Sei sulla pagina 1di 15

Dalla nascita dei manicomi alla legge Basaglia

La parola “manicomio” deriva dal greco “manìa”, ovvero “pazzia”, e “komìon”, cioè
“ospedale”. Questo termine è utilizzato soprattutto per indicare, più che un luogo di cura,
un ambiente in cui venivano internati e segregati i malati di mente.

Nell’antichità la malattia mentale era ricondotta all’intervento di forze soprannaturali e


divine e, per questa ragione, veniva “curata” attraverso riti mistici-religiosi. Nel Medioevo
le persone che manifestavano comportamenti bizzarri erano considerate possedute dal
demonio e venivano condannate al rogo. In tal modo l’anima, una volta liberata dal
possesso demoniaco, poteva risalire in cielo.

Nell’età Classica, il concetto di follia subì un cambiamento: erano considerati “folli”


coloro che rappresentavano una minaccia per la società e che perciò dovevano essere
allontanati. Fu proprio in quel periodo che sorsero moltissime case di internamento, volte
a rinchiudere persone con malattie mentali, poveri, vagabondi, mendicanti, criminali,
nulla facenti. (Tripputi, 2016)

Una delle prime case sorte allo scopo fu l’Hospital General di Parigi, fondato nel 1656.
Qui le persone non venivano rinchiuse per essere curate, ma per finire i propri giorni
lontano dalla società. Una volta entrate in questi luoghi, i pazienti venivano spogliati
della loro dignità e trattati senza rispetto. Vivevano in condizioni disumane ed erano
costretti a subire punizioni corporali. Ben presto, i manicomi si diffusero in tutta Europa e
divennero uno strumento di potere enorme, attraverso il quale si decideva, senza
utilizzare alcun criterio logico, sulla vita delle persone e su chi dovesse essere rinchiuso.
(Tripputi, 2016)

Solo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo l’affermazione di una nuova
concezione della psichiatria portò all’abolizione dell’istituto manicomiale in molti paesi. In
Italia l’esperienza di Franco Basaglia sfociò nell’approvazione della legge n. 180 del
1978 che stabiliva l’abolizione del manicomio. Avvenne, quindi, la creazione di nuove
strutture intermedie dislocate nel territorio, i centri di salute mentale, con funzione di
consulenza, programmazione delle terapie, informazione e assistenza. Tale legge,
inoltre, imponeva di effettuare i ricoveri volontari o obbligatori solo negli ospedali
generali e affermava il principio di “continuità terapeutica”, con équipe incaricate di
seguire il malato prima, durante e dopo eventuali ricoveri. (Blog “Parlare Civile”)

I reparti dei manicomi

Nel ricordare la disposizione dei reparti all’interno dei manicomi, Luigi Attenasio,
psichiatra basagliano, afferma: “Bisogna partire dal luogo in cui nascono i manicomi,
lontano dalla città. I primi manicomi sono i lebbrosari, in quanto, con l’atto di separazione
di Pinel, i matti sono considerati malati e non possono stare insieme ai delinquenti.
Dunque, Pinel sottrae i “pazzi” dalle catene della delinquenza, ma li consegna ad altre
catene, quelle più simboliche della psichiatria che nasce in quel momento”.

Questa tendenza all’isolamento degli spazi dove vengono messi i “matti”, trionferà anche
in Italia dopo legge del 1904, quando alcuni manicomi verranno costruiti sulle isole, ad
esempio a Venezia nei casi di San Servolo e San Clemente.

Per quanto riguarda la strutturazione dell’ambiente interno dei manicomi, i nomi dei
reparti prendevano origine dal comportamento manifestato dai pazienti; nelle prime
aree, più vicine all’ingresso, si trovavano i reparti per “tranquilli, laboriosi e ordinati”. In
questi spazi si svolgeva la famosa “ergoterapia”, un metodo terapeutico delle malattie
mentali consistente nello svolgimento di un’attività lavorativa. Tuttavia, i pazienti
venivano sfruttati ed il lavoro svolto confermava la custodia all’interno dell’istituzione.
(Blog “Parlare Civile”)

C’erano, inoltre, i reparti di “osservazione”: il paziente che arrivava in manicomio era


tenuto sotto osservazione per quindici giorni o un mese; in seguito veniva deciso se
ricoverarlo definitivamente o dimetterlo. Seguiva poi il reparto “agitati e inquieti”, per
coloro che erano in preda ad agitazione psicomotoria.

