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Matricola: 632764
Nel linguaggio corrente, il termine lobotomia viene spesso utilizzato
(impropriamente) per indicare un trauma che avrebbe come conseguenza
l’instupidimento e l’apatia di chi lo subisce. Vi sono delle buone ragioni, tuttavia, per
aver adottato questa parola e i suoi derivati come metafore di questi stati. Infatti,
l’asportazione o la lesione dei lobi frontali, che va a costituire la suddetta pratica
neurochirurgica, può avere ricadute critiche su quelle capacità cognitive (capacità
decisionali, linguistiche, di valutazione e soluzione dei problemi) intimamente legate
alle popolazioni cellulari di quella parte dell’encefalo. Inoltre, la cinematografia ha
ritratto i lobotomizzati come quei pazienti degli ospedali di un tempo remotamente
indefinito o di una narrazione crudele (come se la realtà dei fatti fosse più
caritatevole) che vengono lasciati a loro stessi, come zombie. In realtà, la
lobotomia fu una pratica in uso per tutto il XX secolo, diminuendo
gradualmente e sparendo solo molto, molto recentemente.
Vignette apparse nel 1947 sulla rivista Life. Illustrano i presunti benefici della lobotomia frontale
servendosi delle intuizioni della teoria freudiana: «nella depressione agitata (illustrazione in alto), il super-
io diventa dispotico e irragionevole, causando lo squilibrio di tutta la mente… Il bisturi del chirurgo,
recidendo le connessioni tra le aree prefrontali (la sede del super-io) e il resto del cervello, libera la mente
vessata dal suo tirannico dominatore (illustrazione in basso)».
Le Origini
Tutto ebbe inizio al Secondo Congresso Internazionale di
Neurologia, tenutosi nel 1935 a Londra, quando i medici e
ricercatori John Fulton e Carlyle Jacobsen presentarono al
pubblico due scimpanzé, Becky e Lucy. I due medici
raccontarono ai loro colleghi come i due animali, in particolare
Becky, esibissero segni di «frustrazione comportamentale»
(con questo termine si potrebbero intendere circa la metà dei
comportamenti dei primati non umani in gabbia, è giusto
notarlo) ogni qual volta i due scienziati non le ricompensavano,
come conseguenza di un compito sperimentale sbagliato.
Tuttavia in seguito alla rimozione chirurgica dei lobi
frontali, continuarono Fulton e Jacobsen, gli animali
sembravano essere entrati in una sorta di «culto della felicità»,
caratterizzandosi per obbedienza, docilità e assenza di forti
reazioni agli stimoli esterni. Uno tra i medici presenti si alzò,
con un certo entusiasmo, e chiese a Fulton cosa pensasse di
un’applicazione sui malati mentali. Fulton rispose che, sebbene
possibile in pratica, un simile intervento sarebbe stato «troppo
formidabile» su un soggetto umano. Ma ormai, il germe
dell’idea era stata gettato.
Il medico entusiasta dalla scoperta di Fulton e Jacobsen esposta al
Congresso del 1935 era António Caetano de Abreu Freire Egas
Moniz (1874 – 1955), neurologo, e primo portoghese a ricevere il Premio
Nobel per la Fisiologia e la Medicina, nel 1949. Il 1949 fu un anno
importante, per i riconoscimenti ufficiali alle neuroscienze: lo stesso
Nobel fu consegnato anche a Walter Rudolf Hess (1881 – 1973), autore
della mappatura cerebrale delle zone responsabili del controllo degli
organi interni. Ma Egas Moniz, sebbene nel suo curriculum potesse
annoverare l’invenzione dell’angiografia cerebrale, il Nobel del 1949
non lo vinse per i progressi ottenuti nel campo dell’imaging. Al contrario,
lo vinse per essere stato il pioniere di quella che sembrava essere una
promettente area di ricerca e intervento clinico: la psicochirurgia
(termine in disuso a causa delle perplessità epistemologiche).
António Caetano de Abreu Freire Egas Moniz
La neurochirurgia attuale, sebbene conscia delle ricadute del suo
intervento sul comportamento e la cognizione, riconosce il suo campo
d’azione nel sistema nervoso. Eppure, fino a pochi decenni fa (intorno agli
anni ’80 del XX secolo) in Occidente non era impossibile trovare qualcuno
disposto ad ammettere la possibilità di intervenire attraverso la
chirurgia direttamente sulla “mente”. In accordo con la filosofia
della medicina dell’epoca, era assolutamente concepibile operare (strictu
sensu) il cervello per curare il comportamento. E infatti, come recita
l’attribuzione del Nobel, Egas Moniz fu premiato per “la scoperta del
valore terapeutico della leucotomia in alcune psicosi“.
