuni nipoti di Gurdjieff - e a Madame de Salzmann che cullava in
carrozzina il figlio Michel, di appena sei mesi. Concludemmo il
nostro giro alla stalla. Ero curioso di vederla, perché avevo
conosciuto Katherine Mansfield a Londra, quando lei e John
Middleton Murry stavano lavorando a Signature con Koteliansky, e
Orage aveva pubblicato il suo primo racconto su «New Age». Disse
che era stato Orage ad averle insegnato a scrivere e che le aveva
suggerito di andare al Prieuré. Vi era rimasta per qualche giorno,
poi aveva dovuto prendere la decisione di restare o meno. Vide
Gurdjieff a Parigi, Pinder fece da interprete. Gurdjieff le disse
seriamente che se voleva prolungarsi la vita, aveva bisogno di un
clima caldo, secco. «E di quanto la prolungherei?», chiese lei. «Non
lo so», le rispose. Lei ci pensò un attimo, poi disse: «No. Se mi dà il
permesso, io ci tomo e vivrò il resto dei miei giorni al Prieuré».
Quando Katherine Mansfield tornò al Prieuré, Gurdjieff le disse
che doveva trascorrere molto tempo nella stalla, in quanto le
emanazioni degli animali e i fumi l’avrebbero aiutata. Venne
montato un soppalco sopra le mangiatoie e il signor de Salzmann
decorò le pareti e le porte con motivi e colori vivaci. Qui la si

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gnora Murry si stendeva su una sedia a sdraio e guardava la
mungitura delle mucche, oppure osservava il disegno dell’Ennea-
gramma sul soffitto. Il signor de Salzmann aveva raffigurato anche
alcuni allievi, e siccome si dice che ogni tipo richiami un animale o
un uccello, li aveva rappresentati nella forma corrispondente.
Orage aveva il corpo di un elefante, un altro quello di un somaro, un
altro aveva la testa di un barboncino, un altro ancora di avvoltoio.
Una coppia di fidanzati aveva le teste di una tartaruga e di una
colomba e via dicendo. Non ci fu stalla tanto allegra, colorata e
interessante.
Una delle giovani che la accudiva mi riferì la gratitudine che
Katherine Mansfield aveva espresso per Gurdjieff: «Se me ne fossi
andata dal Prieuré e avessi ripreso la vecchia vita», aveva detto,
«sarei subito morta di noia. Qui invece sono viva dentro e lo sono
anche le persone che ho intorno. E io non sono Katherine
Mansfield la scrittrice, ma la signora Murry, una donna malata,
curata senza smancerie e sentimentalismi. C’è dell’altro: qui vedo
quello che ho sempre voluto vedere; persone che sono sé stesse, e
non recitano una parte nascoste da una maschera». Verso la fine era
in uno stato tale che il minimo shock le sarebbe stato fatale; il
pensiero che il signor Murry venisse al Prieuré la agitava perché,
disse, lui non avrebbe capito la situazione. Morì poco dopo il suo
arrivo. Disse inoltre che Gurdjieff e la sua gente avevano fatto per
lei tutto il possibile, e che durante la sua breve permanenza al
Prieuré aveva raggiunto una comprensione di sé stessa e degli altri
mai avuta in tutta la sua vita. Eppure si parla ancora e si scrive del
«ciarlatano» che a Fontainebleau ne ha provocato la morte
prematura. All’epoca mi trovavo in Russia, scrissi a Murry che
rispose con una frase: «K.M. era perfetta». Ovviamente non lo era,
ma la sua scintilla di energia solare le dava comprensione, delle
donne in particolare. Purtroppo i suoi ammiratori la vedevano
come una specie di angelo e Murry alimentò quest’immagine.
Pare che Gurdjieff fosse giunto a Parigi con alcuni allievi da
Hellerau, dove si era fermato per qualche tempo, accompagnato
anche da alcuni fra i migliori allievi di Jaques-Dalcroze5; questi,
dopo aver visto le danze di Gurdjieff, si erano resi conto che
l’euritmica, pur offrendo una base allo studio del movimento, in

73
paragone era roba da asilo. Arrivato a Parigi, Gurdjieff cominciò le
prove per una dimostrazione. Disegnò e tagliò le stoffe dei costumi
personalmente, gli allievi le cucirono. La prima dimostrazione fu
data al Teatro degli Champs Élysées, ma nonostante la platea fosse
gremita nessun francese venne impressionato al punto di voler
diventare un allievo. Ci vollero più di vent’anni. Quando Djagilev,
amico del signor de Hartmann, venne al Prieuré restò talmente
impressionato dalle danze e dai Movimenti da tornarci
ripetutamente.
Alla dimostrazione assistette un certo numero di allievi di
Ouspensky venuti da Londra, e sua moglie partecipò ai preparativi.
In questa fase dell’attività di Gurdjieff, gran parte del denaro arrivò
dal gruppo inglese di Ouspensky, di cui facevano parte il dottor
Maurice Nicoli e consorte, l’editore del «New Sta- tesman», Clifford
Sharp, con la moglie, il dottor J.A.M. Alcock e il dottor James
Young. In seguito parteciparono agli incontri anche la dottoressa
Mary Bell, Algernon Blackwood, J.D. Bere- sford e D. Mitrinovic.
Quasi tutti i membri iniziali erano affermati professionisti,
lettori o sostenitori di «New Age», la rivista di Orage. Gurdjieff
incontrò il gruppo a Londra e vennero scelti alcuni allievi per il
Prieuré, ma solo Orage e altri tre o quattro vi si fermarono più a
lungo. Al mio arrivo tutti gli inglesi eccetto Orage, due o tre donne
e un paio di giovani, erano già partiti per tornare ai rispettivi lavori
e per continuare a lavorare con Ouspensky. La figlia di Madame
Ouspensky restò al Prieuré con il suo bambino.
Da soldato, marinaio, fattore, bracciante, avevo già
sperimentato quasi ogni tipo di disagio e fatica fisica; pensai dunque
che il Prieuré non avesse nulla da insegnarmi in proposito. Ma
bastarono due o tre settimane perché iniziassi a capire che avevo
ancora molto da imparare, e mi rendessi conto di non saper
affrontare il lavoro fisico da uomo, ma anzi di saperlo affrontare
solo da macchina. Mi fu detto di «frammentare» le pietre, così,
insieme a quattro ragazze, trascorsi dieci giorni a rompere il calcare
in pezzetti della dimensione di una nocciolina. Il che contrastava
parecchio con il lavoro degli uomini nei sentieri ombreggiati della
foresta; sotto il sole cocente il lavoro si fece monotono, lento e
tedioso, e i miei sentimenti cominciarono a rivoltarsi.

74
Lavoravo spasmodicamente, con nervosismo. Un giorno si avvicinò
Gurdjieff con il dottor Stjoernval. «Perché lavora così
nervosamente?», chiese. «È una conseguenza della guerra», risposi.
«No!», replicò. «Io penso lei sempre così. Guardi Gertrude, guardi
come lavora. Invece tutta sua attenzione va in guardare l’orologio,
in aspettare campana di pranzo». Il giorno dopo il dottor Stjoernval
mi disse: «Deve sapere che il signor Gurdjieff dice che dovremmo
imparare a lavorare da uomini, e non come braccianti ordinari.
Come uomini, non come macchine. Mentre spezza queste pietre,
cerchi di risparmiare l’energia. Lei è risentito per quanto sta
facendo e ne spreca tanta. Compili un elenco di trenta o quaranta
parole in una lingua straniera e le memorizzi mentre lavora; allo
stesso tempo cerchi di sentire il corpo e di osservare quello che sta
facendo».
Cominciai a rendermi conto che quando Gurdjieff ti si
rivolgeva, le sue parole non venivano registrate solo nella testa ma
anche nei sentimenti, in modo tale che era impossibile non
prenderle seriamente. Ben presto, grazie allo sforzo di fare questo
semplice esercizio, il mio atteggiamento verso quel lavoro
monotono iniziò a cambiare. Parte dell’energia che stavo sprecando
nel risentimento fu usata in modo produttivo per me stesso. Il
lavoro risultò addirittura soddisfacente. Alcuni giorni dopo,
Gurdjieff passò nuovamente e mi diede un’occhiata. Il giorno
seguente mi fu assegnato un altro compito, aiutare dei giovani ad
annaffiare il giardino più lontano. L’acqua andava raccolta dal
torrente all’esterno del cancello a sud, che distava alcune centinaia
di metri, cosicché veniva impegnata tutta la mattina. Un giorno
notai che il torrente scorreva proprio al di là dell’alto muro che
delimitava il giardino; pensai che se avessimo praticato un foro nel
muro in modo da farci passare l’acqua, avremmo risparmiato un
sacco di viaggi. Il mio compagno fu d’accordo, ma mi fece notare
che il buco avrebbe potuto far crollare il muro. Allora proposi di far
defluire l’acqua da sopra. Ci procurammo un pezzo di canna e,
aspirando, inducemmo l’acqua a passarci e risalire il muro di tre
metri circa, per poi riversarsi nella fossa. Il problema era stato
risolto. Passarono alcuni allievi a vedere. «Ma guarda!», disse uno,
«tutti quei capoccioni come Orage, Nicoli, Young e Pinder, star lì

75
per settimane a trasportare l’acqua e a nessuno di loro è venuta in
mente un’idea così semplice».
Due giorni dopo Gurdjieff tornò da un viaggio; gli
raccontammo tutti contenti del sistema idrico e gli chiedemmo di
venire a vederlo. Mentre ce ne stavamo lì tutti orgogliosi, lo osservò
e disse: «Molto bene, molto ingegnoso. Ora ho altra idea. Smontate
tubo e riempite buca. Cerchiamo una sorgente».
Così continuammo a trasportare l’acqua dall’esterno. Quella
stessa settimana incontrai il dottor Stjoernval che disse: «Le mostro
una cosa». Mi portò dentro e mi indicò un aforisma. «Sa cosa dice?»,
mi chiese.
Scossi la testa.
«Dice: “Ricorda che il lavoro qui è un mezzo, non un fine”».
La sorgente fu trovata solo cinque anni dopo, e capitò a me di
scoprirla. La scoperta divenne lo strumento di una nuova
comprensione del lavoro, e di me stesso in relazione al lavoro. Ma
ne riparlerò al momento opportuno.
A volte Gurdjieff adottava misure drastiche per mostrarci bene
quanto eravamo attaccati o identificati al nostro lavoro e ai suoi
risultati. Due donne inglesi, giardiniere appassionate, avevano
lavorato intensamente alle aiuole e avevano realizzato una bella
composizione floreale. I giovani allievi - i bambini in particolare -
venivano spesso allontanati per timore di eventuali danni. Quando
il giardino fu al meglio, invitarono Gurdjieff a vederlo. Egli ci andò,
e si fece in modo che tutti potessero andarci. Guardò intorno, annuì,
sorrise e disse: «Molto bello, molto bello» e se ne andò. Quella sera il
cancello rimase casualmente aperto e i vitelli e le pecore andarono a
brucare nel prezioso giardino.
Dopo questi due episodi lessi L’elisir di George Herbert. Non
era la prima volta che lo leggevo, ma adesso lo feci con profitto:

Insegnami mio Dio e Signore a


vedere Te in ogni cosa, e
qualsiasi cosa io faccia a farla
per Te. [...]

76
In questo modo un servo rende
divino il duro lavoro.
Chi spazza una stanza per amor Tuo fa
di questo una cosa preziosa.

È questa la famosa pietra che tutto


volge in oro; ché oro può essere detto
quanto Dio tocca e possiede.

Di tanto in tanto, tra chi in quel momento non aveva impegni,


passava parola di recarsi nella foresta. Lì appariva Gurdjieff e
iniziava quella che chiamavano una riunione scurry6, dal russo
skorey, rapido. Venivano distribuiti gli attrezzi e assegnati compiti
individuali e di gruppo: pulire, tagliare i ceppi, accendere fuochi,
risistemare i fossati. Ognuno lavorava intenzionalmente in modo
pressante e fino al limite delle proprie possibilità ma (e questo era
uno degli scopi) con attenzione. Gurdjieff stesso lavorava,
incalzandoci con i suoi «Skorey! Skorey!»
Era eccitante e, se ci si ricordava di sé, si poteva imparare molto
su sé stessi poiché queste riunioni facevano riferimento a ciò che
nel programma dell’Istituto era chiamata «dulio-terapia» o «cura
dello schiavo»: un uomo si sottomette volontariamente e
completamente agli ordini di un maestro. «Sii schiavo
“volontariamente” e schiavo non sarai», come recita un proverbio
greco citato una volta da Gurdjieff.
Dopo due o tre ore di lavoro ci interrompeva gridando Davo
Ina, basta! e poi sedeva su un ceppo o si recava alla Study House.
Venivano portati tè e cibo, e ci sedevamo per ristorarci.

Di solito qualcuno poneva una domanda, ed egli ci parlava un po’ in


russo e un po’ in inglese. Cercavamo di ricordare cosa avesse detto e,
in seguito, di ricostruirlo, poiché parlava sempre in modo da
costringerci a usare la testa, a riflettere.
Una volta qualcuno pose una domanda sulla «libertà». Gurdjieff
rispose: «La liberazione conduce alla liberazione. Questa è la Verità,
non la verità tra virgolette, ma la verità nel senso proprio del
termine. La verità non è soltanto una teoria, non è semplice-

77
mente ima parola, ma può essere messa effettivamente in pratica. La
libertà di cui parlo rappresenta lo scopo di ogni scuola e di tutte le
religioni di ogni epoca. E qualcosa di grandissimo. Tutti gli uomini
desiderano la liberazione, consapevolmente o meno. Ci sono due
tipi di liberazione, la Piccola Liberazione e la Grande Liberazione.
Non si può avere la Grande Liberazione se non si è prima ottenuta la
Piccola Liberazione. La Grande Liberazione è una liberazione dalle
influenze esteriori. La Piccola Liberazione è una liberazione dalle
influenze interiori.
Per noi principianti la Piccola Liberazione è davvero una
grande cosa; non è soggetta alla nostra dipendenza dalle influenze
esteriori. La schiavitù interiore ha molte origini, è condizionata da
molti fattori indipendenti: ima volta si tratta di una cosa, un’altra
volta di un’altra. Ce ne sono talmente tanti che metà vita non
sarebbe sufficiente per liberarcene affrontandoli separatamente,
uno per uno. Quindi dobbiamo trovare un metodo, una linea di
lavoro, che ci permetta di distruggere simultaneamente il maggior
numero possibile di nemici, responsabili di quelle influenze. Fra
tutti i nemici, i principali sono la vanità e l’amor proprio, o orgoglio.
Un insegnamento li definisce i rappresentanti o messaggeri del
diavolo. Per particolari ragioni, sono anche chiamati Signora Vanità
e Signor Amor Proprio. Come ho detto, i nemici interni sono
numerosi, ma ho citato solo questi due perché sono tipici. Per il
momento sarebbe un problema enumerarli tutti.
Questi rappresentanti del diavolo si tengono costantemente
sulla soglia, e impediscono l’entrata tanto alle buone che alle cattive
influenze esteriori, e dunque hanno un lato buono e un lato cattivo.
Sono come dei guardiani, e personalmente vi consiglio di non
sprecare il vostro tempo con saccenterie a loro proposito, ma di
ragionare semplicemente e attivamente con voi stessi. Prendiamo,
per esempio, l’amor proprio o falso orgoglio, che occupa metà del
nostro tempo e metà della nostra vita. Se qualcuno o qualcosa lo
ferisce, ci fa male subito e per molto tempo. E i sentimenti feriti
chiudono per inerzia tutte le porte, tagliandoci fuori dalla vita. Io
vivo. La vita è all’esterno. Quando sono in relazione con l’esterno,
io sono vivo. Se credo che la vita è solo all’interno, non è vita.

78
Non posso vivere solo con me stesso, sono legato al mondo esterno,
e questo vale per tutti».
A questo punto Gurdjieff andò a sedersi fra due russi, Merslukin
e Ivanoff, e continuò: «Per esempio, sono seduto tra Merslukin e
Ivanoff. Qui viviamo tutti insieme. Ora supponiamo che Merslukin
mi abbia dato dell’idiota; comincio subito a perdermi in
considerazioni. Sono offeso e mi fa male. Ivanoff mi ha guardato di
traverso, come se mi disprezzasse. E di nuovo, mi fa male, e per
tanto tempo. Considero interiormente e dimentico me stesso. E
questo vale per tutti, sempre. Appena un’esperienza del genere
comincia a smorzarsi un’altra ne prende il posto.
Non dobbiamo dimenticare che la nostra macchina è fatta in
modo tale da non avere a disposizione dei luoghi diversi per
esperienze simultanee. Abbiamo a disposizione un solo posto per le
nostre esperienze», rimarcò. «Se quel posto è occupato da un’altra
esperienza, perlopiù indesiderabile, non può essere
contemporaneamente occupato da un’altra esperienza che
desideriamo.
Bene, Merslukin mi ha dato dell’idiota. Perché dovrei essere
offeso? A dire il vero, personalmente, non sono offeso, non perché
non abbia orgoglio o amor proprio; forse ne ho più di tutti voi, ma
forse è lo stesso orgoglio che mi impedisce di sentire l’insulto. Ci
penso, ci ragiono. Mi dico: “Se mi ha dato dello stupido, ne
consegue che lui è saggio? Forse è lui lo stupido. Si comporta come
un bambino, e non posso pretendere che un bambino sia saggio.
Forse qualcuno gli ha parlato di me e lui si è fatto idee sciocche.
Tanto peggio per lui. Io so bene che in questo caso non sono uno
stupido e quindi non mi offendo. Se uno stupido mi dà dello
stupido, non resto affatto toccato interiormente”.
Ma può anche essere che mi sia comportato da stupido. In
questo caso devo solo ringraziarlo per avermelo fatto notare. In
entrambi i casi non resto offeso.
Supponiamo che Ivanoff mi abbia guardato di traverso. Anziché
lasciarmi offendere, sono dispiaciuto per lui perché mi guarda a
quel modo. Qualcosa o qualcuno l’ha contrariato. Ma è in grado di
scoprire la causa vera? Capisco me stesso e so giudicarmi in modo
imparziale.

79
Forse qualcuno gli ha parlato di me e lui si è fatto una certa idea.
Mi dispiace che sia così schiavo, che debba guardarmi con gli occhi
di un altro. Questo fatto prova che egli non esiste, che è soltanto
uno schiavo.
È così per tutti voi, siamo tutti uguali; ma vi porto questi due
esempi come base per un ragionamento attivo. Il problema è che
non siamo padroni di noi stessi e che non abbiamo un vero orgoglio.
H vero orgoglio è una gran cosa, ma sfortunatamente non
l’abbiamo. In un certo senso l’orgoglio misura l’opinione che
abbiamo di noi stessi. Se un uomo ha vero orgoglio, ciò dimostra che
egli è. L’orgoglio è anche il nostro più grande nemico, il freno
principale alle nostre aspirazioni e alle nostre conquiste, l’arma del
rappresentante dell’inferno.
L’orgoglio è anche un attributo dell’anima. Attraverso
l’orgoglio si può intravedere lo spirito. L’orgoglio è il segno di essere
una particella di paradiso. L’orgoglio è “Io”, e “Io” è Dio. L’orgoglio
è l’inferno, l’orgoglio è il paradiso. Entrambi portano lo stesso nome
e sono esteriormente simili, ma in realtà sono diversi e opposti, e
nessuna considerazione e osservazione ordinaria riuscirà mai a
distinguere uno dall’altro.
Esiste un detto: “Chi ha il vero orgoglio è già mezzo libero”.
Eppure, sebbene ne siamo tutti pieni da scoppiare, dobbiamo
ammettere che non abbiamo ancora ottenuto una briciola di libertà
per noi stessi.
Il nostro obiettivo deve essere quello di avere il vero orgoglio,
solo allora saremo Uberi da molti nemici dentro di noi; e potremo
persino liberarci dei due nemici chiamati la Signora Vanità e il
Signor Amor Proprio. Come distinguere il vero orgoglio da quello
falso? E difficile osservarlo in un’altra persona, ed è cento volte più
difficile farlo su noi stessi».
Fece una pausa, si guardò intorno e con un sorriso malizioso
aggiunse ironicamente: «Vi sento già dire “grazie al cielo noi qui
non corriamo il rischio di confondere l’uno con l’altro. Il solo fatto
di essere qui e di aver lavorato su noi stessi dimostra che non
abbiamo il falso orgoglio; così non abbiamo bisogno di
individuarlo”».
Riprese il suo tono abituale e concluse: «In ogni caso dovete
cercare di imparare a ragionare attivamente. Dovete fare un
esercizio.
80
Ognuno deve ricordare una situazione passata o presente di
orgoglio ferito e ragionarci con la partecipazione degli altri. Più
avanti chiamerò qualcuno di voi a parlare del suo caso, che deve
essere reale e non immaginario».
Un effetto del lavoro all’Istituto fu che tutto in me iniziò ad agitarsi.
Le debolezze si «rinforzarono», cioè si rivelarono più chiaramente.
Man mano che la vecchia personalità iniziò a dissolversi, fu come se
una pentola avesse iniziato a bollire e a levarsi la schiuma. Credevo
di «amare» gli altri, nella debole accezione pseudo-cristiana
insegnatami dalla religione. Fu uno shock cominciare a capire che
odiavo certe persone. Una donna russa mi disse: «Non mi piacciono
le sue emanazioni. Lei mi odia».
«La odio? Ma certo che no».
«Oh sì, lei mi odia. Ma non si lasci identificare. Spesso, all’inizio,
questo lavoro fa emergere il peggio di noi. È il motivo per cui siamo
qui, per vederlo. Passerà».
Ci pensai e mi accorsi che in effetti la odiavo senza motivo, solo
perché avevamo personalità contrastanti. Rimasi sorpreso dalla
forza del mio astio, ma svanì presto e me ne dimenticai. In seguito
mi accorsi che dentro di me stava montando dei- rodio verso un
giovane. La causa dell’antipatia non dipendeva dalla sua personalità,
ma da qualcosa nelle nostre essenze. Gurdjieff ci mise a lavorare
assieme, riuscivo a guardarlo a stento e tutto quello che mi usciva
dalla bocca aveva un tono di rancore. Un sabato sera, al bagno turco,
come di consueto Gurdjieff fece un breve discorso, e questa volta
parlò dell’odio reciproco fra personalità o fra essenze. Disse che
dovevamo comprenderlo, ragionarci sopra e renderci conto di cosa
avveniva in noi senza identificarci con quanto provavamo al
momento, e che solo così saremmo potuti cambiare. Allo stesso
modo in cui si odiano tra loro, personalità ed essenze possono anche
imparare ad amarsi.
«Dovete capire», disse, «che l’odio e l’amore ordinari sono
meccanici. Più avanti potrete comprendere qualcosa del vero
amore».
Ci vestimmo e cominciammo a uscire. Mentre passavo, Gurdjieff
indicò l’uomo di cui ho parlato e davanti a tutti mi disse: «Lei lo
odia. Lei pensa che lui è coda di somaro. Ma lei, nemmeno coda di
somaro. Lei è meno, lei è quello che esce da somaro».

81
In un'altra occasione stavo parlando con un russo, M., che mi
rispose in quel modo abbastanza arrogante e altero, tipico a volte
della sua gente, quasi a dire «tu povero ragazzotto ignorante». Fu
come ricevere un colpo al plesso solare, rimasi ferito e me ne andai
rimuginando. Poi mi dissi: «È ciò di cui parlava Gurdjieff, forse è
colpa mia». Ci riflettei sopra e capii che in effetti ero responsabile
del modo in cui egli mi si era rivolto. L'emozione ferita svanì.
Gurdjieff manipolava costantemente uomini e situazioni in
modo da provocare attrito, da generare emozioni negative e offrire
alle persone una possibilità di vedere qualcosa di sé stesse. Chiese a
Orage di tradurre in un buon inglese una conversazione trascritta
dal russo; poi la passò a Madame de Hartmann per la correzione, e
disse a qualcuno di farlo sapere a Orage. Quando gli fu riferito, per
un attimo Orage apparve infastidito, poi iniziò a sorridere.
Durante l'infanzia e anche dopo, tutti quanti, dai miei genitori
agli ufficiali superiori dell'esercito, mi avevano costante- mente
detto cosa pensare, cosa sentire e cosa fare. Esteriormente accettavo
le indicazioni, ma dentro di me le mettevo in discussione: non ero
convinto che parlassero con cognizione di esperienze dirette. Ora
ero sicuro di aver incontrato un uomo che, se mi indicava i miei
difetti e debolezze, parlava per esperienza personale. Aveva
superato queste cose con i suoi sforzi e comprendeva pienamente le
mie necessità. Anche gli allievi più anziani, che rispondevano alle
mie domande sul sistema, parlavano solo in base all'esperienza
personale.
Ho detto che il lavoro fisico com'è inteso normalmente era lungi
dall'essere faticoso, tranne per chi non l'aveva mai affrontato prima,
come qualche ricco e gli «intellettuali». Avevo anche sentito dire
che il menù era semplice, scarso e spartano; trovai i pasti
abbondanti, soddisfacenti e gustosi, e i pasti per gli ospiti di
Gurdjieff ricchi e deliziosi. Per colazione c'erano pane tostato con
burro e caffè, per pranzo uno stufato con verdure e budino, alle
quattro e mezzo del pomeriggio tè con pane e burro, per cena un po'
di carne e verdure e, per finire, una torta. Quando faceva umido o
freddo ci ritrovavamo nella sala da pranzo russa, nelle belle giornate
invece mangiavamo all’aperto, ai tavolini.

82
La sala da pranzo russa era buia e senza mobili, tranne un grande
tavolo con le panche. Gurdjieff mangiava con noi, salvo quando
c’erano ospiti, il che era frequente.
I pranzi e le cene per gli ospiti con gli allievi più anziani erano
serviti nella sala da pranzo inglese; di solito veniva invitato anche
qualche nuovo allievo. Era una sala spaziosa ancora arredata con la
mobilia originale, dove Madame de Maintenon aveva pasteggiato in
compagnia della sua piccola corte e intratteneva Luigi XIV. C’erano
un grande tavolo per venticinque persone circa, e altri due tavoli
laterali di venti posti ciascuno; nell’insieme settanta persone o più
mangiavano comodamente. Gurdjieff sedeva al centro del grande
tavolo di fronte alla finestra. Alle sue spalle, sulla mensola di un
caminetto, c’era la foto di suo padre, un uomo anziano dal volto
buono, con barba e baffi, che indossava un berretto di astrakhan. Al
sabato sera, dopo il bagno turco, tutti cenavano insieme nel salone
inglese. Gli allievi più anziani e gli ospiti, uomini e donne, sedevano
al tavolo più grande. A uno dei tavoli laterali stavano i giovani,
all’altro i bambini. Queste cene del sabato sera, e altre occasioni
speciali, erano vere e proprie feste patriarcali. All’inizio del pasto le
persone sedevano tranquille, poi si iniziava a parlare ma senza mai
raggiungere livelli molesti. Ai nuovi venuti e agli ospiti Gurdjieff
raccontava di quanto avesse sofferto per il cibo scadente che era
stato costretto a mangiare in America e in Inghilterra. Descriveva le
proprietà del cibo servito a tavola e il modo in cui era stato
preparato: sottolineava l’importanza di conservarne quegli elementi
attivi che mantengono lo stomaco in buone condizioni e gli
consentono di fornire l’energia necessaria. Talvolta cominciava a
parlare con un tono di voce che faceva immediatamente cadere il
silenzio; rimanevano tutti intenti ad ascoltarlo, perché quanto stava
dicendo poteva riguardare direttamente l’interlocutore, o magari
era indirizzato a qualcun altro. In ogni caso, se l’osservazione in
qualche modo ti riguardava, eri ben contento di farla tua.
Affermazioni semplicissime, sentite ripetere meccanicamente
centinaia di volte nella vita, ora si caricavano di significato. Per
esempio, una volta colsi queste frasi: «Lei vive nel passato. Il passato
è morto. Agisca nel presente. Se vive come ha vissuto sempre, il
futuro sarà come il passato.

83
Lavori su sé stesso, cambi qualcosa in sé stesso, allora il futuro forse
sarà diverso».
Quando parlava così, i suoi occhi brillavano e ti sembrava di
sentire la verità per la prima volta. Ti entrava dentro. In questi casi
non pensavi: «Questo è per il tal dei tali», ma «Questo è per me».
Quando desiderava comunicare qualcosa a una persona in
particolare, quella persona non mancava mai di riceverla.
Naturalmente ciò che aveva detto riguardo al vivere nel passato
tornava utile a molti, ma io lo sentivo particolarmente adatto a me.
Pensandoci, mi accorsi che il continuo riferimento al passato era un
mio difetto: la repulsione e la paura di periodi brutti come la guerra
e i giorni di scuola, o il desiderio dei «bei giorni che furono». Non
temere più la ripetizione di un passato spiacevole, né desiderare il
ritorno di quello gradevole per molti è un punto d’arrivo lento da
raggiungere. «Il mulino non può macinare con l’acqua già passata»,
diceva mio nonno, e il poeta: «Guardiamo al prima e al dopo e
sospiriamo per ciò che non è».

Non credo di aver mai mangiato pietanze di ogni parte del mondo e
così deliziose come a questi pranzi, nemmeno in tutti i miei viaggi.
C’erano minestre, carni con spezie, pollame, pesce, verdure di ogni
tipo, insalate strepitose di cui bevevamo il succo in bicchieri, e poi
budini, torte, ogni genere di frutta, vassoi di stuzzichini orientali,
erbe fragranti, cipolle crude, sedano. E da bere calvados e slivovitz
per i più anziani, vino per i giovani e i ragazzi. Una specialità,
servita dopo la portata di carne, era la testa di pecora alla caucásica,
deliziosa e molto sostanziosa. A qualche ospite Gurdjieff diceva che
in Oriente gli occhi erano considerati la parte più prelibata, e lui lo
onorava offrendogliene uno, che in genere veniva rifiutato (tranne
da chi voleva mettersi in mostra). Tutti gli ingredienti e la cucina
erano su- pervisionati da Gurdjieff, le cui ricette parevano infinite.
Lui stesso era un cuoco eccezionale in grado di preparare centinaia
di piatti orientali, pur non mangiando mai molto. È così che si
dovrebbe pranzare, pensavo, riuscire a gustare il cibo e apprezzarlo
con equilibrio, senza gli eccessi dell’attenzione esasperata o, al
contrario, del disinteresse e dell’inconsapevolezza.

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Qualche volta diceva a qualcuno: «Mangi, mangi! Gli inglesi
spiluccano. Non sanno mai cosa stanno mangiando. Sapete perché?
Esportano tutto quello che hanno di buono e vivono solo di
margarina e montone australiano congelato. Non hanno mai cibo
fresco».
A fine pasto si alzava e faceva strada verso il salone, dove
venivano serviti caffè e liquori. Parlava, e quasi sempre nelle sue
parole c'era un insegnamento. Dopo il caffè, Hartmann suonava
della musica.
I pranzi di Gurdjieff e i pranzi nella vecchia Russia, in Irlanda,
Francia, e perfino in Inghilterra nel diciottesimo secolo avevano in
comune questo apprezzamento: ci si aspettava di gustare il cibo e le
bevande, di apprezzare il fatto che qualcuno avesse dedicato tempo
e lavoro a prepararlo. Il contrario delle cene di società a Londra e
New York, dove incessanti chiacchiere erano la norma e i
commenti sul cibo erano considerati un'ineleganza.

I miei parenti contadini naturalmente dedicavano gran parte della


loro vita alle coltivazioni. In casa mia, la preparazione dei pasti
occupava una consistente parte della routine quotidiana, e il
gustarli offriva un infallibile argomento di conversazione. Quanto
tempo viene impegnato per la coltivazione rispetto a quello
necessario per preparare il cibo da mangiare! Quanto poco tempo ci
vuole per mangiarlo, e quanto meno ancora per espellere gli scarti
dall'organismo.
Al Prieuré ognuno a turno aiutava in cucina e i più esperti
facevano i cuochi. Il lavoro di garzone di cucina non era ambito,
nemmeno come occasione di auto-sviluppo. Significava lavorare
dalle cinque del mattino fino alle undici di sera, e perdere i
Movimenti, la musica e i discorsi di Gurdjieff. Un continuo lavare
piatti e stoviglie, grattare pentole e padelle, strofinare pavimenti di
pietra, mangiando un boccone negli intervalli, con ogni sorta di
persone che di tanto in tanto vagavano per scaldarsi una tazza di
caffè o prendersi qualcosa da mangiare.
Quand'ero garzone in cucina, incontrai per la prima volta
Madame Ouspensky. All’occasione fece da cuoca e si comportò con
l'atteggiamento e lo stile di una granduchessa: una donna

85
davvero straordinaria. Gurdjieff la canzonava spesso sorridendo e
lei, dopo lo scontro, si allontanava dal salone tutta indignata
dicendo: «Niet, niet, Georgeivanitch!»

Un evento settimanale sempre atteso era il rituale del bagno turco.


Il bagno era stato costruito Tanno prima dagli allievi. Era interrato,
con il tetto appena visibile. Si scendeva nello spogliatoio, dietro al
quale c’era la grande caldaia per scaldare le stanze e l’acqua. Il
bagno degli uomini cominciava alle diciannove e trenta del sabato,
quello delle donne prima, nel pomeriggio: un bagno probabilmente
noioso, perché, a differenza di noi uomini, le donne non avevano
Gurdjieff a intrattenerle. Per svestirci sedevamo su lunghe panche
di terra pressata, e Gurdjieff ci stava di fronte. Mentre ci svestivamo
e scaldavamo, egli parlava o scherzava. Al mio primo bagno mi
disse: «È una regola che chi viene al mio bagno deve saper
raccontare tre storie spiritose. Può farlo?»
Una volta svestiti e scaldati, Gurdjieff faceva strada verso la
stanza calda, un’ampia sala circolare con un palo di sostegno al
centro. Dopo un po’ lo seguivamo nella piccola sala russa del vapore
e ci stringevamo sulle panche uno accanto all’altro, come sardine; ci
volle del tempo prima che potessi entrare in un bagno senza un
attacco di claustrofobia. Quando il vapore veniva immesso riuscivo
a stento a trattenermi dallo scappare via. Dovetti sempre «stringer la
corda del mio coraggio al suo punto di fermezza» e mantenerlo fino
alla fine, quando scendevamo dalle panche e ci percuotevamo l’un
l’altro con fascine di rami tra le nubi del vapore in dissolvimento. Di
ritorno nella stanza calda ci insaponavamo e massaggiavamo a
vicenda sulle panche. C’erano una doccia calda e una fredda, una
manica d’acqua e una fontanella d’acqua fredda sul pavimento su
cui ci si chinava.
Dopo i lavacri e il massaggio, ci spostavamo uno a uno nella
stanza fresca e fumavamo o sonnecchiavamo. Dopo il riposo
Gurdjieff parlava o scambiava battute con i russi. Salzmann era una
fonte inesauribile di storielle comiche che spesso facevano
sbellicare Gurdjieff dalle risate. Orage era molto spiritoso e
divertente, anche se spesso le sue battute dovevano essere tradotte
da Hartmann, l’unico russo che parlava bene l’inglese.

86
Un giorno, nella Study House, Gurdjieff disse: «Vedo che a
qualcuno non è ben chiaro il cosiddetto “centro” formatore. Non è
un centro, ma un “apparato”. Consiste in un insieme di macchine
connesse ai centri.
Gli shock di un centro passano attraverso l’apparato formatore e
se i pensieri, i sentimenti o le sensazioni associati sono abbastanza
forti avviano associazioni corrispondenti in un altro centro. Le
associazioni tra i centri sono messe in moto tramite le connessioni
dell’apparato formatore. I centri sono materia, per così dire,
spiritualizzata; l’apparato formatore, che è una macchina con cui
nasciamo, non lo è».
Fece l’esempio di un’azienda con vari uffici e con dei soci, i
centri. Vi è un ufficio generale con una segretaria. L’ufficio generale
è l’apparato formatore e la segretaria è il modo in cui siamo stati
cresciuti e educati, i nostri punti di vista acquisiti automaticamente.
Tutti i messaggi, dall’esterno, tra gli uffici e tra i soci, sono ricevuti
dall’ufficio generale e trasmessi dalla segretaria con tutti i
riferimenti e relativa corrispondenza. Ma la segretaria è pigra e
spesso sogna a occhi aperti; preme i pulsanti sbagliati, mescola i
messaggi. Questo è il nostro apparato formatore.
Nel tempo l’esempio mi chiarì molte cose. Dipendiamo da
questa segretaria. Gli shock accidentali mettono in moto qualcosa
dentro di noi, e noi parliamo e parliamo, o scriviamo! Ci sono quelli
che parlano incessantemente, come un disco rotto, e non sono solo
imbonitori alle fiere, intellettuali e politici, ma anche tanti altri ben
intenzionati, che riversano infiniti fiumi di parole.

All’inizio ebbi enormi difficoltà a porre domande a Gurdjieff. Da


una parte ero intimidito, temevo di dire sciocchezze o di essere
preso per uno stupido - ero come in preda a un’inerzia interiore -,
dall’altra mi sembrava di non saper bene cosa chiedere. Questo
stato, tra il desiderio di domandare e l’incapacità di farlo, raggiunse
un apice tale da farmi soffrire. Un giorno vidi arrivare Gurdjieff da
un sentiero della foresta, su un calesse a cavallo. Si fermò e guardò
cosa stavo facendo, poi scese ad aggiustare la bardatura. Allora, con
uno sforzo tremendo, gli dissi: «Signor Gurdjieff, cos’è che mi rende
così difficile parlarle e farle domande?» Mi guardò senza dire
niente,

87
poi mi prese per un braccio e fu come se venissi attraversato da una
calda corrente elettrica. Salì sul calesse, mi fece cenno di sedergli
accanto e si avviò. Andammo in giro per mezz'ora, mentre lui dava
indicazioni a varie persone; poi mi passò le briglie, mi disse di
portare il cavallo alla stalla e andò a casa. Non avevamo scambiato
una parola, ma da quel giorno provai nei suoi confronti un
sentimento diverso, e sebbene non mi fu mai facile porgli domande,
il mio atteggiamento cambiò e scoprii che se soppesavo una
questione e riuscivo a formularla chiaramente, a volte la questione
era già risolta.

Di domenica non si lavorava, tranne in cucina; niente danze o


Movimenti nella Study House. Dopo il pranzo nella sala inglese, di
solito Gurdjieff insieme a un paio di allievi andava con la piccola
Citroën al suo appartamento sul Boulevard Pereire a Parigi. In
serata incontrava persone al Café de la Paix, vicino alTOpéra;
talvolta organizzava una cena a l’Ecrevisse di Montmartre. Aveva
soprannominato il Café de la Paix il suo «ufficio». E quando stava a
Parigi, era lì che lo si poteva trovare mattina e sera, disponibile a
parlare con chiunque volesse incontrarlo e bere un caffè con lui.
Quand'era al Prieuré faceva una puntata quotidiana a
Fontainebleau, per prendere un caffè e incontrare le persone
all’Henry Deux, e ogni due settimane, accompagnato da alcuni
allievi, partiva con la sua vettura per una gita in Francia o altrove.
Era un'esperienza perfino sedergli accanto mentre parlava in
russo con gli altri. Era «radiante di energia» come un rishi, e lo si
lasciava pieni di vita. Come un piccolo macchinario elettrico può
ricaricarsi di energia semplicemente stando accanto a uno più
potente, allo stesso modo si poteva restare magnetizzati dalla forza e
dall 'essere di Gurdjieff rimanendogli vicino.

Ero già da un po' di tempo al Prieuré e cominciai a pensare a mio


nonno. L'associazione partì dal ritratto del padre di Gurdjieff, di cui
egli scrive nella seconda serie dei suoi Incontri con uomini straordinari.
Mio nonno assomigliava al padre di Gurdjieff, e sebbene fosse
inglese fino al midollo, in età avanzata aveva l'aspetto di un prete
russo. Era «ignorante», un contadino che lavorava con i suoi
uomini.

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Salvo alcuni testi antichi come II viaggio del pellegrino e la Bibbia,
leggeva poco, eppure disponeva di una grande saggezza che gli
arrivava da un’antica stirpe contadina. Non era un uomo d’affari e
non divenne mai ricco come il fratello, anche lui agricoltore, né
approfittò mai della debolezza altrui. Conosceva molti proverbi
raccolti qua e là. Quando li avevo sentiti, da ragazzo, avevano fatto
poca impressione al mio conscio, ma l’impatto col subconscio deve
essere stato considerevole perché un po’ alla volta cominciai a
ricordarli, visto che ben si adattavano alla mia vita attuale. Sospetto
che certi fossero tratti da George Herbert. Eccone alcuni:

Facendo, impariamo.
Chi ha pietà dell’altro ricorda sé stesso.
Dio, i nostri genitori e il nostro maestro non possono mai
venire ripagati.
Dio, tienimi lontano da quattro edifici: quello del prestasoldi
e quello del giocatore, dall’ospedale, dalla prigione.
Le case degli avvocati sono costruite sulla testa degli sciocchi.
Il medico deve la sua vita al paziente, il paziente deve al
medico solo soldi.
Dal sacco puoi estrarre solo quello che c’è dentro.
Chi non pensa due volte non pensa bene.
Metà degli uomini non sa come l’altra metà mente.
Nessuno sa quanto pesa il fardello dell’altro.
Ciò che ti viene dato un giorno, un altro ti viene tolto.
Chi sta al caldo, pensa che sia così per tutti.
Tre persone che si aiutano portano il peso di sei.
Ama il tuo vicino ma non togliere lo steccato.
Nessuno è sempre sciocco, ma tutti lo sono qualche volta.
Più la scimmia sale, più mostra il sedere.
Non consigliare a nessuno di sposarsi o di andare in guerra.
Una mano lava l’altra e due lavano il viso.
Prima del matrimonio tieni gli occhi bene aperti, dopo tienili
socchiusi.
Non ci sarebbero grandi uomini se non ce ne fossero di
piccoli. Quando la volpe comincia a predicare tieni d’occhio
le oche.
È mercoledì, e metà settimana se ne è andata.
Avere tanto denaro fa paura, non averne fa angoscia.
Il sazio non sa cosa pensa un affamato.

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Prima di considerare un uomo amico, mangia con lui una
sporta di sale.
Mostra a un uomo buono il suo difetto ed egli lo trasformerà
in virtù, mostralo a un uomo cattivo ed egli lo raddoppierà.
Nulla si asciuga prima di una lacrima.

Per tutta la vita i miei nonni, grazie alla loro sola presenza, hanno
avuto un grande ascendente su di me; e studiare le idee di Gurdjieff,
lavorare seguendone il metodo, me ne ha fatto capire l’importanza.

Trovai estremamente interessanti i Movimenti e le danze: non mi


sembrarono difficili nel modo in cui lo furono per altri ma, come
per tutto il resto che avevo appreso nella vita ordinaria, dovetti
ricominciare da capo e dimenticare quello che avevo già acquisito.
Imparare a sentire e percepire ogni movimento, ogni gesto, ogni
posizione, mi richiese lungo tempo. Sembrava semplicissimo
«sentire» ma, da inglese cresciuto con l’addestramento fisico e le
esercitazioni militari, dovevo essere continuamente richiamato ad
ascoltare il mio corpo. Cominciai a eseguire il primo esercizio
obbligatorio come una sequenza di scatti fisici. Alla fine Gurdjieff
mi rimproverò severamente di fronte a tutti, il che mi mortificò al
punto che abbandonai il palco e andai a sedermi. Dopo pochi minuti
egli mi si avvicinò e serenamente mi diede una spiegazione. Ripresi
il posto nella classe, e da allora cominciai a comprendere qualcosa
del significato interiore delle danze, e tutti i giorni dedicai ogni
momento libero alla pratica.
Alla fine mi fu permesso di prendere parte all 'Iniziazione di una
sacerdotessa e sentii di partecipare a una cerimonia religiosa, come in
effetti facevo. I nostri istruttori erano Madame de Salzmann,
Madame Galumian e Madame Olgivanna H., rispettivamente
francese, armena e montenegrina. Cominciai a imparare
velocemente, e presto eseguii tutti gli esercizi obbligatori e presi
parte alle grandi danze. La musica era suonata da Hartmann su un
vecchio pianoforte verticale e con il suo tocco uscivano note
magiche. Quando Gurdjieff voleva provare un nuovo pezzo lo
accennava con un dito sulla tastiera del pianoforte e fischiettava le

90
note. Poi Hartmann impostava la melodia e inseriva gradualmente
l’armonia, con Gurdjieff che gli stava addosso fino al risultato
voluto: finché la musica non era come doveva essere, non gli dava
alcuna tregua. Solo un musicista del calibro di Hartmann poté
produrre una musica del genere, e almeno in un’occasione trovò
così insostenibile avere Gurdjieff tanto addosso, che si alzò dal
pianoforte e lasciò la Study House.
Il movimento delle Trenta Posizioni risale a quell’epoca.
Gurdjieff chiamò le tre istruttrici, diede loro alcune spiegazioni,
mostrò i movimenti, passò a Hartmann la melodia e andò a sedersi.
Le donne cominciarono subito a lavorare sulle posizioni e in meno
di un’ora erano pronte a insegnarcele. Ma noi, allievi più giovani,
dovemmo lavorarci per parecchie ore prima di poterle eseguire in
un modo appena passabile.
Come ogni grande espressione artistica, le danze e i Movimenti
erano più moderni del moderno ma, al tempo stesso, avevano le
radici nel passato.

Con mia grande sorpresa, un giorno mi accorsi che per la prima


volta in vita mia, qui al Prieuré, non desideravo essere altrove. La
vaga inquietudine che mi disturbava da sempre era scomparsa,
avevo trovato tutto quello che desideravo. Non che a volte non
soffrissi, ma era diverso. In gran parte non era sofferenza volontaria,
ma almeno non era più solo automatica, anche se talvolta avevo la
sensazione che tutto il peso della sofferenza del mondo poggiasse
sul mio morale. Un giorno Gurdjieff, vedendomi in questo stato, mi
invitò al locale di Fontainebleau per prendere un caffè.
Guardandomi di sfuggita disse a Orage, che era con noi: «Orage,
quando le cose sembrano essere al peggio, di solito migliorano un
po’». Fu come se avesse diretto verso di me una parte del suo potere,
e il morale cominciò a risollevarsi. A parte un grazie per il caffè,
non dissi nulla fino al rientro al Prieuré. Ma il cattivo umore e la
depressione, che talvolta duravano giorni, erano scomparsi.
Hartmann mi raccontò che nel Caucaso si era ammalato di tifo;
l’attacco era stato così grave da escludere la guarigione. «Ma un
giorno», disse, «ripresi conoscenza, e vidi Gurdjieff chino su di me
con il viso imperlato di sudore. Sembrava che tutta la sua forza

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fosse diretta a me. Mi diede un pezzo di pane e andò via. Mi sedetti
e cominciai a mangiare, e capii che mi aveva salvato la vita».
Un’altra volta, sempre allo stesso café di Fontainebleau, l’Henri
Deux, Gurdjieff stava discutendo in russo con Hartmann, Stjoemval
e Salzmann, mentre Orage e io conversavamo in inglese. A un certo
punto cominciò a parlare con Orage di tacchini e, guardando me,
disse con un sorriso: «Lui non pavone o corvo, ma tacchino».
Vedendo che non capivo fece un cenno a Orage, che proseguì: «La
caratteristica del tacchino è di gonfiarsi sempre, di mettersi in
mostra con gli altri e, se è solo, anche con sé stesso». Probabilmente
feci un’espressione di sconforto, perché Hartmann ci tenne ad
aggiungere: «Nonostante tutto quello che dice sui tacchini, sono
animali che gli piacciono molto». Compresi questa mia caratteristica
solo in seguito, e riuscii a osservarla in modo imparziale, quasi con
divertimento. Riconsiderai la mia vita e vidi che questa «tacchinità»
si era manifestata costantemente fin da ragazzo cercando di farmi
apparire «qualcuno», e non una semplice non-entità, di fronte a me
stesso e agli altri. Ora ero in grado di affrontare il tacchino, che
cessò di fare il verso.
Un giorno, a cena, Gurdjieff affrontò il tema del pagamento, dei
diversi modi di pagare e di come pagare il debito contratto per la
propria nascita, il debito con la natura. Disse: «Mi pagate perché vi
sia consentito di lavorare qui. Ma lavorando qui sapete e sentite
come vivono i nove decimi del mondo. Se fisicamente lavorate nel
modo giusto, potete ottenere molto in termini di comprensione. Se
aiutate il vostro compagno, in cambio sarete aiutati; forse domani,
forse tra un anno, forse tra cento. Ma sarete aiutati. La Natura deve
pagare il suo debito, è una legge. Se ci piace il lavoro che facciamo,
siamo subito ricompensati dalla soddisfazione ricevuta. Se non ci
piace e facciamo uno sforzo, la ricompensa deve arrivare, ma dopo.
È una legge matematica, e tutta la vita è matematica. Il presente è il
risultato del passato, e il futuro sarà il risultato del presente. Nella
vita c’è sempre una lotta; ripensando al passato di solito ricordiamo i
momenti difficili, quelli di lotta, ma la lotta è vita».
Qualcuno chiese perché nasciamo e perché moriamo.
Egli disse: «Vuole saperlo? Per saperlo davvero deve soffrire, deve
imparare a soffrire non come fa adesso, ma coscientemente.

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Al momento lei non è capace di soffrire per un franco, e per saperne
anche solo un pochino dovrebbe soffrire per un milione di franchi».
A un altro, che fece una domanda sulle emozioni negative,
rispose: «Ogni cattivo pensiero e sentimento hanno effetto su di lei,
sugli altri e su di me, e i pensieri e i sentimenti cattivi ti tagliano
fuori dalla vita».
Tra gli aforismi della Study House si leggeva: «Qui non ci sono
né inglesi, né russi, né ebrei, né cristiani, ma solo uomini che
perseguono uno scopo comune: diventare capaci di essere».
«L'energia spesa nel lavoro interiore attivo si trasforma
immediatamente in una nuova riserva, ma quella spesa nel lavoro
passivo è perduta per sempre».
«Qui possiamo soltanto dare una direzione e creare alcune
condizioni, ma non aiutare».
«Più sono difficili le condizioni di vita, più sono buoni i risultati
del lavoro, sempre ammesso che ti ricordi il lavoro».

Gurdjieff usava raramente le parole «sistema», «metodo», «ricordo di


sé», «auto-osservazione». Qualsiasi termine si pietrifica e con l'uso
continuo che ne fa l'apparato formatore diventa un'espressione
priva di contenuto. La vita stessa al Prieuré era un processo per
richiamarci costantemente al ricordo e all'osservazione di noi stessi,
a notare cosa facevamo, come ci muovevamo, parlavamo,
sentivamo, pensavamo. Le condizioni erano tali da offrirci
l'opportunità di abbandonare le vecchie personalità in modo da far
crescere l'essenza, cosicché le nostre individualità potessero
prendere il posto di personalità che nostre non erano. Un aforisma
diceva: «Ricordati che sei venuto qui perché hai capito la necessità
di lottare contro te stesso - soltanto contro te stesso. Sii grato
dunque a tutti coloro che te ne forniscono l'occasione».
Non c'erano conferenze o discorsi «preparati». Gurdjieff poteva
parlare ovunque, in qualsiasi momento. Quando era in giro si
doveva stare continuamente all'erta, in modo da non perdere
qualcosa, e imparammo a «captare» i momenti in cui probabilmente
si sarebbe seduto per parlare. Lo stesso accadeva con la musica.
Poteva chiamare Hartmann per suonare in qualsiasi momento,
mattina o pomeriggio, nella Study House o nel salone.

93
Ci si passava parola, lasciavamo il lavoro nella foresta e andavamo a
sederci ad ascoltare, senza crogiolarci in sogni emozionali a occhi
aperti, come di norma accade ascoltando la musica.
Un giorno stavamo riposando nella foresta, il homo grigio
azzurrognolo saliva a spirali dal fuoco, la quiete era disturbata solo
dai suoni di Avon in lontananza, quando Gurdjieff chiese: «Perché
siete tutti così tranquilli, nessuno ha domande?»
Dopo una pausa, uno disse: «Ho difficoltà a distinguere tra
essenza e personalità».
«Ognuno di noi», rispose Gurdjieff, «è composto da due uomini,
l’essenza e la personalità. L’essenza è tutto ciò con cui siamo nati: i
caratteri ereditari, il tipo, il temperamento, la nostra natura;
l’essenza è la parte vera di noi. L’essenza non cambia. Io, per
esempio, ho una carnagione scura che appartiene al mio tipo, ed è
parte della mia essenza. La personalità è una cosa accidentale, che
cominciamo ad acquisire fin dalla nascita; dipende dall’ambiente,
dalle influenze esterne, dall’educazione e via dicendo; è come
l’abito che portiamo, una maschera, una cosa accidentale che
cambia al mutare delle circostanze. È la parte falsa dell’uomo e può
essere cambiata in pochi minuti artificialmente o accidentalmente,
con l’ipnosi o le droghe. Un uomo con una “forte personalità” può
avere l’essenza di un bambino, sovrastata dalla personalità.
Quando parliamo di sviluppo e di trasformazione interiore,
parliamo della crescita dell’essenza. Ora, il punto non è acquisire
qualcosa di nuovo ma recuperare e ricostruire quanto è stato perso.
È questo lo scopo dello sviluppo. Quando avrete imparato a
distinguere la personalità dall’essenza e a separarle, capirete cosa va
cambiato. Per il momento avete un unico scopo: studiare. Siete
deboli e dipendenti, siete schiavi e impotenti con tutto ciò che vi sta
attorno. Per spezzare abitudini vecchie di anni sono necessari
tempo e lavoro, e più avanti sarà possibile sostituire certe abitudini
con altre. L’uomo dipende dalle circostanze esterne, ma le
circostanze esterne di per sé sono innocue; imparerete a sostituire le
influenze che vi ostacolano lo sviluppo con quelle che lo aiutano».
Ci fu una domanda sull’osservazione di sé, e Gurdjieff rispose:
«All’inizio le condizioni per lavorare vanno preparate. Per adesso
potete solo cercare di notare quello che fate, e raccogliere materiale
che sarà utile per il lavoro successivo.

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Non siete ancora in grado di osservare quali sono manifestazioni
dell’essenza, e quali della personalità. Non potete dirlo fintanto che
raccogliete materiale perché l’uomo ha una sola attenzione, diretta
a quello che sta facendo. La mente non vede i sentimenti e i
sentimenti non vedono la mente».
Parlò anche di diventare capaci, in seguito, di dividere
l’attenzione in due o perfino tre parti. Ma quando qualcuno chiese
come farlo, egli disse: «Non può ancora. Ne riparleremo più avanti.
La gente in genere non ha una vera attenzione. Ciò che chiamano
attenzione è solo tensione. Prima deve lottare per ottenere la
capacità di attenzione. La corretta auto-osservazione è possibile solo
dopo che avrà acquisito una dose di attenzione. Cominci con
piccole cose».
Uno di noi chiese: «Che genere di piccole cose? Cosa posso
fare?»
«Vi sono due tipi di fare: il fare meccanico, automatico e il fare
della vera volontà. Prenda una piccola cosa che non può fare, ma
che vuole fare. Ne faccia il suo Dio. Non permetta alcuna
interferenza. Lotti solo per realizzare il suo volere. Se ci riesce con
questa piccola cosa, le darò un compito più grande. Attualmente
molti di voi hanno una fame eccessiva di fare cose troppo grandi.
Questa fame vi trattiene dal fare le piccole cose alla vostra portata.
Distruggete questa fame. Dimenticate le grandi cose. Abbiate per
scopo la rottura di una piccola abitudine.
Se volete, potete. Senza il volere non potrete mai. Il volere è la
cosa più potente al mondo, più forte di Dio. Ovviamente parlo del
volere cosciente, e con il volere cosciente, tutto si realizza».
Uno di noi chiese: «Può essere un buon compito sopportare le
manifestazioni degli altri?»
«Sopportare le manifestazioni sgradevoli degli altri è una gran
cosa», rispose. «È l’ultima conquista per un uomo e solo chi si è
perfezionato ne è capace. Si cominci con il darsi per obiettivo la
capacità di sopportare una manifestazione di una persona che oggi
non si riesce a sopportare senza innervosirsi. Se si stabilisce uno
scopo volontario e ci si impegna a raggiungerlo si crea magnetismo
e la capacità di fare».
Un altro disse: «Penso che il mio difetto peggiore sia parlare
troppo. Sarebbe bene se cercassi di parlare di meno?»

95
«Questo per lei è un ottimo obiettivo. Lei rovina tutto con le sue
chiacchiere. Questo nuoce persino ai suoi affari. Quando parla
troppo, le sue parole non hanno alcun peso. Cerchi per esercizio di
non parlare tanto. Se ci riesce, le arriverà ogni sorta di benedizioni.
Però è una cosa grande, non piccola. Se ci riesce, le dirò cosa fare
dopo».
A un altro disse: «Per lei un bel compito sarebbe cercare di fare
domande. Lei vuole sapere, ma non parla. Per lei questo sarebbe un
ottimo sforzo».
In risposta a un’altra domanda sull’osservazione di sé, disse:
«L’osservazione richiede molte cose. La prima è la sincerità con sé
stessi, ed è molto difficile. E assai più facile essere sinceri con un
amico. È difficile guardare noi stessi, perché temiamo di vedere
qualcosa di brutto, e se casualmente osserviamo in profondità,
vediamo la nostra nullità. Facciamo in modo di non vederci perché
abbiamo paura di soffrire per il rimorso di coscienza. Dentro di noi
abbiamo tanti cani rognosi e non vogliamo vederli. La sincerità può
essere la chiave della porta attraverso cui una parte può vedere
un’altra. La sincerità è difficile per via della spessa crosta che si è
formata sull’essenza. Ogni anno l’uomo indossa un vestito nuovo,
una nuova maschera, una sopra l’altra. Tutto questo va rimosso un
po’ alla volta. E come togliere la buccia a una cipolla. Finché queste
maschere non sono rimosse, non potremo vederci.
Un esercizio che può essere utile è quello di provare a mettersi
nei panni di un altro. Per esempio, so che A. è in una situazione
difficile. È abbattuto e cupo. Una metà di lui cerca di ascoltarmi, e
l’altra metà è presa dal suo problema. Gli dico qualcosa che in un
altro momento lo avrebbe fatto ridere, ora invece lo innervosisce.
Ma io lo conosco, cerco di mettermi nei suoi panni e mi chiedo
quale sarebbe la mia reazione.
Se lo faccio abbastanza spesso, comincerò a vedere che se
qualcuno è di cattivo umore ci possono essere motivi che non
hanno nulla a che vedere con me. Dobbiamo cercare di ricordare
che spesso non è la persona in sé, ma il suo stato a essere irritato con
noi. E se io cambio, anche l’altro cambia.
Se ci riuscite, vi ricordate di voi e vi osservate, vedrete molte
cose, non solo nell’altro, ma anche in voi stessi, cose che nemmeno
immaginate».

96
«Può essere giusto soltanto colui che può mettersi nei panni
dell’altro».
«Giudica gli altri in base a te stesso e raramente ti sbaglierai».
Parlando dell’arte, egli disse: «Non amate l’arte con il sentimento.
L’arte vera si basa sulla matematica. È una sorta di scrittura con un
significato interiore ed esteriore. In tempi antichi, uomini coscienti
- che compresero i princìpi della matematica - composero musica,
scolpirono statue e raffigurazioni, dipinsero immagini e costruirono
edifici che produssero un effetto definito su chi li vedeva, sui loro
sentimenti e sulle loro sensazioni. In un monastero della Persia, per
esempio, c’è una stanza le cui proporzioni e il cui volume sono tali
che chiunque vi entri comincia a piangere».
Mi ricordai di quanto avevo sentito sulle prime cattedrali
gotiche, progettate da uomini che capivano i princìpi della
matematica e la loro applicazione. Le proporzioni, il volume
interno, la pressione dell’aria, l’acustica, gli effetti di luce attraverso
le vetrate colorate, la musica: i loro risultati erano calcolati
matematicamente cosicché, senza rendersene conto, le persone
venivano portate a un livello più alto. E in quello stato si potevano
accogliere idee elevate. Nessuno sa chi fossero gli uomini che
progettarono le prime cattedrali.
Ripensando a tutte le espressioni d’arte viste in Oriente,
m’impressionarono sopra ogni cosa il Taj Mahal e la Sfinge. Il primo
non ha più di trecentocinquant’anni, la seconda ne ha cinquemila o
forse più, e comunque, secondo Gurdjieff, è la copia di una sfinge di
Babilonia, antica di ottomila anni. Entrambi appartengono alla
tradizione esoterica, quella corrente nascosta e sempiterna, che
vivifica la vita dell’uomo e gli impedisce di cadere in uno stato
permanente di selvaggia barbarie.
Le opere d’arte oggettiva sono il prodotto di scuole esoteriche.
Le cattedrali di Notre-Dame a Parigi e di Notre-Dame a Chartres
sono il prodotto di una scuola esoterica cristiana, il Taj Mahal di ima
scuola esoterica sufi. Sir Arthur Bryant7 riferisce che duchi, conti e
anche re, come pure commercianti e contadini, considerarono un
privilegio il permesso di partecipare alla costruzione delle prime
cattedrali, trasportando pietre e lavorando al mortaio.
Forse anche le cattedrali di Ely, St Alban e York in Inghilterra sono
opere d’arte oggettiva. Si può dire che tutte le grandi opere d’arte
sono il frutto di scuole esoteriche. Ci sono esempi anche in Cina. H
Tempio del Cielo ha tre gradinate o piattaforme circolari; la più
bassa è la più grande, la media è più piccola, quella in cima è ancora
più piccola, ed è lì che l’imperatore pregava da solo.
Nel nord della Cina c’è un grande tempio che visitai in una
soleggiata giornata invernale. La via di accesso è fiancheggiata da un
unico lungo muro di mattoni colorati. Dalla strada in lontananza,
dove inizia il muro, il tempio con la sua linea di tetti e archi in
mattoni gialli, verdi, blu e porpora sembrava distante, minuscolo.
Man mano che mi avvicinavo i tetti dai colori diversi cambiavano
posto, formavano disegni, si fondevano uno nell’altro. L’effetto
prospettico e le forme che mutavano mi fecero un’impressione
straordinaria: pareva che fossero loro a spostarsi, non io; davano
un’impressione di luce e colore, di libertà emozionale e mentale -
un tutt’uno armonioso -, un senso di perfezione cui una parte di me
anelava.
Al Prieuré mi tornavano sempre in mente le impressioni di
questi templi cinesi, musulmani, cristiani. Sembravano una sola
cosa con le vecchie fiabe, i miti e con alcune musiche e danze di
Gurdjieff: mi avevano parlato con lo stesso linguaggio e quello che
avevano detto era stato percepito dal sentimento. Un tempo gli
uomini costruivano per la gloria di Dio, come anche per
guadagnarsi da vivere, per gli affari. Lo stupendo vestibolo di Ypres,
distrutto nella Prima guerra mondiale, ne era un esempio. Nel
diciannovesimo secolo hanno cominciato a costruire solo per affari,
per denaro, per vanità e orgoglio, e sull’architettura è calata una
maledizione. Come tutto il resto, anche l’architettura si trova su una
scala che evolve o involve fino a raggiungere il negativo assoluto: il
Do più basso, rappresentato dai moderni edifici commerciali.
Gurdjieff non si lasciava mai sfuggire l’occasione per riprendere gli
allievi, a volte con ira, a volte gentilmente. Un giorno stavamo
lavorando nella Study House, egli era seduto al suo posto speciale e
ci stava osservando. Per un momento dimenticai me stesso e feci
qualcosa di piuttosto sciocco. Immediatamente mi gridò: «Idiota,
Doorak, perché fa questo?

