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di
Carlo Iandolo
CURIOSITÀ DELLA LINGUA
ITALIANA
COME AVREMMO DOVUTO
DIRE SE…
Carlo Iandolo
C’è gran divario fra lingua scritta o dotta (vincolata dal rigido e
meditato controllo delle regole grammaticali) e quella quotidianamente
parlata o volgare (= usata da tutto il popolo nell’uso istintivo e immediato):
cosí il latino parlato via via sviluppò a modo suo i suoni sia consonantici
che vocalici rispetto all’austero e costumato latino scritto, propiziando i
futuri risultati formali del fiorentino-italiano.
A mo’ d’esempio, i nessi “cl, fl, pl” d’origine dotta nel tessuto
linguistico popolare divennero rispettivamente “chi, fi, pi + vocale”, come
comprovano gli Accusativi d’avvio
(claru-m >) chiaro,
(flume-n >) fiume,
(plenu-m >) pieno,
nonché “-di- e -ti-” posti fra vocali nel tempo si mutarono nei rispettivi
suoni “-zz-” opp. “ggi” e “-zz-” + vocale:
(mediu-m >) “mezzo”, antico italiano “mezo”,
(radiu-m >) “raggio”,
(caritia-m >) “carezza”…
Evoluzioni riguardarono anche le vocali toniche, cioè oralmente
accentate: cosí “e –o” brevi e in sillabe libere furono rispettivamente rese
nel ruolo di dittonghi dal suono aperto “iè – uò”, come testimoniano
(dece-m, pede-m >) “dièci, piède”,
(bonu-m, novu-m >) “buòno, nuòvo”;
egualmente “i – u” brevi a loro volta si mutarono nei paralleli suoni
popolari “é – ó” dal timbro chiuso:
(lignu-m, vitru-m >) “légno, vétro”,
(plumbu-m, diurnu-m >) “piómbo, giórno”…
Carlo Iandolo
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Carlo Iandolo
1.- La trattazione –arricchita da aggiuntive note personali– prende spunto dall’articolo di Paolo
Zolli in “Come nascono le parole italiane” , pp. 167-169 (Rizzoli-Milano, 1989).
Talune parole italiane devono la propria nascita a evidenti sbagli, cosicché
hanno assunto aspetti strani di fronte al ben diverso avvio formale o semantico.
Nel Medioevo la lettera “m” fu spesso soggetta a cattiva lettura, interpetrata
ora come tale, ora come “in” oppure “ni”: fu cosí che l’arabo “samt” fu letto *sanit,
che dette vita allo… zenít = il sole perpendicolare nel cielo (meno corretto “zènit”,
col passaggio di “s- > z-” iniziale, come l’arabo “sukkar” dette “zucchero” accanto a
“saccarina”); invece il lat. “collineare” (poi *colliniare = porre sulla stessa linea) vide
“ni” inteso come “m”, onde nacque l’attuale… collimare = esser d’accordo, esser
conformi.
Fu invece fenomeno di dissimilazione a trasformare “m…p” in “n…p” nelle
parole…nappa (ornamento, fatto con un mazzetto di fili ritorti di seta o lana all’orlo
d’un drappo) e nella pianta del nespolo, rispetto agli originari lemmi latini “mappa-m
e mespolu-m”;
cosí, circa lo scambio fra “m – n”, l’arabo “qatran” ha acquisto un finale
diverso in catrame;
egualmente il provenzale “cazerna” (dal latino *quaterna = casetta per quattro
soldati) in italiano è divenuto caserma;
e forse maggiore facilità di pronunzia favorí il mutamento del gr. “acmé =
punta” in...acne = piccole pustole in corrispondenza dei bulbi piliferi e delle
ghiandole sebacee;
al contrario, l’avverbio latino “interim” ha assunto la forma aggettivale
interinale, anziché *interimale.
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Carlo Iandolo
Quattro lemmi italiani mostrano discutibili antenati etimologici, per cui ci pare
opportuno ricostruire quelle che forse sono le legittime paternità.
1) DESINARE
Il nostro verbo, che ha valore semantico di “fare il maggiore dei pasti della
giornata”, ha paralleli formali nel lessico verbale del provenzale (“disnar”), del catalano
(“dinar”) e dell’inglese (“dinner”), nonché saltuariamente negl’infiniti d’alcuni dialetti
nostrani del Nord (piemontese “disné”, milanese “disnà”, veneto “disnare”; sostantivo
bolognese “dsnèr” = pranzo).1
La comune spiegazione etimologica fa risalire le suddette forme plurilinguistiche
all’antico francese “disner” (poi divenuto “dîner”), desunto dal latino volgare *disiunare,
a sua volta da *dis-ieiunare = “smettere di digiunare”, con una fortuita derivazione
analoga a quella che caratterizza anche il verbo italiano “digiunare”, dal tardo latino
“ieiunare” (con evidente dissimilazione della partenza *gigiunare).
1 La parola italiana mostra quasi un risvolto “dotto”, anche perché la “cena” latina nelle abitudini della
vita moderna ha assunto un ruolo e un valore non solo diversi, ma anche secondari, sostituita dal piú
comune e popolare “pranzare” (da “prandium”, in origine una rapida e leggiera colazione verso
mezzogiorno, ma oggi trasformato in consistente pasto verso le 13 – 14).
Carlo Iandolo: Quattro nuove etimologie latine 2
Noi, non eccessivamente convinti del quasi comune etimo dei due lemmi, per il
primo avanziamo un’altra ipotesi, che però ha bisogno d’un’indispensabile premessa
circa il preverbio “de-”, con la vocale lunga: esso, oltre ad altri valori (sottrattivo e
negativo), ha anche quello conclusivo-intensivo, come mostra nei verbi latini “debellare,
decèrnere, decòquere, decurtare, defatigare, defervére, definire, defungi, demirari,
depugnare”.
Quindi, sulla scia del sostantivo latino “cena = pranzo” (pasto principale, che per
lo piú avveniva in corrispondenza delle attuali ore 17 o 18, dopo le fatiche della giornata
propiziate dal favore della luce), ci pare possibile ipotizzare un avvio denominale
“decenare” e supporre che soprattutto in Francia il lemma assunse la forma neolatina
“disner”, in seguito “dîner”, irradiandosi qua e là in territori limitrofi.
Infatti è nota norma fonetica che l’affricata palatale sorda “-c-” intervocalica –
innanzi alle vocali palatali “e, i”– nel territorio transalpino addivenne all’esito “is”, con
cui la vocale precedente si fondeva se si trattava d’un’altra “i”, altrimenti costituiva con
essa un dittongo.
Ne dànno attestazione evidente gli esiti romanzi di antichi lemmi latini, quali
“dicebant” (> *diceant > diseient > disoient > disaient), *dom(i)nicella-m (> domnizelle:
sec. X > dameisele = ital. “damigella” > demoiselle), “licére” (> leisir > loisir: sost.),
“vicinu-m” (> vecinu > veisin > voisin)…, “acinu-m” (> aisne), “aucellu-m” (> oisel >
oiseau), “iacére” (> *jaisir > gésir), “macellu-m” (> ant. franc. “maisel”), “mucidu-m”
(> moiste > moite), “nocére” (> noisir), “placére” (> plaisir)”…; ma soprattutto ci piace
suggellare l’esemplificazione col lemma “decima-m”, il cui graduale sviluppo fono-
morfologico (> *dieisme > disme > dîme) pare ricalcare le quasi parallele fasi fono-
morfologiche che forse caratterizzarono inizialmente e nel tempo anche “decenare” in
terra francese: “disner2 > dîner”.
Ci dà conforto anche il valore semantico d’assieme (= mangiare in maniera
esaustiva), dal momento che la piena concettualità è rimarcata dal senso del preverbio
“de-”, che in composizione può appunto indicare compiutezza e intensità.
2 Oltre a una derivazione dall’antico francese mediata dall’Italia settentrionale in tempi molto remoti
(ove Piemonte, Lombardia ed Emilia erano state integralmente sottoposte alla colonizzazione
gallica, già realizzata alla fine del sec. V a. C.), per il nostro “desinare” può supporsi –ma meno
probabilmente– un diretto e autonomo sviluppo locale del lemma latino, forse in un dialetto del
Nord dove le affricate palatali sorde “-c-” egualmente appaiono come sibilanti sulle antiche orme
transalpine in posizione intervocalica. A mo’ d’esempio, anche nel veneto, caratterizzato da piú
lievi influssi gallo-italici specie nel Medioevo: (aceto) > aséo, (brace) > brasa, (cimice) > símese,
(luce) > luse, (lucertola) > lusèrta, (macina) > màsena, (noce) > nóse / nósa , (pace) > pase,
(piacére) > piàsare, (uccello) > osèlo, (uncino) > ansín, (vicino) > vissín / vezín , (voce) > vóse /
vósse / vóze ecc. Tuttavia analogia di forme con sibilanti sono anche in molti lemmi corrispondenti
del piemontese-milanese-bolognese, che poniamo in successione: (aceto) asil-asee-asà, (brace)
brasa-brasa-brèsa, (cimice) símes-scímes-zémmsa, (luce) lus-lus-lûs, (lucertola) laserda-luserta-
lusêrta, (macina) masna-masna-masnèr, (noce) nos-nos-nûs, (pace) pas-pas-pès, (pece) pèis-pesa-
paisa, (piacere) piasí-piasè-piasair, (uccello) osel-usèll-usel, (vicino) vizin-visin-vsén, (voce) vos-
vos-våus…
3 Cosí come nel lat. volgare *ex-eligere” (quest’ultimo composto da “e + lègere = scegliere”, con
passaggio latino delle terzultime brevi “-e- > -i-” e lenizione totale della “-g-” avanti a vocale
palatale, onde) > *xèljere > “scegliere”.
4 Suppergiú lo stesso etimo, a nostro parere, è attinente anche allo sciulià = “scivolare” del dialetto
napoletano, risalente a *exevol-i-are, col frequente fenomeno dell’aferesi e della caduta della “-v-
intervocalica”, col normale oscuramento della vocale “o > u” in sillaba atona e con l’inserimento
dell’infisso frequentativo “-i-“, senza che il gruppo “li + vocale” si trasformi nella laterale palatale
(come invece avviene nel tipo lat. “filia-m > *filja-m > figlia” ecc.). Abbiamo poi mostrato altrove
–PILLOLE LINGUISTICHE NAPOLETANE, serie 9– come il partenopeo indulse spesso all’uso
della doppia preposizione, quando si perse sentore della prima: cfr. ambettola, andivinà, annaffià,
annarià, arracquà, annasconnere (che ne contiene addirittura tre) ecc.
Carlo Iandolo: Quattro nuove etimologie latine 5
4) LINDO
Il concetto di “nitido e leggiadro, ordinato e ricercato” che si ritrova
nell’italiano “lindo” è solitamente dedotto dall’influsso dello spagnolo “lindo”, che
gli etimologisti derivano dall’Accusativo latino “legítimum = rispondente alle regole,
convenevole”.
Se è vero che a tale lemma di connessione latina può ben riportarsi il
portoghese “lídimo = legittimo, autentico” (dopo la caduta della sonora intervocalica
“-g-”; ma si badi all’antica forma “leídimo”, con la seconda vocale tonica coincidente
con quella d’avvio nella parola sdrucciola e con conservazione lenizzata del “-dimo”
finale), ci pare non confacente e troppo manierata la particolare tesi del Corominas,
che sospetta una stessa derivazione semidotta da “legítimus” con sincope
dell’affricata “-g-” e lenizione di “t > d”, in modo che la fase di passaggio *lidmo,
“por trasposición de las consonantes” e per conseguente omorganizzazione, avrebbe
generato lindo.