Se un paziente all’interno del manicomio si ammalava, veniva mandato al reparto di


infermeria; di solito, chi finiva in tale reparto non veniva curato, ma si allettava e si
ammalava sempre di più. In seguito, c’era solo la camera mortuaria.

“I manicomi, come le prigioni, non sono non luoghi, ma controluoghi, quelli che Foucault
chiama eterotopie di deviazione – continua Attenasio –identificabili per il comportamento
di chi dentro vi è collocato, deviante la norma e per il diverso funzionamento rispetto alla
propria cultura, per l’eterocronia, ossia la rottura assoluta con il tempo tradizionale, per il
particolare sistema di apertura e chiusura che li isola e li rende penetrabili. Basaglia
capisce subito che il primo atto di salute mentale è la distruzione dei manicomi, che non
si può fare psichiatria se esiste il manicomio”. (Blog “Parlare Civile”)

Le torture all’interno dei manicomi

Prima della legge 180, vigeva la legge 36 del 1904, per cui venivano internate nei
manicomi le persone «affette per qualunque causa da alienazione mentale». Erano i
deviati, coloro che non rientravano nei canoni, per motivi che non erano sempre legati
alla malattia mentale. In manicomio finiva chi era ai margini della società, ma anche gli
omosessuali e tante donne.

“La gran parte dei reclusi non erano folli, erano persone che volevano esprimere
qualcosa e cadevano nella follia quando questo veniva loro impedito” spiega Anna
Marchitelli, che ha studiato le cartelle cliniche dell’ex ospedale psichiatrico Leonardo
Bianchi di Napoli. “I medici– aggiunge –non toccavano nemmeno i pazienti, li
analizzavano da lontano toccandoli con una penna o con le chiavi”. (Pizzimenti, 2018)

Le persone all’interno dei manicomi perdevano la propria identità; essi non erano più
degli esseri umani, ma dei numeri, costretti a vivere in condizioni pietose e disumane.
All’interno degli istituti manicomiali regnava la scarsa igiene; i malcapitati che venivano
internati iniziavano ad avere comportamenti che non erano propri della loro malattia. Si
può parlare, infatti, di “sindrome dell’allontanamento sociale”: la persona deprivata della
sua capacità di stare con gli altri assumeva degli atteggiamenti che diventavano dei veri
e propri sintomi. Avveniva il deterioramento delle abilità sociali, interpersonali e
comportamentali dovuto all’effetto dell’istituzionalizzazione a lungo termine e non al
disturbo mentale in sé. (Blog “Parlare Civile”)

All’interno dei manicomi, inoltre, erano messe in atto delle pratiche raccapriccianti, come
l’elettroshock, una tecnica terapeutica usata in psichiatria e basata sull’induzione di
convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il
cervello.

La poetessa Alda Merini riporta con tali parole l’atroce ricordo di questa pratica: “In quel
manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock […] La stanzetta degli elettroshock era
una stanzetta quanto mai angusta e terribile […] Ci facevano una premorfina, e poi ci
davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato
durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna
orinava per terra.

Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il
risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare,
di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”. ( De Carolis, 2017)

Un’altra raccapricciante pratica era la lobotomia: un intervento neurochirurgico di


interruzione delle fibre nervose che collegano un lobo cerebrale con gli altri. Moniz e
Freeman, due medici esperti in lobotomia, sostenevano che questa procedura potesse
eliminare i forti stress dei pazienti legati alle emozioni. La paziente Rosemary Kennedy
fu solo una delle tante persone ad essere lobotomizzata e la cui “cura” equivalse più ad
una “zombificazione” che alla liberazione dalla malattia mentale. (Blog “Il post”, 2011)

Dalla nascita dei manicomi alla legge Basaglia

La parola “manicomio” deriva dal greco “manìa”, ovvero “pazzia”, e “komìon”, cioè
“ospedale”. Questo termine è utilizzato soprattutto per indicare, più che un luogo di cura,
un ambiente in cui venivano internati e segregati i malati di mente.
Nell’antichità la malattia mentale era ricondotta all’intervento di forze soprannaturali e
divine e, per questa ragione, veniva “curata” attraverso riti mistici-religiosi. Nel Medioevo
le persone che manifestavano comportamenti bizzarri erano considerate possedute dal
demonio e venivano condannate al rogo. In tal modo l’anima, una volta liberata dal
possesso demoniaco, poteva risalire in cielo.