98
Vuole rovinare il mio lavoro?» Rimasi talmente mortificato e ferito
che fui sul punto di andarmene. Ma egli cominciò a spiegarmi
quanto necessario fosse tenere a portata di mano un pizzico di
peperoncino, e che era suo compito conficcare il forcone «tu sai
dove». In altre parole, dovevo stare sempre all’erta per ricordarmi di
me.

Un’altra volta, mentre lavoravo in una zona della foresta che era
stata in parte ripulita, inciampai e caddi su uno stecco appuntito che
mi penetrò nella gamba. Lo stecco si ruppe e dovetti estrarlo. Dissi
agli uomini di portare un carretto. Mi ci caricarono sopra e mi
portarono in casa. La ferita sembrava seria, Gurdjieff mandò subito
in stanza il dottor Stjoemval e disse a una giovane russa di
assistermi. Venne fatto tutto il possibile. La febbre salì parecchio e
rimasi in questo stato per un giorno circa. La donna russa dormì
nella mia stanza, mi curò e dopo una settimana fui di nuovo in
piedi, sebbene passò molto tempo prima che la ferita guarisse del
tutto. Rimasi toccato dalla gentilezza dimostrata da tutti. Gurdjieff
poteva umiliarti davanti agli altri, ferirti nella vanità e nell’orgoglio,
provocarti gelosia e invidia; e gli allievi potevano sembrare privi di
riguardo o indifferenti nei tuoi confronti, ma se ti ammalavi veniva
fatto tutto il possibile per il tuo sollievo e la tua salute.

In linea di massima, al Prieuré non esistevano regole prestabilite; ce


n’erano molte che venivano cambiate a distanza di pochi giorni o
poche settimane. Ma c’era una grande regola implicita e
fondamentale che tutti conoscevano: «Un allievo non deve mai fare
qualcosa che possa arrecare danno al lavoro».
A proposito delle regole temporanee, una voleva che per ima
settimana ogni lettera scritta al Prieuré venisse sottoposta a censura;
un’altra che nessuno poteva uscire se non per fare commissioni per
Gurdjieff; un’altra che non si doveva andare a Fontainebleau senza
permesso, e così via. Spesso si trattava di esercizi da non prendere
alla lettera, ma se venivi colto a infrangere la regola, era peggio per
te.
In tre avevamo l’abitudine di scavalcare il muro di cinta e
scendere alla Senna per un bagno, una piacevolissima distrazione
dopo le pesanti fatiche nelle torride giornate estive.

99
La regola veniva elusa evitando le «guardie» e raramente ci
perdevamo il nostro bagno. Era una specie di gioco. Gurdjieff
parlava spesso della necessità di esercitare la propria ingegnosità,
della capacità di essere «astuti», nel significato biblico e non
moderno del termine. Parlava spesso con tono di disprezzo degli
«ingenui». Ovviamente eravamo rispettosi con ciò che riguardava
l’organizzazione e la gestione del posto, come pure lo eravamo nel
nostro atteggiamento verso Gurdjieff e gli allievi più anziani.
Nessuno poteva entrare nei terreni del Prieuré senza
l’autorizzazione personale di Gurdjieff. Ma accadde che un giorno
due amici di S., uno tra i più intimi di Gurdjieff, suonarono il
campanello della portineria e chiesero di vedere S. Gurdjieff era via
tutto il giorno e P., il ragazzo di turno, chiamò S. che andò al
cancello e fece entrare gli amici, offrì il caffè e passeggiò insieme a
loro per la proprietà. Gli amici se ne andarono dopo un’ora circa. La
sera stessa, dopo cena, Gurdjieff chiamò il ragazzo nel salone e gli
chiese: «Ti ho detto di non lasciare entrare nessuno senza il mio
permesso?»
«Sì, signor Gurdjieff».
«Hai lasciato entrare qualcuno oggi?»
«Sì, signor Gurdjieff».
«Perché?»
P. rimase in silenzio e G. iniziò a redarguirlo ma, nel bel mezzo
della filippica, Z. si alzò e disse quasi gridando: «Georgeivanitch,
perché se la prende con P? Lo sa che non è colpa sua. S. gli ha detto
di far entrare quelle persone, e P. non sapeva cosa fare. È colpa sua,
non di P.»
Gurdjieff disse ancora qualche parola a R, poi si sedette accanto
a S. e iniziò a parlare d’altro. Per tutto il tempo S. non disse nulla.
Noi altri ci sedemmo per bere il caffè, fortemente interessati,
cercando come al solito di capire cosa significasse tutto ciò, perché
Gurdjieff non faceva mai scene del genere senza uno scopo.
Un giorno, al café Henri Deux, stava parlando di come gli
uomini fossero degenerati; e che, dal punto di vista della natura,
alcuni animali erano di gran lunga migliori dell’uomo.
«Perfino i ratti», disse rivolgendosi a me, «sono meglio
dell’uomo». Cominciai a chiedermi perché avesse menzionato i ratti
così esplicitamente.

100
Poi mi ricordai che pochi giorni prima mi trovavo nella stalla, e un
ratto era corso lungo una trave; l’avevo visto e avevo fatto un balzo
cominciando a tremare. L’episodio gli era stato riferito. Prima della
guerra non ne avevo paura, ma l’esperienza in trincea mi aveva
spinto ad associarli a tutto il sudiciume, la crudeltà, la paura, la
miseria e la sofferenza della guerra in prima linea. In Oriente mi ero
trovato in un tempio pieno di serpenti velenosi senza alcun timore,
ma alla vista di un ratto non riuscivo a non rabbrividire e a non
sentirmi male. So che è così e so anche perché, ma perfino oggi
riesco a superare questa repulsione solo se ricordo me stesso in
modo risoluto. Eppure Ganesha, la divinità della saggezza e della
sapienza con la testa di elefante, fra i suoi simboli ha un ratto, una
delle creature più sagaci e astute.

Parlando ancora della personalità e dell’essenza, Gurdjieff disse che


solo un uomo cosciente può distinguerle. «Tutti i ruoli ordinari che
recitiamo sono personalità; ma se per caso ci troviamo in condizioni
insolite, ci possiamo comportare in base all’essenza. Alcuni uomini
adulti, per esempio, quando hanno bevuto parecchio o sono sotto
l’influenza di una giovane donna, si comportano come i ragazzetti
che fondamentalmente sono. Per contro, in momenti di pericolo
possono agire con intelligenza e raziocinio, oppure come bimbi
spaventati. In seguito a uno shock doloroso, l’austero uomo d’affari
o lo statista possono diventare umani e sensibili. Il nostro compito è
uccidere questa personalità, che è qualcosa di falso e non ci
appartiene; forse è necessario fonderla nel fuoco della grande
sofferenza ma, se viene fatto correttamente, al suo posto cresce
l’individualità: l’uomo diventa un individuo, in possesso della vera
volontà e di un “Io”. Egli sarà sé stesso».
Disse che molte delle nostre bugie, avidità, invidie, gelosie e odi
spesso sono dovuti a un accumulo di energie equivalenti. Le energie
inutilizzate provocano frustrazione, che viene deviata
nell’espressione di emozioni negative. L’uomo possiede
un’individualità reale a lui inerente, sua per diritto di nascita, e che
egli ha venduto in cambio del piatto di lenticchie della falsa
personalità.

101
L’identificazione si verifica quando la nostra energia e la nostra
attenzione si fissano su un aspetto di una cosa; è il lavoro di un solo
centro, una forma di ipnosi, e non deve essere confusa con la
concentrazione e l’attenzione, che sono utili e necessarie.
All’Istituto le nostre debolezze venivano osservate e annotate, ci
venivano date opportunità per vederle, e dovevamo farlo da noi
stessi. Ci voleva attenzione per non perdere nulla di quanto veniva
detto o fatto. Osservazioni o azioni apparentemente casuali
potevano rivelare molte cose a una persona. L’insegnamento veniva
dato in frammenti e in modi spesso inaspettati, dovevamo imparare
a raccogliere i pezzi e a collegarli con le osservazioni e le esperienze
personali.
Gurdjieff parlava della necessità di pensare in modo diverso
riguardo certe espressioni di uso comune: peccato, preghiera,
digiuno, confessione, pentimento, supplica, sottomissione,
espiazione, morte, resurrezione, vita. Al di là della definizione
ordinariamente accettata, esiste un altro significato, un significato
reale, legato a uno stato di cambiamento nella psicologia umana. Il
digiuno, ad esempio, astensione dal cibo ordinario, può essere molto
utile se fatto con la guida di un maestro. Nella religione ortodossa è
diventato una semplice consuetudine, ma se fatto in modo
appropriato può purificare il sistema e modificare il metabolismo
del corpo. E c’è un altro tipo di digiuno, che non riguarda solo il
cibo: l’astensione dalle manifestazioni inutili e involontarie, la
costante rinuncia all’emozione negativa.
In risposta a una domanda sulle facoltà cosiddette
soprannaturali, come la chiaroveggenza e la telepatia, egli disse che
nascono nel centro istintivo-motore tramite la contrazione
muscolare o le fluttuazioni molecolari del centro emozionale. Un
movimento in un centro viene subito comunicato a onde agli altri
centri, e a tutte le parti dell’organismo.
Nell’antichità le persone non erano ancora «rovinate», potevano
comunicare tra loro e perfino vedere cosa stava accadendo a grandi
distanze. Oggi questa facoltà sopravvive solo presso le cosiddette
popolazioni non civilizzate, fra i lapponi, per esempio, fra le tribù
dei pellerossa, o perfino fra gli aborigeni australiani.

102
Oppure si manifesta accidentalmente in alcune persone, e allora la
si considera come qualcosa di «strano».
Tutto questo mi interessava molto, perché avevo avuto
esperienze del genere. Durante la guerra, a me e a un altro ufficiale
venne detto di portare le nostre compagnie a lavorare nella piana di
Salisbury. Venimmo trasportati in camion per dieci miglia, poi, per
raggiungere il posto, dovemmo marciare per altre quattro miglia
attraverso una piana deserta, priva di alberi. Credevamo di rientrare
con la luce del giorno, così non prendemmo riferimenti; ma prima
che fossimo arrivati, iniziò a fare buio. Partii con i miei uomini per
primo, ma in quindici minuti calò una buia notte di febbraio, gelida
e nuvolosa, e mi resi conto di non conoscere la strada. In quel
momento entrò in gioco un senso che avevo smarrito: sapevo di
sapere e proseguii diritto. Uno dei miei subalterni cominciò a dire
che ci eravamo persi nella pianura, ma gli dissi di stare calmo.
Camminammo in silenzio sulla piana ondulata per più di un’ora, in
un’oscurità tale da non vedere a più di dieci metri. Cercai di non
pensare ma di restare calmo e di lasciarmi guidare dal mio innato
senso dell’orientamento, o istinto. Alla fine sentii che ci stavamo
avvicinando al camion, e in cinque minuti lo raggiungemmo; dopo
mezz’ora stavamo mangiando cibo caldo al campo. L’altro gruppo
venne trovato il mattino successivo subito dopo l’alba, che vagava
smarrito per la pianura, infreddolito, stanco e affamato.
Sempre quell’anno, alcuni mesi più tardi eravamo sulla Somme.
Mi venne ordinato il pattugliamento notturno di un bosco a circa
mezzo miglio al di là della nostra linea del fronte. Piazzai i miei
uomini nel bosco e andai avanti con il sergente per controllare, o
meglio sentire. Improvvisamente mi fermai. Non riuscivo a
proseguire. Qualcosa diceva «pericolo». Il sergente sembrava non
sentire nulla, perché continuava a camminare tranquillo. Riprovai
in altri due o tre punti, ma ogni volta questa resistenza era così forte
che mi pareva di andare contro una rete di acciaio. Dopo un po’ di
tempo ritirai gli uomini, tornai al fronte e feci un rapporto in cui
ritenevo il bosco occupato dal nemico. La notte seguente, gli uomini
di un’altra compagnia andarono nello stesso posto e caddero dritti
in un’imboscata. Parecchi vennero uccisi, compreso l’ufficiale in

103
comando, gli altri si ritirarono di corsa. Salvai me stesso e gli uomini
più di una volta prestando ascolto alla voce interiore del «sesto
senso». Nelle foreste della Nuova Zelanda e dell’Australia spesso
sono scampato a situazioni difficili lasciandomi guidare da questo
senso sconosciuto, e più di una volta affidando la strada al cavallo
che stavo cavalcando.
Avevo avuto molte esperienze di percepire le cose a distanza, di
prevedere eventi che di fatto si verificarono, e altrettanto accadde a
persone di mia conoscenza. Purtroppo quando si verificano
esperienze di sesto senso, di solito arrivano indistintamente e,
rovinati come siamo dall’educazione e dall’istruzione, in genere
siamo incapaci di trame profitto. Per di più, spesso è difficile
distinguere fra un prodotto dell’immaginazione e quanto viene
realmente percepito e sentito. In ogni caso, le esperienze reali
hanno poco o nulla a che fare con la mente, provengono dai centri
istintivo-motore ed emozionale.
Quando Gurdjieff dice: «Non miriamo a costruire qualcosa di
nuovo, ma a recuperare quanto è stato perduto», per un aspetto si
riferisce al sesto senso che sta scomparendo. Per quanto sono stato
in grado di scoprire nelle indagini su ogni genere di fenomeni,
nessuna tecnica cosiddetta «moderna» può essere d’aiuto. L’unico
metodo davvero utile è quello antico, presentato in forma moderna
da Gurdjieff, sebbene sia solo uno dei molti aspetti del suo
insegnamento.
Prima di incontrare Gurdjieff consideravo queste esperienze
una casualità. Moltissime persone «semplici» possiedono questo
senso in più: i pescatori e i contadini, per esempio. Gli ufficiali, gli
intellettuali e gli «esperti» ne sono quasi privi, motivo per cui
sbagliano quasi sempre. Gli esseri umani, oltre a essere macchine
per la trasformazione di sostanze, sono anche strumenti per
ricevere e trasmettere vibrazioni. E possono anche usare l’apparato
a proprio vantaggio.

Quell’estate del 1924, la prima per me all’Istituto, fu una di quelle


estati infuocate che a volte colpiscono il nord della Francia; tutti i
pasti, eccetto quelli speciali nella sala da pranzo inglese, si tennero
all’aperto, con le portate che venivano fatte passare dalla finestra
della cucina che si affacciava sul cortile di ghiaia. Un

104
giorno avevo preso il mio piatto, e mentre tornavo al mio posto
all'estremità della tavola oltrepassai Gurdjieff, seduto assieme ad
altri. Come mi avvicinai, mi lanciò una rapida occhiata, e dal
pacchetto che aveva estratto dalla tasca cadde una sigaretta. Esitai.
Una parte in me, un “Io", disse: «Raccoglila»; un altro disse: «No,
non farlo». Mentre il sì e il no si fronteggiarono ancora per alcuni
secondi, qualcun altro la raccolse; tomai al tavolo e mi sedetti e,
dopo averci pensato, ne parlai con il mio vicino.
«Ti stava mettendo alla prova», disse. «Cinque tipi diversi
avrebbero reagito in cinque modi diversi».
«Non nell’esercito», risposi.
«No. Ma io sto parlando di non-macchine. Nell’esercito, se
cinque o cinquecento macchine sono collegate allo stesso
interruttore, reagiranno come un tutt’uno. Qui stiamo avviando il
processo per la metamorfosi da macchine a uomini. Gurdjieff fa
esperimenti con le persone secondo il loro tipo. Alcune persone che
lo hanno saputo vi si oppongono, considerano umiliante venire
usati come cani o scimmie per esperimenti. Ma se prende questa
cosa nel modo giusto, avrà l’opportunità di imparare moltissimo su
sé stesso. E un privilegio».

Ogni giorno si potevano fare nuove esperienze, ma solo nella


misura in cui si lavorava e si facevano sforzi per superare la pigrizia
e l’inerzia del corpo, le simpatie e le antipatie delle emozioni. Col
tempo, gli aforismi assunsero un significato reale:

«Chi si è liberato della malattia del domani ha qualche speranza


di trovare ciò che è venuto a cercare qui».
«La più grande conquista per un uomo è quella di essere capace
di fare».
«Amo chi ama il lavoro».
«Aiuta soltanto chi non è ozioso».
«Uno dei mezzi migliori per risvegliare il desiderio di lavorare
su di sé è quello di rendersi conto che si può morire da un
momento all'altro. Ma bisogna imparare a non dimenticarselo».

Quando Gurdjieff parlava dell’inutilità di gran parte della nostra


sofferenza, che dipende dai nostri calli, dal pestare

105
quelli degli altri che pestano i nostri, ci si ricordava di questi due
aforismi: «Uno dei migliori sistemi per essere felici consiste nella
capacità di considerare sempre esteriormente e mai interiormente».
«Tieni conto di ciò che la gente pensa di te, e non di ciò che
dice».
Gurdjieff impartiva sempre degli shock affinché le persone
usassero la loro facoltà critica. A un giovane allievo disse: «Non
credere mai a quello che mi senti dire. Impara a discriminare tra
cosa va preso letteralmente e cosa metaforicamente».
Alcuni di noi erano a cena da lui nel suo appartamento sul
Boulevard Pereire. Un giovane, un americano, gli chiese perché
chiudeva sempre le finestre durante i pasti. Gurdjieff cominciò una
lunga disquisizione sulla necessità di impedire che le vibrazioni
andassero disperse con le finestre aperte e via dicendo, mentre il
giovane ascoltava con gli occhi sgranati. Ci lasciò prima degli altri e
dopo che se ne fu andato Gurdjieff disse: «Vedete, prende tutto alla
lettera, senza riflettere. Tornerà al Prieuré e chiuderà sempre tutte
le finestre, e io non riuscirò più a prendere una boccata d’aria
fresca». Ovviamente le finestre venivano chiuse per non sentire il
rumore della strada.
A un altro allievo disse: «Lei non crede mai a nulla di quello che
le dico. Dubita sempre, e comincia a dubitare perfino quando sa che
deve credere».
C’era un aforisma che diceva: «Se non sei dotato di uno spirito
critico, la tua presenza qui è inutile».
Alcuni allievi vedevano - o pretendevano di vedere - qualcosa
di «mistico» o «esoterico» nel minimo gesto o parola di Gurdjieff.
Siccome era ben superiore a noi in conoscenza, comprensione ed
essere, la cosa non sorprendeva. Bisognava stare sempre all’erta, e
quando si era in uno stato di ricordo di sé, raramente si
commettevano errori. Era relativamente più semplice ricordarsi di
sé con Gurdjieff nei paraggi, perché il suo stato di coscienza
manteneva svegli; dovevamo continuamente sapere come
discriminare tra il serio e il faceto, ed egli faceva spesso
affermazioni esagerate per provocare in noi uno shock. Alcuni di
noi allievi più giovani cercavamo di definire con parole nostre la
vanità e l’orgoglio.

106
Quando dicevamo «il mio orgoglio è stato ferito» o «lei o lui è
vanitoso come un pavone» cosa intendevamo? Eravamo tutti
d’accordo che, nel suo aspetto peggiore, l’orgoglio o la stima di sé, o
amor proprio, fosse un’opinione esagerata delle qualità con cui si
nasce o che sono state acquisite; una presunzione stolta ritiene che
le qualità dell’organismo siano un merito, e che per questo motivo
gli altri debbano tenerci in considerazione. Quando qualcuno non
ci rendeva il dovuto, qualcosa restava ferito nei sentimenti e, di
conseguenza, soffrivamo. Da un certo punto di vista, l’orgoglio di
sé, o amor proprio, era la parte attiva; la Signora Vanità era un
aspetto di quella femminile, passiva. Ma la vanità era ancora più
difficile da definire. Orage disse: «È quella cosa per cui siamo
disposti a sacrificare tutto pur di non farla soffrire». Forse è possibile
definire la vanità solo con esempi; possiamo vederne le
manifestazioni negli altri, ma vederle in noi all’istante, non in
seguito, è quasi impossibile. In tempi di psicosi di massa questi due
nemici, la vanità e l’amor proprio, si rafforzano. Una volta, durante
la guerra, l’ufficiale comandante del mio battaglione, piuttosto che
ammettere di aver torto sacrificò per vanità la vita di venti uomini.
In un altro senso, la vanità è uno spreco di tempo, energia e denaro
per qualcosa che è essenzialmente privo di valore e inutile,
l’aspettativa di ottenere un beneficio duraturo dalle cose di questo
mondo. «Vanità, vanità tutto è vanità», diceva il predicatore. «La
vanità gioca brutti scherzi alla nostra memoria» (Conrad); «La
vanità ci induce a fare cose contrarie alle nostre inclinazioni più
della ragione» (La Rochefoucauld); «La vita senza vanità è quasi
impossibile» (Tolstoj); «La vanità tiene nelle sue grazie persone che
non sono nelle grazie di nessun altro» (Shakespeare). «La vanità», ha
scritto Somerset Maugham, «è la più devastante, più universale e
meno sradicabile delle passioni che affliggono l’animo umano, ed è
solo la vanità che impedisce all’uomo di negarne il suo potere.
Consuma più dell’amore. Grazie a Dio, con il passare degli anni
potete infischiarvene del terrore o della schiavitù dell’amore, ma
l’età non può liberarvi dalla schiavitù della vanità. Il tempo può
lenire i dolori dell’amore, ma solo la morte può placare il tormento
della vanità ferita. L’amore è semplice e non cerca sotterfugi, la
vanità invece ti ammalia con mille

107
travestimenti. È parte integrante di ogni virtù, è il movente
principale del coraggio e della forza dell’ambizione; dà la costanza
all’innamorato e la resistenza allo stoico; nell’artista alimenta il
fuoco del desiderio di fama; al tempo stesso supporta e compensa
l’integrità dell’uomo onesto e si insinua cinicamente addirittura
nell’umiltà del santo. Non potete sfuggirla; se soffrite, pur restando
in guardia, la vanità userà quel dolore per farvi lo sgambetto. Non
avete difese contro i suoi attacchi perché non conoscete il punto
debole che attaccherà. Il cinismo non vi proteggerà dai suoi tranelli,
né l’umorismo dai suoi schemi. Infine, è la vanità che fa sopportare
all’uomo i suoi simili».
Ne La conferenza degli uccelli, Attar riporta: «Poi giunse il passero,
dal corpo esile e dal cuore tenero, tremolante come una fiammella.
Disse: “Sono fragile come un capello. Non ho nessuno che mi aiuti,
e non ho la forza di una formica. Non ho piume né penne, nulla.
Come può uno debole come me raggiungere Simurgh? Un passero
non potrà mai farcela. Così, siccome non sono per nulla adatto a
questa impresa, mi accontenterò di cercare qui il mio Giuseppe”.
L’upupa replicò: “Oh, tu che sei talvolta triste e talvolta allegro, non
sono ingannata da queste abili suppliche. Sei un piccolo ipocrita.
Anche nella tua umiltà riveli a centinaia i tratti della vanità e
dell’orgoglio”».
Parliamo continuamente di vanità e orgoglio di sé, ma finché
non riusciamo a vederne esempi in noi stessi, restano solo parole e
discorsi. Non vogliamo vederli perché ne soffriremmo. Non
possiamo vederli perché i nostri respingenti ce lo impediscono. Ma
se desideriamo crescere nell’essenza dobbiamo riuscirci, seppure un
po’ alla volta.
Gurdjieff una volta mi chiese: «Lo sa chi ha più vanità?»
«Gli attori, le stelle del cinema, gli alti ufficiali?», risposi.
«No, gli angeli e i diavoli», disse.

In numerose occasioni Gurdjieff parlò dei simboli e del loro uso; fra
questi l’Enneagramma, che simboleggia molte cose, fra le quali il
funzionamento della Legge del Tre, della Legge del Sette e della
Legge del Nove, di cui si possono trovare le chiavi ne I racconti di
Belzebù. Venne raccolto parecchio materiale sotto forma di
conferenza sul Simbolismo. In breve, l’idea è che ogni uomo ha un

108
Da La storia della magia, Abbé Constant

desiderio di conoscenza, che differisce solo per intensità; ma


quando la mente umana cerca e si chiede «perché?», spesso arriva a
un punto morto (anche se molte volte la vera domanda è «come?» e
non «perché?») L’uomo non si rende conto che sotto la superficie
delle cose si cela l’unità di tutto ciò che esiste. L’uomo ha sempre
cercato questa unità nelle religioni e nelle filosofie, e ha tentato di
definirla con parole che col tempo sono diventate morte, vuote. Le
parole e le idee cambiano a seconda dell’epoca e del luogo, ma
l’unità - l’essere unico - è eterna e immutabile. Alcuni uomini dotati
di vera comprensione si sono resi conto dell’inadeguatezza delle
parole, e nel corso dei secoli hanno inventato simboli per la
trasmissione della vera conoscenza. Chi studia un simbolo e riesce a
comprenderlo si rende conto di avere il simbolo dentro di sé.
«Nell’universo tutto è uno ed è governato da leggi costanti». È come
nella Tavola smeraldina di Ermete Trismegisto: «Come in alto, così
in basso». Le leggi del cosmo si ritrovano nell’atomo, ma l’oggetto di
studio più vicino all’uomo è l’uomo stesso. A tale riguardo, la frase
di Socrate (che ha origine egiziana) «conosci te stesso» assume

109
pieno significato. Quando studia le leggi dell’universo, l’uomo può
vedere il funzionamento della legge in sé stesso, e quando lotta
seriamente con la propria parte che nega - negativa - parteciperà
alla lotta che esiste ovunque nell’universo, «la guerra divina», e
realizzerà in sé il grande simbolo che tramandato dall’antichità è
conosciuto come Sigillo di Salomone. Il Sigillo di Salomone è ogni
uomo che guarda dentro di sé.

Nel suo insegnamento, Gurdjieff cercava sempre di farci capire che


dovevamo usare quanto diceva nelle nostre attività quotidiane. La
lotta tra il sì e il no prosegue all’infinito. Siamo pieni di desideri
inutili: c’è un «lui desiderava» cui dobbiamo opporre il nostro «io
desidero». Se fatto nel modo giusto, ne consegue un buon risultato.
Fece questo esempio: «Supponiamo che ho assoluto bisogno di
un’informazione, o altro, da qualcuno. Ma questo qualcuno mi ha
offeso. “Lui” non vuole umiliarsi e chiedere, così dovrò lottare con il
mio amor proprio e il mio orgoglio, che in caso di rifiuto
soffrirebbero. Se continuo a lottare con la parte che nega, se supero
l’inerzia che si è creata e vado da quella persona, qualcosa in me si
rafforzerà e la comprensione risulterà approfondita. Per contro, se
non ci vado, avrò risparmiato energia nervosa e un possibile disagio,
ma la mia comprensione non sarà aumentata».
Più avanti parlò di iniziazione: «In genere l’iniziazione è
considerata l’atto con cui l’uomo che sa trasferisce a un altro
conoscenza e potere, che diventano una proprietà inalienabile
senza alcuno sforzo da parte di chi riceve. Ovviamente, non può
mai essere così. Esiste solo l’auto-iniziazione, che si ottiene con uno
sforzo costante. Senza lo sforzo personale, nulla di quanto gli è dato
può essere assimilato dall’uomo, è impossibile. Si può solo indicare e
dare una direzione, ma non “iniziare”. Si può dare all’uomo solo
quel tanto che egli è pronto a ricevere».

Come ho detto, Gurdjieff faceva sempre seguire a un discorso


teorico il lavoro pratico e io, come gli altri, mi ritrovavo in
situazioni in cui mi rendevo cosciente del «sì, qui c’è qualcosa che
dovrei fare» e del «no» del corpo: una resistenza accompagnata da
tutta una serie di scuse ragionevoli per non continuare la

110
lotta. Quando lo sforzo veniva compiuto, entrava in gioco la forza
neutralizzante, e si sperimentava il sentimento di una maggior
forza. A volte lo sforzo non veniva fatto, con un conseguente
sentimento di debolezza nel plesso solare.
Presi parte a una particolare danza basata sul cosiddetto
Enneagramma, e qualcosa cominciò ad attivarsi in me, nei miei
sentimenti; in parte era dovuto alla musica, in parte alle posizioni e
ai movimenti. La musica era una semplice melodia armoniosa
ripetuta, ma arrangiata in modo talmente giusto e così gradevole da
penetrare nel profondo dell'essere. Era come partecipare a un rito,
comprendere, diventare cosciente. Colsi qualcosa del significato
dell’Enneagramma, della legge dell'eterna ricorrenza, dell'eterna
ripetizione e della possibilità di una via d'uscita, e negli anni
l'Enneagramma divenne per me un simbolo vivente in movimento,
che mi procurava un senso di gioia ogni qualvolta lo osservavo;
imparai qualcosa tutte le volte che fu oggetto di riflessione. Il
cronogramma di Maria Stuarda diceva: «Nella fine c'è il mio inizio».

"k "k

Era un caldo mattino di luglio; la foresta, perlomeno lì dove stavo


lavorando, sembrava tropicale. A metà mattina mi venne una gran
sete, così interruppi il lavoro per andare in casa a bere del tè. Lungo
la strada, nel grande prato, incrociai tre russi che stavano parlando
con un'espressione preoccupata sul volto. La mia modesta
conoscenza della loro lingua non mi permise di cogliere molto, ma
il nome «Georgeivanitch, Georgeivanitch» veniva ripetuto di
continuo. Mi fermai e mi dissero che Gurdjieff aveva avuto un grave
incidente; l'ambulanza lo stava portando al Prieuré e stava per
arrivare da un momento all'altro. Ci avviammo verso il cortile e
raggiungemmo il cancello proprio all'arrivo dell’ambulanza.
Gurdjieff fu trasportato in barella, con la testa fasciata; era privo di
sensi, ma mormorò: «Tanta gente, tanta gente». Venne portato nella
sua stanza al piano superiore.
Su noi tutti calò il silenzio; ognuno riprese il lavoro con calma e
serietà. Alcuni piansero, ma non vi fu nessuna delle convenzionali
manifestazioni di dolore. Le condizioni di Gurdjieff

111
erano molto serie e i dottori non avevano tante speranze che si
riprendesse, era già un miracolo che non fosse morto sul colpo.
Più tardi mi recai al garage di Fontainebleau per recuperare
qualcosa dalla sua automobile, una piccola Citroën che era stata
trainata lì. Il radiatore era distrutto, il motore fuori sede, la colonna
dello sterzo rotta, parabrezza, porte e finestrini a pezzi, l’asse
anteriore e i parafanghi accartocciati. Gurdjieff era stato trovato
disteso sul ciglio erboso della strada che da Parigi porta a
Fontainebleau, con il capo su un cuscino della macchina. Come
fosse uscito dalla vettura, se da solo o aiutato da qualcuno, non era
chiaro. L’auto aveva centrato un albero.
Pare che il giorno prima di lasciare Parigi per il rientro
settimanale al Prieuré avesse fatto qualcosa di insolito. Aveva
chiesto a Madame de Hartmann di andare al garage e di dire al
meccanico di controllare attentamente l’auto: viti, bulloni, sterzo e
luci in particolare; lei non lo aveva mai visto così insistente. Inoltre,
senza dare spiegazioni, le aveva passato le sue carte autorizzandola
ad agire nel suo nome. Un’altra cosa insolita, le aveva detto di
tornare al Prieuré in treno e aveva respinto con un gesto lo sguardo
sorpreso di lei.
Cosa accadde nessuno lo sa, dal momento che Gurdjieff stesso
ricordava solo «una spinta e un fragore», finché alcuni giorni dopo si
svegliò nel suo letto, «un pezzo di carne vivente in un letto pulito»,
come disse. Forse era rimasto abbagliato dalle luci di una vettura in
senso opposto o si era assopito per un istante.
Che un simile incidente fosse capitato a Gurdjieff per noi fu uno
shock; qualcuno lo credeva invulnerabile, Ubero dal potere degU
eventi accidentaU. Una signora ricca di immaginazione, una
teosofa, parlò in modo misterioso del «confratello oscuro» che stava
cercando di distruggere il lavoro di Gurdjieff. Ma Gurdjieff stesso
osservò che su questo pianeta si è soggetti alle leggi dell’accidente
fisico, le cui cause possono risalire a un passato remoto. I grandi
maestri lo sapevano: Gesù rimproverò i disce- poh, quando
attribuirono al peccato la morte degU uomini su cui era crollata la
torre di Siloam. Noi vediamo, o crediamo di vedere, solo le cause
immediate degU incidenti.
C’è poi un altro aspetto. Tutti i maestri - Buddha, Ermete
Trismegisto, Maometto, gU gnostici cristiani - hanno insegnato

112
che qualcosa di indesiderabile si è mescolato in noi, un qualcosa che
può essere purificato solo con il lavoro cosciente e la sofferenza
volontaria. È questo «qualcosa» - gli effetti di quello che Gurdjieff
chiama «organo kundabuffer» - la causa del nostro dimenticare, del
nostro dormire, che dunque apporta centinaia di difficoltà inutili.
Nel Mahabharata, Vyasa narra le vicende di dèi, eroi e demoni che su
questo pianeta devono risolvere i risultati di precedenti azioni
inconsapevoli (e dunque malvagie), «i risultati del peccato
volontario e involontario», come lo esprime la liturgia russa.
Tutta la vita è un susseguirsi di episodi imprevisti di cui le
persone più semplici, come ad esempio contadini e giardinieri, si
rendono ben conto; così nella nostra vita le cose si svolgono come
ce le aspettiamo (o come dovrebbero svolgersi per logica) solo
raramente, e spesso per caso. Per ben che vada, c’è solo la metà delle
possibilità che le cose vadano come previsto.

Al Prieuré regnava il silenzio: parlavamo sottovoce, la campana


della torre non suonava più, alla Study House non c’erano né danze
né musica e ognuno desiderava con tutto il suo essere che Gurdjieff
si ristabilisse. Madame de Hartmann prese in carico
l’organizzazione del posto, il dottor Stjoernval e la moglie di
Gurdjieff si occuparono delle cure mediche. Da Londra arrivò
Madame Ouspensky che si fermò per pochi giorni. Ma era come se
la molla principale di una grande macchina si fosse rotta e il
macchinario continuasse a girare per inerzia. La forza che muoveva
le nostre vite se n’era andata.
Quando, una settimana più tardi, il dottor Stjoernval ci
comunicò che Gurdjieff era fuori pericolo, fu come se il principe
fosse entrato nel castello della bella addormentata: ogni cosa
cominciò a riprendere vita. I bambini tornarono ai loro giochi
rumorosi nei campi, le nostre voci recuperarono il tono normale,
Madame Galumian cominciò classi di Movimenti nella Study House
e alla sera Hartmann ci suonò della musica. Praticammo tutti i
Movimenti e le danze, tutto quello che si riusciva a ricordare, a
partire dagli obbligatori. Nessun movimento e passo era stato
trascritto, perché Gurdjieff aveva tutto nella sua mente; e quando
tentammo di rappresentare l’Iniziazione di una sacerdo-

113
tessa scoprimmo sconcertati di non riuscire a farlo. Ricordavamo le
rispettive parti, ma nessuno era in grado di ricostruire la sequenza.
Stessa cosa con il Grande Sette. Erano due pezzi che mi avevano
impressionato moltissimo a New York, due frammenti di arte
oggettiva. Per fortuna ci rimaneva la musica composta da Hartmann
sotto la direzione di Gurdjieff.
Senza lo stimolo della presenza di Gurdjieff, il lavoro di routine
fu molto difficile; noi giovani allievi dovemmo fare uno sforzo
maggiore per lavorare con attenzione quando non c’era nessuno «a
pungere con il forcone lo sai dove». Un allievo mi confessò di non
riuscire assolutamente a lavorare senza Gurdjieff accanto, ma va
detto che questi era conosciuto come «l’asino del Prieuré».
Circa un mese dopo, Gurdjieff apparve nel giardino sostenuto
dalla moglie e da Madame de Hartmann. Indossava il suo pesante
cappotto nero e il cappello di astrakhan. La testa era fasciata e gli
occhi nascosti da occhiali scuri. La sua vista si era indebolita al
punto che non ci riconobbe. Aveva fatto uno sforzo tremendo per
alzarsi, contravvenendo alle indicazioni e agli avvertimenti dei
medici. All’inizio fece qualche passo, poi si fermò. Dopo quindici
minuti venne riportato a letto. Ma giorno dopo giorno prolungò
sempre un po’ di più l’uscita e la passeggiata. In ottobre, quando il
caldo torrido lasciò il posto alle luminose e tiepide giornate
autunnali, si fece portare la sua sedia, e da lì ci diede istruzioni per
accendere dei grandi fuochi all’esterno. Restava seduto per più di
un’ora a fissare le fiamme; sembrava prendere forza dallo sfavillio.
Cooperavamo tutti, e i falò fiammeggianti e la nostra attività
parvero aiutarlo. Si andò avanti come se avessimo dovuto tagliare
mezza foresta per alimentare il fuoco. Poi un giorno ci fermò e
iniziò a osservarci al lavoro, ma senza dire nulla, come se non
riconoscesse nessuno. Era difficile rendersi conto che si trattava
dello stesso uomo vigoroso, attivo, vitale di qualche settimana
prima, quello che ci aveva spronati alla vita. Eppure si riusciva
ancora ad avvertire e percepire l’immutata forza del suo essere. Di lì
a poco cominciò a dare indicazioni dalla sedia, e noi riprendemmo a
lavorare come prima, impegnandoci a sentire e ricordare noi stessi,
a lavorare con attenzione, e a renderci conto che se avessimo lavo

114
rato con attenzione, avremmo aiutato non solo noi stessi ma anche
lui. Tutti quelli che non erano di servizio in cucina lavoravano
all’aperto - Stjoemval, Salzmann, Hartmann -, uomini, donne e
bambini. Gurdjieff parlava raramente, e dopo l’incidente non aveva
mai sorriso. Un giorno stavamo trascinando fuori da un fossato un
albero caduto. Hartmann e io lavoravamo con le ginocchia in acqua,
gli altri allievi stavano sul bordo. Improvvisamente il tronco scivolò
e mi cadde sulla gamba ferita. «Dannazione!», gridai. Tutti si
fermarono a guardare. «Va tutto bene», dissi, «nessun danno, è solo
fastidio». Un lento sorriso apparve sul volto di Gurdjieff; risero tutti
e un nuovo sentimento, quasi di gioia, si irradiò dal gruppo.
L’episodio coincise con una fase del suo recupero, e da allora egli
riprese un po’ a parlarci.
Cominciammo a recuperare il giusto ritmo aspettando con ansia
il futuro, con il lavoro riorganizzato come un tempo. Ma un mattino
girò voce che Gurdjieff voleva che tutti, senza eccezioni, si
riunissero alla Study House. Egli stava nella sua poltrona al centro
della sala. Ci disponemmo intorno a lui, seduti sul pavimento e
aspettammo. Cominciò a parlare con voce calma, ora in inglese, ora
in russo. Disse che adesso tutto il lavoro lì era giunto alla fine. Stava
per liquidare il Prieuré. «Entro due giorni», proseguì, «tutti se ne
devono andare, resterà solo la mia gente. Per lungo tempo io vivo
per altri, ora comincio a vivere per me stesso. Tutto ora finisce:
danze, musica, lavoro. Dovete tutti andare entro due giorni».
Mentre parlava le facce ci si allungarono tanto da sembrare che
toccassero il petto. Dopo qualche altra frase in russo fece un gesto
con la mano, noi ci alzammo lentamente, uscimmo e ci radunammo
sul prato a gruppetti interrogandoci su cosa significasse tutto
questo.
Com’era nelle intenzioni, fu uno shock. Quel giorno non
lavorammo più, ma discutemmo tra di noi, cercando di scoprire se
qualcuno aveva capito cosa stesse succedendo. «E la fine di tutte le
speranze nate in noi?», ci chiedemmo. «È veramente tutto finito? Il
suo lavoro è davvero concluso?» Erano tutti confusi, gli allievi
anziani come i giovani. «Perché questo?», mi chiese un russo. «Che
fare? Rinunciamo a tutto, veniamo qui, e

115
tutto è finito. Che dobbiamo fare?» Sembravano i personaggi di una
commedia di Cechov. Ne sapevo poco quanto loro.
H giorno seguente gran parte dei russi e alcuni americani fecero
i bagagli, partirono e non tornarono più al Prieuré. Presero
Gurdjieff alla lettera. Alcune donne inglesi partirono, ma in seguito
fecero ritorno. Se ne andò anche il resto di noi. Ci trasferimmo a
Parigi e ci sistemammo nel piccolo e squallido Hotel Unic, a
Montpamasse. Ma prima di andarcene avemmo un colloquio con
Madame de Hartmann e, come risultato, Gurdjieff disse che gli
americani potevano tornare dopo qualche giorno e restare; e
potevano rientrare anche quelli a lui «vicini». Di fatto tutti, tranne
la sua famiglia e quelli che lo accudivano, si allontanarono solo per
qualche giorno.
Quando tornammo a Fontainebleau, il Prieuré sembrò vuoto.
Era rimasto solo un terzo di noi, compresi gli allievi più anziani, i
più vicini a Gurdjieff. Il lavoro riprese nei giardini e nella foresta, e
ogni sera nella Study House Hartmann suonava per noi la musica di
Gurdjieff e brani russi. Alla fine di ottobre, anche se lentamente,
Gurdjieff aveva ripreso a camminare da solo e ricominciò ad
affidarci dei compiti.
Mi venne detto di lavorare con Olgivanna: tiravamo da una
parte all’altra la sega per tagliare i tronchi per l’inverno e li
ammucchiavamo nella legnaia. Fu lei che mi raccontò della vita nel
Caucaso con Gurdjieff. A Tiflis lui le aveva chiesto se avesse un
desiderio, un desiderio autentico. Lei aveva risposto: «Desidero
l’immortalità». Lui le aveva chiesto: «Cosa sta facendo adesso?» «Mi
occupo della casa e dei miei inservienti». «Ma lei lavora? Cucina,
segue i bambini?» «No, lo fanno i miei inservienti». «Non fa nulla e
desidera l’immortalità!», disse lui. «L’immortalità non arriva
desiderandola, ma con un tipo particolare di lavoro. Deve lavorare,
deve fare sforzi per l’immortalità. Ora le mostrerò come lavorare.
Innanzi tutto dica agli inservienti di andarsene e cominci a fare
tutto da sé».
«Me lo mostrò», aggiunse lei. «Mi mostrò come svolgere i
cornimi lavori di casa, non come avrebbe fatto un domestico, ma mi
mostrò come lavorare e al tempo stesso usare il suo metodo».
Lavorammo con la lunga sega per due settimane, ogni giorno
Gurdjieff si avvicinava e d osservava. Conversava qualche minuto

116
con Olgivanna, poi andava da un altro gruppo. Da quanto riuscivo a
cogliere, sembrava che parlassero dei progetti di lei per il futuro:
alla fine Olgivanna partì con la figlioletta Svedana per rAmerica
dove, tempo dopo, divenne la signora Lloyd Wright. Nei
quattordici anni seguenti la rividi una sola volta, e per qualche
istante. Come tutte le donne che lavorarono davvero con Gurdjieff,
era straordinaria e particolare; aveva qualcosa di interiore, aveva
un'individualità, ed era in grado di fare qualsiasi cosa.
Questo periodo di lavoro alla sega mi lasciò un’impressione
grande e duratura in relazione a quanto accadde dopo. Cominciai a
notare che nel lavoro fisico stavo sperimentando qualcosa di
diverso, mai sentito in tutti gli anni di vita lavorativa. Poi un giorno
arrivò Gurdjieff per il suo solito giro e, mentre mi osservava
trasportare e impilare la legna, qualcosa in me disse: «Ho la
sensazione di me, sto ricordando me stesso». Questa consapevolezza
di accresciuta coscienza fu accompagnata da un sentimento di
autentica gioia. Poi mi disse: «Basta così, credo. Ora lei sa molto
bene come lavorare con legna. Le do un nuovo compito».
Questa frase apparentemente senza senso, e il modo in cui
venne detta, rese sicuro qualcosa in me. Ebbi quella che si dice «una
confessione del peccato», la consapevolezza che fino a quel
momento la mia vita era stata totalmente meccanica e automatica;
ora, era come se un mago avesse detto: «Abbandona l’aspetto di una
macchina e assumi il tuo giusto aspetto di uomo». Questa fu la mia
iniziazione e le parole di Gurdjieff rappresentarono il rito che le
accompagnò. Un mistero si era compiuto. Quel giorno a pranzo
osservai i miei compagni, li vidi e vidi me stesso in modo diverso, e
mi ricordai di un passo nella storia del Vello d’oro: «Quando gli
argonauti tornarono alla nave dopo aver preso parte ai misteri a
Samotracia, agli occhi di Atalanta e Meleagro sembrarono dèi, non
uomini; un alone appena visibile brillava sulle loro fronti. Ma
quando furono sulla nave e indossarono gli abiti consueti, il bagliore
svanì: erano tornati uomini, ma erano cambiati».

Un giorno Madame de Hartmann ci comunicò che Gurdjieff stava


partendo per una cura; se qualcuno desiderava parlargli prima che
se ne andasse, poteva farlo nel pomeriggio. Allora erano rimasti otto
allievi più giovani, tutti americani. Ero molto

117
nervoso perché non sapevo cosa chiedere, ma al tempo stesso non
volevo perdere l’occasione. Sedemmo sull’erba sotto il sole di una
limpida giornata autunnale e aspettammo. Dopo un po’ egli arrivò e
si diresse lentamente alla sua sedia. Uno alla volta, tutti si alzarono e
gli si avvicinarono. Rimandai il mio turno il più a lungo possibile
perché avevo la testa vuota, ma appena mi alzai mi vennero le
domande, e sedendo ai suoi piedi dissi: «Signor Gurdjieff, mi
sarebbe piaciuto fermarmi al Prieuré, ma ho in mente di avviare
una libreria in America; inoltre voglio sposarmi, anche se al
momento non ho nessuno. E voglio aiutare gli altri». «Tutto questo
può essere utile», disse. «Molto necessario fare soldi per vivere. Lei
va e comincia suoi affari, poi forse più avanti faremo affari assieme.
E sposarsi: prima deve distinguere fra donna e moglie. Moglie è per
sempre, donna temporanea. Se si sposa adesso forse non dura. Più
tardi forse. Inoltre, prima di poter aiutare gli altri, di essere di vera
utilità per altri, deve conoscere sé stesso ed essere capace di aiutare
sé stesso. Adesso lei è egoista, la mente sempre su sé stesso. Deve
imparare come essere egoista per buono scopo, poi sarà capace di
essere vero altruista e di aiutare altri».
Fu tutto, ma la forza nelle sue parole, come una fresca brezza
spazzò via dalla mente annuvolata il sentimentalismo, «la flebile
emozione ingigantita da un pensiero confuso», che si era
sedimentato negli anni riguardo al sesso e al «fare del bene».
Quando rientrò per riposarsi, io passeggiai nella foresta riflettendo
sulle sue parole.
Gurdjieff partì il giorno dopo, e non lo rividi fino all’estate
seguente. Giunse novembre, faceva freddo. La Study House venne
chiusa, sgombrammo la sala da pranzo inglese e lì praticammo i
Movimenti; imparammo anche dei nuovi obbligatori.
Tornai a Londra alla fine del mese per completare
l’organizzazione dei miei affari. Walter Fuller, mio vecchio amico
allora editore del «Weekly Westminster», invitò alcune persone per
sentirmi parlare della vita al Prieuré. Sembrai piatto, perché non fui
in grado di dar loro un quadro comprensibile della vita, del sistema
o del metodo di insegnamento. Si accorsero che non ero più
interessato alle cause che avevamo perorato insieme, il socialismo,
le riforme sociali, l’educazione. «E non sembra che

118
la sua esperienza Tabbia resa più felice», aggiunsero. Continuarono
a lavorare per le loro cause, a dire agli altri cosa si sarebbe dovuto
fare, ma a me non sembra che la loro attività abbia portato un
miglioramento dell’uomo nella sua vita interiore né in quella
esteriore.
Uno dei grandi ostacoli per una vita sana è l’atteggiamento
arrogante degli «intellettuali» da un lato, e dei burocrati dall’altro,
di qualsiasi razza o credo essi siano, convinti come sono di sapere
tutto e di poter instradare gli altri. E hanno sempre torto. In un
certo senso siamo tutti così, e dobbiamo esserlo finché non
diventiamo capaci di guardare dentro di noi e di affrontare la verità
su noi stessi. Come dicono i sufi: «Per quanta conoscenza possa
avere, finché l’uomo non ha fatto un esame di sé e non ha ammesso
a sé stesso di non comprendere nulla, tutto ciò che ha acquisito è
come “il vento nelle mani”».
Mi erano stati piantati dentro dei semi che avevano iniziato a
germogliare. Ma, come ogni giardiniere sa bene, prima che il seme
diventi germoglio, e che il germoglio si sviluppi in pianta, spesso
trascorre molto tempo, e molto tempo è poi ancora necessario per
vedere apparire l’albero con fiori e frutti. Trasformarsi in un uomo
nuovo, sviluppato, è un processo ancora più lungo.

2 II viaggio del pellegrino. Da questo mondo a quello venturo presentato in forma di


sogno, scritto da John Bunyan, è uno dei più importanti testi religiosi della
letteratura inglese, tradotto in più di duecento lingue.

119
3
Edward Gordon Craig (1872-1966), attore, regista e critico teatrale, noto per le
sue rivoluzionarie scenografìe e per le sue importanti teorizzazioni sul teatro.

4 Montagu Norman (1871-1950), banchiere inglese, governatore della Banca di


Inghilterra dal 1920 al 1944.

5
Émile Jaques-Dalcroze (1865-1950), pedagogo svizzero che sviluppò il metodo
di apprendimento musicale, Teuritmica, cui si accenna più avanti.

6 Frettoloso, veloce.

7 Sir Arthur Bryant (1899-1985), storico e biografo inglese.


II
New York e Fontainebleau (1925-26)

Verso la fine di novembre del 1924 tomai a New York, affittai un


appartamento a Washington Square, e mi tolsi la soddisfazione di
avere una mia libreria. La aprii sulla Quarantasette- sima strada, in
ima delle vecchie case brune di pietra. Due volte a settimana
partecipavo al gruppo di Orage, che si riuniva nell’appartamento di
uno psicanalista interessato alle idee. Aderirono altre persone, così
ci trasferimmo nella Little Gal- lery di Jane Heap, sulla Quinta
Avenue, all’altezza dell’Undicesima strada. Alla fine Muriel Draper,
una donna dell’alta società americana, mise a disposizione il suo
appartamento sulla Quarantesima strada Est, dove continuò a
incontrarsi il gruppo più numeroso. Orage teneva anche grappi che
si riunivano altrove. Di uno di questi facevano parte Herbert Croly,
direttore de «The New Republic», e John O’Hara Cosgrave,
redattore di un quotidiano, il «New York World». Il nostro grappo
era formato da quella che in Inghilterra viene definita la «classe
media intelligente», perlopiù persone sulla quarantina che nel
lavoro ordinario, professione o affari, se la cavavano bene. C’è
n’erano anche un paio abbastanza facoltose. Pagavamo due dollari
per incontro. Due volte alla settimana si tenevano nello studio
O’Neil anche classi di Movimenti e danze, organizzate dalla signora
Howarth e dalla signorina Lil- lard; erano state entrambe al Prieuré
nei primi due anni. Anche in questo caso pagavamo due dollari, ma
i benestanti versavano di più. Ognuno pagava secondo le sue
possibilità. Inoltre, la

121
maggior parte degli allievi trovava il modo di raccogliere soldi per il
Prieuré da alcune attività extra-lavorative. Il nostro gruppo contava
tra le cinquanta e le sessanta persone.
L’ora indicativa degli incontri di Orage erano le otto di sera. Di
solito egli arrivava verso le nove, ma l’attesa ci dava l’opportunità di
sedere tranquillamente e rilassarci, o di parlare con chi non
avevamo l’occasione di vedere durante la settimana.
«Bene», cominciava Orage, «qualche domanda?» Dopo una
pausa qualcuno poneva una questione ed egli rispondeva. Una volta
avviate, le domande fluivano. Ognuno chiedeva in base al suo tipo e
secondo il livello di comprensione - o mancanza di comprensione -,
e ognuno riceveva una risposta corrispondente. Un tipo
istintivo-emozionale come me prendeva tutto in modo acritico,
emozionalmente, e chiedeva sempre di più. Un tipo mentale come
S. doveva avere una spiegazione intellettuale per tutto e insisteva
nonostante le proteste di qualcuno - «Per l’amor del cielo, S.!» -
mentre Orage, con infinita pazienza, tentava di fargli sentire o
provare qualcosa. A me faceva notare la necessità di pensare di più,
di usare la mente; e a S. diceva che doveva cercare di sentire di più,
sentire con i sentimenti, non con la testa. Orage, sulla sua sedia di
fronte a noi, era la forza attiva, opposta alla forza passiva di noi
come gruppo; dalle domande e dalle risposte emergeva una terza
forza; il risultato era un livello di comprensione che dipendeva
dallo sforzo che ognuno era in grado di compiere. Dopo una lunga
giornata di lavoro andavamo all’incontro stanchi, ma al termine
della serata era stata generata così tanta energia che invece di
tornare a casa, ci spostavamo al ristorante Child e masticavamo
keva, spesso fino alle due del mattino.
La conoscenza di Orage di cose e persone era strabiliante. Ne
sapeva molto di quanto accadeva dietro le quinte delle vicende
pubbliche e letterarie. Riusciva anche a indovinare cosa succedeva
al di là della nostra facciata. Sembrava avere una risposta per ogni
domanda, le sue repliche erano talmente azzeccate che molti di noi
presero l’abitudine di parlargli di qualsiasi cosa, di problemi
mondani e anche psicologici. All’inizio fu un grande aiuto, ma
alcuni, più deboli, finirono con

122
¡’appoggiarsi a lui completamente, consultandolo per qualsiasi cosa.
Nonostante la sua competenza, era un essere umano cordiale, con
debolezze e difetti umani, che lottava per perfezionarsi. Come
diceva, lavorando con noi imparava lui stesso, aveva bisogno di noi
come noi di lui. Trasmetteva l’insegnamento di Gurdjieff così come
lo comprendeva e stava in relazione a Gurdjieff come noi a lui.
Eravamo impazienti di sapere sempre di più, e talvolta ci irritavamo
perché l’insegnamento non ci veniva servito su un vassoio guarnito
di spiegazioni.
Tra Orage e alcuni di noi si stabilì una relazione emotiva e
mentale molto stretta, in cui lui appariva come una «luce totale»
senza ombre (i nostri eroi devono essere immacolati). All’inizio non
era possibile essere imparziali con Orage, dal momento che
eravamo incapaci di essere imparziali con chiunque, soprattutto con
noi stessi. Come egli diceva, «prima che possiate essere imparziali
con gli altri, dovete imparare a essere imparziali con il vostro
organismo: è uno degli scopi dell’insegnamento di Gurdjieff».
Ovviamente nel gruppo, tra gli allievi, c’erano differenze e conflitti
che davano luogo ad attriti, ma questo serviva solo a rendere più
profonde le radici e a saldarci in una sorta di fratellanza. Ma è facile
attaccarsi emotivamente alle persone, si vuole dare tutto subito, e
quando l’altro inevitabilmente fa qualcosa che non ci pare «giusto»
reagiamo negativamente e con forza, avviando una catena di
sofferenza che diventa fonte di male. «L’amore emozionale, che sia
per un uomo, per una donna, o per una causa, evoca l’opposto»,
disse Orage.

Un’allieva, che a volte sprofondava nell’autocommiserazione, stava


dicendo quanto difficile fosse la vita, e come tutto e tutti
sembravano darle contro; se le cose e le persone fossero state
differenti, la vita sarebbe stata vivibile. Sapeva di essere un verme,
ma non sapeva che cosa fare. Orage si limitò a ripetere i versi di una
canzone:

Vorrei essere un elefante,


e poter prendere le noci di cocco con il naso,
ma non sono, ahimè non posso essere, un elefante,

123
ma sono uno scarafaggio e un insetto d’acqua; e posso
strisciare in giro e nascondermi dietro il lavello.

L’allieva cominciò a ridere e noi con lui. Orage, come Gurd- jieff,
era in grado di far emergere il nostro senso dell’umorismo e farci
ridere di noi stessi.
Di tanto in tanto ci dava esercizi facili, «da asilo» diceva lui. Ci
disse di scrivere un elenco di quelle che secondo noi erano le nostre
caratteristiche positive o «buone», e a fronte un elenco delle
negative o «cattive»; di mettere via il foglio e di rileggerlo un paio
d’anni dopo. Feci la lista e me ne dimenticai. La ritrovai fra altre
carte due o tre anni dopo e la lessi. Fu uno shock vedere che nessuna
di quelle che avevo ritenuto buone caratteristiche - e la lista era
piuttosto lunga - esisteva davvero; le mie vere caratteristiche erano
quasi esattamente l’opposto delle buone. Avevo visto la realtà - la
realtà su me stesso - capovolta. Io ero sottosopra e capovolto.
In quel periodo ci diede altri due esercizi. Uno consisteva nel
«rivedere gli eventi della giornata», un esercizio di memoria,
volontà e concentrazione. L’idea era che, prima di andare a
dormire, si doveva cominciare a contare lentamente due, quattro,
sei, otto, dieci e poi dieci, otto, sei, quattro, due e così avanti, fino a
cento. Avviato il ritmo dovevamo cercare di rappresentarci in modo
imparziale - mentre ci alziamo dal letto, ci vestiamo, facciamo
colazione, andiamo in ufficio, in autobus, incontriamo persone e via
dicendo, fino a quando andiamo a dormire - come se stessimo
guardando un film non molto interessante, per non identificarci.
«Non pensateci su», disse, «pensarci falsificherà l’immagine.
Durante il riesame avrete momenti di disattenzione e smetterete di
contare. Dovete rattoppare la pellicola e ricominciare a contare.
Inoltre vorrete addormentarvi e sarà necessario un grande sforzo
per continuare. E spesso, quando andrete a letto, vi dimenticherete
di farlo. Quando si tratta di veri esercizi, l’organismo cospira per
farvi dimenticare».
L’altro era un esercizio di attenzione.
«Prendete l’orologio e fissate lo sguardo sulla lancetta dei
secondi, osservatela mentre fa un giro di un minuto e senza la

124
i
sciar vagare gli occhi. Quando siete ben sicuri di poter focalizzare
l’attenzione per un giro, avrete iniziato a sviluppare il potere di
pensare. Una volta che ci siete riusciti, mantenete il centro
dell’attenzione sulla lancetta piccola e contate mentalmente da imo
a dieci e ritorno. Qui ci vuole una doppia attenzione: una per il
movimento della lancetta e l’altra per contare. All’inizio vi potrà
sembrare facile, ma andate avanti finché diventa difficile. A questo
punto, continuate a mantenere lo sguardo sulla lancetta in
movimento e proseguite con il conteggio mentale, poi
contemporaneamente ripetete interiormente il verso di una poesia.
Fatelo per due o tre minuti».
Molto tempo dopo vennero dati esercizi assai più difficili; ma i
più difficili erano quelli di Gurdjieff, fatti solo sotto la sua direzione.
Alcuni riguardavano l’uso cosciente dell’aria e delle impressioni.

Durante l’inverno Orage sentì regolarmente Madame de Hartmann.