Quindi per il castigliano, il catalano, l’italiano e il portoghese (qui “lindo” ha
alle spalle l’etimologico “limdo” nel sec. XV) preferiamo congetturare una partenza
indipendente ma comune dal lat. “límpidu-m”, che poi subí l’evidente sincope della
sillaba centrale atona e la conseguente alterazione della nasale (da bilabiale divenuta
alveolare) per via dell’omorganizzazione: *limdo > “lindo”, suppergiú come “còmite-
m > *comte > conte”.
N.B. Ben diversi il primordio etimologico e gli affini valori semantici di
“legale, giusto, genuino” riscontrabili nei nostri lemmi dialettali dell’antico lombardo
“leemo”, del pugliese “lescitëmë” e del calabrese settentr. “lijítimu”, effettivamente
da connettere alla base d’avvio “legítimus”.
Carlo Iandolo
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Carlo Iandolo
È nota la composizione chimica del corpo umano: quasi 70% d’acqua, un po’
di ferro (tanto da poter formare cinque o sei… chiodini), 12% di carbonio, tracce di
magnesio, silicio ecc., moltissimo ossigeno (ecco perché spesso incontriamo tipi
rigonfi e pompati).
Ma se esaminiamo la composizione…linguistica delle parti d’un corpo, c’è da
restare esterrefatti:
Quasi non bastasse, alcune lettere dell’alfabeto greco entrano nella nostra
terminologia anatomica:
la sutura lambdoidea, connessione ossea del cranio, con tale denominazione
perché a forma di “lambda” minuscolo ( λ ) ;
è poi detto sigma intestinale quel tratto dell’intestino che ha aspetto del
minuscolo “sigma” finale ( σ );
ecco ancóra un osso isolato a guisa di forcella, denominato ioide perché ha una
struttura simile alla “iupsilon” maiuscola ( Y );
al proscenio anche il muscolo deltoide, che trae nome dalla forma del “delta”
maiuscolo ( ∆ );
infine l’incrocio dei nervi ottici è definito chiasmo per la somiglianza
strutturale col “chi” greco minuscolo ( χ ), che è di foggia incrociata…
Carlo Iandolo
Carlo Iandolo
È noto a quasi tutti i Cristiani il cambio –nel tempo e nei luoghi–
dei nomi tipici del primo successore di Gesú idealmente assisosi sulla
cattedra papale di Roma.
L’originario personale dell’umile pescatore, poi prediletto dal
Salvatore e scelto come Suo futuro vicario in Terra, fu Simeone, in
aramaico Shime‘on bar Yômâ = “Simeone figlio di Giona”, il cui
significato etimologico –ma non tutti i linguisti concordano, opponendosi a
quanto risulta indicato in “Genesi” (XXIX, 33)– risale alla radice shama‘ =
“udire, esaudire”, nel senso che “Dio ha esaudito” finalmente la lunga e
sospirata attesa della nascita d’un figlio.
Tuttavia –nel momento particolare della sua elezione a discepolo
investito dell’altissima missione di principale erede diretto– Simeone ebbe
da Cristo l’appellativo comune di Kepha (“tu vocaveris Cephas = tu sarai
chiamato Cefa”, secondo il Vangelo di S. Giovanni I, 42), parola che
indicava “roccia, pietra, rupe” perché la sua saldezza sarrebbe stata ben
capace di sostenere l’erigenda Chiesa, com’è ulteriormente ribadito ed
esplicitato da S. Matteo, che ci rammenta il gioco di parole di Gesú: “Tu
sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa” (XVI, 18).
Carlo Iandolo
E SVISTE MANZON
MANZONIANE
Carlo Iandolo
È nota indispensabile – in fase preliminare – fare confessione pubblica
d’un’incommensurabile ammirazione nei confronti del capolavoro manzoniano, di
modo che le nostre spulciature critiche (dinanzi a sbavature ora “linguistiche”, ora
“logiche” nell’impalcatura narrativa) ci suscitano gli stessi pudori e rimorsi di chi è
vergognosamente sorpreso nell’atto d’inseguire farfalle sotto l’arco di Tito…
RILIEVI ORTOGRAFICI 1
Risulta notoriamente scontata la scarsa familiarità del Nostro con la
punteggiatura – soprattutto per quanto attiene a un elementare uso delle virgole –
nel corso dei trentotto capitoli.
Qualche esempio rilevante?
Al poetico novenario iniziale segue una proposizione relativa “necessaria o
attributiva” (come testimonia anche il nodo costituito dall’aggettivo dimostrativo
d’apertura = quello specifico ramo…), decisamente restía alla virgola di stacco:
Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra catene non interrotte
di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello sporgere e del rientrare di quelli,
vien, quasi a un tratto, a ristringersi, e a prender corso e figura di fiume,…
Lo stesso passo, nell’edizione del 1825-’27, è punteggiato con maggiore
precisione e senza gli eccessivi spezzettamenti delle nove minipause di fiato, ridotte
solo a quattro: dopo “monti”, “golfi”, “quelli” e “fiume”.
Se è logico ed evidente che – senza l’intrusione d’elementi incidentali – non
può dividersi il soggetto dal suo verbo immediatamente vicino, il Manzoni se ne
dimentica nel cap. 8°, confondendo il rilievo oratorio dato al soggetto con una
pausa di stacco e segnalandolo mediante una virgola erronea:
Don Abbondio,2 vide confusamente, poi vide chiaro, si spaventò, si stupì;
lo stesso intento di risalto circa il lemma iniziale va ravvisato nel cap. 24°:
I poveri,[ ? ] ci vuol poco a farli comparire birboni.
Assurde sono altre virgole:
Dicendole poi il curato,[ ? ] che l’aveva mandata a prendere,[ ? ] d’ordine
dell’arcivescovo, si mise il grembiule agli occhi (cap. 24°: dove la prima virgola, lí per
lí, crea l’equivoco d’una frase relativa al posto d’un’infinitiva oggettiva);3
I provocatori, i soverchiatori, tutti coloro, [ ? ] che in qualunque modo, fanno
torto altrui, sono rei (cap. 2°: ma nell’edizione del 1825-’27 mancano la terza e la
quarta virgola);
1 Molteplici sono le oscillazioni ortografiche nel confronto tra le carte autografe (tuttavia quelle a
sostegno dell’edizione 1825 -’27 non ci sono pervenute complete nel numero, anche se
disponiamo di quinternetti aggiuntivi) e le correzioni dell’Autore apportate ora su di esse,
ora sulle copie inviate alla censura austriaca, ora sulle bozze destinate alla stampa, ora
mediante le variazioni su quinternetti aggiuntivi.
2 Nell’edizione del 1825 -’27 manca giustamente la prima virgola: “Don Abbondio intavvide,
vide, si spaventò, si stupì”.
3 Nell’edizione 1825 -’27: “Udendo poscia da lui come egli l’aveva mandata a prendere,
d’ordine e per pensata dell’arcivescovo, si tirò il grembiale su gli occhi”.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 2
Dite pure a tutti, [ ? ] che ho sbagliato io (cap. 2°), dimenticando che non può
esistere stacco fra breve reggente e infinitiva immediatamente successiva 4; ancóra:
L’aspetto di Renzo divenne così minaccioso, [ ? ] che don Abbondio, [ ? ] non
potè più nemmeno supporre la possibilità di disubbidire (cap. 2°); Ma il pensiero di
Lucia, [ ? ] quanti pensieri tirava seco (cap. 2°: per giunta, alla fine, occorrerebbe il
segnale della sbarra verticale punteggiata alla base precipua d’una frase esclamativa;
inoltre oggi il “poté” va scritto con l’accento grafico acuto per via del timbro chiuso,
come dovrebb’essere anche per “piú”)…
In una sintetica esemplificazione concreta, basta indicare che, nell’arco del
primo e del secondo capitolo, abbiamo contato oltre trenta casi di punteggiatura
(specie virgole) decisamente contestabili e una ventina di segni discutibili.
Ancóra sorprende il momento in cui don Rodrigo, beffeggiando la tronfia
millanteria di quando il Griso si preparava al rapimento di Lucia (cap. 7°: “Lasci fare
a me”), a tentativo fallito ironicamente ne echeggia l’espressione, questa volta resa
dal Manzoni in forma di “scriptio continua” mediante un “signor lascifareame” (cap.
11°), ortograficamente scorretto. Infatti occorrerebbe non solo la doppia consonante
ufficialmente richiesta dalla preposizione “a” nei composti (cfr. accanto, affatto,
Castellammare) ma anche l’accento grafico, indispensabile per tutti i lemmi almeno
bisillabici di tipo tronco: *signor lascifareammé (cfr. aldiquà, Oltrepò, rossoblú,
trentatré)…
Un altro rilievo –di gravità solo apparente– va mosso al Manzoni circa
l’orientamento dell’accento grafico, giacché Egli usa il segnale grave là dov’è
opportuno l’acuto per denotare il suono fonico “chiuso”: chè - fuorchè - giacchè - nè -
perchè - potè - purchè - sè - sicchè - ventitrè (= ché - fuorché - giacché - né - perché -
poté - purché - sé - sicché - ventitré).
A sua discolpa va precisato che la distinzione grafica (limitata alla vocale “e”
finale di parola tronca) è conquista della grammatica novecentesca,5 facilitata anche
dalla diffusione della macchina da scrivere con la disponibilità del duplice segno;
ancóra, che ai suoi tempi la grammatica scolastica aveva di mira soprattutto la
“lingua scritta”, prestando scarsa o nessuna attenzione all’effettiva pronunzia
collegata alla lingua viva, poi sí cara alla tesi del Nostro (fiorentino parlato dalle
persone cólte).
4 Piú precisa la punteggiatura nel 1825 -’27, ove manca la prima virgola al termine della
principale.
5 Essa ha anche distinto le grafie tipo “po’ = poco” (anziché “pò”…) nell’apocope speciale. In
realtà, in avvio dell’Ottocento sono rari i casi in cui –avendo di mira la lingua scritta– già
si tentò il duplice orientamento dell’accento grafico per diversificare la pronunzia. Nel
1835 Carlo Mele pubblicò a Napoli un testo didattico (“Cenno sulla diritta Pronuncia
italiana”) per segnalare il timbro aperto o chiuso delle vocali toniche “e-o”, anche al di là
di parole tronche, mediante l’accento grave o aperto; la sua proposta fiorentineggiante
ebbe un’eco maggiore nel secondo Ottocento nel lessicografo Policarpo Petrocchi, che
con scarso successo propose di adottare e adattare grafie piú fedeli alla dizione tipica della
città gigliata.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 3
SOLECISMI MORFO-
MORFO-SINTATTICI
Ai nostri sensi linguistici risulta sfasato l’accordo maschile dell’aggettivo nel
binomio questo Milano di cap. 34° (mal sostenuto da Ilio raso due volte= “rasa” nel
celebre carme sepolcrale di foscoliana memoria), giacché i nomi di città propriamente
usati risultano femminili, eccetto “Il Cairo”; invece appare al limite dell’accettabilità
È Pescarenico una terricciola…poco discosto dal ponte (cap.4°), ove forse il Manzoni
avrà preferito la strana funzione avverbiale del lemma.