Nell’età Classica, il concetto di follia subì un cambiamento: erano considerati “folli”


coloro che rappresentavano una minaccia per la società e che perciò dovevano essere
allontanati. Fu proprio in quel periodo che sorsero moltissime case di internamento, volte
a rinchiudere persone con malattie mentali, poveri, vagabondi, mendicanti, criminali,
nulla facenti. (Tripputi, 2016)

Una delle prime case sorte allo scopo fu l’Hospital General di Parigi, fondato nel 1656.
Qui le persone non venivano rinchiuse per essere curate, ma per finire i propri giorni
lontano dalla società. Una volta entrate in questi luoghi, i pazienti venivano spogliati
della loro dignità e trattati senza rispetto. Vivevano in condizioni disumane ed erano
costretti a subire punizioni corporali. Ben presto, i manicomi si diffusero in tutta Europa e
divennero uno strumento di potere enorme, attraverso il quale si decideva, senza
utilizzare alcun criterio logico, sulla vita delle persone e su chi dovesse essere rinchiuso.
(Tripputi, 2016)

Solo a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo l’affermazione di una nuova
concezione della psichiatria portò all’abolizione dell’istituto manicomiale in molti paesi. In
Italia l’esperienza di Franco Basaglia sfociò nell’approvazione della legge n. 180 del
1978 che stabiliva l’abolizione del manicomio. Avvenne, quindi, la creazione di nuove
strutture intermedie dislocate nel territorio, i centri di salute mentale, con funzione di
consulenza, programmazione delle terapie, informazione e assistenza. Tale legge,
inoltre, imponeva di effettuare i ricoveri volontari o obbligatori solo negli ospedali
generali e affermava il principio di “continuità terapeutica”, con équipe incaricate di
seguire il malato prima, durante e dopo eventuali ricoveri. (Blog “Parlare Civile”)

I reparti dei manicomi

Nel ricordare la disposizione dei reparti all’interno dei manicomi, Luigi Attenasio,
psichiatra basagliano, afferma: “Bisogna partire dal luogo in cui nascono i manicomi,
lontano dalla città. I primi manicomi sono i lebbrosari, in quanto, con l’atto di separazione
di Pinel, i matti sono considerati malati e non possono stare insieme ai delinquenti.
Dunque, Pinel sottrae i “pazzi” dalle catene della delinquenza, ma li consegna ad altre
catene, quelle più simboliche della psichiatria che nasce in quel momento”.

Questa tendenza all’isolamento degli spazi dove vengono messi i “matti”, trionferà anche
in Italia dopo legge del 1904, quando alcuni manicomi verranno costruiti sulle isole, ad
esempio a Venezia nei casi di San Servolo e San Clemente.
Per quanto riguarda la strutturazione dell’ambiente interno dei manicomi, i nomi dei
reparti prendevano origine dal comportamento manifestato dai pazienti; nelle prime
aree, più vicine all’ingresso, si trovavano i reparti per “tranquilli, laboriosi e ordinati”. In
questi spazi si svolgeva la famosa “ergoterapia”, un metodo terapeutico delle malattie
mentali consistente nello svolgimento di un’attività lavorativa. Tuttavia, i pazienti
venivano sfruttati ed il lavoro svolto confermava la custodia all’interno dell’istituzione.
(Blog “Parlare Civile”)

C’erano, inoltre, i reparti di “osservazione”: il paziente che arrivava in manicomio era


tenuto sotto osservazione per quindici giorni o un mese; in seguito veniva deciso se
ricoverarlo definitivamente o dimetterlo. Seguiva poi il reparto “agitati e inquieti”, per
coloro che erano in preda ad agitazione psicomotoria.

Se un paziente all’interno del manicomio si ammalava, veniva mandato al reparto di


infermeria; di solito, chi finiva in tale reparto non veniva curato, ma si allettava e si
ammalava sempre di più. In seguito, c’era solo la camera mortuaria.