Gurdjieff si stava riprendendo. Aveva acquistato una vecchia e
grande vettura e girava di nuovo in compagnia, guidando
personalmente. Talvolta faceva alzare i suoi compagni di viaggio
alle sei del mattino di fredde giornate invernali. Lasciava il tepore
dell’hotel e guidava senza aprire bocca finché, ore più tardi, si
fermava per un caffè. Stava facendo sforzi tremendi per superare la
reticenza del corpo planetario malato, che voleva prendersela
comoda, stare disteso e non fare nulla. Qualcuno nel nostro gruppo
disse: «Ma la gente comune fa già sforzi terribili come questo.
Pensiamo a cos’hanno fatto gli uomini in guerra!» La differenza era
che in guerra gli uomini fanno sforzi sotto costrizione.
«Allora», disse un altro, «in questo sforzo di Gurdjieff lei vede
un esempio di vera volontà?»
«Sì», rispose Orage, «come ho detto, può definirsi vera volontà
solo quella che nasce in modo autonomo, non da un obbligo, o da
un desiderio dell’organismo. E lo sforzo per realizzare il desiderio di
“Io”, non di “lui”. Gurdjieff fa sforzi da elefante, noi da formiche».
Uno chiese: «Come posso cominciare ad avere una vera
volontà?»

125
«Prenda un capriccio innocuo che sa di avere», disse Orage, «e si
sforzi di soddisfarlo. Un qualcosa che desidera fare da tanto tempo,
e si obblighi a portarlo a termine. Così proverà il gusto di una vera
volontà. Spesso bisogna sforzarsi di più per le cose che vogliamo
fare che non per quelle che non vogliamo fare. H nostro
puritanesimo distorto ci suggerisce che se ci “neghiamo” qualcosa,
facciamo cosa gradita a Dio.
Quando l’inglese medio, o l’americano puritano, fa qualcosa di
veramente piacevole, spesso prova un senso di colpa e deve
inventarsi una scusa che glielo giustifichi come un “bene”,
soprattutto se ci sono di mezzo il vino o le donne. Soddisfare i
capricci innocui è un mezzo per acquisire la vera volontà, ma non
incoraggiateli».

In marzo Orage ci disse che aveva ricevuto un manoscritto dal


Prieuré. Gurdjieff l’aveva scritto in armeno; era stato tradotto in
russo da Madame Galumian, un’allieva armena, e poi in inglese dai
russi che parlavano inglese, con le correzioni di allievi inglesi non
molto preparati.
«Gliel’ho rispedito», disse, «e ho detto loro che è totalmente
incomprensibile. Non ho idea di cosa sia. Ma Madame de Hartmann
dice che Gurdjieff ha deciso di scrivere un libro in cui raccoglierà il
corpo completo delle sue idee. Se questo capitolo è un esempio,
posso solo augurarmi che non lo faccia. Non ne vedo lo scopo».
A ogni modo, non molto tempo dopo arrivò ima versione rivista
che Orage ci lesse. «Questa è tutta un’altra cosa», disse, «ora
comincio a fiutare qualcosa di molto interessante».
Ce la lesse più volte, ma non riuscimmo a ricavarne molto.
Presto però, qualcosa cominciò a lavorarci dentro, e man mano che
arrivarono altri capitoli, l’impatto sui sentimenti fu più forte. Il
titolo del libro sarebbe stato I racconti di Belzebù o Critica
oggettivamente imparziale della vita dell’uomo. Nel corso di un viaggio
su un’astronave assieme al suo compagno Ahun e al nipote Hassin,
Belzebù riporta a quest’ultimo le proprie osservazioni sulla vita
dell’uomo sulla Terra, osservazioni fatte nel corso delle sue discese
sul nostro pianeta da Marte. Alcuni del gruppo dissero che lo stile
assolutamente insolito era un

126
I
macigno. Orage disse che era molto più comprensibile del- YUlisse
di Joyce o del libro di Gertrude Stein, entrambi recentemente
pubblicati in America su «The Little Review». Uno del gruppo, che
era scrittore, diede voce ai nostri pensieri. Disse: «Orage, se lei vuole
trascriverlo in un inglese chiaro, ha un grande lavoro da fare. Per
cominciare, lo stile è scoraggiante, inoltre risulta totalmente
incomprensibile al lettore medio. E non è corretta neppure gran
parte della grammatica e della punteggiatura».
«Non ho intenzione di riscriverlo», disse Orage. «Infatti, a parte
l’editing generale, lo lascerò così com’è, probabilmente fino alla
revisione finale, una volta che verrà fatta. Il libro prenderà forma. E
pieno di idee. Per come la vedo, è davvero un lavoro d’arte
oggettiva, letteratura di massimo livello; rientra nella categoria
delle Scritture. Sembra che Gurdjieff lo abbia concepito quand’era a
letto, dopo l’incidente. È pensato coscientemente, per avere un
effetto preciso su tutti quelli che sono attratti a leggerlo. Chiunque
tentasse di riscriverlo lo deformerebbe».

Non posso dire che avevo capito molto, e forse neanche qualcosa,
dell’aspetto teorico del sistema di Gurdjieff; per me all’inizio il
lavoro fu, per fortuna forse, tutto pratico; ma il solo sforzo di
tentare di comprendere il sistema ebbe l’effetto di far lavorare la
mia testa pigra. Stavo cominciando a vedere la differenza tra il
pensare con le emozioni e il pensare con la mente, e a notare la
differenza tra emozione e sensazione. Notai anche ima lieve,
seppure percepibile forza crescente nel plesso solare, una riduzione
di quell’acuto senso di angoscia che, di fronte a un rifiuto, a volte mi
piegava in due - una debolezza ereditaria accentuata dalla guerra
(Orage disse che in alcuni insegnamenti orientali il plesso solare è
considerato la zona del potere, o della volontà reale). Cominciai a
essere in grado di confrontarmi con persone e situazioni con
maggiore destrezza.
La mente di Orage stimolava anche le altre; era viva, molto
diversa dalle menti dei rigidi «intellettuali» ai quali mi ero unito nel
Club 1917 a Londra, i cui discorsi erano soltanto un flusso di
associazioni che scorreva dai loro apparati formatori.

127
Orage sentiva e pensava bene. E sebbene non potesse tenergli testa
nessuno di noi e nessun intellettuale - nemmeno il mio vecchio
amico C.K. Ogden -, egli, come Gurdjieff, riusciva a mettere a
proprio agio la persona più semplice.

Fu in quell’anno, il 1925, che mi resi conto per la prima volta della


«emozione negativa». Un giorno, quando un allievo del gruppo di
New York mi parlò del mio atteggiamento nei suoi confronti - «lei
ha una quantità terribile di emozione negativa» -, rimasi indignato e
ne parlai con Orage. Egli disse: «Una delle cose per cui devo
ringraziare Gurdjieff (e Ouspensky per aver trasmesso l’idea) è
l’insegnamento sulle emozioni negative, o basse. Lei stesso dà sfogo
all’emozione negativa molto prontamente. È suscettibile, si offende
facilmente, cova risentimento, non riesce a tollerare la minima
critica; ed è lo stesso per quasi tutti. L’emozione negativa non è
conscia, perciò è male». Fu uno shock. Non avevo mai pensato alla
mia sofferenza come a un’emozione negativa, ma come all’effetto di
una «pressione sullo spirito», l’effetto della guerra, di ima cattiva
salute per colpa della vita in trincea. Fu una sorpresa realizzare che
tutto poteva riassumersi nell’espressione «emozione negativa». Ora
il lavoro preparatorio svolto durante la permanenza al Prieuré mesi
prima mi permetteva di affrontare la realtà della mia negatività. Ma
una cosa è saperlo con la mente, tutt’altra comprenderlo.
Orage disse: «Se riversiamo la nostra sofferenza sugli altri,
diventa “male” che, come dice il professor Saurat ne Le tre
convenzioni, è “sofferenza separata dalla creazione”. I santi sono
mangiatori di sofferenza: la consumano, la trasformano e la usano
per la creazione dell 'essere. Quando ci crogioliamo
nell’autocommiserazione, nel risentimento, nell’odio irrazionale
verso gli altri, diventiamo canali di sofferenza, la trasmettiamo. La
pietà è divina, l’autocommiserazione è diabolica. Non vogliamo
affrontare il fatto che spesso siamo pieni zeppi di sentimentalismo,
di autocommiserazione. L’autocommiserazione è una malattia delle
emozioni; è dispiacersi per sé stessi e biasimare genitori, condizioni,
persone per la miseria della propria condizione; questa
autocommiserazione è una delle manifesta

128
zioni dell’emozione negativa che ci rende antipatici agli altri, dove
spesso, dietro una vile umiltà e la sensazione di sentirsi dei vermi, si
nasconde l’arroganza e una smodata opinione di sé stessi».
«Ma c’è una sofferenza utile?», chiesi.
«Sì, ci può essere. Ma la domanda che deve fare è: “Che tipo di
sofferenza?” Secondo Gurdjieff, se accettiamo la nostra sofferenza
senza risentimento o lamenti, stiamo pagando un vecchio debito
oppure stiamo preparando un merito futuro».

L’espressione «emozione negativa» è utile, perché fa grande


chiarezza sul sentimento che muove l’attività umana. Quasi tutta la
cronaca e le «notizie» sui giornali hanno a che fare con l’emozione
negativa. Devo dire che al Prieuré non avevo mai sentito
quest’espressione, né Gurdjieff usarla.
Ci sono talmente tante di queste emozioni negative, che la
lingua inglese deve utilizzare moltissimi termini ed espressioni per
indicarne i vari tipi e sfumature. Ad esempio, eccone alcuni che
iniziano con la «D»: despondency (sconforto), dejection
(abbattimento), depression (depressione), despair (disperazione),
doleful (triste), downcast (abbattuto), drooping (languente), dismayed
(costernato), disheartened (scoraggiato), dispirited (depresso), dreary
(tetro), dread (timore), dumps (umore nero), disconsolate (sconsolato),
desolate (afflitto), disgust (disgusto), discontented (malcontento),
dissatisfied (insoddisfatto), disappointment (disappunto). Si potrebbe
continuare per pagine; ancora altri termini: permalosità, irritabilità,
animosità, calunnia, risentimento; e tutto ciò che si collega al
termine «accidia», o «acedía». Poi ci sono quelli di base come odio,
gelosia, rabbia che hanno un aspetto positivo e negativo. «Invidiato
da imitare» dice Gurdjieff. «Mai temere di odiare l’odioso», dice
Orage. Belzebù parla degli esseri di questo pianeta, che conoscono
solo la forza che nega, dalla quale scaturiscono le emozioni
negative. Poi ci sono le varie forme di sentimentalismo:
l’atteggiamento degli inglesi con gli animali, in cui il
sentimentalismo si maschera da filantropia. Sono negativi anche
l’introspezione, l’inutile biasimo di sé stessi, alcuni tipi di «amore».
La vita ordinaria, sociale e d’affari è perlopiù una garbata ma-

129
schera di facciata dietro la quale si nasconde una massa ribollente di
emozioni negative.
La depressione è una forma comune di emozione negativa. Per
alcuni è una sorta di malattia che si manifesta a periodi, addirittura
con regolarità, in certi momenti dell’anno. Per uscirne, qualcuno
prende droghe o beve. Le cause sono varie: il cibo, il clima, il sesso
insoddisfatto o un consumo eccessivo di energia sessuale, mancanza
di denaro, influenze planetarie; per qualcuno è ereditaria. Il
giardinaggio e un certo genere di artigianato sono tra le cure
migliori, come pure lavare i piatti, ripulire un ripostiglio: un lavoro
fisico di vario tipo. Una cura quasi infallibile consiste nel fare questi
lavori ricordandosi di sé, ed eseguire il compito più lentamente o
più rapidamente del solito. La difficoltà sta nello sforzo iniziale. Ma,
come diceva il padre di Gurdjieff, «una volta che te lo sei caricato
sulle spalle, è la cosa più leggera del mondo».
Che cosa è «negativo»? E ciò che manca di attributi positivi. È
un meno, la negazione di qualcosa, ciò che nega: l’oppositore, il
diavolo, l’avversario. Essere negativo significa essere passivo
quando bisognerebbe essere attivo. La negatività è la parte della
santa Negazione, il Dio forte, che in noi si è distorto e corrotto, ciò
che in noi si è rovinato. Ma i rifiuti e la sporcizia buttati nel
compostaggio possono trasformarsi in terreno profumato che fa
crescere fiori e frutta. Lo stesso vale per noi.
San Paolo, che comprendeva questo sistema interpretandolo nei
termini del suo tempo, disse: «Ecco, vi svelo un mistero: noi non
morremo tutti ma saremo trasformati, in un attimo, in un batter
d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Squillerà, infatti, la tromba e
i morti risorgeranno incorruttibili. Perché è necessario che questo
corpo corruttibile si rivesta d’incorruzione e che il nostro corpo
mortale si rivesta d’immortalità; allora avrà compimento la parola
che fu scritta: “La morte è stata assorbita nella vittoria”». Non si
tratta di una condizione futura immaginaria, ma di un processo
psicologico che può avverarsi ora.
Al Prieuré veniva espressa tantissima emozione negativa.
Gurdjieff rimproverava raramente gli allievi giovani che stavano
vivendo uno stato di collera e risentimento, ma diceva

130
loro poche parole e quelli si fermavano istantaneamente, come
risvegliati. Al momento opportuno egli provocava una
manifestazione di emozioni negative perché, finché non ci si
rendeva conto di averle, erano inutilizzabili. Se represse, si
inacidiscono e diventano velenose; se espresse, sono distruttive, e
così la vita è quello che è. Solo l’alchimia del Metodo può
trasformarle. Le emozioni negative sono la materia grezza che
possiamo usare per lavorare su noi stessi. Sono come il vapore che
spinge i pistoni. L’energia controllata seguendo il Metodo è
benefica, quella incontrollata è dannosa.
Trattenersi dall’esprimere emozioni negative può essere
positivo e produttivo solo se accompagnato dallo sforzo di ricordare
sé stessi. L’emozione negativa può diventare positiva solo in uno
stato di ricordo di sé.
Quando parlava della forza che nega, a volte Gurdjieff usava il
termine dabbel. «Vuoi essere angelo», diceva, «ma dab- bel anche
necessario. Angelo può fare una cosa, dabbel può fare tutto».
Ecco un estratto di alcune conversazioni che ebbi con F.S.
Pinder: «La negatività è un “niente”, anche se c’è un qualcosa di
attivo nel suo propagarsi ad altre cose che hanno la possibilità di
essere “qualcosa” o “nulla”. È un meno, un fattore diminutivo
rispetto a qualsiasi attività potenziale. È un qualcosa che attira a sé
l’energia. In senso esclusivamente oggettivo, è un ricevente, un
Passivo su qualsiasi scala cosmica, con l’unico scopo di generare e
procurare ai processi cosmici un mezzo per trasformare in un Attivo
ciò che viene concepito.
“La causa di ogni malinteso va cercata solo nella donna”: è un
linguaggio simbolico, non letterario. Perciò, se ci pensiamo e
riflettiamo, vediamo che un maschio Passivo-Attivo anziché
Attivo-Passivo è una mostruosità, una “scimmia”; come lo è la
femmina Attiva-Passiva e non Passiva-Attiva, come dovrebbe
essere: le suffragette, la donna importante che porta i pantaloni,
molte intellettuali e donne della vita pubblica; sono una specie di
qualità negativa. Nel Faust di Goethe il Diavolo dice: “Ich bin der
Geist der stets verneint” — “Io sono lo spirito che sempre nega”, e
anche “Das ewige Weibliche ziet uns binari” - “In alto ci attira l’eterna
femminea essenza”.

131
“Sì”, l’affermazione o risposta attiva; “no”, la negazione o
cedevolezza. L’una “ostacola” sempre l’altra o la supera, la schiaccia.
Oggettivamente, qualsiasi calo della forza del “sì” in relazione al
“no” e viceversa sfocia nella psicopatia: le forze si devono
pareggiare, e da questo equilibrio si arriva al sentimento.
Consideriamo il centro intellettuale: la parte intellettuale dice
“sì”, la parte motoria dice “no”, la conciliante dice “cinquanta e
cinquanta”, e realizza una fusione, un semplice noumeno o
concetto, un pensiero oggettivo in potenza ma che è incompleto,
non è un tutto, perché noi abbiamo tre centri che devono
funzionare tutti allo stesso modo; e quando tutti e tre i centri
lavorano al massimo delle vibrazioni e in armonia, un grande “sì”
opposto a un grande “no” dà luogo a un grande sentimento.
Non abbiamo raggiunto quello stato.
Dobbiamo ancora combattere contro le emozioni negative che
condizionano le parti emotive dei centri intellettuale e
istintivo-motore.
Consideriamo le sensazioni del centro istintivo-motorio.
Possono essere un più o un meno, affermative o negative, piacevoli
o spiacevoli, necessarie alla nostra esistenza, come quando,
assaggiando un pezzo di carne, sentiamo che è andata a male e
l’organismo la rifiuta. Stessa cosa con l’aria, fresca o viziata, con il
freddo e il caldo; possiamo utilizzare questi istinti positivi e negativi
per vivere con il minimo disagio; e negli spostamenti, quando siamo
stanchi di camminare, ci sediamo o torniamo indietro.
Lo stato di noia è negativo; la noia inizia quando la mente non
partecipa e influenza l’apparato formatore attraverso i centri del
pensiero e dell’emozione.
Un’emozione significa davvero “innalzarsi” o “sprofondare”.
“L’amore emozionale evoca l’opposto”, e possiamo osservare che la
gioia sfrenata, la fiducia eccessiva, un eccesso di felicità,
affiatamento, simpatia ecc. (in genere considerati positivi) possono
facilmente trasformarsi nell’opposto, in quanto normalmente non
abbiamo emozioni permanenti o stabili come dovremmo; nello
stato ordinario di coscienza in cui tutti ci troviamo, non è possibile.
Troviamo ovunque esempi di amore che si trasforma in odio e
gelosia, da cui la possibilità di perdere chi o cosa amiamo.

132
Possiamo vedere emozioni negative permanenti intorno a noi e
in noi, nelle manifestazioni di scontrosità, irritabilità, vanità,
egoismo, egotismo, presunzione, vanteria e via dicendo; sono
permanenti finché non ci svegliamo e le combattiamo “su per l’erta
china”, e allora un po’ alla volta possono essere trasformate».
Gurdjieff ci rammentava costantemente e in tutti i modi possibili
che «anche dabbel è necessario», ma che non dobbiamo restare
passivi e non permettere a noi stessi di essere schiavi della nostra
parte che nega, delle nostre emozioni negative. Diceva che non
dobbiamo sottometterci alla nostra parte passiva rappresentata dalla
donna; l’uomo non avrebbe dovuto essere dominato dalla moglie o
dall’amante.
Varrò riporta le parole di Socrate: «I difetti della moglie
andrebbero distrutti o sopportati. Aiutandola a sbarazzarsene, il
marito la rende più gradevole, e sopportandone i difetti diventa un
uomo migliore».
Quando Alcibiade, esempio di vita ordinaria, chiese a Socrate
perché sopportasse ima donna così brontolona e mordente come
Santippe, egli rispose: «Sopportandola a casa, faccio l’abitudine ma
anche un esercizio che, quando esco, mi permette di sopportare
l’ostilità e gli insulti delle persone».
Parte della pratica di Gurdjieff consisteva nel far emergere e
sviluppare la parte attiva negli allievi maschi, e la passiva nelle
donne; faceva emergere la mascolinità negli uomini e la femminilità
nelle donne. Gli uomini dovevano imparare a essere attivi con sé
stessi, con la propria inerzia, le proprie debolezze, e nelle relazioni
con gli altri uomini e donne; la parte attiva dell’uomo si sviluppava,
come pure la passiva, la parte creativa, e naturalmente anche quella
conciliante.
È possibile usare coscientemente, in modo particolare, una
caratteristica come la vanità e trame benefìcio. Tutto ciò che si
oppone al lavoro è negativo. La negatività è meccanicità
incosciente, perciò è male.
Uno scrittore, seguace di Adler e molto noto a Londra, una
volta mi disse: «Uno degli effetti sorprendenti dell’insegnamento di
Gurdjieff sugli allievi è che gli uomini - perlomeno quelli che ho
conosciuto - diventano più virili e le donne più femminili».

133
TV Vf

Nella primavera del 1925 tomai in Inghilterra per comprare dei


libri. Da lì a Parigi, Vienna, Berlino sempre per acquisti di vecchi
libri e stampe. Dopo aver sistemato gli affari andai in vacanza a
Antibes, e da lì a Fontainebleau.
Gurdjieff mi accolse dicendo: «Ah, Mister America, prima deve
fare bagno turco e liberarsi dell’odore americano, poi possiamo
parlare».
«Ma non sono americano, sono inglese!»
«Lei Mister America. Odore americano, odore inglese, stessa
cosa, uno peggio dell’altro».
E così per due anni continuò a chiamarmi Mister America, fino
a quando capii che voleva mostrarmi da un lato come stessi
inconsciamente assumendo ima personalità americana; e dall’altro
che, dopo aver represso i sentimenti come fanno gli inglesi, adesso
cominciavo a emozionarmi a ogni occasione, come fanno gli
americani. Faceva parte del processo per farmi notare degli aspetti
di me, in modo da avere una misura dell’individualità reale che si
sarebbe sostituita alla mia mutevole personalità; l’individualità
basata su ima consapevolezza di me stesso.
A quell’epoca, nel maggio del 1925, sebbene avesse ancora
problemi agli occhi e dovesse riposarsi parecchio, Gurdjieff si era
ristabilito quasi del tutto. Stava anche mettendo su peso, infatti era
più pesante e massiccio in tutti sensi dell’essere e tuttavia,
paradossalmente, era più leggero: irradiava più «luce». La vita al
Prieuré seguiva il solito corso, sebbene mancassero alcuni volti
familiari. Il sabato c’era il bagno turco e i pasti si tenevano nella sala
da pranzo inglese. Erano ricominciate le danze alla Study House e
Hartmann suonava la musica delle danze come pure inni di
Gurdjieff e altri brani. Gurdjieff ci aveva nuovamente assegnato dei
compiti nella foresta e nei giardini, ma egli non vi prendeva parte
attiva. Aveva ripreso gli spostamenti al suo appartamento al
Boulevard Pereire e le sedute al Café de la Paix. E guidava un’altra
piccola Citroën.
Ora la sua principale occupazione era scrivere, e tutto e tutti
venivano impiegati per sostenere lo scopo di completare I racconti di
Belzebù. Si portava sempre dietro una scorta di quader-

134
netti e matite, e scriveva ovunque e a qualunque ora, nella sua
stanza, in giardino, nel café a Fontainebleau e al Café de la Paix a
Parigi, e durante le soste nelle gite in campagna. Ma spesso scrivere
gli costava uno sforzo, allora per obbligare l’organismo a lavorare
ricorreva a degli espedienti. Per esempio, portava al café due o tre di
noi per parlare. Le idee iniziavano a scorrere ed egli tirava fuori
carta e matita e si metteva a scrivere, mentre gli altri conversavano
o sedevano in silenzio. Una volta mi chiese di incontrarlo al Café de
la Paix alle undici del mattino seguente. Era lì e sembrava osservare
il flusso del traffico e delle persone. Mi chiese cosa volessi bere.
«Armagnac», dissi. Lo ordinò, bevemmo e iniziò a scrivere. Scrisse
per due ore senza dire una parola, eccetto che per ordinare caffè o
bibite. All’una si fermò.
«Vede quanto ho fatto», disse. «Molto buon lavoro questa
mattina. Ora porti questo al Prieuré e chieda a Madame de
Hartmann di farlo scrivere a macchina». Fu tutto. Era come se per
tutto il tempo che ero rimasto lì, fossi stato caricato di elettricità,
magnetizzato dall’energia di Gurdjieff, come se fosse passata tra noi
una corrente. Ero arrivato stanco, apatico e apparentemente per due
ore non avevo fatto nulla; ora ero ricolmo di energia traboccante,
come una batteria. Di fatto, avevo compiuto uno sforzo per essere
interiormente attivo, non passivo o irrequieto. Avevo anche
imparato una cosa: mi ricordai di quanto mi aveva detto un rishi in
India: un maestro può insegnare all’allievo senza pronunciare una
parola. Come dice una massima cinese: «Ci sono momenti in cui è
necessario non fare nulla, senza però essere inerti».

Quell’estate al Prieuré non ci furono nuovi arrivi. Orage giunse


subito dopo di me, in seguito arrivarono dall’America altre due o tre
persone. E pioveva, pioveva continuamente; era una tipica estate
piovosa della Francia settentrionale, in cui fa sempre umido; nubi e
pioggia tiepida, settimana dopo settimana, e ogni tanto un’oretta di
sole caldo, come un’umida estate inglese o a Long Island, in
America.
Una di quelle umide mattine, Orage e io eravamo seduti nella
sala da pranzo russa, chiacchierando e bevendo una tazza di tè.
Entrò Gurdjieff tutto elegante, con un abito grigio chiaro e un

135
bastone da passeggio. Si fermò, si sedette al tavolo e accese una
sigaretta. Poi cominciò a parlare dell’incidente. Disse che su quel
tratto di strada tra Parigi e Fontainebleau aveva preso l’abitudine di
sporgere il braccio dal finestrino e prendere una mela da un filare di
alberi che cresceva in quel punto. Quella volta, mentre lo stava
facendo, la ruota dell’auto doveva aver urtato qualcosa, perché non
ricordava nulla di cosa fosse accaduto dopo. Disse che, senza
rendersene conto, probabilmente aveva preso un cuscino dalla
macchina e se lo era messo sotto la testa, per impedire la fuoriuscita
di sangue. Non capii altro del resto della storia. Parlò per parabole,
inviando un qualche messaggio a Orage. Dopo una pausa, in cui si
accese un’altra sigaretta, continuò: «Vede, Orage, quando dà
qualcosa a un uomo o fa qualcosa per lui, la prima volta quell’uomo
si inginocchia e le bacia la mano, la seconda si toghe il cappello, la
terza si inchina, la quarta è contento, la quinta fa un cenno, la sesta
la insulta e la settima le fa causa perché non gli ha dato abbastanza».
Poi, lanciandomi un’occhiata, disse: «Lo sa, Orage, dobbiamo pagare
per ogni cosa». Quando se ne andò chiesi a Orage cosa volesse dire.
«Probabilmente si riferiva a noi, perché non sappiamo come dare»,
rispose. «Pare che nessuno di noi abbia ancora imparato. Forse
Gurdjieff stesso ha dovuto imparare a dare».
Orage riversava sempre affetto sulle persone; io, per timore, mi
trattenevo sempre. A un allievo più anziano, non a Orage, Gurdjieff
ima volta disse: «Lei mi vuole troppo bene. Quando mi lascerà
soffrirà, perché mi vuole troppo bene».
Riflettendo su quanto aveva detto Gurdjieff, cominciai a capire
che bisognava pagare per tutto, anche per la salvezza. Gesù ha detto:
«Non potrete andare avanti finché non avrete pagato fino all’ultimo
soldo». Per ogni cosa che abbiamo, qualcuno ha dovuto pagare con
fatica, con sudore o con una qualche sofferenza o un conflitto. E
dobbiamo imparare a pagare i nostri debiti, imparare a pagare per la
nostra salvezza, perfino in denaro. C’è un vecchio adagio inglese:

Quello che conservavo, l’ho perso.


Quello che avevo, l’ho speso.
Quello che ho dato, l’ho conservato.

136
Venne chiesto a un russo che cosa avesse fatto per lui il comuniSmo.
Egli disse: «Prima della Rivoluzione, per me una pagnotta era solo
una pagnotta in un negozio. Ora, quando vedo una pagnotta vedo
anche i contadini che faticano al freddo, sotto la pioggia e al sole
torrido per coltivare e mietere il grano; vedo i mulini che lo
macinano e i panettieri che lo impastano; mi rendo conto di tutto
quello che la preparazione di una pagnotta comporta». A ogni modo
non c’è bisogno di una rivoluzione per diventare capaci di vedere e
percepire la realtà.

All’inizio di quell’anno Gurdjieff introdusse la scienza dell’idiozia e


il rituale del brindisi agli idioti. All’inizio sembrò un modo per
animare i pasti e renderli più interessanti. Ma in breve si capì che
rappresentava qualcosa di molto serio e profondo nello studio di sé
stessi e degli altri. Gurdjieff usava il termine «idiozia» un po’
nell’antica accezione greca, un po’ nel senso medievale inglese. Fin
dal tempo di Donne, «idiozia» significava l’idioma o il linguaggio
tipico di un Paese, il carattere peculiare o distintivo di una lingua, o
una deviazione dalle sue rigorose regole sintattiche. Nel 1631
Donne scrisse: «Sono il linguaggio e l’idiozia della Chiesa di Dio da
intendere come Articolo di Fede...» Nel 1440 Capgrave scrisse:
«Sant’Agostino disse “sii giusto come i dodici idioti”. Intendeva i
dodici apostoli, perché essi non erano istruiti». Jeremy Taylor parla
de «Il santo idiota innocente o la semplice gente profana». In greco
con «idiota» si intendeva una persona riservata e che aveva qualcosa
di suo. Ma Gurdjieff attribuiva al termine altri e più profondi
significati. La sua comprensione della psiche umana era tale che
l’attribuzione di «idiota» a una persona aveva quasi del miracoloso,
perché offriva agli altri un indizio sullo schema di comportamento
dell’uomo, anche se ci voleva parecchio tempo prima che
l’interessato lo vedesse da sé. Gurdjieff diceva che la scienza
dell’idiozia era uno specchio in cui l’uomo poteva vedersi. Non tutti
avevano diritto a essere inclusi in una delle sue categorie, che erano
ventuno in tutto. A parte i brindisi, durante la giornata di lavoro
egli poteva dare dell’idiota a qualcuno - doorak - nel significato
opposto, intendendo che quella persona era sciocca.

137
Sebbene al Prieuré ci fossero uomini e donne che Gurdjieff definiva
«rappresentanti dell’arte contemporanea», arte ai massimi livelli per
come la conosciamo - musica, pittura, design, canto e scrittura -,
non ricordo una sola discussione in proposito. Non che fosse
proibito, ma perdeva importanza davanti al nostro scopo in quel
luogo. Nell’ala ovest c’era una preziosa libreria in rovere istoriato,
una delle più belle che abbia mai visto; non conteneva un solo libro.
L’unico che lessi a Fontainebleau fu la Bhagavad Gita. In India
avevo incontrato Annie Besant, che mi aveva parlato della Gita e
dell’enorme serbatoio della letteratura indiana, di cui non sapevo
nulla. In seguito Orage parlò delle meraviglie del Mahabharata; la
Bhagavad Gita era una delle tante narrazioni di quella grande opera.
Eppure, prima di andare al Prieuré dove mi prestarono una copia,
non l’avevo mai letta. Fu una rivelazione. La lessi e rilessi, e da
allora è stata una fonte di conforto e di illuminazione. Servì anche
per introdurmi al Mahabharata che, alla fine, lessi da cima a fondo
almeno due volte.
La Bhagavad Gita mi capitò proprio quando la mente e i
sentimenti iniziavano ad aprirsi grazie al sistema. Ero disilluso dalla
religione ufficiale e dalla sua sterile moralità, e mi era impossibile
leggere la Bibbia. Molto tempo dopo, quando mi liberai dalle
vecchie associazioni, potei rileggerla, e i suoi insegnamenti
riapparvero in tutta la loro semplicità, profondità e rinnovata forza.
Iniziai a comprendere cose fino ad allora incomprensibili. Le
massime che avevo letto meccanicamente centinaia di volte
cominciarono a prendere un significato reale. E lo stesso accadde
con i detti dei maestri cinesi, come Lao Tzu, con la poesia sufi, con
gli insegnamenti gnostici, Socrate e Platone, e con gli egizi. In
Massime del Buddha si ritrova una descrizione quasi esatta dello
stato del «ricordo di sé» così come lo comprendiamo. Tutto ciò che
sono riuscito a cogliere dell’antica saggezza è un risultato del
sistema di Gurdjieff.
Oggi capisco di dovere molto anche alla fede semplice di mio
padre. Da giovane lasciò la chiesa anglicana e si unì ai metodisti di
Wesley: la religione dell’uomo numero uno che gli

138
permeò l’esistenza di una sorta di felicità interiore. Non aveva
dubbi che la forma wesleiana della religione fosse la migliore al
mondo e che, seguendola, un giorno avrebbe raggiunto la dimora
celeste. Mio padre era un uomo semplice e buono. In Incontri con
uomini straordinari, Yeloff, il venditore di libri, dice che le persone
hanno bisogno di una fede, e nessuno deve tentare di convertirle a
un’altra, perché è qualcosa che cresce dentro a partire dall’infanzia.
Sostiene che distruggere la fede di un uomo è un peccato grave. Ma
se si trova qualcosa in grado di ampliare la propria comprensione e
libertà interiore e lo si accetta volutamente, allora è diverso.
Gurdjieff, come pure Orage, era una persona religiosa non
ortodossa, ma religiosa nelVessenza. Un giorno, a pranzo, stava
spiegando come gli insegnamenti e la figura di Gesù fossero stati
distorti. C’erano due donne inglesi in visita, che cominciarono a
parlare in tono melenso di «Gesù e del suo amore». Gurdjieff disse:
«Odio il vostro Gesù, povero ragazzo ebreo», rimarcando il vostro.

Una sera a cena disse: «Una cosa importante. L’uomo non può
restare a lungo in imo stato soggettivo. Da uno stato soggettivo
possono scaturire molte cose. Non potete mai conoscere lo stato
soggettivo dell’altro; lo stato soggettivo di due persone non è mai lo
stesso, perché gli stati soggettivi sono come le impronte digitali,
differenti per ognuno. E nessuno può spiegare il proprio stato
soggettivo a un altro. Un uomo non sa veramente perché è
arrabbiato con voi. Potete dire: “Lui non è arrabbiato con me, il suo
stato è arrabbiato con me”. Ricordatelo, e non reagite mai con
l’interiorità, che è considerazione interiore, e non date spazio ad
associazioni di vendetta e risentimento. Augurare del bene può
avere effetto a grande distanza, così come augurare del male».

Una volta Gurdjieff stava scrivendo in giardino, e si spostò vicino ad


alcuni di noi, seduti ai tavoli all’esterno della sala da pranzo.
Cominciò a parlare di Triamazikamno, la Legge del Tre, delle tre
forze, tre princìpi. La sola cosa che ricordai di questa conversazione
fu il suo riferimento agli, antichi tulositi.

139
Più tardi, riprendendo ¡’argomento, un allievo tracciò il diagramma di un
simbolo nella Cattedrale di Tolosa. E presente anche in alcune chiese
inglesi.

Diagramma raffigurante la Legge dei Tre,


ritrovato nella Cattedrale di Tolosa e in alcune chiese inglesi

Lo studiammo e vedemmo la relazione tra il diagramma e il Credo di


Atanasio. Il Credo è una dissertazione sulla Legge del Tre, almeno nella
prima parte, e il diagramma è il simbolo di qualcosa di molto più antico
della cristianità. Il Credo assunse per me un significato molto diverso da
quello letterale che avevo sentito da ragazzo: tutti coloro che non
credevano, nel senso dato dalla Chiesa, di fatto erano condannati alle
sofferenze dell’inferno. Recita così:

Chi vuole salvarsi deve anzitutto essere di fede cattolica.


Chi non la preserva integra e inviolata di certo perirà in eterno.
La fede cattolica è questa: veneriamo un unico Dio nella Trinità
e la Trinità nell'unità.
Senza confondere le Persone e senza separare la Sostanza.

140
Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra
quella dello Spirito Santo.
Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale
gloria, coeterna maestà.
Come è il Padre, tale è il Figlio, tale lo Spirito Santo.
Increato il Padre, increato il Figlio, increato lo Spirito Santo.
Incomprensibile il Padre, immenso il Figlio, immenso lo Spirito
Santo.
Eterno il Padre, eterno il Figlio, eterno lo Spirito Santo.
E tuttavia non vi sono tre eterni, ma un solo eterno.
Come pure non vi sono tre increati né tre Incomprensibili, ma un
solo increato e un solo Incomprensibile.
Similmente è onnipotente il Padre, onnipotente il Figlio,
onnipotente lo Spirito Santo.
Tuttavia non vi sono tre onnipotenti, ma un solo onnipotente. Il
Padre è Dio, il Figlio è Dio, lo Spirito Santo è Dio.
E tuttavia non vi sono tre Dèi, ma un solo Dio.
Signore è il Padre, Signore è il Figlio, Signore è lo Spirito Santo. E
tuttavia non vi sono tre Signori, ma un solo Signore.
Poiché come la verità cristiana ci obbliga a confessare, ciascuna
Persona è Dio e Signore, così pure la religione cattolica ci proibisce
di parlare di tre Dèi o Signori.
Il Padre non è stato fatto da alcuno: né creato, né generato.
Il Figlio è dal solo Padre: non fatto, né creato, ma generato.
Lo Spirito Santo è dal Padre e dal Figlio: non fatto, né creato, né
generato, ma da essi procedente.
Vi è dunque un solo Padre, non tre Padri; un solo Figlio, non tre
Figli, un solo Spirito Santo, non tre Spiriti Santi.
E in questa Trinità nessuno viene prima o dopo, nessuno è più
grande o più piccolo: ma tutte e tre le Persone sono l’una all'altra
eterne e uguali.
Cosicché in tutto, come già è stato detto, va venerata l'unità nella
Trinità e la Trinità nell'unità.

Si tratta di una chiara esposizione, nel linguaggio della Chiesa, della


«santa Affermazione, santa Negazione, santa Riconciliazione», che
ne I racconti di Belzebù sono espresse nel linguaggio della scienza
oggettiva.
Chiunque sia Fautore del Credo, aveva compreso la Legge del
Tre, anche se dovette tradurla nel linguaggio religioso del

141
tempo. Perfino il nome Atanasio significa «il contrario della morte»,
morte: da Thanatos, «morte», e A privativa. La Legge del Tre
concerne la lotta che si svolge tra la forza attiva e passiva,
nell’universo e in noi, la lotta e la riconciliazione, il cui risultato
può cristallizzare, trasformare qualcosa in noi, su cui la morte
meccanica non ha potere. La morte perderà il suo pungiglione e la
tomba non trionferà. Una volta ancora non è soltanto poesia, ma
una cosa concreta, un processo psicologico.
Uno di noi disse: «Sono cresciuto nella religione cristiana, e mi
ha sempre colpito la differenza tra chi parlava dell’insegnamento di
Cristo, e si definiva cristiano, e il modo in cui si comportava».
Gurdjieff rispose: «Quella della cristianità è una grande questione.
In linea di massima ci sono tre tipi di cristiano; quello che desidera
essere cristiano, quello che desidera essere capace di esserlo e chi lo
è. Solo il terzo tipo può vivere seguendo gli insegnamenti di Gesù
Cristo, con l’essenza e con la mente. Un pre-cristiano è chi segue i
precetti cristiani solo con la mente; un non-cristiano, un pagano,
non può seguirli né con la mente né con l’essenza».

Uno degli addetti alla cucina, anziché fare il suo lavoro, si era
intrufolato nella sala da pranzo per ascoltare la conversazione.
Gurdjieff con tono di rimprovero disse: «Il suo compito adesso è in
cucina. Se lei trascura i compiti della vita, trascurerà questo lavoro.
Deve cercare di fare tutto bene, in ogni circostanza. L’aiuto è dato a
chi si aiuta nella giusta direzione. Se ci si impegna a fare tutto bene,
aiutiamo il lavoro, il maestro e il gruppo». Non riuscii ad afferrare il
seguito ma sentii: «Ricordi quello che scrivo in Belzebù, “Se devi
prendere, prendi. Ogni volta che faccio qualcosa, lo faccio in
abbondanza”».
kkk

Nel mese di novembre tornai a New York e lavorai con i gruppi per
tutto l’inverno, fino all’inizio della primavera. L’estate successiva
quella del 1926, ero di nuovo al Prieuré. Nel salone era stato
sistemato un piccolo organo a canne, e ogni giorno Hartmann
suonava la musica di Gurdjieff. Ascoltarla da un organo ne dava una
rinnovata comprensione. Durante quell’estate e in autunno

142
Gurdjieff compose molti brani, arrangiati da Hartmann; tra questi,
la musica per Pasqua e Natale: Santa Affermazione, Santa Negazione,
Santa Riconciliazione e gli Inni da un grande tempio. La musica veniva
suonata quasi ogni giorno, al pomeriggio e alla sera. Tutti quelli che
potevano interrompere il lavoro, andavano nel salone e sedevano in
silenzio. Nei fine settimana, quando di solito cera parecchia gente,
Hartmann suonava molti brani. Alcuni erano così commoventi da
risultare quasi insostenibili, e le lacrime incontrollate ci rigavano le
guance; bisognava ricordare sé stessi con tutte le forze per non
dover uscire dalla sala. Hartmann disse che alcuni pezzi erano fin
troppo difficili da eseguire persino per lui. Uno di questi consisteva
in accordi lenti e solenni di un’armonia quasi divina, e nelle
armoniche superiori si riusciva a cogliere una sorta di canto gioioso,
come la voce di un serafino. Non ho mai sentito nulla di simile a
questi inni di Gurdjieff, eccezion fatta forse per alcune musiche
della Chiesa degli inizi, come quelle che si possono ascoltare a
Notre-Dame, o alcune di Bach, che a volte toccano il centro
emozionale superiore.
Quando si ascoltava la musica, si poteva osservare in sé stessi lo
svolgersi di tre processi distinti e simultanei, nel centro mentale,
nel centro emozionale e nel centro istintivo.
Veniva in mente Madame Vivitskaya, nella storia del principe
Lubovedsky di Incontri con uomini straordinari. Era in viaggio con il
gruppo di Gurdjieff in Asia Centrale. Si erano fermati in un
monastero dove avevano sentito una musica che aveva destato
molto interesse e li aveva commossi profondamente. Il giorno dopo
la partenza, chiesero a Madame Vivitskaya perché avesse il dito
fasciato. «È stata quella dannata musica», disse. L’effetto era stato
così forte che non era riuscita a chiudere occhio. Si era rosicchiata il
dito, scervellandosi sull’effetto prodotto su di sé dalla musica.

Un giorno, dopo il pranzo nel salone inglese, c’era stata una lettura
da I racconti di Belzebù, il capitolo sul purgatorio. In risposta a
un’osservazione, Gurdjieff cominciò a parlare degli «angeli
sciocchi» e disse che se un uomo lavora su di sé e si purifica dagli
elementi indesiderabili, sarà migliore di un angelo, sarà un essere
con maggiore comprensione ed esperienza. Uno di noi, che forse

143
aveva bevuto un bicchiere di Armagnac di troppo, fece una
domanda e cominciò a fare il saccente. Gurdjieff, girandosi verso di
lui, lo rimproverò perché non stava tentando di comprendere, il
che, per associazione, mi riportò alla mente un brano della Pi- stis
Sophia. Andrea dice a Gesù: «Non essere in collera con me, ma abbi
pazienza, e rivelami il mistero: mi è difficile e io non capisco». Gesù
disse: «Chiedi allora, e io spiegherò chiaramente». Disse Andrea:
«Per me è fonte di meraviglia come gli uomini di questo mondo, con
un corpo materiale, quando lasciano questo mondo, passino
attraverso i firmamenti, i sovrani reggitori, signori, divinità, i
grandi invisibili, ed entrino nel Regno della Luce». Gesù adirato
disse: «Per quanto tempo dovrò sopportarvi? Siete così ignoranti da
non capire ancora? Non sapete che voi e gli angeli, gli arcangeli, gli
dèi, signori e sovrani, e i grandi, emanazione della Luce, e tutta la
loro gloria, siete tutti della stessa pasta, materia e sostanza: lo stesso
composto... Ma i grandi esseri, nel purificare sé stessi, non hanno
sofferto né si sono afflitti... Ma voi, voi ne siete gli scarti, e
incarnandovi in vari corpi nel mondo, soffrite e siete afflitti. Ora,
Andrea e voi tutti, quando vi siete purificati con la sofferenza, salite
nell’alto del Regno dei Cieli, e se raggiungete la regione del grande
Signore della Luce, sarete riveriti fra loro, perché siete gli scarti
della loro materia e siete diventati più puri di tutti loro».
E questo aiuta anche a chiarire perché Gurdjieff ci diceva
costantemente che eravamo «merda della merda».
Ne La conferenza degli uccelli, Attar dice: «Quando l’anima era
unita al corpo era parte del tutto: non è mai esistito talismano più
meraviglioso. L’anima ha una parte di ciò che è elevato e il corpo
una di ciò che è vile; venne composto da una miscela di dura argilla
e puro spirito. In virtù di quest’amalgama l’uomo divenne il più
sorprendente dei misteri».
Il poeta sufi Jalali dice: «Se sei abbastanza buono per essere un
uomo, sei abbastanza buono per essere un angelo. I discendenti di
Adamo, di polvere sbiancata, sono santuari che gli angeli
venerano».
Prima di ascendere alla montagna del purgatorio, a Dante viene
detto di lavarsi il volto dalle lacrime versate all’inferno; e Virgilio
glielo lava con la rugiada. Il primo dovere del peni tente che entra
In purgatorio è la gioia. Dopo aver visto e riconosciuto il proprio
peccato, deve toglierselo dalla mente e non indugiare
nell’autocommiserazione e nel rimprovero, entrambi forme di
egotismo.

Un allievo parlò della difficoltà di destare l’interesse della gente per


le idee di Gurdjieff, e citò il Caronte di Luciano. Caronte dice: «E
sebbene la loro vita sia breve come quella di una foglia, vedi,
Ermete, come lottano fra di loro per il potere, onori e averi,
nonostante alla fine debbano lasciarseli alle spalle e siano destinati a
prendere il nostro traghetto con l’obolo per una sola corsa. Ora che
siamo in alto, non pensi sarebbe bene se gridassi loro un forte
avvertimento e gli dicessi di smettere di affaticarsi, ma di lottare per
tenere sempre presente la realtà della loro morte? Griderei: “Voi
uomini sciocchi, perché ambite a queste cose vane? Smettete di
sgobbare come muli. Siete forse eterni? Questi onori e queste
ricchezze non durano, né potete portarceli appresso. Ve ne andrete
nudi, lasciando case e terre ad altri!” Non pensi che se gridassi a loro
questo, sarebbero aiutati a vivere più saggiamente?
Ermete: “Non vedi a cosa li ha condotti il loro anormale modo
di vita? Non riusciresti a stappare loro gli orecchi neppure se usassi
una trivella. Sono otturati con la cera che Ulisse e i suoi compagni
usarono per il canto delle Sirene, e non sentirebbero neppure se tu
strillassi fino a scoppiare. Ciò che il fiume Lete fa nel tuo mondo
sotterraneo, l’ignoranza lo fa sulla Terra. Pochissimi si astengono
dal tapparsi gli orecchi, e dunque sono in grado di comprendere la
realtà delle cose”».

Un proverbio persiano dice: «Il saggio capisce lo sciocco, perché egli


stesso un tempo è stato sciocco; ma lo sciocco non capisce mai il
saggio, perché non è mai stato saggio».
E c’è un altro proverbio persiano: «Sveglia! Sveglia! Rimane solo
poca vita, la strada che hai davanti è lunga, e tu sei immerso
nell’illusione».

Gurdjieff parlava spesso della necessità di riparare il passato, senza


indugiare in un inutile rimorso, ma provando il rimorso

145
di coscienza. Rimorso, in lingua inglese medievale, si diceva
ayenbite ofinwit: il «morso, di nuovo, della conoscenza interiore,
della comprensione», paragonabile al francese remordre - mordere
ancora -, l’opposto del sentirsi tranquilli.
A un allievo disse: «Nel presente le gioie passate non sono di
alcuna utilità all’uomo; sono come le nevi dell’anno scorso, che non
lasciano traccia che le possa ricordare. Solo le impronte dello sforzo
cosciente e della sofferenza volontaria sono reali, e possono tornare
utili in futuro per ottenere il bene».
Un’altra volta disse: «Quello che si semina, si raccoglie. H futuro
dipende dalle azioni del presente. H presente, bello o brutto che sia,
è il risultato del passato. Compito dell’uomo è preparare il futuro in
ogni momento del presente, e rimediare agli errori commessi.
Questa è la legge del destino. Benedetta sia la Fonte Prima di tutte le
leggi ! »
A uno che si lamentava del fatto che nulla era come avrebbe
dovuto essere secondo logica, disse: «Ogni soddisfazione è
accompagnata da un’insoddisfazione».
Parlando della necessità di aiutarsi a vicenda, disse: «Di solito
conosciamo gli altri meglio di quanto loro si conoscano, dunque
l’aiuto reciproco è necessario e proficuo. Ma spesso, quando ci
vengono indicati i nostri difetti e debolezze, l’amor proprio e
l’orgoglio ci impediscono di trarne profitto, perché c’è un rifiuto
oppure tentiamo di giustificarci.
In ogni azione dovremmo cercare di realizzare l’utile per gli
altri e il dilettevole per noi».
Parlava spesso dello «sfortunato che qualche volta diventa
fortunato». A tale proposito Lao Tzu racconta: «Un vecchio viveva
con il figlio in un antico forte abbandonato sulla collina. Un giorno
il cavallo, da cui dipendeva, si allontanò e si smarrì. I vicini
accorsero e compiansero il vecchio per la cattiva sorte. “Come
sapete che è cattiva sorte?”, egli chiese. Qualche giorno dopo il
cavallo riapparve assieme ad altri cavalli selvaggi, che l’uomo e suo
figlio domarono. Questa volta i vicini si complimentarono con lui
per la buona sorte. “Come sapete che è buona sorte?”, chiese l’uomo.
E, guarda caso, durante una cavalcata il figlio venne sbalzato e
rimase storpio per sempre. I vicini parteciparono al dolore del
vecchio e parlarono ancora di sfortuna.

146
“Come sapete che è una sfortuna?”, egli chiese. Non molto tempo
dopo scoppiò la guerra e il figlio, in quanto zoppo, non potè
prendervi parte».

Stavamo parlando di elettricità e magnetismo, o magnetismo


animale, e di come certi uomini avessero più magnetismo animale
di altri. Quando uno di noi ne parlò a Gurdjieff, egli disse: «L’uomo
ha in sé due sostanze: la sostanza degli elementi attivi del corpo
fisico e la sostanza composta dagli elementi attivi della materia
astrale. Questi, mescolandosi, formano una terza sostanza. Questa
terza è una sostanza mista; si raccoglie in certe parti dell’uomo e gli
forma intorno un’atmosfera, come quella dei pianeti. Le atmosfere
dei pianeti accumulano o perdono sostanza continuamente a causa
dei pianeti vicini. L’uomo è circondato da uomini come i pianeti
sono circondati da altri pianeti. Quando due atmosfere si
incontrano a una certa distanza e sono affini, si stabilisce fra loro un
contatto e si manifesta un risultato secondo le leggi; “qualcosa
passa”; la quantità di atmosfera rimane identica, ma cambia la
qualità.
L’uomo che ha lavorato su di sé e comprende, può controllare la
propria atmosfera. È come l’elettricità, ha ima parte positiva e una
negativa, e una parte si può far scorrere, come la corrente. Tutto ha
elettricità positiva e negativa. Nell’uomo i desideri e i non-desideri
sono il positivo e il negativo. La materia astrale trova sempre
opposizione nella materia o sostanza fisica.
Nell’antichità i sacerdoti, sacerdoti veri, comprendevano
l’utilizzo del magnetismo ed erano capaci di curare malattie con la
benedizione delle mani. Alcuni imponevano le mani sul malato,
altri potevano curare a breve distanza, altri a grande distanza. D
sacerdote era un uomo che aveva la terza sostanza, quella composta,
ed era in grado di adoperarla per curare gli altri.
Il sacerdote era un magnetizzatore. Gesù Cristo era un
magnetizzatore. Nei malati c’è carenza di questa sostanza composta,
di questo “magnetismo” o “vita”. Se concentrata, diventa visibile.
L’aura, aureola o nimbo, è ima cosa reale. Alcuni riescono ancora a
vederla in certi luoghi santi e chiese, e qualche volta anche intorno
a persone. Mesmer riscoprì l’uso di questa sostanza».

147
Qualcuno chiese: «Ma noi come possiamo utilizzare questa
sostanza?»
Gurdjieff: «Per poterla utilizzare, prima dovete averla in voi
stessi. La si ottiene al pari dell’attenzione: con il lavoro cosciente e
la sofferenza volontaria; vale a dire compiendo piccole azioni
volontariamente, coscientemente. Cominciate col fare una piccola
cosa che desiderate e che, ora, non siete in grado di fare. Compiendo
questo sforzo e facendo, accumulerete magnetismo».

Gurdjieff diceva di imparare a recitare dei ruoli, ma di iniziare con


qualcosa di piccolo e semplice. Lui stesso era un maestro nella
tecnica. Con i pubblici ufficiali, per esempio, recitava la parte del
sempliciotto quasi stupido, e così li spiazzava. Una volta due
psicologi inglesi diretti a Ginevra per una conferenza si fermarono
al Prieuré, probabilmente per avere l’opinione di Gurdjieff sulle
varie scuole. Sapevano di Ouspensky. Gurdjieff offrì loro un pranzo
sontuoso, ma aggirò ogni domanda con una battuta. Dopo il pranzo
li portò a passeggiare per i terreni fino alla Study House, dicendo
spiritosaggini e comportandosi da eccentrico. Mi trovavo accanto
alla porta e mi chiese: «Che giorno è oggi?» «Martedì», risposi. Si
rivolse a loro con un sorriso: «Che strano! Dice che è martedì, e per
tutto il tempo ho pensato che fosse mercoledì», e li fece entrare
nella Study House. I due erano confusi. Dopo che se ne furono
andati i suoi modi cambiarono. «Ora mi daranno pace, lasceranno
che mi dedichi al mio compito».
Un altro aspetto di Gurdjieff era la sua abilità di rendersi da un
lato quasi invisibile, e dall’altro di manifestarsi come un rishi,
splendente di luce ed energia. Le persone in visita, cui veniva
mostrata la proprietà, a volte gli passavano oltre con uno sguardo
appena; come un americano che mi stava dicendo che persona
meravigliosa doveva essere il signor Gurdjieff e che gli sarebbe
piaciuto incontrarlo. Gurdjieff passò proprio in quel momento ed
entrò in casa. «Ecco il signor Gurdjieff», dissi. «Curioso!», rispose.
«Gli ho parlato in giardino e l’ho scambiato per il giardiniere».
Nella vita quotidiana le persone recitano dei ruoli senza
consapevolezza. Gurdjieff li recitava consapevolmente, e chi

148
lavorava a stretto contatto con lui di solito sapeva quando lo stava
facendo.
Nella Lettera a un derviscio scrisse: «Il segno di uomo
perfezionato e la sua particolarità nella vita ordinaria deve essere
che, rispetto a tutto ciò che accade all’esterno, egli è capace di
recitare esteriormente e alla perfezione il ruolo che corrisponde alla
data situazione, e di poterlo fare come atto meritorio; ma al tempo
stesso senza coinvolgersi o acconsentirvi. Anch’io in gioventù, forse
lo sai, convinto com’ero di questa verità, lavorai moltissimo su me
stesso, allo scopo di conseguire una tale benedizione che ritenevo
preordinata dal cielo; alla fine, dopo enormi sforzi, rifiutando
continuamente quasi tutte le cose meritate nella vita ordinaria,
raggiunsi finalmente uno stato in cui nulla dall’esterno riusciva
davvero a toccarmi interiormente; e, per quanto riguarda la
recitazione, mi perfezionai a un livello tale che nemmeno i sapienti
dell’antica Babilonia lo avrebbero immaginato possibile per i loro
attori in scena».

Gurdjieff non lasciava passare nulla di quanto facevamo o dicevamo


in momenti di disattenzione. Quando accadeva in sua presenza, egli
interveniva subito; e se il fatto gli veniva riferito, aspettava
l’occasione per «farci mangiare il cane», come diceva lui, di fronte
agli altri. Avevo fatto a qualcuno un’osservazione sciocca e
irriverente su Gurdjieff. Tre giorni dopo mi trovavo nella Study
House, seduto sui preziosi tappeti assieme a lui, Stjoernval,
Hartmann e altri. Stavamo bevendo del caffè. Egli mi disse: «Ripeta
quello che ha detto l’altro giorno al tal dei tali».
Mi resi subito conto di quanto sciocco fossi stato in un momento
di dimenticanza. Resistetti a lungo prima di riconoscere il mio
comportamento irresponsabile. Me lo chiese di nuovo, sorridendo,
ma io me ne stavo in silenzio e sofferente. Allora disse: «Se lo fa,
Foma (Hartmann) le suonerà il pezzo che vuole».
Combattuto, alla fine lo dissi, sopraffatto dall’umiliazione.
Gurdjieff sorrise e mi chiese: «Che pezzo vuole?»
«Frammento di un inno esseno», risposi. Fece cenno a
Hartmann, che andò al pianoforte e lo suonò. Questo episodio mi
colpì nel plesso solare in un modo talmente forte che non l’ho più
dimenticato.

149
Una volta, mentre tentavo di fronteggiare in stato di agitazione una
situazione che coinvolgeva me, Gurdjieff e tre donne, gli chiesi:
«Perché permette che restino qui, quando dicono di lei cose del
genere e le si oppongono in ogni modo?»
Egli disse: «Lei non capire; non dicono quello che sentono
veramente. Uomini sono logici, donne non logiche. Lei sbaglia
perché si aspetta che donna reagisce come uomo. Uomini sono
uomini. Donne sono donne. Altra cosa: a volte necessario avere
vicino persone che a lei non piacciono. Se persone sempre
simpatiche, loro piacere a lei: niente stimolo per lavoro. Queste
donne danno lei opportunità molto grande per lavoro, e io, anche,
devo fare sforzo!»
Come sempre, Gurdjieff aveva ragione. Era una mia mancanza
di comprensione. La sua pazienza e il suo lavoro le trasformarono in
validissime allieve.
Ne II viaggio del pellegrino, Cristiano e Fedele incontrano
Chiacchierone, che inizia a parlare dei misteri della religione. Alla
fine Fedele dice a Chiacchierone: «Anche se uno avesse tutta la
scienza possibile sarebbe ancora un bel nulla, e dunque non sarebbe
un figlio di Dio. Quando Cristo chiede ai discepoli “Sapete tutte
queste cose?” e loro rispondono “Sì”, aggiunge “Siete beati se le
fate.” Perché esiste una conoscenza che si ottiene solo con le azioni.
Si può avere la conoscenza di un angelo, e non essere ancora un
cristiano...
C’è infatti la conoscenza che si limita a una speculazione
accademica delle cose, e la conoscenza accompagnata dalla fede e
dall’amore, che rende possibile fare la volontà di Dio con il cuore.
“Dammi comprensione e osserverò la tua legge; la praticherò con
tutto il cuore” (Salmi, 119,34)».
Chiacchierone, arrabbiato, li lascia e se ne toma indietro.

Quell’estate Gurdjieff stava prendendo note sui capitoli di Ashiata


Shiemash, e una sera cominciò a parlarci, rivolto a Orage in
particolare, della Fede, della Speranza e dell’Amore coscienti,
soprattutto di quest’ultimo. Poi si ritirò presto in camera sua per
riposare, come spesso faceva, talvolta invitando qualcuno per
parlare. Quella sera invitò Orage. Il giorno seguente Orage mi disse:
«Legga questo, ieri sera ho parlato a lungo con Gurdjieff,
poi sono tornato in camera mia e ho scritto fino alle quattro di
stamattina. Ecco il risultato». Era la bozza di un saggio, On love: i tre
tipi di amore che caratterizzano le relazioni tra uomini e donne. Era
quanto di più interessante avessi letto su questo argomento
universale; lo lessi e rilessi. In seguito venne pubblicato su «The
Atlantic Monthly». Al rientro in Inghilterra, Orage volle
pubblicarlo, ma siccome non venne accettato da nessun editore,
sostenni io le spese della pubblicazione del libro a Londra. Da allora
è uscito in parecchie edizioni. È una perla, sebbene per i più
rimanga un ideale irraggiungibile. Al di là di quanto è scritto ne I
racconti di Belzebù, che rientrano in un’altra categoria, questo breve
saggio è Tunica esposizione moderna sulla possibilità di ottenere
uno stato di amore cosciente tra uomini e donne. Perfino chi è
felicemente sposato può trame qualcosa.

In risposta a una domanda sul secondo nutrimento, l’aria, Gur-


djieff disse: «Nell’aria ci sono due parti, una che evolve, l’altra che
involve. Solo la parte che involve può vivificare l’“Io”. Al momento
questa parte che involve è utile solo a fini cosmici generali. Potrete
assimilare la parte buona dell’aria, che proviene dalla fonte
primaria, solo quando avrete in voi un desiderio cosciente.
Per assimilare la parte d’aria che involve, lei deve cercare di
comprendere il significato suo e di chi le sta vicino. Siete mortali e
un giorno morirete. Chi riceve la sua attenzione è il suo prossimo, e
pure lui morirà. Siete entrambi non entità. Adesso gran parte della
sua sofferenza è “sofferenza inutile”, nasce da sentimenti di rabbia,
gelosia e risentimento verso gli altri. Se acquisirà i dati per rendersi
sempre conto dell’ineluttabilità della morte, sua e di chi le sta
attorno, proverà per gli altri un sentimento di pietà e sarà giusto
verso di loro, poiché le manifestazioni irritanti esistono solo in
quanto lei o qualcun altro ha pestato loro i calli, o perché sono
proprio i suoi calli a essere sensibili. Ora non può vederlo. Tenti di
mettersi al posto degli altri: contano quanto lei, soffrono come lei e,
come lei, moriranno. Se, ogni volta che si rivolge a qualcuno, cerca
di sentire sempre tutto questo nel suo più profondo significato, se lo
sente finché non diventa un’abitudine, allora sarà in grado di
assimilare la parte buona dell’aria e potrà avere un vero “Io”.