Ancóra: nelle proposizioni le montagne erano mezze velate di nebbia (cap. 21°)
e le usciva di bocca dell’erba mezza rosicchiata (cap. 28°) è sfuggito all’Autore che,
dinanzi ad aggettivi e participi, “mezzo” funge da avverbio, laddove è aggettivo e
giustamente variabile davanti a sostantivi ufficialmente espressi: vede mezza la faccia
del Griso (cap. 33°) e amava i mezzi ducatoni (34° capitolo).6
6 Quindi, nel nostro eloquio giornaliero, bisogna evitare e condannare espressioni tipo “le tre e
mezza” (anziché “mezzo”), trattandosi di lemma singolo e, in quanto avverbio a sé stante,
invariabile nella forma di base. Una sola eccezione per un uso ormai stereotipato: “la
mezza”, cioè “le ore dodici e… mezzo”.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 4
Infine, durante il colloquio con Perpetua per permettere alla giovane coppia di
salire da don Abbondio, Agnese per far vedere che stava attenta, o per ravviare il
cicalìo, diceva: “sicuro: adesso capisco: va benissimo: è chiara: e poi? E voi? E voi?”
Come il precedente “sicuro”, anche il parallelo aggettivo neutro dovrebbe
gemellarsi nella forma “è chiaro”, non essendo eccessivamente giustificabile
l’accordo con un sottinteso sostantivo femminile “faccenda-questione” ecc.7
RILIEVI LESSICALI
Qua e là, compaiono usi impropri di lemmi: ecco “celibe” (anziché “nubile”)
attribuito a Perpetua nel 1° capitolo;8 egualmente, se è ormai idiomatica la frase
raddrizzar le gambe ai cani (anch’essa nel cap. 1°), non è corretto l’uso di riunì le
otto gambe dei capponi (cap. 3°), tant’è vero che a poca distanza successiva il
Manzoni ritocca con quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe.
E logicamente inaccettabile (pur se vivido nell’eloquio dialettale) appare il
frequentissimo verbo “maritarsi” riferito alla condizione specifica dell’uomo o
generica della coppia, al rispettivo posto di “ammogliarsi” e “sposarsi” : dapprima in
bocca ai bravi (lei ha intenzione di maritare domani Renzo Tramaglino e Lucia
Mondella?) e poi a don Abbondio, sia con Ragazzacci, che…s’innamorano, voglion
maritarsi, sia con Son io che voglio maritarmi?” (sempre nel cap. 1°), sia con V’è
saltato il grillo di maritarvi rivolto a Renzo (cap. 2°); e quest’ultimo domanda a
Perpetua: Spiegatemi meglio voi perchè non può o non vuole maritarci (cap.2°), cosí
come Agnese dice al cardinale: e avesse subito maritati i miei poveri giovani (24°
capitolo)9, e come conferma il verbo ripetuto molteplici volte nel capitolo terminale
del romanzo…
7 Il femminile è invece motivato nell’edizione del 1825 - ’27: “la è chiara” (in quella del 1840 -
’42 è saltato il…“la”).
8 Rarissimo e improprio l’uso del lemma riferito a donne: cfr. “Di nuovo appare la celibe ed
audace Regina del popolo Termodonzio” (Giordano Bruno).
9 Tale lemma è in contrasto con l’uso generico e corretto di cap. 2° (con la lieta furia d’un
uomo…che deve in quel giorno sposare quella che ama), di cap. 3° (Renzo: Non siamo
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 5
Rientrano nel settore anche talune tautologie: il doppio pleonasmo in ognuna
di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e propria (cap. 1°);
quando Perpetua disse: il signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla: Ciò
detto, le salutò tutte in fretta (cap. 2°);
la stessa ripetizione a breve distanza disse…Ciò detto ritorna nel cap. 34° a
proposito della madre di Cecilia.
Pure il binomio del titolo, lí per lí giustificabile coi significati fondamentali del
latineggiante “promessi = fidanzati” (cap. 7°: Agnese si staccò dai promessi) e di
(“sponsi = promessi”, evolutosi in quello moderno) “sposi = ormai coniugi”, lascia
poi perplessi di fronte a usi promiscui e pasticciati nel prosieguo:
il palazzotto di don Rodrigo più in su del paesello degli sposi (= fidanzati: cap.
5°), gli sposi si strinsero al muro e poi gli sposi rimasero immobili nelle tenebre (cap.
8°);
lo strano accoppiamento i due sposi rimasti promessi (cap. 8° = i due coniugi
mancati e, quindi, ancora in attesa del matrimonio), dove proprio l’eco ancóra latina
di “sponsi = fidanzati” conferisce valore pleonastico al sintagma.
Senso contemporaneamente miscelato di “fidanzato” e di “(ormai quasi)
coniugato” è nel cap. 7°, quando l’oste delle polpette risponde a Renzo circa i tre
strani forestieri presenti nella locanda:
E che diavolo vi vien voglia di sapere tante cose, quando siete sposo, e dovete
aver tutt’altro in testa?
Inutile precisare come la semantica moderna dei rispettivi lemmi sia ben
distinta nell’ultimo capitolo, dopo il matrimonio:
Venne la dispensa, venne l’assolutoria, venne quel benedetto giorno: i due
promessi andarono, con sicurezza trionfale, proprio a quella chiesa, dove, proprio per
bocca di don Abbondio, furono sposi.
ancora marito e moglie), di cap. 6° (Lucia: io voglio esser vostra moglie), di cap. 7°
(Gervaso: Che bella cosa…che Renzo voglia prender moglie)…
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 6
VARIETÀ DI CONTRADDIZIONI
Molteplici e notevoli sono ulteriori instabilità nel romanzo.
Alla fine del 1° capitolo, si alternano – a stretto giro espressivo – Giunto su la
soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla bocca,10 a meno che non si
tratti d’oscillazione ortografica del momento che, piano piano, portò l’enclitica
all’ufficiale unione anche scrittoria.
Egualmente colpisce – pure in tanta predilezione per lemmi soggetti ad
apocope speciale (col doveroso ricorso all’apostrofo: a’ = ai, co’ = coi, de’ = dei, ne’
= nei, que’ = quei, po’ = poco) – anche l’incoerenza di fronte agl’imperativi fa’, sta’,
va’…, molto raramente caratterizzati dall’esatta grafia.
A mo’ d’esempio, ecco nel cap. 15° l’ingiunzione dell’oste a Renzo:
Sta zitto, buffone; va a letto; invece, quando l’Innominato parla al Nibbio,
l’ortografia diventa contraddittoria a brevissima distanza:
e va di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai, e poi
no: va’ a riposarti (21° capitolo).11
Su tale scia d’instabilità, si registra solo talvolta la giusta scrittura di “ché”
(ma, quando decide d’accentarlo graficamente, il Manzoni ricorre all’erroneo segno
grave, come nel cap. 15° :
Chè, per quanto Renzo avesse voluto tener nascosto l’esser suo,…) col valore
temporale di “allorché” o causale di “perché”, ov’è evidente il processo d’aferesi:
Sta zitta: Non dico chi sa qualche cosa; che allora uno è obbligato a intendere
(cap. 24°).
Ma c’è un altro tipo d’incongruenza involontaria, che però quasi rende il
“cristiano” Manzoni poco osservante d’una rigida norma morale, in vigore fino a
pochi anni fa nella Chiesa: il divieto assoluto di mangiare carne il venerdí, per non
incorrere in peccato mortale e nell’obbligo conseguente della confessione-
penitenza.
La ricostruzione del calendario circa il 10 novembre 1628 ha permesso
d’individuare nel venerdí il giorno settimanale in cui Renzo – nell’osteria del paese
con Tonio e Gervaso al tramonto del sole – gusta un piatto di polpette, che le simili
non le avete mai mangiate, secondo la vanitosa asserzione pubblicitaria del locandiere
(7° capitolo).
Polpette di carne? Di venerdí?
Ma forse “don Lisander” non si rese conto di tale coincidenza; oppure pensò
a polpette…senza carne, secondo alcuni dei quindici tipi di composizione della
pietanza che ci risultano da una ricetta culinaria ritrovata proprio in casa-Manzoni.
10 Dobbiamo qui intendere sicuramente il dito indice della mano destra. Non saremmo cosí
categorici di fronte a quella di cap. 6° riguardante fra’ Cristoforo (il frate mise la mano sul
capo bianco del servitore) giacché il cappuccino risulta…ambidestro, pur se
tendenzialmente sinistroide, come si deduce dal cap. 5° (appoggiò il gomito sinistro sul
ginocchio, … e con la destra strinse la barba e il mento) e 6° (mettendo la destra
sull’anca, alzando la sinistra con l’indice teso verso don Rodrigo).
11 Nell’edizione 1825 -’27 entrambi gl’imperativi sono erroneamente privi d’apostrofo.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 7
SBAVATURE DI LOGICA
LOGICA
Prima di soffermarci anche su alcuni illogismi trasparenti dal tessuto narrativo
soprattutto del capitolo 8°, occorre qui un breve ma minuzioso tracciato topografico
dell’ideale paesello dei due “promessi”, per il quale Olate o Acquate o Maggianico si
contendono il ruolo d’ispirazione realistica.
12 Tale particolare è desumibile dalla duplice ma inversa direzione di marcia dei fuggiaschi (cap.
8°) dopo il fallito tentativo di matrimonio presso don Abbondio.
13 Quindi il cappuccino, il giorno 9 novembre 1628, percorre piú di dieci miglia (= oltre quindici
chilometri), secondo le indicazioni dei capitoli 5°- 6°- 7°: due e mezzo la mattina fra il
convento e la casa di Lucia, otto il pomeriggio fra Pescarenico e la dimora del signorotto.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 8
Quanto a Pescarenico, è una “terricciola” distante un miglio dal centro del
villaggio; si trova al livello del lago e vicino allo sbocco del Bione. È un torrente a
pochi passi da Pescarenico (cap. 8°) sulla riva sinistra ed orientale, poco discosto dal
ponte (cap. 4°) e quindi da Lecco (cap. 1°); chi, come i nostri protagonisti, s’imbarca
alla riva ch’era stata loro indicata da fra’ Cristoforo (cap. 8°) e s’indirizza verso la
spiaggia opposta (= sobborgo di Garlate), sulla terraferma verso Sud trova dapprima
Monza a circa venti miglia e poi Milano.14
14 Da Garlate li trasporta il barocciaio, arrivando a Monza dopo il levar del sole del sabato 11
novembre (cap. 9°); poi egli guida le due donne al convento del padre guardiano e resta
con loro fino all’incontro con la “signora”, tornando a Pescarenico verso le ventitrè (=
ventitré: cap. 11°) dello stesso giorno. Frattanto Renzo aveva súbito proseguito a piedi per
Milano (altre dieci miglia: cap. 11°), all’aria fresca della mattina.
15 Invece l’apparente sfasatura del cap. 29° (non era possibile trovar nè un calesse , né un
cavallo, né alcun altro mezzo rispetto al brano poco distante in cui don Abbondio,
affacciato alla finestra e piagnucolante, prega i frettolosi passanti: fate la carità al vostro
pover curato di cercargli qualche cavallo, qualche mulo, qualche asino) trova una
giustificazione nell’ironia manzoniana: all’assoluta irreperibilità fa contrasto l’assurda
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 9
b) Nel capitolo 9° un’altra sfasatura di “logica sessuale” è offerta dalla monaca di
Monza allorché, rivolta a Lucia, usa una strana desinenza maschile: A voi credo…Ma
avrò il piacere di sentirvi da solo a solo.
Avrà forse influito la forma idiomatica, ma questo tipo desinenziale a noi è
poco gradito, come nel “Canto notturno…” di fattura leopardiana: e in sul principio
stesso – la madre e il genitore – il prende a consolar dell’esser nato.– Poi che
crescendo viene, – l’uno (= l’una) e l’altro il sostiene (vv.42-46).16
c) 10 novembre 1628: mentre il sole cadeva, Renzo con Tonio e Gervaso si reca
all’osteria prima di tentare il matrimonio a sorpresa la sera.