Cos’è la leucotomia? L’etimologia già suggerisce molto,
poiché il termine deriva da leuco, “bianco”
etomos, “tagliare”. Ecco come la introduce il suo inventore
nell’articolo Leucotomia prefrontale nel trattamento dei
disordini mentali (1937): «L’idea era di operare sui
cervelli dei pazienti, non direttamente sui gruppi di
cellule della corteccia o di altre regioni, ma piuttosto
interrompendo le fibre connettive tra le cellule dell’area Leucotomo proveniente dall’Ospedale di Warlingham Park,
prefrontale e le altre regioni, cioè sezionando la materia conservato al Manchester Medical School Museum.
bianca subcorticale»
In pratica, recisione della materia bianca, i fasci di assoni che permettono la comunicazione tra neuroni. Egas Moniz ammette
che l’intervento può essere considerato audace, e che l’ipotesi di fondo possa essere messa in discussione: ma è convinto che tutto questo può
tranquillamente essere portato in secondo piano, davanti agli immensi benefici dell’operazione: d’altra parte, si può affermare – sostiene Moniz
nello stesso articolo – che «queste operazioni non pregiudicano la vita fisica o psichica del paziente [...] Alcuni sintomi sono stati osservati in
seguito all’intervento nell’area prefrontale, sia dal punto di vista neurologico che mentale [...]. Comunque, questi disturbi sono transitori e
nessuno di questi sintomi è persistito oltre pochi giorni o settimane.Due o tre dei pazienti della prima serie sono rimasti in qualche modo
apatici, ma anche in questi casi vi sono alcuni dubbi che sia effetto dell’operazione, perché la personalità del paziente non era ben nota prima
dell’operazione» (ivi) Inoltre, comunica Egas Moniz, anche la tecnica è migliorata: se prima si utilizzava un’iniezione di alcol nella zona
obiettivo, adesso si procede alla distruzione meccanica della materia bianca attraverso un efficiente e precso leucotomo, vale a dire lo
strumento in foto.
L’intervento veniva praticato attraverso una trapanazione
preventiva del cranio, da cui accedere per distruggere le
fibre connettive obiettivo. Egas Moniz et alii fornirono
differenti istruzioni visive per procedere all’operazione, come
l’immagine riportata qui al lato.
Le pratiche di Egas Moniz comunque vanno contestualizzate nel loro momento storico. Prima dell’ingresso
degli antipsicotici e delle psicoterapie, i disturbi mentali venivano trattati nelle maniere più impressionanti
possibili: elettroshock, convulsioni indotte da cardiazolo,sonno obbligato, prolungato di giorni o
settimane tramite la somministrazione di barbiturati, si iniettava persino la malaria nei pazienti affetti
da demenza paralitica. In un simile scenario, la leucotomia non sembrava neanche così pericolosa (al
contrario, aveva un che di asettico, preciso, letteralmente “chirurgico”).
Infatti negli Stati Uniti tra il XVIII e il XIX si radicò quello
che venne definito sarcasticamente il filone della
“medicina eroica“ che applicava le terapie citate nella
pagina precedente come rimedi miracolosi. Il
patriota Benjamin Rush (1746 – 1813) che vedete
ritratto qui a destra, fu sempre un forte sostenitore di
questo approccio alla scienza terapeutica. Alla base di
questo paradigma vi era la fiducia nel fatto che una
terapia shock, funzionalmente aggressiva, potesse
annichilire il male e curare il paziente. Le pratiche più
diffuse e note, a livello di medicina generale, erano
il dissanguamento terapeutico attraverso
l’applicazione di sanguisughe o incisioni, la
somministrazione di calomelano,arsenico, sali di
mercurio. Come esempi, dovrebbero bastare per farsi
un’idea dei danni provocati dagli stessi medici, ben oltre la Benjamin Rush, pensieroso padre della patria,
della “terapia morale” per i malati di mente e
stessa malattia dei pazienti. della “medicina eroica”.
Sempre negli U.S.A. a distanza dochi anni il dottor Walter Jackson Freeman (1895 – 1972),
raccolse l’eredità scientifica di Egas Moniz.
transorbitale.
Uno dei casi più famosi (sempre a posteriori) di Freeman fu quello di Howard
Dully, nella foto qui sopra. Dully aveva solo 12 anni quando Freeman, Freeman all’opera, con tanto di pubblico.
nonostante il parere contrario di altri psichiatri, gli diagnosticò una
schizofrenia giovanile, acconsentendo a operare su di lui (su insistenza della
matrigna) un’inutile lobotomia transorbitale (di cui vedete, al termine di questo
paragrafo, gli effetti immediati). Fortunatamente, probabilmente solo per il
fatto di aver subito una tale lesione in una così giovane età, Dully riuscì a
riprendersi lentamente dall’intervento, ritornando a poter avere una normale
vita in società grazie alla neuroplasticità, le strategie di compensazione e il
riciclaggio neuronale.