151
Ogni uomo ha esigenze e desideri che sono per lui importanti, e che
perderà con la morte.
Quando darà attenzione al prossimo e ne realizzerà il
significato, la mortalità, allora proverà pietà e compassione, e alla
fine lo amerà; inoltre, perseverando con costanza, in una qualche
parte le sorgerà la vera fede, la fede cosciente che si estenderà alle
altre parti, e lei avrà la possibilità di conoscere la felicità autentica,
poiché da questa fede nasce la speranza oggettiva: la speranza di una
base per una continuazione».

Come sempre Gurdjieff lavorava quotidianamente a I racconti di


Belzebù, riscrivendo e rivedendo, lavorando come al solito nei café e
al Prieuré, a volte in casa, a volte in giardino, a volte in compagnia,
a volte da solo. Quando, dopo cena, venivano letti a voce alta i
capitoli nel salone, egli osservava le espressioni sui nostri volti.
Aveva iniziato ad abbozzare il capitolo sull’America; e se spuntava
un visitatore americano, ne faceva leggere alcune parti, ridendo
sempre in corrispondenza di certi passaggi. Anche noi ci univamo
alla risata, sebbene molti non fossero mai sicuri di cosa egli stesse
ridendo. Sospetto che fossimo noi a farlo ridere.
Un giorno nella biblioteca senza libri disse: «Orage, perché gli
inglesi e specie gli americani dicono “va bene” anche quando non va
bene?» Orage rispose: «Sì, quando le cose non vanno bene diciamo:
“Va bene, ora che si fa”».
Salzmann lo trovò molto divertente e iniziò a scherzare con
l’espressione «va bene». E Gurdjieff disse: «Userò questo nel mio
capitolo sull’America. “Quando niente va bene”, allora “va bene!”»
Durante la lettura di un capitolo, spesso diceva al lettore di
fermarsi, e il lettore inseriva in quel punto una virgola. Da qui la
punteggiatura a volte strana dell’edizione inglese.
Spesso di un brano o di un capitolo chiedeva: «Cosa vi fa
sentirei»; rimarcava sempre il «sentire», non chiedeva mai «cosa ne
“pensate”?»
C’erano frequenti dispute sull’uso del termine appropriato.
Gurdjieff voleva scrivere «la città Samlios». Chi leggeva disse:
«Questo non è inglese, noi diciamo “la città di Samlios”».
«Voi dite “il signore di Smith”?», chiese Gurdjieff.

152
«No, “il signor Smith”».
«Allora perché non “la città Samlios”?»
«Perché non è inglese».
«Allora l’inglese è una lingua idiota», ribattè Gurdjieff.
Voleva rendere definita l’espressione «il giorno dopo». Il lettore
disse: «Deve dire “proprio il giorno dopo”».
«Ma “il giorno dopo” è il giorno dopo. Perché “proprio”?»
«Noi diciamo così».
Con un rapido movimento si lisciò i baffi, poi fece un gesto con
la mano che stava a dire «perfino per me la lingua inglese sfida ogni
regola dell’espressione logica».
In un altro caso ricorreva la frase: «Vedere se non fosse
possibile». Egli disse: «Intendo dire, “vedere se fosse possibile”». Il
lettore replicò: «Significa proprio questo».
Gurdjieff disse: «Non possibile significa impossibile. Io intendo
dire “possibile”. Ma nella vostra lingua qualche volta si può pensare
in modo chiaro?»
Ne I racconti di Belzebù gli strani nomi sono combinazioni di
parole o etimi, o parti di sostantivi in lingue diverse; simboli per far
ponderare e riflettere il lettore.

Tra le idee oggettive e le necessità della vita quotidiana veniva


mantenuto un costante equilibrio. Il bisogno di denaro per esempio,
e ce ne voleva parecchio per sostenere il lavoro. Alcuni stentavano a
capire che, per Gurdjieff, il denaro serviva al lavoro. Le persone
rivelavano molto di sé nell’atteggiamento con i soldi, e da come li
elogiavano. L’atteggiamento di Gurdjieff sollevava difficoltà, perché
con il denaro - come in altri casi - egli non si comportava mai come
gli altri. Talvolta, dopo aver fatto imo sforzo per raccogliere il
denaro da donargli, le persone si sorprendevano scoprendo che egli
lo aveva speso per una grande festa o per un viaggio; ma non lo
spendeva mai per sé stesso, se non occasionalmente per gli abiti.
Come ho detto, spesso disponeva del denaro a seconda
dell’atteggiamento del donatore. Un’allieva di New York, una
donna piuttosto tirchia ma agiata, gli consegnò un assegno di
cinquanta dollari circa, ma scritto in franchi in modo da farlo
sembrare più cospicuo. La sera stessa, dopo cena, egli con la signora
X sedutagli

153
accanto fece entrare nel salone tutti i bambini. Cominciando dai più
piccoli distribuì loro il denaro per una somma di cinquecento
franchi esatti. Ad altri allievi invece, Gurdjieff restituì i soldi
dicendo: «Tenete. Ne avete bisogno ora. Forse in seguito avrete
denaro da dare». Aiutava sempre chi ne aveva davvero bisogno.
«Lei è ingenuo con denaro», mi disse. «Maggior parte di persone
lo è. Ma lei è anche avaro, non solo con denaro, ma con tutto.
Fintanto che rimane ingenuo tutti approfitteranno di lei. Se una
persona le è “simpatica”, lei darà soldi, con l’emozione, e più avanti
si pentirà. Lo stesso con suoi affari. Se lei è accomodante con
persone per debolezza, loro non la rispetteranno ma si
approfitteranno di lei, in affari di dollari e in altre cose. Deve
imparare a essere, come dite in inglese...»
«Astuto», suggerii.
«Sì, astuto. Ma per scopo buono e in modo giusto».

Ci ricordava costantemente che dovevamo fare tutto bene, che


dovevamo essere sempre pronti a adattarci alle circostanze mu-
tevoli, a essere ingegnosi, e a imparare a essere capaci di sfruttare un
imprevisto o un intoppo: a considerare la vita come una palestra in
cui si possono utilizzare le condizioni per sviluppare la volontà, la
consapevolezza e l’individualità, per imparare a essere non ordinari
ma straordinari.
«L’uomo straordinario», disse, «è giusto e indulgente con le
debolezze altrui; e conta sulle risorse della propria mente, acquisite
con i propri sforzi».
Come ho detto, quando mi parlava sentivo che potevo fare. Ma
c’era sempre l’inerzia dell’organismo con cui combattere, il
desiderio di prendere le cose alla leggera, di parlare anziché di agire,
la tendenza a farsi intrappolare dalla vita esteriore, a seguire il flusso
degli eventi. E così facile essere trascinati dalla corrente. Nella vita,
una volta cessato lo sforzo, il movimento scende verso il basso. È
noto da epoche remote.
Dopo che Enea ebbe pregato prima di scendere agli inferi, la
Sibilla rispose: «O rampollo del sangue degli dèi, troiano figlio di
Anchise, scendere è facile nel buio Avemo. Ma i passi indietro
volgere, tornare alle superne sedi, qui l’impresa, qui la fatica sta».
Ci vuole il Ramo d’oro, il Metodo.

154
***
Nel tardo autunno del 1926 tomai a New York. In dicembre arrivò
un’offerta per la mia attività libraria, che in poche settimane venne
venduta e non fu più mia. Un po’ sorpreso mi ricordai che meno di
quattro anni prima avevo temuto che, se mi fossi interessato al
sistema di Gurdjieff, non avrei potuto realizzare quel progetto che
allora ritenevo tanto importante; adesso non solo si era spento senza
rimpianti, ma addirittura con sollievo. Vidi come, sin dall’infanzia,
ero stato identificato con i libri, quasi al punto da venerarli. Ero
stato un adoratore di libri, un bibliomane, bibliofilo, bibliopola e
perfino un bibliotecario morboso. Allora venni pervaso da un
sentimento di gratitudine per essere stato curato dalla malattia del
libro. Ripensai a quello che Gurdjieff mi aveva detto l’estate prima,
sul treno da Parigi a Fontainebleau. Io e un altro stavamo
discutendo animatamente di prime edizioni e libri rari. Gurdjieff
ascoltò, poi mi disse: «Io le dico, verrà un tempo in cui in Inghilterra
non si venderà un solo libro. Se vuole vendere ancora libri, meglio
per lei vendere libri pornografici anziché quelli che vende ora».
Un giovane ingenuo che era con noi lo prese alla lettera, e in
seguito sparse la voce che Gurdjieff aveva detto che non mancava
molto al tempo in cui non sarebbero stati più pubblicati libri in
Inghilterra, e che per far soldi aveva consigliato a un allievo di
vendere libri pornografici. Naturalmente quello che Gurdjieff aveva
detto era rivolto solo a me. Era ima delle sue caratteristiche vignette
verbali, una caricatura per rendermi consapevole, con uno shock,
della mia identificazione con i libri come oggetti in sé. In effetti,
quand’ero in affari e in rapporti con il First Edition Club di Londra,
avevo iniziato a intravedere una relazione fra l’identificazione con i
libri - il collezionarli, l’accumularli, il rubarli - e il disadattamento
sessuale. L’identificazione con i libri, il rubarli addirittura, è solo
una delle tante manifestazioni dell’energia sessuale deviata dal suo
vero scopo, quello di normali relazioni sessuali e del suo utilizzo
nello sviluppo interiore. Nonostante ciò, l’uomo può continuare ad
avere con una donna una comune relazione sessuale e, al tempo
stesso, essere troppo passivo, soprattutto se la sua parte femminile
creativa è troppo forte.
Come ho detto, Gurdjieff e il suo insegnamento sviluppavano la
mascolinità nell’uomo e la femminilità nella donna. I suoi metodi
per il trattamento delle malattie psicologiche non erano ortodossi,
talvolta erano spietati, ma le guarigioni erano notevoli: chi aveva
tendenze omosessuali diventava mascolino e, come diceva lui, le
lesbiche si trasformavano in «donne madri».
Con i ricavi della vendita acquistai un fienile e alcuni ettari di
terra nel Connecticut dove costruii una casa, un'attività a me più
congeniale della vendita di libri. Non molto dopo mi sposai. Mia
moglie era stata al Prieuré nei primi due anni dell’istituto, così
andammo all'estero dove trascorremmo gran parte dell'estate.
Penso che Gurdjieff rimase sorpreso e ovviamente contento di
vederci. Cominciò a dire ai presenti che avevamo realizzato un
miracolo, la quadratura del cerchio; un idiota circolare, così lo
espresse, aveva sposato un idiota quadrato. Al di là della battuta
c'era un mondo di significati e tanto materiale su cui riflettere.
Fu un'estate estremamente interessante. C'erano Orage e alcuni
del gruppo di New York, e Gurdjieff dedicò tutto il tempo libero in
cui non scriveva a lavorare con noi, individualmente e
collettivamente. In quei pochi mesi si ammassarono anni di attività
e impressioni. Ricordo poco delle sue parole esatte, ma rammento la
forte impressione che ci fece: il modo in cui ci manovrò, ci mise
sottosopra, le sue digressioni ai pasti. Il suo metodo determinò un
cambiamento definitivo in tutti noi, Orage compreso. Ogni giorno
ci ritrovavamo per discutere quello che Gurdjieff aveva detto, cosa
intendeva dire. Quanto a me, i risultati si manifestarono l'anno
seguente, e li riporterò a tempo debito.
Ogni sabato veniva rispettato il rituale del bagno turco, dei
pranzi e delle cene nella sala da pranzo inglese. I capitoli riveduti de
I racconti di Belzebù venivano letti nel salone, e ogni giorno c'era la
musica. Non ci furono le piogge dell'estate precedente, ma
settimane limpide e calde.
Al Prieuré c'erano parecchie giovani coppie. Un giorno, mentre
stavamo aspettando il caffè nel salone, una delle sposine fece cenno
al consorte e gli indicò in modo deciso di sedersi nel posto libero
vicino a lei, e lui, da perfetto marito americano, si alzò obbediente e
le si sedette accanto.

156
Gurdjieff lanciò, non a lei ma a lui, una brutta occhiata e dopo una
pausa iniziò a dire che l'uomo non deve essere lo schiavo della
donna; parlò anche del basso livello delle donne americane
paragonato a quello riscontrabile in nazioni più vecchie, perché i
loro uomini avevano abbandonato le proprie responsabilità.
Aggiunse: «Se sei il numero uno, tua moglie è il numero due. Ma se
tua moglie è il numero uno, sii piuttosto zero. Solo allora le tue
galline saranno al sicuro». Poi disse di portare alcuni fogli e chiese a
qualcuno di leggere quanto segue: «Il saggio greco Socrate era un
discepolo di questo metodo [il metodo che Gurdjieff insegnava] e,
per ricevere degli scossoni che evocassero un'intensa
manifestazione della propria lotta interiore, si cercò addirittura una
moglie conforme e, avendola sposata, si costrinse a sopportare
esteriormente, pazientemente, per il resto della sua vita, i continui
rimproveri e le lagne della sua Santippe».
Qualcuno ha detto che spesso Gurdjieff cercava di istigare
cattivi sentimenti tra marito e moglie. Non era così. Egli tentava di
far loro comprendere quale dovesse essere una vera relazione. Non
mi risulta di un solo caso di coppie separate per colpa di Gurdjieff,
ma so di molte che, grazie a lui, si riavvicinarono. I modi in cui si
occupava delle persone erano sempre difficili e sconcertanti perché
insoliti; ma quando si trattava di comprendere la psiche umana,
Gurdjieff aveva sempre ragione. Se la situazione del momento
sembrava dargli torto, gli sviluppi successivi dimostravano che
aveva ragione.

Quell'estate il lavoro fisico venne organizzato su ampia scala.


Venne disposto un binario accanto alla pista che, attraverso la
foresta, portava a una cava di pietra presso il cancello sud.
Trasportammo tonnellate e tonnellate di grandi pietre e le
scaricammo lungo la pista, dove le rompemmo per costruire la
strada. Un giorno, durante il lavoro, venni sopraffatto dalla
fortissima sensazione di dover rientrare immediatamente a Londra.
Fu così impellente che non feci alcuno sforzo per resistere, tomai in
casa e addussi come pretesto un affare urgente che mi voleva in
Inghilterra. Partii subito e arrivai a Londra la sera stessa. Era troppo
tardi per chiamare il mio carissimo amico Walter Fuller, come

157
facevo di solito quand’ero lì, così andai a Harpenden per trascorrere
la notte dai miei genitori. La mattina dopo aprii il «Times»: c’era un
articolo sulla morte improvvisa di Fuller e un lungo necrologio, in
quanto era ben conosciuto negli ambienti letterari e giornalistici, e
all’epoca era il direttore della radio del «Times». Per alcuni giorni
rimasi stordito dal dolore. Quando tomai a Fontainebleau dopo il
funerale, Gurdjieff fu molto gentile. Mi portò in giro con lui, e un
giorno parlò dell’importanza di non cedere al dolore. Farlo è male
per sé stessi e forse per chi se ne è andato. Non si può evitare di
provare il vero dolore, che è molto diverso dallo pseudo-dolore in
cui spesso indulgono le persone. Ma bisogna tentare di non
identificarsi con la sofferenza, bensì usarla; così facendo, si sarà di
aiuto a sé stessi e agli altri.

Spesso Gurdjieff mi chiedeva di sedermi con lui al café mentre


scriveva I racconti di Belzebù. All’epoca stavo tentando di trascrivere
il racconto dei miei viaggi in giro per il mondo. Un giorno tirai fuori
carta e penna e iniziai a scrivere. Lui si fermò, mi guardò ed
esclamò: «Ah, anche lei scrive!», e mi chiese a cosa stessi lavorando.
Glielo dissi. Appoggiò la matita, si lisciò i baffi e si rivolse a me in
questo modo: «Se lei scrive adesso, le persone diranno che è malato.
Meglio che aspetti, dopo forse può scrivere». Misi via carta e penna.
Ma la voglia di scrivere era forte, così un po’ alla volta portai a
termine il manoscritto. Non fu un buon lavoro e gli editori,
giustamente, lo rifiutarono. Passarono anni prima che potessi farmi
accettare qualcosa.

Spesso Gurdjieff faceva scenate per scuoterci. Pare che Orage gli
avesse detto che sarebbe rimasto al Prieuré per due mesi poiché, per
un qualche motivo, aveva promesso a certe persone di New York di
rientrare per quella data. Il momento si stava avvicinando, Gurdjieff
tentò di convincerlo a restare perché aveva bisogno del suo aiuto
per rivedere la versione inglese del capitolo sull’America cui stava
lavorando. Inoltre gli faceva piacere averlo accanto, perché pochi
meglio di Orage sapevano scherzare e divertirsi con lui rispettando i
limiti tra maestro e allievo. Orage aveva una mente più guizzante di
Gurdjieff, e stare con loro due era meglio che assistere a una
commedia. Orage era sempre sti

158
molante, e siccome Gurdjieff in genere lo vedeva solo per due mesi
all’anno, sfruttava ogni momento per averlo accanto a sé e
insegnargli, spesso mentre scherzavano. Pare che Gurdjieff
credesse, o volesse credere, di aver convinto Orage a restare. La
domenica prima della partenza Gurdjieff organizzò una grande
comitiva per andare a Parigi. Dopo il pranzo sette vetture erano
pronte nel cortile, tutti aspettavano di avviarsi. Gurdjieff uscì dalla
sua stanza e una donna lo informò che Orage si sarebbe imbarcato il
giorno dopo. Egli allora scese in cortile e iniziò a infuriarsi con
Orage, perché abbandonava il suo lavoro al Prieuré per tornarsene
da persone insignificanti a New York. L’atmosfera si elettrizzò.
Orage non disse nulla, poi, alquanto pallido, tolse la valigia dalla
vettura di Gurdjieff e se ne tornò in stanza. Dopo qualche minuto
Gurdjieff lo seguì; trascorso un po’ di tempo, riapparvero entrambi,
calmi e composti, e salirono in macchina. La compagnia si avviò.
Dopo una sosta in un café, giunse a Parigi e per cena si diresse a
Montmartre, al ristorante preferito di Gurdjieff, l’Ecrevisse, o -
come lo chiamavamo noi - Madame Aragosta, dove prendemmo
posto in venti. Pernottammo tutti al piccolo hotel vicino
all’appartamento di Gurdjieff, e discutemmo fino al mattino nella
stanza di Orage. Egli disse che siccome tornare a New York era stata
una promessa dell’essenza, egli doveva mantenerla. Se necessario,
una promessa della personalità può essere modificata, ma mai una
promessa data dall’essenza.

Un giorno a Parigi incontrai un conoscente di New York, che mi


parlò della possibilità di pubblicare letteratura moderna. Siccome
dimostrai un certo interesse, egli si offerse di presentarmi un suo
amico, intenzionato a pubblicare. Ci accordammo per incontrarci il
giorno seguente al Select di Montpamasse. Arrivò il suo amico: era
Aleister Crowley. Venne ordinato da bere - ovviamente pagai io - e
iniziammo a parlare. Crowley era magnetico, aveva quel genere di
fascino comune a molti ciarlatani. Il modo di fare era paterno e
benevolo, e qualche anno addietro ci sarei cascato. Ora vedevo e
sentivo di non aver nulla a che fare con lui. Parlò genericamente di
editoria, poi deviò nel suo gergo da magia nera. «Per avere successo
in qualsiasi cosa, anche nelle

159
pubblicazioni», disse, «ci vuole una particolare combinazione. Ci
devono essere il Maestro, l’Orso e il Drago: un triangolo che darà
risultati...», e via di questo passo. Quando rimase in silenzio chiesi:
«Sì, ma bisogna avere denaro. Ho ragione di credere che lei dispone
del capitale necessario?»
«Io?», disse. «No, neanche un franco».
«E io neppure», risposi.
Sapeva che stavo al Prieuré, così mi chiese se riuscivo a farlo
invitare, ma non volevo la responsabilità di presentare una persona
del genere. Tuttavia, con mia sorpresa, comparve all’Istituto
qualche giorno dopo e gli venne offerto del tè nel salone. C’erano
dei bambini ed egli parlò a un ragazzo di suo figlio, cui stava
insegnando a essere un diavolo. Gurdjieff si alzò e parlò al ragazzo,
che a tale riguardo non badò più a Crowley. Ci fu qualche scambio
fra Crowley e Gurdjieff, che per tutto il tempo mantenne sull’altro
uno sguardo molto attento. Ebbi la forte impressione che fossero
due maghi, il bianco e il nero: uno potente e luminoso, l’altro
potente anch’esso ma pesante, ottuso e ignorante. A ben pensarci
«nero» è un termine troppo forte per Crowley; egli non comprese
mai il significato della vera magia nera, eppure centinaia di persone
rimasero stregate da lui. Era furbo, ma come dice Gurdjieff: «Chi è
furbo è stupido».
A tale riguardo Orage disse: «Ahimè, povero Crowley, lo
conoscevo bene. Di solito ci incontravamo alla Società di Ricerche
psichiche, quando ne ero il segretario. Una volta, durante una
conversazione, mi chiese: “A proposito, lei che numero è?” Non
avevo idea di cosa intendesse, così risposi di getto: “Dodici”. “Buon
Dio, davvero? Io sono solo un sette”, disse».

Durante l’estate mi saltò in mente che se il mio maestro, Gurdjieff,


mi avesse rivelato un certo qualcosa, un piccolo segreto, avrei
compreso tutto. Come il personaggio delle fiabe cui vengono
concessi tre desideri e sente di avere tutto a portata di mano; ma
non sa cosa chiedere, così esprime i desideri sbagliati. Mi sembrò
che Orage e Gurdjieff in particolare avrebbero potuto dirmi
qualcosa in grado di chiarire tutto quello che ora stava «dietro un
vetro opaco», e scoprii che questo pensiero era condiviso da altri.
Una giovane coppia del gruppo di New York era venuta al Prieuré.

160
Aveva detto addio per due volte, e due volte vi aveva fatto ritorno.
Quando tornò per la terza volta, chiesi sorpreso: «Perché di nuovo
qui?»
«Ce l’ha chiesto Gurdjieff, e ogni volta abbiamo avuto la
sensazione che ci avrebbe detto quello che vogliamo sapere, e forse
questa è la volta buona».
«E cosa volete sapere?», chiesi.
«Purtroppo non lo sappiamo; sappiamo solo che vogliamo
sapere».
Ne parlai con Hartmann, che probabilmente lo riferì a Gurdjieff
perché qualche giorno dopo venne letta la bozza di un capitolo della
seconda serie, Il professor Skridlov. Nel racconto, padre Giovanni
parla della differenza fra conoscenza e comprensione. La
comprensione, dice, è l’essenza di ciò che si ottiene da informazioni
acquisite intenzionalmente e da esperienze personalmente vissute;
la conoscenza è solo il ricordo automatico di parole in un certo
ordine. La conoscenza può essere trasmessa da una persona all’altra,
ma è cento volte più facile far passare un cammello attraverso la
cruna di un ago, che trasmettere a un altro la comprensione che si è
formata dentro sé stessi. Anche se avesse voluto, disse, non sarebbe
stato in grado di comunicare lui stesso parte della propria
comprensione al suo amato confratello. Volevamo una
comprensione cui non avevamo diritto; dovevamo ancora renderci
conto che la comprensione si può ottenere solo con gli sforzi
personali sotto la direzione di un maestro.

Quell’anno l’autunno a Fontainebleau-Avon giunse in anticipo, e


alla fine di settembre dovemmo accendere i camini nelle stanze.
Alla sera, mentre Gurdjieff parlava o Hartmann suonava, un ceppo
ardeva vivace nel salone. Praticavamo ancora le danze nella Study
House, anche se non c’erano dimostrazioni.
La vita al Prieuré era un esempio di vita patriarcale. Gurdjieff -
con la moglie, la madre, il fratello e la sorella con le rispettive
famiglie, bambini, nipotini e nipotine, allievi e amici - era il grande
patriarca. Ci si ricordava sempre di onomastici e compleanni. Era
un’autentica vita da uomo, e per noi rappresentava un ideale; come
disse Orage: «Vorremmo tutti vivere come Gurdjieff, ma non ne
abbiamo il fegato né la conoscenza».

161
Gurdjieff sottolineava l’importanza di essere in buone relazioni
con i propri consanguinei, specie con il padre e la madre. Con la
moglie è diverso: non è una relazione di sangue; l’uomo può avere
parecchie mogli, ma un solo padre o una sola madre. Un brutto
rapporto può avere ripercussioni perfino sulla salute. Mi disse: «Suo
padre per lei è come Dio, e lei tramite suo padre può diventare come
Dio». Un aforisma nella Study House diceva: «L’indizio di un uomo
buono è che ama suo padre e sua madre».
Nella seconda serie, nel capitolo Mio padre egli racconta che suo
padre indicava dei comandamenti grazie ai quali i giovani, se li
avessero osservati fino all’età di diciotto anni, avrebbero acquistato
la propria libertà interiore e si sarebbero preparati a una felice
vecchiaia.
Il primo: amare i propri genitori.
Il secondo: conservare la propria purezza sessuale.
Il terzo: dimostrare uguale cortesia nei riguardi di tutti, ricchi o
poveri, amici o nemici, schiavi o potenti, a qualsiasi religione essi
appartengano; interiormente però rimanere liberi e non fare
affidamento su nulla e su nessuno.
E il quarto: amare il lavoro in sé, e non per il guadagno.

162
III
Il commentario di Orage a I racconti di Belzebù

Tornammo a New York verso la fine del 1927 e riprendemmo il


lavoro con il gruppo. Durante l’inverno Orage rivide il nostro
studio degli ultimi tre anni su I racconti di Belzebù. Presi
abbondanti appunti di quanto disse e collezionai e misi in ordine le
note e gli appunti di altri. Poi, quando Orage si trasferì a Londra,
discutemmo insieme questo materiale per tre o quattro anni e lo
riesaminai. Quella che segue è solo una piccola parte del
commentario completo, che conta centinaia di pagine di
annotazioni. Ho cercato di trascrivere le note in ordine ma la
sequenza non è rigorosamente cronologica. Egli si riferiva agli stessi
brani in momenti diversi, spesso da differenti punti di vista,
pertanto ci sono delle ripetizioni; e sebbene alcune note possano
sembrare disunite, tutto è collegato.

Orage disse: «Qualcuno di voi continua a criticare la grammatica


sbagliata e la punteggiatura, e chiede perché non intervengo.
Sebbene ogni capitolo abbia il suo senso fin dalla prima stesura,
Gurdjieff riscrive e rivede continuamente. Come forse sapete, scrive
a matita in armeno, viene tradotto in russo e poi in un inglese
letterale da alcuni russi; a quel punto viene rivisto da un paio di
allievi inglesi e americani che stanno al Prieuré e che conoscono
sommariamenteluso dei termini. Tutto ciò che posso fare al
momento è correggere Finglese laddove il senso viene meno. Ho
parlato dei capitoli e ho discusso del loro senso con Gurdjieff, ma
egli non esplicherà mai alcun significato. Il suo compito è scrivere

169
il libro, il nostro quello di impegnarci per comprendere. Lo stile e il
senso sono di Gurdjieff. La cosa sorprendente è che traspaiono
benissimo, nonostante le difficoltà della traduzione. L’inglese è una
lingua più flessibile del francese, si può dire che è possibile
giostrarsi con le parole, così la traduzione inglese avrà ima qualità
tutta sua».
Orage ci mise in guardia dai tentativi di spiegare ai nuovi allievi
il significato dei fatti narrati ne I racconti di Belzebù in base alla
nostra comprensione; potevamo solo accennare dei suggerimenti.
Discuterne con altri di pari livello era utile. Nelle settimane
successive Orage riesaminò i capitoli, noi ci impegnammo a dare il
nostro contributo. E siccome tutti, più o meno, avevamo raggiunto
lo stesso livello di comprensione, le discussioni furono davvero un
grande aiuto. Il commentario che segue delinea appena, per così
dire, I racconti di Belzebù: accennano alla ricchezza e alla profondità
della saggezza. H lettore comprenderà in base al suo sviluppo
interiore, che all’inizio è simile a un germoglio, poi si dischiude
come un fiore.

«L’introduzione al libro», disse Orage, «è come l’ouverture di


un’opera. Vi vengono accennate le idee che poi saranno sviluppate;
non si tratta di asserzioni dirette bensì di parabole. Il titolo
dell’introduzione è II risveglio del pensiero. Il libro inizia con
un’invocazione a tutti e tre i centri, all’interezza, ma soprattutto
allo Spirito Santo. Il libro va letto con il cuore vero, e cioè con una
comprensione del sentimento. Le persone normali si
predisporrebbero a ogni seria impresa richiamando la propria
globalità, ma su questo remoto e folle pianeta noi non lo facciamo,
se non in parte. Gurdjieff si mette la mano sul plesso solare, che per
noi è il cuore, in quanto non abbiamo lo Spirito Santo, la forza
neutralizzante, e non vediamo la terza forza. Non ha alcun
desiderio di scrivere ma si costringe a farlo con la volontà, che è
indifferente alla voglia personale. Ed è questo l’atteggiamento con
cui noi tutti dovremmo avvicinarci al Metodo. Il libro è un’opera
d’arte oggettiva. L’arte oggettiva consiste di modifiche coscienti
all’originale in base al progetto dell’artista o dello scrittore, che
cerca di suscitare nel pubblico un’impressione precisa. L’arte che
conosciamo è naturale come il canto o il nido di un uccello.

170
Il nido del rigogolo ci sembra perfetto rispetto a quello del
beccaccino, ma non attribuiamo alcun valore cosciente all’uccello.
E lo stesso con John Milton e Michelangelo: “Milton ha cantato
come il fanello”. Gurdjieff non si serve del linguaggio
dell’intellighenzia, nel libro le idee non sono presentate seguendo
gli schemi mentali abituali. La nostra vita intellettuale si basa su
associazioni casuali più o meno radicate. Possiamo iniziare a
pensare liberamente solo dopo aver spezzato queste associazioni.
Sono associazioni meccaniche; un intero stato d’animo può essere
annullato da un termine che richiama un insieme diverso di
associazioni. In una discussione seria, ad esempio, una parola
volgare detta da uno sbadato può distruggere lo stato d’animo del
gruppo.
Gurdjieff si chiede: “In che lingua devo scrivere?” Ha iniziato in
russo, ma non può continuare perché il russo è un misto di essenza e
personalità; i russi un po’ filosofeggiano, poi passano al
pettegolezzo, alle chiacchiere. L’inglese va bene per argomenti
pratici ma non va bene per ponderare, per riflettere sul “Tutto”. La
psicologia dei russi e degli inglesi è come il solianka, uno stufato in
cui c’è di tutto eccetto il “tu” essenziale e l’“Io” reale. La lingua russa
e la lingua inglese non possono parlare della verità su sé stessi.
L’armeno è l’essenza: l’armeno della nostra infanzia, quando le
parole sgorgavano dall’essenza. Quando siamo cresciuti abbiamo
imparato il russo e l’inglese. Ma il linguaggio dell’essenza non può
esprimere concetti moderni. Resta il greco: ma anche in questo
caso, il greco attuale non è quello dell’infanzia; crescendo, il
comportamento cambia. Per un individuo cosciente il
comportamento è un linguaggio.
Molti libri che si scrivono, e addirittura molti lavori letterari,
sono manifestazioni di stati patologici; per esempio esiste lo stile
canceroso, lo stile tubercolotico, lo stile sifilitico.
Da critici letterari, siete in grado di distinguere la differenza fra
uno stile di sole parole e uno stile in cui oltre alle parole c’è un
contenuto? Il canto di Debora nell’Antico Testamento è un
esempio, ma anche se è stato scritto con tutto il cuore, non è arte
oggettiva perché il contenuto dipende da associazioni casuali.
I racconti di Belzebù sono un libro che distrugge i valori preesistenti,
costringe il lettore serio a riconsiderarli tutti, e per chi è sincero è

171
devastante. Come dice Gurdjieff, vi può togliere il piacere per il
vostro piatto preferito: le vostre care teorie per esempio, o la moda
artistica che vi capita di seguire. È come il peperone rosso: vi turba
le associazioni mentali ed emozionali, l’inerzia.
Per quanto mi riguarda, oggi mi rendo conto che ho tentato di
usare queste idee per due anni, cercando di assimilarle all’insieme
dei miei valori, nella speranza di arricchirli senza abbandonarli.
Pensavo che le nuove idee avrebbero ampliato la portata di quelle
vecchie, ne avrebbero esteso la prospettiva apportando una
peculiarità al contenuto. Ora mi accorgo che la struttura attuale sta
perdendo ogni valore. In questo lavoro arriva il momento in cui
quasi tutti si chiedono: “Perderò ogni valore per me fonte di
stimolo, ma sarò in grado di continuare con quelli nuovi, che sono
di un ordine diverso?”
Nel prosieguo del libro si capisce che l’universo è governato in
modo ragionevole e intelligente, e che ci sono molti particolari di
cui tener conto; che sul nostro pianeta la vita non è normale ma che
l’uomo, con sforzi particolari, può diventare normale. Belzebù è
stato esiliato. Cosa in noi è stato esiliato? Siamo identificati con il
plesso solare, con le emozioni. Il plesso solare è un centro
disorganizzato e privo di connessione. Un lavoro continuativo
darebbe luogo a un’emozione raccolta per uno scopo definito,
anziché l’altalena e la sfibrante conflittualità di emozioni
contrastanti.
Belzebù ha costruito un osservatorio, ma solo dopo molti
tentativi e dopo aver introdotto varie migliorie. Prima di poter
iniziare a osservarci in modo corretto, dobbiamo lavorare a lungo su
noi stessi.
Una delle prime critiche che vengono spesso mosse al Metodo e
al sistema, è quella di essere egoistico e privo di amore. Gesù disse:
“Non preoccupatevi di voi stessi”. Belzebù dice: “Pensate solo a voi
stessi (nel modo giusto, ovviamente), perché solo allora potrete
occuparvi degli altri”. C’è una frase di Gesù che riportano gli
gnostici: “Seguitemi e mi perderete. Seguite voi stessi e troverete me
e voi stessi”. Gli gnostici introdussero nel cristianesimo il Metodo
che stiamo studiando; ma quando i capi “cristiani” della giovane
Chiesa ottennero il potere, espulsero e perseguitarono gli gnostici.

172
Karnak è una parola armena legata al concetto greco di corpo,
inteso come “tomba dell’anima”.
I racconti di Belzebù si rivolgono al morto, addormentato nel
sepolcro del corpo. È un libro di termini proferiti dall’“Io”. Ciò che è
compreso diventa un punto di partenza per agire. Non c’è nulla nel
libro che io non conosca già, ma non mi sono ancora svegliato,
dunque non me ne sono reso conto.
Conoscete il mantra: “Più radioso del sole, più candido della
neve, più rarefatto dell’etere è il Sé nel mio cuore. Io sono quel Sé,
quel Sé che io sono”. Possiamo dire che il nipote di Belzebù, il
giovane Hassin, rappresenta quel sé presente in noi: Hassin, il
giovane “Io”».

«A proposito del sistema di navi spaziali, possiamo dire che il


sistema di Gurdjieff è in qualche modo “psicologico” e richiede
all’allievo un lavoro attivo. Soppianta il sistema passivo della fede,
dell’amore e della speranza. Cos’è il cilindro? Il contenitore era
sigillato ermeticamente, chiuso con il sigillo di Ermete, che insegnò
questo metodo, la via dell’uomo astuto. Maggiore è la densità delle
sostanze - la nebbia e il gas delle emozioni negative (sempre che si
sappia come usarle) -, meglio procede la nave. Con le religioni di un
tempo si rimaneva all’interno della chiesa e si veniva trasportati
meccanicamente in un paradiso meccanico. Con questo sistema
bisogna muoversi da sé. È il viaggio di un pellegrino, un percorso di
difficoltà e conflitti ma, pafados- salmente, è anche una via più
rapida e più sicura rispetto ai facili sistemi importati in Europa
dall’Asia.
II sesto capitolo è ima parabola ma anche una specie di
caricatura. Di fatto lo sono molti capitoli, in senso religioso. Qui una
“caricatura” è la rappresentazione di un aspetto della vita umana sul
pianeta, amplificata in un certo modo per attrarre l’attenzione, per
far riflettere e dunque arrivare alla verità. E una satira sui vari culti
religiosi, le sette, i riti, i misteri, i metodi di respirazione, di digiuno
e via dicendo, che pretendono di garantire l’immortalità. È arrivato
il razionalismo e li ha bastonati tutti. Ma il razionalismo è
altrettanto negativo.
Nel capitolo che ha come titolo Sulla conoscenza del vero dovere
esserico non si parla di doveri verso la società, o di “fare il proprio

173
dovere”. Un aspetto riguarda il corpo, che va guidato e usato come
una macchina e di cui vanno realizzate le potenzialità. Il nostro
corpo è una macchina con varie funzioni; al momento la psiche usa
il corpo e ne sfrutta solo una parte. È immorale. Se di norma
lavoriamo solo con uno o due centri, viviamo da esseri
monocerebrali o bicerebrali; per un essere potenzialmente
tricerebrale questo è oggettivamente immorale. Quando iniziamo a
chiederci con rimorso come Hassin: “In che modo posso ripagare
per la mia esistenza e per tutto quello che altri hanno fatto per me?”,
allora cominciamo a renderci conto del vero dovere esserico. C'è un
momento in cui, non necessariamente solo in questo lavoro, ogni
essere tricerebrale si chiede: “Qual è il senso e lo scopo
dell'esistenza? Perché esisto? Perché sono nato? Come mai sono
nato proprio in questa famiglia, in queste condizioni? Cosa devo
fare?”
Belzebù dice a Hassin che al momento non occorre pensarci
troppo. E ancora giovane e deve studiare. In seguito saprà cosa fare.
Nel lavoro siamo giovani e, come Hassin, dobbiamo studiare,
prepararci, leggere il libro, perché le chiavi delle risposte sono tutte
lì, anche se non proprio nella toppa, come dice Gurdjieff.
“Chi adesso è troppo pigro per assimilare tutto il possibile, in
seguito non potrà mettere in pratica la sua conoscenza”. Soffrire in
purgatorio significa sapere e comprendere ciò che dovremmo fare, e
non essere ancora in grado di farlo. Ma ricordate: “zelo senza
stress”; e attenti a non anticipare gli esercizi. Siamo il figliol
prodigo, o qualcosa in noi lo è. Quel racconto, tra l'altro, ci arriva
dagli gnostici. Nell’Inno della Veste di gloria il figliolo partì alla ricerca
di una veste che era stata rubata, ma si smarrì nella vita meccanica e
dimenticò il motivo. Cadde addormentato, ma mentre badava ai
maiali se ne ricordò e tornò dal padre.
Gurdjieff dice che l'uomo perfezionato è superiore agli angeli,
poiché gli uomini che si sono perfezionati a un certo livello di
ragione, sono cellule della mente di Dio. Gli angeli sono le sue
emozioni. La tragedia cosmica consiste nel fatto che gli uomini,
anziché sottostare alle influenze solari, sottostanno a influenze
lunari, e dunque sono lunatici. Leggenda vuole che questo sia il
pianeta Assurdo o Lunatico. È ciò che intende George Bernard
Shaw, quando afferma che il nostro pianeta è il manicomio

174
dell’universo. Recupera l’idea da Luciano, che la prese dai greci, i
greci dagli egiziani, e gli egiziani dagli antichi babilonesi e dai
sumeri.
Eppure la vita sul funesto pianeta prevede una ricompensa.
Patendo il terribile svantaggio della nostra umanità, abbiamo un
vantaggio: la possibilità di perfezionarci e superare gli angeli. Vi è
più gioia in cielo per l’uomo che si è perfezionato grazie agli sforzi
personali, che per novantanove angeli evoluti spontaneamente.
Ne I racconti di Belzebù Gurdjieff scrive: “Chi non ha provato di
persona le sofferenze, non potrà mai comprendere quelle altrui,
neppure se ha la Ragione divina e la natura di un autentico
Diavolo”.
Si parla di sofferenza reale, non di quella comune, meccanica».

«Presso molti Paesi e religioni esistono leggende riguardo a un


incidente, un accadimento non previsto dalle potenze superiori e
che causò il distacco di un grande frammento della Terra, divenuto
la Luna. Gurdjieff parla di due frammenti, il più piccolo dei quali
prese il nome di Kimespai, “che non lascia dormire in pace”. In noi si
ripetono gli incidenti occorsi al pianeta. A una certa età si
verificano dei cambiamenti psicologici: due centri si dividono.
Dobbiamo scoprire cosa rappresentano in noi questi frammenti.
Siamo come Osiride smembrato con l’aiuto del Metodo. Possiamo
ri-membrare noi stessi, raccoglierci, diventare un tutto. Da quale
cometa siamo colpiti a una certa età?
Come ogni altro angelo e personaggio citato, gli arcangeli
Algamatant e Sakaki sono la personificazione di intelligenze
paragonabili alle Dominazioni e alle Potenze di cui si parla nella
Bibbia. Esistono individui superiori, cosmici, aiutanti di Sua Infinità
nel governo dell’Universo, responsabili dei vari sistemi solari; ma
pare che non siano onni-intelhgenti e onniscienti, altrimenti
avrebbero previsto la possibilità di una catastrofe cosmica. Solo Sua
Infinità è onnicompresivo, onnisciente, onni-amorevole; e il suo
vero nome, a dispetto delle migliaia di nomi indù e centinaia di
nomi musulmani, mai potrà essere conosciuto e pronunciato
dall’uomo ordinario.
Sappiamo dell’esistenza della Luna, nota anche col nome
esoterico di Loonderperza, e di cui Powys scrive: “Quella pallida

175
traditrice, la Luna, causa di ogni nostro guaio”; ma Anulios8 resta un
mistero. Lo psicologo razionalista, l’artista e lo scrittore avvertono
un malessere per la perfezione, ma non se ne curano oppure
sognano di compensarlo con l’arte, scrivendo, o migliorando le
condizioni di vita. Sognano da migliaia di anni, così ora il rimorso di
coscienza che nasce dall’inadempienza del proprio dovere esserico
non ha più alcun significato per loro.
I soli miti greci offrono tantissime corrispondenze con il
metodo per sviluppare e perfezionare sé stessi, quel bisogno
costante del lavoro cosciente e della sofferenza volontaria: le fatiche
di Ercole, la ricerca del Vello d’Oro, Ulisse, Perseo e Medusa,
Arianna (e il filo con cui trovare la via d’uscita dal Labirinto della
Vita), la guerra tra greci e troiani a causa di Elena. Cosa rappresenta
Elena? Sono tutte idee contenute in modo molto più elaborato
anche nel Mahabharata, cui i greci si ispirarono per i loro miti.
La lettura del libro è un esercizio per sostenere l’attenzione e
una comprensione creativa. Per comprendere bisogna fare uno
sforzo con tutti e tre i centri. Uno sforzo frammentato non riesce a
realizzare un’unità. Per quanto a lungo posso mantenere
l’attenzione? L’attenzione cambia, bisogna approfittare dei
momenti in cui è presa dalla narrazione.
Considerate la qualità epica dell’ambientazione del racconto. E
una sorta di dialogo tra Belzebù - un uomo realizzato, ideale,
oggettivamente cosciente, che ha portato a termine il suo compito e
ora dispone di una critica, e sta traendo le sue conclusioni in modo
imparziale, costruttivo e senza pregiudizi - e un giovane essere non
ancora sviluppato che desidera comprendere.
Belzebù, distaccato e imparziale, indaga e osserva il corpo del
cosmo (come noi dovremmo osservare il nostro organismo). Lascia
intendere che l’universo ha uno scopo che lui comprende. I sistemi
solari, i pianeti, gli esseri, la vita dell’uomo, tutta la vita organica
hanno una funzione pratica, non teorica o mistica; e le diverse parti
del megalocosmo, noi uomini inclusi, assolvono oppure non
assolvono la loro funzione».

Venne posta una domanda su Gesù. Orage disse che Gesù aveva
studiato in varie scuole inclusa quella degli esseni.

176
All’inizio venne acclamato come guaritore, ma questo fu solo un
aspetto secondario della sua missione. Egli venne a portare agli
uomini un metodo più semplice rispetto al complicato macchinario
concepito dai sacerdoti ebraici; un vascello con motori costruiti con
un numero limitato di parti mobili, per così dire.

Orage continuò: «La singolare vita su questo pianeta nasce da un


incidente. La nostra Luna è un effetto, non si formò in modo
naturale come tutti gli altri innumerevoli pianeti. Di conseguenza si
rese necessario un tipo di vita particolare, affinché venissero
generate radiazioni e vibrazioni speciali per sostenere la Luna e
Anulios. A tal fine si dovette ricorrere agli esseri del pianeta; ma
qualora se ne fossero accorti, avrebbero potuto rifiutarsi di vivere.
Allora venne impiantato negli uomini un organo, il kunda- buffer,
che aveva la proprietà di far vedere e percepire la realtà al contrario.
Fu come irradiare qualcosa nell’atmosfera del pianeta. Non appena
il potenziale pericolo per l’armonia generale fu scongiurato,
l’organo venne rimosso ma le conseguenze rimasero; e da allora gli
uomini, salvo qualche eccezione, hanno continuato a vivere in uno
stato illusorio, di sogno.
Se al termine della giornata noi, persone intelligenti,
esaminiamo in modo imparziale e sincero la nostra condotta, ci
accorgiamo di esserci comportati da idioti, codardi, pusillanimi.
Come ce lo spieghiamo? Ovunque andiamo, infanghiamo i luoghi in
cui viviamo. Se valutassimo il comportamento altrui in modo
altrettanto imparziale lo condanneremmo, cosa che in genere
facciamo. Ma per il nostro non ci scomponiamo, anzi ne siamo
compiaciuti. Siamo talmente compiaciuti e acritici da dare per
scontato l’adempimento dei nostri compiti, e non ci rendiamo conto
che noi, e la vita in generale, stiamo diventando sempre più
meccanici. Il problema del perché siamo così, dello scopo della vita,
del corpo, dei valori che ci animano, non è argomento di riflessione,
è qualcosa che si deve sentire. L’autore della Genesi, per esempio,
raccontò in forma mitologica ma intelligente che la caduta - il
degrado e la meccanicità - avvenne perché restammo sopraffatti dal
centro istintivo, la parte passiva negativa. Come dice Belzebù:
“Purtroppo i tuoi beniamini conoscono solo la parte negativa”.

177
A noi uomini venne riservato il Giardino dell’Eden, nella
speranza che ne avessimo cura. Ci addormentammo e smettemmo
di compiere sforzi, così fummo cacciati. Ma sin dall’inizio non fu
tutta colpa nostra, perciò, dal tempo di Adamo, Sua Infinità inviò
uno dopo l’altro i suoi messaggeri - patriarchi, profeti e maestri - per
portare un metodo in grado di svegliarci e liberarci dagli effetti
della meccanicità dovuta al kundabuffer.
Come mai non riusciamo a utilizzare o conservare le ricchezze
di tutte le civiltà che ci hanno preceduto, la scienza e l’arte
dell’Egitto, la filosofia e la religione dell’India, la saggezza caldea, il
sistema di relazioni personali dell’antica Cina? Come mai non siamo
“eredi di tutte le epoche”? Perché questo impulso a distruggere ciò
che è vecchio? Perché, anziché appoggiarci al passato, dobbiamo
sempre ricominciare daccapo per arrivare a un livello che nelle arti
e nelle scienze sarà inferiore a quello degli antichi? Perché
crediamo e speriamo nel “progresso”, quando siamo circondati da
prove del nostro peggioramento, e lavoriamo giorno e notte per
generare forze che distruggeranno perfino quanto proprio noi
abbiamo costruito?
La risposta è kundabuffer, la nostra mancanza di volontà,
l’incapacità di compiere uno sforzo qualsiasi per lavorare su noi
stessi: per i nostri “riformisti” è una cosa da nulla».

«La psiche è costantemente influenzata dalle suggestioni di massa;


vale per ogni uomo, bianco, marrone, nero, rosso o giallo che sia.
Prendiamo il concetto di “eroe”. Belzebù dice a Hassin che eroe è
colui che si accolla volontariamente ima qualche fatica per il bene
della Creazione. In tale senso Gurdjieff stesso è un eroe. Ha
trascorso trent’anni percorrendo in lungo e in largo l’Asia Centrale,
il Vicino e Estremo Oriente, sopportando incredibili avversità per
appagare il suo desiderio di conoscenza e comprensione, e per
scoprire e insegnare un metodo con cui gli uomini possano
perfezionarsi.
Sul pianeta Terra, fino a tempi abbastanza recenti, si
considerava “eroe” chi era facile vittima della psicosi di massa della
guerra e distruggeva molte vite. Gli antichi attribuivano la follia
umana della guerra a divinità e demoni (nel Mahabharata e nel-
l’Eneide per esempio). Forse in epoche recenti la guerra si è resa

178
necessaria per fini naturali; adesso però, secondo Belzebù, la guerra
è diventata “un orrore degli orrori” del grande Universo, e un
ostacolo al piano divino. Ora gli unici responsabili dell’illusione
della “messinscena della gloriosa guerra” sono l’uomo e la sua
suggestionabilità».

«La prima discesa avviene al tempo di Adantide. Qui non interessa


l’esistenza o meno di Adantide, ma è psicologicamente interessante
l’esistenza di Adantide in noi. Adantide si inabissò nelle profondità
del pianeta. Uno dei nostri compiti è riportare in superficie
l’Adantide sommersa, la coscienza oggettiva sepolta.
Quando viviamo simultaneamente uno stato intellettuale ed
emotivo, dovremmo tentare di approfondire la nostra visione della
razza umana. L’approccio intellettuale è facile, ma da solo non ci
porterà molto lontano: adesso c’è, domani non c’è più. Se invece lo
studio si compie in uno stato intellettuale ed emotivo, e lo
discutiamo praticamente, vivremo un triplice stato in cui sarà
possibile realizzare una verità di carattere duraturo.
Il libro è la storia dell’origine dell’uomo e il suo ritratto
oggettivo. I fatti non sono nuovi, li abbiamo già dentro di noi, ma
sono caotici e confusi: non risiedono nella nostra coscienza. Come
dice Gurdjieff, “non tentiamo di scoprire qualcosa di nuovo, ma di
recuperare quanto è stato perso”. Se ne parla anche in alcune
parabole del Nuovo Testamento.
Per esercizio, proviamo a immaginare in linea di massima le
cinque principali razze umane che popolano la Terra. Ognuna ha la
sua storia. In quale successione fecero la loro comparsa? Quali sono
le caratteristiche razziali, lo stato della loro evoluzione e
degenerazione? Quali sono le caratteristiche oggettive che le
accomunano tutte e che si manifestano conformi ai risultati
dell’organo kundabuffer? Per esempio, tutti gli uomini e le donne
delle cinque grandi razze sono presi dalla vanità, dall’amor proprio,
dall’orgoglio, dalTegoismo ecc. Ma dentro di noi esiste un
determinato standard oggettivo - anche se spesso sepolto in
profondità - che deplora queste caratteristiche. Ad esempio, che
significato diamo all’egoismo? Da un certo punto di vista egoismo
significa ritenere il mio organismo, a cui sono attaccato, superiore
agli altri; dunque valuto gli altri in base alle mie simpatie e

179
antipatie, non per le loro necessità ma secondo le mie preferenze; e
se l’altro ha una svista lo critico sfacciatamente, quando io stesso mi
rendo colpevole di errori colossali. L’egoismo è io, io, io. Forse vi
ricordate l’aneddoto ne La conferenza degli uccelli. “Un giorno Dio
disse a Mosè: Vai e prendi un consiglio da Satana. Mosè si recò da
Iblis e gli chiese un consiglio. Iblis disse: Ricorda sempre questo
semplice assioma, mai dire ‘Io’, cosicché tu non possa mai diventare
come me”.
E la vanità, sacrifichiamo quasi tutto pur di non ferirla. La pietà
per sé stessi è diabolica, ma la vera pietà è divina. Ecco alcune
caratteristiche che abbiamo in comune con ogni uomo. Perché?
Perché, secondo Belzebù, siamo il prodotto biologico di un pianeta
anomalo: siamo normalmente anomali. Per la vera essenza questi
difetti caratteriali sono un’anomalia.
I grandi maestri religiosi non furono dei riformisti come crede
Shaw (Shaw non ha mai capito Gesù); non hanno cercato di
cambiare o ri-formare una data cultura, bensì di modificare la
chimica della psiche umana cosicché gli uomini potessero pensare,
sentire e agire normalmente. Al tempo stesso, tutti i grandi
cambiamenti che hanno rinnovato e vivificato lo spirito umano - la
grande musica, la letteratura, l’architettura - si sono realizzati grazie
a piccoli gruppi di uomini coscienti, che hanno agito in base agli
insegnamenti interiori dei grandi maestri. Tutte le religioni
esteriori istituzionalizzate, di qualunque tipo, si sono sviluppate
travisando la parola dei grandi maestri; fa parte del processo
discendente della Legge dell’Ottava che è conscio all’origine ma
arriva a noi meccanico: l’involuzione. L’evoluzione per noi è il
risultato del lavoro cosciente e della sofferenza volontaria, della
lotta contro questa corrente discendente».

«La “prima discesa” di Belzebù ha luogo a causa di un suo giovane e


inesperto parente, in difficoltà con il re Apollis (viene in mente un
parallelismo con Krishna nel Mahabharata). Per un certo verso, il
racconto della prima discesa è un ammonimento per il riformatore
condizionato dai propri sentimenti, pronto a sostenere che “se ti fidi
delle persone andrà tutto per il verso giusto”, il riformatore che
vede le persone lavorare e soffrire per finalità estranee ai loro

180
bisogni. Egli vede qualcosa in modo chiaro, ma crede di sapere cosa
fare, ed è qui che si sbaglia. Perciò, se riesce a introdurre una
riforma nella sua generazione, nella successiva quella riforma
diventa un abuso. Belzebù mette in guardia Hassin da certe idee
sentimentali sulla razza umana. Gli dice che quei “lumaconi” hanno
una natura doppia. In un certo stato d’animo parlano come se
avessero miele in bocca; in un altro si comportano da mostri e si
fanno l’un l’altro cose che perfino le bestie selvagge aborrono.
Nessuna religione come quella cristiana si è resa responsabile della
distruzione reciproca su una scala tanto vasta, il che ha contribuito
parecchio a screditare il concetto di amore nella testa di molte
persone serie. Eppure nella ricerca della vera conoscenza il concetto
di amore è fondamentale. Le persone scrivono e parlano
continuamente di amore, ma non hanno idea di cosa sia quello vero,
cioè l’amore cosciente. Un aforisma nella Study House dice: «Se
vuoi imparare ad amare, comincia con gli animali, perché sono più
sensibili».
Belzebù arriva dal pianeta Marte. Ci dice qualcosa? Ares in
origine era il dio dei giochi e degli sport, non come li intendiamo
oggi, ma sport di lotta per allenare e mantenere il corpo tonico.
Come sempre, nel tempo questa sfera legata a Ares degenerò nel
simbolo di Marte, dio della guerra e dello spargimento di sangue. Da
un certo punto di vista, allora, possiamo riferirci a chi vive su Marte
come l’Upupa si riferì alla sua specie: un essere impegnato nell’“arte
della guerra divina”, “la lotta divina”.
Dobbiamo sempre tenere a mente ciò che Gurdjieff dice de I
racconti di Belzebù: ci sono tre “versioni” del libro; una esteriore, ima
interiore e ima ancora più profonda; inoltre nel libro ogni
asserzione compiuta presenta sette aspetti. Per un verso dunque,
dobbiamo riflettere su quanto è detto dell’osservatorio su Marte, da
dove Belzebù era in grado di osservare in modo imparziale e critico
la vita dell’uomo sulla Terra. Dobbiamo imparare ad assumere
questo atteggiamento imparziale nei confronti del nostro
organismo».

Orage ripeteva continuamente di non cercare di cambiare qualcosa


in noi senza istruzione diretta di Gurdjieff o di un qualche allievo

181
anziano. Se avessimo tentato un cambiamento senza seguire il
Metodo, si sarebbero potuti manifestare effetti ancor peggiori.
Citava Belloc:

Orage disse: «Se l’organismo si fa trascinare


Assicurati di tenere ben stretto l’infermiere
per timore di incappare in qualcosa di peggio.

o si lascia abbindolare da certi metodi pseudo-occulti o revivalisti,


se le emozioni negative vengono rimosse anziché trasformate dal
Metodo, potranno farsi avanti sette demoni peggiori del primo. Un
aspetto straordinario del Metodo è che la sua pratica modifica
indirettamente quella che è la norma. Con la sensazione, il ricordo e
l’osservazione di sé si apporta all’organismo un cambiamento, come
certe sostanze chimiche si modificano in presenza di un
catalizzatore. Per un altro verso, è come se tre fratellini si trovassero
in una stanza a bisticciare e interferire a vicenda. La porta si apre
piano e il papà guarda dentro. Non fa e non dice nulla, si limita a
osservare. I litigi si placano e ogni bambino torna alla sua attività».

Una delle domande poste nei nuovi gruppi riguardò la maggiore


efficienza.
Venne chiesto: «Lavorare con il Metodo migliorerà il mio modo
di scrivere?»
«Sì», rispose Orage.
«All’istante?»
«Impossibile a dirsi. Alla fine sarà sicuramente così».
«Per un periodo questo lavoro potrebbe costituire un
impedimento a scrivere. Supponiamo che non possa permettermi di
rimandare di scrivere».
«Allora non inizi il lavoro con il Metodo».
Il che portò la discussione a quanto Gurdjieff diceva spesso
sull’impegnarsi a fare tutto bene. «Se comincerete facendo bene
piccole cose, sarete in grado di fare bene grandi cose: in seguito
sarete capaci di lavorare bene su di voi. Piccole cose, come cucinare,
lavare i piatti, pulire un pavimento; ma vanno fatte con attenzione».

182
Studiavamo concetti importanti come le leggi del cosmo, ma
Gurdjieff e Orage erano capaci di riportarci ai piccoli fatti
quotidiani mettendoli in relazione con le grandi idee. Non si
stancavano mai di ribadire l’importanza di fare piccole cose con
consapevolezza, perché solo così saremmo stati in grado di
comprendere nel dettaglio le grandi leggi. Si può sapere tutto con
l’apparato formatore, e non comprendere nulla. Come dice il
proverbio: «Con tutto quello che assimili, assimila la
comprensione».
La comprensione è una delle cose più difficili da comprendere.
Come Gurdjieff diceva spesso: «Non capite cosa significhi
comprendere».
Ne La conferenza degli uccelli l’Upupa parla agli uccelli della terza
valle e dice: «Dopo la valle di cui ho parlato ce n’è un’altra, la Valle
della Comprensione, che non ha né inizio né fine. Nessuna via è
uguale a questa. Per tutti i viaggiatori la comprensione è duratura,
ma la conoscenza è temporanea. L’anima, come il corpo, si trova in
uno stato di progresso o declino; e la via spirituale si rivela solo nella
misura in cui il viaggiatore ha superato i propri difetti e debolezze,
il proprio sonno e l’inerzia, e ognuno sarà più vicino al proprio
scopo in base al suo sforzo... Ci sono vari modi per attraversare
questa valle, e gli uccelli non volano tutti allo stesso modo. La
comprensione può essere raggiunta in maniere differenti: qualcuno
ha trovato il Mihrab, altri l’idolo. Quando il Sole della
comprensione illumina questo percorso, ognuno riceve la luce in
base al proprio merito e trova il livello di comprensione della verità
che gli è stato assegnato. Quando il mistero dell’essenza degli esseri
gli si rivela distintamente, la forgia di questo mondo si trasforma in
un giardino fiorito... Ma per diventare ciò che dovremmo essere in
modo da attraversare questa valle difficoltosa, è necessario avere un
desiderio profondo e costante... Quanto a voi, addormentati! Per
quanto ancora rimarrete così, come un somaro senza cavezza?»
Attar aggiunge: «In Cina c’è un uomo che raccoglie pietre, senza
mai fermarsi. Versa abbondanti lacrime, e quando le lacrime
toccano il terreno si trasformano in pietre, che egli torna a
raccogliere. Pietre che provocherebbero infiniti dolori, se pio-

183
vesserò dalle nubi». La conoscenza reale diventa proprietà del vero
cercatore... ma la conoscenza ordinaria viene alterata dalla mente
convenzionale e si pietrifica, come i macigni.