Lí trovano tre bravi spediti dal Griso: uno… sull’uscio, a osservar ciò che
accadesse nella strada (7° capitolo),17 gli altri due nell’interno, intenti a giocare alla
mora.
Renzo coglie uno dei due ribaldi con tre ditacci tesi e allargati, e avendo la
bocca ancora spalancata, per un gran sei che n’era scoppiato fuori in quel momento: se
provate anche voi a pronunziare “sei”, vi accorgerete che la semivocale finale del
richiesta del prete (qualche = indefinito plurale “alcuni…”) che, in preda alla paura,
facilmente fuoriesce dalla realtà…
16 Un caso analogo è offerto dallo “Pseudolus” di Plauto (vv. 1259-60): “Nam ubi amans
complexust amantem, ubi labra ad labella adiungit, – ubi alter alterum (= alteram)
bilingui manifesto inter se prehendunt…= quando uno abbraccia l’amante, quando accosta
le sue labbra alle delicate labbra di lei, quando s’avvinghiano l’uno all’altra in un lungo
bacio…
17 Un’ulteriore svista, indirettamente collegata al Manzoni, riguarda un disegno di Renato
Guttuso (la prima edizione illustrata del romanzo offerta dall’Einaudi torinese risale al
1960), il quale rappresenta il bravo di sentinella armato solo d’uno spadone, laddove
l’Autore precisa che teneva in una mano un grosso randello e che arme propriamente, [ ?
] non ne portava in vista; …ma anche un fanciullo avrebbe pensato che doveva averne
sotto quante ce ne potevano stare.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 10
dittongo ha in sé suono chiuso, cosicché le labbra restano non dilatate ma vicine e
quasi completamente strette !…
d) Rilievi vanno avanzati anche per i due bravi che giocano alla mora: essi sono
seduti (invece, di solito, si è in piedi per dare forza ai bicipiti e slancio al tiro
digitale), gridando tutt’e due insieme…e mescendosi ora l’uno or l’altro da bere, con
un gran fiasco ch’era tra loro (cap. 7°).
Ma appaiono oltremodo strane le continue e scambievoli bevute di vino;
proprio la legge del gioco, invece, impone che il succo di Bacco rappresenti il premio
precipuo del vincitore, alla fine della competizione gestuale-orale…
e) Dopo la sosta all’osteria e dopo l’ora dell’ave maria (la minuscola è opera del
Manzoni!), Renzo con Tonio e Gervaso preleva Lucia e Agnese dalla loro casa,
dirigendosi verso la dimora di don Abbondio sul far della sera.
Nel frattempo, anche il Griso è…al lavoro presso l’abitazione ormai vuota
delle due donne, insieme con otto “bravi” e col Grignapoco, ch’è di Bergamo e ha
prerogative dialettali di “dicitore” tali da depistare le indagini.
Due ribaldi, scavalcando il muricciolo di cinta ch’era davanti alla casa
(evidentemente l’uscio di strada era stato chiuso) si nascosero nel cortile, vicino
all’albero di fico; il Griso picchiò fuori della strada e, poiché nessuno rispose e venne
ad aprire, fece calare un altro con l’ordine di sconficcare adagio il paletto, per aver
libero l’ingresso e la ritirata (cap. 8°).
Semplice e naturale un’obiezione: ma tale operazione d’apertura dall’interno
del cortile non poteva essere svolta dai due ribaldi che già erano dentro, senza
bisogno del terzo “bravo” che a sua volta scavalcasse il muretto di cinta? A meno che
ciò non sottolinei i limiti mentali del Griso, regista non solo “ritardatario” ma anche
“ritardato” nell’attuazione del piano…
18 Un altro piccolo rilievo sintattico: la frase dipendente è atipicamente presentata da sola nel
periodo, senza una reggente-principale, suscitando un immediato senso d’incompletezza e
di sospensione espressiva.
Carlo Iandolo: Sviste Manzoniane 12
Il trio – sicuramente inceppato nella velocità dalla presenza delle donne (specie
di Agnese, ultraquarantenne) – può aver percorso una cinquantina di metri o poco
piú, certo superando la parrocchia (infatti, incontratisi con Menico, “Voltarono,
s’incamminarono in fretta verso la chiesa, attraversarono la piazza” di essa); invece il
ragazzotto dodicenne – che nel punto opposto del paese è partito lievemente prima –
in proporzione e in virtú sia della giovinezza che della corsa sfrenata può aver
ricoperto almeno trecento metri quasi nello stesso spazio di tempo…
Ne deriva la conferma che anche per i Grandi è ben valida l’aurea sentenza di
Terenzio Afro (Heaut. 77), secondo cui
Homo sum: humani nihil a me alienum puto.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
La formazione e l’affermazione del cosiddetto “italiano”, cioè il
mezzo espressivo usato unitariamente per moltissimi secoli (in scritti ben
curati di poesia e prosa) al di là e al di sopra dei dialetti parlati dai letterati
nelle rispettive zone di nascita, merita un breve chiarimento atto a
giustificare la fortuna del “dialetto fiorentino” (che lo concepí, nutrí e
sostenne) rispetto agli altri, fino a diventare l’ufficiale ed esclusiva “lingua
colta” d’Italia.
Come tale priorità sia stata possibile è facilmente spiegabile dopo
una rapida premessa.
In ogni tempo e luogo risultano due i modi espressivi:
a) tramite il parlato quotidiano e comune, che tuttavia ha lo
svantaggio d’una correttezza espressiva talvolta approssimativa, data
l’estrinsecazione spontanea e immediata, solo istantaneamente meditata nel
dinamico flusso elocutivo;
b) mediante lo scritto (= lingua letteraria), che raffina e rifinisce il
“parlato” come un setaccio elimina i grumi di farina; ne è riprova il
frequente ricorso alla “brutta copia”, mediazione attraverso cui miriamo a
rincorrere forme corrette ed eleganti.
2
Fu appunto la netta diversità espressiva dell’etrusco a favorire l’accettazione quasi
integrale del sistema linguistico di Roma, conformandovisi piú strettamente che
altrove nell’àmbito fono-morfo-sintattico; tuttavia non si può affermare che il
dialetto fiorentino attuale coincida completamente col cosiddetto “italiano”
(specialmente parlato).
3 L’italiano letterario , oltre che in Toscana (con Firenze centro d’irradiazione), si
diffuse soprattutto e innanzitutto a Roma, dove da ogni parte d’Italia convenivano
schiere di clericali forzatamente costretti a parlare la comune lingua “italiana”.
Cosí il romanesco, oltre a subirne gl’influssi (tanto da risultare alquanto vicino al
fiorentino dal secolo XVI in poi), fu il primo dialetto che –anteriormente all’unità
nazionale– con maggiore facilità permise di passare dall’uso linguistico locale a
quello dell’italiano letterario.
Carlo Iandolo: Nascita della Lingua Italiana. 4
Come nota finale va ribadito il rapporto fra l’odierna lingua
comunemente parlata e i dialetti: dapprima una decisa ripulsa delle parlate
locali considerate perturbatrici e inquinanti (anche in conseguenza
dell’ostracismo voluto dal Fascismo), poi via via un certo avvicinamento
per attingere ai molteplici serbatoi lessicali ed espressivi soprattutto nella
seconda metà del 1900 e grazie anche all’apporto di scrittori prosastici, di
film e di prodotti commerciali di largo consumo d’ogni provenienza.
Poi, esaurito o quasi il reciproco assorbimento nell’incontro (perché
anche i dialetti hanno subíto influssi esterni, onde l’affermarsi d’un
“italiano regionale” in ciascun seno della nazione), la nostra lingua
popolare si è notevolmente aperta a nuovi influssi dovuti alle lingue
straniere, fra cui notevole importanza ha assunto specie l’inglese: una
rapida e conclusiva esemplificazione ci attesta la vitalità attuale di lemmi
quali
“big, camping, charme, chipsters, club, computer (con tutto il
dovizioso linguaggio tecnico connesso), doping, dribbling, e-
mail, fast food, hot dog, lifting, on line, mobing, piercing,
pressing, shopping, star, stretching, trilling, under skorr, vip”,
con continuità d’aperture e d’aggiornamenti esterofili cui spesso è difficile
tenér dietro, perché è noto che la lingua obbedisce non solo al bisogno ma
anche al gusto, operando spesso scelte dettate esclusivamente dall’estetica
o dalla moda del momento4.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
Pulcinella1
Sono molteplici i problemi attinenti alla “maschera teatrale” di
Pulcinella.
Innanzitutto si pongono gl’interrogativi dell’origine storica, cioè
quando-dove-come essa conobbe il suo avvio.
Pare certo che la nascita artistica vada collegata alle famiglie degli
“zanni” del Nord-Italia (ove “zanni” è equivalente di “attori” tramite un
nome reso comune ma derivato da quello proprio di “Giovanni”);
precisamente l’area va localizzata in àmbito lombardo-veneto, cosí come
va segnalato il sospetto che il personaggio di Pulcinella in origine nacque
come variante di quello d’Arlecchino (non ancóra multicolore) e con la
stessa iniziale “maschera bianca”.
Molteplici sono le conferme della creazione settentrionale di
Pulcinella.
Il ballo dei cosiddetti “matti” vestiti alla Pulcinella alla corte della
mantovana Isabella di Gonzaga nel 1502.
Zanni.
Ecco lo “zanni” pulcinellesco disegnato da Maddalena Campiglia per
l’edizione degli “Amorosi inganni” del Gonzaga, pubblicata nel 1592.
Ancóra: la voce squittente di Pulcinella è simile a quella di taluni
istrioni veneti, che a tal fine usavano la pivetta o lo “sgherlo”.
1
Taluni particolari dati di documentazione sono tratti dalla “Storia del teatro
napoletano” di Vittorio Viviani (Guida Editori- Napoli, 1969).
Carlo Iandolo: Pulcinella 2
Risulta poi anche un “Pulcianello” nella raccolta del 1618 a
proposito di commedianti dell’Arte nella Mc Gill University di Montréal;
infatti gli “zanni” (probabilmente veneti), prima di finire in Canadà,
avevano offerto spettacoli nel 1611 in Inghilterra, ove erano ben noti.
Punch. Polichinelo
Infine dal Nord-Italia ci fu una piú ricca esportazione europea della
maschera: “Polizenelle” nostrani si trovano anche a Norimberga,
Francoforte e Berlino intorno al 1649, poi in Inghilterra (Punch)2 e in
Spagna (Pulchinelo, poi incarnato nel piú recente “Don Cristobal”).
2
L’ufficiale grafia maiuscola rispecchia sia il corrispettivo inglese del nome proprio
“Pulcinella”, sia –degradato a sostantivo comune– il significato di “fantoccio,
burattino”.
Carlo Iandolo: Pulcinella 3
2) Un secondo problema riguarda la sua traslazione nel Sud e la
conseguente caratterizzazione della maschera nella nostra terra; a tal fine è
molto probabile
un’acquisizione graduale dei caratteri fisici e interiori da parte di
Pulcinella:
forse dapprima egli fu (anche da noi) confuso con la maschera
contadinesca e tipicamente meridionale di Pascariello (il cui cognome
iniziale, che fu Péttola per una bambinesca e ridicola falda di camicia
prominente dal didietro, fu poi mutato in quello di Cetrulo).
Cetrulo.
Solo in seguito le due maschere meridionali ebbero ruoli distinti,
come risulta nello scenario della “Trappolaria” di Gianbattista Della Porta
(1535-1615), ove però Pulcinella è un mercante ancóra “alla veneta” e suoi
servitori sono Pascariello Péttola e Coviello Ciàola.
