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Nicola Quaranta

Matricola: 632764
Nel linguaggio corrente, il termine lobotomia viene spesso utilizzato
(impropriamente) per indicare un trauma che avrebbe come conseguenza
l’instupidimento e l’apatia di chi lo subisce. Vi sono delle buone ragioni, tuttavia, per
aver adottato questa parola e i suoi derivati come metafore di questi stati. Infatti,
l’asportazione o la lesione dei lobi frontali, che va a costituire la suddetta pratica
neurochirurgica, può avere ricadute critiche su quelle capacità cognitive (capacità
decisionali, linguistiche, di valutazione e soluzione dei problemi) intimamente legate
alle popolazioni cellulari di quella parte dell’encefalo. Inoltre, la cinematografia ha
ritratto i lobotomizzati come quei pazienti degli ospedali di un tempo remotamente
indefinito o di una narrazione crudele (come se la realtà dei fatti fosse più
caritatevole) che vengono lasciati a loro stessi, come zombie. In realtà, la
lobotomia fu una pratica in uso per tutto il XX secolo, diminuendo
gradualmente e sparendo solo molto, molto recentemente.

Vignette apparse nel 1947 sulla rivista Life. Illustrano i presunti benefici della lobotomia frontale
servendosi delle intuizioni della teoria freudiana: «nella depressione agitata (illustrazione in alto), il super-
io diventa dispotico e irragionevole, causando lo squilibrio di tutta la mente… Il bisturi del chirurgo,
recidendo le connessioni tra le aree prefrontali (la sede del super-io) e il resto del cervello, libera la mente
vessata dal suo tirannico dominatore (illustrazione in basso)».
Le Origini
Tutto ebbe inizio al Secondo Congresso Internazionale di
Neurologia, tenutosi nel 1935 a Londra, quando i medici e
ricercatori John Fulton e Carlyle Jacobsen presentarono al
pubblico due scimpanzé, Becky e Lucy. I due medici
raccontarono ai loro colleghi come i due animali, in particolare
Becky, esibissero segni di «frustrazione comportamentale»
(con questo termine si potrebbero intendere circa la metà dei
comportamenti dei primati non umani in gabbia, è giusto
notarlo) ogni qual volta i due scienziati non le ricompensavano,
come conseguenza di un compito sperimentale sbagliato.
Tuttavia in seguito alla rimozione chirurgica dei lobi
frontali, continuarono Fulton e Jacobsen, gli animali
sembravano essere entrati in una sorta di «culto della felicità»,
caratterizzandosi per obbedienza, docilità e assenza di forti
reazioni agli stimoli esterni. Uno tra i medici presenti si alzò,
con un certo entusiasmo, e chiese a Fulton cosa pensasse di
un’applicazione sui malati mentali. Fulton rispose che, sebbene
possibile in pratica, un simile intervento sarebbe stato «troppo
formidabile» su un soggetto umano. Ma ormai, il germe
dell’idea era stata gettato.
Il medico entusiasta dalla scoperta di Fulton e Jacobsen esposta al
Congresso del 1935 era António Caetano de Abreu Freire Egas
Moniz (1874 – 1955), neurologo, e primo portoghese a ricevere il Premio
Nobel per la Fisiologia e la Medicina, nel 1949. Il 1949 fu un anno
importante, per i riconoscimenti ufficiali alle neuroscienze: lo stesso
Nobel fu consegnato anche a Walter Rudolf Hess (1881 – 1973), autore
della mappatura cerebrale delle zone responsabili del controllo degli
organi interni. Ma Egas Moniz, sebbene nel suo curriculum potesse
annoverare l’invenzione dell’angiografia cerebrale, il Nobel del 1949
non lo vinse per i progressi ottenuti nel campo dell’imaging. Al contrario,
lo vinse per essere stato il pioniere di quella che sembrava essere una
promettente area di ricerca e intervento clinico: la psicochirurgia
(termine in disuso a causa delle perplessità epistemologiche).
António Caetano de Abreu Freire Egas Moniz
La neurochirurgia attuale, sebbene conscia delle ricadute del suo
intervento sul comportamento e la cognizione, riconosce il suo campo
d’azione nel sistema nervoso. Eppure, fino a pochi decenni fa (intorno agli
anni ’80 del XX secolo) in Occidente non era impossibile trovare qualcuno
disposto ad ammettere la possibilità di intervenire attraverso la
chirurgia direttamente sulla “mente”. In accordo con la filosofia
della medicina dell’epoca, era assolutamente concepibile operare (strictu
sensu) il cervello per curare il comportamento. E infatti, come recita
l’attribuzione del Nobel, Egas Moniz fu premiato per “la scoperta del
valore terapeutico della leucotomia in alcune psicosi“.
Cos’è la leucotomia? L’etimologia già suggerisce molto,
poiché il termine deriva da leuco, “bianco”
etomos, “tagliare”. Ecco come la introduce il suo inventore
nell’articolo Leucotomia prefrontale nel trattamento dei
disordini mentali (1937): «L’idea era di operare sui
cervelli dei pazienti, non direttamente sui gruppi di
cellule della corteccia o di altre regioni, ma piuttosto
interrompendo le fibre connettive tra le cellule dell’area Leucotomo proveniente dall’Ospedale di Warlingham Park,
prefrontale e le altre regioni, cioè sezionando la materia conservato al Manchester Medical School Museum.