“I manicomi, come le prigioni, non sono non luoghi, ma controluoghi, quelli che Foucault
chiama eterotopie di deviazione – continua Attenasio –identificabili per il comportamento
di chi dentro vi è collocato, deviante la norma e per il diverso funzionamento rispetto alla
propria cultura, per l’eterocronia, ossia la rottura assoluta con il tempo tradizionale, per il
particolare sistema di apertura e chiusura che li isola e li rende penetrabili. Basaglia
capisce subito che il primo atto di salute mentale è la distruzione dei manicomi, che non
si può fare psichiatria se esiste il manicomio”. (Blog “Parlare Civile”)

Le torture all’interno dei manicomi

Prima della legge 180, vigeva la legge 36 del 1904, per cui venivano internate nei
manicomi le persone «affette per qualunque causa da alienazione mentale». Erano i
deviati, coloro che non rientravano nei canoni, per motivi che non erano sempre legati
alla malattia mentale. In manicomio finiva chi era ai margini della società, ma anche gli
omosessuali e tante donne.

“La gran parte dei reclusi non erano folli, erano persone che volevano esprimere
qualcosa e cadevano nella follia quando questo veniva loro impedito” spiega Anna
Marchitelli, che ha studiato le cartelle cliniche dell’ex ospedale psichiatrico Leonardo
Bianchi di Napoli. “I medici– aggiunge –non toccavano nemmeno i pazienti, li
analizzavano da lontano toccandoli con una penna o con le chiavi”. (Pizzimenti, 2018)

Le persone all’interno dei manicomi perdevano la propria identità; essi non erano più
degli esseri umani, ma dei numeri, costretti a vivere in condizioni pietose e disumane.
All’interno degli istituti manicomiali regnava la scarsa igiene; i malcapitati che venivano
internati iniziavano ad avere comportamenti che non erano propri della loro malattia. Si
può parlare, infatti, di “sindrome dell’allontanamento sociale”: la persona deprivata della
sua capacità di stare con gli altri assumeva degli atteggiamenti che diventavano dei veri
e propri sintomi. Avveniva il deterioramento delle abilità sociali, interpersonali e
comportamentali dovuto all’effetto dell’istituzionalizzazione a lungo termine e non al
disturbo mentale in sé. (Blog “Parlare Civile”)

All’interno dei manicomi, inoltre, erano messe in atto delle pratiche raccapriccianti, come
l’elettroshock, una tecnica terapeutica usata in psichiatria e basata sull’induzione di
convulsioni nel paziente mediante passaggio di una corrente elettrica attraverso il
cervello.

La poetessa Alda Merini riporta con tali parole l’atroce ricordo di questa pratica: “In quel
manicomio esistevano gli orrori degli elettroshock […] La stanzetta degli elettroshock era
una stanzetta quanto mai angusta e terribile […] Ci facevano una premorfina, e poi ci
davano del curaro perché gli arti non prendessero ad agitarsi in modo sproporzionato
durante la scarica elettrica. L’attesa era angosciosa. Molte piangevano. Qualcuna
orinava per terra.

Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne. Il
risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare,
di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”. ( De Carolis, 2017)

Un’altra raccapricciante pratica era la lobotomia: un intervento neurochirurgico di


interruzione delle fibre nervose che collegano un lobo cerebrale con gli altri. Moniz e
Freeman, due medici esperti in lobotomia, sostenevano che questa procedura potesse
eliminare i forti stress dei pazienti legati alle emozioni. La paziente Rosemary Kennedy
fu solo una delle tante persone ad essere lobotomizzata e la cui “cura” equivalse più ad
una “zombificazione” che alla liberazione dalla malattia mentale. (Blog “Il post”, 2011)

Il 17 maggio del 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) cancellava


l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Fu un momento storico, che
portò nel 2004 a scegliere proprio il 17 maggio come data per l’istituzione della
Giornata internazionale contro l’omobitransfobia (International Day Against
Homophobia, Biphobia and Transphobia – IDAHOBIT). Eppure, a distanza di
trent’anni dalla risoluzione dell’OMS, in molti Paesi esistono ancora pratiche quali le
terapie riparative e solo recentemente alcuni governi si stanno adoperando per
bandirle.

L’omosessualità come malattia mentale


La decisione del 1990 costituì il culmine di un processo iniziato circa 20 anni
prima e che ha radici ancora più profonde. Infatti, fin dall’Ottocento, la medicina e
la psichiatria fecero propria la percezione dell’omosessualità tipica della Chiesa
cattolica, evitando di definirla un “peccato” ma classificandola come disturbo
mentale.