Quanto all’assunzione di caratteri già piú vicini a quelli definitivi in
àmbito meridionale, ciò forse avvenne agl’inizi del Seicento; secondo
un’illazione di Ulisse Prota Giurleo, il battesimo può collocarsi nella
stagione teatrale del 1609, mentre alcuni richiamano Silvio Fiorillo come
inventore o primo rifinitore della maschera “alla napoletana” nel suo
scenario del 1632.
Maccus
È certo che piàn piano si delineò il completamento della figurazione
sia fisica (allampanato, camiciotto bianco, coppolone, maschera nera, naso
gallinaceo, voce squittente, doppia gibbosità), sia caratteriale (Pulcinella
come simbolo dello “sciocco”, con connotazione decisamente campagnola
e cafonesca, data la sua origine localizzata ad Acerra); un povero diavolo
“stupidello” ma un po’ sornione, grande scansafatiche e fecondo inventore
d’espedienti per sfuggire a una cronica miseria, cosicché invariabilmente
finisce smascherato e bastonato, tuttavia senza demoralizzarsi mai, essendo
sempre proclive al canto e ad affrontare la vita con una semplice filosofia
di rimessa…
Ma nel nome c’è una particolare stranezza che –ancóra una volta–
avvalora l’ipotesi settentrionale della creazione artistica di Pulcinella:
infatti il suffisso “-ella” è di genere femminile (si pensi alla
contrapposizione fono-morfologica fra ’a bbammen-èlla rispetto al
maschile ’o bbammen-iéllo), cosicché la pedissequa traduzione letterale –
piú che quella di “pulcino”– dovrebbe risultare “gallinella”, in base al
lemma dal profilato sesso muliebre che, come dice il Croce, “non si trova
nel vocabolario napoletano di quei tempi”.
3
Nel sottofondo si celano allusioni e valori semantici d’attinenza quali “mandare a fare
in culo (= mandare a quel paese, al diavolo), pigliare per il culo (= prendere in
giro), prenderlo in culo (= esser vittima d’un inganno)”.
Carlo Iandolo: Pulcinella 7
Questo in sintesi il ritratto storico, caratteriale ed onomastico della
nostra maschera, la cui figura teatrale –ribadiamo– incarna quella del
bietolone-vittima talvolta rischiarato da impennate di lucidità che fruttano
improvvise ribellioni contro ingiustizie e soprusi, ma anche lampi di
furbizia ora positiva, ora socialmente negativa: un po’ come nell’anima del
popolo napoletano, che egualmente alterna ingenue credulità beffeggiate e
sopraffatte a fiammate di giuste e insofferenti rivolte di riscatto, nonché
momenti di scaltrezza mal prevaricante, sempre cantando e affrontando la
vita dietro il paravento d’una filosofia elementare, puntualmente
all’insegna dell’oraziano “carpe diem!”.
di
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
Gli stereotipi sono parole convenzionalmente ricorrenti e ormai
standardizzate, cioè fossilizzate in una formula fissa che non sempre coincide con la
logica naturale o con le corrette norme grammaticali.
Va súbito precisato che “giorno” –dal latino “diurnu-m (tempus)”, come del
resto l’apocopato “dí” proviene da “die-m– indica in sé l’arco estensivo delle
ventiquattr’ore (da mezzanotte a quella successiva), laddove i saluti “buongiorno e
buondí” coi benauspicanti aggettivi incorporati hanno un duplice effetto limitativo.
Innazitutto sono formule augurali divenute temporalmente ristrette, valide solo
per l’arco della mattinata, anche se in alcune regioni si protraggono fino alla sera;
inoltre sono divenute ormai fredde ed inerti, stantie e meccaniche, a cui si risponde
con un’eco egualmente abitudinaria e distaccata, anonima e monotona; ma se invece
usaste la variante –del tutto equivalente– “buona giornata” (periodo compreso fra la
mattina e la sera, in relazione al tempo atmosferico o lavorativo, e divenuto di nuovo
temporalmente estensivo al totale arco quotidiano), l’espressione tornerebbe súbito
gradita e ricambiata con vivido e insolito calore.
Va infine segnalato che qualcosa d’analogo alla stereotipia –ma questa volta
nell’àmbito del “genere”– avviene anche per sostantivi (in prevalenza ex aggettivi e
participi) di fruizione piú o meno recente, rigidamente fermati dall’uso comune in
una consacrazione ormai “unisex”:1 ecco, accanto ad “avvocatessa” poco accettabile,
“avvocato” applicato anche alle donne (ma noi preferiamo “avvocata”, non solo sulla
scia della preghiera del “Salve, Regina” e poi della supplica del Beato Bartolo Longo
alla Madonna del Rosario, ma anche in ricordo della collaterale e corretta resa
femminile del participio sostantivato maschile “advocatu-m = chiamato accanto).2
1 Invece ben diverso è il gruppo lessicale dei “monogeneri formali” attribuiti a persone, cioè con
un unico articolo per indicare i due sessi contemporaneamente: ess. “l’architetto, l’assessore,
il chirurgo, il console, il fantasma, il magistrato, il ministro, il prefetto, il pretore, il questore,
il sindaco, la sentinella, una star (del cinema), una stella (dello spettacolo)”…
2 Appaiono maggiormente ridicole e stridenti, stravaganti e sconclusionate espressioni con
aggettivi della prima classe usati sia al maschile che al femminile, cioè con riferimento a
donne collegate alla sfera del diritto: “un bello avvocato – una bella avvocato”.
Carlo Iandolo: 06. Stereotipi linguistici... 3
Ecco ancóra “preside, presidente, transessuale, vigile + prof”…
(dal latino: “che siede avanti, che dirige; che presiede; chi ha assunto caratteri
anatomici e fisiologici dell’altro sesso dopo trattamento medico-chirurgico; chi
vigila”)
e “giudice” al posto dell’insolito e forse ridicolo titolo femminile di
“giudicessa” (mentre “giudichessa” indicò la donna che governava un giudicato nella
Sardegna medievale),3 sostantivi ambigeneri per i quali saremmo propensi a
distinguere il duplice sesso grammaticale mediante il rispettivo ricorso agli articoli
singolari “il…, la…”, com’è per “il – la badante, il – la commerciante, il – la custode,
il – la danese, il – la nullatenente, il – la prof, il – la penitente…, la eco – gli echi”
ecc.
Questione solo di gusto personale nei cinque lemmi della penultima schiera, da
noi riportati in grassetto?
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
È nota la caratteristica dei responsi sibillini legati al culto apollineo,
volutamente espressi con maliziosa e infida “abilità-mobilità” espressiva,
in modo da piegare lo svolgersi favorevole o contrario d’un evento ai
contrastivi significati d’un vaticinio preannunciato in forma capziosamente
bivalente.
Il piú comune esempio di “ambage, in che la gente folle – già
s’inviscava pria che fosse inciso – l’agnel di Dio…” non risale alla pura
classicità latina, ma è dovuto alla penna di fra’ Alberico, un cronista
medievale del XIII secolo.
Semplice trascrittore da fonte altrui o diretto autore della frase, da
allora in poi il monaco consegnò alle successive generazioni acculturate
una formula accreditata da un’intrinseca equivocità, per noi solo apparente:
Ibis redibis non morieris in bello.
Il bifrontismo semantico del responso poggerebbe –per passiva
accettazione plurisecolare– sulla diversità di punteggiatura e di
gemellaggio della negazione col verbo precedente o seguente.
Infatti la ricostruzione del mosaico nel senso “Ibis, redibis; non
morieris in bello” (= andrai, tornerai; ossia non morrai in guerra) risulta
antinomica rispetto alla successione lessicale “Ibis, redibis non; morieris
in bello” (= andrai, non tornerai; ossia morrai in guerra), con una
contrastata soluzione salvifica oppure letale per un soldato in procinto di
partire e bramoso di conoscere in anticipo l’esito personale dell’avventura
bellica.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
Vi offriamo due famose liriche, dovute al geniale estro creativo di Mattia
Buttarini, ove è evidente il suo felice tentativo “dotto” di conciliazione linguistica fra
l’ieri e il “suo oggi”.
A MARIA
Salve, Regina! Te saluto, o pia,
tutela in nostra insidiosa vita,
in nostra infelicissima procella
benigna stella.
Per chi non ne abbia avuto sentore, precisiamo che le due poesie risultano –al
tempo stesso– latine ed italiane, attestando ancóra una volta la vicinanza fra le due
lingue, il cui rapporto va però ben precisato.
È noto che il “latino volgare o parlato” non solo è all’origine della lingua
italiana, ma –fondamento spesso trascurato– ha avuto e ha un’evidente
sopravvivenza nel trascorrere del tempo, in una continua fase d’adeguamento e
d’aggiornamento, anche se l’ufficiale etichetta esterna di “lingua italiana” sembra avér
interrotto e distinto quel continuo e instancabile legame esistenziale.
Come un bimbo nasce dalla madre, ma poi il frutto di tale prezioso parto ha
intrinseca ed estrinseca continuità, prendendo a crescere e a mutare gradualmente
nell’età e nella fisicità, nel bagaglio d’esperienze e nel carattere, cosí il latino ha
sempre proseguito e attualizzato nei vari tempi la sua struttura linguistica di fondo,
confermando la sua presenza ineliminabile nello scorrere delle continue quotidianità
secolari.
Al bimbo di 1 anno, di 10…30…60 anni ecc., corrisponde l’evoluzione del
“latino parlato” del I…III…VII…XII…XVIII…XXI secolo ecc., anche se poi a un
tratto ha avuto la consacrata e distintiva denominazione di “lingua italiana”; ma che la
struttura linguistica aggiornata di Roma antica sia ancóra vivida, esistono varie
attestazioni, di fronte a cui ci limitiamo qui a due soli casi similari ben evidenti.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
La lingua ha spesso risvolti imprevedibili, come quando talune parole
contraddicono il lontano significato di partenza, barcamenandosi in una diversità di
duplice vita morfologica, semantica ed espressiva.
Si pensi all’aggettivo latino (Christianu-m >) cristiano che, passato in
Francia nella forma “cretin”, è tornato in Italia nel negativo appellativo cretino,
certo per via dell’umile atteggiamento socio-morale proclive all’amore e al
perdono, fino addirittura a porgere l’altra guancia dopo il primo schiaffo;
cosí l’affermativo (forse lat. verecundiu-m >) “pudico” – tramite la
caduta delle due sillabe iniziali, al normale passaggio “dj > z (+ vocale)”1 e alla
lenizione di “c- > g-”– ha generato il nostro gonzo = “sciocco, credulone”,
probabilmente per la riservatezza e per la ritrosa umiltà caratteriale.
Né basta, perché l’etnico “mongolo”, che in quella lingua implica l’idea di
“valoroso”, da noi –nella forma lievemente derivata di mongoloide (= con le
sembianze d’un mongolo)– ha assunto il valore di “chi mostra un processo
d’appannamento mentale”, in campo scientifico equivalente alla “sindrome di
Down” perché i tratti somatici (specie per l’insolito taglio obliquo degli occhi)
richiamano quelli delle popolazioni mongoliche;
1
Cfr. “mediu-m” > latino volgare *medju- > mezzo (antico ital. “mezo”); “rudiu-m” > *rudju- >
rozzo; “prandiu-m” > pranzo.