Qualcuno chiese a Orage la differenza fra miglioramento e


perfezionamento di sé. Egli rispose: «Il miglioramento è la
“sistemazione” di qualcosa che esiste già. Il perfezionamento è la
realizzazione di potenzialità non ancora sviluppate.
Come ho detto, imo dei grandi problemi di noi uomini è che
non impariamo nulla dal passato. Non solo non impariamo nulla,
ma l’educazione e la letteratura cosiddetta “didattica” cospirano per
farci credere che la saggezza del passato, se paragonata al nostro
sapere, altro non è che il frutto di “saccenterie di antichi barbari”,
come dice Gurdjieff. La nostra civiltà non è fondata su civiltà
precedenti; e la scienza, anche se è convinta di fare nuove scoperte,
di fatto è una ripetizione. Belzebù parla di almeno due civiltà
precedenti alle epoche storicamente note, in cui le invenzioni
elettriche raggiunsero imo sviluppo pari a quello attuale. Gurdjieff
racconta di aver partecipato a ima spedizione nel deserto del Gobi,
dove trovarono a diciotto metri di profondità i resti di una città, e
più sotto i resti di un’altra e di un’altra ancora. Anche altri
archeologi si sono imbattuti in situazioni analoghe nei siti di Troia e
di Gerico. Le persone che oggi vivono in quei posti non conservano
alcuna tradizione o leggenda di quelle città sepolte. A confronto
l’Egitto sembra un fatto recente. Da ragazzi ci insegnarono che in
Inghilterra i grandi terrapieni erano resti di campi romani. Adesso
hanno scoperto che sono i resti di un’antica civiltà, di quando Roma
era ancora giovane, e che i grandi anelli di massi a Avebury sono
migliaia di anni più antichi di Stonehenge. La visione storica
comunemente accettata osserva la vita umana attraverso uno
specchio deformante. Gibbon, all’inizio del suo Declino e caduta
dell’Impero romano, afferma che la “storia” è perlopiù un elenco di
crimini.
Oggi l’approccio scientifico ha sostituito quello religioso. Un
insieme di superstizioni ha soppiantato un altro. Gli scienziati sono
impegnati a sezionare il corpo dell’universo; si preoccupano del
“come”, non del “perché”. La scienza vede tutto da

184
un’ottica meccanica, attraverso una parte del centro istintivo-
motore; non ha risposte ai bisogni umani che sono in crisi. Parlo
dello scienziato comune, che dispone di una serie di varie
informazioni, di una conoscenza parziale non verificata
dall’esperienza personale, e spesso contestata da un altro
“scienziato”.
La scienza oggettiva ha per scopo l’indagine sul significato e lo
scopo dell’esistenza: non significa scoprire sempre più cose, ma
scoprire la verità, la relazione reale delle cose».
Qualcuno chiese: «Come definirebbe la superstizione?»
«La superstizione», rispose Orage, «è la disposizione emozionale
alla bugia».

A proposito del capitolo sul Tempo, Orage disse che l’affermazione


di Gurdjieff, «il Tempo è l’Unico Soggettivo», rappresentava la
chiave di tutto ciò che era stato scritto e detto sull’argomento.
Belzebù dice: «Il Tempo non può essere compreso con la
ragione, né può essere sentito per mezzo di una funzione esserica
esteriore o interiore... Bisogna osservare che nel grande Universo
ogni fenomeno, nessuno escluso, in qualsiasi luogo appaia e si
svolga, è solo il risultato di “frammentazioni” successive, conformi
alle leggi, di un qualsiasi fenomeno integrale che trae la sua origine
dal “santissimo Sole Assoluto”, e che, tutti i fenomeni cosmici,
ovunque si producano, hanno perciò un significato “oggettivo”; e
queste “frammentazioni” conformi alle leggi si realizzano sotto ogni
rapporto, compreso quello dell’involuzione e dell’evoluzione,
secondo la legge cosmica fondamentale dell’Heptaparaparshinokh
sacro. Solo lui, il Tempo, non ha nessun significato oggettivo,
perché non è il risultato della frammentazione di alcun fenomeno
cosmico determinato. Non essendo sorto da niente, ma
partecipando continuamente con tutto e restando sovranamente
indipendente, è il solo, in tutto l’Universo, a poter essere chiamato e
glorificato col nome di “Unico Fenomeno Idealmente Soggettivo”...
Solo il Tempo (chiamato talvolta Heropas) è l’unico fenomeno la cui
apparizione non dipende da alcuna fonte; ma lui solo, a immagine
dell’Amore Divino, sgorga sempre da sé stesso in modo
indipendente e partecipa secondo rapporti definiti con tutti i

185
fenomeni che si producono in quanto appare ed è presente in un
dato luogo del nostro grande Universo».
«Siamo come un orologio con tre molle», continuò Orage, «che
differiscono per ereditarietà e situazione iniziale: tutte e tre sono
caricate per durare trecento o quattrocento anni. Gurdjieff dice che
in origine i nostri organi erano predisposti per durare
millecinquecento anni: l’età dei patriarchi non è solo un mito. Cosa
impedisce alle molle di durare? La risposta è la vita anormale
dell’uomo, la sua vita fisica, emozionale e intellettuale. Il regolatore
del nostro orologio non funziona a dovere, comincia a deviare
all’età della responsabilità. Come mai il periodo dell’infanzia e della
giovinezza ci sembrano lunghi e il resto della vita pare scorrere
velocemente ed essere tanto breve? Il Tempo è la potenzialità
dell’esperienza, il numero di esperienze contenute in un dato
centro; e queste esperienze possono essere consecutive, sequenziali
o simultanee. Il “tempo” delle nostre vite dipenderà dal ritmo con
cui verranno consumate queste potenziali esperienze. Conoscete
l’aforisma nella Study House: “All’uomo è concesso un numero
limitato di esperienze; economizzandole si prolunga la vita”».
Belzebù parla della breve durata della vita, in paragone alla
nostra, degli esseri che vivono in una goccia d’acqua.
Analogamente, se noi e la stanza in cui ci troviamo ci riducessimo
alle dimensioni di una pallina da tennis, non ce ne accorgeremmo.
Forse è quanto accaduto alle formiche e alle api milioni di anni fa.
Creature enormi degenerarono diventando un pericolo per il piano
cosmico, così la Natura le rimpicciolì. Per loro oggi il tempo e la vita
sono gli stessi di allora. L’uomo continua a peggiorare; se insiste a
disperdere la propria energia in sciocchezze, se gli scienziati
continuano a inventare mezzi di distruzione impensabili, se gli
uomini continuano a inquinare e avvelenare i fiumi e la Terra con
sostanze chimiche e gassose, forse la Natura farà a loro ciò che ha
fatto alle formiche e alle api.
Per come siamo, le esperienze ci accadono: non ne facciamo un
uso consapevole né possiamo farlo, finché non impariamo a
controllare l’energia fisica ed emozionale che fuoriesce quando ci
confrontiamo con avvenimenti improvvisi e inaspettati. Ad
esempio, un tizio legge qualcosa sul giornale o sente una notizia

186
e immediatamente si identifica, sente intensamente, e la preziosa
energia emozionale e mentale vengono sprecate: così ha accorciato
il suo tempo. Stessa cosa nelle difficili relazioni interpersonali, in
grado di far srotolare, in qualche minuto o qualche ora, una carica
che potenzialmente durerebbe anni.
H tempo è il potenziale infinito, assoluto, di ogni esperienza».

A una domanda sullo spazio curvo, Orage rispose: «Possiamo


capirne qualcosa studiando il funzionamento della Legge
dell’Ottava in noi stessi. Poiché anche lo spazio è soggetto alla legge
di flessione delle linee di forza, una linea in un punto dello spazio
alla fine tornerà su sé stessa. Anche lo spazio va concepito per
ottave, dunque è curvo.
Spazio e tempo sono a tre dimensioni: la successione, la linea; la
simultaneità, la superficie; la visione di tre o più successioni,
l’eternità. Eternità è osservare simultaneamente tutte le
potenzialità di una serie. Il professor Eddington, definendosi come
un verme a quattro dimensioni, si spinge ai limiti di un concetto di
tempo tridimensionale. Di fatto la sua idea concepisce due
dimensioni; la terza dimensione esiste solo se si vedono
simultaneamente tutto il proprio passato, il presente e il futuro.
Gurdjieff ci chiama “pecore”: ci muoviamo su una sorta di linea a
una dimensione.
La ricorrenza è una sfera. Le linee latitudinali tracciano cerchi:
ottave che partono dall’equatore; e la longevità degli esseri
corrisponde alla loro latitudine temporale: chi si trova più vicino ai
poli ha vita più breve. Le linee longitudinali riguardano lo spazio; la
longitudine sta per la reincarnazione nello spazio, la latitudine sta
per la ricorrenza nel tempo. Se non si approfondisce la teoria, il
tutto non può esservi chiaro; per il momento la vostra testa non è in
grado di afferrare queste idee. Puntiamo a sviluppare menti che
troveranno concetti del genere relativamente semplici, come lo è
adesso l’idea delle due dimensioni».
Qualcuno chiese: «Esclude che ci siano persone in grado di
prevedere il futuro o leggere il passato?»
Orage rispose: «Non ne ho mai incontrata una che lo potesse.
Quand’ero ricercatore alla Società di Ricerche psichiche non ho mai
visto né sentito di un caso certo. Si possono intravedere alcune

187
potenzialità, ma non la longitudine e latitudine che ne determinano
la realizzazione. Non mi sono mai imbattuto in un solo fenomeno
che non potesse essere spiegato con strumenti normali.
Il libro di Gurdjieff ha anche l’intento di mandare in crisi i
cervelli più allenati, proprio per il loro modo di ragionare».

«Belzebù rappresenta l’uomo normale ideale. Il suo compito su


questo pianeta è terminato, ha alle spalle la totalità dell’esperienza
umana e ha una critica di natura umana. E oggettivo, imparziale,
senza pregiudizi. E indignato, ma può provare pietà e benevolenza.
Ha approfittato dell’esilio per vivere un’esistenza cosciente e non si
è risparmiato nessuno sforzo per realizzare le proprie potenzialità.
Egli è ciò che noi potremmo essere. Egli è ciò che noi dovremmo
essere. Nelle sue conversazioni ci offre un metodo con cui poter
diventare ciò che dovremmo essere.
Secondo Belzebù gli esseri umani sono responsabili delle
condizioni in cui vivono, condizioni non “confacenti” agli esseri
tricentrici. Qui “confacente” significa “adatto” e anche favorevole al
loro “divenire” ed “essere”. Per colpa del sistema educativo, nella
psiche gli uomini non hanno più cognizione del cosmo in cui
vivono. Siamo consapevoli della natura, della flora e della fauna, e
della civiltà in cui viviamo; allo stesso modo gli esseri tricentrici
dovrebbero accorgersi delle attività del cosmo: il Sole in relazione ai
pianeti, la Terra in relazione alla Luna. Sarebbe “conoscenza
esserica”, vale a dire una conoscenza diretta e personale e non per
sentito dire. Un essere tricentrico normale comprenderebbe i
fenomeni cosmici e l’influenza che le radiazioni, le emanazioni e le
tensioni esercitano su di lui. Ma siamo anormali e non ce ne
rendiamo conto, oppure lo vediamo in modo distorto. Perché?
Gurdjieff stesso è per ognuno di noi uno specchio che riflette la
realtà. Il libro è una specie di specchio. Anche kundabuffer è uno
specchio, ma deformante, in cui vediamo la realtà capovolta.
L’educazione è il risultato delle conseguenze dell’organo
kundabuffer. Platone disse che la sua repubblica poteva realizzarsi
solo con una nuova prole; ma i bambini devono essere educati dagli
adulti e così vengono rovinati. Naturalmente Platone era il filosofo
mentre Socrate era sia il maestro di un metodo sia il filosofo. Ci sono
tante persone, oggi, dotate di un’in telligenza migliore di quanto il

188
loro comportamento riveli; sono libere dalle superstizioni della
religione, della scienza, della morale e della politica; ma con i loro
figli continuano a essere irrazionali. Riconoscono la stupidità del
sistema educativo, ma lo applicano ancora con i propri bambini».

«Secondo Belzebù il nostro Sole non illumina né riscalda. Al di là


delle implicazioni psicologiche, cosa ne sappiamo diretta- mente
del perché il calore e la luce arrivano sul pianeta? Solo ieri, si fa per
dire, la Chiesa affermava con tutta la sua autorità che il Sole era una
piccola palla di fuoco che girava appositamente intorno alla Terra,
per darci luce e calore. E quasi tutti ci hanno creduto. Oggi gli
scienziati dicono che il Sole è un enorme globo di fuoco con fiamme
che si innalzano nella sua atmosfera per migliaia di chilometri. E
quasi tutti ci credono. Come facciamo a saperlo? Belzebù dice che il
Sole è freddo e ghiacciato e che calore e luce sono il rimorso della
materia. Il “sacro aieioiuoa” è il sospiro del rimorso oggettivo. È ciò
che si dovrebbe provare al cospetto di un essere che ha sviluppato
uno stato di coscienza superiore al proprio: un desiderio di essere
ciò che si dovrebbe essere.
Il nostro pianeta, la Terra, è la vergogna del sistema solare. È il
brutto anatroccolo, il nano deforme delle fiabe, fiabe in cui sono
stati custoditi frammenti del vero insegnamento, per sviare i
sospetti di propaganda eretica. L’idea è che, se gli uomini riuscissero
a diventare normali, il pianeta potrebbe redimere il sistema solare.
Anche i trovatori parlarono di questo concetto: erano gli emissari di
una scuola esoterica».

«L’intero Universo esiste e si mantiene grazie al sistema trogo-


autoegocratico: il nutrimento reciproco. Io mangio. Mi nutro di tre
cibi: quello ordinario, l’aria e le impressioni. Ci nutriamo
reciprocamente; di certe persone si dice: “Lui - o lei - mi nutre,
dopo averci parlato mi sento nutrito”. Altri sono vampiri e, se sei
abbastanza sciocco da permetterglielo, ti succhiano e prosciugano.
Il cibo che mangio si trasforma in sostanze che diventano le cellule
del mio corpo. Sono quello che ho mangiato e digerito: ho
letteralmente mangiato me stesso.

189
L’universo è un’entità analoga che mangia per vivere. Ogni
parte dell’universo fisico è il risultato del nutrimento del grande
“Io”, il grande “IO SONO” che è Dio. È un’idea da riscoprire nei
miti. I primi cristiani pensavano che Gesù si fosse tagliato pezzi di
carne, che i discepoli l’avessero mangiata e avessero bevuto il suo
sangue. Secondo Gurdjieff accadde proprio qualcosa del genere.
Molti riti e cerimonie si collegano a quest’idea (la santa Comunione,
per esempio) e ovviamente vengono stravolti. I riti cannibali e la
consumazione di organi sessuali, fonte di procreazione e virilità,
sono un esempio di travisamento totale.
Il mio corpo mangia, ma dov’è “Io”?»

«Gurdjieff dice che dobbiamo imparare a distinguere fra “Io” e “lui”.


Cos’è “Io”? Non disponiamo di esempi di Individualità, Coscienza e
Volontà, la triade che costituisce l’“Io”. Tuttavia, con il passare del
tempo e con il lavoro, possiamo accorgerci di un qualcosa che non è
soltanto un organismo. La nascita delT“Io” e il suo sviluppo sono
stati tema di insegnamenti allegorici in ogni religione, e sono stati
trattati nei Misteri. Nella storia di Gesù hanno un ruolo importante.
“Se uno dei tuoi To’ ti offende, estirpalo”.
“Se il tuo To’ sarà uno, tutto il tuo corpo sarà colmo di luce”.
“Stai in ascolto, e sappi che To’ sono Dio”.
“Io sono colui che è”.
L’“Io” sottostà alla Legge del Tre.
“Lui” sottostà alla Legge del Sette.
Se abbiamo una formazione metafisica, la comprensione
dell’insegnamento di Gurdjieff risulta più semplice. Dovremmo
poter discriminare fra ciò che è in potenza e ciò che è in atto.
Leggete Le tre convenzioni di Saurat».

Discutendo del capitolo sull’arte, Orage disse che al tempo di


Pitagora si parlava agli artisti durante il lavoro, per evitare che
fossero coinvolti emotivamente in quanto stavano facendo.
Continuò: «Ci sono due categorie di arte, quella soggettiva e
quella oggettiva: quella non cosciente e quella cosciente.
L’arte suscita una gamma di emozioni che la Natura, pur
volendo, non è in grado di evocare. Dal nostro punto di vista ciò

190
che definisce l’importanza di un artista è la misura in cui egli è
consapevole di questo. L’artista deve entrare nello spirito della
Natura, nelle leggi della Natura. La comprensione dei princìpi
matematici della Natura non è la comprensione delle sue
dinamiche. La comprensione dell’artista è diversa dalla descrizione
scientifica dei disegni della Natura. Lo scienziato non può
prevedere la Natura, l’artista dovrebbe esserne capace.
L’artista soggettivo coltiva l’arte per uno sviluppo personale. Lo
scopo dell’artista oggettivo è quello di indurre nelle persone un
effetto preciso e calcolato, nel quale può rientrare anche lo scopo
personale.
L’arte è un mezzo per trasmettere un sentimento. L’arte
soggettiva appaga l’artista, l’arte oggettiva va a toccare il
destinatario secondo le intenzioni dell’artista.
In architettura, pittura e scultura, letteratura, danza e teatro,
l’arte oggettiva si fonda sui princìpi ben compresi della Legge del
Sette. Ruskin nel suo Le sette lampade dell’architettura era sulla
strada buona, ma fece confusione. Hokusai disse che dopo la morte
sperava di unirsi al gruppo di artisti della Natura che dipingevano
con la luce e che creavano i fiori. Blake ebbe una visione della vera
creazione:

Tyger, Tyger, burning brighi In thè forest of


thè night,
What immortai hand, or eye Could frame
thy fearful symmetry!

Tigre! Tigre! Ardente e luminosa, nella


foresta della notte,
Quale immortale mano o occhio
poté dare forma alla tua terribile simmetria!

L’uso moderno della parola “creazione” è fuori luogo. L’arte


moderna accade e basta. Stiamo parlando del bohémien, il tipico
artista soggettivo che esprime sé stesso. Molti artisti non provano
emozioni da uomini, ma solo estetiche. Possiamo dire: “Segui l’arte,
segui la ragione”. I veri artisti sono le antenne della Natura; la
Natura si avvicina e manda avanti i suoi artisti.

191
Nella Study House c’è un aforisma: «Non apprezzare l’arte con il
sentimento».
L’arte oggettiva porta a uno stato privo di identificazione. In
questo lavoro, l’arte per eccellenza è fare di sé un essere umano
completo».

«Nel capitolo Arci-assurdo Belzebù dice che non utilizziamo né la


prima né la terza forza santa; dice: “Solo le cristallizzazioni della
seconda parte dell'Okidanokh onnipresente, la santa Negazione,
servono al rivestimento della loro presenza. Quindi, la presenza
della gran parte di loro è costituita soltanto dal corpo planetario
che, come tale, sarà distrutto per sempre”.
Avete mai pensato che quasi tutte le attività umane non sono
volte a soddisfare i bisogni legittimi del corpo planetario, bensì ad
appagarne i desideri e le debolezze? Guardate Wall Street, il Royal
Exchange, i negozi sulla Quinta Strada e Bond Street, pensate ai
milioni di persone impegnate a fabbricare prodotti per gratificare i
capricci e le vanità femminili, ai milioni spesi in armamenti ed
esplosivi, per lo sport, per i fertilizzanti chimici che avvelenano la
terra, e per le medicine inventate per curare le malattie che ne
derivano. Pensate alle migliaia di ettari di boschi tagliati ogni mese
per fare la carta su cui verranno stampate le insulsaggini di
giornalisti e scrittori illetterati; e all’energia impiegata nella
produzione di aeroplani e automobili! Man mano che il ritmo della
vita accelera e la vita si fa sempre più complicata, l’uomo perde
sempre più ciò che gli appartiene. Tutta questa energia e queste
tensioni inutili all’essere, la Natura se le riprende per i suoi scopi.
Una delle grandi illusioni dovute all’organo kundabuffer è
ritenere la ricerca della felicità un fine in sé positivo. Se abbiamo
uno scopo reale, di conseguenza possiamo renderci felici».
«Le teorie possono essere familiari, ma finché non troviamo una
corrispondenza in noi stessi, non possiamo capire nulla
dell’Universo. Gurdjieff condanna il modo in cui usiamo
l’immaginazione perché è prevalentemente fantasioso. Ma il libro
offre l’opportunità di farne un uso corretto; un esercizio per
l’immaginazione consiste nel passare dal personale all’universale e
viceversa.

192
Se comprendiamo qualcosa di come operano in noi la forza
attiva, passiva e neutralizzante, allora possiamo comprendere
qualcosa della Legge del Tre nell’Universo, idem per la Legge del
Sette. Vi siete già resi conto di come funzionano in voi queste due
leggi, i cui processi sono sempre attivi? Se la risposta è no, allora è
solo conoscenza, e come tale può svanire.
Il novantasei per cento della civiltà si occupa del centro
istintivo-motore, il corpo planetario; il tre per cento di cultura, le
emozioni; solo l’uno per cento si interessa al “PERCHÉ?”, la vera
mente. Nella nostra civiltà il centro istintivo-motore, che dovrebbe
essere la parte passiva, è diventato la parte attiva, positiva. Siamo
l’uomo capovolto, crocifisso a testa in giù».

«Pitagora insegnò questo sistema, questo metodo, ma del suo


insegnamento non rimane traccia, se non in alcuni frammenti, forse
di alcuni gruppi secondari. I libri scritti che lo riguardano sono
quasi tutti congetture. Ma il suo insegnamento ebbe un’enorme
influenza. Il Timeo di Platone racchiude la cosmogonia di Pitagora.
Alcuni Movimenti e danze di Gurdjieff si basano sui frammenti
dell’insegnamento pitagorico, per esempio L’iniziazione di una
sacerdotessa. Quando Aristotele impostò i capitoli del libro sulla
metafisica, intese trattare dello spazio, del tempo, del pensiero e
della forza, alla luce dell’insegnamento ricevuto da Pitagora; ma
pare che non l’abbia mai fatto».

«Gli esseri di questo pianeta sono peculiari perché le condizioni


sono particolari; sono esseri unici, e lo sono specialmente nella
natura della loro ragione distorta. Perché tutti quelli con cui ho a
che fare, per me sono dei pazzi? Perché loro pensano lo stesso di me
e mi compatiscono? E come mai abbiamo entrambi ragione? Perché,
in momenti di maggiore tranquillità, riconosciamo la sostanziale
insensatezza delle persone? Perché è così facile vedere gli errori
negli altri e tanto difficile vederli in noi stessi? E un fatto noto da
sempre, pensate a Socrate e alla storia di Sakuntala nel Mahabharata.
Per gli esseri detentori del potere questa insensatezza è scontata,
e la sfruttano nelle relazioni con quella che definiscono “la massa” o
“la gente”. Perché è difficile comportarsi in modo ragionevole

193
quando c’è di mezzo una massa di persone? Tutti ammettono che il
settantacinque per cento delle leggi e regolamenti sono stupidi, e
cercano di eluderli. Eppure raramente qualcuno protesta».

«Calore e luce sono il rimorso della materia. Quando siamo nello


stato del ricordo di noi stessi, le partì del nostro corpo provano
rimorso, che non è un senso di inferiorità ma una sorta di dolore per
ciò che siamo, misto a un desiderio: appare una luce che ci permette
di osservare in noi qualcosa, fino a un momento prima nascosto
nell’oscurità.
In qualche contesto la fisica moderna afferma che siamo un
effetto dell’elettricità. Le tre forze si uniscono (Okidanokh,
elettricità, positivo, negativo e neutralizzante): Gurdjieff dice che
due civiltà precedenti alla nostra sono decadute per l’eccessivo uso
meccanico dell’elettricità; la terza potrebbe essere la nostra. Questo
uso meccanico esagerato sottrae l’elettricità destinata all’utilizzo
psicologico, e così le persone non hanno né volontà né obiettivi.
L’educazione ne risente. In quest’epoca l’educazione si interrompe
nel momento in cui un tempo iniziava, vale a dire fra i diciotto e
ventuno anni: un periodo di ideali, dal quale i giovani si aspettano
qualcosa che dia maggiore significato alla loro vita rispetto a ciò che
osservano nelle vite degli altri. In quel periodo la vita è piena di
elettricità, ma nessuno indica alla gioventù cosa farne. Il risultato è
che i più idealisti diventano dei cinici, fanatici, oppure si drogano,
eccedono nel sesso; soccombono al centro istintivo-motore».

«Nel capitolo Perché gli uomini non sono uomini ci viene detto che
per una qualche “inavvedutezza” da parte degli Individui Sacri, una
cometa entrò in collisione con la Terra, dalla quale si staccarono
due pezzi. Biologicamente, siamo il prodotto della Terra, e
replichiamo le carenze organiche del pianeta. Si staccarono due
centri: la nostra natura si scisse. Sakaki scese sulla Terra per
accertamenti, e scoprì che il pianeta e la vita su di esso dovevano
necessariamente sostenere i due satelliti grazie a una sostanza di
nome Askokin, che poteva essere generata solo con il sudore, con lo
sforzo fisico, emotivo e mentale. Ogni organismo, ogni atomo
doveva accollarsi la sua parte di fardello.

194
Sakaki temeva che gli abitanti del pianeta, con una ragione forse
non ancora adeguatamente sviluppata, si sarebbero ribellati
rifiutandosi di procreare. Così venne impiantato in loro l’organo
kundabuffer, con il risultato di fare “vedere la realtà a rovescio”; i
terrestri scambiarono l’effimero per reale e per la prima volta fecero
qualcosa che non aveva precedenti in nessun altro pianeta:
cominciarono a distruggere le altre esistenze, e così la Natura
ricevette l’aiuto di cui aveva bisogno. Non appena la situazione fu
ritenuta sicura, Sua Infinità fece rimuovere l’organo, ma le
conseguenze rimasero. L’uomo restò nello stato di sonno e dai
tempi dell’ultima Babilonia, ottomila anni fa, egli ha continuato a
degenerare lentamente. Ci capita di vivere in un periodo in cui il
processo degenerativo è in accelerazione: la velocità è aumentata
addirittura rispetto al diciottesimo secolo.
Perché questa ingiunzione divina: “Con il sudore della tua
fronte mangerai il pane”? Perché questa maledizione della fatica,
della necessità di sudare? Perché questa apparente malevolenza
divina? Secondo Belzebù non si tratta di malevolenza, ma di una
necessità cosmica. Nessuno vi sfugge, tutti devono pagare. Ma Sua
Infinità, praticamente dall’inizio del mondo, ha mandato sulla
Terra i suoi messaggeri e continua a inviarli, per insegnare agli
uomini come ripagare la Natura e, al tempo stesso, lavorare su di sé
e usare parte delle loro fatiche per il proprio essere. I suoi
messaggeri insegnarono agli uomini il Metodo con cui Egli Stesso ha
sconfitto il Tempo, lo spietato Heropas. Ha mandato il suo
Unigenito Figlio, affinché a loro volta gli uomini potessero
diventare figli di Dio e lo aiutassero nel suo disegno divino. Questo
Metodo venne insegnato sotto varie forme da tutti i grandi maestri.
Ora abbiamo la possibilità di pagare in modo consapevole, cosicché
la stessa maledizione può trasformarsi in una benedizione. Platone,
che aveva appreso il Metodo da Socrate e aveva studiato il sistema
con i sacerdoti in Egitto, disse: “Le maledizioni divine sono le nostre
opportunità”.
“Voi non appartenete a voi stessi. Siete stati comprati a caro
prezzo”, dice san Paolo». «La nostra natura è doppia - “Io” e “lui” -
ma ne abbiamo vaga coscienza.

195
Nello stato attuale, il corpo non aiuta la coscienza. Se impariamo a
separare “Io” da “lui”, possiamo servirci del corpo. Quando
pratichiamo i Movimenti o le danze di Gurdjieff, usiamo il corpo:
siamo costretti a compiere uno sforzo per essere coscienti. Come
mai il corpo non segue la mente? Perché non c’è relazione tra corpo
e coscienza? Perché ci sentiamo stranieri nel nostro corpo? San
Paolo dice: “Non riesco a fare ciò che voglio, faccio quello che non
voglio”.
L’anormalità riguarda non solo la natura umana, ma la Natura
in generale: “L’intera creazione soffre e si travaglia, nell’attesa della
venuta dei Figli di Dio”. La Terra soffre per un fine cosmico. Se
affrontiamo le disgrazie tra lamenti e autocommiserazioni,
soffriamo maggiormente e facciamo soffrire anche gli altri. Se le
affrontiamo con coscienza, possiamo fare uno sforzo per volgerle a
nostro vantaggio, a un uso più elevato. Non basta soffrire in
silenzio, perché si rischia di scivolare nel risentimento. Lo sforzo
cosciente genera comprensione. Belzebù stesso ha dovuto sudare
per comprendere ciò che già sapeva».

Qualcuno parlò dell’eterna domanda: «Quando partecipo al gruppo


e la ascolto, avverto con il sentimento che è tutto vero, sento di
essere in grado di fare, e che d’ora in poi vivrò seguendo
l’insegnamento. Ma la mia testa sa che, finito l’incontro, mi si
ripresenteranno le solite debolezze. Dimenticherò e tornerò a
vivere come prima, continuando a essere quello di sempre fino al
prossimo gruppo».
«Dal suo tono di voce», rispose Orage, «sembra che lei corra il
rischio di cedere allo sconforto, l’ottavo peccato mortale. Questo
lavoro è un continuo ricominciare. Ogni volta che lei compie uno
sforzo, rinforza un po’ la muscolatura spirituale; ricomincia
daccapo, come un bambino che impara a camminare, e questo
lavoro è infinitamente più difficile e complesso. Ma i risultati sono
garantiti. Dobbiamo ricordare che, a causa dell’organo kundabuffer,
soffriamo di una specie di malattia alla colonna vertebrale con
effetti simili all’oppio; da qui la difficoltà nel compiere uno sforzo
reale. L’organo ci ha fatti impazzire, e sebbene ora sia solo virtuale,
gli effetti permangono. In genere nasciamo sani di mente ma poi

196
diventiamo matti, per l’influenza dei nostri anziani, per il desiderio
di fare come gli altri, per l’educazione in senso lato, nemica della
razza umana».

«Qual è il vero significato del sacrificio? Belzebù ne parla parecchio.


I grandi maestri e gli eroi si sacrificano per l’umanità, in certi casi
vengono proprio sacrificati: Gesù, per esempio. E secondo Belzebù,
Giuda (che era il più vicino a Gesù e il più fidato) sacrificò sé stesso
per il bene degli altri discepoli e per i posteri».
«Ho sempre avuto l’impressione», dissi, «che ci sia qualcosa di
sbagliato o distorto nella teoria evoluzionistica dei sacrifici e dei riti
della fertilità, interpretati come il punto di partenza di un pensiero
religioso di popolazioni primitive. Deve essere il contrario. L’idea di
ima divinità o di un eroe che muoiono per il bene dell’umanità è
stata falsata, si è confusa con concetti religiosi distorti; Dio si
incarnò in un Re e il Re venne sacrificato. Per esempio, si dice che
la morte di William Rufus fu un sacrificio rituale all’antica religione
(non cristiana). Esistono molti esempi di re o sacerdoti - per non
parlare della gente comune - sacrificati per il bene degli altri».
«C’è parecchio materiale in quello che dice», rispose Orage, «ed
è possibile che nell’antichità i veri sacerdoti conoscessero i periodi
che necessitavano di tante morti, da cui la quantità abnorme di
animali sacrificati dagli antichi indù, dai semitici e dai greci. Nel
Mahabharata si dice che gli dèi vengono nutriti dai sacrifici. Ma
quali?
Per un verso possiamo interpretare la strage degli esseri di cui si
parla nella “terza discesa”, come lo sterminio dei desideri istintivi
innocenti. Ancora, secondo uno dei sette aspetti, i tre centri di
cultura sono tre forme di yoga che singolarmente distruggono
l’unità del tutto. La terza discesa è nel centro istin- tivo-motore,
dove i desideri genuini vengono sacrificati dai puritani, dai monaci,
da asceti di ogni tipo, che reprimono i bisogni fisici naturali, gli
istinti e i desideri.
I doveri istintivi oggettivi sono quelli di essere buoni padri e
madri, buoni mariti e mogli, buoni fratelli e sorelle, buoni figli e
figfie e un buon cittadino. Lo yoga degli asceti, in senso lato, rende
la cosa praticamente impossibile.

197
Tutto ciò si riflette sul nutrimento reciproco, il trogoautoego-
crat. Nella religione cristiana il concetto di sacrificio è degenerato
nella rinuncia a ciò che per noi è motivo di godimento. Tocca
l’apice con i puritani, che promulgarono leggi per l’abolizione di
tutto quello che piaceva alla gente: la danza, il canto profano, le
feste, le rappresentazioni, i combattimenti con l’orso, e soprattutto
il sesso. Per il puritano, il più intollerante fra gli uomini, se qualcosa
è spiacevole allora va bene. In questo senso siamo tutti puritani
pervertiti: sacrifichiamo qualsiasi cosa fuorché la nostra sofferenza
meccanica. Ma se vogliamo procedere in questo lavoro, dobbiamo
sacrificare questa sofferenza meccanica, il risentimento,
l’irritazione, lo scoramento, l’autocommiserazione, il
sentimentalismo: tutto ciò che rappresenta la nostra personalità. Le
pene della morte della personalità sono i dolori da doglie per la
nascita delirio”. Angelus Silesius ha detto: “Io stesso devo diventare
Maria e far nascere Dio”».

«Con la riflessione, la ponderazione e la sensazione, facciamo lo


sforzo di comprendere queste idee, e quando comprendiamo
proviamo una sensazione e un sentimento di luce. È la vera luce dei
Vangeli, che riceviamo attraverso “la misericordia amorevole del
nostro Dio; per mezzo della quale l’alba è venuta a trovarci dall’alto,
per portare luce a coloro che sono nelle tenebre”. La luce della
comprensione: “Salve, o Luce che allieta, colma della sua pura
gloria”. I santi e i poeti lo hanno sempre saputo. Quando non
riusciamo a comprendere, il senso di impossibilità genera
un’emozione. “Perché non posso comprendere?”, esclamiamo. E
siamo come il serpente che si morde la coda disprezzandosi. Ma se
tentiamo di comprendere sviluppiamo il vero pensiero; perciò è
necessario che tutti i centri lavorino insieme».

«La materia primordiale è una. Ma uno è tre: affermativo, negativo,


riconciliante, o anche positivo, negativo, neutralizzante. Siete in
grado di distinguerli? Brevemente, in un atomo di idrogeno il
protone è il positivo, l’elettrone il negativo, il movimento
dell’elettrone attorno al protone genera energia: il neutralizzante. È
un concetto squisitamente metafisico. Abbiamo tre cervelli, che
manifestano ognuno una forma di elettricità. Chi ha i tre centri

198
equilibrati è un essere normale. La Natura ha sviluppato il cervello
del corpo planetario quasi alla perfezione (anche se poi l’abbiamo
rovinato) ma lo sviluppo dei cervelli dei centri emozionale e
mentale è stato affidato a noi. E qui subentra la nostra anormalità. Il
“sì” è della mente, il “no” è del corpo; il riconciliante è delle
emozioni. Il corpo sa il “come” delle cose, la mente sa il “che cosa”;
l’emozione, più la mente e il corpo, comprende il “perché” delle
cose. Gli scienziati si interessano del “come”, non del “perché”.
Qualsiasi nuova invenzione viene considerata dalla massa “sacra”, al
di là dei danni che può arrecare all’umanità: la superstizione
moderna della conoscenza come un fine in sé trova in questo modo
la propria giustificazione. Nella Study House un aforisma dice:
“Prendi la scienza dell’Occidente e la comprensione dell’Oriente, e
poi cerca”. Alla radice di ogni male c’è la conoscenza priva della
comprensione».

«Comprensione e “Io” sono un tutt’uno. Il significato originale di


estasi è: essere capaci di stare all’esterno di sé. I poeti mistici
orientali hanno usato la similitudine dell’amore erotico. Nel
culmine dell’unione sessuale hanno sperimentato la sensazione di
trovarsi al proprio esterno, una non-identificazione; che non è
quanto capita alla maggioranza delle persone, e che Gurdjieff
definisce “palpitante oblio di sé”. La Natura non ci aiuta a sviluppare
il secondo e il terzo corpo ma ci fornisce le sostanze che, se
lavoriamo seguendo il Metodo, possiamo trasmutare nella materia
dei corpi superiori.
Nella “seconda discesa”, la storia di Atlantide inabissata può
essere rapportata alla coscienza oggettiva profondamente sepolta in
noi, inghiottita dalla personalità. La coscienza oggettiva è la
funzione di un essere normale, e nella nostra essenza rappresenta
Dio. Cosa simboleggia Giovanni Battista? La coscienza oggettiva che
urla nel deserto del corpo, la coscienza oggettiva decapitata dalla
vita esteriore».

«Per portare a termine la sua missione, Belzebù approfitta di una


superstizione degli esseri del pianeta. In questo lavoro dobbiamo
stare attenti perfino ai nostri maestri. La ragione dell’uomo
ordinario è talmente fantasiosa che, per una finalità buona,

199
i maestri devono ricorrere a imbrogli e addirittura a bugie. Gurdjieff
ci prepara sempre dei tranelli per costringerci a adoperare la
ragione. Ha scritto un aforisma nella Study House: “Se non sei
dotato di uno spirito critico, la tua presenza qui è inutile”. Pensiamo
che Gesù abbia predicato il vangelo dell’amore per il nostro bene.
Potrebbe essere così se riuscissimo a comprenderlo, e tuttora è così
se impariamo a distinguere i tre tipi di amore (sebbene ce ne siano
sette in tutto) e a praticare l’amore cosciente. Dopo aver
dissotterrato la coscienza oggettiva, disporremo di una guida
infallibile. Non c’è dubbio che Gesù fosse consapevole di come
sarebbero andate a finire le cose (in base alla legge di deviazione
della linea di forza, la Legge dell’Ottava) e degli effetti deleteri
dell’amore meccanico che, come tutto ciò che non è cosciente, è
male. Secondo i testi greci, Gesù stesso usò due termini diversi per
indicare l’amore cosciente e quello non cosciente».

«Uno dei principali scopi dell’uomo è quello di sviluppare, da una


sostanza chiamata “essenza”, un tipo speciale di ragione - la ragione
oggettiva - che fa di lui una cellula cerebrale permanente della vita
nel suo insieme. Se l’uomo acquisisce la ragione oggettiva, può
contribuire alla salvezza della Creazione. Gurdjieff dice che la
Creazione ha bisogno di questi esseri relativamente liberi. Se
sviluppiamo la coscienza, la volontà e l’individualità, diventiamo
una cellula cerebrale dell’Universo. La ragione dell’uomo comune è
la ragione della conoscenza; la ragione dell’uomo compiuto è la
ragione della comprensione. La ragione istintiva ci accomuna agli
animali, ma è di qualità più elevata. La ragione associativa funziona
in base alle associazioni verbali. Della ragione oggettiva al momento
sappiamo ben poco ma, una volta ancora, può essere sviluppata
esercitando i cosiddetti “partk-dolg-doveri” esserici. La ragione
oggettiva è l’opposto del mero intellettualismo e della mera
speculazione filosofica che producono nient’altro che mostri.
Una volta Bernard Shaw mi disse che, all’età di venticinque anni
circa, ebbe la consapevolezza del fine della Natura riguardo allo
sviluppo dei cervelli. Ma Shaw lavorò soprattutto con il centro
mentale e divenne un riformista, non un maestro.

200
Nella terza discesa c’è una stoccata anche per quell’indulgenza
sentimentale nel rapporto con gli animali che hanno gli indù e gli
inglesi contemporanei: l’emozione negativa del sentimentalismo
che si spaccia per umanitarismo».

«Cos’è quel seme di papavero di cui Belzebù parla nel racconto del
suo terzo volo sul pianeta Terra? Quali sono i suoi effetti? Il seme di
papavero fa inventare valori, rende impossibile la visione della
realtà, impedisce alle persone di farsi guidare dall’istinto e
dall’esperienza. Considerate il ruolo attuale della rédame e
collegatelo alla quantità di cose che facciamo, ci procuriamo,
desideriamo, e che non apportano alcuna soddisfazione esserica; a
tutto questo aggiungete la moda della pubblicità. Nel Mahabharata
ci sono parecchi riferimenti agli infiniti desideri dell’uomo per cose
effimere; eppure, più vengono appagati e sempre più ne saltano
fuori altri a reclamare soddisfazione. I desideri e le voglie inutili
dell’organismo sono come il ranuncolo arrampicante che, se non
trattato, finirà col soffocare un campo fertile. La masticazione del
seme di papavero inizia nell’infanzia, quando ascoltiamo
seriamente i genitori e la balia. I bambini sono le vittime
predestinate dei negozianti, ed è così per tutta la vita. Se mi viene
detta una verità stimolante, rivelatrice di un qualcosa di me stesso,
la vanità e l’amor proprio si offendono. Me ne risento. Ma se
qualcuno mi lusinga gli sarò amico per sempre, anche se quelle
lusinghe mi fanno più male che bene. Quanti credono che le
celebrità pubbliche siano “persone importanti”, celebrità che nel
privato sono vuote, presuntuose e permalose? Le masse venerano i
dittatori e considerano “grandi uomini” chi in realtà è in totale balia
della vanità, dell’orgoglio e dell’egoismo a livelli folli. Restiamo
ammirati da ciò che fa spettacolo. H.G. Wells, per esempio, da
giovane lesse i libri di C.H. Hinton, che erano zeppi di strane teorie.
Hinton era un matematico che trascrisse le proprie idee in forma di
racconto, i Romanzi scientifici, ma era uno scrittore mediocre.
Wells era un bravo venditore, un uomo di spettacolo. Sviluppò
alcuni temi di Hinton ne ha macchina del tempo e in altri libri, si
fece un nome e i soldi. Hinton rimase uno sconosciuto.

201
Le persone possono ricevere delle verità solo sotto forma di miti
e racconti. L'altro libro a cui sta attualmente lavorando Gurdjieff,
Incontri con uomini straordinari, è un capolavoro di racconto
breve: storie che racchiudono frammenti di verità. Gurdjieff, tra
l'altro, da giovane studiò la filosofia indiana e in seguito lesse i libri
di Madame Blavatsky; durante uno dei suoi viaggi in India e in
Tibet scoprì che nove riferimenti su dieci riportati dalla Blavatsky
non facevano capo a conoscenze personali. Disse che gli ci vollero
parecchi anni di indagini per verificarlo. In Tibet egli non era un
agente straniero; ricevette dai monasteri del Dalai Lama l'incarico
di esattore di tributi, e in questa veste fu in grado di farsi aprire le
porte di tutti i monasteri. Scoprì casi di sviluppo anomalo, “grandi
estasi'', poteri cosiddetti “magici”, ma dice che trovò ben poco che
potesse definirsi conoscenza oggettiva, se non qualcosa in certe
danze e cerimonie. Gran parte dei poteri sviluppati da alcuni
monaci erano varianti alla norma: interessanti ma inutili ai fini di
un metodo di sviluppo per la gente del mondo occidentale, così
come lui lo concepiva. Ma la vita dei tibetani era meno
compromessa e più vicina a una vita normale rispetto alle altre
esistenti sul pianeta. Per un verso è stata meno intaccata
dall'influenza deteriore della civiltà occidentale, dall'altro non ha
subito l'influenza distruttiva del comunismo, com'è accaduto ad
altre nazioni. Ma fra non molto, quello che Gurdjieff chiama il
“mare di fango” di queste due forze, che ha già sommerso gli antichi
modi di vita nel resto del pianeta, inghiottirà anche la vita tibetana.
Belzebù racconta che durante il viaggio verso il Tibet, di notte
dovette accendere assieme ai compagni un anello di fuoco, per
tenere a distanza le fiere. Quando viviamo lo stato del ricordo di sé,
siamo al riparo dagli assalti delle emozioni negative. Quando siamo
addormentati, con la guardia abbassata, “di notte”, veniamo
attaccati. Buddha insegnò il metodo, insegnò ai discepoli come
sopportare le manifestazioni sgradevoli degli altri; ma un po’ alla
volta i discepoli si discostarono dal sentiero e alla fine raggiunsero le
vette del cerebralismo, dove la “vita” è impossibile. Anche in
Occidente ci sono persone che nella loro testa sanno tutto del
buddhismo, ma con “l’essere” non capiscono nulla.
Buddha, al pari di Pitagora e Gesù, lavorò concretamente e non si
limitò a parlare».

«Il capitolo sulle scimmie va riferito a noi stessi. Noi siamo una sorta
di scimmie, caricature di esseri normali. Ci sono casi estremi: il
filosofo astratto che si interessa di termini e concetti; il sacerdote
alle prese con simboli di cui ha scordato il significato; il finanziere
che ha dimenticato lo scopo del denaro e lo tratta come pura merce.
Lavorano con un centro. Pensate anche alla quantità di testi sulla
metafisica: il centro intellettuale che tenta di risolvere tutto da sé.
L'intellettualismo è soltanto chiacchiera e non ha alcun effetto sul
centro emozionale.
Belzebù porta alcune scimmie su Marte, per valutare la
possibilità di trasformarle in esseri umani. Se noi, scimmie,
lavoriamo seguendo il Metodo, riusciremo a diventare umani, esseri
umani normali?
Nel corso dell'esistenza, durante la crescita, l'essenza (in cui si
cela la coscienza oggettiva) viene sommersa, rimane solo la
personalità e i tre centri si dividono. Può capitare di avere un centro
ipersviluppato, un altro allo stato primordiale, un terzo atrofizzato.
Prima della nascita l'embrione ripercorre fisiologicamente le tappe
della specie; dopo la nascita, secondo Gurdjieff, ripercorriamo la
storia del pianeta; due centri si separano, la coscienza oggettiva
sprofonda, spuntano i deserti, i deserti emozionali. Il centro
mentale, che dovrebbe essere attivo - il padre - non incontra più il
centro istintivo, che dovrebbe essere passivo - la madre -, e in
questo modo, anziché produrre un risultato riconciliante
rappresentato dal figlio - il centro emozionale -, il centro mentale
diventa, per così dire, omosessuale: il titillamento al posto della
riproduzione, parole su parole, masturbazione mentale. Chi non ha
un'attività guidata dalla ragione oggettiva è una scimmia.
Lo yogi è un tipo diverso, rimosso da sé, impegnato solo in
processi mentali.
Qui nessuno di noi lavora simultaneamente con i tre centri;
anche noi usiamo troppo le parole. In questo senso siamo
meccanici, perciò peccatori, siamo a corto di gloria di Dio. Il potere
e l'essere straordinari di Gurdjieff risultano dal suo vivere e operare

203
con i tre centri simultaneamente. Questo è lavoro reale. All’istituto
di Fontainebleau ci viene mostrato come lavorare con i tre centri,
qui a New York i Movimenti e le danze sono un mezzo rivolto a
questo fine».

«In Egitto Belzebù si pone in un particolare “stato esserico detto


contemplazione surptakalkniana”, in cui è possibile leggere pensieri
materializzati chiamati “nastri korkaptil di pensiero”, lasciati da
esseri precedenti che hanno conseguito la ragione oggettiva. Ma
questi nastri possono essere letti e compresi solo da chi ha raggiunto
il grado necessario di ragione oggettiva, come Gurdjieff. Altri,
alcuni santi e mistici, possono leggerli ma solo per caso e in parte,
senza comprenderli mai del tutto. Persone affette da patologie
possono coglierne dei frammenti e fare un pasticcio. Questo può
fare chiarezza su fenomeni come la scrittura automatica, le visioni,
le rivelazioni.
Quando Mabel Collins realizzò tramite scrittura automatica il
libro La luce sul sentiero, Madame Blavatsky affermò che era la
traduzione di un testo molto raro, sconosciuto in Occidente. Ma i
teosofi non avevano il Metodo, e il loro insegnamento, privo di tale
disciplina, si diluì come il famoso brodo di gallina del professor
Kishmehof.
Nello “stato esserico detto contemplazione surptakalkniana”
Belzebù venne a conoscenza di Belcultassi, fondatore della Società
degli Akhaldani. Un giorno Belcultassi si accorse di aver commesso
un errore grossolano, e invece di assecondare la propria tranquillità
e toglierselo dalla mente, cominciò a rivedere la sua vita passata in
modo serio e imparziale. Le sue riflessioni gli fecero scoprire che
quell'incidente non era tanto più sciocco di altre azioni nella sua
vita, ma sembrava peggiore perché era più vivido.
Quante volte noi tutti abbiamo fatto cose talmente sciocche e
stupide (ammesso di averle riconosciute) che alla fine hanno
rovinato qualcosa di prezioso?
Rivedendo la propria vita con imparzialità, Belcultassi scoprì
che ciò che desiderava fare non corrispondeva a quanto di fatto
stava facendo. Concluse di essere un particolare tipo di pazzo, ed era
impossibile che lo fossero anche i suoi amici e conoscenti, perché
tutti sembravano equilibrati. Parlò allora con gli amici, riconobbe la
propria follia e chiese loro di condannarlo. La sua sincerità fu
disarmante, tant'è che a loro volta gli amici cominciarono a rendersi
conto di vivere in modo insensato. Fondarono una società di
ricerche per scoprire il significato e lo scopo dell'esistenza, e per
cercare un rimedio alla follia degli esseri con tre centri, ognuno dei
quali parlava un linguaggio diverso. Iniziarono come gruppetto
privato, non per “ confessare i propri peccati” in un'orgia di
emozioni ma per essere sinceri, per parlare dei propri sbagli e
debolezze e cercare di osservarli in modo imparziale. Rividero il
loro passato e il comportamento attuale, e si scambiarono le loro
osservazioni. In seguito si suddivisero in cinque gruppi.
Capite cosa significa? Iniziate a capire come applicarlo a noi
stessi?
Uno di questi gruppi si interessò alla matematica nella sua
accezione più vasta. Gurdjieff dice che la vita si fonda sulla
matematica; tutta la grande arte, e la grande musica hanno una base
matematica. I pensieri differiscono per peso e rapidità, i sentimenti
per intensità, i movimenti muscolari per sforzo. Riuscite a osservare
e indicare la differenza fra questi pesi, intensità e sforzi? Per farlo,
in psicologia va introdotta la misura. La psicologia moderna è solo
fisiologia. Chi è in grado di misurarsi e soppesare due pensieri,
coglierne la differenza? Gurdjieff, per esempio, dice che “il Tempo è
l’Unico Soggettivo”. Paragonate questa affermazione ai volumi di
Alexander sullo Spazio, Tempo e Divinità. Alexander dice: “Il Tempo è
il padre dello Spazio”; una frase che dà per scontato di
comprenderne i termini, ma è pura fantasia e non ha alcuna
relazione con me stesso. L'espressione di Gurdjieff è ben più densa e
ha un impatto immediato sul lettore. Nella filosofia indiana si dice
spesso: “Il Tempo è To'”. Ricorda l'espressione di Gurdjieff, ma ha
un peso diverso.
E l’emozione: talvolta gli americani dicono: “Ne vado matto”,
quando in realtà l'interesse è modesto. Chi prova vere emozioni non
usa espressioni superlative per sentimenti mediocri. Chi vive
emozioni autentiche, e immagina un'esperienza più intensa,
continuerà a usare il comparativo.
Siete in grado di distinguere le forze, come la differenza fra un
peso di tre chili e uno di tre chili e mezzo?

205
Dobbiamo cercare di osservare le manifestazioni che prendono
origine dalle nostre percezioni. Riceviamo percezioni e
manifestiamo effetti.
Un altro gruppo studiò i ritmi delle vibrazioni. Come possiamo
aumentare il ritmo delle vibrazioni nel nostro organismo con il
lavoro cosciente e la sofferenza volontaria?
Il quarto gruppo si dedicò alla fisica e alla chimica. Fra le altre
cose, osservò i propri cambiamenti interiori al passaggio delle
percezioni.
Il quinto gruppo studiò i fenomeni risultanti dal lavoro dei tre
centri.
Dopo aver indagato i fenomeni delle cinque categorie, i gruppi
si accorsero che ci voleva dell’altro, così decisero di inviare oltre
confine dei delegati nel tentativo di trovare studiosi di livello
superiore al loro. Gli inviati partirono per l’Africa. L’Africa in
questo libro è una sorta di mappa dell’organismo; dove stanno i
centri istintivo-motore, emozionale e mentale? Vengono descritti
anche l’antico sistema e il metodo egizi di sviluppo e
perfezionamento di sé, e c’è una spiegazione del sistema di Belzebù.
H sistema si adattava in modo esemplare alla gente di quell’epoca,
come quello di Belzebù si adatta a noi.
H nostro sistema emozionale è un clima, o una varietà di climi.
Siete in grado di mappare i venti incostanti dei vostri stati d’animo?
Riuscite a volgere una situazione depressa e negativa in ima
giornata ventosa e luminosa? Al momento la risposta è “no”. Finché
restiamo nello stato attuale, siamo alla mercé di chiunque
incontriamo, di qualsiasi evento, di ogni pasto che consumiamo;
siamo lo zimbello del minimo soffio di vento.
Gli antichi sacerdoti egizi ebbero uno scopo cosciente.
Insegnarono agli allievi come trasformare dentro di sé le sostanze da
negative a positive, e allo stesso tempo apportarono dei
cambiamenti alla vita esteriore dell’Egitto, grazie a esempi di arte
oggettiva. I greci li definirono “padroni dei sogni”, non vittime. La
Sfinge, per esempio, è una copia dell’originale che si trovava
nell’antica Caldea. Nella figura originale tre parti erano unite, una
quarta era isolata dall’ambra. La Sfinge egiziana evocava imo stato
interrogativo, “Perché?” Non aveva ali, poiché mancava l’essenza
che sostiene le aspirazioni.

206
La fioritura della cultura ellenica fu il risultato indiretto del
contatto dei filosofi greci con le scuole egiziane. Un giardino tutto
curato non è bello per caso, ma grazie a una forma di amore
consapevole del giardiniere; similmente in ogni civiltà una vera
cultura fiorisce grazie al lavoro di pochi esseri coscienti. Pitagora,
Socrate, Platone e Solone, fra i tanti, andarono in Egitto a studiare».

«Se riflettiamo su quanto dice Belzebù e lo formuliamo con parole


nostre, la ragione avrà assolto a una delle sue funzioni: accorciare il
tempo necessario allo sviluppo di sé e offrire un metodo più rapido,
evitando di arrivarci tramite i sensi, per tentativi ed errori.
Nella “quinta discesa” Belzebù racconta che da Marte aveva
osservato la vita umana accorciarsi. Scese sulla Terra per indagare.
Nella Babilonia dell’epoca, la degenerazione della psiche dell’uomo
era già iniziata. In precedenza, nell’antica Babilonia, l’idea di
scienza poggiava sullo sviluppo delle normali potenzialità
dell’uomo; era considerato naturale che uno dei doveri
dell’esistenza riguardasse lo sviluppo del secondo e del terzo centro
- o corpo -, proprio come oggi si dà per scontata l’educazione.
Nell’antica Babilonia la vita era organizzata per questo fine, e l’arte,
la letteratura e le varie occupazioni vi erano subordinate. Ma con il
declino dell’intuizione e delle potenzialità, subentrarono i sistemi
meccanici; lo scienziato oggettivo venne soppiantato dallo
“scienziato di nuova formazione”, senza intuito ma con una
strabiliante padronanza tecnica meccanica. Si accumulò conoscenza
di ogni sorta e la comprensione andò perdendosi. E, come ho già
detto, il nuovo scienziato si impegnò a sezionare il corpo
dell’Universo, iniziò a preoccuparsi del “come” e non del “perché”,
vedendo ogni cosa attraverso una parte del centro istintivo-motore.
Oggi è come allora, ma accentuato. L’uomo, un tempo dritto come
una spada, si incurvò trasformandosi in un punto interrogativo.
Possiamo diventare un Platone o Hypatias, sviluppando in vita
le potenzialità emotive e mentali com’era normale prima dell’epoca
babilonese? Con il passaggio dall’intuizione e dalla comprensione al
razionalismo, sopravvennero il declino della religione e
l’invenzione della malefica idea di bene e di male.

207
Qual è la nostra visione del mondo? Il cosmo è il prodotto del
caso e nulla più? Me lo immagino governato da un Essere saggio e
benevolo? Conto su una Provvidenza ben disposta? Lo considero un
istituto penale o una “valle di lacrime”? Oppure il mondo per me è
una scuola dove vengo mandato per acquisire una particolare
comprensione, una specie di palestra dove poter sviluppare le mie
potenzialità?
Cerchiamo di definire per noi stessi la nostra visione della vita».

«Per alcuni di voi una prima lettura di brani de I racconti di Belzebù


deve risultare faticosa, è come un geroglifico egiziano. Dal punto di
vista scientifico pare un'assurdità. Eppure una lettura costante
solleva l’oscuro velo, dietro al quale nulla di quanto si riesce a
percepire sembra muoversi.
Nella quinta discesa sulla Terra, Hamolinadir rappresenta la
forma più elevata di ragione normale, che riconosce di non sapere
nulla sul dopo-morte. A proposito, quando parlai di questo capitolo
con Gurdjieff, lui mi disse di non essere un uomo di lettere, ma di
aver reso disponibile ne I racconti di Belzebù un materiale che
avrebbe ispirato poemi epici a poeti e scrittori.
E assurdo provare a rincorrere una comprensione letterale de I
racconti di Belzebù; è un mito, e il mito è un mostro allegorico nato
per scuotere la mente, come il simbolo nell’arte colpisce
l’immaginazione. A volte una lettura continua del libro sembra
confondere, ma paradossalmente risveglia la comprensione.
Hamolinadir lesse la sua relazione sulla “Instabilità della
ragione umana”.
Egli era uno scienziato di prim’ordine che era stato in ogni
scuola, anche in Egitto. Come altri, riteneva che la mente, al pari
della mano, si fosse sviluppata in modo naturale evolvendo in
funzione delle necessità; ma l’erudizione, lo studio e la formazione
non gli erano stati d’aiuto per rispondere alla domanda che
interessava tutti: cosa succede dopo la morte? Aveva scritto libri
sull’argomento, apprezzati da tutti. Ammette che, ascoltando le
teorie avanzate da altri oratori, in uno stato di sentimento egli
poteva essere d’accordo sul fatto che l’uomo è solo un corpo; in un
altro stato che era solo mente; in un altro ancora, che l’uomo ha
un’anima immortale, che dopo la morte avrebbe raggiunto il luogo
a lei destinato. Ma ora, davanti al suo colto uditorio, ammette di
non disporre di alcuna esperienza personale sull’argomento e di non
capire nulla, e chiede a chi possiede un metodo o uno strumento di
conoscenza da lui non sperimentato, di farglielo sapere. Nessuno
parla. Allora, totalmente deluso, abbandona la sala singhiozzante
per non farvi più ritorno. Si ritira nella sua fattoria a coltivare il
chungari, un cibo esserico: entra in una scuola esoterica dove poter
imparare a lavorare su di sé.
La sua condizione è la nostra».

A questo punto Orage disse che, in qualità di editore di «New Age»


aveva letto di tutto, di orientale e occidentale, sulla religione, la
filosofia, la psicologia e la scienza; aveva letto il Mahabharata due
volte; era amico di artisti, musicisti, scienziati e psicologi; conosceva
tutti nell’ambiente intellettuale e aveva familiarità con qualsiasi
teoria, religiosa, scientifica, teosofica, psicologica, economica e
politica; eppure si era reso conto che, nonostante tutta la sua
conoscenza, non comprendeva quasi nulla del significato e dello
scopo dell’esistenza, o di cosa avviene dopo la morte. Quando
incontrò Gurdjieff, capì immediatamente che era il suo maestro; e a
cinquant’anni, disincantato dalla vita ordinaria, aveva abbandonato
tutto ed era andato a lavorare al Prieuré di Fontainebleau.
«Hamolinadir», aggiunse, «è il ritratto del pensatore moderno
deluso, la cui ragione è insufficiente per arrivare a conclusioni
oggettive».

«Il ragionamento verbale», continuò Orage, «si basa sull’esperienza


con le parole; il ragionamento formale - ragionamento per forme -
nell’accezione di Gurdjieff si basa sull’esperienza con i sensi. Se uno
legge qualcosa sui cammelli ma non li ha mai visti, può iniziare una
lunga discussione, ma che peso ha la sua opinione su una o l’altra
specie di cammello, in confronto a quella di chi li alleva? Nella
nostra società sono necessari entrambi i tipi di ragionamento,
poiché l’esistenza della società dipende dalla coesione delle persone,
che a sua volta dipende dalla comunicazione con le parole - che, a
tal fine, sono simboli; sono come dei gettoni, denaro cartaceo, a
confronto con la riserva aurea. E carta che serve ma non ha valore, o
piuttosto, ha un valore simbolico.

209
Come la valuta cartacea, il ragionamento verbale è ampiamente
inflazionato. Dovremmo avere ben chiari i pregi e i difetti del
ragionamento verbale, perché fa da base a molta della cosiddetta
educazione, delle ramanzine, delle prediche e della produzione
scritta popolare; non è sostenuto dall’esperienza pratica.
Quando il centro intellettuale lavora da solo c’è il ragionamento
verbale. Nessuno qui ha ancora parlato della nostra tendenza a
usare eccessivamente le parole, a causa del funzionamento
inadeguato del centro intellettuale in sé stesso. Il centro
intellettuale dispone dell’energia per la ragione oggettiva, ma l’uso è
scorretto e l’energia si trasforma in verbalizzazione. Questa energia
è una forma di energia sessuale, e si dice che la verbalizzazione sia
dovuta all’abuso di questa energia, che dovrebbe sostenere lo
sviluppo della ragione oggettiva. Leggete il capitolo sulle scimmie.
Non possiamo comprendere la ragione oggettiva alla luce della
ragione soggettiva. “Ragione oggettiva” significa arrivare ai limiti
della ragione soggettiva e fare un’esperienza totalmente diversa.
Lo studio e la lettura costanti de I racconti di Belzebù possono
favorire un atteggiamento diverso con cui si inizia a comprendere, a
ragionare su un altro piano. La fine della ragione soggettiva, come
nel caso di Hamolinadir, è la disperazione totale. Per fortuna
abbiamo il Metodo che, se messo in pratica, dà l’opportunità di
sviluppare la ragione oggettiva».