bianca subcorticale»

In pratica, recisione della materia bianca, i fasci di assoni che permettono la comunicazione tra neuroni. Egas Moniz ammette
che l’intervento può essere considerato audace, e che l’ipotesi di fondo possa essere messa in discussione: ma è convinto che tutto questo può
tranquillamente essere portato in secondo piano, davanti agli immensi benefici dell’operazione: d’altra parte, si può affermare – sostiene Moniz
nello stesso articolo – che «queste operazioni non pregiudicano la vita fisica o psichica del paziente [...] Alcuni sintomi sono stati osservati in
seguito all’intervento nell’area prefrontale, sia dal punto di vista neurologico che mentale [...]. Comunque, questi disturbi sono transitori e
nessuno di questi sintomi è persistito oltre pochi giorni o settimane.Due o tre dei pazienti della prima serie sono rimasti in qualche modo
apatici, ma anche in questi casi vi sono alcuni dubbi che sia effetto dell’operazione, perché la personalità del paziente non era ben nota prima
dell’operazione» (ivi) Inoltre, comunica Egas Moniz, anche la tecnica è migliorata: se prima si utilizzava un’iniezione di alcol nella zona
obiettivo, adesso si procede alla distruzione meccanica della materia bianca attraverso un efficiente e precso leucotomo, vale a dire lo
strumento in foto.
L’intervento veniva praticato attraverso una trapanazione
preventiva del cranio, da cui accedere per distruggere le
fibre connettive obiettivo. Egas Moniz et alii fornirono
differenti istruzioni visive per procedere all’operazione, come
l’immagine riportata qui al lato.

Sopra: il chirurgo incide la materia bianca nel quadrante


sinistro superiore con il leucotomo.
Sotto: le incisioni causate dal leucotomo (1) vengono rese
più profonde con uno strumento dalla lama più larga,
l’incisore radiale (2).Immagini provenienti dall’Institute of
Psychiatry Library, King’s College, Londra.