Carlo Iandolo: 09. Dal Positivo al Negativo… 2
Cosí un’altra alterazione di significato si è avuta in rivale (che sottolinea un
antagonismo spesso pericoloso), partito invece dall’innocente valore di “attinente al
fiume (rivus)”, la cui utilizzazione dell’acqua può dare adito a screditi e rancori
insanabili. …
2
Cosí ecco l’innocente fiume trasformato in…catastrofica fiumara, in primavera soggetta a piene
impetuose e disastrose, come cane è divenuto…cagnara (da “canea-m”, lat. volgare *canja-
m) = chiassosa confusione, spesso causata da litigi; come putta = “ragazza” ha acquisito il
valore di meretrice tramite il puttana trasmessoci dal franc. “putaine”.
3
“S + vocale > sc (palatale) + vocale”: “simia-m” > *simja- > scimmia (con raddoppiamento
normale di “-m-“ dopo l’accento in gruppo successivo a “j”); *(ex)succu-m > sciocco (letter.
= senza succo); (ex)sipidu-m > scipido ecc.
Carlo Iandolo: 09. Dal Positivo al Negativo… 5
Se in apparenza l’avverbio lat. “minus = meno” entra nel sottofondo del
sostantivo “ministru-m”, per cui sembrerebbe sminuita l’importanza della figura
e del ruolo di ministro, in realtà la vita moderna ha condotto cotanto
personaggio politico ai vertici luminosi e prestigiosi della vita d’uno Stato…
Che direste poi se, accompagnando i vostri figli in palestra o recandovi voi
stessi in una di esse, i dirigenti imponessero ai partecipanti di fare “nudi” gli esercizi
sportivi? Pura pornografia del tempo antico? Eppure ginnastica è parola greca
(“gymnós” = nudo) che in avvio indicò appunto “attività a corpo del tutto scoperto”;
estensivamente, stando almeno all’etimologia, anche la scuola superiore d’oggi
denominata “ginnasio” dovrebbe tassativamente richiedere tale nudità assoluta ai suoi
giovani iscritti;
C’è poi il lat. “morbu-m ”, che indicò lo stato sofferente ed infelice della
malattia, il cui aggettivo derivato “morbidu-m” dapprima ne continuò la
concettualità negativa in “molle, cedevole, flaccido”, salvo poi a renderla
positiva nella successiva accezione di “soffice, tenero, morbido”;
egualmente il sostantivo diavolo suscita repellente idea di peccato e di
tentazione infida, per cui poniamo le debite distanze: ma poi, inopinatamente,
sulla scia dell’iniziale vocativo semilatinizzato “Domineddio = o Signore Dio”,
fu ricavato un egualmente rispettoso incrocio eufemistico tramite il lat.
“dia(bole do)mine = signór diavolo”, trasformatosi nell’innocente ed energica
esclamazione diamine!, spesso sapida di meraviglia e incredulità.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
C’è un sistema rapido di scrittura che realizziamo tramite abbreviazione con i
segni della stenografia (dal greco = scrittura stretta); come esiste anche un modo
frettoloso di parlare che concretizziamo tramite accorciamenti piú o meno parziali di
frasi e di parole…
Del primo tipo sono limpide riprove locuzioni sintetiche quali “Brindate
Gancia” (=…con Gancia), “Piazza Garibaldi” (=…di Garibaldi, dedicata a
Garibaldi), “Via Cavour” (=…in omaggio a C.); nella seconda specie rientrano sia
le sigle, a metà strada fra scritto e parlato (RAI = Radio Audizioni Italiane; T.V. =
Tele-Visione; FIAT = Fabbrica Italiana Automobili Torino, UTET = Unione
tipografica editoriale torinese, VIP = Very Important Person, INPS = Istituto
Nazionale Previdenza Sociale ecc.), cosí come risultano accorciati anche molti nomi
propri (Baldo, Bastiano, Berto, Betta, Franco, Imma, Gianna, Menico, Nando,
Nunzia, Tonio, Tore, Vanna ecc.); senza accennare ad abbreviazioni professionali e
burocratiche valide solo nello scritto: Avv., Dott. o D.r = Dottór, Ing., Gent.mo,
Ill.mo, Spett.le, btg. = battaglione, cfr. = lat. “confer” = confronta, S.S. = ted.
“Schutz-Staffe” = scaglione di sicurezza, SS. = Santissimo/a, solo singolare in tal
valore superlativo di carattere religioso ecc.; sebbene egualmente nel parlato siano
subentrate e invalse recenti abbreviazioni dello scritto quali “sax = sassofono” e il
vocativo “prof. = professore o professoressa”.
1
Anzi va notata una curiosità forse impensabile: “chilo” è parola greca, che indica il numerale
plurale “mille”, per cui teoricamente dovremmo dire…un *chilogrammi (= mille grammi),
che invece l’uso comune ha inteso e usato come singolare per via dell’uscita “-o”.
Carlo Iandolo: 10. Fretta linguistica 3
Ancóra: c’è una serie di parole che hanno subito l’aplologia, cioè la caduta interna
d’una sillaba eguale o simile a quella vicina, con conseguente abbreviazione ben
evidente: a mo’ d’esempio,
cavalli leggeri > cavalleggeri,
eroi(co)comico,
ido(lo)latria,
minera(lo)logia,
nu(tri)+trice,
sti(pi)pendio…2
Infine c’è una serie d’originari binomi latini che lungo la via del tempo hanno
perduto la prima parte sostantivale, cosicché il secondo elemento collaterale (per lo
piú costituito da un aggettivo) è diventato unico e fondamentale per forma e
significato, quasi tutti con funzione di nomi comuni.
2
Anche l’ital. “controllo”, dal francese “contrôle” del sec. XIX, poggia indirettamente su
un’aplologia: infatti il lemma transalpino deriva da un antico “contre-rôle = contro ruolo o
doppio registro” (dove “-ôle” > ital “-ollo” sulla scia di “consolle, percalle”, dal franc.
“console, percale”). Si riscontrano casi d’aplologie anche in fasi ipotizzate di primordiali
lemmi latini: *ar(ci)cubii = guarnigione di soldati sulla rocca d’una cittadella,
*consue(ti)tudo = consuetudine, *hones(ti)tas = onestà , *inquie(ti)tudo = inquietudine,
*por(ti)torium = diritto sulle mercanzie giunte in porto, *se(mi)modius = mezzo
moggio…; cosí gr. “tragákanta” = spina del caprone > lat. “tragacanta” > ital. “adragànte”
(= secrezione gommosa di alcune leguminose, utile nell’industria conciaria per la
preparazione di appretti), con protesi di “a-” e lenizione di “-t- > -d-”, oltre alla soppressione
aplologica di “-ca-”.
Corse e rincorse dietro alla celerità espressiva d’ogni tipo3: e dire che il nostro
Dio –l’Onnipotente per eccellenza, che avrebbe potuto creare il mondo in un solo
istante– lo realizzò in sei giorni proprio per darci la misura del lavoro, dell’ordine e
del tempo, lontani dalla fretta e dallo stress d’ogni tipo…!
3
Un sintetico vezzo grafico è in voga oggi nelle nostre scuole: quello di scrivere gli avverbi “piú,
meno” e la preposizione “per” coi rispettivi e rapidi simboli aritmetici, accanto alla formula
geometrica “c. v. d.” = come volevasi dimostrare; anche provenienti dal mondo giovanile
compaiono scritte murarie…veloci, come “t. v. b.” = ti voglio bene. Tutto ciò fa rammentare
che pure i Latini, nelle intestazioni delle lettere, usavano iniziali abbreviate di parole: a mo’
d’esempio, ecco S. V. B. E. E. V = si vales, bene est; ego valeo = se stai bene, mi fa
piacere; dal mio canto io sto bene.
Carlo Iandolo: 10. Fretta linguistica 5
Per giunta, anticipando (ma con moderazione) una norma sindacale attuale,
valida ad abbreviare i tempi delle fatiche settimanali e a dare un’opportuna sosta, “il
settimo dí si riposò”, trascurando l’idea del piú durevole e distensivo “week-end”.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
La lingua offre alcune smagliature ed alterazioni di logica anche nel settore
del “genere”, che spesso denunzia confuse instabilità.
Già il greco e il latino testimoniano strane ambiguità di genere inquadrato
nella tipologia neutra, non certo rispondente a quello biologico: ecco i tre
dell’Ellade:
paidíon = “bimbo, giovane schiavo”, meirákion = “fanciullo”, téknon =
figlio – figlia”, accanto ai quattro lemmi del latino: mancipium = “schiavo” (di
guerra), prostibulum = “meretrice e pederasta”, scortillum = “giovane prostituta” e
infine scortum = “meretrice”: Indubbiamente la qualità sessuale non ancóra
maturata pienamente e funzionalmente (per lo meno un tempo era cosí) nel primo
gruppo ellenico, cosí come l’infima considerazione sociale e morale della
quadruplice schiera latina determinarono la relegazione nello spregiativo “terzo
genere” di tali lingue.
di
Carlo Iandolo
L’aplologia (dal greco “aplóos” = semplice) è un fenomeno fono-morfologico
che prevede la caduta d’una o piú lettere fastidiosamente vicine ad altre
eguali o analoghe.
Già il latino primordiale, anteriormente al loro stabile assorbimento
morfologico, offre singoli lemmi con aplologie sillabiche: ecco
*ar(ci)cubii = guarnigione di soldati sulla rocca d’una cittadella;
*cereralis > cerealis,
*consue(ti)tudo = consuetudine:
*hones(ti)tas = onestà;
*inquie(ti)tudo = inquietudine;
*por(ti)torium = diritto sulle mercanzie giunte in porto;
*se(mi)medium = mezzo moggio…
C’è poi un caso antico nell’italiano medievale dovuto ad aplologia per parole
che, terminanti con la forma accusativale latina “-te-m”, hanno dapprima
sostituito l’uscita “-de” e poi perduto quest’ultima sillaba sonorizzata,
divenendo tronche: a mo’ d’esempio, (civitate-m >) civitàde > *civ(i)tà
> città, (libertàte-m >) libertàde > libertà, (voluntàte-m >) volontàde >
volontà…
1
A metà strada fra dissimilazioni totale e aplologie particolari è anche la scomparsa d’uno dei due
suoni consonantici eguali in latino: *calvilla (calvor) > cavilla, *cereralis > cerealis,
*crebresco > crebesco, *glact- (greco “galakt-”) > lac, *praestrigia (“praestringo”) >
praestigia, proptervus (in Plauto) > protervus…
Carlo Iandolo. 12. Giochi di aplologia. 3
Perché tale riduzione in sillaba terminale, con conseguente ossitonia?
Tali lemmi, inizialmente forniti della sillaba “-de”, erano sintatticamente
seguíti dalla preposizione “de (= di)”, cosicché la ripetizione del nesso
sillabico portò alla caduta del gruppuscolo ultimale di parola, mentre il
successivo “de” fu salvaguardato dalla sua piú stabile funzione morfo-
sintattica.
2
Il nesso “rj + vocale” (*scoriattolo) produsse la caduta di “-r-” nel latino volgare: cfr. “aream >
*arjam > aia, “coreum” > *corjum > cuoio, “glaream” > *glarjam > ghiaia...
3
Anche l’italiano “controllo”, dal francese “contrôle” del secolo XIX, indirettamente poggia su
un’aplologia: imfatti il lemma transalpino deriva da un antico “contre rôle = contro ruolo o
doppio registro” (dove il francese “-ôle” in italiano diventa “-ollo”, sulla scia di “console,
percale > consolle, percalle”).