«Le emozioni e le idee permangono come gli oggetti, ma questi si


deteriorano più velocemente delle idee. Cosa resta, ad esempio,
dell’oggettistica prodotta dall’antico popolo ebraico? Niente, ma le
loro idee religiose resistono e sono ancora vitali, anche se forse non
sappiamo come utilizzare questa vitalità. È avvenuto lo stesso con il
pensiero degli antichi indù, preservato nel Mahabharata. Cosa
rimane degli oggetti realizzati da quei popoli? Nulla, se non rovine
di città sepolte. Eppure le idee racchiuse nel Mahabharata
rivitalizzeranno la nostra letteratura da qui a centinaia d’anni.
Il ragionamento verbale è pericoloso perché le parole sono
immagini, entità: un fenomeno umano capace di indurre una sorta
di esperienza. Slogan come “tutto il potere agli operai” e “libertà”

210
eccitano le emozioni della gente, le persone si agitano con fantasie e
poi, quando ottengono la famosa libertà, cominciano
immediatamente a togliere potere e libertà a chi non la pensa come
loro.
Fatta eccezione per la sua discriminazione verbale, il
ragionamento speculativo è privo di valore. Gurdjieff ne ha una
bassissima opinione, perché non porta al ragionamento né formale
né oggettivo.
Dobbiamo raffinare costantemente la capacità di discriminare
tra idee “vegetali”, “animali” e “umane”, idee che stanno su piani
diversi. Le idee e le emozioni occupano un posto specifico su una
scala. Ci sono emozioni che dilatano Tessere ed emozioni che lo
contraggono. È questione di frequenza di vibrazioni. Le idee e le
emozioni vivificatrici hanno un'elevata frequenza di vibrazioni».
Qualcuno chiese: «Chi è un tipo intellettuale? Amleto, per
esempio?»
Orage rispose: «No, Amleto è un introverso che non è in grado
di “ascoltare” nulla. I centri sono collegati da un legame magnetico
che, quando si disattiva, porta al sonno. I centri allora, senza la
vibrazione delle altre parti, hanno la possibilità di riposare. In
Amleto il legame magnetico tra i centri si era indebolito al punto
che egli trascorreva gran parte del tempo in uno stato prossimo al
sonno. Ciò che lo tormentava davvero era: perché, nonostante il
centro intellettuale sia iperstimolato, non riesco a sentire l'orrore
dell'incesto e del delitto e non sono in grado di reagire?”
Ogni volta che facciamo uno sforzo per riportare l'attenzione su
noi stessi, e su ciò che stiamo facendo, i centri si collegano».

«Le “leggi di associazione” trovano applicazione nelle relazioni


concrete. Per esempio, a proposito del peso del pensiero, se dopo un
pensiero raffinato esprimete un pensiero più pesante, l'effetto del
primo viene annullato. Per contro, un intervallo sufficiente tra i
due lascia il primo intatto. Altro esempio: potete prendere per il
verso sbagliato chi vi ascolta, a seconda del suo centro di gravità.
L'arte della psicologia dovrebbe tener conto della comprensione e
dell’utilizzo di queste leggi e delle leggi sulla vibrazione».

211
«Come è stato detto, un uomo dovrebbe dedicare metà o almeno un
terzo della vita alla ponderazione. Helkdonis sta all’assimilazione
dei cibi come la ponderazione sta alle impressioni».
Uno di noi disse: «L’uomo deve fare uno sforzo per risolvere la
lotta fra affermazione e negazione, altrimenti l’impressione non
arriva all’essenza ma finisce nel magazzino delle informazioni».
«Sì», disse a sua volta Orage. «In altre parole la ponderazione è
la forza neutralizzante del pensiero. Senza di essa l’organismo resta
solo con depositi positivi e negativi. La riflessione è la pesa delle
idee. La ponderazione dovrebbe includere chiarezza».
«Qual è la differenza tra la ponderazione, la meditazione e la
contemplazione?»
«Nella scala del pensiero ci sono le note: Sol è concentrazione,
La è meditazione, Si è contemplazione. Ma la singola nota è anche
un processo del pensiero, a cui può partecipare l’emozione; e nella
ponderazione, che viene motivata dal centro emozionale,
l’emozione deve essere presente in virtù della relazione personale
con l’oggetto di ponderazione. La ponderazione è pensiero
essenziale. Se venisse a mancare l’emozione, la ponderazione
sarebbe solo una valutazione. Riflettere significa stabilire valori
soppesando, altrimenti avremmo solo chiarezza e logica».
Gli venne ancora chiesto: «Come distingue l’azione impulsiva
dall’azione nata dalla riflessione?»
«Quando si riflette», rispose Orage, «vengono soppesate
propensione e avversione; contrariamente, quando si pensa, si
valutano idee e concetti. I contenuti del centro emozionale,
simpatie e antipatie, sono unità valutate in rapporto al criterio del
livello dell’essere.
La riflessione è l’assimilazione del terzo cibo. Con il salmista
possiamo dire “se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le
stelle che tu hai fissate”, mi chiedo “che cosa è l’uomo perché te ne
ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?” È l’interrogativo che
segue la riflessione sul “che cosa sono?”, il passaggio dalla nota Si
dell’ottava del pensiero al Do dell’ottava della riflessione. Riflettere
è pensare con il centro emozionale (la sua parte pensante), dove
risiede l’essenza. Si dice che nei centri questa sia la parte più
sviluppata di tutte le altre. Supponiamo che il servizio da noi reso al
Creatore determini la condizione del nostro essere,

212
e che il nostro essere futuro, e la nostra vita dipendano dalla
creazione di valori a sostegno del suo scopo. Ma non conosciamo lo
scopo - il significato e il fine dell'esistenza -, dunque questi valori
oggettivi diventano per noi spunto di riflessione. Se, ipotizzando,
esistiamo per volontà di un Essere, davvero mi chiedo: sto cercando
di sviluppare quei valori? Non è una domanda mentale, perché il
mio essere dipende da questa comprensione.
Nel libro si distingue continuamente fra esistenza ed essere. I
valori in base alle simpatie e alle antipatie sono infantili; il calcolo
in funzione del benessere del corpo planetario è esistenza; il
benessere o il disagio del mio essere sono contemporanei
all'esistenza e al tempo stesso sono continui. La riflessione è
un'attività propria dell'essere: quella tensione nell'essere collegata
all'essere che è continuo. “Lui” può pensare, ma solo “Io” può
riflettere. Una macchina raffinata, come un corpo, alla fine
dell'esistenza, può ritrovarsi con un “essere” striminzito, quasi
inesistente.
Se pensate che l'essere del Creatore dipende dalla crescita e
dallo sviluppo di quello delle sue creature, capite che il Creatore
non può essere ostile ai nostri sforzi per sviluppare l'essere. Lo stato
dell'essere è dinamico, in movimento verso la propria realizzazione;
e la riflessione determina l'atteggiamento soggettivo al riguardo.
“Qual è la mia situazione in relazione al cosmo, non solamente
come apparato trogoautoegocratico?” Forse alla fine della nostra
esistenza planetaria ci verrà chiesto: “Qual è ora lo stato del tuo
essere rispetto all'inizio di questo ciclo di esistenza?” A seconda dei
meriti, potremmo essere costretti a soffrire un altro tipo di esistenza
planetaria, magari nel regno animale.
Il “pensiero intenzionale” è il pensare con un'intenzione, con
attenzione, il che implica controllo; non è il pensare per
associazioni, bensì il centro pensante inferiore controllato da quello
superiore, l'apparato formatore controllato dall'“Io”.
La mente ordinaria viene costantemente distratta, stimolata
dalle impressioni che riceve e dai contenuti preconfezionati.
Per Gurdjieff, la parabola è una verità che parla a due, di solito a
tre centri, e il cui significato è come amalgamato. Le parabole sono
il linguaggio, le parole, di figure mitiche, che sono rappresentazioni

213
coscienti di esseri pienamente sviluppati. Sapete bene che
attribuiamo significati non solo letterali alle parole di individui
relativamente evoluti: “C’è dell’altro”. Per esempio, pensiamo al
mito di Gurdjieff che non può chiedere nulla a pranzo, senza che
qualche allievo interpreti la richiesta come una parabola, come se
egli in realtà volesse qualcos’altro.
Rappresentata come ottava, la parabola parte dall’allegoria, di
cui conserva tutto il contenuto, fino ad arrivare all’oracolo, capace
di tradurla in sette forme. Nella parabola gli eventi che si verificano
su un piano vengono fatti corrispondere agli eventi di un altro
piano. In linea di massima il libro di Gurdjieff è una parabola
mitologica. Quando parla della dispersione delle razze, parla dei
centri; e comunque è molto più che una forma allegorica.
È evidente che i miracoli della Bibbia non si manifestarono nel
modo in cui sono riportati. Forse in alcuni casi si è trattato della
manifestazione di leggi di un cosmo superiore in uno inferiore.
Certi racconti di miracoli sono talmente credibili da sembrare veri.
Una parabola autentica va letta per comprendere, il contenuto
interiore non è subito evidente e non si trova sullo stesso piano
della volgare narrazione. Ci si avvicina al testo scritto con
l’intelletto, che non è in grado di capire, ma la mente che esso
riflette può comprendere.
I significati cambiano al punto che perfino i termini nel
Vangelo non hanno più senso: pane, pesce, la stanza di sopra e via
dicendo, sono termini tecnici che oggi non riconosciamo. Nella
parabola i significati espliciti non hanno valore, se non nella misura
in cui lo hanno nella lingua corrente; ma si può sempre cogliere il
significato sottinteso.
La domanda è: come trovare la chiave di lettura di una
parabola? Che senso avrebbe il libro di Gurdjieff senza il Metodo!
Non è detto che persone estranee al lavoro dei gruppi non possano
ricavarne qualcosa; piuttosto, senza un’esperienza pratica del
Metodo, non vengono individuati i contenuti più profondi. Cos’è la
Bibbia senza una chiave interpretativa? Secondo me, la distinzione
tra Antico e Nuovo Testamento ha il valore di una parabola.
L’Antico Testamento è una triade: Do, Re, Mi; poi si verifica lo
shock dell’apparizione dell’Universo incarnato, dopo il quale la
narrazione procede dalla storia di Gesù alla storia di Cristo, che

214
nacque nell'intervallo. L’Antico Testamento, allora, dovrebbe
rappresentare la storia in parabola dello sviluppo dell’uomo
attraverso i tre centri inferiori, e il Nuovo Testamento attraverso i
tre centri superiori, ovviamente in corrispondenza fra loro. San
Paolo tradusse alcuni racconti dell’Antico Testamento ridando loro
significato nel Nuovo Testamento, come per esempio la storia di
Hagar. Gesù parla del vecchio Adamo e del nuovo Adamo.
Promessa significa potenzialità, e si dice che nell’Antico
Testamento pochi avevano “Promessa”. L’Antico Testamento è una
parabola storica, il Nuovo Testamento una parabola psicologica. In
assenza di una chiave, molte interpretazioni del libro di Gurdjieff -
come della Bibbia - possono ritenersi prive di senso.
Nel Nuovo Testamento si dice che chi pratica questo Metodo
tira fuori dal suo tesoro cose vecchie e nuove. Il Metodo aumenta
anche le capacità mentali interiori e dovrebbe apportare una
maggiore capacità mnemonica, da utilizzare nel lavoro».
«La teoria di Einstein è una parabola?», gli chiesero.
«Non è un linguaggio, è un codice. La parabola utilizza termini
comuni».
«Che dire dei libri profetici di Blake?»
«Sono un’allegoria complessa unita a immagini poetiche».
«E l’Anello di Wagner?»
«È un’allegoria. All’inizio Wagner era un uomo amorale, ma
dovette cambiare e si convertì al cristianesimo, diventando sempre
più sentimentale, estetizzante e debole. Swinbume è un ateo
infantile, come Henley, “che si spezza ma non si piega”; è credibile
ma non eccezionale.
Se leggendo una poesia ne immaginate il contenuto detto o
espresso in prosa, provate doppia soddisfazione. Questa doppia
lettura vale anche per la musica. Ma gran parte della musica, come
gran parte della poesia, è solo apparenza. Se mettete in prosa
Wagner, scoprirete che è di una banalità impossibile. Bach e
Pierluigi da Palestrina hanno qualcosa da dire, Beethoven ogni
tanto. Molti bambini credono che una poesia apparentemente bella
lo sia davvero. Questo, purtroppo, è il nostro atteggiamento con la
musica».
«Non è forse un nostro diritto l’analisi intellettuale della
musica?»

215
«È proprio quanto sostiene il poeta quando la sua poesia non ha
nulla da dire.
Dovremmo essere in grado di leggere le parabole nello stesso
modo in cui ora sto suggerendo la lettura del contenuto musicale,
ignorando la resa sonora e ciò che dicono in apparenza, e prestando
attenzione al “vero” significato “in prosa”. La parabola nasce da
un’asserzione complessiva, ed è per questo che non siamo capaci di
scrivere parabole o vere fiabe che trattino una verità cosmica».
Venne fatta una domanda sulla differenza tra pensiero e
«pensiero esserico», e Orage rispose: «Probabilmente un giorno il
termine “pensiero esserico” sarà inteso e usato normalmente, al pari
di “soggettivo” e “oggettivo”, termini non anteriori a Coleridge che
li recuperò dal tedesco, sebbene siano di origine latina.
Le due forme di pensiero di cui si parla nel prologo del libro
diventano i due fiumi vitali dell’epilogo. Hassin dice: “In me si
pensano cose”. La mente “si pensa” sempre, ma quando
interveniamo e diamo una direzione al pensiero, questo è il pensare
esserico attivo; è il risultato di un’esperienza assimilata, diventata
parte e particella del nostro essere. Il “pensare esserico” utilizza un
materiale che ha in sé un elemento emozionale, perché è parte della
nostra esperienza. Anziché servirci di parole e relative associazioni,
che rendono possibile la logica verbale, dobbiamo usare l’esperienza
personale e le associazioni collegate, che rendono possibile la logica
esserica.
“Riflettere” è un’azione che collego di più alla valutazione delle
associazioni. Mantra come “Io voglio ricordare me stesso” usano il
pensare esserico attivo, che richiama l’esperienza più vivida
associata alla singola parola; allora ci ritroviamo nello stato in cui
desideriamo ricordare noi stessi.
La comprensione formale - comprensione per forme - è un
risultato del pensiero esserico.
Gurdjieff fa spesso notare che il valore del pensiero esserico sta
nell’attività di raccogliere tutte le esperienze, qualsiasi sia il
soggetto trattato.
Nel ragionamento verbale sostituiamo l’associazione con
l’esperienza reale. Non possiamo ancora indagare la natura della
verità oggettiva e la natura del metodo per raggiungerla.

216
Siamo arrivati alla conclusione che abbiamo due forme di
ragionamento, quello formale e quello associativo, e che la
distinzione non prende in considerazione la ragione oggettiva.
Finché il centro di gravità si trova nel ragionamento associativo,
non possiamo sviluppare la ragione oggettiva; dobbiamo passare dal
formale all’oggettivo. Il linguaggio della gestualità, della postura,
del tono di voce, dell’espressione del volto e del movimento, è
materiale per il ragionamento formale, e il metodo di Gurdjieff è
concepito per spostare il centro di gravità verso il ragionamento
formale e poi oggettivo, proprio grazie a questo materiale».
Chiesi: «La lettura costante de I racconti di Belzebù può indurre
questo stato?»
Orage rispose: «Sì, ma lavorando allo stesso tempo con il
Metodo lo si raggiunge molto più rapidamente. Nessuno le può
trasmettere o spiegare l’esperienza del ragionamento oggettivo; si
può solo indicare la direzione, ma è lei che deve lavorare».

«Dobbiamo distinguere fra sentire con i sensi e sentire con i


sentimenti, e tra sentire con i sentimenti e pensare, le tre forme
principali dei nostri stati. Le persone credono di conoscere la
differenza, ma confondono continuamente la sensazione con il
sentimento e il sentimento con il pensiero. Cominciate a fare un
elenco degli stati emozionali. Tutte le varianti della collera per
esempio, l’indignazione, il malumore, il fastidio, l’irritazione, l’ira,
il furore, l’acrimonia. Nello stato del ricordo del sé l’individuo
potrebbe accorgersi e osservare questi vari stati, magari senza essere
capace di definirli con termini correnti. I sapienti babilonesi di
“nuova formazione” istituirono il “ragionamento di parole” e posero
fine alla ricerca dell’“essere”, e rimpiazzarono l’intuizione allenata
con il pensiero verbale. Quando veniamo al mondo possiamo essere
educati, ma ci roviniamo con le parole. La conoscenza non nasce
più dall’“esperienza esserica” ma da concetti cristallizzati».

«A Babilonia esistevano due scuole di morale: quella dualista o


idealista, e quella materialista o atea. La prima ipotizzava che il
mondo fosse governato da due princìpi: il bene e il male.

217
Ed è così che tendiamo a classificare le cose, non solo per noi
stessi ma in modo assoluto. E naturale che ogni specie vivente
classifichi secondo i propri bisogni ed esigenze. “Quest’erba è
buona”, dice il cavallo; “questo brandy mi fa bene”, dice l’uomo, il
che non implica un giudizio sull’oggetto in sé. Se dico: “Questo è
bene in sé”, allora do un giudizio personale. Questo doppio uso del
termine “bene” è la causa della maggior parte della nostra
confusione, e questa errata attribuzione di valori personali va a
costituire la nostra morale. Gurdjieff ha detto che nell’Universo
esiste il “male oggettivo”, ma nulla di ciò che conosciamo può
definirsi universalmente buono o cattivo. E pur sapendolo, nessuno
riesce a evitare l’usò delle parole “bene” e “male”, e ci sentiamo in
un qualche diritto di esprimere giudizi; è il risultato di un sistema
educativo che risale all’epoca babilonese. La morale soggettiva si
fece strada quando la morale oggettiva iniziò a decadere.
La seconda scuola, quella materialista, giunse alla conclusione
che non esistevano né la psiche, né l’essere, né “l’anima”. Per i
comportamentisti, i socialisti e gli intellettuali moderni l’uomo è
una specie di animale che riceve impressioni ed espelle
comportamenti, e con raffinata psicologia si preoccupano del
comportamento esteriore. Il sistema di Gurdjieff conviene
sull’uomo come macchina, ma parte da dove il comportamentismo
si ferma. L’uomo ha la possibilità di diventare un’anima vivente, in
grado di contenere la ragione oggettiva».

«Ne I racconti di Belzebù uno dei concetti presi in considerazione


riguarda quello di “essere umano normale”. Non si può immaginare
l’essere umano normale considerando la media degli individui.
Questa distinzione fra la media e l’umano è importantissima. Nel
libro c’è la definizione di uomo normale, ma prima di riuscire a
coglierla va meditata a lungo. Anche se afferma cose evidenti,
Gurdjieff dice spesso: “Quello che dico adesso lo comprenderete fra
uno, due o dieci anni”.
In un mondo normale, un giovane (o ima giovane) a ventuno
anni circa inizia a scoprire in modo del tutto naturale lo sviluppo di
quello stato di coscienza che chiamiamo coscienza di sé, nel vero
significato del termine; diventa conscio di sé, consapevole del

218
proprio corpo nel senso di esserne psicologicamente in possesso; si
manifesta normalmente, assieme alla decisione per certi interessi. A
trent’anni circa si presenta un’altra fase, in cui egli diventa
cosciente del mondo in cui vive, di questo e degli altri pianeti, e del
rapporto con essi. Ci possono essere differenze tra individuo e
individuo, ma la caratteristica delle fasi rimane identica. Egli non
diventa, come dice Gurdjieff, “un giovanotto fra virgolette, di
bell’aspetto ma di dubbia sostanza”, bensì un giovane uomo conscio
di sé, consapevole dello scopo della vita, del proprio posto e della
propria funzione.
Ma a causa della vita anormale di questo pianeta, per molti
giovani le fasi sono più o meno caotiche e si accompagnano a
periodi di frustrazione e scoramento. Nulla è come per logica
dovrebbe essere.
Belzebù si prefisse di scoprirne il motivo. Come ho detto,
riesaminò la storia del pianeta (e per noi è utile rivedere la storia
della nostra vita) e scoprì che la Terra aveva subito una catastrofe;
era stata spaccata e due frammenti se ne erano volati via nello
spazio: la Luna e Anulios. Ognuno replica in sé questa spaccatura,
ma le conseguenze, per quanto serie, non sono fatali, perché Sua
Infinità ci ha dato la possibilità di volgere tale disgrazia a nostro
favore.
Lo stato di degrado è una conseguenza degli effetti dell’organo
kundabuffer. Oggi quest’organo è un ricordo, ma la tradizione
sociologica ne perpetua gli effetti; ima tradizione che va osservata
bene, in quanto condiziona lo sviluppo comune.
È impossibile raggiungere imo sviluppo interiore armonico con
idee sociologiche, con una sintesi di conoscenza appresa. Senza lo
sviluppo dell’essenza, il germe biologico, è tutto inutile.
E da qui che trae origine l’idea di rinascere, non nelle attuali
accezioni religiosa e occulta, ma come ritorno allo stato biologico
precedente al nostro asservimento alla sociologia. Ed è qui che entra
in gioco il Metodo di Gurdjieff, un metodo pratico per sentire,
ricordare e osservare sé stessi, un metodo per lo sviluppo interiore».

«Essenza è ciò che è vero in noi, in contrasto con le opinioni sociali


e le aspettative degli altri su di noi. L’essenza è la verità e non è

219
influenzata dal tempo, dal luogo e dai sentimenti di nessuno. E ciò
che si oserebbe confessare apertamente se non vi fossero
conseguenze per seguire l’affermazione di una verità. E la verità
dinnanzi a Dio. La personalità è la verità dinnanzi agli uomini, al
mondo condizionato dal “cosa ne penserà la gente?”
Dovete sapere cosa volete veramente. Quando scoprirete il
vostro vero desiderio, le circostanze esterne si modificheranno e si
conformeranno di più ai vostri desideri. Gli animali selvaggi vivono
secondo l’essenza; in questo l’uomo gli è inferiore. Negli animali
domestici gli impulsi dell’essenza sono alterati.
La sociologia ci ha trasfigurati, ci ha afferrati da giovani ed è
quasi impossibile distinguere fra la nostra condizione nativa,
essenziale, e quella sociologica, della personalità. Nessun uomo
“civilizzato” può giungere alla verità oggettiva, e non vi sono
possibilità di sviluppo interiore individuale nelle normali
condizioni sociologiche.
La società decide cosa verrà sviluppato delle nostre potenzialità
ereditate, essenziali. Eredito uno strumento; io, come psiche, mi
svilupperò in base al talento personale di valorizzare le possibilità
dello strumento. Ma sin dalla prima infanzia lo stimolo ambientale
fa esprimere solo una parte delle potenzialità, e forse per tutta la
vita resto identificato con quella parte.
Allo stesso tempo ogni personalità è conforme all’essenza, anche
se solo in parte. Ad esempio, se sono un pianoforte che suona solo
jazz, per tutta la vita crederò di essere uno strumento di jazz; altro
esempio: mi identifico con la carriera di avvocato, valorizzo solo
una parte delle mie potenzialità. Ma è possibile assumere un ruolo
“come se” fossimo identificati, e tuttavia non esserlo. Le circostanze
vi possono imporre un ruolo per tutta la vita, ma finché non vi
identificate, l’essenza si sviluppa.
Nel teatro antico gli attori stavano dietro le quinte. Sul
palcoscenico iniziava lo spettacolo. Chi stava dietro le quinte veniva
chiamato in scena in qualsiasi momento, senza preavviso in merito
al ruolo che avrebbe dovuto recitare.
Chi vive nell’essenza apparentemente può fare cose
contraddittorie, ma tutte collegate all’essenza. Per poter vivere
secondo l’essenza dobbiamo sviluppare anche la ragione».

220
Venne chiesto: «Se il nostro comportamento dipendesse
dall’essenza saremmo disumani?»
Orage rispose: «Non necessariamente. Un’essenza non
manifestata non è necessariamente disumana. Spesso le essenze
sono migliori di quanto pensiamo. Non esiste regola della “morale
oggettiva” di Gurdjieff a cui l’essenza non obbedisca istintivamente.
Per tantissimi la Luna è un’influenza diabolica e, tramite l’organo
kundabuffer, agisce in qualche modo sulle essenze tricentriche. È
come se l’essenza, che proviene dal Sole e dai pianeti, arrivando
sulla Terra si buscasse un raffreddore.
Per un verso la personalità è il guardiano dell’essenza. Si
racconta che ima donna della famiglia dei Medici, cresciuta in una
scuola platonica, visse per quindici anni in un convento di suore,
divenne badessa, e poi ritornò a corte; fu capace di interpretare quel
ruolo finché glielo dettò la ragione. Se disponessimo dei mezzi e dei
dati, potremmo rintracciare centinaia di casi analoghi in Europa,
dal Medioevo al Rinascimento.
Gurdjieff parla del “desiderio” dell’essenza e della “voglia” della
personalità. La mia essenza ha tre centri, è una replica in miniatura
del mondo, di Dio, nella mia essenza non posso che avere lo stesso
desiderio che Lui ha. Devo scoprire questo desiderio dell’essenza.
Tra coscienza soggettiva e coscienza oggettiva c’è differenza;
cominciate a notarla quando vi rendete conto che gli elogi che avete
ricevuto da tutti non contano nulla in rapporto alla vostra coscienza
oggettiva.
Gurdjieff vive nell’essenza secondo ragione oggettiva.
Ma chi vive nella vita ordinaria spesso non distingue il
comportamento di un uomo cosciente da quello di un ciarlatano.
Ecco allora le storie su Gurdjieff, l’animosità dei leccapiedi e di
alcuni allievi più giovani. Nell’uomo cosciente il comportamento è
in relazione a uno scopo cosciente; nel ciarlatano il comportamento
è inconsapevole».

«Volontà, coscienza e individualità. Non illudiamoci, non abbiamo


la benché minima idea di cosa significhino queste parole. Oggi
l’analogia a noi più vicina è con “desiderio” (o volere, o voglia),
“pensiero” e “personalità”. Sono parole che ci fanno sentire quale

221
valore possono avere i termini astratti, non realizzati, né vissuti. La
differenza tra un desiderio ordinario (una voglia) e la volontà è la
differenza esistente tra uno stato passivo in cui opera una forza
attiva e uno stato attivo in cui sono io ad agire.
Il desiderio non parte da me, “mi accade”. La volontà inizia
autonomamente. Come dice Gurdjieff, se scegliete una piccola cosa
che volete fare davvero e vi costringete a farla, forse proverete il
gusto della vera volontà.
Possiamo considerare ogni nostro desiderio un’entità
psicologica, ogni impressione un’unità, che svolge nella psiche la
stessa parte di noi individui nella vita del pianeta. Gurdjieff ha detto
che se si potesse anatomizzare la psicologia umana, l’uomo
vedrebbe una miriade di esseri, di desideri, di organismi pensanti.
Vedrebbe tutto ciò che lo popola.
La personalità è la somma complessiva dei nostri riflessi, fisici,
emozionali, intellettuali; la personalità è un reagente.
L’individualità è la capacità di agire e non reagire; si presume che ci
sia un essere in grado di usare il corpo. Un obiettivo del Metodo è
rendere concrete le distinzioni che ora sono solo intellettuali».
Qualcuno chiese: «Possiamo stabilire un confronto tra volontà,
coscienza e individualità e Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito
Santo? Lo Spirito Santo è la forza di conciliazione, ma con la
Vergine Maria è una figura doppia, il che renderebbe conciliatore il
Figlio anziché lo Spirito Santo».
Orage rispose: «Questa è una controversia della Chiesa cattolica
delle origini».

«Gli esseri», disse Orage, «diventano individui o individualità,


indivisibili, tre in imo e uno in tre, con tre centri che sono stati
sviluppati, quando attivo, passivo e neutralizzante rispettano
l’ordine naturale: una replica dello stato originale della creazione.
Ogni desiderio di cui siamo consapevoli nasce in imo dei tre centri e
per gli altri due è un’apparizione, un’interruzione. Quando tutti i
tre centri hanno lo stesso desiderio, ecco ciò che chiamiamo
Volontà. Allora l’uomo può dire “Io voglio” con tutto il suo essere. È
l’“Io sono”.

222
Quando tutti i tre centri sono rivolti a un unico desiderio, non
percepite più il desiderio come tale: tutto l’essere vi acconsente.
Non c’è più sofferenza psicologica ma lo sforzo continua, spesso
accompagnato da un sentimento di delusione dovuto alla volontà
frustrata. Con il crescere dell’essere aumentano le difficoltà, ma al
tempo stesso aumenta la forza.
Un intento del Metodo di Gurdjieff è quello di farci raggiungere
uno stato di coscienza di sé che oggi presumiamo di possedere.
Contrariamente ai metodi mistici e occulti, Gurdjieff non afferma
che siamo coscienti di noi stessi. L’uomo ha smarrito la strada, è
caduto nell’attuale stato di veglia patologica, e finché non recupera
la via resta condannato. Questo Metodo è concepito per aiutarlo.
Tutte le nostre manifestazioni fisiche e psicologiche sono
interrelazioni fra l’organismo e il suo ambiente, interrelazioni prive
di volontà, prive cioè del potere di agire di propria iniziativa. Eccoci
allora alla definizione che Gurdjieff dà dell’uomo: “L’uomo è
l’essere che può fare”. Ne consegue che in linea di massima non
conosciamo l’uomo, ma solo “uomini” fra virgolette. Se la mancanza
di volontà rientra nell’ordine naturale delle cose, la domanda è:
“Quale attività è necessaria allo sviluppo della volontà?”
È difficile convincersi e capire che la natura di ogni
manifestazione psichica e psicologica è la stessa delle manifestazioni
fisiologiche. Il processo pensante in atto mentre sto parlando e
quello dei vostri movimenti sub vocalici durante l’ascolto mancano
di volontà, come il senso del tatto nel contatto fisico. La volontà che
vi partecipa non è superiore a quella di figure oniriche che
compiono questi Movimenti. Non pensiamo certo che la figura si
attivi di propria iniziativa; e nei sogni non siamo noi a pilotare le
figure, che non sono nemmeno burattini, perché allora dovrebbe
esserci un burattinaio. La nostra assomiglia alla condizione di figure
oniriche, sul “velo dipinto che chiamiamo vita”».
Un allievo disse: «Ma la sofferenza è reale».
E Orage: «Dipende dal tipo di sofferenza. In effetti in certi sogni
la sofferenza può sembrare molto realistica, e talvolta la si può
richiamare anche a distanza di tempo. Nella vita possiamo rievocare
l’avvenimento, ma la sofferenza di un anno fa può essere
dimenticata.

223
“Nulla si asciuga prima di una lacrima”.
Uno degli scopi del mito, nel libro, è chiarire l’influenza della
Luna e di kundabuffer. Non sorprende che l’uomo sia privo di
volontà, stupisce che creda di averla. Questa sua convinzione, che
va contro qualsiasi evidenza e analisi scientifica, è una conseguenza
dell’organo kundabuffer. L’illusione sulla volontà è una delle prime
cose che il ricordo di sé e l’osservazione di sé possono eliminare. A
un certo punto, nella pratica del Metodo, ci si convince della
mancanza di volontà, della propria nullità interiore e della
meccanicità, dell’inutilità di aspettarsi qualcosa di reale dalla vita
ordinaria. La prima cristianità lo definiva come “convinzione del
peccato”, il rendersi conto di “aver mancato il bersaglio”. Per
l’essere, prima di ottenere la volontà o la “salvezza”, questa
esperienza psicologica era necessaria.
Supponendo di aver sperimentato e realizzato la mancanza di
volontà, la domanda è una sola: è possibile rinascere e passare alla
vita reale, e in che modo? E qui, sulla soglia, si trova la parola
“volontà”.
Si dice che il problema della volontà sia il mistero dei misteri.
La Volontà Reale, la forza che crea, mantiene e distrugge
l’Universo, è incomprensibile per il pensiero ordinario. Dio,
l’Assoluto, creò il grande Universo con un atto di volontà cosciente,
sconfiggendo la materia inerte. Se sviluppiamo la vera volontà con i
nostri modesti mezzi, diventiamo come Dio, diventiamo Figli di
Dio. Come iniziare? Cito ancora Gurdjieff: “Scegliete una piccola
cosa che volete ma non riuscite a fare e costringetevi a farla”.
Il capriccio è l’inizio della volontà. Il capriccio è una mosca, la
volontà è un elefante. Lo sforzo di san Patrizio per cambiare il corso
della storia umana, per civilizzare l’Irlanda, è un esempio di volontà
elefantiaca.
Ovviamente si presume che abbiate studiato il Metodo. Ogni
sforzo per ricordare e osservare voi stessi in modo imparziale è un
piccolo atto nella direzione della volontà reale: di fatto, il primo
passo».

224
Durante un incontro successivo si parlò di bene e male, e Orage
dovette continuamente riportare gli allievi al nocciolo della
questione. Disse: «Tutti ascoltano le domande e rispondono dal
centro di gravità in cui si trovano al momento. L’interpretazione
dipende solo da questo, dallo stato soggettivo. L’essenza si modella
sull’essere che al momento occupa il centro di gravità, animale,
bambino o barbaro che sia; la psiche cambia forma a ogni istante; ed
è a esseri del genere che si rivolgono le dottrine. Potete immaginare
come alterino una dottrina, sentita con uno o l’altro dei tre centri.
Non meraviglia il fatto che Gurdjieff parli sempre della strana
psiche degli esseri tricerebrali. Le difficoltà di un maestro
universale sono immense. Non stupisce che ci volle un Figlio di Dio
per dare agli uomini poche e semplici indicazioni etiche, e la sua
dottrina apparentemente non ce l’ha fatta.

Gli esseri sul “pianeta purgatorio” partecipano al piano divino, ma


soffrono perché sanno ciò che dovrebbero fare e non ne sono
ancora capaci. Quando la volontà, la coscienza e l’individualità si
sviluppano in modo armonico e simultaneo, il processo ci purifica e
possiamo essere liberati dal purgatorio. Questo sviluppo
contemporaneo è anti-yoga. Belzebù dice a Hassin di interrompere
l’attività del centro il cui ritmo risulta troppo elevato e di riportare
all’ordine gli altri due centri tramite il quarto centro. È
l’Iramsamkeep: prendo su di me la responsabilità dei tre centri.
L’Assoluto è per definizione “il tutto considerato come unico”.
L’Assoluto a cui ci riferiamo è tutto il nostro mondo. Questo
assoluto indivisibile contenuto in sé stesso presenta due aspetti: lo
status quo e il movimento, le caratteristiche statiche e dinamiche.
Questi due aspetti presuppongono un piano o disegno che
necessitano il mantenimento e la crescita dell’universo. La crescita
può essere definita il piano di battaglia, e lo status quo l’esercito per
attuarlo. Il piano ha per obiettivo lo sviluppo delle potenzialità di
tutti gli esseri che fanno parte del piano complessivo.
L’adempimento del piano consiste nel conseguimento della ragione
oggettiva: la realizzazione dell’“essere” di ogni essere. Il piano va
portato a termine da tutti gli

225
esseri, consapevoli o meno, nella misura in cui restano esseri, e non
dei totali hasnamuss. Gli esseri hanno la potenzialità di rendersi
consapevoli del piano e sviluppare la volontà per cooperare con
esso. Il raggiungimento di uno stato di cooperazione consapevole al
piano può definirsi “bene”, il mancato raggiungimento di esso può
definirsi “male”. Il piano può essere svelato, ma finché non viene
scoperto, ogni argomentazione sulla sua natura va considerata
morale convenzionale o religiosa. L’obbedienza servile alla morale
soggettiva rappresenta un atto sbagliato oggettivo.
Il testo di Gurdjieff afferma che i princìpi della morale
oggettiva, così come stabiliti, prendono origine da una fonte prima a
cui qualcuno riuscì ad accedere. Ogni grande religione ha insegnato
da subito la morale oggettiva. Vengono dati una tecnica e un
metodo concepiti per introdurre nella consapevolezza una
conoscenza oggettiva, cosicché un essere possa comprendere e
cooperare al piano divino. Con la comprensione arriva la
responsabilità di un essere per il proprio sviluppo.
Per noi, adesso, Tunica cosa oggettivamente giusta da fare è
mettere in pratica il Metodo, che per effetto introduce la coscienza
oggettiva nella consapevolezza».

«Quello che non è corpo, è psiche. La psiche è quello che non è


corpo. E rivestita con un corpo. E un’entità rivestita
incidentalmente dal pianeta. La fisiologia è strumento della psiche.
Nella psiche c’è la possibilità di sviluppare i tre centri. La psiche è lo
strumento dell’“Io”. Il concetto di psiche non ha a che fare con il
corpo fisico. Il vero corpo fisico è il corpo eterico. Gurdjieff
identifica l’altro come corpo planetario. Negli esseri tetartocosmici
si distinguono quattro corpi: planetario, fisico, emozionale,
mentale. Il corpo planetario è composto da sostanze planetarie,
quello fisico dalla radiazione del pianeta. Nel centro emozionale le
sostanze presentano una dualità: le radiazioni dei pianeti e le
emanazioni del Sole, che partecipano alle emozioni basse ed
elevate, simbolizzate dalla croce. Ogni cosmo, Tetartocosmo
incluso, è un’entità tricentrica in cui avviene la trasformazione
delle sostanze. Il corpo kesdjan e il corpo mentale rappresentano i
corpi superiori».

226
«Come definisce la presenza? Qual è la differenza tra presenza e
personalità?»
Orage: «Gurdjieff ha associato la “presenza” a ciò che è presente
in voi all’istante, potenzialità inclusa nella misura in cui ha iniziato
a manifestarsi. Di un giovane albero ha detto “giovane presenza”. È
sia il fatto compiuto che il processo che
10 realizza. Massa più energia.
Riguardo alla caratteristica principale, una sua particolarità è
che credi di essere ciò che in fondo vorresti essere».

«Nella sociologia il senso di colpa nasce dalla coscienza soggettiva, è


una conseguenza della morale soggettiva. La vergogna esserica
nasce dalla coscienza oggettiva: la consapevolezza di non aver
realizzato ciò che si dovrebbe essere».

«Finché utilizziamo le energie per uno sviluppo psichico normale,


diventiamo letteralmente inferiori agli animali».

«L’Ottava è lo sviluppo dei tre elementi primari: la Legge del Tre.


Nello spettro ci sono solo tre colori primari: il rosso, il giallo, il blu.
Se, per similitudine, il rosso è il positivo, il blu è
11 negativo e il giallo il neutralizzante, nell’uomo, ora, il rosso e il
blu sono invertiti».

A una domanda sul partk-dolg-dovere, Orage rispose: «Il termine


indica il “dovere” in tre lingue, si tratta del lavoro cosciente e della
sofferenza volontaria. Da un lato cercare di comprendere il
significato e lo scopo dell’esistenza è un dovere intellettuale; sentire
la responsabilità del mantenimento di tutto ciò che esiste è un
dovere emozionale; ed è un dovere fisico rendere il corpo planetario
un servitore del nostro scopo.
Non sono ancora riuscito a rendervi ben chiaro il sentimento di
debito che ognuno di noi ha contratto con la propria incarnazione.
Tutto ciò che per noi è “naturale” lo dobbiamo a esseri a noi
superiori, ed è stato messo a nostra disposizione a caro prezzo in
modo che ne potessimo fare esperienza. L’esistenza, la
partecipazione nelle esperienze dell’incarnazione, costa qualcosa a
qualcuno. Sentire l’obbligo di questo debito è capire cosa significa

227
pagare per la propria esistenza. Non sentirlo è indice di anormalità e
incapacità di concepire in alcun modo la giustizia. Diamo un valore
enorme a una vita lunga e felice, ma soprattutto lunga.
L'obbligazione per la nostra vita non è un'obbligazione che
dovremmo sentire, ma un’obbligazione che è sentita da un essere
umano normale.
Un allievo: «Allora arriviamo all’amletico “essere o non essere”».
E Orage: «Amleto non era normale, era pazzo. Era un tipico caso
di mancanza di volontà avvelenato dalla filosofia tedesca. Pensateci!
Potremmo essere un pezzo di legno oppure un animale inferiore! E
per come si configura la vita, in linea di massima le esperienze
piacevoli sono di poco superiori a quelle spiacevoli.
I buddhisti definiscono il dovere come “ciò che va fatto senza
aspettarsi il merito, ma che va fatto se dovete guadagnarvi il
merito”».

«All'inizio dell’età adulta si desidera separare “Io” da “lui”. Adulto è


chi lotta per stabilire questa distinzione: separare il Sé dal sé. Forse
l’adulto non è pienamente consapevole di questa separazione, ma la
presenza del desiderio segna l’avvio di una fase spirituale adulta.
Senza “Io” non c'è coscienza. Chi ha vissuto momenti di
coscienza di sé, conosce la differenza con la coscienza di veglia. La
coscienza cosmica è un'altra cosa ancora, impossibile da spiegare,
dunque non esistono descrizioni. Ne La coscienza cosmica, Bucke
descrive soltanto la coscienza di sé. Ouspensky riferì di essersi
convinto di non avere coscienza di sé nel momento in cui Gurdjieff
gli chiese dove si trovassero le macchie di unto sul suo abito, ed egli
non riuscì a ricordarlo.
La differenza tra pensiero e coscienza è che il primo è una
successione di immagini, la seconda è consapevolezza simultanea di
quello che abita la mente e, ovviamente, i sentimenti e le
sensazioni».

«Una presentazione di un modo di sviluppo è difficile perché le


concezioni non sono familiari, assiomatiche o associative.

228
Gurdjieff supera questa difficoltà scrivendo per parabole.
L'esposizione diretta fallisce a causa di associazioni errate con i dati
psicologici».

«La radiazione è dispersa dalla propria forza; l'emanazione non


subisce calo».

Fu fatta una domanda sulla vergogna organica e la sua scomparsa,


nelle donne in particolare.
Orage disse: «Ho sentito Gurdjieff parlare di una scomparsa
analoga negli uomini. In un capitolo, infatti, ci sono passaggi in cui
assolve le donne in America, per lo stato in cui versano; il declino è
iniziato con gli uomini, e le donne mostrano soltanto fino a che
punto sia scomparsa in essi la vergogna organica.
Sapete che la parola “Jehovah” o “Yahveh” si compone di Yod e
Evoe, Adamo e Èva. L'esoterismo oggettivo considera decaduta la
religione ebraica, perché ha tolto a Adamo la responsabilità del
male e l'ha trasferita a Èva. Gli “uomini” che abbandonano la
responsabilità e scivolano dalla parte attiva alla parte passiva, sono
“uomini di Yod”.
I sufi dicono che gli ebrei ricevettero la verità - la conoscenza
oggettiva -, ma se ne disinteressarono, perciò furono puniti e
dispersi.
La vergogna organica non coinvolge un organo ma l'organismo,
che guarda all'anormalità con timore. Solo un organismo normale
prova questa sensazione».

A una domanda sulla possibilità di richiamare direttamente la


coscienza oggettiva, Orage rispose: «Non può essere richiamata
direttamente. Ashiata Shiemash vi fece appello in modo indiretto.
Come dice Gurdjieff, la curiosità rivolta a un buon fine è un puro
movente per studiare il metodo dell'osservazione di sé, in quanto
non lo altera. Siamo come Saul, che partì alla ricerca di asine e trovò
un regno. Il Metodo offre un mezzo per scoprire e realizzare la
propria anormalità, il che suscita un desiderio di cambiamento, che
è vergogna organica. E correlato al sacro Aieioiuoa: l’aspirazione di
vibrazioni più basse a condividere l'esperienza delle vibrazioni più

229
alte. È quanto proviamo al cospetto di un essere superiore, non
superiore in ambito sociale; un desiderio di essere come lui; è questo
il culto dell’eroe, un eroe oggettivamente superiore».

«La nostra reazione meccanica alle persone svela la nostra schiavitù.


Un esercizio psicologico possibile consiste nello sforzarsi di essere
continuamente consapevoli delle emozioni negative; in questi
ultimi mesi molti di voi hanno vissuto un intenso periodo di
emozione negativa; al tempo stesso avevate l’antidoto, per così dire,
a portata di mano. Ma siamo tutti così innamorati della sofferenza
meccanica, così pigri, talmente inerti che, piuttosto di fare uno
sforzo per esercitare un po’ di sofferenza volontaria, preferiamo
soffrire meccanicamente, passivamente.
Per il lavoro cosciente possiamo prendere come riferimento
Ashiata Shiemash. Egli iniziò a riflettere quasi per capriccio. Prese
in considerazione tutti gli insegnamenti preesistenti e alla fine
fondò una critica e una nuova tecnica. Lo scoprì da sé. Individuò
con i propri sforzi lo scopo della sua vita, e si mise all’opera per
ideare il mezzo più efficiente per realizzarlo. Questo fu lavoro
cosciente.
Il sistema di Gurdjieff definisce lo scopo per ogni individuo: il
conseguimento della coscienza di sé e un livello di ragione
oggettiva. In definitiva, l’idea consiste nell’associare ogni azione a
una direzione finalizzata, che è l’unica cosa in grado di dare
significato a una vita altrimenti meccanica. Il vero orgoglio inizia
con il lavoro dell’“Io”. È la “soddisfazione esserica” di aver compiuto
uno sforzo».

«Ashiata Shiemash iniziò richiamando le proprie capacità per


impostare un metodo che avrebbe salvato gli esseri del pianeta
Terra da un ulteriore peggioramento. Lavorò molto su di sé, rifletté
a lungo e si rese conto che la sua stessa soggettività era stata
condizionata; allora fu in grado di vedere al di là degli strati
dell’educazione e, dopo aver raggiunto uno stato di oggettività e
imparzialità, cominciò a impostare la sua missione. Lasciò un
documento a una catena di iniziati, di cui oggi poco rimane
nell’Asia Centrale.

230
Ricordatevi che ne I racconti di Belzebù ogni cosa ha tre
significati e sette aspetti.
Ashiata Shiemash scrisse II terrore della situazione».

A questo punto Orage disse che gli sarebbe piaciuto ascoltare tutti
insieme, a New York, la musica composta da Gurdjieff per
accompagnare la lettura di quel capitolo, perché le idee vengono
comprese con l’emozione, come nel libro vengono capite
dall’intelletto.
Continuò: «Ashiata Shiemash iniziò con una preghiera, in altre
parole assunse un’attitudine emotiva definita quanto la disposizione
fisica della postura. Orchestrò coscientemente le sue emozioni, si
mise nello stato dell’“Io sono”. L’“Io” è sempre. “Io sono Padre,
Figlio, Ieri, Domani”.
In noi, l’“Io” si manifesta a periodi, all’inizio per caso.
Ashiata Shiemash si liberò da qualsiasi associazione mentale e
potè essere imparziale. Esaminò gli effetti delle religioni fondate
sulla fede, la speranza e l’amore, vide che gli esseri non avevano più
la possibilità di restarne toccati, e che non era più possibile
appellarsi alla ragione ordinaria. E inutile esortare i pazzi alla salute
mentale. Considerò tutte le nostre emozioni e idee, e arrivò alla
conclusione che, sepolto nell’essenza, sopravviveva ancora qualcosa
di non acquisito ma che ci appartiene ed è incorrotto: la coscienza
oggettiva.
Scelse nei monasteri trentasei uomini, pensatori individuali e
indipendenti capaci di pensare nella direzione opposta alle attuali
tendenze sociah, legate al proprio organismo e al mondo esteriore.
(Ogni pensatore indipendente vive in un “monastero”). Ashiata
Shiemash insegnò il Metodo ai trentasei, in modo che potessero
parlare per esperienza personale, non in base ai libri; e affinché
fossero capaci di aiutare un certo numero di persone a fare lo stesso.
Le idee furono tramandate da iniziati, così la sua
organizzazione prosperò per un lungo periodo. Alla fine venne
distrutta da Lentrohamsanin. Il nome, tra l’altro, è composto da nomi
che oggi conosciamo bene. Lentrohamsanin è presente in ognuno di
noi. Come ho già detto, anche in questo lavoro arriverà il momento
in cui persone che conoscono il sistema di Gurdjieff, senza però la

231
necessaria comprensione, si serviranno delle idee a scopo personale;
le distorceranno e modificheranno, illudendosi di percorrere un
“cammino”. Ma ci sarà sempre un nucleo che comprende
veramente e conserverà il Metodo e il sistema come sono stati
insegnati da Gurdjieff.
Nella nostra epoca ogni riferimento alla fede, alla speranza e
all’amore ha un taglio sentimentale e suscita una certa repulsione;
intellettualmente restiamo guardinghi. Ma la nostra civiltà è come
quella dell’epoca babilonese, siamo altrettanto rovinati e
pretendiamo un’evidenza intellettuale.
Quanto al ricorrere alla ragione ordinaria, abbiamo un esempio
in Buddha, che gli indù riconoscono come il più grande dialettico
del mondo, fine ragionatore e logico, talmente frainteso che già la
seconda o terza generazione di seguaci iniziò a interpretarlo in
modo errato.
Ashiata Shiemash vide che i maestri precedenti, che avevano
fatto appello alla fede, alla speranza e all’amore, avevano fallito; e
che avrebbe fallito anche chi dopo di lui avesse continuato a farlo;
propose di ricorrere a qualcosa che non era stato ancora
razionalizzato e di cui in pochi, salvo circostanze disperate, avevano
fatto esperienza».

«Perché un cane rimane un cane? Perché si comporta da cane?


Perché non si comporta, potremmo dire, ragionevolmente? Si
comporta così perché è obbligato a essere quello che è, al di là delle
conseguenze. Non gli importa di migliorare o peggiorare, di
riprodursi o estinguersi. E innocente, essenziale.
Il minerale, il vegetale, l’animale obbediscono alla legge della
specie. “Chinano tutti il capo al giogo che Dio nella sua saggezza ha
imposto” (Aitar). Per loro il male non esiste nel significato che noi
gli attribuiamo, non c’è bisogno di sforzo psicologico; la loro specie
è definita. Esteriormente l’uomo è definito, ma psicologicamente ha
in sé tutte le specie. All’occasione può essere un topo, un cane, un
leone: osservate voi stessi e i vostri amici. Nell’Ottava l’uomo è la
nota Si. È una nota instabile, è una condizione di responsabilità:
l’uomo può salire o scendere di un’ottava. Lo sforzo che permette
all’uomo di passare alla successiva ottava superiore è possibile? È
questo il “terrore della situa zione”, perché se lo sforzo non viene
fatto,

232
l’uomo può cadere in basso e degenerare, come le formiche e le api.
Ashiata Shiemash introduce il concetto di Dio: un fattore
decisivo per il quale l’uomo dovrebbe sviluppare le proprie
potenzialità dirigendole a un fine elevato. Le specie inferiori non ne
hanno bisogno. L’uomo è la prima specie biologica a occupare
questo punto cruciale dell’ottava; e la sua funzione cosmica è di
cooperare al disegno che il Creatore ha stabilito per l’Universo:
l’evoluzione dell’Universo stesso.
Ashiata Shiemash insegnò un metodo, il Metodo, grazie a cui
l’uomo sarebbe diventato normale, un Figlio, anziché essere una
semplice macchina di trasformazione di sostanze qual è ora. Una
parte del piano prevedeva a un certo punto la comparsa di un
numero di incaricati coscienti, non semplici esecutori, che
avrebbero cooperato alla realizzazione di questo progetto gratuito.
Ashiata Shiemash volle indurre negli esseri la coscienza, e partire da
essa.
L’uomo, come razza e in misura variabile per la sua condizione
psichica, soffre di personalità scissa, questa è la diagnosi. È
impossibile ricordare lo stato normale a un ubriaco, a un drogato o a
chi è in preda a una forte emozione come l’innamoramento o l’odio.
Scopo e compito di tutti i veri maestri è quello di ricordare all’uomo
il suo stato normale: tono stato che l’individuo medio talvolta
realizza, almeno momentaneamente, durante la veglia, un
momento di parziale reminiscenza di uno stato di vera coscienza.
C’è la storia indù del bimbo che nel ventre materno cantava:
“Fatemi ricordare chi sono”. E la prima cosa che urlò appena nato
fu: “Oh, l’ho dimenticato! ” È un’idea che i cristiani conoscono dalla
storia del figliol prodigo, basata sul più antico Inno alla Veste di gloria
gnostico che, come ogni racconto, pensiamo risalga a “tempi
biblici”; non lo applichiamo a noi stessi, oppure lo consideriamo alla
luce della morale soggettiva.
Ashiata Shiemash insegnò agli allievi un metodo per
“risvegliarsi” dinanzi al fatto che stavano vivendo nel lontano paese
del figliol prodigo, il corpo planetario; un metodo con cui, nel
tempo, avrebbero smesso di identificarsi con le innumerevoli voglie
e i desideri del corpo, e sarebbero tornati al vero sé. Il Metodo
consisteva in quella che chiamiamo “tecnica della sensazione,
ricordo

233
e osservazione di sé”; è il partk-dolg-dovere esserico; un metodo
semplicissimo ma al tempo stesso molto difficile. Perché? Perché la
vita intera e quanto abbiamo dentro di noi cospirano per farci
dimenticare, per mantenerci in uno stato di sonno. Per il singolo è
addirittura pericoloso cercare di mettere in pratica il Metodo
basandosi sulla sola descrizione verbale, per non dire scritta, di
qualunque genere sia. Eppure lo troverete riportato in ogni grande
insegnamento.
Se pensiamo al gruppo originario che fondò i cavalieri templari,
o l’ordine della cavalleria, quando i grandi nobili consideravano un
privilegio la possibilità di lavorare in cucina; o l'ignoto manipolo di
uomini che, con semplici attrezzi, realizzò in una remota palude di
un'isola inglese quel miracolo di Cattedrale a Ely, ci faremo un'idea
del gruppo di Ashiata Shiemash.
I fondatori di queste comunità possedevano un elevato livello di
volontà, coscienza e individualità reali: il triangolo che nel-
l'Enneagramma si oppone alla corrente discendente nella scala della
Legge dell'Ottava.
Nei Racconti scientifici di C.H. Hinton c'è un personaggio che
passeggia per una strada del Greenwich Village a New York, e vede
su una porta una targa: “John Smith, disapprendista''. La professione
di Smith consisteva nell'aiutare le persone a “disapprendere” la
spazzatura accumulata con l'educazione. Dobbiamo disimparare e
venire ri-educati.
Ashiata Shiemash insegnò che l'uomo avrebbe dovuto sentirsi
obbligato ad assolvere il servizio per cui era stato creato, e che si
sarebbe evoluto solo nella misura in cui avrebbe ottemperato a
quest'obbligo. Così facendo avrebbe rinunciato a tutto ciò che
riteneva indispensabile a una “vita piacevole”: le opinioni, il potere
esteriore, il sapere, l'amor proprio, il falso orgoglio, l'egoismo che,
oltre all'amore per il denaro e il sesso, sono le vere brame della
carne».

«Quella di Lentrohamsanin fu la critica di un buon filosofo


esclusivamente razionalista: la ragione oggettiva senza la coscienza
oggettiva. A suo parere, se l'uomo è stato creato per servire, allora è
uno schiavo. Suggerì in modo plausibile e astuto di rinnegare questo
servizio e di ottenere la libertà assoluta. Ritenne possibile

234
conseguirla senza lo sforzo che il lavoro cosciente e la sofferenza
volontaria implicano. In un certo senso Lentrohamsanin fu il
precursore dei nostri antenati spirituali, i greci e i romani, che per
noi segnano l’inizio della civiltà: tutto ciò che li precede è barbaro e
barbarico. Ma Gurdjieff dice che l’antica civiltà babilonese fu di
gran lunga superiore a quella greca, la quale non discende da
Ashiata Shiemash, ma da Lentrohamsanin: il razionalista privo di
stimoli emozionali elevati.
In ognuno di noi Lentrohamsanin tenta di distruggere il lavoro
di Ashiata Shiemash: una forza incosciente all’opera contro una
forza cosciente.
In questo Lavoro, il lavoro in cui siamo impegnati, alcune
persone con una conoscenza superiore alla comprensione possono
rivelarsi incapaci di sopportare la sofferenza che ne deriva: il senso
di colpa, il rimorso, il pentimento, la disperazione di sentire
l’incapacità di fare qualcosa per sé stessi. È la buia notte dell’anima.
Alcuni possono uscirne per una tangente, alla ricerca di una via più
facile, la via di una scuola filosofica, per esempio; oppure una
religione orientale inadatta alla psiche occidentale; o magari
diventano dei Lentrohamsanin che, con le migliori motivazioni
egocentriche, si oppongono davvero al lavoro. Questo lavoro è un
forte positivo e, come dice Gurdjieff, “un forte positivo evoca un
forte negativo”.
Lentrohamsanin personifica la nostra riluttanza a sostenere la
sofferenza necessaria per conseguire la coscienza oggettiva,
simultanea al raggiungimento della ragione oggettiva.
Dio ha un piano. In questo piano rientrano gli esseri umani, e
parte del piano consiste nel dare agli eletti l’opportunità di lavorare
contemporaneamente per Lui e per sé stessi. È un piano molto
elevato, grandissimo; e il livello di sofferenza coincide con il livello
di importanza a esso attribuito. Chi sono gli eletti? Chiunque
desideri pagare il prezzo del lavoro cosciente e della sofferenza
volontaria; non sono gli eletti di Calvino, predeterminati dalla
creazione del mondo.
Lentrohamsanin scelse di manipolare gli ingenui, persone di
buoni sentimenti, che non avevano raggiunto la ragione oggettiva:
gli insoddisfatti che cominciavano a pensare che, in proporzione
alla sofferenza, non c’era speranza di raggiungerla. Invece di

235
indicare il grande compito, egli insegnò che nella vita contava
principalmente la ricerca della felicità, e la felicità consisteva nel
non essere obbligati a compiere uno sforzo costante e assiduo. In
certe condizioni magari scopriamo di dargli ragione.
Lentrohamsanin si appigliò a due caratteristiche umane: il desiderio
di avere qualcosa per nulla e l’idea di libertà, o libertà di conquistare
in futuro la felicità. Non era un mostro o un traditore consapevole;
semplicemente pensava di sapere; tralasciò il peso dell’elemento
emozionale superiore. In uno stato emotivo più elevato l’uomo non
può fare del male; la coscienza oggettiva è desta; egli si trova in uno
stato di ricordo di sé, di ri-chiamo di sé. Nella ragione ordinaria
abbiamo già quanto basta per sconfiggere Buddha, Gesù Cristo e
Ashiata Shiemash. A Lentrohamsanin mancò la spinta di
comprendere il “perché”, si accontentò di conoscere il “come”:
questa fu la sua debolezza.
Gurdjieff dice che il “perché” riguarda ciò che non si conosce e
che al tempo stesso già esiste.
Come ho detto, delle due correnti possibili - Ashiata Shiemash e
Lentrohamsanin -, noi abbiamo ereditato la seconda, quella greca e
romana. Eppure in Grecia esistettero veri gruppi esoterici che
fecero fiorire quella cultura. Socrate faceva parte di un gruppo.
Aristofane fu una specie di Lentrohamsanin dell’epoca: non
comprese mai Socrate.
Quando l’insegnamento di Ashiata Shiemash venne sommerso
dal diluvio della filosofia razionalistica di Lentrohamsanin, i seguaci
si ritirarono in piccoli gruppi. Questi piccoli gruppi esistono dentro
di noi.
Oggi tutte le spiegazioni comuni della vita si basano sulla
persona; Soggettivo è stato inghiottito dall’egoismo. Non possiamo
elaborare alcuna filosofia se non dal punto di vista dell’interesse
personale. Nietzsche ha detto: “Di un filosofo non chiedo più ‘è
vero?’ ma ‘qual era il suo interesse?”’ Senza emozioni di ordine
superiore tutta la filosofia diventa materia per la testa e, con un
occhio al benessere personale, assume una colorazione soggettiva e
un’impostazione egoista, al pari della nostra ragione degenerata.
Senza una comprensione emozionale superiore, l’uomo ordinario
considera l’Universo una semplice casualità e la vita sul pianeta,
inclusa quella umana, un’occasione da sfruttare; oppure non

236
riconosce nessun fine valido nella creazione divina del mondo e il
Creatore per lui non è di alcuna utilità; oppure può pensare che un
Dio ha creato il mondo proprio per noi, ama gli esseri umani e
desidera soltanto la loro felicità; ma se non sono buoni, bravi e non
fanno come vuole Lui, si arrabbia e li punisce. L’idea di ritenere la
felicità un obiettivo essenziale, e raggiungibile solo rendendo felici
gli altri, è una tra le più infantili. È l’atteggiamento di
Schopenhauer. Altra variante: conta solo la felicità individuale -
l’errore della soggettività in cui cadde Nietzsche - e l’umanità esiste
solo per produrre pochi superuomini. Altra variante ancora, quella
patologica social-comunista: la felicità mia e di chi mi sta accanto
contano nella misura in cui garantiscono agli altri un futuro
“progresso” e felicità. Infine ci sono gli scienziati moderni, che
inventano un numero crescente di sistemi per il bene delle
generazioni future: “la malattia del domani”.
Non si giunge alla ragione oggettiva con un’emozione soggettiva
egoica o per angoscia personale: ci vuole anche la coscienza
oggettiva. Alla mente ordinaria la cosmologia di Gurdjieff può
apparire ridicola ma, se paragonata alle idee infantili implicite nella
nostra visione generale soggettiva, è virile e intelligente.
Ashiata Shiemash dice: “Esiste un metodo grazie al quale ora
possiamo riuscire a comprendere ciò che è”.
Lentrohamsanin dice: “Esiste un modo per adattarci a ciò che è,
senza comprenderlo”. I greci furono responsabili della corruzione
della ragione umana, i romani della corruzione della coscienza
organica».