Le pratiche di Egas Moniz comunque vanno contestualizzate nel loro momento storico. Prima dell’ingresso
degli antipsicotici e delle psicoterapie, i disturbi mentali venivano trattati nelle maniere più impressionanti
possibili: elettroshock, convulsioni indotte da cardiazolo,sonno obbligato, prolungato di giorni o
settimane tramite la somministrazione di barbiturati, si iniettava persino la malaria nei pazienti affetti
da demenza paralitica. In un simile scenario, la leucotomia non sembrava neanche così pericolosa (al
contrario, aveva un che di asettico, preciso, letteralmente “chirurgico”).
Infatti negli Stati Uniti tra il XVIII e il XIX si radicò quello
che venne definito sarcasticamente il filone della
“medicina eroica“ che applicava le terapie citate nella
pagina precedente come rimedi miracolosi. Il
patriota Benjamin Rush (1746 – 1813) che vedete
ritratto qui a destra, fu sempre un forte sostenitore di
questo approccio alla scienza terapeutica. Alla base di
questo paradigma vi era la fiducia nel fatto che una
terapia shock, funzionalmente aggressiva, potesse
annichilire il male e curare il paziente. Le pratiche più
diffuse e note, a livello di medicina generale, erano
il dissanguamento terapeutico attraverso
l’applicazione di sanguisughe o incisioni, la
somministrazione di calomelano,arsenico, sali di
mercurio. Come esempi, dovrebbero bastare per farsi
un’idea dei danni provocati dagli stessi medici, ben oltre la Benjamin Rush, pensieroso padre della patria,
della “terapia morale” per i malati di mente e
stessa malattia dei pazienti. della “medicina eroica”.
Sempre negli U.S.A. a distanza dochi anni il dottor Walter Jackson Freeman (1895 – 1972),
raccolse l’eredità scientifica di Egas Moniz.

Freeman fu il primo a modificare la procedura ideata da Moniz,


ribattezzandola lobotomia. Nel 1936, Freeman operò, assistito dal suo
collega James Watts (1904 – 1994) il primo intervento del genere negli
Stati Uniti d’America. Nel 1942, la coppia pubblicò il resoconto delle più di
200 operazioni eseguite fino ad allora nel volume Psychosurgery.
Intelligence, Emotion and Social Behavior Following Prefrontal Lobotomy
for Mental Disorders. Tuttavia, lo spirito da ricercatore e psicochirurgo di
Freeman non poteva accontentarsi di portare in auge una tecnica senza
sottoporla a ulteriori modificazioni. E in questo venne aiutato dalla lettura
di uno scritto di un semisconosciuto psichiatra italiano, Amarro
Fiamberti. Già, perché le tecniche di psicochirurgia avevano spopolato
Walter Jackson Freeman, il padre della lobotomia americana.
nell’ambiente della psichiatria italiana (lo stesso Moniz fu invitato nel
Belpaese a insegnare e dimostrare pubblicamente la sua tecnica:
confronta Psychosurgery in Italy di Kotowicz, 2008), e già nel 1937,
Fiamberti aveva ideato e pubblicato un’importante modifica della procedura
originaria, espressa nell’articolo Proposta di Tecnica Operatoria Modificata
e Semplificata per gli interventi alla Moniz sui Lobi Prefrontali in Malati
di Mente, apparso nella Rassegna di Studi Psichiatrici di quell’anno.
In che consistevano le modifiche e le semplificazioni introdotte da
Fiamberti? Semplice. Considerando bene, sosteneva lo psichiatra italiano,
non vi era alcun bisogno di incidere il cranio, per arrivare alla zona da
recidere. Semplicemente sfruttando l’anatomia dell’encefalo, era
possibile passare per le orbite oculari con lo
strumento, intervenendo direttamente e rapidamente attraverso
quel canale naturale verso i lobi frontali. Freeman riprese e ampliò
l’originale modifica di Fiamberti. Ed ecco a voi la nascita della lobotomia Lobotomia transorbitale. È tutta questione di angolazione.

transorbitale.

Va da sé che, modificando l’intervento, dovevano essere modificati anche


gli strumenti per eseguirlo. A tale scopo, Freeman inventa nel 1948
l’orbitoclasto. Significativamente, la base per la creazione di questo
strumento furono alcuni esperimenti domestici compiuti dallo stesso
Freeman (su grappoli d’uva) attraverso un punteruolo da ghiaccio. Per
questo motivo, nella cultura popolare americana, la lobotomia è anche nota
Orbitoclasti del Central States Hospital,
come ice pick therapy. Milledgeville. Foto diJohn Kloepper.
Negli anni ’40, la lobotomia transorbitale si diffuse con tanta
energia che si passò dai 500 ai 5 000 interventi eseguiti
ogni anno nei soli Stati Uniti. Apparentemente, la psichiatria
aveva trovato uno strumento ideale per gestire, con precisione ed
efficienza, i suoi incubi peggiori, e Freeman era l’esperto
mondiale di questo intervento.