In quanto tale, i comportamenti omosessuali erano soggetti a interventi


riparativi, le cosiddette aversion o conversion therapies. Soprattutto negli anni
Cinquanta e Sessanta, queste terapie consistevano nella somministrazione di
droghe che inducevano il vomito oppure nell’utilizzo dell’elettroshock mentre
venivano mostrate al “paziente” (generalmente di genere maschile) immagini di
uomini, per poi mostrargli immagini di donne una volta terminati i trattamenti. In
questo modo, si pensava di poter indurre la persona ad associare alla sofferenza
l’attrazione per persone dello stesso sesso, mentre al sollievo persone del sesso
opposto.

Oltre al proprio carattere profondamente degradante e nocivo, queste pratiche


mettono in evidenza due elementi importanti. Il primo è la pressoché totale
assenza della donna come soggetto di tali interventi “riparativi”. Se a prima vista
potrebbe essere visto come qualcosa di positivo, ciò in realtà mostra come al tempo
la donna non fosse considerata capace di poter “trasgredire” alle norme sociali che
la vedevano relegata alla sfera domestica e non fosse dotata di una propria identità
sessuale indipendente e non eteronormata. A ciò si collega il secondo elemento,
ossia la completa percezione dell’omosessualità come devianza dalla “normale”
mascolinità, da cui non era accettabile che un uomo potesse allontanarsi.

Dal punto di vista legislativo, l’omosessualità era criminalizzata con le


cosiddette sodomy laws, le quali definivano gli atti omosessuali “crimini
contro natura”. Tipiche degli ordinamenti di tradizione anglosassone o di
derivazione post-coloniale britannica, le sodomy laws prevedevano che chi era
accusato di comportamenti omosessuali poteva andare incontro a sanzioni molto
severe, dell’incarcerazione o multe ingenti alla sterilizzazione forzata, oppure doveva
sottoporsi a una terapia riparativa. Per quanto leggi simili possano sembrare
appartenere al passato, è bene ricordare che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha
dichiarato la sodomy law incostituzionale a livello federale solo nel 2003, con la
storica sentenza Lawrence v. Texas.

L’avvento delle sodomy laws nella maggior parte degli Stati Uniti nel corso degli anni
Sessanta creò il terreno per la pubblicazione della seconda edizione del
Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-II) nel 1968, in cui
si riconosceva ufficialmente l’omosessualità tra le malattie mentali.

La decisione del 1990


Parallelamente, la fine degli anni Sessanta segnò un primo cambio di rotta,
anche se il panorama si presentava piuttosto frammentato. Infatti, sia il movimento
LGBT+ sia medici e psichiatri si presentavano spaccati. Da un lato, alcuni gruppi
di attivisti LGBT+ accettavano le teorie che consideravano l’omosessualità una
patologia pur di allontanarla dalla sfera dell’immoralità ed erano disposti a lavorare
con i medici alle terapie che avrebbero dovuto curare l’omosessualità.

Dall’altro, soprattutto dopo i moti di Stonewall del 1969, altri attivisti del movimento
LGBT+ statunitense portarono all’attenzione dell’American Psychiatric Association
(APA) alcuni studi sulla sessualità che dimostravano scientificamente come
l’omosessualità non potesse essere considerata un comportamento deviante.
Questa parte del movimento era anche fermamente convinta che gli studi che invece
la definivano come un disturbo mentale fossero tra i principali fattori che
contribuivano allo stigma sociale legato all’omosessualità. Per questo motivo,
alcuni gruppi di attivisti statunitensi fecero incursione ai meeting annuali dell’APA nel
1970 e 1971.

D’altro canto, gli psichiatri e gli psicologi che iniziarono a studiare teorie
alternative a quella dominante, come fece per esempio Alfred Kinsey ed
Evelyn Hooker, dovevano far fronte alla netta ostilità della maggioranza della
comunità scientifica. Nonostante gli studi di Kinsey e Hooker presentassero solide
basi scientifiche, la stessa APA ha a lungo ignorato i risultati delle indagini che
confutavano la teoria dell’omosessualità quale malattia mentale. Solo all’inizio degli
anni Settanta, quando una giovane generazione di psichiatri si avvicinava alla guida
dell’organizzazione, l’APA iniziò ad assumere una maggiore sensibilità riguardo a
questioni di forte impatto sociale. Pertanto, nel 1971 e nel 1972, l’APA organizzò dei
panel in cui attivisti LGBT+ e studiosi venivano invitati a formare gli psichiatri, in
particolare sullo stigma sociale creato dalla “diagnosi di omosessualità”.