«Durante il suo sesto e ultimo soggiorno sul pianeta Terra, Belzebù


decide di indagare le cause dell’accorciamento dell’esistenza umana.
In Occidente recenti statistiche indicano un prolungamento della
vita fìsica delle persone. Con questa parabola, Belzebù vuole aprirci
gli occhi sul fatto che l’esistenza tricentrica dell’uomo si sta
abbreviando. Se osserviamo lo stile di vita occidentale, risulta
piuttosto evidente che negli ultimi due, tre secoli l’esistenza
essenziale dell’uomo ha sofferto una riduzione considerevole e
rapida, e che il processo sta continuando. Una delle cause è che
dopo i venticinque, trent’anni, le persone non pensano più in modo
autonomo; pensano meccanicamente, tutti allo stesso modo;

237
a quarant’anni la maggioranza ha smesso di provare un sentimento
proprio e continua a vivere in una ripetizione costante, come un
animale in stato vegetativo, per due terzi morta.
Cosa provoca questa mortalità prematura? In parte
l’educazione, il fallito sviluppo della coscienza oggettiva e l’assenza
della morale oggettiva.
In una società normale con un’educazione normale, gli
individui svilupperebbero i due corpi superiori nella direzione della
ragione oggettiva. Noi rimpiazziamo la coscienza oggettiva, la
volontà, la coscienza e l’individualità con la filosofia, la psicanalisi,
la scienza, l’arte, la letteratura, le sette religiose, lo sport, la salute e
via dicendo. Siamo come il dirigibile di Amundsen sul Polo Nord, la
cui bussola indicava tutte le direzioni e nessuna in particolare. A
nessuno di noi è interiormente chiara la direzione della vita. Ci
troviamo nello spazio, ma siamo costretti a muoverci. E l’unica
direzione possibile è quella condivisa da chi abbiamo intorno: da cui
la fiducia nelle convenzioni sociali, morali e ideali. Un accordo
pragmatico. Il criterio soggettivo è idiosincratico e ribelle, oppure
convenzionale; oggettivamente, fra i due non c’è un bel nulla da
scegliere, perché sono entrambi soggettivi. E così cadiamo nei vari
sofismi. Per esempio, un criterio per stabilire un valore è
1’“adattamento”, l’evoluzione. La scuola di Jung si basa sul “ci siamo
adattati? Se la risposta è affermativa, siamo certamente nel giusto”.
E la posizione di massimo comfort: la poltrona in gabinetto di cui
scrive Belzebù, il mezzo che si sostituisce al fine. Se non si hanno
uno scopo consapevole e la visione di una finalità consapevole, si
sopravvaluteranno i mezzi. La filosofia, per esempio, ha per fine la
verità; ma il fine viene perso di vista, e restiamo sopraffatti dalla
chiarezza del processo, dagli epigrammi, dalla retorica, dal
ragionamento sottile. Veneriamo lo strumento.
È lo stesso con l’idea di giustizia. Il vero concetto di giustizia è
l’imparzialità in base a regole applicabili a tutto. Ma siamo diventati
dei legalisti che inseguono formulari legali e la legalità, anziché la
logica della psiche.
E il sesso. Da un punto di vista oggettivo lo scopo del sesso è
duplice, la procreazione e l’auto-creazione: la procreazione di corpi
planetari e la creazione in noi stessi del corpo kesdjane del corpo

238
mentale. Per colpa dei romani ci ritroviamo a fare un uso
indiscriminato del sesso, sostituendo la vera soddisfazione,
derivante da un impiego finalizzato, con la ricerca del piacere, che è
parte del processo sessuale. Oppure, suggestionati dalla religione
puritana ufficiale, neghiamo il sesso ritenendolo un male, il grande
peccato, e ci abbandoniamo a fantasie sessuali. Come mai in
Occidente gli effetti dell’uso improprio, il mancato utilizzo o la
deviazione dell’energia sessuale sono tanto studiati? In Oriente non
insorgono problemi sessuali se non laddove le persone sono state
influenzate dal puritanesimo occidentale. Come tutta la vita
organica, abbiamo diritto al piacere collegato all’unione sessuale
ma, in quanto esseri umani, dobbiamo destinare quella forza, o una
sua parte, a un fine consapevole. E quando l’energia sessuale non
viene utilizzata, devia su propositi ben più dannosi delle cosiddette
“anomalie”».

«Sin dalla tenera età e per eredità oggettiva, dovremmo conoscere il


motivo della nostra venuta al mondo, e dovremmo essere preparati
a realizzare la nostra funzione. Per gli animali e i vegetali è la loro
condizione naturale. Le piante producono i semi e, anche se ci sono
indebolimenti che le rallentano, non deviano dalla loro funzione. Il
mondo vegetale ha grandi capacità di adattamento per superare gli
ostacoli. Gli esseri tricentrici sono dotati di tre cervelli per lo
sviluppo del seme della coscienza oggettiva, ma fin dalla nascita
l’educazione e l’ambiente schiacciano e seppelliscono questo seme.
Siamo come Esaù, abbiamo rinunciato alla primogenitura in cambio
della minestra confusa della vita ordinaria; è questo il significato
della storia.
Non abbiamo un criterio ereditario naturale, dunque accettiamo
per forza i criteri di chi abbiamo intorno. La difficoltà è maggiore
per la mancanza di una conoscenza precisa del pianeta, della sua
geologia e delle sue razze. Disponiamo solo delle speculazioni di
scienziati, geologi, archeologi, etnologi; e una generazione, o una
scuola, contesterà o ostacolerà per capriccio le scoperte di un’altra.
C’è qualcuno in grado di ricordare le civiltà passate - la loro
ascesa e caduta, la loro cultura, arte e filosofia, - e di ritenersi loro
erede? Non c’è continuità nei dati, ci sono solo voci.

239
Gurdjieff dice che dal tempo di Atlantide è esistita una
successione di scuole esoteriche, custodi di una conoscenza segreta
che, di epoca in epoca, viene interprètata e insegnata da maestri
inviati da queste scuole. Tutti i grandi messaggeri dall’Alto ne
hanno parlato: Krishna, Mosè, Buddha, Gesù, Maometto. Ci sono
stati anche molti messaggeri e maestri minori».

«H capitolo sull’arte è una descrizione del modo ideato da un


gruppetto di uomini coscienti per tramandare la conoscenza
oggettiva, non a una o due generazioni, ma per migliaia di anni e
oltre. Quella che chiamiamo “arte” - l’arte soggettiva ordinaria - per
l’uomo è naturale come per gli uccelli lo è la preparazione del nido.
L’artista non doveva essere un uomo speciale, ma ogni uomo doveva
essere un artista speciale; e lo era, relativamente, perfino a memoria
d’uomo. Pensate all’arte contadina europea, Russia compresa, e
addirittura a quella inglese, fino all’avvento dell’industria e alla
diffusione dell’educazione. La campagna inglese, con i suoi villaggi,
cottage, giardini e fattorie, era considerata ima delle più belle in
Europa, frutto del gusto estetico e delle proporzioni di fattori,
artigiani e braccianti. Quando l’uomo precipitò nell’“epoca del
progresso”, tutto questo iniziò a scomparire sotto la valanga di
mattoni rossi di impresari affaristi e costruttori edili. In Russia l’arte
contadina, le usanze popolari, le danze, le cerimonie religiose - la
vita organica del Paese - sono state assassinate dal comunismo. H
vecchio capitalismo, devastatore della vita organica occidentale, e il
nuovo comunismo, devastatore della vita organica nell’Est, sono i
sintomi della degenerazione interiore della psiche umana.
Gurdjieff dice che la degenerazione, il degrado e la decadenza
della civiltà si sono ripetuti più volte su grande scala; e persino noi
non possiamo non accorgerci dell’evidente deterioramento e
decadenza delle singole razze e nazioni. Nel Maha- bharata
troviamo riferimenti a questa progressiva degenerazione, di cui
viviamo lo stadio finale: il Kaliy Yuga».

«Belzebù racconta che gli Adepti del Legamonismo utilizzarono i


princìpi di leggi cosmiche che essi comprendevano; introdussero
innovazioni nelle varie forme artistiche, “inesattezze conformi

240
alle leggi”. Scartarono la letteratura, non solo perla deperibilità del
papiro o della carta, ma in quanto la più soggettiva fra tutte le arti;
poggia sul linguaggio, che cambia e muore. Tutti possono
apprezzare le antiche opere d’arte della Britannia, come Burghead
Bull, Stonehenge, certe raffigurazioni dei cavalli bianchi nei
Downs, gli ornamenti celtici e la ceramica “preistorici”. Ma cosa
sappiamo dei loro artefici? Nulla. E siccome queste antiche
popolazioni non lasciarono nulla di scritto, i divulgatori inglesi sono
convinti che in Britannia la civiltà inizi con i romani. Quanti sono
perlomeno capaci di leggere l’anglosassone, la lingua del nostro
passato? E ancora: la letteratura è la forma di ombre, i romanzi sono
le fantasticherie degli scrittori.
L’arte minore si occupa dell’espressione di sé. La grande arte
rappresenta uno sforzo per esprimere determinati concetti a
beneficio del fruitore, e non necessariamente per il tornaconto
dell’artista. Quando si parla di arte soggettiva ordinaria, diciamo
che un’opera d’arte perfetta soddisfa pienamente il nostro senso
dell’armonia, e ogni parte del nostro essere sensoriale, emozionale e
intellettuale. Secondo Gurdjieff, in relazione a uno dei suoi obiettivi
che è risvegliarci dal sonno, questo sentirsi appagati dall’armonia
(che non è vera tranquillità ma una forma di sonno più profondo) è
l’ultima cosa auspicabile. La contemplazione estetica è sonno
sublime, la consapevolezza viene sospesa.
Gli Adepti del Legamonismo avevano l’obiettivo di far
“ricordare” le persone. Introdussero in ogni genere di opere d’arte
delle inesattezze conformi alle leggi, per indurre le persone a
chiedersi “perché è così?” Quest’idea venne scoperta nelle antiche
scuole buddhiste zen, promotrici della fioritura della grande arte
giapponese; fra le tradizioni sviluppatesi da quest’idea, ce n’era una
che voleva l’opera d’arte perfetta con un qualcosa di incompiuto.
Gurdjieff riferisce che, durante i viaggi in Asia Centrale, si
imbatté assieme ai suoi compagni in un’enorme figura nel deserto.
All’inizio pensarono che fosse solo ima reliquia. Si accamparono lì
accanto. C’era qualcosa che li incuriosiva, così iniziarono a
studiarla. Con il passare del tempo la figura sembrò insegnare loro
qualcosa, non tramite la testa, ma con il sentimento e i sensi. Era
un’opera d’arte oggettiva.

241
Nessuno dice riferendosi all’arte greca “questo è strano, che
significa?” Perché appaga totalmente. Non suscita curiosità
interiore. Ma quando osserviamo certi affreschi egiziani proviamo
qualcosa di strano e meraviglioso; e l’artista egiziano disponeva
della stessa tecnica di quello greco, e come artigiano non gli era da
meno. La stranezza dell’opera dipende dall’artista che vuole turbare
gli spettatori, e non semplicemente soddisfarli. Pare addirittura che
in un certo periodo l’arte greca abbia prodotto opere d’arte
oggettiva; c’è la leggenda della statua di Zeus a Olimpia, che dava a
tutti la stessa identica impressione. Quando Leonardo da Vinci
studiò le antiche opere d’arte pre-greche, si chiese: “Perché, con
tanta maestria, questi antichi artisti scelsero simili accostamenti?”
Secondo Gurdjieff, fu sul punto di scoprirlo.
Gli stessi princìpi basati su leggi cosmiche vennero applicati alla
musica. Certe danze di Gurdjieff sono esempi di arte oggettiva, e
anche la musica. Chi comprende le leggi delle vibrazioni può
comporre musica con tre livelli distinti di vibrazioni, ognuno dei
quali produce un effetto diverso sui rispettivi centri; una musica
composta consapevolmente per indurre nell’ascoltatore
un’aspirazione, un desiderio di essere. E come essere portati in uno
stato che costringe a ricordarsi di sé, per potersi liberare dalle strette
della miseria estetica.
Introdussero inesattezze conformi alle leggi anche nelle
cerimonie sociali e religiose, che i fondatori (non necessariamente i
“padri”) della Chiesa cristiana degli inizi comprendevano. Gurdjieff
dice che la religione cristiana degli albori fu probabilmente la
migliore forma di religione organizzata mai ideata, e che i fondatori
di quella che in seguito divenne la Chiesa cattolica, quelli che
introdussero il rito e la liturgia, comprendevano i princìpi degli
effetti sui sensi e sulle emozioni dei colori attraverso le vetrate
colorate, della musica, della pressione del volume dell’aria, delle
linee e delle forme architettoniche: comprendevano e utilizzavano
tutto ciò per il bene dei fedeli. Gli effetti erano calcolati in modo
cosciente e matematico. Il tintinnio stridulo del campanello
durante la Messa, per esempio, venne ripreso da una cerimonia
risalente all’antica epoca babilonese, per interrompere un rito che
altrimenti avrebbe rischiato di diventare soporifero e per far sorgere
la domanda: “Perché?” Il rintocco dell’Angelus e farsi il segno della
croce, per i monaci, era un promemoria per “ricordare” sé stessi; il
rintocco della campana da morto, un promemoria per ricordare la
nostra mortalità. Era possibile rintracciare echi di effetti analoghi
nelle processioni religiose e perfino nell’incoronazione di re e
regine.
In architettura abbiamo esempi di arte oggettiva a Chartres, a
Notre-Dame e nel Taj Mahal, opera di una scuola esoterica sufi.
In pittura troviamo esempi di arte oggettiva in alcuni dipinti
persiani del quattordicesimo e quindicesimo secolo. L’accostamento
innaturale dei colori genera una disarmonia gradevole. Quando
l’occhio percepisce un colore si aspetta, naturalmente e per la legge
dello spettro, che il colore a esso complementare si formi sulla
retina. I babilonesi, che conoscevano 1’“aspettativa dell’occhio”,
utilizzavano un colore imprevisto che, seppure fuori luogo,
risultava gradevole; ma ci voleva un aggiustamento consapevole. Se
l’accostamento è inconsapevole o viene fatto solo per l’effetto in sé,
spesso il risultato è soltanto gradevole. Se ne accorgono anche
persone non preparate, che dicono: “Quei colori non legano”.
Le danze, i Movimenti e i ritmi degli Adepti del Legamoni- smo
erano di due tipi: religioso e sociale. Istituirono certi movimenti
innaturali, che agivano sui danzatori in un certo modo: la danza o il
movimento si trasformavano nel danzatore in un’invocazione a un
centro superiore. I movimenti, se eseguiti correttamente,
originavano un determinato stato psicologico. Quelli scomodi
evocavano stati opposti. Le danze inoltre erano una scrittura, una
sorta di libro che poteva ricordare allo spettatore certe cose. Le
danze erano anche destinate a suscitare il desiderio di ricordarsi di
sé, uno stato di rimorso di coscienza. A tale riguardo molte danze di
Gurdjieff sono opere d’arte oggettiva. Gurdjieff non ha inventato
tutti i Movimenti, ne ha visti parecchi e ne ha studiato i princìpi in
Asia Centrale; ha compreso le Leggi del Tre e del Sette e ha scoperto
l’antica arte oggettiva della danza, così ha basato Movimenti e
danze su quest’arte consapevole, e li ha adattati al mondo
occidentale. La sua scuola di danza sarà fonte di ispirazione per le
generazioni future.
Gurdjieff dice: “Potete giudicare un Paese dalle sue danze”.
Ovunque le antiche, belle danze folcloristiche vengono rimpiazzate

243
dal fatuo jazz americano. Le cantilene sceme prendono il posto del
canto popolare. È un esempio dell’influenza deteriore delle cattive
abitudini. La novità, in quanto tale, deve per forza andar bene per i
letterati e i semi-letterati. Nessuna discriminazione.
In America esiste una forma di danza religiosa fra gli indiani
hopi, la Danza del Serpente è un’invocazione. Ma di cosa? Lo hanno
dimenticato. In Africa Centrale e in India il ritmo dei tamburi ha
uno straordinario effetto sui centri istintivo ed emozionale; ma
mentre i ritmi dei neri sono involutivi, quelli indù non lo sono. I
ritmi e l’arte della razza nera non sono i prodromi della cultura di
un popolo primitivo, ma i resti quasi impercettibili di una civiltà un
tempo grande. Tra gli indù e i sufi troviamo ritmi evolutivi; le danze
di Gurdjieff rientrano in questa categoria.
Gli Adepti del Legamonismo sapevano che la danza è un
bisogno istintivo degli uomini e che sarebbe sempre esistita, così
introdussero nelle danze popolari e folcloristiche momenti di arte
oggettiva. Ed ecco che presso le popolazioni “primitive” dell’Europa
Centrale, per esempio, ritroviamo danze folcloristiche che hanno
un forte impatto perfino sugli inglesi e gli americani. Si riescono a
individuare frammenti di conoscenza reale nelle danze della
fertilità, che traggono origine da danze religiose. Con le fiabe è lo
stesso. I saturnali inoltre, nella forma originale, erano una
cerimonia religiosa con danze e rituali. Gli antichi sapevano che in
certi periodi dell’anno si imponeva il sacrificio di animali, in altri
bisognava emettere su vasta scala energia umana istintiva,
emozionale e sessuale. Era la Natura a richiederlo. Le cerimonie
venivano preparate e seguite consapevolmente, sono usanze che si
ritrovano un po’ ovunque. Il capitano Cook scoprì che nelle isole
dei mari del sud, in determinati periodi dell’anno si svolgevano
danze che terminavano con una copulazione collettiva; il motivo
era stato dimenticato. Prima dell’epoca del dominio puritano, ogni
anno in Inghilterra si nominava un Abate del Disordine e a Londra
veniva eletto dai garzoni un Signore del Disordine; si dedicava una
giornata intera alla baldoria e ai balli in strada, con i padroni nelle
vesti di servitori. Le antiche usanze si guastarono e la Natura fu
costretta a cercare altre soluzioni, da cui le ondate di isteria e psicosi
di massa, il crimine, guerre più estese e rivoluzioni.

244
Nella religione cristiana delle origini la danza aveva una parte
importante. Si dice che Gesù guidò i discepoli in una danza rituale.
Gli Adepti del Legamonismo impostarono la scultura sulla
Legge del Sette, sulla matematica. Nelle sculture vennero inserite
inesattezze conformi alle leggi, cosicché lo spettatore fosse portato a
riflettere, a chiedersi il motivo. La Sfinge e il Toro assiro dalle
cinque zampe sono esempi.
La branca del teatro presuppone la conoscenza e il controllo del
corpo. Il mio corpo è un insieme di istinti, sentimenti, pensieri
vaganti. Voglio imparare a usarlo; non voglio che faccia sempre
come vuole lui. Prima di poterlo controllare dobbiamo avere un “Io”.
Il Metodo offre una tecnica per acquisire l’“Io”; dopodiché posso
gestire il corpo e i suoi tre centri per i miei scopi, perfino nelle
relazioni con gli altri; ma anche in questo caso si presuppone la
conoscenza dei tipi umani, che sono ventisette. Le scuole
esoteriche, non quelle “occulte” o di magia, usavano il teatro per
fare esercizio di comportamento nella vita, e per inscenare
rappresentazioni sul palcoscenico della vita, come oggi diamo
rappresentazioni sul palcoscenico del teatro; ne troviamo un'eco nei
misteri e nelle sacre rappresentazioni che si tengono nelle cattedrali
e nelle chiese.
Chi comprende i princìpi e le leggi dell'arte oggettiva
comprende anche la natura umana, la sua psiche, e come i tre centri
non lavorano quasi mai insieme in modo armonico e simultaneo,
ma differiscono in base al loro livello di esperienza. In genere
classifichiamo le persone in tre tipi: fisico, emozionale,
intellettuale. Diciamo “troppo emotivo”, “troppo intellettuale”
quando dovremmo dire “poco” di un centro o dell'altro. La
conoscenza dei tipi può essere espressa matematicamente. L'uomo
cosciente conosce i tipi, e può generare nell'altro la reazione voluta
perché sa come reagirà.
Le culture antiche individuavano i tipi. Nel nostro piccolo,
possiamo elencarne alcuni ben definiti: Falstaff, Amleto, Mi-
cawber, Sam Weller, Don Giovanni, Becky Sharp; oppure
l’avvocato, il funzionario cavilloso, il soldato, il guardiano, il prete e
via dicendo. Ma al di là della facciata esiste, per così dire, il tipo di
essenza; e intuirlo è vera sociologia.

245
Le esperienze sono processi fisiologici che in genere non
riconosciamo subito: le ricordiamo in seguito. I cambi di direzione o
la distribuzione del flusso sanguigno comportano riflessi psichici,
conosciuti ordinariamente come consapevolezza.
Quando un essere vive un’esperienza, l’unica forma di
comunicazione è il modo in cui egli si manifesta. La mia soggettività
non può mai diventare oggettività nello spettatore; lo spettatore
vede e capisce le mie manifestazioni solo nella misura in cui io mi
manifesto.
Nel teatro antico l’allievo imparava a “recitare”
consapevolmente; egli, cioè, non doveva abbandonarsi
all’espressione inconsapevole di sentimenti, pensieri e desideri, ma
doveva trasmettere l’impressione voluta. Nella vita vi può sembrare
una tecnica per non essere sinceri, ed è così se per sincerità
intendete l’incapacità di controllare le manifestazioni.
In una scuola di teatro oggettivo gli attori dovevano imparare a
recitare consapevolmente con uno, due o tre centri. San Paolo parlò
di essere ogni cosa per ogni uomo, ma questa frase si rivolge a chi è
cosciente. Se lo tentiamo, ci ritroveremo identificati con gli altri.
Possiamo iniziare cercando di metterci al posto di un altro.
Ricordate l’aforisma nella Study House: “Giudica gli altri in base a
te stesso e raramente ti sbaglierai”.
Il teatro consapevole ha a che fare con la recita delle parti».

«La vera educazione dei bambini dovrebbe favorire lo sviluppo di


una capacità imitativa che, nella vita animale in genere, appartiene
alla naturale dimensione ludica. Anche tirare a indovinare, la verde
spada di un potere che, se addestrato, sviluppa intuizione e
sicurezza e che, per di più, rappresenta il vero giudizio. Ma i
bambini vengono dissuasi dall’indovinare e dall’usare
l’immaginazione con controllo, perché significa “dire le bugie”. Con
il risultato che imparano a mentire allo stesso modo degli adulti.
Come sta scritto ne I racconti di Belzebù, Gurdjieff dice che
alcune commedie greche degli inizi venivano improvvisate. Anche
Platone ne parla. Quelle rappresentazioni richiedevano un pubblico
critico. Nelle antiche scuole teatrali i poemi epici come il
Mahabharata in India, e più tardi Ylliade e l’Odissea in Grecia, furono
rappresentati sul palcoscenico molto prima di essere trascritti;

246
chi recitava doveva sostenere diversi ruoli. Se erano coinvolte tante
persone, gli allievi più anziani recitavano i ruoli più importanti,
quelli delle divinità, intese non quali figure celestiali ma come
uomini dotati di ragione oggettiva e comprensione, uomini in uno
stato di estasi (“ek-stasis”) al di fuori e al di sopra della meccanicità
della vita ordinaria.
All’inizio la scuola teatrale fu una palestra per addestrarsi alla
vita, la vita universale, una vera università. Non alla maniera
attuale, vale a dire un monastero separato dalla vita, come parte dei
giovani lamenta. La scuola pitagorica fu una di quelle. I pitagorici
furono creatori di “misteri”. Il mistero riguarda lo straordinario, il
non ordinario. Gli spettatori dovevano mantenere l’attenzione
sull’attore in modo da cogliere l’inatteso, da cui trarre qualcosa.
Nelle forme più elevate di teatro consapevole si richiedeva
all’allievo di affrontare una situazione e recitare una parte
consapevole ma con attori inconsapevoli, in modo da essere
compreso.
Il mistero cristiano della nascita, vita e morte di Gesù Cristo
venne inscenato proprio in una scuola esoterica essena che lo stesso
Gesù aveva frequentato. Al momento opportuno il mistero venne
rappresentato storicamente, in modo da agire sul pensiero, sul
sentimento e sulla condotta di generazioni di uomini. Forse il
Mistero cristiano fu opera della scuola degli Adepti del
Legamonismo. Nei testi raccolti e tradotti da G.R.S. Mead,
frammenti di una fede dimenticata, si accenna a come Gesù preparò gli
allievi, i suoi discepoli, a recitare ruoli speciali, a danzare danze
particolari.
Giuda, il più cosciente e devoto fra i discepoli, dovette sostenere
la parte più difficile, certo di venir frainteso e, come il cattivo sul
palcoscenico, di venir fischiato per secoli da una platea
sprovveduta.
La vita del Cristo non è la vita di Gesù. Cristo esiste prima e
dopo Gesù. La missione divina riguardò principalmente il Cristo.
Gesù portò a termine il suo scopo e la sua missione e, come dice san
Paolo, si perfezionò con la sofferenza non ordinaria e meccanica ma
volontaria, e con il lavoro cosciente.
Gurdjieff recita parti che pochi vorrebbero o potrebbero
sostenere. Anch’io spesso resto confuso. Perfino Stjoernval,

247
Hartmann, Salzmann, e specialmente Ouspensky talvolta sono
rimasti ingannati, per non parlare degli allievi più giovani.
Cosa sopravvive della scuola pitagorica teatrale? Pochi echi
nelle antiche rappresentazioni misteriche. Il teatro moderno ha due
finalità: il divertimento e la propaganda. D mistero non è più
rappresentabile, perché non esistono più attori consapevoli. I nostri
attori imitano, non con l’interioritá ma esteriormente; si limitano a
generare un’illusione nello spettatore, che non viene mai messo alla
prova, ma è soltanto stimolato a rievocare esperienze
precedentemente registrate. Oggi il teatro non è una nuova
esperienza ma una ri-esperienza: è titillamento. Non apporta nuovo
materiale, bensì uno stimolo che rimette in moto quello vecchio.
Non è creativo ma evocativo, anziché rappresentativo-generativo;
con il risultato di intensificare la meccanicità dell’attore e dello
spettatore».

«Fra I racconti di Belzebù e la Bibbia c’è un parallelismo, in quanto


entrambi iniziano con una cosmologia e una cosmogonia, ima
narrazione del come e perché fu creato il mondo, e della caduta
dell’uomo.
La Bibbia prosegue con una serie di racconti in parte storici
intessuti da miti, dai quali alla fine emergono i profeti maggiori e
minori. Si presume che il lettore della Bibbia diventi consapevole
del proprio stato e dei doveri verso Dio. Una volta destata la
coscienza oggettiva appare il Nuovo Testamento, il Metodo,
insegnato da individui. Poi compare la ragione oggettiva, che inizia
a crescere grazie al Metodo. Culmina nell’elevazione della natura
personale degli allievi che seguono con dedizione la disciplina del
Metodo. La Bibbia, dunque, può considerarsi un dramma, un’opera
d’arte oggettiva di massimo livello.
L’Antico Testamento è l’uomo meccanico che si sta svegliando;
il Nuovo Testamento è l’uomo cosciente. L’Antico Testamento
rappresenta le condizioni effettive, il Nuovo Testamento le
potenzialità.
La Bibbia è simbolica e storica. Non sappiamo se qualcuno
(perlomeno fra le nostre conoscenze) possiede la chiave di tutti i
misteri nella Bibbia, Gurdjieff forse. I racconti di Belzebù sono una
sorta di Bibbia; magari le anomalie che ci sembrano incongruenze e

248
assurdità compongono un testo all’interno di un testo che, una volta
individuato, contiene l’alfabeto della dottrina.
Secondo Gurdjieff la chiave del Legamonismo e la chiave delle
inesattezze sono entrambe nelle nostre mani, e la seconda va
trovata con l’intuito. La chiave del Legamonismo è il Metodo. Il
modo in cui comprendiamo il libro può essere un indice della nostra
comprensione e messa in opera del Metodo. Il libro è l’unico
esempio di opera d’arte codificata a noi accessibile in questa epoca;
non c’è bisogno di partire per mete lontane alla ricerca di altri
esempi. Gurdjieff sostiene che una sua lettura corretta rende
superflua la decodificazione di tutte le opere d’arte prodotte
all’epoca di Aksharpanziar. Forse il suo libro è una specie di Bibbia
del futuro.
Ognuno di noi è un cosmo con zone sconosciute, distanti nello
spazio; per visitare quei luoghi e ritrovare cose dimenticate ci
vogliono dei vascelli. La cosmologia è psicologia concreta. Il sistema
di Gurdjieff è completo, include letteratura, teatro, danze e musica,
e un metodo con esercizi che possono essere impartiti solo nei
gruppi da insegnanti che hanno studiato e lavorato per anni.
Il tema del libro è che dobbiamo accettare di soffrire e lavorare
in quanto esseri umani; non possiamo sfuggirlo, è un obbligo, e
sebbene qualcuno ogni tanto sembra eludere la sofferenza
assegnata, in realtà “il tempo macina ogni granello”; il tributo
complessivo non cambia e più di due miliardi di persone lo pagano.
I veri maestri vogliono mostrare come questo tributo di sofferenza,
oltre a essere pagato, può essere volto a uso personale. Non è
concepibile abolirlo. Tutto nell’Universo soffre, anche se non nel
modo in cui intendiamo ordinariamente la sofferenza. Un’idea
presente nel libro è che dovremmo essere d’aiuto a “Nostra Eternità
Unico Portatore di Fardelli” impegnandoci a comprendere il
Metodo: lavorando in modo corretto, cooperiamo ad alleviare il
dolore del nostro “Creatore e Autore”.
L’uomo esiste per un motivo che non è suo. Vale per tutti gli
esseri, animali, uccelli, insetti e batteri. Ogni specie è preposta a una
certa funzione cosmica. L’uomo dovrebbe adempiere al disegno per
cui venne creato come una macchina progettata per svolgere una
certa quantità di lavoro. Ma per una situazione inprevista dagli

249
Individui Superiori, questo pianeta (uomini compresi) si è
trasformato in una macchina anomala e non svolge più la sua
funzione; è diventato addirittura una minaccia per l’Universo. La
vita, dunque, oggi esiste solo in virtù della Grazia, e la Natura deve
“sudare sette camicie” e adattarsi continuamente per far funzionare
la macchina.
Con il nostro modo di vivere, noi uomini non possiamo più
sperimentare la vera felicità, la felicità che accompagna la
realizzazione di un progetto.
Renan, nei suoi Dialoghi filosofici, dice che la Natura è ostile
allo sviluppo dell’uomo e lo vuole imperfetto. Gurdjieff conferma,
ma sostiene che non è una condizione irrimediabile e che adesso la
Natura ha bisogno di esseri relativamente liberi. Le poche
possibilità di salvezza dell’uomo sono rafforzate da due elementi: il
primo, il desiderio del Creatore che la macchina funzioni
normalmente, da cui i messaggeri inviati di epoca in epoca a
indicare la via; il secondo, resistenza costante in ogni uomo,
hasnamuss esclusi, della coscienza oggettiva: un’inquietudine
interiore per la consapevolezza di non essere come dovremmo.
Nell'hasnamuss il germe della coscienza oggettiva è assopito,
forse morto; l’hasnamuss non è capace di provare la vergogna
organica.
Tutti i messaggeri dall’Alto concordano sul terrore della
situazione, sull’essere dell’uomo deviato dal suo vero scopo, rivolto
a falsi idoli, preso dall’aspetto fisico e materiale della vita, o dalle
idee correnti, da valori sociali anziché personali, intento a
rimpiazzare il buon senso con mete vaghe, a complicare la vita
esteriore a danno di quella interiore».

«I racconti di Belzebù sono come una cipolla con un numero quasi


infinito di strati. Ne togli alcuni, e ti accorgi che sotto ce ne sono
altri ancora: significati su significati».

«Ogni cervello dispone di una sua grammatica di associazioni. Ci


sono due categorie: le associazioni di parole (il ragionamento
verbale) e l’associazione per forme (il pensare per forme, il
ragionamento per idee). La prima categoria non ha nulla a che
vedere con ciò che di solito consideriamo “formalità”, o una mente

250
ordinaria “formale”. Nove decimi di quello che per noi è il pensiero
sono associazioni meccaniche di parole. Se dite “tormento” a uno
scrittore di poco conto, vi risponderà prontamente, come un
pappagallo, “sudore”, “angoscia”, “buia notte dell’anima” senza
alcuna comprensione di cosa significhi uno stato di tormento.
L’associazione per forma, o “pensiero per forma”, è subordinata
all’esperienza personale; è sempre un’associazione ma diversa dalle
mere parole. È la forma di pensiero dei contadini e degli animali, o
di quelle che definiamo “persone umane”. È in stretto rapporto con
l’esperienza, ima grammatica per persone che hanno esperienza.
L’associazione verbale si sviluppa con le parole, quella formale
frequentando uomini dotati di comprensione e persone “semplici”.
Chi ha trascorso del tempo in compagnia di arabi e zingari, per
esempio, è tornato con una comprensione arricchita. Come mai
tutti i bambini non ancora compromessi preferiscono la compagnia
di artigiani e fattori?»

«Una giusta funzione dell’apparato formatore è quella di formulare.


Formulate i vostri sentimenti e anche i vostri pensieri; questo sforzo
darà per risultato una cristallizzazione nitida, le cose si chiariranno
a voi stessi e quindi agli altri. Nella vita comunichiamo con gli altri
quasi esclusivamente con associazioni verbali, senza contenuto
interiore. Chi incontra Gurdjieff resta colpito dal modo in cui egli
comunica per forme; verità ovvie prendono vita, si impregnano di
significato.
Tutti gli esseri possono essere classificati in base alla ragione.
Ognuno occupa il gradino di una scala, evolutiva o involutiva: la
scala di Giacobbe. La ragione di un essere è la somma coordinata
delle sue funzioni e si esprime nelle sue manifestazioni. L’uomo è
superiore agli animali solo per la complessità degli elementi che
costituiscono la sua ragione. Ma gran parte delle funzioni umane è
anomala, dunque la ragione è anormale. L’uomo è per definizione
superiore agli animali, ma di fatto ha una ragione anormale.
L’uomo normale è un essere che sente, chiamato a confrontarsi,
creare e superare difficoltà, l’opposto dell’uomo ordinario che crede
di esistere per la felicità e la tranquillità personali. Ciò che conta è il
“superamento”, lo “sforzo”. Un uomo può inven tare difficoltà in un

251
campo di sua scelta, e deve avere uno scopo che richieda uno sforzo
per essere raggiunto. Ma, secondo l’aforisma, dobbiamo usare il
lavoro come un mezzo, non come un fine in sé.
Nella vita ordinaria proviamo rispetto per chi ha problemi e
lotta per risolverli; se ci riesce lo ammiriamo, se non ce la fa ci
dispiace; e condanniamo chi evita le responsabilità della vita».

«Gurdjieff ci tramanda il consiglio di sua nonna: “Tu, primogenito


dei miei nipoti, ascolta, e ricordati sempre delle mie ultime volontà:
nella vita non fare mai niente come gli altri... O non fai proprio
nulla - e vai soltanto a scuola - o fai qualcosa che nessuno fa”.
Non significa rincorrere a tutti i costi l’eccentricità o la
ricercatezza, o opporci deliberatamente alle convenzioni. Gurdjieff
dice infatti: “A Roma fai come i romani”, e ci ricorda anche che
dovremmo considerare esteriormente più di quanto facciamo
adesso: essere più premurosi delle altre persone».

Orage disse che, lavorando per «New Age», quando si accorgeva che
il flusso del pensiero scorreva meccanicamente in una certa
direzione, ne avviava un altro in direzione opposta.
Continuò: «Un modo per migliorare la comprensione è
ponderare; è uno sforzo per pensare ad argomenti astratti, come la
metafisica o la cosmologia, cercando di coglierne il significato. Nel
libro ci sono parecchie idee che non riusciremo mai a capire,
perlomeno in questa vita; ma se facciamo lo sforzo di riflettere, ce
ne sono molte altre che possiamo comprendere. In genere, diamo
per scontato di comprendere una verità espressa in modo chiaro. È
un’illusione; la comprensione non si sviluppa solo riflettendo, ma
trattando le situazioni in modo pratico, come un buon giardiniere
che si occupa del proprio giardino. La comprensione si sviluppa
“soffrendo percezioni di verità”, nostre e del cosmo.
Quando parliamo di psicologia, parliamo dei desideri che
animano un essere dotato di psiche. L’uomo normale è il filo della
lama dell’Universo. Quando ci allontaniamo dalla norma, siamo
anormali; il che spiega la consistente critica, nel libro, a quegli
artisti, scrittori, attori, scienziati, politici e uomini d’affari che,

252
anziché perseguire obiettivi normali, inseguono una qualche forma
transitoria come la bellezza, la conquista materiale del pianeta, la
sete di potere o 1’accumulo di ricchezze. Per esempio, l’artista e lo
scrittore soggettivi influenzano altri uomini, dunque per Belzebù
sono influenze malvagie che tendono a spostare l’interesse e
l’energia umani da una finalità normale a una avversa al grande
schema.
Nell’essenza dell’uomo normale esistono una fame e una sete
bibliche di rettitudine: una sete di ragione oggettiva».

«Un’opinione corrente afferma che non esiste un fine cosmico, un


obiettivo consapevole, che il protoplasma si formò in modo casuale
e che tutto semplicemente accadde; un’altra dice che l’uomo è stato
creato per lo Stato, il cui scopo è quello di provvedere, nel tempo, a
imo standard di vita sempre migliore. Un’altra idea immagina un
Dio onnipotente e amorevole; ha creato il mondo per pura bontà e
regge l’Universo pensando solo alla felicità dei suoi figli; noi non
abbiamo alcun obbligo se non l’imo verso l’altro, all’uomo è stato
dato potere sulla Terra e sugli animali, ed è autorizzato a sfruttarlo.
È il tipico atteggiamento del bambino rovinato, egoista, straviziato
nei confronti dei suoi genitori, non abbastanza cresciuto per capire
che non c’è nulla che non sia già stato pagato, dalla Natura o da
qualcun altro. E un atteggiamento molto diffuso ed è la dottrina
della Chiesa cristiana istituzionalizzata.
Per esercizio, provate a descrivere con parole vostre il concetto
di vita come la intendete voi o un vostro amico. Che idea avete del
mondo? E pura casualità o esiste un disegno? Esiste un fine
consapevole, uno scopo, un obiettivo?
Nei primi capitoli del libro si accenna all’idea che il mondo è
conoscibile, che l’Universo è opera di una creazione cosciente,
sostenuta coscientemente per una finalità consapevole: un enorme
macchinario. Dio non lo ha creato per nostro diletto ma in funzione
di uno scopo consapevole; e l’onere del motivo cade su Dio. Forse è
una visione antropomorfica ma anche teromorfica, che vede Dio in
forma umana ma che descrive anche l’uomo a immagine di Dio.

253
Gli animali non possono fabbricare né capire le macchine.
L’uomo ha la ragione e ha la possibilità di capire una macchina ben
più grande di quanto lui stesso potrebbe costruire. È questo il suo
scopo ma, per la catastrofe occorsa all’inizio della sua esistenza sulla
Terra, la sua ragione è stata stravolta, e da allora l’uomo è vissuto in
uno stato di ipnosi, come sotto effetto di una droga. Finché
permangono gli effetti della droga, non siamo in grado di rinvenire
e ragionare in modo normale. Al tempo stesso, una flebile
inquietudine nella coscienza ci ricorda che le nostre azioni non
sono ragionevoli: lo avvertiamo vagamente, come il fi- ghol prodigo
nel lontano paese del corpo, ma non riusciamo a ricordare il paese
di nostro padre. Il problema è come svegliarsi. Non esistono
scorciatoie, nessuna bacchetta magica. L’unica strada sicura che
conduce a uno stato di risveglio permanente passa per la sofferenza
volontaria e il lavoro cosciente; e possiamo iniziare con il tentativo
quotidiano di riflettere sul senso della vita, di sentirlo, e con il
cercare di affrontare le situazioni non solo evitando di lagnarci, ma
con coraggio. Allora proveremo il gusto di un’attività normale,
secondo la morale oggettiva».

«Chiedetevi cosa volete davvero. Ma prima di poterlo fare, dovete


imparare a distinguere tra voglie effimere e desideri da un lato, e un
desiderio dell’essenza dall’altro. Il professore Denis Saurat dice che i
desideri e le idee sono entità. Avere un desiderio significa ospitare
un essere; se si tratta di un desiderio effimero o di una voglia
insoddisfatta, morirà presto. Se il desiderio è reale, elevato, esisterà
finché avrà energia. Se avete ima natura ricca, i vostri desideri
dureranno per tutta la vita. Secondo Saurat la nostra immortalità
dipende dai desideri che sopravvivranno al corpo. Dal nostro punto
di vista, un desiderio di comprendere ed essere può sopravvivere al
corpo planetario.
Gurdjieff dice che “un desiderio reale è qualcosa di molto
elevato; ma per fare, per volere, devo essere. Se io sono io posso; se io
posso, posso volere; se io sono e posso, solo allora ho il diritto
oggettivo di volere”».

«Il libro sostiene la teoria che l’Universo è in espansione, in crescita;


il contrario dell’attuale ipotesi convenzionale della fisica,
per cui l’Universo è un apparato che sta esaurendo la sua energia.
Ogni parte tende a logorarsi, ma viene sostituita. Questo enorme
apparato richiede un’attenzione costante, e dunque Sua Infinità ha
degli aiutanti. Quando l’uomo fece la sua comparsa, Egli decise di
impiegarlo come aiutante. Ma dopo la catastrofe l’uomo si è
trasformato in una specie di zombi che svolge i suoi compiti in uno
stato onirico, simile a uno schiavo drogato.
Eppure abbiamo ancora la normalità a portata di mano, è come
se ne fossimo separati da una parete sottile».

«Dio è un essere tricentrico: il corpo mentale è il Sole Assoluto, tutti


i soli rappresentano il corpo emozionale, i pianeti quello planetario.
Siamo fatti a immagine di Dio, con tre centri, ma due sono
sottosviluppati; nostro compito è sostenerne lo sviluppo. La vita
normale del corpo kesdjan è passione di comprendere; quella del
corpo mentale è il potere di comprendere. Se seguiamo il Metodo
colmiamo un bisogno e sviluppiamo i corpi. Perseguire uno scopo
meno elevato, una scorciatoia per lo sviluppo e la comprensione
usando la magia, lo yoga o sistemi vari importati dall’Asia e
dall’Indonesia, darà per risultato ima crescita deforme delle
emozioni e della mente. Ogni tentativo che punti a una rapida
appropriazione dello sviluppo e della comprensione rientra
nell’ambito della magia nera. È una caratteristica del Lentrohamsanin
presente nell’uomo: non appena inizia a diffondersi un vero
insegnamento, qualcuno o qualche gruppo, temendo di dover
compiere sforzi eccessivi, comincia a escogitare una scorciatoia e
così altera l’insegnamento. E sempre stato così.
Come renderci conto del vero dovere esserico? E un dovere che,
in quanto esseri, incarniamo. Cominciate a chiedervi cosa c’è di
sbagliato nella razza umana, poi provate a formulare quelle che per
voi sono le caratteristiche proprie di un essere umano normale.
Siete di cultura occidentale, dunque usate carta e penna. L’uomo si
interroga con la ragione, e desidera con i sentimenti.
Siamo sempre attenti a evitare le difficoltà, alla ricerca di
situazioni che non richiedano uno sforzo eccessivo. L’uomo si trova
in una barca, rema in un verso e guarda nella direzione opposta».
«Uno degli effetti delle conseguenze dell’organo kundabuffer è che
oggi la lettura, il cinema, la radio, la televisione sono diventati

255
oppio. I comunisti hanno detto che la religione era l’oppio dei
popoli, così hanno rimpiazzato le processioni religiose - e
l’espressività, la ricchezza e l’antica musica che le accompagnavano
- con le processioni militari e le bande di ottoni.
Kundabuffer è un organo virtuale, ma le conseguenze
permangono tuttora, così le persone giudicano in base alle opinioni
altrui e non secondo la propria esperienza interiore.
Sin da bambini ci è stato detto che la ricchezza è una condizione
migliore della povertà; che le persone sono superiori o inferiori in
base alla condizione sociale, agli averi o al fascino, educazione,
talento (come il talento della scrittura, che è paragonabile a una
verruca o a un neo). Ci hanno insegnato a credere che un’innata
grandiosità è sinonimo di felicità individuale, che i divertimenti
divertono, che una compagnia di rango elevato è brillante, che
bisogna essere elogiati da altre persone e che la loro
disapprovazione ci rende deboli, che libri, quadri e musica sono
fonti di stimolo, che è meglio disporre di tempo libero senza
lavorare, che è possibile non fare nulla, che fama, potere, notorietà
e successo sono valori reali.
Accettiamo tutto senza riflettere, senza pensarci. Non vogliamo
riflettere perché potremmo disturbare la nostra tranquillità, che è
pace di una mente priva del desiderio di comprendere il significato
dell’esistenza; e non vogliamo riflettere per egoismo, che si
sostituisce alla morale oggettiva con il “mi piace” o “non mi piace”:
il modo di esprimersi dei bambini. Siamo vittime della suggestione,
che è il meccanismo della nostra psicologia. Dipendiamo dalla
ricompensa o dalla punizione, che occupano una parte essenziale
nell’educazione del bambino, ma non cresciamo mai. E raro che le
esperienze ci facciano comprendere qualcosa, cerchiamo sempre la
comprensione all’esterno. Paradossalmente possiamo comprendere
solo attraverso le esperienze. La comprensione sta dentro di noi. “Se
conoscete voi stessi, vi renderete conto di essere Figli del Padre”».

«I pianeti sono esseri immensi in relazione reciproca, come le


persone. Reagiscono, hanno tensioni. Variano in dimensione e
forma, ma il moto di rivoluzione nello spazio li fa sembrare delle
sfere. Comunicano attraverso emanazioni, una forza pura che non

256
opera tramite e per mezzo della materia; e con radiazioni, che
agiscono tramite e per mezzo della materia. La nostra Terra è un
pianeta che comunica con gli altri attraverso il suo sistema
organico, che è come una pelle, più sottile dello strato di vernice
che ricopre il grande globo di pietra a Swanage. Le tensioni fra i
pianeti si verificano in momenti particolari, e vengono avvertite
sulla Terra; allora si manifesta ciò che Gurdjieff chiama
Soliunensius.
In epoche remote i sacerdoti, uomini dotati di comprensione,
sapevano come preparare cerimonie religiose su vasta scala in modo
da utilizzare le forze tensive. Ma l’organo kundabuffer glielo fece
dimenticare, così fu inventata la guerra. Noi individui siamo
soggetti a queste tensioni, siamo influenzati dalla Luna, siamo
irritabili, ci sfoghiamo e ci ritroviamo a dire e fare qualcosa di cui
dopo ci pentiamo. Quante volte una persona influenzata da uno dei
suoi “io” segue una certa direzione, totalmente identificata e
dimentica di tutto il resto! Poi, quasi con un sussulto si riprende, si
sveglia, e vedendo quanto ha fatto prova orrore. Abbiamo esempi
quotidiani, che vanno dal comico e semplicemente irritante al
tragico. Le Metamorfosi di Ovidio ne offrono parecchi. Si tratta degli
effetti dell’influenza dei pianeti - della Luna in particolare - che,
quando non siamo nello stato di ricordo di sé, vale a dire quando
non siamo coscienti, agiscono su di noi tramite le conseguenze
dell’organo kundabuffer. Con la conclusione che il male manifesta
sé stesso. Tuttavia “la colpa, caro Bruto, non è delle stelle ma nostra,
se siamo schiavi”, schiavi in balia di ogni tensione planetaria, lo
zimbello di ogni vento soffiato dall’emozione.
Noi, gruppo, abbiamo il Metodo: cominciamo a vedere cosa
dovremmo fare. Dovremmo iniziare a utilizzare l’energia sollecitata
dalle tensioni con gli altri; dovremmo poterne usare un po’ anziché
lasciarla andare tutta alla Luna. Nel disegno cosmico nulla è
sprecato: l’energia dissipata in emozioni negative viene utilizzata
dalla Luna. E le emozioni negative non sono solo quelle più violente
e opprimenti, come il risentimento, la rabbia e l’abbattimento. Le
varie sfumature di sentimentalismo sono altrettanto negative: le
manifestazioni emotive in un raduno religioso revivalista, in un
incontro per la raccolta di fondi a sostegno di cani e gatti randagi,
oppure il sentimento di pietà - che è vera autocommiserazione -,

257
richiamato dalla notizia sul giornale di una qualche disgrazia a un
perfetto sconosciuto. Tutto questo è emozione negativa.
La frizione, che è un effetto della tensione, può essere utilissima
solo se riusciamo a ricordare noi stessi nell’istante. Al Prieuré,
Gurdjieff provoca spesso frizioni fra gli allievi che sembrano
attraversare un periodo di sonno. C’era un allievo, per esempio, ex
ufficiale dell’esercito, che impartiva gli ordini in modo piuttosto
perentorio ed era responsabile del lavoro fisico. Comprendeva bene
l’insegnamento di Gurdjieff. Un altro allievo, un giovane non molto
brillante che capiva poco, si risentì perché l’allievo più anziano gli
aveva detto cosa fare. Ci fu un conflitto fra vibrazioni ed egli si
rifiutò di obbedire. L’anziano lo riferì a Gurdjieff, che disse: “La
prossima volta che si rifiuta, lo insulti”. Gurdjieff previde il
risultato. Vennero sprigionate una frizione e un’emozione negativa
tali che noi tutti venimmo stimolati a ricordare noi stessi per
parecchi giorni. 11 giovane avrebbe dovuto apprendere qualcosa
dallo shock. Forse imparò, noi perlomeno imparammo. Gurdjieff
disse che quando litighiamo con qualcuno, dovremmo usare
immediatamente l’energia sprigionata per un lavoro utile.
Pare che Wagner fosse incappato casualmente in quest’idea.
Quando attraversava un periodo difficile, inscenava una baruffa e
usava l’energia risultante per continuare il lavoro di scrittura e
composizione. Nella vita ordinaria fa bene poter usare - seppure in
modo meccanico - questa emissione di energia, riprendendo
un’attività interrotta, perfino riassettando una stanza. Altrimenti si
trasforma in odio e risentimento, oppure in broncio e rimugino».

«Per sostenere il collegamento fra la Terra, la Luna e Anulios e una


relazione reciproca armoniosa ci vogliono vibrazioni particolari.
Con i nostri tre centri è lo stesso. La ragione di un essere è la somma
di tutte le sue funzioni. Se alcune mancano o sono anormali, la
ragione è anormale e l’essere non può produrre la qualità necessaria
delle vibrazioni, ovvero Askokin. Esistono due tipi di sforzo: lo
sforzo cosciente e volontario e lo sforzo involontario, meccanico. Lo
sforzo involontario viene deciso dalle circostanze e dalle condizioni
esteriori. È lo sforzo degli schiavi, dei soldati, dei servi, utile alla
Luna. A periodi, la tensione in certe zone del pianeta è tale che

258
l’energia accumulata deflagra e le persone ammattiscono, e iniziano
a distruggersi a vicenda, talvolta a milioni. Lo sforzo cosciente, il
lavoro cosciente, generano ciò che aiuta noi, Dio e il suo disegno».

«“Ama tutto ciò che respira”, dice Gurdjieff; la frase si riferisce


all’amore cosciente. Conosciamo bene l’amor proprio e l’egoismo;
per noi la “sincerità” è la facoltà di essere ingiusti con gli altri, con
chi amiamo e chi odiamo. Per restare nel piacevole stato di sonno su
ciò che siamo e non disturbare quella parte falsa che abbiamo
dentro, l’amor proprio va benissimo. Ciò che Gurdjieff chiama il
Signor Amor Proprio e la Signora Vanità riflettono la presunzione
ignorante di attribuire le nostre qualità organiche e il nostro rango
sociale a meriti personali; noi “sappiamo” già tutto e non abbiamo
bisogno di “istruzione”. Ma talenti e difetti dipendono dalla biologia
e dalla sociologia. Se mi inorgoglisco per i talenti personali sono uno
stupido arrogante, e lo sono anche se mi giustifico di non averne. Lo
capiamo bene se abbiamo provato la “vergogna organica”. Ci
arriveremo con la lettura e la riflessione costanti de I racconti di
Belzebù. Ma quando vi accorgete di una qualche vostra debolezza e
incapacità, non abbattetevi, siamo tutti nella stessa barca, anche se
forse in posti diversi. Ogni momento di sforzo reale che dedicate al
lavoro su voi stessi porta un risultato permanente, sebbene il
processo possa richiedere anni e perfino vite».

«Nel capitolo Arci-assurdo, parlando degli esseri di questo pianeta


Belzebù scuote il capo. “Il nostro Sole non illumina né riscalda”.
Quando ci confrontiamo con concetti elevati, come in questo libro,
e ci sforziamo di capire, appare una vera e propria luce. “In
principio era il Verbo, e il Verbo era Dio. In Lui era la vita, e la vita
era la luce degli uomini”. Se riflettiamo sui concetti presenti nel
libro, appare la comprensione: la luce. E con la luce arriva la vita,
qualcosa di vivificante.
Okidanokh è la sostanza di vita. Quando gli scienziati
comprenderanno la terza forza nell’elettricità, potranno riprodurre
la vita organica. Per come stanno andando le cose, forse è da
augurarsi che non la scoprano mai, perché oltre a fabbricare
esplosivi abbastanza potenti da far saltare in aria una città con

259
un’unica esplosione, potrebbero inventare mostruosità in grado di
sterminare la razza umana. E tutto “nell’interesse della scienza”,
dunque “legittimo” agli occhi di chi dispone di un’istruzione
limitata».

«L’Universo nel suo insieme esiste per il bene del Sole Assoluto. Il
Sole Assoluto è il corpo animico di Dio. Il nostro corpo esiste per il
bene dell’“Io”; “Io” è il Dio del nostro organismo.
Il prana è la sostanza dell’essenza (Shaw ci andò vicino con la
sua “forza vitale”). La vita del corpo planetario è il sangue, e la vita
del corpo kesdjan è il prana. Se un essere cristallizza in sé il prana,
consapevolmente o per caso, allora deve lavorare su sé stesso per
perfezionare questo germe dell’anima, altrimenti continuerà a
riapparire sotto varie forme esteriori, soffrendo e struggendosi fino
a perfezionarsi. “Beato colui che ha un’anima, beato chi non l’ha,
ma sventura e dolore per chi ne ha solo l’embrione”. Forse è per
questo motivo che alcuni di noi sono qui, nei gruppi, a lavorare su
sé stessi per il proprio perfezionamento. E qui che si manifestano
l’amore e la compassione di Sua Infinità, il suo desiderio di aiutare
chi si trova in una condizione difficile. Con la morte, l’essenza degli
esseri viene rimessa in un crogiolo (Peer Gynt e il fonditore di
Bottoni) da dove emergono nuovi esseri ma con essenza diversa.
Ritornano come le foglie di un albero, allo stesso modo e con la
stessa aspirazione a crescere, forse con differenze di poco conto, per
realizzare un fine cosmico.
Ogni maestro ha indicato un modo per fare germogliare i semi
delle anime e liberarli dalla sofferenza. Come dice Attar: “Ogni
maestro lo mostra a suo modo, poi scompare”. Buddha, per esempio,
indicò l’ottuplice sentiero del giusto pensare.
Cos’è Akhaldan? “Khaldan” significa “luna”, “ A ” indica
negazione e anche opposizione. Chi lotta contro la corrente
discendente della vita ordinaria che soddisfa i bisogni della Lima è
un cercatore, una persona che riflette.
Perché, in certi periodi, alcune zone del pianeta diventano
teatro di guerre violente, l’Europa per esempio? Perché altre
diventano enormi centri di aggregazione, come Londra, New York,

260
Parigi? Perché la Natura richiede da quella aree certe vibrazioni
prodotte solo dalla morte degli esseri e dalla tensione generata dalle
masse a stretto contatto».

Nei gruppi emergevano continuamente domande sulla


reincarnazione. Tutto ciò che si può affermare a chiare lettere è
stato detto da Gurdjieff, come riportato da Ouspensky in
Frammenti di un insegnamento sconosciuto. Ne I racconti di
Belzebù c’è molto di più da scoprire; e spetterà a chi cerca trovare
quasi tutto quello che possiamo capire della ricorrenza e della
reincarnazione. Ma ognuno deve scoprirlo da sé altrimenti, come
dice Gurdjieff, si finirà per fraintendere e stravolgere, per dormire
più profondamente.
Orage fece un’analogia della ricorrenza servendosi del
bastoncino di Brighton Rock, un dolciume che mangiavamo da
bambini. Le parole "Brighton Rock” erano scritte in rosso lungo il
bastoncino, cosicché le ritrovavamo in qualunque modo lo
spezzassimo. Il nostro passato e il nostro futuro esistono in questa
specie di tubo. Ma abbiamo la possibilità di cambiare tubo, o di
passare in un altro. Orage disse: «Alla pulsazione statica del tubo si
aggiunge un movimento dinamico. Il tubo stesso si muove. Ogni
sezione trasversale è compiuta e mostra il tubo nel tempo. È incluso
tutto ciò che è stato e sarà negli aspetti statico-dinamici.
L’insegnamento teosofico, che si basa su un’interpretazione
personale di alcuni passi del Mahabharata, dà per scontato che tutti
si reincarnino. Gurdjieff spiega che è un’eventualità per pochissimi
esseri, altamente evoluti. Sono loro a scegliere. Per la massa,
l’essenza riappare sotto altre forme. Poi ci sono quelli in cui si è
cristallizzato qualcosa, in cui esiste una spinta al perfezionamento,
che cominciano a cercare un maestro e forse lo trovano. Non
abbiamo alcuna esperienza personale di cosa accade dopo la morte.
Viene spiegato con qualche dettaglio ne I racconti di Belzebù, ma
dovete cercarlo. Alcuni uomini tornano a vivere e cercano il
Metodo, e quando lo trovano lo riconoscono: "ricordano”. Facciamo
ancora un’analogia con l’albero. Tra il seme e la foglia c’è una
differenza. Compito dell’albero è produrre il seme. In autunno la
foglia rende la sua vita all’albero, con il seme invece se ne va una

261
parte di vita dell’albero. Con la morte rendiamo la nostra vita alla
Natura, ma abbiamo la possibilità di conservare parte di questa vita
per noi stessi; con il lavoro, con uno sforzo corretto, questa vita si
trasforma in un essere imperituro. Nella mitologia norrena l’albero
della vita, Yggdrasil (che trova la sua origine nella mitologia indù),
di epoca in epoca produce semi: divinità ed eroi che si sacrificano
per il bene del mondo. Hanno cristallizzato e perfezionato dentro di
sé il prana e si incarnano.
Possiamo dire che la prima dimensione è la ricorrenza tale e
quale, la seconda dimensione è la ricorrenza a spirale, la terza è una
sezione trasversale di tutti gli aspetti.
Quando Gurdjieff ha parlato del venire in essere, ha evitato i
termini “incarnazione” e “materializzazione” per via delle
implicazioni spiritualistiche; la psiche non prende un corpo. E lo
stesso con l’espressione “prendere carne”. Da questo punto di vista
gli alberi, le pietre e ogni oggetto sensibile sono “incarnati”,
vengono in essere. Come possiamo esprimere l’idea di psiche che
rivela la sua potenzialità di manifestazione? Gurdjieff ha proposto
alcuni termini presi dall’elettrologia: immergere qualcosa di
impercettibile in un bagno elettrolitico perché diventi visibile. Così
noi diciamo “rivestimento” volendo intendere la sovrapposizione di
un qualcosa su un oggetto reale ma impercettibile, che allora lo
manifesta».

«Per riassumere, iniziamo a chiederci: “Qual è il significato e lo


scopo dell’esistenza?” Ashiata Shiemash lo definisce nelle cinque
tendenze della morale oggettiva. Come Belzebù racconta: “Tutti gli
esseri di quel pianeta, essendosi messi a lavorare per acquisire nel
loro conscio la divina funzione di Vera coscienza’, trasmutarono in
sé stessi quelle che si chiamano 'tendenze esseriche obligolniane’”.
E noi, cosa dobbiamo fare per acquisire nel nostro conscio la
funzione divina della vera coscienza? Dobbiamo trasmutare le
cinque tendenze esseriche obligolniane.
“La prima tendenza è avere, nel corso della propria esistenza esserica
ordinaria, tutto ciò che è realmente indispensabile e soddisfacente per il
nostro corpo planetario”. In questo caso “soddisfacente” non ha nulla a che
vedere con la soddisfazione.