Uno dei casi più famosi (sempre a posteriori) di Freeman fu quello di Howard
Dully, nella foto qui sopra. Dully aveva solo 12 anni quando Freeman, Freeman all’opera, con tanto di pubblico.
nonostante il parere contrario di altri psichiatri, gli diagnosticò una
schizofrenia giovanile, acconsentendo a operare su di lui (su insistenza della
matrigna) un’inutile lobotomia transorbitale (di cui vedete, al termine di questo
paragrafo, gli effetti immediati). Fortunatamente, probabilmente solo per il
fatto di aver subito una tale lesione in una così giovane età, Dully riuscì a
riprendersi lentamente dall’intervento, ritornando a poter avere una normale
vita in società grazie alla neuroplasticità, le strategie di compensazione e il
riciclaggio neuronale.

Howard Dully post-intervento.

L’intervento su Howard Dully. Quando aveva 12 anni.


La lobotomia in America divenne così popolare da essere pubblicizzata apertamente
come comodo rimedio ai più diffusi casi di disagio mentale. Ad esempio, nel numero
105 dell’American Psychiatric Journal il supporto alla pratica della lobotomia viene
propagandato attraverso l’accostamento artificioso di due foto della stessa
donna, una paziente affetta, recita la didascalia, da schizofrenia catatonica. In una foto
possiede ancora un encefalo integro, ed è sottoposta a elettroshock; nella successiva, è
lobotomizzata. Chiaramente, l’unica differenza visibile è una sciatteria evidente nella
prima immagine, e un rassicurante sorriso da madre media americana nella seconda. In
altre parole, suggestioni context-dependant per insinuare subdolamente l’efficacia della
lobotomia, in accordo con le aspirazioni alla tranquillità e alla normalità
della borghesia americana.

Sebbene la lobotomia come pratica psichiatrica coinvolse pazienti di entrambi i sessi,


non vi è dubbio che il solito bias della disciplina nei confronti delle donne fu
significativa. Basterebbe forse citare il caso di Rosemary Kennedy (1918 – 2005),
sorella di John Fitzgerald, lobotimizzata in risposta a un comportamento che oggi In alto: istruzioni per l’esecuzione di una lobotomia
verrebbe etichettato al più come “disturbo bipolare”. Alla fine, comunque, la paziente più transorbitale.
famosa sarà Helen Mortensen (la vedete sotto i ferri in una delle foto sopra), che in Nelle foto sotto, a sinistra la didascalia recita “Caso 1,
seguito alla richiesta di una terza lobotomia, praticata dallo stesso Freeman, morì in Giugno 1945. Schizofrenica catatonica mantenuta per
seguito all’intervento, eseguito nel 1967. Questo segnò la fine della carriera di Freeman, o due anni sotto periodica terapia elettroconvulsiva”.
almeno fu il motivo ufficiale del suo ritiro dalla professione di medico. Dopo decine di A destra, invece, “Caso 1, Novembre del 1948, 8 giorni
migliaia di vittime in tutto il mondo, la lobotomia cessò gradualmente di essere praticata: dopo una lobotomia transorbitale. Ha continuato a
ma fu solo con l’avvento dei “bisturi chimici” della psichiatria, cioè gli antipsicotici (e in stare bene per 6 mesi”.
particolare, la torazina) a partire dagli anni ’50 del XX secolo, che questo fu possibile. Tratto da Oltman et al. “Frontal Lobotomy Clinical

Experience with 107 Cases in a State Hospital”.

American Psychiatric Journal (1949), 105, 10:742-751.

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