Carlo Iandolo. 12. Giochi di aplologia. 5
Infine da tale fenomeno di riduzione sillabica non sono esenti neppure i
dialetti, come dà riprova anche il napoletano con una serie di lemmi:
ecco
“m(anto)antesinu-m > mantesino (= panno avanti al grembo, grembiule),
hora-m ma(tu)tina-m > matina,
petrosélinu-m > per dissimilazione *petrosí-ni-nu-m > petrusino =
prezzemolo,
l’ibrido latino-greco con evidente tautologia lessicale e semantica
*por(co)koleacca > *porkljacca > purchiacca / pucchiacca = vulva,
vagina,4
(sesa-mo-mel > *sesamellu-m >) susamiello = roccocò a forma di grande S,
fra i cui ingredienti in origine erano caratterizzanti sesamo e miele, come
segnalò il Settembrini.
4
Congetturiamo l’incontro del latino “porcus = genitali di donna (vergine: in Varrone)” + greco
“koleós ( = vagina, guaína, fodero”) + suffisso “-acca”, forse con iniziale funzione
diminutiva.
Carlo Iandolo. 12. Giochi di aplologia. 6
Forse in tal gruppo aplologico è da inserire anche “arrugnato = fornito
d’una ricca fioritura di rughe, raggrinzito > ristretto in sé, rimpiccolito”,
se il lemma ha come base un *ad-rug(a)-ani(a)-atum > *arru(ga)gnato:
infatti, oltre allo sviluppo “nj > gn”, il suffisso “-ania” è forma collettiva
plurale, come testimonia il sottofondo di *mont-ania (poi sg. >
“montagna”) rispetto al classico “mont-ana”, mentre la desinenza del
participio “-atus” ha valore caratterizzante possessivo di “provvisto
di…” e base di funzione ora aggettivale (cfr. coronato, dentato, stellato)
e ora spesso sostantivata (filato, fossato, soldato = assoldato).5
Carlo Iandolo
5
A meno che non possa congetturarsi il diminutivo di “ruga”: ecco *ad-rugul-jarse >
dissimilazione *ad-rugunjarse > *arru(gu)gnarse > arrugnarse = diventare rinsecchito come
una ruga e rimpiccolito.
Carlo Iandolo. 12. Giochi di aplologia. 7
CURIOSITÀ DELLA LINGUA ITALIANA
di
Carlo Iandolo
Accanto alle crisi d’ogni tipo nel tempo e all’alternanza di regole e d’eccezioni
peculiari in tutti i settori della vita giornaliera, non potevano mancare taluni
sovvertimenti anche linguistici, come dimostrano la frequente rinunzia
all’apostrofo e la conseguente grafia unificata.
Fra gli esempi piú significativi, ecco una serie di sostantivi comuni quali il
famoso dolciume natalizio
pandoro (= pan d’oro), l’ortaggio denominato
pomodoro (= pomo d’oro: coi suoi triplici plurali “pomodori, pomidoro, pomidori”),
il cetaceo chiamato
capodoglio (= capo d’olio, per l’abbondante grasso che si ricava dalla testa. Strana la
sillaba finale, che attesta quello che doveva essere il normale sviluppo
popolare del secondo sostantivo: “olium > oglio”, come “filium > figlio”), il
“capolavoro” definito anche
capodopera (= capo d’opera); un ulteriore caso di composto è rappresentato dal
sostantivo
ficodindia (= fico d’India).
Accanto vanno allineati gli aggettivi
dorato (= *d’orato) col sostantivo
doratura, entrambi dal verbo
dorare, e
dannunziano con
dannunzianesimo (cfr. D’Annunzio).
1
Sarebbe stata piú congruente l’inesistente tautologia *lí ivi.
Carlo Iandolo. 13- Apostrofo. 3
E non è da escludere che la denominazione della squadra calcistica genovese
“Sampdoria”, ricavata sulla scia della famiglia “D’Oria (o Doria?)”, non sarebbe
dovuta risultare –almeno all’origine– *Sampd’oria…
C’è poi anche la partecipazione d’alcuni altri toponimi: in Toscana
Valdarno (= Val d’Arno) e
Pontedera (= Ponte sul fiume “Era”: Ponte d’Era), nonché i paesi di
Ponderano (= Ponte d’Erano, fiume della zona in provincia di Vercelli) e di
Montedoro (= Monte d’oro), presso Caltanissetta; sulla loro scia anche
Castellabate (= Castell’Abate, brachilogia rispetto alla dizione locale “Castiello de lo
Abbate”), un’antica baronia del Cilento sorta ad opera di Co(n)stabile
Gentilcore, abate di Cava dei Tirreni.
Un’ultima schiera arricchisce la categoria, propiziata dagli articoli “lo - la”
che, dopo l’iniziale ricorso al normale apostrofo, non solo vi hanno poi
rinunziato, ma per giunta si sono andati a incastonare –per agglutinazione–
come lettera d’avvio della parola, con la frequentissima pretesa dell’assunzione
d’un nuovo articolo:
il lampone (*l’ampon),
il lastrico (*l’óstrakon, influenzato da “lastra”),
la lazzeruola = frutto simile alla mela (spagnolo *l’acerola),
il lazzo (forse da *l’actio = atto, motto buffonesco),
lercio (*l’hirciu-m, aggettivo di “hircus” = caprone), friulano
il lievul (*l’iecur = il fegato)2...
Dappertutto brividi di mutamento e di modernità, spesso all’insegna della
novità eccentrica e alogica anche nei segni diacritici.
Carlo Iandolo
2
Tramite caduta della gutturale “-c-” e intervento conciliatore del suono di transizione “-v-” fra le
due vocali (come nel napoletano “pagare” > pa-v-à, “pappagallo” > pappa-v-allo, “spago” >
spa-v-o ecc.).
Carlo Iandolo. 13- Apostrofo. 4
CURIOSITÀ DELLA LINGUA ITALIANA
di
Carlo Iandolo
Catalogato come lemma napoletano, índica “ladro, truffatore” ed è –in
maniera controversa– spiegato col veneziano “mariolo”, usato nel Cinquecento per i
“banditi dell’isola di Candia”; oppure col franc. “mariole (sec. XII) = immagine di
Maria, bambola” e solo molto piú tardi in senso nagativo; opp. con l’espressione “far
le Marie = fingere di non sapere, dissimulare semplicità e devozione”; opp. col greco
moderno “margiólos = astuto, furbo”.
Non convinti (come conciliare il valore aulico della Madonna o delle tre Marie
evangeliche con un significato profanamente degradato? Come spiegare la “-v-”
dell’antico italiano “marivuolo”?), siamo approdati etimologicamente altrove.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
Una serie di parole è impiegata per indicare il nostro rapporto con i
“soldi”, lemma che deriva dal latino “nummi solidi”(in quanto solide monete
d’oro massiccio dell’età di Costantino).
La parola una volta fu legata all’ambiente militare, come ancóra mostano
“assoldare e soldato”, per indicare la presenza di monete che rendono stabilito
e saldo un impegno di pagamento periodico.
Egualmente è comune “paga” (collegata al latino “pacari = calmare,
pacificare”), per cui essa etimologicamente e concretamente tranquillizza chi
deve riscuotere: ne è riprova la firma di “quietanza”, cioè una dichiarazione
d’essere quieto, soddisfatto di quanto ricevuto.
E lo “stipendio” ? In latino “stips-stipis” indicava le monete spicciole e
“pendium” era derivato dal verbo “pèndere = pesare” (quindi pagare), giacché
le monete di rame o di bronzo erano soggette alla zecca e alla bilancia per
controllarne l’effettiva consistenza quantitativa.
Ben diversa è l’origine etimologica di “salario”, che consisteva nelle
razioni di sale consegnate ai militari, per i quali esse erano indispensabili per
condire i cibi quotidiani.
Carlo Iandolo
2
A quanto ci consta, hanno il plurale soltanto due parole accorciate: “chilo(grammo) ed etto
(grammo)”.
Carlo Iandolo. Lingua Italiana. 15 - Monete 4
CURIOSITÀ DELLA LINGUA ITALIANA
di
Carlo Iandolo
Sono molteplici le denominazioni antiche della nostra peni-
sola: “terra SATURNIA (= cara al dio Saturno), AUSONIA (= terra
dei fiumi), ENOTRIA (= terra del vino), ESPERIA (= terra occidenta-
le rispetto alla Grecia), e soprattutto ITALIA
Infine l’altro corno del problema concerne le origini etimologiche del to-
ponimo, che ebbe anche la denominazione definitivamente vittoriosa di
“VITALÍA – poi ITALIA”.
L’appellativo “Viteliu” è un coronimo osco (una lingua dello stesso gruppo etnico del
latino) e indicherebbe “la terra dei vitelli”, come già ebbe a definirla Paolo Festo, ma che
oggi da alcuni è inteso come “la terra degli Itali”, popolo che avrebbe avuto come totem
sacro il “vitulus-vitello”; per altri l’animale divinizzato (greco “italós”) dà il plurale
*witaloí, interpretato come “figli del toro”; infine una recente tesi novecentesca preferisce
un’origine col sottofondo *Diei-talia, che sarebbe l’equivalente di “paese del giorno, della
luce”.
Va infine segnalato che la parola si presenta con la forma d’una tradizione dotta e
conservativa, poiché l’evoluzione popolare del latino “Italia” (come filia, familia hanno
dato “figlia, famiglia”) sarebbe dovuta risultare *Itaglia o *Idaglia (secondo una consuetu-
dine fonetica del Settentrione): si rammenti la pronunzia “Itagliani” di Mussolini.
Carlo Iandolo
CURIOSITÀ DELLA LINGUA ITALIANA
18. GLI ARTICOLI MASCHILI NELLA POESIA
DANTESCA
di
Carlo Iandolo
Nascita
Chiarita subito e senz’alcuna difficoltà la derivazione degli articoli
femminili dal latino volgare sg. *(il)la-m > “la, l’… + vocale iniziale di
1
parola” e plur. *(il)lae > “le” in grazia dell’aferesi, una certa problematica
invece investe l’origine degli articoli maschili, egualmente legati all’uso
aggettivale-semantico del latino “ille = quello, quel…”.
Una prima teoria fa provenire anch’essi dall’Accusativo singolare *(il)lu-
m > “lo, l’…”, *il(lum) > “il” in virtú dei rispettivi fenomeni d’aferesi e
d’apocope, laddove il plurale si rifà al Nominativo del morfema *(il)li > “li
oppure i” nell’antica poesia dantesca.
Ma di contro c’è una seconda teoria atta a spiegare la nascita delle quattro
forme maschili singolari: l’avvio dal solo *(il)lu-m > “lo” che, quand’era
preceduto da parola terminante con una vocale, diveniva “ l ” (es. *comprare lo
libro > * comprare l libro); in seguito tale consonante laterale semplice
ricevette una vocale –prostetica, cioè non etimologica– d’aggiunta e
d’appoggio, cosicché nacquero dapprima “el” (onde le forme “el – er” d’alcuni
dialetti) e poi “il” accanto al suddetto “lo”.
1
Ma risulta nuova e valida –sulle orme del Meyer-Lübke– la tesi di Paul Aebischer, gran
conoscitore delle carte medievali: di fronte a larghe grafie quali “operes, tabules, pecies (=
pezze)…”, evidenti stadi intermedi fra il classico “operas” e il volgare “operes”, lo Studioso
ha individuato l’origine in “e” del plurale come frutto di una prima palatalizzazione, per cui
(piú che risalire al Nominativo plurale) lai desinenza “-e” di sostantivi e d’aggettivi
potrebbe derivare da un Accusativo plurale “-as > -es > -e” (ma poi, in un secondo tempo, la
sibilante avrebbe ulteriormente palatalizzato anche la vocale precedente, trasformandola in
“-i”: quindi egualmente *illas > *illes > articolo plur. maschile “il- li”).