262
Abbiamo l’obbligo di impegnarci a mantenere il corpo in buona
salute, di accontentare le sue necessità fin dove possiamo, affinché
sia un buon strumento al nostro servizio. Mantenere, cioè, in stato
di tonicità il corpo che abbiamo ricevuto. Ho un corpo. Non basta
che sia in salute, deve avere una sorta di elasticità affinché sia
pronto a servire l’intelligenza. Benché la competenza in un campo
specifico sia necessaria, una particolare specializzazione a discapito
dell’elasticità è contraria alla morale oggettiva. Gurdjieff ha detto
che oltre al campo specifico in cui era maestro, si era cimentato in
quaranta mestieri diversi. Non era specialista in nessuno, ma aveva
due obiettivi: il primo, dare sensazioni al centro istintivo-motore;
l’altro, essere pronto ai possibili bisogni per il raggiungimento del
suo scopo. La maggior parte delle persone è critica nei confronti
dello specialista estremo, come se lo sviluppo ideale dovesse
orientarsi all’interezza.
“La seconda tendenza è avere costantemente in sé un bisogno istintivo
inestinguibile di perfezionamento nel senso dell’Essere”.
Non è possibile darne una definizione sulla base di quanto
sappiamo o facciamo normalmente, si tratta di uno stato che si
fonda sul vero SAPERE per poter FARE. La crescita individuale
consiste nella crescita dell’essenza, nel conseguimento dell’“essere”,
non della personalità esteriore. Che tipo di essere sono? Posso
comprenderlo dopo aver compiuto uno “sforzo esserico”. Uno stato
di costante attività non implica necessariamente uno “sforzo
esserico”. Un tipo di sforzo esserico è imporsi semplici esercizi,
mattina e sera; non i soliti esercizi fisici, ma quelli assegnati nei
gruppi. Oppure possiamo compiere uno sforzo esserico
costringendoci a superare l’inerzia fisica o emozionale, e affrontare
un lavoro fastidioso per il corpo. L’essere si acquisisce con lo sforzo
cosciente, facendo volontariamente piccole cose. In tal senso la vita
è una palestra o, come dice san Paolo “una corsa in una grande
gara”. Gurdjieff sostiene che dobbiamo sempre superare di poco le
nostre attitudini ma senza eccedere, allora diventiamo
“spiritualizzati” come lo intende lui, e cioè “vivi”, non spirituali ma
ricchi di vita, di spirito.
“La terza è sforzarsi coscientemente di conoscere sempre più a fondo le
leggi della creazione del mondo e dell’esistenza del mondo”.

263
Lo scopo della vera filosofia è la comprensione della vita, che
non è un privilegio riservato a pochi; è funzione dell’essere umano
normale chiedersi ‘‘perché?” Forse non siamo in grado di dare
risposte corrette, ma la dignità dell’uomo si fonda sul suo interesse
per le domande. Ogni situazione offre materiale d’indagine; con una
facoltà ci si interroga, mantenendo il comportamento di sempre con
gli altri. Non c’è bisogno di tenere la vita ordinaria a distanza o
diventare insofferenti. Lo sforzo di riflettere sul funzionamento
delle leggi della Creazione e del Mantenimento del mondo rende
elastiche le facoltà mentali; l’attenzione, la memoria, la
concentrazione, la vera immaginazione non aumentano con
l’esercizio diretto ma con quello indiretto. Dopo aver riflettuto per
mezz’ora forse non avete nulla da dire; anzi, può esserci
semplicemente una maggiore convinzione della propria ignoranza
ma, secondo Socrate, “cominciare a sentirsi ignoranti è l’inizio della
saggezza”. Gurdjieff dice: “Vedrete che più vi renderete conto di
non sapere, più capirete”.
“La quarta è pagare fin dall’inizio e al più presto per la propria venuta al
mondo e per la propria individualità, al fine di essere liberi’ in seguito, di
alleggerire per quanto possibile l’afflizione del nostro padre comune”.
Parlando in generale, siamo tutti dei parassiti. Gurdjieff usa
spesso questa espressione al Prieuré. Nessuno di noi ha pagato il suo
debito con la Natura. Essere vivi è un miracolo unico: avere la
possibilità di Essere invece di Non Essere. Pensate a quanto sono
costati alla Natura la preparazione delle condizioni planetarie e i
lunghi periodi di prova, perché potessimo diventare Figli del Padre
e non solo servirla. E in cambio cosa facciamo? Nella famiglia della
Natura ci comportiamo da bambini viziati che pensano solo a
divertirsi. Se per mezz’ora soltanto pensate in modo serio a come
sfruttiamo le risorse naturali, i terreni, le foreste e gli animali per
soddisfare desideri anomali, non potrete non inorridire.
Emerson ha detto “guadagnati da vivere”: guadagnati il diritto di
vivere.
A volte sorprende come la Natura continui a tollerare l’esistenza
dei rappresentanti della razza umana, anziché rendere inoffensiva o
sopprimere la nostra specie come ha già fatto con altre.

264
“La quinta è assecondare sempre i propri simili’ nonché gli esseri di
altre forme, in vista del loro perfezionamento accelerato fino al grado di
Martfotai sacro, vale a dire fino al grado di auto individualità”.
Dobbiamo distinguere fra quando assecondiamo le debolezze
degli altri, perché abbiano una buona opinione di noi, e quando li
aiutiamo a diventare ciò che veramente desiderano essere. Ma
possiamo essere “duri” con gli altri solo quando abbiamo imparato a
essere “doppiamente duri” con noi stessi. L'unico servizio concreto
che possiamo rendere agli altri è quello che li aiuterà a adempiere
alla loro funzione come esseri umani.
Questa è una chiave per comprendere il comportamento
talvolta “spietato” che Gurdjieff ha con gli altri. Egli è del tutto
indifferente a ciò che gli altri pensano di lui. Vi ha umiliati davanti
a tutti, vi ha insultati con epiteti offensivi, vi ha trattati in modo
“abominevole”; eppure, la settimana seguente, un mese o un anno
dopo, siete colti da un sentimento di gratitudine nei suoi confronti e
dalla consapevolezza di una maggiore forza interiore.
Le cinque tendenze della morale oggettiva racchiudono
l'essenza del Metodo di Gurdjieff. Tuttavia, prima di essere in grado
di impegnarci in modo corretto, dobbiamo comprendere il
significato di lavoro cosciente e sofferenza volontaria, perché da
questi due cardini fondamentali - il partk-dolg-dovere esserico e le
tendenze - dipendono tutte le leggi e tutte le rivelazioni presenti
nel sistema di Gurdjieff. Rappresentano un'ottava di base a cui nulla
può essere aggiunto o tolto».

«Sicuramente dobbiamo anticipare l'inevitabile stato di pessimismo


causato dal collasso della scienza moderna, della religione e
dell'etica, e non rimanervi identificati. Per la maggioranza della
gente le idee del sistema di Gurdjieff oggi sono premature.
Discuterle è come consigliare il medico a un uomo che crede di
stare bene. Ma è auspicabile e necessario un nucleo crescente di
persone che lavori su queste idee. Il pessimismo intacca le menti più
fini, non tutti gli sfuggono facilmente come Bertrand Russell, che è
“terribilmente a suo agio nell'inferno'', e che una volta ha detto:
“Solo sulle salde fondamenta di un'inflessibile disperazione si può
d'ora innanzi costruire l'edificio dell'anima''».

265
«Belzebù indica sette fattori che costituiscono l’organismo così
com’è. Superano di gran lunga qualsiasi contributo dei moderni
comportamentisti. Dice: “Ti ricorderai, figliolo, che spiegandoti
come i tuoi beniamini definiscono il ‘corso del tempo’, ti ho detto
che quando la loro presenza si fu sbarazzata dell’organo kunda-
buffer, con tutte le sue proprietà - e la durata della loro esistenza,
conforme al principio ‘fulasnitamnico’, era ormai diventata la stessa
di quella di tutti gli esseri tricerebrali normali dell’intero Universo
-, essi avrebbero dovuto necessariamente esistere fino a quando il
loro secondo corpo esserico, il ‘corpo kesdjan , si fosse totalmente
rivestito in loro e perfezionato nella ragione fino all’Ishmesh sacro’.
Ma più tardi, quando cominciarono a esistere in maniera sempre
più indegna di esseri tricerebrali ed ebbero completamente smesso
di realizzare nella loro presenza i partk-dolg-doveri esserici previsti
dalla Grande Natura, i soli suscettibili di fornire alla presenza degli
esseri tricentrici dei dati per il rivestimento delle parti superiori -
per cui la qualità del loro irradiamento non rispondeva più alle
esigenze del grande processo trogoautoegocratico universale -, la
Grande Natura fu costretta, per ristabilire l’‘equilibrio delle
vibrazioni’, a conformare progressivamente la durata della loro
esistenza al principio chiamato ‘Itoklanotz’. Questo principio
generalmente regge dappertutto la durata di esistenza degli esseri
unicerebrali e bicerebrali, i quali sono privi delle possibilità
assegnate agli esseri tricerebrali e incapaci perciò di realizzare nella
loro presenza i partk-dolg-doveri previsti dalla Natura. Secondo tale
principio, la durata della loro esistenza esserica, come tutto il
contenuto della loro presenza generale, dipende abitualmente dai
risultati derivanti da sette dati ambientali, che sono:

1. l’eredità in generale;
2. le condizioni e l’ambiente al momento del concepimento;
3. la combinazione delle radiazioni di tutti i pianeti del loro
sistema solare durante il tempo di formazione nel seno della loro
procreatrice;
4. il livello delle manifestazioni esseriche dei loro procreatori -
fino a che loro stessi non hanno raggiunto l’età di un essere
responsabile;

266
5. la qualità di esistenza esserica degli esseri a loro più vicini;
6. la qualità delle onde di pensiero chiamate ‘teleokrimalni-
chniane’ che si sono formate nell’atmosfera che li circonda - e
anche qui, fino alla loro maggiore età; in altre parole, i desideri
e gli atti pieni di bontà sinceramente manifestati dagli ‘esseri
dello stesso sangue’;
7. la qualità dei loro ‘egoplastikuri esserici’, cioè degli sforzi
esserici che essi compiono per trasmutare in loro stessi tutti i
dati necessari all’ottenimento di una ragione oggettiva”.

Ecco riassunti in modo semplice i sette fattori, i cui effetti


determinano l’organismo. Possiamo esaminarli brevemente ma
dobbiamo ammettere che, come ogni asserzione ne I racconti di
Belzebù, possono essere capiti solo in relazione al resto del libro. Le
chiavi delle porte della comprensione verranno trovate in altri
capitoli. Come per tutto il testo, ci sono tre livelli principali di
comprensione.
Esaminiamo i sette aspetti.
1. “L’eredità in generale”. Non si tratta solo della parentela più
stretta ma dell’insieme di entrambe le famiglie di origine e della
razza di appartenenza; ed esistono cinque razze principali, ognuna
con la sua storia, esperienza e psiche peculiari. Inoltre, per ogni
razza c’è una storia biologica, minerale, vegetale e animale. Il corpo
è il risultato di un complicato processo biologico che inizia con la
comparsa della vita organica sul pianeta.
2. “Le condizioni e l’ambiente al momento del concepimento”.
Nel momento del concepimento iniziamo l’esistenza come esseri
unicellulari. E un momento che porta in sé i fattori della condizione
fisica e psichica dei genitori e della loro storia recente; e anche del
luogo geografico, dell’aria, del terreno, delle forze magnetiche e via
dicendo. E troppo complesso da analizzare. La nostra capacità di
fare esperienze dipende dai fattori citati. Nasciamo come macchine
con una serie di cariche a molla. Nel nostro stato attuale, non
possiamo diminuire né aumentare l’esperienza personale più di
quanto possiamo controllare la durata di un sogno che ci accade.
3. “La combinazione di tutti i pianeti, eccetera”. Le radiazioni
dei pianeti^ le influenze planetarie, agiscono su di noi durante

267
la gestazione tramite la madre. È riconosciuto fin dall’antichità,
sebbene non possa essere dimostrato. Ma esistono numerose e
dettagliate prove a favore.
4. “Il livello delle manifestazioni esseriche dei loro procreatori,
eccetera”. Le manifestazioni esseriche nascono nell’essenza, sono
genuine e dunque rare. Un atto di vera sincerità genera un effetto
enorme sul bambino, sul suo carattere. Non è tanto la mancanza di
affetto da parte dei genitori, quanto la sua mancata manifestazione a
essere una delle cause della debolezza caratteriale di certi bambini.
5. “La qualità di esistenza esserica degli esseri, eccetera”. La
natura dell’esistenza esserica delle persone a contatto con i bambini
durante la loro crescita. La civiltà moderna induce nelle persone
ogni genere di comportamento artificiale, che va a influire sui
bambini. Anche i giovani sono nutriti da alimenti modificati, da cui
una serie di farmaci per contenere, durante lo sviluppo, gli effetti
nocivi di un’errata alimentazione, di abbigliamenti sbagliati, di un
cattivo sonno, di una postura scorretta e via dicendo; di norma
facciamo lavorare un solo centro alla volta e, per esempio,
diventiamo sedentari; oppure ci attiviamo ma in una maniera
anormale, come se fossimo sportivi professionisti fanatici. Pochi di
noi respirano con naturalezza; ci risparmiamo la fatica e non siamo
mai costretti a una respirazione più ampia come fanno i braccianti.
Non c’è quasi bisogno di pensare; ci viene risparmiato
dall’educazione, dai giornali, dai libri, dalla radio. E tutto
preconfezionato, ci viene detto cosa e come fare riguardo a tutto ciò
che esiste sulla Terra; e le indicazioni arrivano proprio da chi non
ha una reale comprensione, che dispone di una conoscenza parziale
e le cui conclusioni pertanto sono sbagliate. Il vero insegnamento è
sostituito dall’esercizio meccanico della memoria: il ragazzo
brillante è colui il quale, dotato di memoria fotografica, riesce a
vincere premi superando quiz e prove di intelligenza che, in fondo,
tutti considerano praticamente privi di valore. Il cibo, l’aria e le
impressioni - i tre nutrimenti principali - sono già compromessi. I
bambini di città partono svantaggiati perché non possono imitare il
comportamento di esseri normali; la vita di campagna si avvicina
alla normalità, ed ecco che i cosiddetti bambini “ignoranti” delle
fattorie soverchiano quelli di città, soprattutto in Europa, in quanto

268
devono fare affidamento sulle proprie capacità.
6. “La qualità delle onde di pensiero chiamate ‘teleokrimal-
nichniane’, eccetera”. Ne sappiamo talmente poco da non potere
nemmeno discuterne. Possiamo solo dare qualche indicazione. Per
esempio, quando due genitori non si sopportano, anche se
mantengono un comportamento formalmente corretto, i figli
avvertono l’ostilità e soffrono di conseguenza. Nella civiltà moderna
il figlio “unico” di solito è nevrotico e diventa un bambino
“problematico”. Quasi tutti gli psicologi infantili sono genitori di un
bambino problematico e, come quasi tutti gli psichiatri, sono
nevrotici. I piccoli delinquenti, ricchi o poveri che siano, vengono
da famiglie in cui gli istinti e le potenzialità naturali sono stati
deviati, alterati o soppressi.
7. “La qualità dei loro ‘egoplastikuri esserici’, eccetera”. “Lo
sforzo per comprendere”, che i bambini sono stati incoraggiati a
esercitare fino all’adolescenza. Secondo noi i bambini sono curiosi e
ci affrettiamo a soddisfare la loro curiosità, evitando al bambino lo
sforzo di appagarla. Basterebbe questo loro appetito a stimolarli; ma
troppa legna sul fuoco finisce con lo spegnerlo.
Nella vita la curiosità è una manifestazione talmente preziosa
che si dovrebbe aspettare prima di soddisfarla. L’insegnante,
anziché fremere di insegnare, dovrebbe incoraggiare la vera
curiosità, vale a dire quella rivolta alla conoscenza della vita.
Gurdjieff dice che in Oriente non ci sono maestri, ma solo allievi. In
Oriente, con la scomparsa degli antichi costumi di vita e la
diffusione dell’educazione e della “civilizzazione” - cioè
industrializzazione - delle persone “arretrate”, l’antica saggezza
sparirà e verrà conservata solo nelle scuole esoteriche. La nostra
salvezza è che, sotto la superficie mutevole della vita, continua a
scorrere la profonda corrente dell’inconscio umano, o subconscio.
La vita è estremamente curiosa, tuttavia dobbiamo stare attenti a
non identificarci con la curiosità. Leggete II principe Lubovedsky
nella seconda serie.
Dall’adolescenza in poi, la vita e lo srotolarsi inconsapevole di
una pellicola cinematografica avvolta dentro di noi, che si svolge
sotto forma di esperienze personali. Per esempio, scegliete una
professione (non si può dire che “decidete”, accade per una

269
combinazione fra qualcosa che sta dentro di voi e qualcosa che sta
fuori). Il destino non è determinato da quanto farete, ma ciò che
farete è già determinato da questi fattori precedenti. Non viviamo
veramente; osserviamo lo svolgimento di ciò di cui siamo vittime
inconsapevoli: la nostra modesta bobina. Man mano che si srotola
diciamo di “vivere”. Di fatto esistiamo. Questo è comportamentismo
estremo. Gurdjieff dice che i comportamentisti non sospettano
nemmeno fino a che punto siano predeterminati.
È vero, gli incidenti capitano, la bobina arrotolata può essere
lasciata andare; può srotolarsi prematuramente in seguito a un
incidente, o per l’influenza di chi abbiamo vicino; ed è quest'ultima
eventualità, più che l'incidente, a rappresentare uno dei rischi per la
civiltà. Non possiamo speculare sulla natura di un “incidente”, ma
possiamo analizzare l'altra. Lasciando da parte l'incidente, cosa
provoca questo prematuro svolgimento? La suggestione. Facciamo
un esempio. Ognuno ha una sua precisa capacità di pensare; se ci
muoviamo suggestionati da altri e non per un nostro desiderio,
possiamo ritrovarci a leggere un sacco di cose che non ci
interessano, a seguire conferenze “dotte” per acquisire informazioni
da poter trasmettere ad altri, così da apparire “qualcuno” ai loro
occhi e non, come dice Gurdjieff “un semplice nessuno”.
Questo titillamento passivo indebolisce le nostre potenzialità,
senza che ci sia alcun pensiero attivo da parte nostra.
Con le emozioni è lo stesso. Se frequentiamo artisti patologici di
una branca qualunque, restiamo vittime della “bellezza”, ma senza
un'emozione tipicamente umana. Intraprendere una carriera
estetica, intesa come pura fruizione e non attivamente, è una
scorciatoia per perdere il gusto e la forza innati. Ricerca l'arte,
ricerca la ragione. E ancora: “Non amare l'arte con il sentimento”.
Nel mondo fisico è lo stesso: il mondo dello sport; è possibile
l'invecchiamento precoce degli organi a causa di esercizi inutili ma
motivati dall'antagonismo e dalla pubblicità.
Il nostro antidoto per evitare l'usura prematura di una qualsiasi
delle bobine è il Metodo, nel suo aspetto denominato
“Iramsamkeep”: trattengo me stesso; mai abbandonarsi all'attività di
un solo centro, diventare lo specialista assoluto che aspira

270
ossessivamente a una grandezza intellettuale, emozionale o fisica,
ma forzarsi di conservare un equilibrio fra i centri.
La società genera mostri perché è difficile resistere agli
incentivi che offre. Leonardo da Vinci, di fatto una delle più grandi
figure europee, nonostante i compensi offerti rifiutò la
specializzazione unica. Quando si ritrovava prigioniero della
monotonia, dunque squilibrato, mandava all’aria quello che stava
facendo. E una regola valida per tutti e i migliori sistemi educativi
moderni lo sanno. Ma quando l’allievo se ne va, da lui ci si aspetta
una specializzazione.
Al tempo stesso, dovremmo impegnarci per eccellere in
qualsiasi cosa affrontiamo. Lavorando con il Metodo Gurdjieff, che
ha per scopo lo sviluppo armonico dei tre centri, rivolto a un
incremento della consapevolezza, dell’essere e della comprensione,
è possibile eccellere senza identificarsi con l’attività. La differenza
fra identificarsi con qualcosa e non essere identificati non c’entra
con il rendimento, ma con l’investire o meno tutte le forze e
l’attenzione nel lavoro.
Il che ci riporta alla definizione della meta finale. All’inizio
abbiamo asserito che questa passione nell’uomo di voler
comprendere il significato e lo scopo dell’esistenza è normale. È la
corrente magnetica principale. Il polo magnetico positivo è la zona
cerebrale; il polo negativo è la parte istintiva-motoria. Quando la
corrente scorre normalmente, tutte le funzioni occupano il posto
giusto. Ma i nostri poli sono invertiti e quando la corrente scorre -
come nel nostro caso - dalla zona spinale a quella cerebrale, siamo
disarmonizzati. Allora siamo Pietro, crocifissi a testa in giù.
L’essere umano psicologico è un essere umano con la passione di
comprendere. Le persone in cui la corrente scorre normalmente
osservano che la loro funzione nella vita va normalizzandosi. La
presenza di questa passione attiva per la comprensione è un bisogno
primario. Perché? Perché l’uomo è stato creato allo scopo di
generare un’Anima; e l’anima può essere definita come l’essere in
grado di generare la ragione oggettiva.
I racconti di Belzebù non sono solo un’allegoria, alcune parti
sono storiche, altre contemporanee. Dobbiamo essere in grado di
leggere il pensiero come una parabola, tra le righe e oltre.

271
Durante la sesta e ultima discesa di Belzebù, compaiono sul
pianeta tre messaggeri dall’Alto: Gesù, Maometto e il Lama. Come
mai tutti e tre in un arco di tempo così breve?
Ognuno lasciò una dottrina, ma le dottrine vennero alterate al
punto che i fondatori stessi non le avrebbero più riconosciute. I
seguaci iniziarono a dividersi in fazioni, poi introdussero nella
dottrina originale idee totalmente estranee, che spesso erano il loro
opposto. Abbiamo esperienza personale di come, per colpa della
nostra strana psiche, perfino idee enunciate in modo chiaro sono
sicuramente interpretate in modi diversi, si frammentano e
modificano. E così da sempre e continuerà finché la psiche umana
resterà anormale.
Alcune persone in certi gruppi esoterici sono sempre state a
conoscenza della versione di Belzebù dell’Ultima Cena e del
Sacramento. Prima di essere crocifisso, Gesù versò il suo sangue in
un calice, forse i discepoli ne bevvero una piccola parte; così si
stabilì un legame tra il corpo kesdjan del maestro e i discepoli diretti.
Dopo la sua morte, in un particolare stato di coscienza, i discepoli
riuscirono a comunicare con lui tramite il sangue. Non fu una
comunicazione a parole, ma da qui nacque la voce che Gesù era
stato visto. La comunicazione rimase possibile solo per un certo
periodo, al termine ci fu l’Ascensione.
Per Gesù e i suoi discepoli gli eventi si mossero troppo
rapidamente e Giuda, il più fidato, si incaricò di guadagnare tempo
complottando con i romani. Si offrì di organizzare la cattura di Gesù
senza disordini, così, con il consenso di Gesù stesso che ne era a
conoscenza, recuperò il tempo necessario al completamento del
rito. Giuda si rivela il più cosciente tra i discepoli, quello che ha reso
il servizio più grande. Questo è il vero Giuda. Quello convenzionale
è il traditore, maledetto dai cristiani per duemila anni. Ma le
maledizioni e le lodi di questo mondo hanno un valore che, in
termini oggettivi, è nullo.
In ognuno di noi esiste il Giuda convenzionale. E in questo
senso che al Prieuré Gurdjieff allude spesso agli allievi che si sono
addormentati ed escono dai binari».

Per il capitolo 47 era stato suggerito il titolo II passo di montagna del


pensiero imparziale. In tal senso, il libro rappresenta un’ascesa

272
attraverso vari livelli di ragione. Belzebù ha raggiunto questo passo
e ha ottenuto lo stato della ragione oggettiva imparziale. Ora è
possibile un nuovo ordine di vita. Cosa significa rinunciare a parte
dello sviluppo personale per il bene di un proprio simile? Possiamo
fare un’analogia. Se il nostro “Io” deve crescere e svilupparsi, allora
gli altri “Io” devono rinunciare a parte delle possibilità di soddisfare
le proprie necessità e voglie. Verrà il momento in cui, anziché
lottare contro, desidereranno farlo.
Alla fine Hassin dà voce alla domanda che riguarda noi tutti. È
ancora possibile salvare in qualche modo gli esseri tricerebrali che
nascono sul pianeta Terra e indirizzarli sulla retta via? Belzebù
risponde: “L’unica misura di salvezza per gli esseri del pianeta Terra
sarebbe innestare nella loro presenza un nuovo organo, analogo a
quello di kundabuffer, ma dotato questa volta di proprietà tali
affinché ciascuno di quegli infelici, durante il processo della loro
esistenza, senta e prenda incessantemente coscienza
dell’inevitabilità della propria morte, nonché della morte di tutti
quelli su cui si posa il suo sguardo o la sua attenzione.
Solo questa sensazione e questa conoscenza possono
attualmente annientare l’egoismo che si è definitivamente
cristallizzato in loro e ne assorbe l’intera essenza, distruggendo allo
stesso tempo la conseguente tendenza a odiare gli altri, tendenza
che determina quelle relazioni reciproche la cui esistenza è la causa
principale di tutte le loro anomalie, indegne di esseri tricerebrali, e
nefaste per loro come per tutto l’Universo”».

8 Anulios è la Luna ne I racconti di Belzebù.

273
IV
Fontainebleau (1928)

Durante quell’inverno mi resi conto di quanto desiderassi tornare al


Prieuré e affrontare un lavoro reale con Gurdjieff. Non sapevo con
chiarezza cosa sarei andato a fare, ma col passare del tempo il
desiderio aumentò al punto che non potei più resistergli. Non era un
desiderio di fuggire la vita e le sue responsabilità, poiché la sorte non
mi aveva mai trattato bene come allora. Avevo tutto ciò che la vita
ordinaria, il mondo, è in grado di offrire: amici interessanti e
conoscenze, un’abitazione in campagna, un appartamento a New
York, automobili, un lavoro appagante e fonte di guadagno; ma
soprattutto Orage e il gruppo. Eppure, niente di tutto ciò riusciva a
placare il desiderio di andare da Gurdjieff.
Questa ardente volontà di «essere ciò che si dovrebbe essere», di
«avere un essere», di essere in grado di «fare», di «comprendere», è
stata espressa da poeti e mistici - indù, sufi e cristiani -
nell’immagine dell’esiliato che desidera rientrare in patria, o più
spesso, dell’innamorato che desidera la sua amata. Il dolore al plesso
solare che accompagna questo anelito alla perfezione somiglia a
quello dell’esule o dell’innamorato.
Alla fine, dopo una lunga battaglia interiore, rinunciammo alla
vita di New York e salpammo per la Francia. Prima di partire dissi a
Orage: «Speriamo di rivederci tra non molto». E lui rispose: «Siamo
persone che si incontrano sempre. Quest’anno non vado al Prieuré.
Di fatto, comincio a sentire che il mio lavoro qui si sta concludendo;
altri due o tre anni forse, e poi magari ci ritroveremo in Inghilterra».

275
Arrivammo a Fontainebleau-Avon agli inizi di giugno. Nel
fiacre dalla stazione i sentimenti vennero come sempre eccitati da
immagini, suoni e odori familiari: il treno che passava sotto il ponte,
le scampanellate del tram, il profumo di legna tagliata, arrivare al
cancello, suonare il campanello con accanto l’indica- zione sonnez
fort, e il gorgoglio della fontana nel cortile. Non avevo idea di cosa
sarebbe accaduto, ma sentivo che per me sarebbe stato qualcosa di
molto importante.
Gurdjieff e tutti gli altri ci accolsero bene. Non spiegai il motivo
della mia venuta in quanto, ho già detto, non ero in grado di
formularlo chiaramente; ma, come i fatti lo dimostrarono, egli capì.

Durante le prime settimane lavorammo come sempre, in casa o nei


giardini, e girammo in auto con Gurdjieff. In luglio egli portò me e
Madame de Hartmann in gita a Biarritz e Lourdes.
Durante il viaggio cominciai a pensare a cosa rappresentasse per
me il mio «idiota», perché fino ad allora non avevo indizi. Mi decisi
a chiederlo a Gurdjieff non appena mi si fosse presentata
l’occasione. Sapevo che, se avessi scoperto il significato, avrei
ottenuto la chiave di lettura del mio stato e del mio
comportamento, di quel qualcosa tanto evidente agli altri ma a me
invisibile. Fino ad allora, ogni volta che lo avevo interpellato in
merito al mio «idiota» egli aveva eluso la domanda o non mi aveva
neppure risposto.
Un giorno ci fermammo in un ristorante al margine della strada
e pranzammo in un gradevole giardino ombreggiato. Faceva molto
caldo, il cibo e l’armagnac erano particolarmente buoni, il sudore ci
scorreva sul volto. Durante il rito del brindisi agli idioti, quando
arrivammo alla mia categoria, gliene chiesi il significato. All’inizio
non disse nulla ma insistetti e quasi lo pregai di darmi almeno
un’indicazione. Allora egli cominciò a parlare e me lo disse, in una
frase di cinque parole. Rimasi stupefatto dalla chiarezza e dalla
semplicità del suo parlare e, grazie alla sua stessa presenza e per
l’effetto chiaroveggente dell’armagnac, vidi la mia caratteristica
principale, qualcosa che non avevo mai nemmeno immaginato.
Dopo che ce ne fummo andati, ci pensai su durante la guida e capii
come questo qualcosa fosse stato il mio peggior nemico sin
dall’infanzia. Forse si trattava della principale tra le cause che

276
avevano determinato ¡’impronta della mia vita, che aveva generato
così tante difficoltà rovinandomi le relazioni con gli altri. Mi resi
conto anche che, se non fosse stato per Gurdjieff e il suo metodo,
sarei potuto rimanere per sempre lo stesso, continuando a ripetermi
e comportarmi nel medesimo modo. Non riesco a ricordare il nome
del posto dove pranzammo, ma ho vivida l’immagine di quella
torrida giornata e noi seduti sotto il pergolato ad asciugarci il sudore
sul volto.
È stupefacente e perfino terrificante che si possa continuare a
vivere per anni con una falsa immagine di sé stessi, e non avere
l’immagine reale di come ci si manifesti, nonostante il desiderio di
sapere. Come potrebbe saperlo un «morto», se è già tanto difficile
per chi inizia a risvegliarsi dal sonno?
Da quel giorno qualcosa in me cambiò.
A Biarritz Gurdjieff cominciò a creare delle difficoltà;
incontrammo suo fratello Dmitri e la moglie che, con uno dei loro
bambini, salirono in auto. Gurdjieff sistemò il fratello davanti con
lui: due omoni, e io in mezzo a loro. L’auto era piccola, con lo spazio
sufficiente per quattro persone appena. Stavamo scomodissimi, tutti
e sei pigiati con tanto di bagaglio al seguito. Con il passare del tempo
il viaggio si trasformò in una vera e propria tortura, ma mi impegnai
a non cedere. Alla fine Dmitri Ivanovic e sua moglie Astra
Gregorievna non ce la fecero più e ritornarono a Fontainebleau con
il treno; Gurdjieff, Madame de Hartmann e io continuammo per la
nostra strada. Io sedevo sempre davanti con lui.
A Lourdes ci recammo dove sostano gli zoppi, gli storpi e gli
ammalati, file e file di povere creature, alcune quasi mostruose, in
attesa della guarigione. Poco dopo assistemmo a una lunga
processione per il funerale di un vescovo. Era imponente, con il
rintocco delle campane, l’incenso, il canto dei sacerdoti e dei
monaci che passavano tra ali di gente ai margini della strada: la
pompa e il cerimoniale della religione istituzionalizzata.
Spesso, durante la guida, Gurdjieff rifletteva su alcuni passaggi
de I racconti di Belzebù, e li dettava in russo a Madame de
Hartmann che sedeva dietro, pronta con taccuino e matita. Quando
ci stavamo intorpidendo e cominciavamo a sognare a occhi aperti, o
quando egli stesso necessitava di uno shock per tenersi sveglio alla

277
guida, ci faceva una specie di sceneggiata o ci sgridava,
apparentemente in collera. Ci svegliavamo subito. Poi, quando
decideva di parlare, ci si fermava a un café o ai bordi della strada con
sandwich e armagnac. Nell’attraversare la regione Gurdjieff pareva
capace di fiutare il cibo locale migliore, cosicché ogni giorno
gustavamo nuove prelibatezze.
A volte mi spronava a parlare, mi faceva dire qualcosa, poi con
uno sguardo di compassione scuoteva la testa, e io mi rendevo conto
di aver rivelato una debolezza, un’imperfezione. Li ho impressi
nella memoria questi incidenti, questi shock costanti che
esponevano uno dopo l’altro i miei nemici interiori, all’apparenza
innumerevoli.

Dopo qualche giorno il viaggio si concluse e tornammo al Prieuré.


Gurdjieff mi mise a scavare un fosso nella foresta con altri due
uomini. Lavorare all’ombra era piacevole e ancor più lo era il
sedersi e parlare di «argomenti elevati» durante le soste per i turni.
Questa occupazione congeniale durò pochi giorni, dopodiché prima
un uomo, poi l’altro vennero assegnati ad altre mansioni, e mi
ritrovai a lavorare da solo. Gurdjieff mi disse di scavare e cercare
una sorgente che, a quanto si diceva, si trovava proprio lì da qualche
parte, la sorgente di cui aveva parlato cinque anni prima. I giorni
passarono, nessuno mi si avvicinò e non c’era traccia d’acqua.
Cominciai allora a provare una resistenza crescente, una rivolta nei
confronti di ciò che la mia mente sapeva che andava fatto. Non si
trattava della fatica fisica. Nella Columbia britannica ero stato un
buon sterratore, avevo fatto saltare con la nitroglicerina ogni
singolo metro di terreno, un lavoro difficile e pericoloso. Ciò che
dovevo superare era una rivolta, una tremenda resistenza del corpo
e dei sentimenti a continuare, nella calura opprimente, questo
compito noioso, monotono e apparentemente insensato. Dopo
alcuni giorni di lavoro avevo scavato in profondità nell’argilla
fangosa un lungo fosso e una buca. Nessuno mi si avvicinava, ormai
non venivo chiamato nemmeno per i pasti nella sala da pranzo
inglese. Poi Gurdjieff partì per una gita in auto con mia moglie e
qualcun altro, il che appesantì le mie difficoltà emozionali, dato che
per me non c’era niente di più bello che viaggiare con lui.

278
Quando ritornò alcuni giorni dopo e venne a vedere il mio
lavoro, il primo sopralluogo in due settimane, gli dissi: «Qui non c’è
acqua, è inutile continuare». Egli si limitò a rispondere: «Qui deve
essere acqua. Bisogna trovarla, ora scavare qui». Indicò un altro
punto e se ne andò, così ricominciai. Ma ero tormentato da un
pensiero assillante. Mi chiedevo perché mai avessi abbandonato una
brillante e agiata vita in America e fossi venuto qui per lavorare
come sterratore e per essere umiliato. Era solo un capriccio di
Gurdjieff per tenermi occupato? Ero scoraggiato e sconfortato. Al
tempo stesso sentivo che il compito andava concluso e che si
trattava, forse, del primo sforzo reale che avessi mai fatto.
Di lì a qualche giorno, dopo il tè andai in stanza per riposare.
Forse fu la stessa posizione supina ad aumentare il senso di
prostrazione, di fatto mi trovai sul punto di mollare tutto. Mi
allungai per prendere II viaggio del pellegrino e lessi:

Vidi allora che proseguivano mentre Cristiano li precedeva,


a volte con qualche difficoltà, a volte più speditamente.
Spesso leggeva il rotolo che uno dei personaggi splendenti gli
aveva dato e subito si sentiva consolato e incoraggiato.
Mi sembrò poi che tutti andassero avanti fino ai piedi di
una collina, dove c’era una sorgente. V’erano inoltre due
altre vie che provenivano direttamente dalla Porta; una
girava a sinistra e raltra a destra, ai piedi della Collina. Quella
più stretta saliva su per la Collina (e si chiamava Difficoltà).
Intanto Cristiano andò diritto alla sorgente e bevve per
rinfrescarsi un po’ e cominciò poi a salire sulla Collina
dicendo:
«Anche se alto, su questo monte
ascendere voglio anch’io;
dinanzi a difficoltà non tremo,
perché è lì la vita vera.
Coraggio cuore, non venir meno,
non temere, per difficile che sia,
anche se dura, è la diritta via; alla
morte eterna l’altra conduce».
Anche gli altri due vennero ai piedi della Collina, ma quando
videro che era alta e ripida e v’erano anche altre vie, suppon-

279
nendo che esse si incontrassero poi con quella presa da
Cristiano, decisero di prendere appunto queste due vie. (Ora,
il nome di una via era Pericolo e dell'altra Distruzione). Così
uno di loro prese la via detta Pericolo che lo portò in un
grande bosco, e l’altro quella detta Distruzione che lo
condusse in un vasto campo pieno di montagne oscure, dove
inciampò e cadde senza potersi più rialzare.
Vidi invece che Cristiano proseguiva sempre su per la
Collina, a volte speditamente, a volte più lentamente; altre
volte si arrampicava a fatica, siccome il terreno era molto
ripido. Giunto a metà strada dalla cima della Collina, si trovò
in una specie di rifugio, un luogo ameno, creato dal Signore
della Collina per ristorare i viaggiatori stanchi. Anche
Cristiano si sedette un po’ per riposarsi. Prese il rotolo e
cominciò a leggerlo per rincuorarsi. Inoltre esaminò lo stato
dell’abito che gli era stato dato nei pressi della Croce. Poco
dopo, però, si addormentò e rimase lì quasi fino a sera. Nel
sonno, il rotolo gli cadde dalle mani. Ma ecco che a un tratto
qualcuno lo svegliò dicendo: «Va’, pigro, alla formica;
considera il suo fare e diventa savio». Cristiano subito si alzò
e riprese il cammino di buona lena, finché giunse in cima alla
Collina.

Poi mi ricordai di un’esperienza simile di Orage al Prieuré. Egli


aveva provato le stesse cose, magari proprio in quella stanza. E ora
qualcosa mi costringeva a fare uno sforzo ulteriore. Tomai al mio
compito, raccolsi pala e piccone e ricominciai. Per ricordare me
stesso e contenere l’instancabile testa dal vagabondare in sogni a
occhi aperti, piacevoli o stizziti, accelerai e rallentai il ritmo di
lavoro, feci esercizi di conteggio, ripetei sequenze di parole. Ma le
giornate continuarono a trascorrere lente e monotone.
Un giorno, quando avevo perso ogni speranza di trovare l’acqua,
giunsero i risultati. Come affondai il piccone nell’argilla, zampillò
uno spruzzo d’acqua. Scavai ancora ed ecco apparire un rivoletto
sempre più evidente. Continuai emozionato ed eccitato, e
all’improvviso ai miei piedi scaturì una fonte. Sgranai gli occhi
stupefatto, credendo a malapena a quanto vedevo, dato che l’acqua
mi stava già arrivando alle caviglie. Mentre rimasi fisso a osservare,
fu come se fosse stato alzato un velo, come se una nube si fosse

280
dissolta, squarciata dalla luce. Saltai fuori dal pozzo, dal fango e mi
diressi alla casa per dirlo a Gurdjieff, ma lui era via. La felicità e la
gioia mi sgorgarono dentro proprio come la fonte. Andai in stanza,
mi sedetti e presi la Bibbia. Aprendola a caso, sembrerebbe, lessi:
«Benedetto l’uomo che sopporta la tentazione, poiché quando è
tentato riceverà la corona della vita». Sfogliando le pagine, arrivai
all’Apocalisse: «Colui che supererà gli ostacoli erediterà tutto. Io
sarò il suo Dio ed egli sarà il mio figlio»; «colui che supererà gli
ostacoli lo farò pilastro nel tempio del mio Dio, ed egli non uscirà
più, e io gli scriverò addosso il nome del mio Dio, e io gli scriverò
addosso il mio nuovo nome...»; «ed egli mi mostrò il limpido fiume
dell’acqua della vita, trasparente come il cristallo, che fuoriusciva
dal trono di Dio e dell’Agnello... ed essi vedranno il suo volto e il
suo nome sarà scritto sulla loro fronte».
Queste parole, sentite e lette centinaia di volte fin dall’infanzia,
e che in passato avevano evocato bei sentimenti religiosi, ora si
liberarono dalle vecchie associazioni mentali. Era come leggerle per
la prima volta e il significato era chiaro. Non si riferiscono a un
qualche remoto passato o a u n lontano futuro, ma ‘All’adesso’. Sono
collegate con il fare, con il superamento delle proprie debolezze, con
il non arrendersi proprio quando è necessario uno sforzo maggiore.
Queste parole hanno a che fare con i processi psicologici dello
sviluppo interiore, che a loro volta sono il risultato del lavoro
cosciente, una sorta di super sforzo.

Lo stato di estasi, il lampo che aveva attraversato «le porte della


percezione», la presenza di Dio, o come diciamo ora, lo «stato di
coscienza superiore», durò tutto il giorno. Quando l’intensità andò
scemando rimase qualcosa, non solo un ricordo ma, per così dire,
ima cristallizzazione. Gurdjieff tornò il giorno seguente, venne alla
sorgente, la osservò e disse: «Ora, io penso, finito. Questo non più
necessario. Ho altri progetti, cercheremo acqua in altro posto». B
compito aveva realizzato il suo fine.
Accadeva sabato mattina. La stessa sera, nel bagno turco, negli
istanti di calma prima di entrare nella sala riscaldata, egli iniziò a
parlarmi seriamente, ma con una luce che si irradiava dai suoi
occhi: «Lei fatto buon lavoro in Prieuré, ora lei non più
semplicemente Nott, ma Patriarca Nott, e lei avrà nuovo nome in

281
Prieuré, che sarà suo per sempre». Restammo per un po’ in silenzio,
poi mi fece un cenno. Ci alzammo e lo seguii nella sala riscaldata.
Entrati nella stanza del vapore, mi fece sedere accanto a lui, dopo il
cimento del bagno turco, mi percosse con i rami. A cena fui fatto
sedere accanto al dottor Stjoernval, a destra di Gurdjieff. Quando
giunse il momento del brindisi all’idiota «circolare», egli mi disse:
«Ora lei non più idiota circolare, che tipo di idiota io non so ancora,
ma altro tipo. Come ha detto cieco, vedremo. Bene, domani io darò
lei tre bottiglie di armagnac; dottore le preparerà speciale insalata di
Prieuré, e lei prenderà tutti gli uomini e farà festa lì alla sua fonte.
Solo uomini, non donne, capisce?» Annuii.
Quella sera cominciai a riflettere su cosa significasse un «nuovo
nome», e nel libro dell’Apocalisse trovai: «A colui che supererà gli
ostacoli, darò da mangiare la manna nascosta, e gli darò una pietra
bianca, e sulla pietra sarà inciso un nuovo nome, che nessuno
conoscerà fuorché colui che lo riceve».
E uno dei misteri della cristianità esoterica.

La sera del giorno seguente, domenica, gli uomini si riunirono


presso la pozza d’acqua con il necessario per il picnic. Dopo aver
mangiato e conversato, qualcuno, riscaldato dall’armagnac, iniziò a
cantare una canzone popolare russa, uno di quei canti commoventi
che non parlano di nulla in particolare. Altri intonarono canti
popolari greci, armeni e tedeschi. Io cantai Through bushes and
through briars, poi Stjoernval - un uomo grosso e barbuto con la
casacca russa e i pantaloni infilati negli stivali - si alzò e cantò con
voce profonda e armoniosa, facendo risuonare la foresta. Credo fu
l’unica volta che lo si sentì cantare al Prieuré. Gurdjieff non
partecipò di proposito, poiché era la mia festa, ma sorrise con
approvazione quando, il giorno dopo, gli venne riferito.
Tempo dopo, quando alla fine di settembre le serate erano
ormai fresche, Gurdjieff rientrò da Parigi e proprio prima di cena
mandò a chiamare Stjoernval, Hartmann, Salzmann e me perché lo
raggiungessimo alla piccola piscina circolare riparata da vetrate, che
si trovava all’estremità del prato. Disse: «Ora ci spogliamo». Ci
svestimmo, egli andò avanti e si sedette su uno dei gradini che
scendevano nella piscina, con le gambe in acqua; mi fece cenno di
andargli accanto, con gli altri seduti dietro.

282
Scherzò un po’, poi scese un gradino ancora, iniziò a parlare della
necessità di compiere certi sforzi quando un uomo ha raggiunto uno
stadio nel lavoro su di sé, uno stadio in un’ottava, e come gli sia
necessario compiere lo sforzo. Se lo fa, sale di un’altra ottava,
portando con sé tutto ciò che ha acquisito. Se lo sforzo non viene
fatto, egli può scivolare indietro e perdere ciò per cui ha lavorato.
All’inizio, questo sforzo va fatto sotto la direzione di un maestro; in
seguito quell’uomo può sapere da sé quando compiere lo sforzo, e
come farlo. Disse anche che avevo provato il gusto di un super
sforzo. In questo lavoro lo sforzo ordinario è la norma, tutti devono,
volenti o nolenti, fare sforzi, è la Natura a costringerci, come
costringe il salmone a risalire la corrente. L’uomo deve essere
capace di fare\ la magia, la magia reale, trova le sue radici nel fare.
Dobbiamo fare super sforzi. Più andiamo avanti, più il lavoro si fa
difficile, ma c’è anche più forza. Se fai uno sforzo cosciente, la
Natura deve pagare, forse all’istante. E una legge.
«Prossimo passo», disse, e scendemmo ancora nell’acqua. Allora
iniziò a parlare in russo e continuò per un po’: capii molto poco di
quanto disse. Scendemmo ancora continuando a parlare, e un passo
dopo l’altro ci ritrovammo entrambi seduti, con l’acqua al collo.
Faceva freddo, cominciammo a tremare. Infine Gurdjieff si immerse
e nuotò in circolo, noi lo seguimmo. Ci rivestimmo, andammo nella
sua stanza e mangiammo davanti a un grande fuoco.

Il giorno seguente Stjoernval mi chiese se conoscevo lo zen.


«Qualcosa», risposi. «Bene», disse, «nelle vere scuole zen, spesso
l’insegnante usa con gli allievi metodi strani per fissare in loro gli
insegnamenti. Ieri sera il signor Gurdjieff ha voluto imprimerle
quanto lei ha imparato sul “fare”».
Era stato un processo di iniziazione, auto-iniziazione. Gurdjieff
aveva pianificato le tappe nel lavoro. E grazie a lui lo avevo portato
a termine. Come gli dèi nei misteri, egli lo aveva suggellato con un
rituale personale ed efficace, e io ero stato capace di passare a
un’altra ottava di essere e comprensione.
Da allora le mie relazioni con lui e gli altri furono di un altro
livello.

283
Poscritto

Quanto al rientro di Orage e ai contatti che tenni con lui a Londra,


alla mia successiva frequentazione di Ouspensky in Inghilterra e in
America durante la guerra, e alla ripresa dei miei contatti con
Gurdjieff nel dopoguerra, si tratta di un'altra storia. Voglio solo
aggiungere qualche parola a proposito di una domanda che viene
fatta spesso: «Qual era lo scopo di Gurdjieff? Cosa venne a fare?»
Può darsi che solo Gurdjieff comprendesse il proprio scopo
elevato e prevedesse le conseguenze del suo lavoro; e soltanto due o
tre fra quelli che lavorarono con lui dall'inizio e non lo lasciarono
mai, lo comprendessero almeno in parte.
Circa la domanda «cosa venne a fare?», citerò un sunto dei miei
colloqui con un vecchio amico, F.S. Pinder, un uomo che fu molto
vicino a Gurdjieff.

Egli disse che Gurdjieff venne per suonare un potente Do, per
aiutare l'ascesa dell'ottava in senso contrario alla corrente della vita
meccanica. In qualunque epoca, nel corso dell'opera di un maestro
si distinguono sempre pochi allievi profondamente impegnati nei
loro sforzi. Ma in ogni caso la Legge del Sette segue il suo corso
discendente, non fosse che per l'attrito prodotto dal seguito di litigi
e disaccordi: la qual cosa è inevitabile, ma guai a colui che...
Gurdjieff venne per dare a noi un Nuovo Mondo, una nuova
idea di Dio, dello scopo della vita, del sesso, della guerra. Ma noi chi

285
siamo? «Noi» sono tutti quelli che accettano lui e il suo
insegnamento e che collaborano al compimento di questo lavoro.
Questo nostro mondo non può essere salvato in un arco di tempo da
noi misurabile. Se ciò fosse possibile, sarebbe stato salvato da tempo
dai profeti e dai maestri che sono stati inviati. Chi spera nella
salvezza del mondo per opera di un singolo maestro in un dato
tempo scansa le proprie responsabilità. Aspetta nella speranza di
una «seconda venuta» senza alcuno sforzo personale, indulgendo
nella malattia del domani.
«Se prendi, prendi!», dice Gurdjieff. Lavorando su noi stessi
possiamo «prendere la capacità» di diventare Figli di Dio, i Chri-
stoi, gli Unti o Messia, laddove Funzione sta a simboleggiare il
corpo superiore. Ma siamo caduti talmente in basso, che la strada
del ritorno è lunga e difficile. Abbiamo dimenticato. «Il bue conosce
il suo proprietario, e basino la greppia del suo padrone. Ma il mio
popolo non ne tiene conto». «Essi hanno abbandonato le acque
perenni, e si sono scavati delle cisterne bucate».
Siamo ciò che siamo per non aver svolto quotidianamente il
lavoro nella nostra prigione personale, cosicché dobbiamo
continuare a spingere la macina. La macina a ruota è un’efficace
analogia, poiché simboleggia le difficoltà, le ricadute, i lamenti, le
dimenticanze, i sensi di colpa, i conti da saldare, il rimandare a
domani; ma possiamo rincuorarci, poiché siamo chiamati a
compiere solo ciò che ogni particella dell’Assoluto - Gurdjieff
incluso - è tenuta a fare.
Sebbene Gurdjieff desse a ciascuno il suo - a ognuno
un’opportunità in accordo col suo livello di essere e di
comprensione -, i suoi «shock» infastidivano alcuni. La gente crede
che un uomo possa essere istruito in una vera scuola come
all’università; quando le università oggi altro non sono che apparati
ri-formatori per la scienza, l’arte e la letteratura convenzionali,
mentre la loro funzione originaria era quella di insegnare
l’universalità.
«Strappata la maschera», scrive Lucrezio, «essa rivela ciò che è:
una cosa». In latino persona significa “maschera”, e il concetto
arriva da scuole oggettive. Gurdjieff disse: «Uccidiamo la nostra
personalità, la falsa personalità, quella cosa falsa che noi pensiamo
di essere. Deve morire affinché possa crescere l’individualità». Per

286
conseguire il suo scopo Gurdjieff, come tutti i veri maestri, dovette
recitare una parte, e allo stesso tempo parecchie altre secondarie o
subordinate, lavorando su sé stesso per il proprio sviluppo. Nella
diffusione del suo insegnamento egli dovette adattarlo a persone
con differente livello di sviluppo. In gruppo, durante i pasti per
esempio, usava l’iperbole, l’esagerazione, lo scherzo, l’apparente
contraddizione, dicendo a ima persona cose indirizzate a un’altra; il
che risultò sconcertante per alcuni, che spesso lo presero alla lettera
e che in seguito fecero strane affermazioni su quanto avevano
frainteso.

Tutti sognano un «mondo migliore», ma ognuno secondo i propri


gusti. Per i banditi è quello dove si può rapinare di più e meglio; il
comunista anela allo Stato-formicaio, con sé stesso in cima. E più
lontana dalla realtà sarà la scuola di chi vuole migliorare o riformare
il mondo, tante più persone attirerà, dal momento che egli non si
assume alcuna responsabilità e delega tutto a Dio e allo Stato. È
l’opposto dell’«accettare le cose» come lo intende Gurdjieff, vale a
dire non crucciarsi o preoccuparsi per ciò che non possiamo
cambiare. «Quello che non si può curare, si deve sopportare».
Recita l’inno: «Quando salverai il tuo popolo, Dio di
Misericordia, quando?» Come se dipendesse dal capriccio di Dio.
Solo l’uomo può salvare sé stesso; e Dio lo ha fornito di ogni mezzo
possibile e opportunità. Potremmo chiedere a un gruppo
elettrogeno di fornirci luce e calore, e tenerci stretto il
combustibile? La Chiesa istituzionalizzata dice che la salvezza è
assoluta e gratuita e che, per essere salvato, all’uomo basta «credere
ed essere buono».
Quando il carrettiere fece appello a Giove per estrarre il carro
dal pantano, Giove disse: «Prima poggia la tua spalla alla ruota».
Gli uomini non si rendono conto che prima di tutto è necessario
fare qualcosa per sé stessi; per migliaia di anni hanno tentato di
ri-formarsi l’un l’altro. Se ciascuno si accingesse a lavorare su sé
stesso invece di pregare il suo Dio astratto perché salvi gli altri,
scoprirebbe che il Regno dei Cieli non è indifferente a chi cerca.
Vederci come siamo - l’uomo vecchio - e creare l’uomo nuovo è la
Via della Croce, la religione esoterica. La Via della Croce era la via
di tutti i maestri oggettivi. Tutti devono patire l’esilio in Egitto e

287
tutti devono essere crocifissi. Come Sakra, signore degli dèi, dice al
re Yudhisthira al termine della sua vita sulla Terra: «Tutti i re
devono vedere l’inferno». Devono sperimentare la vita in tutti i suoi
aspetti, gabbare il diavolo con il diavolo, l’antico avversario Shaitan.
Riuscire in quest’impresa significa realizzare il Dio forte, in antitesi
all’essere identificati con la forza negativa, che è Shaitan. La vita
meccanica, con la sua educazione, in questo ruolo negativo è molto
positiva. Tale processo di masticazione corrisponde al
trogoautoegocrat: io nutro me stesso, mangio tutto me stesso e così
acquisisco l’«io-crazia», l’io-supremazia, il potere.
Tria-Mazi-Kamno, «con tre insieme io faccio». Maxi, o mazy, deriva
da metaxy. Ramno, «faccio», piuttosto che il kamno del greco
classico, che significa «sgobbare e sudare», lavorare duramente e
con fatica, e solo secondariamente «fare» nel senso inteso da
Gurdjieff, per il quale occorrerebbe usare poiein e prassein. La
corrente meccanica della vita fu escogitata e adattata per necessità
da Rea Persefone, Madre Natura, che ci ha lasciati in galosce senza
curarsi di nessuno di noi, intenta soltanto a produrre vibrazioni di
massa e cose del genere. Lei, benché a un livello più alto del nostro,
non si è curata di prevedere gli sviluppi successivi. Siamo uno dei
suoi esperimenti. Ma l’Eterno ci ha lasciato un piccolo seme di cui
lei non può privarci. Come dice Isaia (1,9), «Se il Signore degli
Eserciti (cioè, del cielo) non ci avesse lasciato un seme piccolissimo,
saremmo stati come Sodoma e Gomorra». Questo seme ha a che fare
con la particella di Gurdjieff ne I racconti di Belzebù; ma questa
particella, o seme, non ha il potere di evolvere per effetto della sua
gravità specifica se l’appropriato sforzo esserico non viene diretto su
di essa. Allora, Madre Natura deve ritornare contrita sui suoi passi.
È stata costretta da potenze superiori a mantenere e renderci
disponibili alcuni organi, ma non a suo esclusivo uso e consumo;
pertanto ha dovuto concederci questa possibilità quale parte del suo
pagamento alle potenze che la sovrastano. La Natura non è
interessata agli individui ma solamente alla massa, come accade del
resto anche a noi, che dimostriamo scarsa attenzione per le singole
cellule del nostro corpo, mentre siamo molto attenti alla salute
dell’organismo in generale, sacrificandone talvolta una parte per il
bene dell’intero. Su quanto resta, Perdita nel Racconto d'inverno

288
dice: «Poi ch’io abbia udito dir esservi un’arte che nella loro
variegata razza partecipa al crear della Natura». E Polissene: «È
come dici, eppure la Natura non altri che da sé si perfeziona; sicché
quell’arte che con lei s’aggiunge, è un’arte che Natura stessa ha
fatto... Pianta gentil a selvatico ceppo diamo in sposa e vii corteccia
da nobile virgulto è generata; tale è quest’arte ch’aggiusta la Natura
e più l’acconcia, benché niun altri che Natura sia».
Dobbiamo sbrigare tutte le faccende preliminari, per quanto
fastidiose, pesanti e lunghe siano; ma «ciò che si semina in lacrime,
si raccoglie in gioia».
Tuttavia non possiamo iniziare a crescere se prima non abbiamo
piantato il seme, la luna, in noi stessi. Il nostro centro di gravità,
assieme a quello della Terra, si trova sulla Luna astronomica,
pertanto manca in noi la sua controparte, dal momento che
dobbiamo «contenere tutto ciò che rappresenta il mondo». Dentro
di noi la formazione della Luna si realizza riequilibrando i centri,
mediante i parkt-dolg-doveri esserici, il lavoro cosciente e la
sofferenza volontaria; e tramite le cinque tendenze della morale
oggettiva.
Il termine «lunatico» proviene da scuole oggettive; mentre
molto tempo fa era evidente che ogni uomo è lunatico, al giorno
d’oggi questo termine viene usato in modo scherzoso oppure per
indicare chi è evidentemente matto, laddove il suo stato è anche il
nostro, sebbene in forma meno acuta. Nel mito greco Selene, la
Luna, che baciò Endimione per addormentarlo, si riferisce a questo.
Endimione deriva da endyma, un mantello avvolgente, un corpo,
un uomo meramente corporeo, un essere avvolto in un corpo.
Dice Isaia (30,26): «E la luce della luna sarà uguale alla luce del
sole, e la luce del sole sarà sette volte maggiore, come la luce riunita
di sette giorni, nel giorno in cui il Signore fascerà la ferita del suo
popolo e guarirà le percosse che l’avevano piagato». E ancora
(60,20): «H tuo sole non tramonterà e la tua luna non si affievolirà».
E nell’Apocalisse (12,1). «Una donna vestita di sole, con la luna
sotto i suoi piedi». Gli allievi di Ouspensky presero tutto ciò troppo
alla lettera, o in modo eccessivamente poetico, oppure da un solo
punto di vista, credendo che la Terra dovesse diventare un Sole e la
Luna una Terra. La Luna è una bobina magnetica che accumula la

289
corrente indotta, ramazza tutta l’energia dispersa, sprecata, per
quanto ci riguarda, dalla nostra meccanicità. Le scuole oggettive
sapevano tutto questo e quant’altro attiene al magnetismo e
all’elettricità, da tempi antichissimi; ma lo sfruttamento di queste
risorse è passato in mano ai moderni, nella frenesia
dell’industrializzazione, sostenuta da torme brulicanti di servi
sciocchi, simili a formiche.
Gurdjieff parlò e scrisse in un linguaggio figurato, simbolico,
che è necessario alla comprensione, dal momento che le parole,
limitandosi alla funzione di concetti o argomentazioni di un
discorso, producono definizioni, e le definizioni, alla fine,
congelano il linguaggio; e quando tutto è definito e determinato,
tutto si è perso, o lascia soltanto un’impressione superficiale su colui
che ascolta.
«Il Tao che può essere espresso mediante parole, non è l’Eterno
Tao».
L’allegoria, dunque, costringe a riflettere per afferrarne il
significato. È un principio comune a tutte le tecniche e a tutti i
metodi oggettivi.
Non esistono scorciatoie per lo sviluppo interiore. Lo hanno
detto tutti i maestri. Coloro che, dopo aver intrapreso il lavoro, lo
abbandonano per una via apparentemente più facile, prima o poi
dovranno ricominciare daccapo.
Ognuno di noi ha un dovere. Ognuno ha un cammino da
seguire. Ognuno ha un compito e deve svolgerlo. Conosco il mio?

Ancora una volta si ritorna all’uomo, allo studio di sé. In mezzo al


turbinio, all’andirivieni della vita ordinaria, non possiamo sfuggire
al desiderio costante, consapevole o inconsapevole, di conoscere, di
essere, di comprendere. «Se salgo sino al Cielo, Tu sei lì; se scendo
negli inferi, Tu sei lì; se afferro le ali del mattino per giungere agli
estremi confini del mare, la tua mano mi sorreggerà». «In modo
tremendo e magnifico sono stato creato [...] Le mie ossa non ti erano
celate quando venni creato nel segreto [...] e nel tuo libro erano
scritte tutte le mie membra» {Salmi).
«H libro ove sono rinchiusi tutti i misteri è l’uomo; poiché lui
stesso è il libro dell’essere di tutti gli esseri, visto che è fatto a
somiglianza di Dio» (Jakob Böhme).

290
«Io ti dico, chiunque tu sia che desideri esplorare le profondità
della Natura: se quello che cerchi non lo trovi dentro te stesso, non
lo troverai mai al di fuori. O uomo, conosci te stesso, giacché in te è
nascosto il tesoro di tutti i tesori» {Iside svelata).
«Il Regno di Dio è dentro di voi. Cercate dunque di conoscere
voi stessi, e vedrete che voi siete nella città e che voi siete la città»
{Gesù).
Indice

Nota all’edizione italiana 5

Prefazione 13

Prologo 17

I. New York e Fontainebleau (1923-25) 21

II New York e Fontainebleau (1925-26) 121

III. Il commentario di Orage a I racconti di Belzebù 169

IV. Fontainebleau (1928) 275

Poscritto 285
collana le stelle

Alicia Steimberg, Musica e orologi Federica Tuzi, Non ci lasceremo


mai Principessa Saffo, Il tutù
Peter Weissman, Penso, dunque chi sono? Memorie di un anno
psichedelico
Stig Dalager, Quei due giorni di luglio Gretelise Holm, Spiriti
ribelli Maurizio Cotrona, Malafede
Marie-Hélène Ferrari, Il destino non c entra. Le inchieste del
commissario Pierucci
Marco Bigi, Sei bellissima
Giovanni Dozzini, L'uomo che manca
Patrick Modiano, Riduzione di pena
Tarif Khalidi (a cura di), Un musulmano di nome Gesù
Janina Katz, Desiderio su ordinazione
Lù Tiancheng, Il copriletto intrecciato di storie segrete
Stig Dalager, Il libro di David

collana il raggio verde

Charles Stanley Nott, Insegnamenti di Gurdjieff. Diario di un


allievo di prossima pubblicazione:
Charles Stanley Nott, Nuovi insegnamenti di Gurdjieff Viaggio nel
mondo

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