Al meeting annuale del 1973, si tenne un simposio in cui i membri dell’APA si


interrogarono se l’omosessualità dovesse continuare a essere considerata
una patologia o meno. Il dibattito si concluse con la decisione del Board of
Trustees di rimuovere l’omosessualità dal DSM. Alcuni si opposero e si arrivò al
punto per cui i membri furono chiamati a esprimersi sulla decisione del Board, la
quale fu infine approvata con il 58% di voti favorevoli.

Pertanto, la sesta ristampa del DSM-II del 1974 non presentava più il termine
“omosessualità” tra le patologie, ma un generico “sexual orientation
disturbance” (SOD). Con questo termine si andava a indicare un comportamento
omosessuale che causava sofferenza alla persona, la quale intendeva cambiarlo,
andando di conseguenza a legittimare le terapie riparative. Con la pubblicazione del
DSM-III nel 1980, la sexual orientation disturbance diventava “ego-dystonic
homosexuality” (EDH), un’altra formula di compromesso che fu eliminata solo
nel 1987, con la revisione dell’ultimo DSM (DSM-III-R).

I progressi fatti dall’associazione di psichiatria più grande e conosciuta al mondo


ebbero un’influenza sostanziale nel contesto internazionale. Fu proprio sulla scia
della decisione dell’organizzazione statunitense che il 17 maggio del 1990, durante i
lavori della 44ª assemblea, l’OMS cancellò l’omosessualità dall’International
Classification of Diseases (ICD-10). Il fatto che l’OMS, un’organizzazione di
carattere internazionale, assumesse una posizione del genere ha mosso il dibattito
dalla sfera della medicina e della psichiatria a quella della politica, portando
istituzioni e governi ad adottare misure che decriminalizzassero l’omosessualità e
tutelassero i diritti delle persone LGBT+.

Trent’anni dopo
Anche se sono passati trent’anni dalla decisione dell’OMS, il 2020 ha visto una
crescente attenzione sulle terapie riparative. Il fatto che sulla carta
l’omosessualità non sia più considerata una malattia non ha fermato le conversion
therapies. Ancora oggi, esistono terapie che vanno a intervenire non più solo
sull’orientamento sessuale, ma anche sull’identità di genere. Infatti, la concezione
per cui l’orientamento sessuale e l’identità di genere possano essere cambiati
e riportati “alla normalità” è purtroppo ancora diffusa, nonostante non abbia
alcuna base scientifica.

Un recente report delle Nazioni Unite ha evidenziato che i promotori delle terapie
tutt’oggi esistenti appartengono a una vasta gamma di attori, statali e non statali
(come le comunità religiose e l’ambiente familiare). Il report mette anche in luce
come si siano trasformate in attività molto lucrative, molto spesso a danno di
minori o giovani adulti i quali riportano danni psicologici profondi.

Presentando i risultati del report, Victor Madrigal-Borloz, l’Esperto Indipendente


sull’Orientamento Sessuale e l’Identità di Genere dell’ONU, ha chiamato le Nazioni
Unite a una messa a bando internazionale delle terapie riparative.
Blu scuro: divieto per le terapie ripartive basate sull’orientamento sessuale o
l’identità di genere; giallo: divieto per le terapie ripartive in fase di
approvazione o pendente; azzurro: divieto stabilito caso per caso; grigio:
nessun divieto (Fonte: Wikipedia)
Alcuni Paesi hanno preso provvedimenti. La Germania, per esempio, a maggio
scorso ha approvato una legge che vietava il ricorso a terapie riparative sui minori.
Nonostante sia stato considerato un primo passo avanti, in molti hanno contestato
che non sia stato sufficiente e che le terapie riparative dovrebbero essere bandite in
qualsiasi circostanza. Altri Paesi, come la Svizzera, gli Stati Uniti, il Canada e
l’Australia, hanno invece adottato delle misure che rendevano illegali tali pratiche.

A trent’anni dal momento in cui la comunità internazionale ha riconosciuto come


l’omosessualità non fosse una malattia, la strada da fare verso la piena
consapevolezza che l’orientamento sessuale e l’identità di genere non sono
sfere dell’identità sessuale su cui si possa intervenire è ancora tanta e piena di
ostacoli, primo fra tutti la disinformazione. In questo, lo Stato può fare molto,
agendo dal punto di vista non solo legislativo ma anche sociale, adottando politiche
che promuovano una corretta informazione.