Carlo Iandolo: 18. Articoli maschili 2
Uso antico
Elenchiamo dunque le quattro forme del maschile e la loro utilizzazione
in Dante, il primo “padre” della lingua italiana, sebbene ancóra lontano da
precisi canoni grammaticali, fissati meglio dal Bembo nel secolo XVI:
1) l’…– Con elisione ed apostrofo, ricorre avanti a vocale iniziale di
parola anche maschile.
Ess.: indi s’ascose: e io inver’ l’antico / poeta (X, 121-2) 2 – può l’omo
usare in colui che in lui si fida (XI, 53) – che l’un con l’altro fa, se ben
s’accoppia (XXIII, 8)…
2) il…– Avanti a parola con inizio consonantico, ove l’articolo perde la
sua funzione sillabica, incorrendo nel fenomeno dell’elisione (o meglio della
sinalefe) in concomitanza con la vocale finale precedente.
Ess.: Io avea già il mio viso nel suo fitto (X, 34) – cosí rotando, ciascuno
il visaggio / drizzava a me sí che ’n contraro il collo” (XVI, 25-6)…
2
Tutti gli esempi offerti sono tratti dall’Inferno dantesco (“Commedia”, a cura di E. Pasquini e A.
Quaglio”, Ed. Garzanti 1987).
Carlo Iandolo: 18. Articoli maschili 3
4) lo…– Ricorre, a) secondo la legge di Gröber, avanti a consonante
all’inizio assoluto d’un verso; b) quando il verso ha bisogno d’un’ulteriore
sillaba per completare il ritmo endecasillabo; c) sempre dopo parola terminante
con consonante: d) avanti al blocco “s + consonante”. 3
Ess.: Lo giorno se n’andava e l’aere bruno (II, 1) – Lo buon maestro
cominciò a dire (IV, 85) – Lo duca mio discese ne la barca (VIII, 25) – lo qual
trasse Fotin da la via dritta (XI, 9)…– non fiere li occhi suoi lo dolce lume? (X,
69) – come natura lo suo corso prende (XI,99)…– volgiti ’ndietro e tien lo viso
chiuso (IX, 55) – cosí tornavan per lo cerchio tetro (VII, 31) – non ci torrà lo
scender questa roccia (VII, 6) – Ond’io a lui: Lo strazio e ’l grande scempio (X,
85) …
3
Residui attuali sono le due espressioni avverbiali “per lo meno, per lo piú”. Tuttavia –in alcuni
casi di “s + consonante”– Dante ricorre all’articolo indeterminativo “un” opp. all’aggettivo
apocopato “buon”, segno che era ancóra prematura una precisa fissazione grammaticale.
Inoltre il Nostro solo con due lemmi ricorre all’iniziale “z-”, preceduta non da articolo ma
da aggettivo troncato: “buon zelo (Purg. XXIX, 23 e Parad. XXII, 9); addirittura “zenit”
viene da Lui reso nella forma ’l cenít (Parad. XXIX, 4).
Carlo Iandolo: 18. Articoli maschili 4
Quanto all’uso del plurale, gli esiti danteschi risultano duplici:
4
L’italiano –a quanto ci risulta– conserva la distinzione formale fra pronomi (o meglio aggettivi
sostantivati) e normali aggettivi anche in due altri casi: “belli, quelli”; aggettivi “begli,
quegli + gn, ps, z, s + consonante” ; “bei, quei + altri tipi consonantici” d’avvio.
5
Forse cosí nacque anche il pronome personale “egli”, derivato eccezionalmente dal caso
Nominativo sg. come “ego > io, tu = tu”: da un iniziale *illi (classico “ille”) + vocale,
laddove poi si rese indipendente, usato anche avanti a consonante (*illi accorre > *illj
accorre > egli accorre; poi > egli disse). Nell’italiano antico diverso fu il tipo di
palatalizzazione di particolari sintagmi analoghi, che partorirono la nasale palatale: alcuni
altri > *alcunj altri > *alcugni altri, buoni amici > *buonj amici > *buogni amici…, sulla
scia del latino classico “araneu-m” > lat. volg. *ranju- > “ragno”, di “balíneu-m” > *bàlnju-
> *balgno > “bagno” …
Carlo Iandolo: 18. Articoli maschili 6
Non può mancare un completamento di curiosità: come mai il trigramma
rimane nelle suddette parole primitive mentre la “g” cade nei derivati (ecc. “sala
consiliare, gruppo familiare, affetto filiale”, e i collaterali francesismi “bille-
billard” divenuti “biglia- bigliardo / biliardo”) ?
La soluzione prevede la conservazione del trigramma quando l’accento
tonico precede il gruppo, laddove la semplificazione avviene quando l’accento
si trova dopo di esso.
Carlo Iandolo
di
Carlo Iandolo
Il vecchio professore, definito “il tiranno, il pignolo, l’insopportabile
brontolone” per le sevizie grammaticali a cui sottopose generazioni di allievi nella
sua lunga carriera, non è più (anzi non è…piú!): capite la differenza? Egli, da
incorreggibile pedante, raccomandava l’uso dell’accento acuto sulla vocale U (“il suo
suono è sempre chiuso, chiuso!”) in caso di necessit…à (“la vocale A ha soltanto il
timbro aperto, per cui vi porrete l’accento grave quando occorre”).
Non parliamo poi di apostrofi (“vanno segnati a fianco, non sopra!”), di
monosillabi speciali (“sono molti e pericolosi”), di segnali di punteggiatura, di verbi
irregolari…, con una lista d’esempi che non finivano mai: un tormentone!
Carlo Iandolo
Alcune parole italiane –inopinatamente– racchiudono in sé l’originario
concetto d’un’età ormai avanzata: l’etimologia di esse ce ne dà ragione.
Accanto a sostantivi generici, che intrinsecamente hanno sapore
d’anzianità (come i lemmi infantili nonno-nonna, letteralmente = “monaco-a,
balio-a”), ecco i piú comuni e ufficiali vecchio (sviluppo popolare del
diminutivo latino “vetulu-m”, ove “tl > cchi+vocale”) e veterano (anch’esso da
“vetus – veteris”), nonché agli aggettivi della stessa famiglia vetusto e
inveterato, ecco anche anziano, che deriva dal latino medievale “antianu-m =
appartenente a un’età precedente”, formato tramite l’avverbio “ante = prima”.
Arte Etrusca
Carlo Iandolo
Carlo Iandolo
Spesso è capitato che una sincope vocalica, cioè la caduta d’una sonante latina
breve ed atona, abbia comportato l’improvvisa adiacenza di due consonanti, i cui
caratteri erano però inconciliabili.
Perciò –vanificatasi la possibilità d’un’assimilazione regressiva, ossia la resa
della prima, propensa a divenire eguale alla consonante successiva (come “octo >
“otto”, septe- > “sette”)– si è verificato súbito un adattamento di tipo fonetico, per
far sí che la stretta vicinanza linguistica dei due suoni divenisse possibile convivenza.
È il caso del latino “còmite-m = compagno di viaggio” che, dopo la perdita
della vocale nella sillaba centrale atona, ha dato luogo a un iniziale *comte e a un
definitivo “conte”, titolo reso nobiliare da Carlo Magno in omaggio a certi suoi fedeli
accompagnatori;
egualmente può dirsi del lat. “semita-m = via secondaria”, che attraverso il
conseguente suffisso “semit-arium” (onde il franc. “sentier”), ha prodotto il
sostantivo derivato “sentiero”;
egualmente può dirsi di “Lombardi” da “Lon(go)bardi”, caso accanto a cui
possiamo affiancare “conciare” derivandolo da un latino volgare *comptiare, ben
supponibile perché la forma diretta del tardo latino “conciare” è un denominale tratto
appunto da “comptiu-m” .
1
Il suffisso intensivo “-it-” fu frequente in latino: cfr. “ cant-it-are, clam-it-are, curs-it-
are, dict-it-are, nosc-it-are” (rispetto alle basi d’avvio “cano, clamo,curro, dico,
nosco”, per giunta spesso passate attraverso le forme frequentative ricavate dal
supino: “cant-are: cano, capt-are: capio, curs-are: curro, salt-are: salio”…).
Quanto all’aggettivo “lindo”, se anche derivasse dallo spagn. “lindo”, non
crediamo affatto all’origine etimologica risalente a “legítimus (= rispondente
alle regole)”, che suscita gravi perplessità fono-morfologiche anche in quella
lingua neolatina.
Carlo Iandolo - 21 - Lingua Italiana - Omorganizzazione 3
Nel gruppuscolo che ha subíto tali adattamenti fono-morfologici addirittura è
rimasto coinvolto anche il toponimo d’una città campana in provincia d’Avellino:
infatti l’antica “Compsa”, dopo la normale assimilazione regressiva *Comssa >
*Comsa e l’alterazione dialettale “ns > nz”, giunse all’attuale forma di “Conza”.2
Lo stesso fenomeno risulta e risalta chiaramente anche in alcuni dialetti: per
es., restando nel napoletano, ecco il latino scritto o classico “implére” (lat. volgare
“ímplere”) che –dopo il passaggio indigeno di “pl > chj”– divenne ènchiere; cosí
“stampella” ha il corrispettivo lemma locale in stanfella (con “mp > nf”) e “zampa”
ha avuto il suo adattamento dialettale in cianfa…
Com’è facile notare, talvolta nella lingua e nei dialetti vi sono inattese
polveriere, in cui sono facili le esplosioni fono-morfologiche, atte a mutare gli aspetti
del tranquillo panorama lessicale.
Carlo Iandolo
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Una specie d’omorganizzazione particolare avvenne nel Medioevo, allorché (in
maniera piú consona all’effettiva pronunzia) binomi come “in piedi, non
posso” risultarono scritti “im piedi, nom posso”. Sul tipo di *Consa > Conza,
poi, ci sono noti due soli lemmi italiani che offrono l’equivalente alternanza “-
ns- / -nz-”: i sostantivi pansé / panzé (adattamento del francese “pensée”) e
pretensioso / pretenzioso.
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Gli stereotipi sono parole convenzionalmente ricorrenti e ormai
standardizzate, cioè fossilizzate in una formula fissa che non sempre coincide con la
logica naturale o con le corrette norme grammaticali.
Va súbito precisato che “giorno” –dal latino “diurnu-m (tempus)”, come del
resto l’apocopato “dí” proviene da “die-m– indica in sé l’arco estensivo delle
ventiquattr’ore (da mezzanotte a quella successiva), laddove i saluti “buongiorno e
buondí” coi benauspicanti aggettivi incorporati hanno un duplice effetto limitativo.
Innazitutto sono formule augurali divenute temporalmente ristrette, valide solo
per l’arco della mattinata, anche se in alcune regioni si protraggono fino alla sera;
inoltre sono divenute ormai fredde ed inerti, stantie e meccaniche, a cui si risponde
con un’eco egualmente abitudinaria e distaccata, anonima e monotona; ma se invece
usaste la variante –del tutto equivalente– “buona giornata” (periodo compreso fra la
mattina e la sera, in relazione al tempo atmosferico o lavorativo, e divenuto di nuovo
temporalmente estensivo al totale arco quotidiano), l’espressione tornerebbe súbito
gradita e ricambiata con vivido e insolito calore.
Un altro stereotipo comune riguarda la risposta –al telefono o al citofono–
riguardante la formula “(sono) pronto”, attendibile se l’utente è un maschio; ma
invece il suo uso si è esteso anche alle donne, per le quali sarebbe stato piú conforme
e confacente –per logica e grammatica– un… “pronta”.
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