Bonus psicologo: come


funziona, richiederlo e
ottenere i 600 euro
​ Home

​ Documenti Digitali

Un aiuto per sostenere le spese necessarie a fruire


delle sedute da psicologi e psicoterapeuti privati: è il
bonus psicologo, approvato tra 16 e 17 febbraio 2022
dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della
Camera, che consiste in contributi fino a 600 euro, per
i cittadini con Isee inferiore ai 50.000 euro
18 Feb 2022

Nicoletta Pisanu

Redazione AgendaDigitale.eu
bonus psicologo

L’Italia ha bisogno anche di un bonus psicologo, l’ha deciso il


Governo. La pandemia di coronavirus ha avuto infatti anche impatti
sulla salute mentale delle persone, portando stress, ansia,
depressione.

È con il nuovo decreto Milleproroghe arriva il bonus psicologo, con


cui si possono avere fino a seicento euro per sostenere i costi delle
sedute dagli specialisti. Una misura quindi pensata per supportare i
cittadini con le spese dovute all’assistenza psicologica e d’altra
parte anche a potenziare le strutture sanitarie che erogano i servizi
di psicoterapia.

Indice degli argomenti

Approvato il bonus psicologo

L’emendamento che lo contempla, inizialmente era stato presentato


in occasione delle valutazioni sulla Legge di bilancio, ma non era
stato accolto. Invece, è stato approvato tra 16 e 17 febbraio 2022
dalle commissioni Affari costituzionali e Bilancio della Camera. Il
successo della misura è stato spinto anche da una raccolta firme
online, che ha portato a oltre quattrocentomila sottoscrizioni.

WHITEPAPER

IoT Platform: trasforma le promesse del 4.0 in


realtà
IoT

Industria 4.0

Leggi l'informativa sulla privacy

E-mail

● Consente l'invio di comunicazioni promozionali inerenti i prodotti e servizi di


soggetti terzi rispetto alle Contitolari che appartengono al ramo manifatturiero, di
servizi (in particolare ICT) e di commercio, con modalità di contatto automatizzate e
tradizionali da parte dei terzi medesimi, a cui vengono comunicati i dati.

I dettagli operativi sono ancora da chiarire (seguirà, trenta giorni dal


via libera al Milleproroghe, un decreto apposta per spiegare ogni
particolare), ma intanto è noto che lo stanziamento totale di risorse
ammonta a 20 milioni di euro: vediamo a quali attività sono destinati
e a chi spetta l’incentivo.

Cos’è il bonus psicologo

Il bonus psicologo che punta alla valorizzazione dell’assistenza per


il benessere psicologico degli individui e della collettività, come
spiega l’emendamento.

Gli obiettivi

La misura si pone questo obiettivo da raggiungere attraverso il


supporto ai servizi di psicoterapia e di sostegno psicologico in
assenza di diagnosi di patologie mentali, ma ha anche lo scopo di
aiutare i cittadini a far fronte a condizioni di depressione, stress,
ansia e in generale di disagio psicologico.
Come funziona il bonus psicologo: fino a 600 euro
ottenibili

Il bonus psicologo consiste in un contributo economico per pagare


le sedute presso specialisti – psicologi o psicoterapeuti – privati
iscritti all’albo professionale. La cifra massima a disposizione per
persona è di seicento euro, da definire gli scaglioni in base alle fasce
Isee.

Lo stanziamento totale di fondi ammonta a 20 milioni di euro, di cui:

● 10 milioni di euro per il potenziamento delle strutture sanitarie


● 10 milioni di euro per i contributi individuali alle persone

Per arrivare alla cifra, si è partiti dal dato medio del costo di una
seduta da uno specialista, circa cinquanta euro, per cui il limite
massimo di seicento euro potrebbe coprire i costi di dodici sedute.

Requisiti

Il requisito fondamentale per poter accedere alla misura è avere Isee


inferiore ai cinquantamila euro. La stima è che possano essere
coinvolti nell’iniziativa circa sedicimila persone. Non vi sono limiti
relativi all’età.

Come fare domanda e richiedere il bonus


psicologo

Il Ministero della Salute provvederà a pubblicare, a trenta giorni


dall’approvazione del decreto Milleproroghe, un decreto con tutte le
indicazioni pratiche per presentare la domanda per il bonus
psicologo. In quella fase saranno chiariti anche dettagli come tutti i
requisiti, oltre alle cifre spettanti in base al reddito.

Potrebbero piacerti anche